Storia del pensiero filosofico e scientifico

LUDOVICO GEYMONAT
Storia
del pensiero
ftlosoftco
e scientifico
VOLUME SESTO
Dall'Ottocento al Novecento
Con specifici contributi di
Ugo Giacomini, Pina Madami, Corrado Mangione,
Franca Meotti, Felice Mondella, Mario Quaranta,
Renato Tisato, Elena Zamorani
GARZANTI
www.scribd.com/Baruhk
1 edizione: ottobre 1971
Nuova edizione: ottobre 1975
Ristampa 1981
© Garzanti Editore s.p.a., 1971, 1975,
1981
Ogni esemplare di quest'opera
che non rechi il contrassegno della
Società Italiana degli Autori ed Editori
deve ritenersi contraffatto
Printed in ltaly
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SEZIONE
OTTAVA
L'affermarsi c il diffondersi delle scienze:
i loro riflessi sulla filosofia
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CAPITOLO PRIMO
Nota introduttiva
Il periodo cui è dedicato il presente volume coincide in gran parte con quello
preso in esame nel volume v, spingendosi appena di qualche anno più avanti.
Come già osservammo nel primo capitolo di tale volume, i grandi eventi sociali
e politici dell'epoca in esame sono così noti, che sarebbe superfluo fermarci a
darne un quadro riassuntivo. Essi, comunque, sono stati tenuti presenti nella
stesura di questo come del precedente volume.
Occorrerà invece chiarire fin dall'inizio la differenza fra i temi di fondo trattati in quella e in questa sede.
Un tratto comune ai due volumi risiede nel fatto, che la scienza occupa in
entrambi una posizione preminente. Ma le scienze prese in esame nei tre prossimi
capitoli (n, m, Iv), non sono più quelle tradizionali - matematica, fisica, biologia- bensì scienze «nuove», cioè discipline, quali la psicologia, la sociologia,
la pedagogia, considerate per l'innanzi di pertinenza quasi esclusiva dei filosofi;
discipline cui si cerca ora di imprimere una impostazione prettamente scientifica.
Il fatto è rilevante, perché da un lato conferma la sempre più diffusa fiducia
(di cui già abbiamo tatto parola nel su citato capitolo del volume v) nel metodo
scientifico considerato come l'unica via per conseguire delle conoscenze fornite
di una effettiva validità; dall'altro lato perché sottolinea l'esigenza di elevare a
un livello di autentica serietà anche delle discipline che non concernono la natura,
bensì l'uomo come individuo o come collettività. Riferita ad esse, l'espressione
« metodo scientifico » è tuttavia, nella maggioranza dei casi, poco più che una
parola, in quanto- per lo meno all'epoca in esame- ben poche sono le analogie
fra i metodi concretamente seguiti nelle nuove scienze e i metodi seguiti in quelle
tradizionali. Se è ben comprensibile il desiderio di trattare i fenomeni psichici e
sociali con strumenti radicalmente diversi da quelli solitamente adoperati dai filosofi, è fuori dubbio che per raggiungere questo scopo sarebbe stato necessario uno
spirito critico di cui i primi cultori delle nuove discipline erano sprovvisti. È uno
spirito senza dubbio presente in Marx «scienziato dell'economia», come cercammo di dimostrare nella sezione precedente; ma che ben di rado troviamo negli
studiosi positivisti di psicologia, sociologia o pedagogia.
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Nota introduttiva
Furono proprio le ingenuità commesse da tali studiosi nella presunzione di
poter applicare dovunque il medesimo« metodo scientifico», ciò che produsse in
vaste schiere di filosofi una profonda diffidenza nei confronti non solo delle scienze dell'uomo ma della scienza in generale. Ampie tracce di questa diffidenza, come
pure della più ingenua fiducia nella scienza, sono in effetti riscontrabili nell'ambiente filosofico dei maggiori paesi europei: Inghilterra, Germania e Francia.
Di qui le significative oscillazioni (fra un positivismo spesso acritico e un antipositivismo che non di rado sfocia in autentico irrazionalismo) alla cui analisi
sono dedicati i capitoli quinto, sesto e settimo: capitoli seguiti da altri due,
più particolareggiati, rivolti ad esporre i dibattiti filosofici e pedagogici in
Italia.
Ma se le anzidette oscillazioni ci autorizzano a parlare di« crisi» dell'immagine della scienza nella seconda metà del secolo XIX e nei primi decenni del xx,
non sarebbe esatto ritenere che questa crisi abbia investito direttamente la scienza stessa. V ero è invece che questa, per lo meno nei suoi settori classici (matematica, fisica, chimica, biologia), realizzò nel periodo in esame notevolissimi progressi. Di ciò daremo notizia negli ultimi capitoli del volume, dal decimo (dedicato alla biologia) in poi. Va notato che fra questo e il dodicesimo (dedicato alla
logica e ai fondamenti della matematica) ne consacreremo uno allo studio della
geniale figura di Freud e ai primi sviluppi della psicoanalisi.
Un'attenzione particolare verrà rivolta alle trasformazioni di fondo realizzate dalla fisica, rese possibili proprio dalla maturazione dello spirito critico all'interno di questa scienza, ad opera dei grandi fisici (in particolare 'di Mach) dei
quali abbiamo fatto parola nel volume precedente. Per sottolineare l'importanza
non solo scientifica della teoria della .relatività (la teoria ove è più manifesta la
dipendenza da Mach) verrà dedicato un intero capitolo, assai ampio, alla figura di
Einstein, seguito da un altro, più breve, avente per oggetto le discussioni filosofiche svolte nella prima metà del nostro secolo su tale teoria.
Da queste discussioni emerge, con tutta chiarezza, la grande influenza esercitata, proprio sulla filosofia, dalla rivoluzione einsteiniana. Non si tratta più di
una influenza analoga a quella verificatasi durante il periodo positivistico (influenza, questa, che si prestò .a parecchie critiche,. non infondate, per aver favorito tra i filosofi una tend~nza a superficiali generalizzazioni dei ritrovati scienti-.
fici), ma di qualcosa di assai più profondo. È una influenza che valse a richiamare
la necessità di porre in discussione fondamentali nozioni, come quelle di spazio
e di tempo, che erano parse da sempre assolute e immodificabili. Così ebbe inizio
una nuova fase dello sviluppo aella razionalità: sviluppo gravido di conseguenze
in tutti i campi deL sapere.
·
_
È ferma convinzione dello scrivente che questo sviluppo della razionalità, al
di là degli schemi consolidati dalla tradizione, rappresenti una delle più vive esigenze del secolo xx. Ma è uno sviluppo che non dev~. soltanto siimolarci a rin8
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Nota introduttiva
novare il vecchio quadro categoriale delle scienze esatte (matematica, fisica ecc.);
esso deve costituire la base anche per un rinnovamento radicale delle scienze
qell'uomo e della stessa concezione filosofica del mondo nonché della funzione
jvi spettante ali' opera umana.
È un'esigenza presente in tutte le forme della nostra civiltà: esigenza legata alla consapevolezza via via più diffusa che non si possono affrontare seriamente i problemi enormemente complessi della nostra epoca senza impostarli
con approfondite analisi razionali, ma di una razionalità più aperta e più critiça di quella trasmessaci dalle generazioni precedenti.
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CAPITOLO SECONDO
La nascita della psicologia scientifica
DI FRANCA MEOTTI
I · CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
In questo capitolo, dedicato alla nascita e ai primi sviluppi della psicologia
scientifica, si vuol mettere in luce come l'esigenza di scientificità e di rigore, che
trionfa nell'Ottocento e che è comune alla matematica ed alle più progredite
scienze della natura, tenti di affermarsi, tanto nelle premesse metodologiche che
nelle situazioni sperimentali, anche in psicologia.
Agli inizi del XIX secolo sembrava esaurita la possibilità di una psicologia filosofica a carattere razionalistico, di impostazione cartesiana e wolffiana, come
conseguenza delle critiche che a questo modo di intendere la psicologia aveva
mosso l'empirismo inglese, a partire da Hobbes e proseguendo poi con Locke,
con Berkeley, con Hume. Ciò che l'empirismo inglese aveva in particolare dissolto
era il concetto di io sostanziale, metafisica, affermando che la coscienza dell'io è
semplicemente fenomenica.
Kant, d'altro lato, raccogliendo e proseguendo le critiche degli empiristi
inglesi per quel che riguarda la possibilità di una psicologia filosofica o razionale,
di carattere aprioristico-deduttivo, aveva negato anche la possibilità di una psicologia empirica; egli risolveva quest'ultima in una antropologia descrittiva, esclusa
dall'ambito delle vere scienze, in quanto di carattere elencatorio e classificatorio.
Nei Metaphysische Anfangsgriinde der Naturwissenschaft (Primi principi metafisici della
scienza della natura, I786), Kant sostenne che «deve rimanere sempre lontana dal
grado di una scienza della natura, propriamente degna di questo nome, la dottrina
empirica dell'anima(... ) poiché la matematica non è applicabile ai fenomeni del
senso interno e alle loro leggi». Inoltre l'unico strumento di ricerca in tale disciplina è l'introspezione che, per sua natura, rimane confinata all'ambito dell'individuo e quindi non rende mai la psicologia « qualcosa di più che una descrizione
naturale storica del senso interno (... ) una descrizione naturale dell'anima, ma
non una scienza dell'anima».
Anche Comte, d'altra parte, escluse dal rango delle scienze la psicologia, che
egli risolse in fisiologia o in sociologia, cioè in discipline che soddisfacevano secondo lui a certi canoni di scientificità, non soddisfatti invece dalla psicologia.
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La nascita della psicologia scientifica
Egli imputò alla psicologia l'incongruenza del dividere l'individuo in due parti:
una parte immersa nel flusso dei processi psichici e l'altra che dovrebbe osservare
tali processi. Invece, l'identità di osservatore e di osservato preclude la possibilità
di una valida esperienza scientifica e, inoltre, l'assenza di controlli adeguati impedisce la formulazione di leggi. Questo ha come conseguenza l'impossibilità di
formulare previsioni attendibili, che è tra i fini principali della scienza in quanto
consente all'uomo gli strumenti più idonei al dominio di un certo campo di
fenomeni.
La reazione a tale atteggiamento critico e sostanzialmente negatore della
possibilità di una psicologia come scienza rigorosa non tardò a manifestarsi nelle
opere di Herbart, prima, e, successivamente, di Weber e di Fechner, che sono
caratterizzate dal tentativo prolungato, e anche faticoso, di introdurre in psicologia l'applicazione di procedimenti matematici particolari. Il proposito manifesto era quello di dimostrare che anche la psicologia poteva essere avviata a darsi
quella veste di rigore cui tutte le scienze a partire dall'inizio del xrx secolo
ambivano.
Il carattere sperimenta_le della psicologia si venne sempre più affermando
ad opera oltre che di Weber e di Fechner anche di Miiller e di Helmholtz (per
questi autori si veda il capitolo xvu del volume quarto). Wundt, infine, ebbe il
merito di raccogliere il metodo psicofisico a base matematica e di applicarlo a diverse situazioni sperimentali, dando così origine a quella che fu detta psicologia
scientifica.
Alla nascita della psicologia scientifica contribuirono inoltre gli sviluppi e gli
avanzamenti che si verificarono in varie discipline nella prima metà dell'Ottocento. Particolare influsso esercitò il fiorire degli studi di fisiologia: basti ricordare la
scoperta di Bell e di Magendie, che affermarono la fondamentale dicotomia delle
funzioni sensorie e motorie del sistema nervoso; la definizione di arco riflesso data
da Marshall Hall, che escludeva, nella trasformazione di un eccitamento centripeto (sensorio) in uno centrifugo (motorio), l'azione della volontà dell'uomo; la
dottrina dell'energia specifica dei nervi di Miiller, che parve confermare la frattura, asserita dall'empirismo, tra soggetto percipiente e oggetto percepito; la scoperta della velocità dell'impulso nervoso dovuta a Helmholtz, che prospettava
l'eventualità di poter misurare i processi psichici e, inoltre, l'importanza accordata, sempre da Helmholtz, allo studio degli organi di senso.
Particolare influsso esercitarono, inoltre, la neurofisiologia ed anche la frenologia, che ebbe il merito di ipotizzare il concetto di molteplicità delle funzioni
delle diverse parti del cervello (la quale parve confermata dalla scoperta di
Broca, nonostante la reazione « unificatrice » di Flourens cui si è fatto cenno
nell'anzidetto capitolo del volume quarto).
Perfino dall'astronomia provenne alla psicologia scientifica un suggerimento
fecondo connesso allo studio dell'equazione personale, dello scarto, cioè, tra le
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La nascita della psicologia scientifica
misure ottenute da due osservatori, o tra due misure successive ottenute dal medesimo osservatore. Dallo studio dell'equazione personale si erano sviluppati dei
metodi matematici di analisi dei tempi di reazione, di cui la psicologia sperimentale
si appropriò in modo assai fruttuoso.
In generale si può affermare che l'esigenza di scientificità venne avvertita in
modo più vivo in ambiente tedesco: la psicologia scientifica è essenzialmente opera
degli studiosi tedeschi. Perciò la nostra esposizione inizierà proprio dalla Germania. Qui nacquero i primi laboratori sperimentali, dove si formarono generazioni
di studiosi non solo tedeschi, ma anche stranieri, in particoiare americani. In
Germania, inoltre, trascorsero periodi di studio anche vari scienziati russi (tra i
quali emergono le personalità di Sechenov e di Pavlov). In tal modo si affermò
e si diffuse a livello internazionale una concezione della psicologia che risale essenzialmente a Wundt (alla valutazione dell'opera e del pensiero del quale è dedicato il paragrafo n). D'altra parte, ancora in ambito tedesco, è da ricordare
l'opera di studiosi di indirizzo indipendente da quello wundtiano: tra questi
Ebbinghaus, G.E. Miiller, Stumpf ed Ehrenfels (paragrafo m), la cui caratteristica comune può dirsi la tendenza a rendere oggetto di studio sperimentale i
processi psichici superiori, in certo senso trascurati da Wundt e dalla sua scuola.
Diversa è l'impostazione, dovuta essenzialmente a Galton, degli studi psicologici in Inghilterra (paragrafo Iv): l'orientamento prevalente fu quello dell'analisi delle differenze interindividuali, che diverge, nei metodi e negli intenti, dalla
psicologia wundtiana, volta alla determinazione di leggi generali, valevoli per
tutti gli individui indistintamente. Di qui il problema della misurazione delle capacità che rivelano tali differenze (tests) e l'introduzione in psicologia di metodi
statistici.
Del tutto caratteristici gli sviluppi della psicologia in Francia: strettamente
legata alla psichiatria e, in parte sotto l'influsso di Taine, la psicologia francese si orientò in una certa misura verso la psicopatologia, la quale fu vista anche
come strumento per approfondire la struttura dei processi intellettivi normali
(paragrafo v).
Negli Stati Uniti, invece, la psicologia, specialmente sotto l'influsso del
pensiero di James e più tardi di Dewey, ebbe un orientamento essenzialmente
pragmatico-funzionale e diede particolare rilievo ai campi applicativi della psicologia dell'educazione e del lavoro: in questo contesto fu ripresa e portata agli
estremi sviluppi la tecnica dei tests. È innegabile che, da questo punto di vista,
almeno in una prima fase, gli interessi psicologici dominanti negli Stati Uniti
furono più di natura pratica che teorica (paragrafo vi). Una forte ripresa di interessi verso i problemi teorici della psicologia si ebbe con la diffusione negli Stati
Uniti della psicologia della Gesta/t, che suscitò polemiche assai vivaci anche per
la sua aspirazione a porsi come visione di carattere generale e filosofico. La teoria
della Gesta/t era nata tuttavia in Germania, ove fu intesa come reazione radicale
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La
nascita~della
psicologia scientifica
alla psicologia elementistica ed associazionistica wundtiana e come tentativo di
introdurre una concezione olistica dei fenomeni psicologici (paragrafo vn).
Un'importanza rilevante ebbero gli studi di psicologia animale per le loro
implicazioni concettuali e metodo logiche: tali studi posero in termini moderni
l'antico problema dell'esistenza di uno psichismo animale e l'ulteriore problema
della adeguatezza dell'applicazione alla psicologia animale di categorie sorte all'interno degli studi di psicologia umana (paragrafo vm).
Altri problemi di natura concettuale e metodologica furono posti dalla nascita
della psicologia oggettiva, elaborata in Russia dagli studi di Pavlov e negli Stati
Uniti dal behaviorismo di Watson (paragrafo Ix). Essi posero con vigore il problema di una base intersoggettiva, identificandola nei riflessi condizionati (Pavlov)
e nei comportamenti osse:rvabili (Watson). Comune ad entrambi fu l'esigenza di
dare alla psicologia un fondamento scientifico rigorosamente determinabile.
Pavlov e Watson diedero i maggiori contributi alla nascita della psicologia scientifica come viene intesa attualmente e posero, insieme agli psicologi della Gesta/t,
una serie di problemi aperti ancora oggi, di cui si parlerà nel capitolo dedicato
nel volume ottavo alla psicologia più recente.
II · WILHELM WUNDT
Wilhelm Wundt (I832-I92o), che viene tradizionalmente indicato come il
primo psicologo sperimentale, seguì gli studi di medicina e di fisiologia. Pur
rimanendo per tredici anni assistente di Helmholtz a Heidelberg, non collaborò
mai strettamente con lui e anzi, proprio in questo periodo, maturò diversi interessi filosofici e psicologici. Nel I 8 58 pubblicò la prima sezione, dedicata al tatto,
dei Beitriige zur Theorie der Sinneswahrnehmung (Contributi alla teoria della percezione
sensoriale), che, da un lato, risente profondamente dell'opera di Weber, di Miiller
e di Lotze e, dall'altro, presenta già la percezione sotto un aspetto più propriamente psicologico. I Beitriige completi furono pubblicati nel 1862. Nel I863
pubblicò un suo corso di lezioni universitarie dell'anno precedente con il titolo
di Vorlesungen iiber die Menschen- und Tierseele (Lezioni sull'anima dell'uomo e degli animali), che contengono in nuce una enorme quantità di argomenti che Wundt svilupperà nel corso della sua lunga e laboriosissima carriera. Il corso universitario
continuò con lo stesso nome fino al 1867, quando cominciò a chiamarsi corso di
«psicologia fisiologica». Nel I 873-74, ultimo anno della sua permanenza a
Heidelberg, Wundt pubblicava i fondamentali Grundziige der physiologischen Psychologie (Fondamenti di psicologia fisiologica), la sua opera più importante. Nel I875 fu
chiamato a Lipsia a reggere, nella facoltà di filosofia, la cattedra di psicologia,
anche se tradizionalmente questo insegnamento era riservato a un filosofo. Nel
I 879 fondò il famoso laboratorio di psicologia dove si formarono un grandissimo
numero di psicologi europei ed americani: Kraepelin, Kiilpe, Lehmann, Metimann,
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La nascita della psicologia scientifica
Stanley Hall, Cattell, Angeli, Titchener, Kiesow, Mobius, Klemm fra i più famosi.
Organo del laboratorio fu la rivista « Philosophische Studien » («Studi filosofici »)
che cessò nel 1903 ma riprese pochi anni più tardi col nome di «Psychologische Studien » (« Studi psicologici»). Nel I 896 compariva il « Grundriss der Psychologie »
(«Compendio di Psicologia») e negli anni seguenti Wundt continuava a lavorare instancabilmente a nuove edizioni delle sue opere, seguiva gli esperimenti di
laboratorio, la rivista e inoltre completava la stesura dell'opera monumentale in
dieci volumi, Viilkerpsychologie (Psicologia dei popoli), che finì l'anno della morte.
Fin dai Beitriige Wundt sostiene la possibilità di una psicologia sperimentale,
che trae la sua origine dall'auto-osservazione (Selbstbeobachtung) e procede secondo
due filoni: l'esperimento, per i fenomeni psichici più semplici, e l'osservazione, la
«storia naturale» dell'uomo per l'esame dei «prodotti» dell'attività psichica.
Appaiono già qui delineati i due canali principali della ricerca psicologica di
Wundt: psicologia sperimentale, da un lato, psicologia sociale, dall'altro. In
quegli anni egli era influenzato dalla Psychologie als Wissenschaft (Psicologia come
scienza) di Herbart, ma, diversamente da Herbart che riteneva che la psicologia
dovesse fondarsi sull'esperienza, la metafisica e la matematica, la sua psicologia,
per essere scienza, doveva fondarsi sull'esperimento. Benché per anni Wundt
combattesse la tradizione herbartiana, tuttavia proprio da Herbart mutuò, come
del resto fece Fechner, la concezione di una psicologia scientifica. Infatti sebbene
secondo Wundt, la psicologia debba far ricorso all'esperimento, essa deve anche
essere Erfahrungswissenschaft, scienza dell'esperienza, intendendo l'esperienza in
senso globale, senza cioè la classica distinzione in esterna ed interna, ma !imitandola, nello stesso tempo, all'esperienza immediata. Qui, secondo Wundt, si pone
la distinzione fra psicologia come scienza e le scienze fisiche, i cui dati non sono
immediati, ma inferiti. Le scienze fisiche si fondano, quindi, sull'esperienza mediata. Tuttavia è importante notare come Wundt affermasse la possibilità di sperimentare anche in psicologia, come in fisica. Le modalità degli esperimenti sono
diverse, ma entrambe hanno un carattere scientifico. La sperimentazione in psicologia è originale anche rispetto a quella della fisiologia, tuttavia proprio la fisiologia è di prezioso ausilio alla psicologia in quanto permette di stabilire e di variare
le condizioni dell'esperienza controllata, cioè dell'esperimento. Correlativo all'oggetto della psicologia, che è l'esperienza immediata, è il metodo: cioè l'immediato esperire, di cui ci rendiamo conto per mezzo dell'auto-osservazione. La
psicologia, scrive Wundt, «investiga l'intero contenuto dell'esperienza nella
sua relazione col soggetto e nelle qualità che sono immediatamente attribuite ad
esso dal soggetto ». Wundt considerava compito della psicologia stabilire, attraverso l'analisi dell'esperienza, gli «elementi» dei procedimenti di cui siamo consapevoli (sensazioni, percezioni, memoria) e successivamente i «modi» e le
« leggi » delle loro « connessioni ». Egli traeva spunto in questo dalla tradizione
associazionista inglese. Tuttavia tra la psicologia wundtiana e l'associazionismo
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La nascita della psicologia scientifica
classico vi erano importanti differenze: in primo luogo, gli elementi per Wundt
non sono statici, benché possano venire isolati, ma fanno parte di un incessante
fluire. In secondo luogo, gli elementi, e poi anche le leggi, non sono in Wundt
ricavati da considerazioni filosofiche astratte, ma provengono dalla sperimentazione in laboratorio e sono in essa controllabili.
Il metodo diretto, l'auto-osservazione, però, non è adeguato per i processi
superiori, intellettivi e volitivi. Qui si è costretti a procedere indirettamente, e ad
affrontare il problema fondandosi sullo studio comparato dei « prodotti » dci
processi. superiori: il linguaggio, il mito, il costume e poi la religione, l'arte, il
diritto: è quanto farà Wundt nella Volkersprycho!ogie.
Dal momento che la psicologia è scienza dell'esperienza immediata, e che in
questa esperienza non si presenta nessuna « sostanza », è assurdo pensare a una
« sostanza anima ». I fenomeni che si presentano alla introspezione non sono che
« atti concatenati »: i dati psichici sono interpreta bili solo « attualisticamente ».
Nessuna « sostanza spirituale » sottointende l'attività psichica, che è «attuale »,
fenomenica, cioè immediatamente data e immediatamente osservabile. L'« elemento >> che Wundt voleva isolare, quindi, non era concepito come statico, né
come una sezione staccata e a sé stante della coscienza, ma piuttosto come un
flusso continuo, mutevole e soprattutto « attivo »: Wundt lo chiamò « processo
mentale ». Il concetto, però, era alquanto ambiguo e si prestò a molti fraintendimenti: di fatto, tuttavia, l'elementismo esasperato, contro cui si appuntò sia la
reazione della Gestalttheorie che quelhi. del behaviorismo, fu, più che di Wundt,
dei suoi successori, i quali sembrarono spesso sottintendere ai processi mentali
una sostanza spirituale e trattarono i processi medesimi come frammenti staccati
e statici di coscienza.
Se, dunque, l'attività psichica è « attuale » e non sostanziale, se è un processo
attivo, essa seguirà una linea di sviluppo. Scoprire le leggi che regolano questo
sviluppo è, secondo Wundt, un altro passo che la psicologia deve compiere. La
legge basilare è quella della causalità psichica, che comprende tutte le leggi che
regolano i rapporti reciproci dei dati della coscienza, quali si presentano in modo
unicamente fenomenico. Wundt ritiene di poter parlare con rigore di causalità
psichica poiché ha cura di stabilire esattamente il significato che tale concetto ha
per lui: I) dal momento che non esiste una « sostanza psichica », non bisogna
pensare che la causalità psichica regoli degli «oggetti» sostanziali, fissi, e divisibili gli uni dagli altri, come invece avviene in campo fisico; 2.) dal momento
che non vi è una energia psichica, o comunque alcun comun denominatore cui
tutta l'attività psichica possa essere ricondotta, non si deve intendere la causalità
nel senso di un trasferimento di energia, per cui la causa si impoverisce trasferendo la propria energia sull'effetto. La causalità psichica è unicamente una
«legge di successione», che regola lo svolgersi, l'espandersi, l'incessante fluire
dell'attività psichica. La« causa» non è che il« prima», l'« effetto» non è che il
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La nascita della psicologia scientifica
« poi », e questo « prima » e questo « poi » sono essi stessi continui cambiamenti,
«avvenimenti» e non «oggetti». Tutte le altre leggi rientrano in questa legge
più generale della causalità psichica; e si possono dividere in leggi psicologiche di
relazione e leggi psicologiche di sviluppo. Fra le prime, la legge delle « risultanti
psichiche » o della « sintesi creatrice », che non si discosta molto dal pensiero di
John Stuart Mill: il risultato di una combinazione di elementi ha proprietà e
caratteristiche diverse e originali rispetto agli elementi che la compongono. Uno
dei principali modi di combinazione fra elementi è l'« associazione» che Wundt
studiò a lungo e che distinse secondo varie forme (fusione, assimilazione, complicazione). L'associazione è automatica, non richiede l'intervento attivo della coscienza. Quando, invece, questo si verifica si ha l'« appercezione» che, nei
Grundziige è vista come «l'ingresso di una rappresentazione nel <punto> visivo
interno della coscienza» che costituisce il punto focale dell'attenzione. Anche
l'appercezione è un continuo flusso e, secondo Wundt, può essere sperimentalmente misurata elaborando le misure dei tempi di reazione. L'appercezione attiva
deve essere fenomenologicamente rintracciabile nell'esperienza immediata: l'accompagnarsi ad essa di un sentimento di attività sarebbe la sua manifestazione
fenomenica. La connessione fra appercezione e sentimenti venne particolarmente
sottolineata dopo che Wundt sviluppò la teoria della « tridimensionalità dei sentimenti », secondo la quale i sentimenti variano secondo tre assi distinti: piaceredispiacere, tensione-rilassamento, eccitamento-calma. (Con questa teoria, che fu
forse una implicita ammissione dell'inadeguatezza del sensismo e dell'associazionismo, Wundt fu costretto a modificare la sua teoria precedente nella quale il sentimento era un contenuto dell'esperienza, sullo stesso piano delle sensazioni e delle
immagini. Il sentimento, nella sua nuova definizione di «segnale» dell'appercezione, è la manifestazione di un'attività unificatrice della vita mentale dell'uomo.
Wundt cercò poi di trovare sperimentalmente dei correlati fisiologici ai termini
del sistema tridimensionale e la sperimentazione fu lunghissima sia nei laboratori
tedeschi che in quelli americani, ma si concluse con un abbandono della teoria da
parte dei successori di Wundt). L'appercezione, a differenza dell'associazione,
agisce inoltre nelle connessioni logiche, può essere analitica o sintetica e, attraverso di essa, il pensiero può giungere fino al concetto. Tuttavia Wundt non
chiarì mai del tutto l'aspetto logico-cognitivo dell'appercezione, né, tanto meno,
la studiò mai sperimentalmente, ritenendo lo studio dei processi superiori compito
della speculazione pura. Furono i suoi successori che si rivolsero a questi processi come a un tipo di « operazioni » particolari sì, ma non fondamentalmente
diverse dalle altre attività della mente umana, e in quanto tali ne intrapresero lo
studio.
Un'altra importante legge stabilita da Wundt nell'ambito delle leggi di relazione è quella delle « relazioni psichiche », secondo la quale, coerentemente alla
teoria associazionistica del significato, un contenuto psichico acquista il suo si-
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La nascita della psicologia scientifica
gnificato dagli altri contenuti coi quali è in relazione: È interessante notare che
Wundt applicò questa legge per dare una sua interpretazione della legge di
Weber-Fechner. La formula, secondo Wundt, non esprimerebbe né una relazione
psicofisica come voleva Fechner né, come altri avevano proposto, una relazione
puramente fisiologica fra processi nervosi periferici e centrali, bensì una relazione
puramente psicologica. Wundt rimase sempre profondamente convinto del dualismo esistente fra mente e corpo: accettava il parallelismo psicofisico e quindi rifiutava la teoria della interazione, in quanto riteneva che il sistema causale della
materia fosse un sistema chiuso che non poteva avere effetti sulla attività psichica
né essere influenzato da essa. In questo senso Wundt agì per molti decenni sugli
studi psicologici e solo in questo secolo il comportamento del corpo divenne
nuovamente un dato, integrabile ad altri dati psichici, per la psicologia.
Fra le leggi psicologiche di evoluzione, Wundt stabilì quella dell'« eterogenesi dei fini », secondo la quale i processi mentali sono atricchiti o comunque
alterati da « effetti secondari », che si aggiungono via via nel corso dello sviluppo
dei processi medesimi e la legge dello « sviluppo per contrari » secondo la quale
la vita psichica dell'individuo e ancor più la società si sviluppano in un alternarsi
di correnti opposte.
L'elaborazione teorica di Wundt fu fiancheggiata da un'imponente massa di
esperimenti di laboratorio che, condotti quasi esclusivamente dagli assistenti e
dagli allievi, avevano il fine di sostenere e provare le teorie del maestro, conseguendo nello stesso tempo la dimostrazione pratica della possibilità di una psicologia sperimentale. Gli esperimenti sulla sensazione e la percezione sono la maggioranza (studi sulla visione, sull'udito, sul tatto, sul gusto, sulle stime temporali).
Il gruppo di studi più importante dopo quello sulla sensazione è costituito dagli
esperimenti sui tempi di reazione. Questi presero l'avvio dagli studi che il fisiologo olandese Franciscus Cornelis Donders aveva condotto partendo dal problema
dell'equazione personale. Fra il I 88 5 e il I 89o gli esperimenti sui tempi di reazione
vennero condotti in un clima di grande euforia perché parve che, mediante la loro
addizione e sottrazione, si potesse giungere a misurare le attività associative, cognitive e volitive. Sembrava la smentita alle limitazioni che Herbart aveva posto:
l'attività psichica, contrariamente a quello che egli pensava, poteva essere oggetto
di sperimentazione. Più tardi, però, apparve che i tempi non erano costanti e che
reazioni più complicate non potevano venire spiegate soltanto in termini di addizioni di reazioni più semplici. James McKeen Cattel e Cari Lange, fra gli altri,
sostennero nuove interpretazioni. Lange, in modo particolare, dimostrò che la
diversità fra la reazione sensoriale e la reazione motoria era dovuta alla predisposizione attentiva e in questo modo contribuì ad orientare le ricerche del laboratorio nel campo dell'attenzione. Infatti quando l 'interesse per i tempi di reazione
cominciò ad affievolirsi, gli esperimenti sull'attenzione e contemporaneamente
sulla teoria dei sentimenti presero piede, mentre continuavano gli studi sull'asso17
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La nascita della psicologia scientifica
ciazione ché non erano mai stati interrotti. Per quel che riguarda l'attenzione, ci
furono esperimenti sulla complicazione, sull'ampiezza e sulla fluttuazione dell'attenzione, tutti divenuti classici.
Così come enorme era stata l'influenza esercitata da Wundt per oltre mezzo
secolo, così fortissima fu la reazione alla sua psicologia accusata di essere una
« chimica mentale » limitata e di corto respiro. Queste accuse sono oggi solo il
segno di una polemica che fu molto accesa e lunga, tuttavia attualmente è difficile
non pensare che la psicologia di Wundt fu in un certo senso la prima fase che si
concluse in sé della nuova psicologia che, con forti influssi fisiologici e biologici
e pesanti ipoteche filosofiche non poteva ancora essere scienza pienamente
autonoma.
III · ALTRE CORRENTI DI PSICOLOGIA TEDESCA
ALLA FINE DELL'OTTOCENTO E AGLI INIZI DEL NOVECENTO
Se per molti anni l'influenza wundtiana fu preponderante nelle università e
nei laboratori di psicologia, non è meno vero che quasi subito si ebbero delle forti
reazioni ad essa. In Germania, in particolare, vi furono molti studiosi, che seguirono delle vie indipendenti da quella segnata da Wundt, mentre altri continuarono
la tradizione wundtiana, non fosse altro che nel mantenere un rigoroso metodo
sperimentale, pur spostando la propria attenzione a quei processi superiori che
Wundt aveva tralasciato, nella convinzione- come già si è detto - che non fosse
nel compito e nella possibilità della psicologia l'affrontarli.
Vogliamo ora ricordare brevemente alcune personalità che, con vari atteggiamenti, si resero indipendenti o si opposero alla psicologia wundtiana. Il panorama
potrà indubbiamente apparire alquanto composito: ciò tuttavia è dovuto alla
estrema varietà di interessi degli studiosi ricordati, il che rende assai arduo rintracciare un filo unificatore.
Hermann Ebbinghaus (1850-1909) è uno dei pochi psicologi dell'Ottocento
che si sia formato al di fuori di un circoscritto ambiente accademico, attendendo da
solo, per anni, a studi ed esperimenti rigorosissimi. Tentò di usare il metodo psicofisico per lo studio e la misurazione della memoria: sua fonte quasi esclusiva di
ispirazione furono gli Elemente di Fechner. Ebbe anche interessi metodologici e si
occupò ad esempio, delle condizioni che rendono possibile la misurazione. Per
la misurazione dell'attività mnemonica la condizione principale è la frequenza della
ripetizione. Uno dei punti più originali della sua ricerca sta nell'invenzione e nella
sperimentazione delle sillabe senza senso (ottenute, cioè, inserendo una vocale
tra due consonanti scelte a caso); queste sillabe rappresentano per la memorizzazione un materiale neutro, in quanto c'è una probabilità minima che esse provochino nel soggetto delle associazioni che influirebbero poi sul risultato dell'esperimento. I procedimenti sperimentali di controllo adottati da Ebbinghaus sono
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sostanzialmente due: l' Erlernungsmethode (metodo del completo dominio) e
l'Ersparnismethode (metodo del materiale :ritenuto).
Dopo lunghissima e minuziosa spe:rimentazione pubblicò, nel I 88 5 Ueber das
Gediichtnis (Sulla memoria), uno studio che ebbe immediato e clamoroso successo.
Conteneva, oltre agli esperimenti già ricordati, anche varie concezioni originali
sull'apprendimento, sulla ripetizione e l'elaborazione della famosa «curva di
dimenticanza». Pe:r la prima volta la psicologia penetrava, con metodo sperimentale, nel campo dei processi mentali superiori. Nel I886 Ebbinghaus venne chiamato all'università di Berlino: da questo momento abbandonò completamente
gli studi sulla memoria iniziandone molti altri. Nel I 89o il nostro autore fondò
con A:rthu:r Konig la Zeitschrift fiir Psycologie und Physiologie der Sinnesorgane (Rivista
di psicologia e fisiologia· degli organi di senso) che annoverò f:ra i suoi collaboratori, oltre a Helmholtz, tutta una serie di psicologi e fisiologi illustri e diventò, in un
certo senso, l'organo della psicologia indipendente da Wundt. Pochi anni più
tardi, p:rop:rio negli anni in cui Binet in Francia affrontava lo stesso problema,
Ebbinghaus pubblicò anche un metodo pe:r la misurazione dell'intelligenza dei
bambini in età scolare. Fu uno degli psicologi più famosi del suo tempo: due
suoi volumi sistematici di psicologia ebbero larghissima risonanza e furono
subito tradotti in varie lingue. Il successo e:ra dovuto in parte allo stile piacevole
e vivace dell'autore, ma, in parte, anche all'estremo :rigore sperimentale e alla
grande lucidità metodologica con la quale gli argomenti erano trattati!
Ebbinghaus segnò un effettivo passo innanzi rispetto alla psicologia wundtiana, in quanto ebbe il merito di affrontare pe:r primo i processi mentali superiori
senza tuttavia abbandonare il rigore sperimentale e senza incorrere nelle ambiguità e nelle difficoltà in cui invece caddero, ad esempio, Kulpe e la scuola della
psicologia dell'atto.
Geo:rg Elias Mulle:r (I85o-I934),laureato in filosofia, tenne pe:r quarant'anni,
a Gottinga, la cattedra che e:ra stata di He:rba:rt e poi di Lotze. Ebbe un laboratorio secondo solo a quello di Wundt per fama e in esso si formarono, f:ra altri,
Na:rziss Ach, Hans Rupp, e David Katz. Gli interessi di Miille:r furono rivolti
verso tre campi di studio: la psicofisica e i suoi metodi, l'attenzione, la memoria. Per quel che riguarda la psicofisica, pubblicò, nel I 878, Zur Grundlegung der
Psycophysik (Sui fondamenti della psicoftsica) e, l'anno successivo, un articolo sul
metodo dei casi; questi lavori contengono delle innovazioni divenute classiche.
Dopo la morte di Fechner, Muller divenne l'autorità indiscussa nel campo
della psicofisica, anche se il suo interesse, dai problemi generali andò poi volgendosi ai campi più particolari della psicofisica della visione e della memoria. Benché negli ultimi tempi della sua vita fosse sempre più interessato a problemi metodologici e sistematici, tuttavia Muller fu veramente uno dei primi ad allontanarsi quasi completamente da una problematica filosofica e a dedicarsi quasi
unicamente alla psicologia.
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Il suo interesse per l'attenzione - interesse di cui è già prova la sua tesi di
dottorato, Zur Theorie der sinnlichen Aufmerksamkeit (Sulla teoria dell'attenzione sensoriale, I873) - andò sviluppandosi, dopo le ricerche di Ebbinghaus, verso il
campo della memoria e, nel I893, egli pubblicò, insieme a Friedrich Schumann,
allora suo assistente, gli importanti Experimentelle Beitrage zu den Untersuchungen des
Gedachtnisses (Contributi sperimentali alle ricerche sulla memoria). Gli studi di Miiller
sulla memoria si conclusero con la pubblicazione di Zur Ana(yse der Gedachtnistatigkeit und des Vorstellungsverlaufes (Sull'analisi dell'attività mnemonica e del processo
rappresentativo, I911-17) un lavoro fondamentale, in cui la parte teorica ha una
notevole importanza.
Qualche anno più tardi, interessato ai problemi della visione, si avvicinò
alle posizioni di Hering e di Mach: fra l'altro tentò di stabilire degli assiomi psicofisici a sostegno dell'ipotesi che i processi fisiologici siano fondamento dei processi coscienti. Questa teoria fu probabilmente il germe da cui si sviluppò l'isomorfismo degli psicologi della Gestalt. Che, del resto, Miiller fosse consapevole
di una certa somiglianza fra alcune posizioni, sostenute dalla sua scuola sulla
percezione e sulla visione, e le teorie gestaltiste, apparve chiaramente quando,
nel I 92 3 egli pubblicò lo scritto Komplextheorie und Gestalttheorie: ein Beitrag zur
Wahrnehmungsp!]chologie (Teoria del complesso e teoria gestaltista: un contributo alla
psicologia della percezione), che tuttavia provocò un'aspra e prolungata polemica
con Kohler.
Ewald Hering (I 8 34- I 9 I 8) fu un fisiologo i cui contributi principali si ebbero nel campo della percezione visiva dello spazio (Beitrage zur Physiologie
[Contributi alla fisiologia, I86I-64]) e della teoria dei colori (Zur Lehre vom Lichtsinne
[Sulla teoria della percezione della luce, I 878]). La sua importanza perla psicologia risiede però essenzialmente nel fatto che Herlng fu assertore dell' « innatismo »della
percezione visiva: egli asseriva, cioè, che l'ordine spaziale della percezione visiva
era qualcosa di innato e non, invece, frutto dell'esperienza (come sosteneva, ad
esempio, l'empirismo di Helmholtz, cui egli si oppose in una famosa e vivace polemica). A proposito del carattere della percezione visiva è interessante notare che
si possono rintracciare chiaramente due filoni di spiegazioni: l 'uno che, partendo
da Locke e dagli empiristi inglesi, passa per Helmholtz e poi per Wundt e per
Kiilpe; l'altro che trae origine da Hering (che si ispirava a Johannes Miiller e,
quindi, in definitiva, alla concezione kantiana dell'intuizione innata dello spazio)
e che influenzò, attraverso Stumpf, la linea psicologica che sfociò nella Gestalttheorie.
Karl Stumpf (I848-I936) seguì gli studi filosofici sotto la guida di Lotze.
Legato da amicizia a Weber, Fechner, Brentano, Mach e James, l'interesse per lo
studio dell'origine della percezione spaziale lo portò verso indagini di tipo psicologico. Il suo primo lavoro psicologico Ueber dem p!]chologischen Ursprung der
Raumvorstellung (Sull'origine psicologica della rappresentazione spaziale, I873) è sotto
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l'influsso delle teorie innatistiche di Hering. Il contributo più importante di
Stumpf riguarda però problemi di psicologia della musica ai quali egli applicò una
rigorosa e paziente tecnica di sperimentazione di laboratorio. I risultati di questo
lunghissimo studio furono raccolti in Tonpsychologie (Psicologia dei toni, 1883-90)
e nei Beitrage zur Akustik und Musikwissenschaft (Contributi all'acustica e alla scienza
della musica) che furono pubblicati in nove fascicoli dal 1899 al 1924. Dopo la
pubblicazione della Tonpsychologie, Stumpf polemizzò violentemente con Wundt a
proposito degli esperimenti sulla distanza tonale.
Pur essendo metodologicamente convinto dell'importanza che riveste la
sperimentazione in psicologia, e nonostante che dalla sua cattedra di Berlino incoraggiasse sempre la ricerca sperimentale, Stumpf, negli ultimi suoi studi, si
dedicò soprattutto a questioni di carattere sistematico e teorico. Sotto questo
aspetto risentì fortemente l'influenza della Psychologie vom empirischen Standpunkte
(Psicologia dal punto di vista empirico, 1874) di Franz Brentano (r838-1917) e della
nascente fenomenologia di Husserl che proprio a Stumpf dedicò le sue Logische
Untersuchungen (Ricerche logiche, 19oo-01). Attraverso Stumpf questa corrente di
pensiero di impronta fenomenologica sfocerà in parte nelle ricerche degli psicologi della Gestalttheorie (sia Kohler che Koffka furono allievi di Stumpf),
sia, più apertamente, nella scuola dell'atto, cioè nella scuola di Kiilpe a
Wiirzburg.
A Ernst Mach, come fisico e filosofo si è già dedicato il capitolo XII del volume quinto: qui si vuol sottolineare solo l'influsso che egli ebbe sugli studi di
psicologia. Egli partecipò al primo periodo della psicologia sperimentale con
classiche ricerche sulla rotazione del corpo, sulla percezione visiva dello spazio e
sulla teoria dell'udito. Nella sua Ana!Jse der Empftndungen (Analisi delle sensazioni)
sostenne che il principio di causalità va ridotto a quello humiano di concomitanza e che le sensazioni sono i dati di qualsiasi scienza. Tutte le scienze, e quindi
anche la psicologia, sono basate sulla osservazione e i dati primari dell'osservazione sono i dati sensoriali. In questo senso di equivalente dell'osservazione viene
ammessa l'introspezione. L'io individuale è illusione: vi sono solo i dati sensoriali
e, fra questi, anche i dati delle sensazioni spaziali e temporali. Fu proprio l'analisi
machiana delle sensazioni di spazio e tempo che, rompendo la lunga tradizione
delle categorie kantiane, accettata ancora da Wundt, influenzò Kiilpe, il quale
considerò spazio e tempo come attributi della sensazione alla pari delle qualità
e dell'intensità, e giunse fino alla teoria della Gestalt che insisté sull'aspetto fenomenico dello spazio e del tempo.
Richard A venarius, del quale si riparlerà più a lungo nel capitolo vr, lavorò
indipendentemente da Mach, ma entrambi riconobbero che erano giunti a risultati sostanzialmente simili per quel che riguarda il problema dell'esperienza e dei
dati sensoriali. Nella sua Kritik der reinen Erfahrung (Critica dell'esperienza pura,
I 8 89-90) A venarius sostiene che la coscienza dipende da un sistema fisico che è
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sostanzialmente il sistema nervoso centrale. Anche l'esperienza dipende da questo
sistema che tende a mantenersi in un equilibrio « vitale » fra tendenze opposte di
catabolismo e anabolismo. Questo equilibrio però è teorico, perché in realtà
esistono varie serie di « differenze vitali » che tendono ad esso. Queste serie vitali
possono essere « indipendenti », possono cioè darsi nel sistema nervoso centrale
e in tal caso si tratta di dati fisici; possono essere « dipendenti » dalle precedenti
serie fisiche e allora sono dati psicologici. Questi concetti saranno ripresi in
modo quasi integrale dalla psicologia di Kulpe.
Fra il 1893 e il 1912 intorno a Oswald Kulpe (1862-191 5), assistente di Wundt
e poi docente a Wurzburg, si radunò un gruppo di studiosi che tentarono per primi
lo studio dei processi del pensiero e della volontà con metodo sperimentale. Fra
di essi i più importanti furono Johannes Orth, Karl Marbe, Narziss Ach, H.J.
Watt, August Messer e Karl Buhler. Il gruppo tuttavia si valse sempre di più degli
apporti della fenomenologia di Brentano e di Husserl, allontanandosi progressivamente dall'esigenza di una trascrizione matematica dei risultati dei loro studi. Ti-·
piea da questo punto di vista fu l'evoluzione del pensiero di Kulpe che, da una
psicologia del contenuto di stretta derivazione wundtiana, passò attraverso varie
influenze (fra cui, come si è detto, quella di Avenarius), per approdare a sostenere, nella sua opera postuma Vorlesungen iiber P.rychologie (Lezioni di psicologia,
1920), un compromesso fra le concezioni di Wundt e quelle di Brentano, ammettendo da un lato i «contenuti», dall'altro gli« atti» che egli chiamò « funzioni», indipendenti dai primi.
La scuola di Wurzburg propose per lo studio dei processi superiori un metodo introspettivo sperimentale e sistematico (che venne però criticato da Wundt
perché ampiamente condizionato dalle teorie degli sperimentatori e quindi non
così obiettivo come avrebbe voluto apparire). Tutti gli studiosi della scuola rilevarono che nell'osservazione introspettiva del pensiero emergono dei contenuti
di coscienza che non possono essere ricondotti solo alle sensazioni e alle immagini.
Tuttavia le caratteristiche di questo «pensiero senza immagini» furono diversamente definite dai vari studiosi: Orth parlò di Bewusstseinseinlagen, atti o stati
consci del soggetto; Watt sottolineò l 'importanza dell' Azd:gabe, cioè del compito soggettivo, e Ach sottoli"neò l'importanza della «tendenza determinante»
che agirebbe inconsciamente contribuendo in modo decisivo al raggiungimento del risultato; Marbe e Ach rilevarono una Bewusstheit (presenzialità implicita
alla coscienza) di significati mentali, la cui definizione rimase ambigua, che consentirebbe - a loro parere- il giudizio anche in assenza degli oggetti concreti cui
corrispopde. La scuola di Wurzburg arrivò dunque a indicare l'esistenza di un
pensiero senza immagini in cui l'orientamento del soggetto è attivo e può non
essere cosciente; tuttavia non fu in grado di precisare né la sua natura né le
sue leggi.
La percezione, nella teoria wundtiana, era il risultato di un associarsi di ele22
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menti, le sensazioni. Tuttavia sembrava difficile :ricondu:r:re le percezioni spaziali
e temporali a questo schema. Sotto l'influsso delle teorie machiane, Christian von
Eh:renfels (I8j8-I932) pubblicò nel I89o un articolo Ueber Gestaltqualitiiten (Sulle
qualità della forma) nel quale sosteneva che la fo:rma, nello spazio e nel tempo, è
una qualità diversa dagli elementi che la compongono (Fttndamente) e non appartenente a nessuno di essi. Solo quando questi elementi compaiono tutti insieme
formando una «base» (Grundlage) appare la fo:rma che ha delle qualità indipendenti. La forma tuttavia non è data indipendentemente dagli elementi anche se le
qualità degli elementi di base possono va:ria:re senza che pe:r questo varino le
qualità della fo:rma.
A un primo sguardo le qualità della forma pot:rebbe:ro appa:ri:re soltanto come
un altro tipo di elementi, di st:ruttu:ra più complessa dei primi (e ciò sarebbe abbastanza coerente con la teoria wundtiana delle :risultanti psichiche), ma Eh:renfels
le considerò in :relazione all'atto, dipendenti cioè da una attività mentale organizzatrice.
La scuola di G:raz fondata nel I894 da Alexius Meinong (I853-I9zo) continuò attraverso gli studi di Meinong stesso, quelli di Hans Cornelius e poi di
Stephan Witasek nonché di Vittorio Benussi le teorie di Eh:renfels, arrivando a
notevolissime formulazioni e precedendo in alcune teorie i principi della dottrina
della Gestalt.
IV · GLI INIZI DELLA PSICOLOGIA MODERNA IN INGHILTERRA
La psicologia in Inghilterra aveva, come si è già accennato nel pa:rag:rafo
una lunga tradizione di ca:ratte:re, però, prettamente filosofico anche se non
metafisica. La psicologia nel senso moderno, scientifico, del termine ha inizio
con Galton.
F:rancis Galton (I8zz-I9I I) fu una singolare figura di studioso. Di intelligenza acutissima, la sua versatilità lo po:rtò ad occuparsi di molti diversi problemi
(dalla meteorologia alla biologia, alla antropologia, alla matematica, all'invenzione di strumenti di laboratorio ecc.) Benché il suo interesse pe:r i problemi psicologici sia accentrato in un a:rco di tempo che non supera i quindici anni, i
suoi contributi alla psicologia moderna, pe:r novità e genialità di impostazione
sono fondamentali. Studioso indipendente e svincolato da legami accademici,
:risentì fortemente l'influsso delle teorie di Cha:rles Darwin- cui e:ra legato anche
da :rapporti di parentela - e ne divenne acceso sostenitore. Da Darwin (cui si è
dedicato il capitolo xm del volume quinto) attinse il problema della continuità
f:ra specie animali e specie umana, l'interesse pe:r l'adattamento dell'individuo all'ambiente, pe:r il problema della ereditarietà e della variazione fra individui, cioè
delle differenze inte:rindividuali. Mentre la psicologia tedesca cercava i principi
universali di funzionamento, le leggi della attività psichica, con Galton ci si co-
I,
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minciò a preoccupare dei diversi modi di funzionamento delle diverse persone.
Forte dei principi darwiniani e delle sue personali esperienze di antropologo e di
viaggiatore, Galton si opponeva alla teorizzazione di una « uguaglianza naturale »
di tutti gli uomini. Inoltre sosteneva che le variazioni, fossero fisiche, intellettuali
·
o morali, dovevano essere ereditarie.
La sua prima opera Hereditary genius (L'ereditarietà dell'ingegno, 1869) è uno
studio basato sulle biografie di uomini celebri e sull'ipotesi che essi si presentino
con maggiore frequenza in determinate famiglie. Anche se la identificazione fra
persona geniale e persona celebre è assai discutibile, e l'asserzione che il genio
si trasmetta unicamente per via biologica, senza tener conto dei fattori ambientali
economici e sociali, era senz'altro parziale, tuttavia l'opera fu importante sia
perché pose un problema di tipo nuovo, sia perché la trattazione che Galton fece
dei dati raccolti era basata su metodi statistici. Per questo aspetto egli continuò
e sviluppò i lavori del belga Adolphe Quételet (cui si è già fatto cenno nel capitolo vm del volume quinto) che aveva applicato la legge della distribuzione degli
errori di Laplace e di Gauss a misure antropometriche e biologiche: l'uomo medio
appariva come l'uomo perfetto e le variazioni dalla media venivano considerate
come scarti sempre maggiori da questo ideale, approssimazioni, quasi sbagli" della
natura. Galton ammise la validità di questa applicazione anche per i caratteri mentali e, nella convinzione che il metodo quantitativo è quello che più va incontro
alle esigenze di scientificità di una disciplina matura, trasformò la frequenza del
genio o della deficienza mentale in funzione della loro intensità. La trattazione
statistico-matematica dei dati psicologici e biologici divenne per Galton un problema sempre più assillante.
Nelle successive opere sull'ereditarietà formulò le leggi dell'ereditarietà ancestrale (per la quale i tratti individuali dipendono da quelli di tutti gli ascendenti
del soggetto secondo una proporzione matematica) e della regressione verso il
valore medio (secondo la quale i caratteri abnormi dei genitori, tendono ad avvicinarsi alla media nei figli). La trattazione matematica di quest'ultimo problema
lo occupò per molti anni e lo condusse allo sviluppo di una misura di correlazione, l'« indice di co-relazione», poi chiamato, «funzione di Galton » e infine
«coefficiente di correlazione» (indicato ancor oggi con r). L'applicazione del
coefficiente di correlazione, anche per merito dei successivi sviluppi dovuti a
Karl Pearson, è stata da allora grandemente usata nel trattamento statistico dei
dati psicologici. I problemi dell'ereditarietà e della trasmissione dei caratteri più
rilevanti portarono Galton al disegno di fondare una nuova scienza, cui dette
il nome di « eugenetica », con la quale egli si proponeva di studiare e di isolare
determinati tratti, allo scopo di rendere possibile, mediante opportuni incroci,
un miglioramento della razza. Usò anche, per primo, lo studio dei gemelli identici per rafforzare la sua tesi dell'influenza determinante dell'ereditarietà (nature)
rispetto all'ambiente (nurture).
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L 'interesse di Galton per i problemi della misurazione dei tratti e delle facoltà umane culminò nell'opera sua più conosciuta Inquiries into humatl faculty
and its development (Ricerche sulla capacità umana e suo sviluppo, 1883). Questo libro
viene comunemente considerato quello più propriamente psicologico di Galton
e anche quello che diede origine alla psicologia individuale e differenziale, e a
tutti gli studi sui reattivi mentali. Con questa opera Galton voleva fornire, nel
momento in cui più aspra era la battaglia fra teoria dell'evoluzione e dogma religioso, un nuovo credo scientifico che avesse come meta quella di sostituire alla
fede religiosa la fede in un progresso evolutivo il cui fine era la formazione di una
umanità superdotata. I dati presentati nel libro avevano quindi lo scopo di presentare un campionario di attività mentali e di atteggiamenti umani in tutte le loro
limitazioni (per indicare quanto fosse difettosa la situazione attuale) e in tutta la
loro variabilità (per indicare come fosse possibile una selezione dei tratti migliori).
Questo programma vagamente fantastico non impedì a Galton di compiere ricerche ed accertamenti minuziosi ed accuratissimi ed anzi lo spinse ad inventare
degli strumenti di misura capaci di accertare le differenze interindividuali.
Egli arrivò così al mental test, reattivo mentale, un metodo sperimentale di
misurazione semplice e breve (in confronto agli elaboratissimi metodi psicofisici
tedeschi) che tendeva a mettere in luce non la generalità ma la particolarità di un
comportamento umano. (Il fatto che i tests misurino un « comportamento », non
interessandosi dopotutto ai processi mentali sottostanti, contribuì non poco al
loro successo negli Stati Uniti, specialmente dopo la nascita del behaviorismo).
Connessa all'applicazione del test mentale fu l'invenzione di tutta una serie
di strumenti di misurazione sensoriale (il famoso fischietto, la sbarra, i pesi, ecc.).
Era sottinteso il principio che una prestazione di tipo sensoriale fosse indicativa
di un livello di prestazione mentale.
Nelle Ricerche Galton affrontò il problema dell'introspezione, notando la grande varietà dei processi associativi (il suo metodo di « associazione verbale » fu poi
ripreso da Wundt), e anche il fatto che gran parte di questi processi si svolgono
ad un livello inferiore a quello della coscienza, a un livello inconscio, cioè, che
egli definì « anticamera della coscienza ». Si occupò anche della genesi, dei sentimenti religioso-superstiziosi e dei sentimenti paranoici, giungendo a provocarli
sperimentalmente in se stesso. Un suo contributo fondamentale riguarda il
problema della capacità individuale di ricreare mentalmente delle immagini (ideò
anche un questionario per determinare i diversi tipi di questa capacità e per
misurare l'accuratezza della figurazione in rapporto ai diversi sensi).
Galton aprì anche un piccolo Laboratorio antropometrico per Ja misurazione delle capacità individuali, in occasione dell'esposizione internazionale di
igiene (che ebbe luogo a Londra nel 1884) attraverso il quale cercò di ottenere
un grandissimo numero di dati a supporto delle sue teorie sull'eugenetica. Era
una prima· applicazione su larga scala dei tests e fu un avvenimento importante,
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anche se i dati raccolti non permisero delle generalizzazioni rilevanti per quel che
riguarda il problema delle differenze interindividuali.
Non va dimenticato che nel 1901 Galton e Pearson fondarono la rivista « Biometrika » che si occupò di ricerche matematiche in biologia e in
psicologia e che, dagli studi statistici di Galton e di Ptarson, si sviluppò intorno
al 19o4la ricerca di Charles Spearman (1863-1945) sulla teoria, bifattoriale dell'intelligenza (due serie di prestazioni intellettive differenti_ sono dovute a un fattore
comune, generai factor, fattore G e ad un altro fattore specifico di ciascuna di
esse). I lavori successivi dello stesso Spearman e di Godfrey H. Thomson su un
sistema gerarchico di correlazioru portarono intprno al 1930, dopo varie formulazioni, allo sviluppo dell'« analisi fattoriale» per lo studio dell'intelligenza, dovuta oltre che allo stesso Thomson all'inglese Cyril Burt e all'americano Louis
L. Thurstone.
L'influsso immediato di Galton sulla psicologia inglese non fu molto grande,
sia per la resistenza che le università opposero alla introduzione della psicologia,
sia per il fatto che, quando questa resistenza fu vinta, si preferì attingere alle correnti tedesche.
Fra gli psicologi inglesi di questo periodo si possono ricordare James Ward
(1843-1925) che fu influenzato dalla psicologia dell'atto e da Brentano; Georges
F. Stout (1860-1944) la cui posizione fu vicina a quella di Ward e a quella della
scuola austriaca e che scrisse diversi manuali di psicologia che ebbero grande diffusione; William McDougall (1871-1938), trasferitosi poi negli Stati Uniti, del
cui ambiente culturale sentì l'influenza, che cominciò i suoi studi di psicologia nel
campo sperimentale e teorizzò un sistema in cui l'attività psichica è contraddistinta da un impulso finalizzato (psicologia ormica o impulsiva), si esprime in un
comportamento, è provocata da istinti e accompagnata da stati affettivi. La condotta finalistica comporta una certa indeterminatezza ed una relativa libertà. La
vicinanza ad alcune idee di James ed il linguaggio ambiguo attirarono su
McDougall la reazione del behaviorismo, anche se egli ebbe qualche influsso su
alcuni behavioristi come Edward C. Tolman e Edwin B. Holt e se il suo libro
lntroduction to social psycology (Introduzione alla psicologia sociale, 19o8) ebbe un
notevole peso sugli studi successivi in questo campo.
V
· LA PSICOLOGIA IN FRANCIA
Nella prima metà dell'Ottocento, in Francia, come si è già accennato, si
erano sviluppati gli studi di neurofisiologia ed era stato vivo l'interesse per la
frenologia e il mesmerismo. Le correnti psicologiche francesi mantennero questo
orientamento fisiologico, accentuando altresì il loro interesse (già presente in
Comte e in Taine) per la psicopatologia più che per la psicologia dei processi
normali. Di fatto lo sviluppo della psicologia in Francia è strettamente unito a
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quello della psichiatria (di cui Pierre Janet e Jean-Martin Charcot sono i principali esponenti).
Théodule Armand Ribot (I839-I9I6), sotto l'influsso delle teorie di Taine
e di Spencer, diede inizio in Francia ad una psicologia a carattere positivistico,
orientata in senso fisiologico. I suoi interessi filosofici accompagnarono parallelamente l'evolversi della sua attenzione verso i campi di applicazione pratica della
psicologia. Egli sostenne che la psicologia deve liberarsi dalla metafisica e servirsi
di metodi empirici e biologici, limitando l'uso dell'introspezione.
Le sue prime opere sono a carattere storico ed espositivo: La prychologie anglaise contemporaine (La psicologia inglese contemporanea, I 870) e La prychologie allemande contemporaine (La psicologia tedesca contemporanea, I 879) in cui egli esponeva per la
prima volta in Francia le teorie di Fechner, quelle di Wundt e quelle di Helmholtz.
In un secondo periodo Ribot si occupò soprattutto di psicopatologia. Les nJaladies de la mémoire (Le malattie della memoria, I 88 I), Les maladies_ de la volonté (Le
tnalattie della volontà, I883), Les maladies de la personnalité (Le malattie della personalità, I 88 5) sono opere classiche che ebbero grande influenza sugli studi successivi: nella ricchezza dei dati clinici raccolti, il filo conduttore e unificatore è
una posizione filosofica derivata da Taine, che nell'opera De l'intelligence aveva
criticato la psicologia delle facoltà (come si vedrà nel capitolo vn). Termini quali
« facoltà », « io », « ragione », « memoria », « volontà » non sono che astrazioni
reificate: la loro apparente semplicità è ingannatrice e impedisce di afferrare la
complessità dei meccanismi psichici sottostanti. L 'io non è una sostanza, ma una
serie di eventi mentali. La psicopatologia scopre, nella dissociazione di questi
processi, la loro complessità ed è di grande ausilio per la comprensione dei processi medesimi.
Successivamente Ribot si occupò di processi psicologici normali, affrontando
in modo particolare, da un punt? di vista biologico e fisiologico, il problema dei
sentimenti.
Alfred Binet (I 8 57- I 9 I I) fu inizialmente spinto proprio da Ribot ad occuparsi di psicologia; lavorò poi con Charcot alla Salpetrière. È famoso soprattutto per la sua scala per la misurazione dell'intelligenza dei bambini, che pubblicò
insieme a Théodore Simon nel I9I 1. Questa scala è il primo tentativo di stabilire dei gruppi di prove attraverso le quali giungere a una misura delle
prestazioni di un soggetto, e, successivamente, paragonare questa misura con
quella ottenuta dalla maggior parte dei soggetti della medesima età. Binet fu
perfettamente conscio del peso dei fattori culturali sui risultati ottenuti nel suo
test e anche del fatto che la misura che se ne ricavava (quoziente intellettivo,
QI = età mentale/età cronologica X 10o) non rispecchiava i diversi caratteri
strutturali dell'intelligenza dell'individuo sottoposto a misurazione. Tuttavia, il
successo ottenuto dal metodo, in particolare negli Stati Uniti, a causa dell'orientamento funzionale e pragmatico della psicologia americana, fu enorme e oscurò
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queste difficoltà, così come anche mise in ombra tutto il lavoro preparatorio che
aveva condotto Binet alla formulazione della scala.
Egli aveva iniziato nella scia della tradizione associazionista inglese e sotto
l'influenza di Taine. Ben presto, tuttavia, si erano delineati altri interessi che
l'avevano condotto allo studio delle differenze interindividuali e particolarmente
al problema dell'intelligenza. Le sue opere maggiori rimangono La psycologie
des grands talculateurs et joueurs d'échecs (La psicologia dei più abili calcolatori e giocatori
di scacchi, I 894) e L' étude expérimentale de l'intelligence (Lo studio sperimentale dell'intelligenza, I9o3). Nella prima, Binet anticipò la scuola di Wiirzburg affermando
l'importanza del pensiero senza immagini e soprattutto dimostrando che il suo
svolgersi è influenzato dalla natura e dalla presentazione del problema, oltre che
dalle attitudini individuali. Nella seconda, illustrò la sua ricerca sistematica, volta
all'esplorazione del pensiero infantile, e, col suo interesse per l'aspetto genetico
dell'intelligenza, segnò la strada da cui poi si svilupperanno le ricerche di Jean
Piaget (n. I 896).
VI · GLI INIZI DELLA PSICOLOGIA AMERICANA
William James (I842.-I9Io), sul quale si ritornerà nel capitolo v, viene comunemente indicato come l'iniziatore della psicologia americana. Fra le sue
varie opere quella che ebbe maggiore influenza fu Principles of psychology (Principi di psicologia, I89o); in essa James espone accuratamente i risultati della psicologia wundtiana, ma finisce per respingerli. Secondo il nostro autore l'analisi
wundtiana non riesce a cogliere la caratteristica più importante della coscienza: il
suo fluire. La coscienza, invece, è continuamente mutevole, legata all'individuo,
fondamentalmente selettiva secondo le esigenze di adattamento all'ambiente del
soggetto. L'attività mentale ha una «funzione» nell'economia psicofisica dell'individuo: questa funzione è di tipo cognitivo e permette l'adattamento alle
condizioni di vita.
La teoria più specificamente psicologica di J ames è conosciuta come
« teoria periferica delle emozioni ». Egli la elaborò contemporaneamente, anche
se indipendentemente, al danese Cari Lange, sostenendo che nell'emozione il
dato primario è l'aspetto fisiologico e somatico. Solo la presa di coscienza di tale
aspetto permette lo scatenarsi dell'emozione in senso psichico. La teoria venne
messa in dubbio da successivi studi di Walter Bradford Cannon, Henry Head e
Philip Bard sul meccanismo nervoso e armonico, tuttavia oggi le si attribuisce il
merito di aver posto l'accento sulle concomitanti fisiologiche e somatiche delle
emozioni.
Le concezioni di James offrirono molti spunti alla corrente della psicologia
funzionalistica e al behaviorismo.
James non era personalmente portato allo sperimentalismo, tuttavia inca2.8
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ragg1o sempre le ricerche sperimentali e la fondazione di laboratori presso le
università; fu però Gran ville Stanley Hall (I 844-I 924) il grande organizzatore
della psicologia americana: fondatore di importanti riviste, dell'associazione
americana di psicologia, di molti laboratori. Fortemente influenzato dalla dottrina
evoluzionistica, Stanley Hall propugnò una psicologia genetica, interessandosi
particolarmente ai problemi dell'età evolutiva.
La sua opera principale, immediatamente famosa, fu condotta con il metodo
del questionario: Adolescence: its p~chology, and its relations to physiology, anthropology, sociology, sex, crime, religion and education (Adolescenza: la sua psicologia e i suoi
rapporti con la fisiologia, l'antropologia, la sociologia, il sesso, la criminalità, la religione e
l'educazione, I904). Stanley Hall sviluppò in seguito i vari campi indicati nel sottotitolo accogliendo anche degli influssi dalla psicoanalisi e dalla riflessologia
di Pavlov.
Fra gli autori che maggiormente contribuirono a diffondere la psicologia
negli Stati Uniti si deve citare James McKeen Cattell (I86o-I944) primo assistente di Wundt a Lipsia, il quale, di ritorno in patria, si occupò di differenze interindividuali e di applicazioni del calcolo statistico oltre che di ricerche psicofisiche
e dell'impiego dei reattivi mentali. Egli è considerato l'iniziatore della psicologia del lavoro.
James Mark Baldwin (I86I-I934) fu uno psicologo sperimentalista anche se
le sue opere gli procurarono una fama di teorico della psicologia. Notevoli furono
i suoi studi sullo sviluppo mentale e la sua attività di editore di importanti riviste
fra cui la « Psychological review » («Rivista di psicologia») fondata nel I894·
Era inevitabile che ben presto si delineasse negli Stati Uniti il contrasto tra
le correnti psicologiche di derivazione wundtiana e quelle originalmente americane che si affacciano già nelle impostazioni di J ames e di Cattell.
Edward Bradford Titchener (I867-I927) indicò nel I898 questo contrasto
come quello fra una psicologia «strutturale» e una psicologia «funzionale».
Mentre la psicologia strutturale si interessa dei « contenuti » e tende a stabilire,
attraverso l'introspezione, che cosa sono i fatti psichici e i loro elementi, e come
avvengono, evitando gli aspetti soggettivi ed individuali (ed è la nuova psicologia
scientifica), la psicologia funzionale si occupa invece degli stessi problemi considerandoli nel loro aspetto utilitario, cioè di operazioni che hanno importanza
nella misura in cui tendono ad un costante migliore adattamento. La psicologia
funzionale si pone l'antica domanda del perché delle attività mentali, facendo appello ai problemi vitali e a quelli dell'azione. Titchener, inglese, allievo di Wundt
e rigoroso sperimentatore, fu per molto tempo strenuo difensore della psicologia strutturale di derivazione tedesca negli Stati Uniti dove insegnò e dove ebbe
una famosa scuola.
Tuttavia l'orientamento prevalente era funzionale. Già gli studi di Cattell
e di Stanley Hall avevano mostrato la tendenza ad abbandonare i problemi di
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psicologia generale per occuparsi di applicazioni pratiche, di psicologia del lavoro,
della educazione, di psicometria. Furono però in modo particolare gli scritti di
Dewey a fornire un orientamento deciso alla psicologia funzionale.
Questo indirizzo si sviluppò particolarmente nell'università di Chicago e
nella Columbia University di New Y ork.
A Chicago James Rowland Angeli (1869-I949) allievo di James sentì fortemente l'influenza di Dewey e fu il teorico della psicologia funzionale in Psychology
(Psicologia, I9o4) e in The province of functional psychology (L'area della psicologia
funzionale, I907). In quest'ultimo scritto Angeli sostiene che la psicologia funzionale si occupa: a) dello studio delle attività mentali e del loro fine; b) delle
« fondamentali utilità della coscienza », per cui le operazioni mentali sono
«impegnate in una mediazione fra l'ambiente e i bisogni dell'organismo»;
c) delle relazioni complete fra mente e corpo, anche al di là degli stati di
coscienza.
Spinto dai suoi interessi pratici Angeli promosse anche gli studi di psicologia infantile, di psicologia animale e di psicologia del lavoro.
.
Alla Columbia University l'orientamento funzionale ebbe soprattutto l'impronta di Edward Lee Thorndike (1874-I949) famoso per i suoi studi sulla psicologia animale (vedi paragrafo vm di questo capitolo), sui problemi dell'apprendimento (19oi) e su quelli connessi all'uso dei tests mentali (I9o4).
Ancora alla Columbia insegnò Robert Sessions Woodworth autore di importanti opere di psicologia sperimentale e di storia della psicologia, che tuttavia
ebbe una posizione eclettica accogliendo influenze da altre correnti ed in particolare da quelle della psicologia dinamica.
VII · LA PSICOLOGIA DELLA GESTALT
Gli psicologi cui si deve l'elaborazione della teoria della Gestalt sono Max
Wertheimer, Wolfgang Kohler e Kurt Koffka. Wertheimer fu l'iniziatore e il
pensatore più originale, tanto che generalmente si pone la nascita del movimento
nel 19Iz, anno in cui egli pubblicò il suo articolo sul movimento apparente, ma
l'elaborazione successiva e la diffusione della teoria è dovuta soprattutto agli altri
due, legati a Wertheimer da stretti e leali vincoli di amicizia, oltre che da una
lunga consuetudine di lavoro comune.
Max Wertheimer (I88o-I943) frequentò la scuola di Kiilpe, con lui discusse
la sua tesi di dottorato e senz'altro l'atmosfera di Wiirzburg, in cui in quegli anni
ferveva lo studio del pensiero senza immagini, contribuì ad allontanarlo dall'elementarismo di tipo wundtiano. Intorno al I 9 I o egli cominciò lo studio del movimento apparente, facendovi partecipare anche Koffka e Kohler, e, nel I9Iz,
pubblicò Experimentelle Studien iiber das Sehen von Bewegung (Studi sperimentali sulla
visione del movimento) in cui sostiene che il movimento apparente non risulta da una
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serie di sensazioni, ma è un tutto a sé, un fenomeno sui generis, che egli chiamò
« phi-Phenomenon ».
Da quel momento Wertheimer, Koffka e Kohler intrapresero una comune
battaglia per sostenere le nuove teorie della Gesta!t-psycho!ogie. Nel 192 r fondarono « Psychologische Forschung » («Ricerca psicologica»), la famosa rivista
che continuò fino al 1938, e negli ultimi anni venne pubblicata negli Stati Uniti
dove le persecuzioni naziste avevano costretto prima Wertheimer e poi Kohler
(Koffka insegnava negli Stati Uniti già da molti anni). Proprio su « Psychologische Forschung » Wertheimer pubblicherà nel 1921 e nel 1923 i suoi contributi più rilevanti per la definizione della teoria. Uscì postumo un suo libro
sul pensiero Productive thinking (Pensiero prodttttivo, 1945) in cui Wertheimer
considera particolarmente il momento di formazione iniziale del pensiero, ritenendo carattere principale del pensiero produttivo quello di rivolgersi continuamente verso totalità strutturalmente organizzate, nello sforzo di impadronirsene.
Wolfgang Kohler (r887-r967) fu allievo di Stumpf. Dopo i primi contatti
con Wertheimer, e dopo averne assimilato le idee, fece (dal 1913) un lungo soggiorno a Tenerife dove compì importanti studi di psicologia animale (vedi para-.
grafo v m di questo capitolo) alla luce delle teorie gestaltiste. Di ritorno in Germania nel 1920 ebbe la cattedra di psicologia prima a Gottinga poi a Berlino in
seguito alla pubblicazione dell'opera Die pl!Jsischen Gesta!ten in Ruhe und im stazioniiren Zustand (Le forme fisiche in riposo e in stato stazionario, 1920). In essa tentava un
approccio di tipo fisico (aveva un forte interesse per la fisica, avendo risentito
dell'influenza di Max Planck) ai problemi di fisiologia del sistema nervoso e di
psicologia, arrivando a formulare una ipotesi di isomorfismo tra le dinamiche in
campo fisico, neurologico e psicologico. Questa ipotesi è sempre stata molto cara
a Kohler nonostante le violente opposizioni suscitate ed è stata da lui sostenuta
con rinnovato vigore dopo la pubblicazione di Brain mechanisms and intelligence
(Meccanismi cerebrali ed intelligenza, 1929) di K.S. Lashley, che sembrò avvalorarla.
Tra le opere più famose di Kohler bisogna ancora ricordare Gesta/t psycho!ogy
(La psicologia della Gesta/t, 1929) che, scritta in inglese, è la più chiara esposizione
complessiva della teoria e The piace of va!ue in a wor!d of facts (Il posto del valore
in un mondo difatti, 1938) che introduce il significato fra i dati dell'esperienza.
Kurt Koffka (r886-r94r), anch'egli allievo di Stumpf, si distinse poi per la
lunga serie di studi sperimentali che dal 1913 al 1921 condusse a sostegno della
teoria della Gestalt e i cui risultati pubblicò a più riprese sulla Zeitschrift fiir
Psychologie (Rivista di psicologia). Nel 1921 pubblicò Die Grund!agen der psychischen
Entwick!ung: eine Einfiihrung der Kinderpsychologie (l fondamenti dello sviluppo n1entale:
una introduzione alla psicologia infantile), che allargò gli interessi della Gestaltpsycho!ogie ai processi dell'apprendimento ed ai problemi educativi. Koffka
scrisse instancabilmente per anni in difesa della teoria accanendosi nella sua foga
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polemica contro una psicologia atomistica che, se mai era esistita così come lui
la dipingeva, era comunque morta da tempo. Tuttavia si deve a lui il trattato sistematico più completo: Principles of Gesta/t P!ychology (Principi di psicologia della
Gesta/t, I93 5).
Fra gli altri gestaltisti i più importanti furono: Erich von Hornbostel (I877I936), Karl Duncker (I903-4o), di cui sono noti gli studi sul pensiero produttivo
e, in certa misura anche Kurt Lewin (I87o-I947) che fondò su principi gestaltici
le sue teorie dinamiche del campo in psicologia sociale (la trattazione delle teorie
di Lewin esula però dai limiti di questo capitolo).
Bisogna notare che anche precedentemente e comunque contemporaneamente
ai primi studi di Wertheimer, altri psicologi stavano affrontando lo stesso tipo di
problemi. Negli anni dal I9o9 al I9I 5 dal laboratorio di Miiller a Gottinga,
uscirono degli importanti studi in questa direzione. È necessario ricordare almeno
Zur Analyse der Gesichtswahrnehmungen (Sull'analisi delle percezioni visive, I9o9) di
Erich R. Jaensch (I883-I94o), l'importante monografia sul colore di David Katz
(il quale più tardi aderì- alla teoria della Gestalt): Die Erscheinungsweisen der
Farben (L'aspetto apparente dei colori, I 9 I I) e soprattutto dello psicologo danese
Edgard Rubin (I886-I93Z) i fondamentali studi sul rapporto fra figura e sfondo
e sulle figure ambigue: Synsoplevede Figurer: S tudier i psykologisk Ana!Jse (I 9 I 5),
tradotto in tedesco nel I92I: Visuell wahrgenommene Figuren (La percezione visiva
delle figure).
Passando ora ad esaminare brevemente i principi teorici della Gestalt, ricorderemo in primo luogo che, per questa teoria, una Gestalt, o forma, è essenzialmente un insieme strutturato, una totalità le cui parti sono connesse non per
semplice giustapposizione o per casuale vicinanza, ma come elementi legati tra
di loro da un rapporto intrinseco e significativo, tale che la percezione della totalità è primaria rispetto a quella delle parti e che la condizione di « una parte ...
è determinata dalle leggi intrinseche proprie della Gestalt stessa» (Wertheimer).
La percezione della forma è qualche cosa di immediato, originario e significativo; l 'analisi volta alla ricerca degli elementi componenti non è che un artificio metodologico, una forzatura che svia dalla comprensione centrale del problema.
Gli psicologi della Gestalt considerarono le spiegazioni della scienza come
qualche cosa di diverso e di opposto all'esperienza ordinaria dell'uomo e, sotto
l'influsso della fenomenologia, rivendicarono l'importanza dell'esperienza immediata e posero l'accento sull'aspetto originario e innatistico della percezione.
Ciò però non li portò a posizioni di realismo acritico e ingenuo: essi tentarono
anzi - specialmente Kohler e Koffka - una mediazione tra scienza e teoria della
forma sostenendo la validità delle leggi della Gestalt tanto nel mondo fisico quanto
nel mondo dell'esperienza umana e la relativa concordanza delle teorie scientifiche
e delle conclusioni dell'esperienza diretta e originaria, non influenzata dall'espe-
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[][][][][
Alcuni esempi portati da Wolfgang Kohler per illustrare le leggi della Gestalt.
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rienza passata: « Il concetto di Gestalt ... attraversa la divisione di campi di esistenza, poiché è applicabile a ciascuno di essi» (Koffka). Le Gestalten si possono
ritrovare in natura (celebre l'esempio delle bolle di sapone), nei processi cerebrali, nell'esperienza cosciente.
A proposito dell'esperienza va notato che, nonostante ciò che per amor di
polemica si è spesso detto, i gestaltisti non hanno negato che l'esperienza passata
possa influenzare la percezione (vedi Katz, Gesta/t Pvchology [Psicologia della
Gesta/t]). La loro critica era rivolta piuttosto all'importanza concessa all'esperienza passata nei casi in cui si ha un'esperienza che non concorda con l'ipotesi
della costanza percettiva (nei casi, cioè, in cui la visione di una figura non concorda con l'esperienza che di essa noi abbiamo avuto in passato); la questione va risolta, secondo i gestaltisti, non mediante un'inferenza che nulla
nella nostra introspezione autorizza, bensì mediante le leggi di organizzazione
delle forme, per cui, ad esempio, noi percepiamo più facilmente delle particolari
strutture di stimoli (le «buone forme») rispetto ad altre (le «cattive forme»).
Questo ci riporta all'esposizione delle leggi stabilite dalla Gestalt-pvchologie.
Queste leggi sono numerosissime, tuttavia possono essere riassunte in alcuni
punti di particolare importanza:
a) Un campo percettivo è un sistema dinamico che tende a strutturarsi e in cui le
singole forme compaiono già organizzate; le relazioni intrinseche alle forme ne
costituiscono il significato che è immediato.
b) L'emergere delle forme in un campo percettivo è dovuta alle condizioni del
campo e alle relazioni formali esistenti fra gli elementi del campo stesso. Queste
relazioni sono quelle di « somiglianza », « prossimità », « simmetria », « chiusura », « continuità di direzione ».
c) Le forme si distinguono dallo sfondo, che è più indifferenziato, come figure
unitarie; sono più o meno complesse, più o meno buone (quelle buone tendono a
persistere; « pregnanza » delle buone forme) e più o meno forti (secondo che
possano essere analizzate con maggiore o minore facilità).
Kohler in particolare si spinse molto avanti nell'approfondimento della
teoria: egli notò che nelle scienze fisiche si rinvengono degli insiemi che non possono essere spiegati mediante una semplice addizione di parti (il campo elettromagnetico, ad esempio). Anche in psicologia bisogna fare uso della nozione di
« campo » e Kohler suppose che in corrispondenza di una percezione di una
forma vi siano dei processi fisiologici a livello del sistema nervoso centrale analoghi a quelli che determinano la costituzione degli insiemi fisici. Questi processi
sarebbero cioè dei sistemi in equilibrio che tendono ad essere massimamente semplici, simmetrici e regolari (esattamente come le forme fisiche). Queste caratteristiche di semplicità, simmetria e ordine vengono generalmente comprese entro
quella di « pregnanza ». Kohler ipotizzò quindi un « isomorfismo » fra i sistemi
di relazioni che si instaurano fra le zone corticali che ricevono gli stimoli prove34
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La nascita della psicologia scientifica
nienti da una determinata figura e le relazioni strutturali proprie al campo percettivo in cui è vista la figura stessa. Le nostre percezioni avrebbero dunque la
stessa struttura dei processi corticali sottostanti. Era un tentativo di superare l'antico dualismo fra mente e corpo che suscitò infinite polemiche.
La relativa debolezza di questa teoria non era tale però da fare vacillare l'intera costruzione dottrinale dei gestaltisti. La Gestalttheorie aveva obiettivi molto
più vasti: Koffka sosteneva che il suo scopo più generale era l'integrazione della
attività psichica col problema dei significati e dei valori.
L'errore delle correnti scientifiche, quelle che Koffka chiamava« positiviste »,
e del comportamentismo, era di non lasciare posto alle categorie del significato e
del valore. Kohler ammise in The piace of value che il « requisito significato »
non è fisicamente inerente agli oggetti, e come tale non si può rinvenire nel mondo
della fisica, tuttavia sostenne anche che il significato è immediatamente dato al
soggetto, senza necessità di inferenze analogiche dall'esperienza passata. Il bambino è in grado di cogliere assai presto il significato di un volto, di una espressione e di riconoscerli nelle più diverse situazioni anche se non vi è nulla nello
stimolo che possieda direttamente questo significato (e anche questo processo
viene riferito allo strutturarsi delle facoltà percettive e non alla esperienza;
come scrive Koffka, nei Fondamenti dello sviluppo mentale).
Le tesi gestaltiste sulla percezione e in particolare quelle sulla priorità del
tutto sulle parti e sulle relazioni di interdipendenza fra gli elementi, permisero un
fecondo allargamento della teoria anche allo studio del pensiero e dell'intelligenza.
La posizione classica sosteneva generalmente che l'atto di intelligenza interviene
in un secondo tempo sui dati percettivi elaborandoli mediante un processo di
astrazione. Kohler, attraverso i suoi studi sugli scimpanzè, respinse nettamente
tale posizione, dimostrando l'immediatezza della percezione di determinati rapporti e non di singoli elementi (vedi paragrafo vm). L'atto di intelligenza si ritrova proprio in una comprensione subitanea e immediata del problema (Einsicht,
Insight) in una trasformazione sia del campo percettivo che di quello neurofisiologico che avviene all'improvviso e che implica la percezione di collegamenti prima
non percepiti. Anche Duncker ha studiato a lungo le modalità attraverso cui si
attua, nel caso della soluzione di problemi, l'insight o i successivi processi di
insight (On problem solving [Sulla soluzione dei problemi, 1945]); Wertheimer ha
spinto più in là di ogni altro questo studio: egli ha distinto l'apprendimento meccanico dallo svolgersi del « pensiero produttivo » che scopre cioè nuove possibilità di strutturazione del campo e poi riesce a servirsene anche in condizioni che
possono apparire molto dissimili.
Nel campo strettamente psicologico la Gestalttheorie ha dato contributi
fondamentali agli studi sulla percezione, sia indicando dei punti di vista completamente nuovi su fatti già conosciuti, sia mettendo in luce e dando una spiegazione a fatti mai studiati. Le leggi di strutturazione del campo hanno validità
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predittiva in condizioni e con stimoli prossimali normali e sono state almeno
parzialmente accettate da tutte le correnti psicologiche del xx secolo.
Anche lo studio del pensiero è stato della massima importanza e ha consentito numerosi sviluppi sia in campo teorico che nelle applicazioni pratiche.
Per quel che riguarda l'aspetto teorico di più vasta portata, tradizionale appannaggio della ricerca filosofica, il contributo principale della psicologia della
Gestalt è stata la tesi che qualunque sia il responso della scienza, il punto di partenza di ogni scienza è necessariamente la realtà quale ·è comunemente percepita:
anche la fisica non avrebbe nemmeno potuto avere inizio se l'uomo non avesse
percepito in determinati modi il mondo esterno. La scienza potrà sostenere che
quello the noi pensiamo di percepire non è ciò che realmente percepiamo, tuttavia è alla realtà percepita che l'organismo reagisce e la psicologia non può dimenticarlo. Questo equivale a sostenere che il linguaggio descrittivo dell'esperienza comune non può essere ridotto al linguaggio della fisica. Merito della
psicologia della Gestalt è di avere indicato e sostenuto questa tesi non nuova con
una chiarezza ed un vigore prima sconosciuti.
VIII · LA PSICOLOGIA ANIMALE
Il rigido dualismo cartesiano tra uomo ed animale- solo l'uomo è dotato
di intelligenza, l'animale è semplicemente macchina- aveva dato luogo ad una
accesa polemica con i sostenitori della continuità tra intelligenza umana ed intelligenza animale. In opposizione al dualismo cartesiano le filosofie di Locke e di
Condillac avevano, con diverse modalità, assimilato i processi umani a quelli
animali. Il problema era stato poi affrontato in modo radicalmente nuovo da La
Mettrie, il quale aveva affermato che nell'universo non esiste che un'unica sostanza la quale assume varie modalità. La materia vivente è capace di attività, rigenerazione, sensazione, movimento e di tutte le altre proprietà, che, tradizionalmente, vengono spiegate ricorrendo ad un principio vitale o anima. L 'uomo non
è che l'esempio più perfetto di organizzazione della materia, ma tale organizzazione non è qualitativamente diversa nell'animale: questo possiede una ragione e una coscienza. La catena degli esseri non conosce interruzioni.
Furono in seguito le opere di Darwin ad imprimere una svolta fondamentale
al modo di considerare il problema e a segnare l'inizio della moderna psicologia
animale. Le sue opere più incisive sotto tale aspetto furono The descent of man (L'origine dell'uomo, 1871) e The expression of the emotions in man and animals(L'espressione
delle emozioni nell'uomo e negli anintali, 1872.). Invece di concepire la mente umana
come strumento ai fini della conoscenza. la teoria della continuità evolutiva prospettò le attività mentali come funzioni di adattamento all'ambiente. Da questo
conseguiva che tra attività psichiche animali e attività umane non c'è salto qualitativo ma unicamente una differenza di grado. Con questo la psicologia animale
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si liberò da ipoteche metafisiche e teologiche per diventare, al pari della psicologia
umana, una scienza strettamente legata alla fisiologia e alla biologia:. Soprattutto
in The deJcent of man Darwin sviluppò queste posizioni, concludendo che solo
il senso morale distingue gli uomini dagli animali, dal momento che anche gli
animali posseggono le stesse qualità dell'uomo e, sia pure a differenti livelli, sono
in grado di usare strumenti, di formare dei concetti, di servirsi di un linguaggio e
possono anche dimostrare un rudimentale senso estetico e sentimenti di venerazione e di rispetto.
La trattazione di Darwin era però ancora fondata su categorie acriticamente
mutuate dall'associazionismo e trasposte direttamente dall'uomo agli animali:
risentiva quindi di una forte tendenza antropomorfizzante.
Queste limitazioni furono anche del contemporaneo e amico di Darwin,
John Romanes (I848-94), scrittore, zoologo e sostenitore della teoria dell'evoluzione, il quale per primo in Animai lntelligence (L'intelligenza degli animali, I 88z)
usò il termine « psicologia comparata ». Il metodo aneddotico descrittivo di Romanes e il suo ingenuo antropomorfismo furono più tardi violentemente criticati; tuttavia egli ebbe il merito di raccogliere una enorme massa di materiale, che
una volta vagliata, permise lo svolgimento di un lavoro proficuo. Del resto Romanes stesso si pose il problema metodologico della scelta del materiale e stabilì
dei canoni di selezione che, per quanto nelle sue intenzioni rigorosi, non erano
tuttavia sufficienti. La tendenza ad antropomorfizzare trovava, d'altra parte, una
spiegazione nello scopo principale dell'opera che era quello di sostenere le teorie
darwiniane: il comportamento animale era perciò interpretato in base a processi
simili ai processi superiori umani per dimostrare la somiglianza e la continuità
tra le due specie.
·
La reazione al semp~cismo e alla scarsa scientificità dei metodi di Romanes
non tardò a manifestarsi e prese tre direzioni diverse: quella metodologica di
Lloyd Morgan, quella sperimentale di Thorndike, e quella meccanicistica di Loeb.
Nel I894 in lntroduction to comparative P!ycholo!!J (Introduzione alla psicologia comparata) si ebbe da parte di Conwy Lloyd Morgan (I852-I936) la formulazione del
« canone » o « legge di parsimonia », secondo il quale si deve rinunciare ad interpretare un'azione animale. come esercizio di un processo psichico superiore, se
si può interpretarla come esercizio di un'attività psichica di livello inferiore. In
questo modo si cercava di evitare ogni interpretazione antropomorfizzante; si
insisteva inoltre sulla necessità della sperimentazione, che in Lloyd Morgan non
fu mai tuttavia rigorosamente controllata in laboratorio.
Questo fu merito di Edward Lee Thorndike (vedi paragrafo v1) che già nella
sua tesi era arrivato ad importanti conclusioni sull'apprendimento (Animai lntelligence: An experimental study of the associative processes in animals [L'intelligenza
anin1ale: studio sperimentale dei processi associativi negli animali, I 898]). Egli si servì
per primo di gabbie da cui l'animale poteva uscire solo muovendo uno o più
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meccanismi posti all'interno (puzzle-boxes); l'animale, un gatto o un cane, generàlmente, compiva vari tentativi del tutto casuali per liberarsi. Thorndike elaborò
delle curve di apprendimento e sostenne che esso avviene attraverso prove ed
errori (trials and e"ors) e che il successo, sempre casuale, agisce come fattore che
accelera il raggiungimento del risultato in una prova successiva, poiché
evidenzia, e quindi fa ripetere all'animale, i movimenti che precedentemente
hanno portato ad una soluzione positiva(« legge dell'effetto»). Questa conclusione, come è chiaro, non implicava alcuna attribuzione di coscienza né di processi intellettivi superiori all'animale. L'effetto si aggiungeva dunque alla frequenza della ripetizione (Ebbinghaus) come fattore determinante l'apprendimento.
Negli Stati Uniti la psicologia animale ebbe larga diffusione in quanto era
congeniale all'atteggiamento funzionale, interessato allo studio delle capacità che
portano al successo, più che allo studio della consapevolezza e dell'introspezione.
Tra gli psicologi che più si distinsero in questa prima fase sperimentale della
psicologia animale bisogna ricordare Willard Stanton Small, Robert M. Y erkes, e
Walter Samuel Hunter. In generale questi studiosi tentarono di rendere più rigorosa, ma anche più « naturale », la situazione sperimentale, sostenendo che le
condizioni di laboratorio alterano spesso la condotta animale.
Il terzo tipo di reazione al carattere antropomorfizzante della prima psicologia animale provenne da Jacques Loeb (1859-1924), zoologo e fisiologo tedesco,
che lavorò per gran parte della sua vita negli Stati Uniti. Egli sviluppò il principio
meccanicistico dei movimenti forzati o « tropismi » nelle piante, in modo da poter
spiegare in base ad esso il comportamento animale, nell'opera Der Heliotropismus
der Tiere und seine Ueberstimmung mit dem Heliotropismus der Pflanzen (L'eliotropismo
degli animali e la sua concordanza con l'eliotropismo delle piante, 1 89o). Altre sue opere
famose furono Vergleichende Gehirnphysiologie und vergleichende Psychologie (Fisiologia
comparata del cervello e psicologia comparata, 1899) e Forced movements, tropisms and
animai conduci (Movimenti forzati, tropismi e condotta animale, 1918). Le teorie fisicochimiche erano per Loeb un fondamento sufficiente per lo studio della condotta
sia cosciente che non cosciente; egli propose inoltre di scegliere la memoria associativa quale criterio della coscienza, e stabili quindi che solo gli animali che non
mostrano di trarre profitto dall'esperienza sono privi di coscienza. (Negli stessi
anni Herbert Spencer Jennings [1868-1947] si oppose a una distinzione fondata
su tale criterio, dimostrando, attraverso i suoi esperimenti sui protozoi, che tutti
gli animali, anche quelli ai limiti inferiori della scala, mostrano una varietà e una
modificabilità di reazioni attraverso l'esperienza e che, quindi, anch'essi potrebbero essere ritenuti dotati di coscienza.)
Con la diffusione delle teorie di Loeb si ebbe, soprattutto in Germania, una
vasta reazione contro l'indeterminatezza, la confusione metodologica e l'assenza
di rigore sperimentale della psicologia animale. Ampia risonanza ebbe in particolar modo un articolo di Th. Beer, Albrecht Bethe e Jacob von Uexki.ill
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La nascita della psicologia scientifica
Vorschlage zu einer objektivirenden Nomenklatur in der P~ysiologie des Nerven~ystems
(Proposte per una terminologia obiettivante nella fisiologia del sistema nervoso, 1899), in
cui si proponeva di sostituire tutte le espressioni che potevano dare adito ad interpretazioni antropomorfizzanti con altre esclusivamente fisiologiche o almeno
neutre. Il behaviorismo in seguito, non avrebbe ritenuto sufficiente tale obiettivismo poiché esso ammette ancora due serie parallele di processi, fisici e mentali; tuttavia avrebht! fatto sue queste impostazioni metodologiche portandole
alle conseguenze estreme anche nel campo della psicologia umana. Del resto
il behaviorismo (vedi anche il paragrafo IX di questo capitolo) trasse le sue origini proprio dalla psicologia animale sperimentale, e Watson stesso compì i suoi primi studi sull'orientamento dei topi nel labirinto (Kinaesthetic and
organic sensations: their role in the reaction of the white rat to the maze [Le sensazioni cinestetiche ed organiche e il loro ruolo nella reazione del ratto bianco al labirinto,
I907]): egli concluse che l'apprendimento poteva dirsi l'effetto di una «memoria
cinestetica » del ricordo, cioè, dei movimenti, evitando così di applicare agli animali le interpretazioni derivate dalla psicologia umana. (I più importanti studi
di psicologia animale in campo behavioristico esulano tuttavia dai limiti cronologici di questo capitolo.)
Gli esperimenti di Wolfgang Kohler di cui si parla nel paragrafo vn, compiuti tra il I 9 I 3 e il I 9zo, sulle scimmie antropoidi si differenziarono dagli altri
studi di psicologia animale, sia per l'applicazione rigorosa dei principi gestaltisti,
che per l'originalità delle situazioni sperimentali.
Kohler offrì un rendiconto dei suoi studi in lntelligenzpriifungen an Menschenaffen (L'intelligenza delle scimmie antropoidi, 1917). Una parte di questi studi riguardano esperimenti di discriminazione visiva: Kohler · concluse che le scimmie
(come del resto le galline, che egli aveva pure esaminato) non percepiscono degli
stimoli isolati ma delle collezioni, o meglio delle relazioni tra stimoli; per cui
possono imparare a scegliere, ad esempio, tra due stimoli lo stimolo più chiaro,
anche se si mutano le gradazioni degli stimoli, purché il rapporto tra di esse
rimanga il medesimo (legge della « trasposizione »; la stessa, del resto, che
Ehrenfels aveva scoperto a proposito delle melodie). L'intelligenza si rivela proprio nella percezione di relazioni e può assumere la forma di insight anche presso
le scimmie. Proprio per studiare l 'intelligenza degli scimpanzè, Kohler escogitò
una serie di esperimenti che si differenziavano da quelli tradizionali di laboratorio,
in quanto cercavano di rispettare le condizioni ambientali abituali dell'animale:
egli sosteneva che la condizione sperimentale delle gabbie e dei labirinti poneva
l'animale in una situazione a lui incomprensibile e quindi generatrice di panico
(in tale situazione era quindi naturale che la soluzione fosse trovata solo per
caso). Gli scimpanzé di Kohler, posti in grandi gabbie all'aria aperta, dovevano
invece semplicemente raggiungere del cibo posto fuori dalla loro portata immediata, servendosi di strumenti (cordicelle, bastoni, casse) che trovavano all'interno
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La nascita della psicologia scientifica
della gabbia stessa, oppure seguendo un percorso che non era il più diretto, ma
tuttavia l'unico utile (esperimenti del détour). Se la situazione non era troppo complicata l'insight avveniva in modo subitaneo, altrimenti per tappe successive. Il
successo coincideva con lo stabilirsi di relazioni tra diversi oggetti, prima non
organizzati in un insieme: in definitiva con l'emergere di una Gestalt.
IX · LA PSICOLOGIA OGGETTIVA
L'aspirazione della psicologia a farsi scienza si era sempre scontrata con la
che l'oggetto proprio di questa scienza avrebbe dovuto essere in
gran parte costituito dai processi psichici.
Questo portava a serie difficoltà per quel che riguardava i procedimenti di
sperimentazione e di misura che volessero essere rigorosamente scientifici. I
tentativi di risolvere queste difficoltà provennero da due correnti distinte, che
ebbero un'evoluzione profondamente diversa, ma che si possono accomunare
sotto il profilo dell'esigenza di rigore: la scuola russa e il behaviorismo americano.
Ivan Michailovic Sechenov (I829-I905) può considerarsi il fondatore della
scuola russa: i suoi stretti contatti con studiosi europei, non gli impedirono di
sviluppare un'impostazione del tutto originale. Una delle sue prime opere. I
riflessi del cervello 1 (I 8 6 3) suscitò immediata risonanza e tra l'altro gli procurò delle
noie presso il comitato della censura di Pietroburgo: il libro fu proibito con l'accusa di materialismo. Sechenov sosteneva, sulla base dei suoi esperimenti, che i
riflessi spinali sono sottoposti ad un'azione inibitrice della corteccia o meglio di
un particolare centro di essa, e concludeva affermando che « tutti gli atti consci
o inconsci sono riflessi » e che quindi ogni esplicarsi di attività psichica ed intellettiva dipende da uno stimolo.
Se da un lato Sechenov tentò di ridurre la psicologia alla fisiologia, legittimando unicamente questo modo di affrontare i processi superiori, è tuttavia vero
"che egli allargò il tradizionale campo della fisiologia, accogliendo tra i suoi oggetti di studio anche i processi logici e le azioni volontarie, che altrove non furono presi in considerazione che molti anni più tardi. Nessun altro studioso europeo
aveva mai affermato la possibilità di studiare le attività superiori attraverso i riflessi:
tuttavia va sottolineato che nessuno, all'infuori dei suoi continuatori russi, raccolse e continuò la prospettiva di Sechenov.
Tra questi la figura di maggior rilievo è quella di Ivan Petrovic Pavlov
(I 849- I 9 36), medico e soprattutto celebre fisiologo, che compì i suoi studi più
importanti durante il lungo periodo in cui insegnò a Pietroburgo (I89o-r924).
La sua formazione si era compiuta oltre che in Russia anche in Germania (con
Ludwig a Lipsia e con Heidenhain a Breslavia: qui aveva scoperto i nervi secreconce~ione
nire il titolo della loro opera nella traduzione
italiana.
1 Come già per altri autori russi, dei quali
si parlò nel volume quarto, ci limitiamo a for-
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La nascita della psicologia scientifica
tori del pancreas nel 1899, iniziando così una lunga serie di ricerche in questa
direzione).
Fu proprio lo studio dei processi digestivi che condusse Pavlov alla sua più
celebre scoperta: i riflessi condizionati. Egli aveva portato all'esterno lo sbocco
dei canali digestivi nel cane per studiare la secrezione gastrica ed aveva osservato
che l'animale cominciava a secernere i succhi gastrici o la saliva quando « anticipava mentalmente » la presenza del cibo. Pavlov parlò prima di « secrezione psichica »,più tardi dei «cosiddetti processi psichici »e ancora più tardi, con l'evolversi delle sue ricerche, si servì del termine « riflesso condizionato », che aveva il
pregio di eliminare qualsiasi riferimento a fenomeni non sperimentabili obiettjv~mente.
-,
-Essenzialmente si tratta di questo: l'introduzione di cibo provoca sempre·
una secrezione salivare (riflesso incondizionato); se, contemporaneamente all'ir1-:
troduzione di cibo si fa agire un altro stimolo (elettrico, sonoro, ecc.), si nota che,
dopo un certo numero di ripetizioni, tale stimolo « improprio » è sufficiente a
provocare, da solo, la secrezione salivare (riflesso condizionato). Il riflesso condizionato, col passare del tempo, tende ad estinguersi e deve perciò di tanto in
tanto essere « rinforzato » mediante la presentazione dello stimolo « proprio »
accanto a quello « improprio ». Il riflesso condizionato è dunque un « apprendimento» che si attua attraverso l'associazione tra una reazione, che fa parte di un
riflesso incondizionato, ed un nuovo stimolo improprio o condizionato. Le prime
esperienze di Pavlov sembrarono portare ad una conferma neurofisiologica dell'associazionismo, ma in successivi esperimenti egli mise in luce differenze essenziali tra l'associazionismo classico e il condizionamento: da un punto di vista
teorico, infatti, l'associazionismo si fonda sull'introspezione, mentre i riflessi
condizionati sono obiettivamente osservabili in laboratorio; inoltre, da un punto
di vista sperimentale, mentre per l'associazionismo l'apprendimento ottimale si
ottiene nel caso in cui i due stimoli sono presentati contemporaneamente, nel
condizionamento tale risultato ottimale si ha nel caso in cui lo stimolo condizionato precede, anche se di una frazione di tempo assai piccola, il riflesso condizionato: è un « segnale », che « prepara l'attesa dello stimolo incondizionato » e permette all'organismo di prevederne la presentazione e di reagire di conseguenza.
D'altra parte, mentre il riflesso incondizionato appare dopo un tempo brevissimo
dallo stimolo, il riflesso condizionato appare dopo un periodo molto più lungo.'
Pavlov inferì da ciò che il riflesso condizionato deve percorrere delle vie nervose
più lunghe che il riflesso incondizionato. Egli sostenne che la regione in cui si
formano i riflessi condizionati è la corteccia cerebrale (più tardi però altri studiosi
dimostrarono che i riflessi condizionati si hanno anche in animali decorticati).
'rutta la dinamica dei riflessi poggerebbe su centri anatomici distinti a livello
corticale; a ogni stimolo differenziato (acustico, visivo, ecc.) corrisponderebbe
un centro corticale particolare ( « analizzatore »); naturalmente è necessario am41
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La nascita della psicologia scientifica
mettere un grandissimo numero di tali analizzatori. Ogni presentazione simultanea o quasi simultanea di due stimoli aumenterebbe l'associazione nervosa tra due
centri corticali, determinando l'« eccitazione ». Questa teoria del dinamismo nervoso è strettamente connessa con quella della « dominanza »: un centro nervoso
particolarmente importante attira a sé l'attività dei centri subordinati, semplificando e facilitando tale attività. Lo spegnersi di un riflesso condizionato è dovuto
all'« inibizione attiva » dello stato di eccitazione per il presentarsi di uno stimolo
disturbante; (per evitare questo inconveniente, Pavlov aveva fatto costruire per i
suoi esperimenti le famose «torri del silenzio», in cui gli stimoli erano rigorosamente controllabili e non era possibile l'interferenza di uno stimolo disturbante).
Questo primo tipo di inibizione« esterna», va distinto dall'« inibizione interna»,
che si ha con lo spegnersi spontaneo del riflesso, sia per effetto del tempo che per
cause connesse con rinforzi troppo prolungati. In questo caso, secondo Pavlov,
si ha un processo che tende a preservare i centri e le vie nervose da uno stato di
eccitazione troppo forte. Anche il processo di inibizione può essere, d'altra parte,
condizionato, e l'inibizione è un fenomeno transitorio che tende a scomparire
(questo spiega il ristabilirsi di riflessi condizionati che parevano dimenticati).
Secondo Pavlov, durante l'inibizione zone corticali più o meno ampie sono inattive, tagliate fuori. Se questo fenomeno si estende a tutta la corteccia, l'animale si
trova in una condizione di inibizione generalizzata che corrisponde a uno « stupore motorio » e che, a seconda dell'intensità, Pavlov chiamò «ipnosi» o
«sonno».
Soprattutto il problema dell'inibizione e della discriminazione fu sviluppato
dagli studi di Pavlov e della sua scuola conducendo a contributi originali anche nel
campo dei processi umani. Fu proprio in questo senso, infatti, che si tentò di
estendere la teoria dei riflessi condizionati. Tale estensione· permise un 'impostazione nuova dell'osservazione dei comportamenti umani. È chiaro infatti che il
riflesso condizionato è un mezzo obiettivo di osservazione che sostituisce l'introspezione, un tipo di «linguaggio» che permette l'osservazione e la misurazione
diretta del rapporto stimolo-riflesso senza dover ricorrere a concetti ambigui e
quantitativamente non definibili, quali coscienza, processo psichico, ecc. Pavlov
si rese perfettamente conto dell'importanza metodologica della sua teoria e ne
auspicò l'estensione anche ai campi classici della psicologia, dominio incontrastato fino ad allora del soggettivismo e dell'introspezione. Tuttavia egli ritenne
fondamentalmente di muoversi nel solo campo della fisiologia, di cui la psicologia
poteva al massimo essere una parte: egli negava cioè la possibilità della psicologia
come scienza autonoma.
Negli ultimi anni Pavlov propose varie interpretazioni su basi riflessologiche
sia dei tipi caratteriologici che delle più note psicopatologie, e anche in questo
senso i suoi studi hanno avuto degli sviluppi in anni recenti.
È necessario ancora ricordare la teoria generale dei processi nervosi e del-
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La nascita della psicologia scientifica
l'adattamento all'ambiente che Pavlov fu in grado di elaborare in base ai suoi studi
sperimentali. Gli animali superiori e l'uomo sono dotati di tre sistemi di segnalazione: un primo sistema, comune all'uomo e agli animali superiori, è costituito dai
riflessi incondizionati (nella terminologia classica: istinti, emozioni, affetti, ecc.),
che permettono un adattamento limitato e che sono integrati dall'attività dianalisi e di sintesi dei centri cerebrali, esclusi i lobi frontali. I centri cerebrali sono
sede dei riflessi condizionati (secondo sistema di segnalazione) e permettono appunto un'attività associativa. Tale secondo livello è l'ultimo cui possono giungere gli animali superiori; l'uomo, invece, ha per di più la possibilità di un terzo
sistema di segnalazione, costituito dal linguaggio, che consente l'elaborazione dei
segnali del primo sistema, la loro simbolizzazione, astrazione e generalizzazione.
Questo terzo sistema permette un grande adattamento dell'uomo all'ambiente
ed è l'elemento costitutivo della scienza, intesa come espressione massima di
questo adattamento. I tre sistemi sono dinamici e soggetti a continue oscillazioni
ed il prevalere eccessivamente prolungato ed esclusivo dell'uno sull'altro può
portare a diverse patologie. Secondo Pavlov, tuttavia, i diversi adattamenti cui
il prevalere di un sistema sull'altro può condurre sono modificabili attraverso
un apprendimento che, introducendo nuovi riflessi condizionati, muterà l'equilibrio (su questi principi infatti si baserà in gran parte lo sviluppo di alcune terapie in campo clinico).
Estese anche al comportamento umano le teorie di Pavlov apparvero affini
alle concezioni del materialismo dialettico e furono assunte come fondamento
ufficiale della psicologia sovietica sia in campo teorico che nelle applicazioni pratiche della pedagogia, della psichiatria, dello studio del lavoro.
Gli scritti di Pavlov contenenti le sue posizioni teoriche e i rendiconti dei
suoi studi sono raccolti nell'edizione delle opere complete curata dall'Accademia
delle scienze dell'Unione Sovietica; bisogna ricordare tuttavia in modo specifico
almeno Le lezioni su/lavoro delle principali ghiandole gastriche 1 (I897) e la raccolta
delle lezioni sui riflessi condizionati, la cui prima parte è Vent'anni di studio obiettivo sull'attività nervosa superiore degli animali (I923), mentre la seconda parte raccoglie gli studi sull'applicazione in campo psichiatrico della teoria dei riflessi
condizionati.
Ancora per quel che riguarda la psicologia russa di questo periodo va ricordata l'opera di Vladimir Michailovic Bechterev (I857-I927) più orientato verso
la psichiatria e che continuò la battaglia contro la psicologia soggettivistica ed introspezionistica specialmente in Psicologia obiettiva (I 9 I o) e Principi generali della
rijlessologia umana (I9I7)· Non fu uno sperimentatore, né respinse il concetto di
coscienza, tuttavia sentì fortemente l'esigenza di una descrizione dei processi
psichici unicamente in termini obiettivi. Continuò lo studio dei riflessi condizionati particolarmente per quel che riguarda il problema dell'apprendimento del
linguaggio.
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La nascita della psicologia scientifica
Negli Stati Uniti l'esigenza di una psicologia obiettiva diede origine, come si
è detto, al movimento behaviorista. Mentre da un lato esso risentì dell'influenza
di Dewey, soprattutto quale mediatore, attraverso la psicologia funzionale, delle
istanze dell'evoluzionismo e della dottrina dell'adattamento all'ambiente, dall'altro fu determinante l'ideale di scientificità cui miravano gli studiosi del comportamento animale nel loro ripudio di ogni indebita introduzione di concetti
non osse:rvabili. Influenza decisiva sul behaviorismo ebbe infine la dottrina dei
riflessi condizionati di Pavlov e di Bechterev e la loro rivolta antiintrospezionistica.
Fondatore del behaviorismo è John Broadus Watson (1878-1958) che, come
si è detto (vedi paragrafo vm) iniziò i suoi studi occupandosi di psicologia animale. Watson si propose la costruzione di una psicologia scientifica contrapposta
al soggettivismo classico. Solamente metodi « obiettivi » avrebbero assicurato alla
psicologia il raggiungimento di quei fini che egli reputava propri della scienza:
la previsione e il controllo. « Obiettivo » era per lui un procedimento tale da
consentire a diversi osservatori un accordo intersoggettivo riguardo ai medesimi
oggetti di studio, mentre l'introspezione non usciva dalla sfera del soggetto. La
fisiologia era per Watson la strada da seguire in questa trasformazione della psicologia; egli riteneva infatti, che la psicologia potesse essere ridotta alla fisica
(i fenomeni psichici non sono che processi molecolari) previa la trascrizione dei
processi psichici in processi fisiologici.
Una delle sue prime opere, Behavior: an introduction to comparative psychology (Comportamento: una introduzione alla psicologia comparata, 1914) ripete l'affermazione che la
psicologia animale deve essere obiettiva, sperimentale e non antropomorfizzante.
Del pari obiettivo e sperimentale, si sostiene nella stessa opera, deve essere lo studio del comportamento umano. Successivamente in Psychology from the standpoint ofa
Behaviorist (La psicologia dal punto di vista behavioristico, 1919) e in Behaviorism (Il
behaviorismo, I 92.4) egli sviluppava le sue tesi fornendo un rendiconto del suo
lavoro sperimentale nell'ambiente naturale e in laboratorio e concludendo con un
rifiuto radicale del metodo introspettivo, della coscienza, oltre che dell'attività immaginativa e della mente stessa. Oggetto della scienza è il comportamento: da
ciò consegue il rifiuto del dualismo di mente e corpo. La distinzione tra campo
biologico e campo mentale è un falso problema perché, di fatto, solo il comportamento è osservabile e quindi scientificamente controllabile. Il comportamento
non è che la risposta dell'organismo all'ambiente, risposta che si attua a vari livelli
(livello dell'attività nervosa, ghiandolare, motoria) fino a giungere allivello massimo, costituito dal linguaggio, Watson affermò che «ogni comportamento, sia
umano che animale, è analizzabile in termini di stimolo e di risposta, e l 'unica
differenza tra uomo e animale ... è la complessità del comportamento ». Anche il
linguaggio, tuttavia, è visto in termini puramente comportamentistici: dietro di
esso non vi sono immagini mentali e il pensiero non è che un'« attività implicita
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La nascita della psicologia scientifica
della laringe ». La complessità del comportamento è descritta in termini di abitudini, integrazioni e modificazioni di reazioni semplici del tipo stimolo-risposta
mediante una sostituzione di stimoli (egli adottò anche, in un secondo periodo,
la terminologia pavloviana dei riflessi condizionati, sebbene di Pavlov respingesse le teorie neurologiche e tipologiche. Anche Bechterev fu da Watson criticato per la sua accettazione del concetto di mente, per quanto il metodo comportamentistico fosse assai vicino a quello della psicologia obiettiva dello psichiatra
russo).
Inizialmente Watson definì le emozioni e gli istinti come strutture innate di
risposte che possono essere condizionate (le une interne, le altr.e esterne). Più
tardi però egli ridusse di molto l'importanza delle strutture innate, affermando
che il condizionamento, il quale può avere luogo anche prima della nascita, ha un
ruolo preponderante. Tale affermazione era sostenuta anche dalle sue osservazioni
e dai suoi esperimenti di condizionamento su neonati e bambini.
Nelle sue formulazioni estreme il behaviorismo di Watson si rivelò piuttosto
sterile e i suoi continuatori furono costretti ad allontanarsi, in misura più o meno
rilevante, dal rigore metodologico iniziale, onde smuovere la teoria dall'immobilismo cui il rigido monismo del fondatore l'aveva confinata. Eliminato ogni antropomorfismo dalla psicologia animale, si era tuttavia ridotto l'oggetto della
psicologia umana a quegli aspetti che più avvicinano l'uomo all'animale. L'uomo
~ppariva privo di mente, un semplice meccanismo. Le teorie fisiologiche di
Watson, infine, non hanno mai ricevuto conferma. Dal punto di vista filosofico,
d'altra parte, la teoria behaviorista trovò il suo sbocco più fecondo nelle elaborazioni datene dall'operazionismo e dall'empirismo logico, che ne posero in risalto
l'esigenza di scientificità e di rigore. Le posizioni estreme del behaviorismo di
Watson, tuttavia, non trovarono seguito in psicologia: le moderne teorie dell'apprendimento e la teoria comportamentale in campo clinico (behavioral theraP.y)
sono più strettamente legate alle dottrine di Pavlov che a quelle di Watson.
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CAPITOLO TERZO
L'esigenza di una <<scienza sociale >>: il costituirsi della sociologia
DI PIN A MA DAMI
I · PREMESSA
Nel XIX secolo in Europa, dopo la rivoluzione francese, che aveva ratificato
un nuovo assetto economico e segnato internazionalmente sul piano politico la
vittoria della classe borghese, detentrice dei mezzi di produzione, si assiste al
consolidamento del dominio capitalistico.
L'utopia dei pensatori della rivoluzione francese si era concretata in credenze
!egalitarie, e nella fiducia che l'attuazione di tali ideali avrebbe condotto ad una
società armoniosa. Contemporaneamente, la rivoluzione industriale dava nuove
dimensioni alla classe proletaria salariata, sul cui lavoro si basava il profitto e
l'accumulazione capitalistica e che già nella rivoluzione francese aveva avuto un
sia pur relativo peso politico.
L'affacciarsi alla ribalta politica di questa nuova classe, lungi dal dare ai rapporti economici un equilibrio stabile e definitivo, come era negli interessi della
borghesia, creava delle contraddizioni profonde che mettevano in pericolo l'assestamento capitalistico già al suo sorgere. Con l'industrializzazione nasceva
infatti il problema delle condizioni sociali del proletariato. In questa fase il proletariato mancava ancora di una sua organizzazione e, dato che il suo sviluppo va
sempre di pari passo con lo sviluppo dell'industria, esso mancava anche delle
condizioni materiali per la sua emancipazione.
D'altra parte la letteratura rivoluzionaria del tempo, pur cosciente dell'antagonismo di classe e di molte contraddizioni esistenti, si limitava ad analizzarle
in senso critico ma, non riuscendo ad avere una visione storica dello sviluppo del
proletariato, ricercava una prospettiva al di fuori e al di sopra di questo stesso
sviluppo. I suoi fini erano rivolti alla ricerca di una scienza sociale fondata su leggi
che proiettavano il superamento della realtà immediata in condizioni immaginarie. I s~oi contenuti erano reazionari, in quanto il riferimento era alla società globalmente intesa e ai miglioramenti delle condizioni di esistenza del proletariato,
concepito come classe che soffre, non come classe antagonista che ha potenzialmente
la forza di lottare e di abbattere l'oppressione capitalista. A questa stregua le contraddizioni venivano risolte invocando come strumento adatto una scienza soda-
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L'esigenza di una « scienza sociale »: il costituirsi della sociologia
le che si appellava ad una società senza distinzioni, ad una fantastica società futura.
La sociologia risponde dunque a questa duplice esigenza: da un lato, il bisogno della classe al potere di conoscere le condizioni sociali del suo insediamento
per meglio dominare gli antagonismi di classe; da un altro lato la prospettiva pacifica dei critici della società che, lasciando immutato lo status quo dei poteri migliorasse le condizioni del proletariato. L 'incontro di una esigenza profondamente
reazionaria di dominio di classe e la mancanza di una visione storica dello sviluppo del proletariato convergono nella costituzione di una supposta scienza sociale che, rafforzando la coesione sociale, lasci immutati i rapporti di produzione.
Socialismo utopistico e potere borghese concorrono alla edificazione di una
pseudo-scienza: si costituisce la sociologia, la caratteristica della quale è la sua
astoricità e cioè l'interpretazione del reale al di fuori del rapporto storico determinato. I suoi inizi sono empirici da un lato, con le grandi ricerche sociali in Francia
e in Inghilterra, sistematici dall'altro con Auguste Comte e Herbert Spencer.
II · IL SOCIALISMO UTOPISTICO
Charles-Auguste Comte ha gettato i fondamenti della sociologia in modo
organico e sistematico, coniandone anche il termine; ma il suo contributo non
può essere compreso se non ci si richiama alla situazione politico-economica della
Francia e a coloro che immediatamente prima di lui hanno posto il problema dello
studio della società con strumenti scientifici e postulato l'esigenza di una scienza
sociale. Ci riferiamo soprattutto a Claude-Henri de Saint-Simon (di cui Comte fu
per un certo tempo segretario e collaboratore) e a Charles Fourier.
La nascita dell'industria capitalista moderna aveva definitivamente messo in
crisi il vecchio ordinamento sociale e sanzionato la fine dell'organizzazione artigianale del lavoro, della tradizionale configurazione dei mestieri, e aveva generato una nuova classe sociale: il proletariato industriale urbano. Lo sviluppo
dell'industria richiedendo grandi capitali, comportava l'accentramento della
ricchezza nelle mani di pochi, mandava in rovina la piccola borghesia artigiana,
e non lasciava posto ai piccoli produttori indipendenti. Il lavoro in fabbrica
rendeva chiaro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo, determinava la divisione
pa.rcellare del lavoro e il passaggio da condizioni stabili a condizioni insicure.
L'organizzazione industriale aveva bisogno di masse operaie che dovevano
vivere vicino al luogo di lavoro. Questo rendeva necessario l'addensarsi della
popolazione, l'abbandono delle vecchie forme di vita ed esasperava il problema
della separazione tra città e campagna. L'impiego delle donne e dei fanciulli nel
lavoro di fabbrica metteva in crisi l'istituto familiare. Questa fase primitiva del
capitalismo mancava di regolamentazioni e del minimo rispetto dei diritti dei
lavoratori, i quali vivevano in condizioni sanitarie disastrose con salari bassissimi, e senza tutela alcuna.
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
Nel campo politico la rivoluzione francese aveva segnato la vittoria della
grande borghesia che cercava ora una stabilità di potere; ma le contraddizioni
aperte, sia per la sopravvivenza di vecchie forme feudali, sia per l'organizzazione
delle nuove forme borghesi rendevano precaria questa ricerca di stabilità; ne
nacquero delle prolungate crisi politiche ed economiche che caratterizzarono la
travagliata storia dell'assetto politico francese dopo la rivoluzione. Come aveva
dimostrato il Terrore, le masse storicamente non erano ancora in grado di conquistare il potere perché la produzione capitalistica era solo agli inizi e non esisteva un proletariato organizzato capace di un'azione politica indipendente.
Quest'ultimo si presentava come « un ceto oppresso sofferente al quale, nella
incapacità in cui era di aiutarsi da se stesso, un aiuto poteva tutt'al più portarsi
dall'esterno, dall'alto». (Engels)
Le opere di Saint-Simon e di Fourier nascono dalla coscienza di questa realtà
e ne sono una testimonianza. Lo stato secondo ragione auspicato dagli illuministi
si era rivelato debole e contraddittorio, aveva acuito il contrasto tra ricchi e poveri, non aveva realizzato né gli ideali né le promesse proclamati dai filosofi della
rivoluzione, aveva generato forme sociali di vita difficili e misere. Di conseguenza si erano prodotti uno scoraggiamento e una mancanza di fiducia nelle istituzioni politiche e amministrative che si erano rivelate incapaci di realizzare lo
stato ideale fino allora vagheggiato. Come dice Engels: « Confrontate con le
promesse degli illuministi, le istituzioni sociali e politiche istaurate con il trionfo
della ragione si rivelarono caricature e amare delusioni.»
Saint-Simon e Fourier attaccarono le vecchie teorizzazioni politiche e morali
e attribuirono ad esse la responsabilità dello stato di cose che si era determinato.
Rifiutando la metafisica, che per loro era retaggio di uno stadio non sviluppato
della società, cercarono di fondare lo studio della società sulle scienze che in
quel periodo avevano avuto un eccezionale sviluppo.
La sfiducia nelle tradizionali forme di sapere e della conoscenza impostate
su basi speculative li portò a concepire degli strumenti nuovi per affrontare il
problema della società, strumenti non più desunti dalle vecchie filosofie politiche
e morali, ma da esperienze scientifiche e ancorate alle solide basi dell'osservazione e dell'esperienza.
Per spiegare lo stato presente dell'umanità era opportuno affrontare il problema della società e creare uno strumento di intervento efficace non più legato
alle vecchie filosofie che nulla avevano prodotto. La soluzione doveva essere
concepita in termini di società e non di individui, di scienza « positiva » e non
« astratta »; bisognava creare un ordine nuovo legato a uno schema teorico
e a un modello logico che servisse al progresso dell'umanità. L'analisi della società doveva partire da questi presupposti e trasformarsi in scienza sociale;
inoltre le soluzioni date dovevano essere passibili di sperimentazione. La diagnosi
che Saint-Simon e Fourier fanno delle contraddizioni esistenti è acuta ma essi
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
non riescono a organizzarla in una prospettiva storica e una supposta scienza asciale ne diventa la utopistica soluzione.
Questi scrittori che pur vedono nell'economia la base dell'organizzazione
sociale non si rendono conto che lo sviluppo dell'industria contiene già in sé i
prodromi di profonde contraddizioni che potranno essere risolte solo con l'organizzazione del proletariato e la rivoluzione socialista, che strapperà alla borghesia il suo potere.
Abbiamo già sottolineato però che le condizioni storiche non erano mature
per permettere agli utopisti di intravvedere i futuri possibili sviluppi della classe
proletaria. Saint-Simon e Fourier colgono nella storia l'aspetto del progresso dell'umanità, già messo in luce da Condorcet, ma non la dialettica di questo progresso,
e, rivolgendosi alla società globalmente intesa, finiscono per credere che le possibilità di sviluppo e di soluzione esistano all'interno stesso della borghesia .
.La dottrina di Saint-Simon è stata già illustrata nel volume quarto: sottolineeremo come egli veda nell'epoca moderna lo sviluppo di una nuova epoca
organica che deve organizzarsi intorno a una idea centrale, a un valore condiviso;
questo valore Saint-Simon lo vede nello sviluppo dell'industria e nell'elevazione
a ceto dirigente degli scienziati e dei tecnici. Egli divide il mondo tra lavoratori
e oziosi e cerca di dimostrare che l'esistenza di una classe politica che non ha
alcuna funzione utile porta sperpero e miseria, mentre una organizzazione della
società con una gerarchia di scienziati e di tecnici tesa ad una maggior produttività avrebbe portato sicuri vantaggi sia alla classe borghese sia alla classe proletaria, e anzi la prima si sarebbe avvantaggiata del benessere della seconda.
Il carattere utopistico di questo antistorico tentativo di stabilizzazione sociale,
porterà Saint-Simon a tradire lo spirito razionalistico scientifico a cui egli si ispira
e lo sbocco sarà quella nuova metafisica, che nulla ha più di scientifico, da lui
annunciata nel Nuovo Cristianesimo. Egli traspone una contraddizione reale in
una sognante utopia reazionaria che trasforma i problemi sociali in crisi delle
coscienze individuali che sopperiscono ai mali della società in modo volontaristico e non scientifico.
Charles Fourier (I772-I837) svela la miseria che sottende al progresso della
società. Di questa egli critica ferocemente tutti gli aspetti, li denuncia come falsi
e ipocriti e si rivolge allo studio del sistema generale della natura per cercare i
fondamenti di sviluppo della società.
Nella Théorie des quatre mouvements et des destinées générales (Teoria dei quattro
movùnenti e dei destini generali, I 8o8) egli parte dalla constatazione che dopo la
catastrofe del I 79 3 si vide chiaramente che i « lumi » acquisiti non avrebbero portato al bene sociale ma avevano prodotto calamità indicibili: prima fra tutte il
pauperismo. Ne conseguiva che era necessario allontanarsi dalle strade seguite
fino allora dalle « scienze incerte » (e per « scienze incerte » egli intende la morale,
la politica, e l'economia) e rivolgersi alle «scienze fisse» che avevano posto l'os-
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L'esigenza di una « scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
servazione e la spe:rimentazione alla base dei loro :risultati. La storia, per Fou:rie:r,
è passata attraverso quattro fasi di sviluppo: stato selvaggio, barbarie, stato patriarcale e civiltà; questa ultima coincide con lo stato borghese e si muove in un
circolo vizioso dilaniato da contraddizioni irresolubili. Per superare questo circolo
vizioso occorre che la :ragione si prefigga come unico studio :risoluto:re la teoria
dei quattro movimenti (sociale, animale, organico e materiale) e quindi il sistema
generale della natura. Procedendo attraverso il metodo del doute absolu, Fourie:r
denuncia l'errore commesso dai filosofi illuministi cioè quello di aver posto in
dubbio solo problemi di carattere secondario come la religione e non invece la
necessità stessa delle scienze politiche e morali, a causa dei loro pregiudizi e del
loro orgoglio. Attraverso il metodo dell'écart absolu :rifiuta le scienze incerte,
non considera la civiltà come punto di arrivo e, vedendo nel« trono» e nell'« altare » delle inutili alternative, cerca una soluzione possibile sotto ogni tipo di
governo.
Come Newton e Leibniz nel campo materiale avevano svelato le leggi della
gravitazione universale, così egli pensa di ricercare le leggi dell'armonia universale nel campo sociale. Le passioni dell'uomo fin qui dirette male debbono essere
indirizzate verso il loro centro di gravitazione naturale, cioè l'armonia. La :realizzazione di questo ideale si compirà attraverso un esperimento verificabile, che è
la creazione di falansteri; questi sono delle associazioni di Soo uomini e donne dove
l'organizzazione, pu:r basandosi sull'interesse per il guadagno e per il piacere, viene
a trasformarsi in un miglioramento per tutti nel lavoro collettivo e nella comunità.
L'imitazione e la moltiplicazione per forza di attrazione di questi falansteri condurranno all'era felice, risparmiando all'umanità rivoluzioni sanguinose e lunghe
pagine di storia di miseria e di dolore. La necessità dei falansteri è provata dal
rapporto esistente tra associazioni agricole e monopolio commerciale, che esercita una funzione :repressiva ed è causa di gravi inconvenienti. Per eliminare
questi inconvenienti si è dimostrata indispensabile la :rio:rganizzazione delle associazioni agricole, ma gli economisti indirizzati solo verso il perfezionamento industriale non hanno saputo impostare il problema del loro funzionamento. Esse
debbono essere perciò studiate e concepite in modo « scientifico » sia riguardo al
numero dei partecipanti sia riguardo alla loro organizzazione. Fourier costruirà
un sistema prendendo a prestito le classificazioni matematiche e gli strumenti
scientifici elaborati dalle « scienze fisse ». Egli tenterà inoltre di creare personalmente un falansterio a Condé-sur-Vire nel 1832 ..
Nel tentativo di eliminare la miseria presente Fourier si rifugia in fantasticherie utopistiche :ricadendo nella irrazionalità e nella mancanza di scientificità.
Così la sua costruzione risulta a sua volta una « scienza incerta » o meglio una
pseudo-scienza astratta.
Malgrado le carenze oggettive di queste visioni, questi uomini ci hanno lasciato un'ottima documentazione sulla realtà a loro contemporanea. Saint-Simon
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
aveva capito che l'economia era un momento determinante della sua epoca;
Fourier aveva acutamente denunciato i mali di cui era gravido il nuovo stato
sociale. La loro esigenza di cercare degli strumenti razionali per analizzare la società in cui vivevano era legittima, ma essi non seppero sollevarsi all'ampiezza
di una visione dialettica dell'uomo e della storia e non individuarono la possibilità rivoluzionaria della contraddizione tra proletariato e borghesia. Lo stesso
loro bisogno di un ordine sociale definitivo si trasformerà in Comte in un piano
organico funzionale al mantenimento dello status quo. La borghesia si approprierà di questa teoria e cercherà di definirla come « scienza razionale » per dimostrare che le contraddizioni al suo interno sono solo delle disfunzioni, passibili
di superamento nella realizzazione del suo sistema.
III · CHARLES-AUGUSTE COMTE
La valutazione critica del pensiero di Comte rispetto alla storia della sociologia deve necessariamente tener conto del fatto che « il fondatore della sociologia » non è un « sociologo » nel senso che oggi si attribuisce a questo termine.
Comte concepisce la sociologia come la scienza dei fenomeni sociali e dei
rapporti umani, ma la società stessa è considerata all'interno di un sistema di valutazione e comprensione di tutta la storia del pensiero.
La preoccupazione di Comte di valutare ogni fenomeno con metodo positivo, scevro cioè da implicazioni di carattere metafisica, porterà in seguito alla
misurazione del fatto sociale attraverso parametri oggettivi e assimilabili ai metodi delle scienze naturali (che per Comte sono già affrontate con metodo positivo), ma in Com te la sociologia non è una scienza autonoma bensì il compendio
e il punto di arrivo finale di tutte le scienze. Vedremo meglio in seguito le ragioni di questa affermazione; ciò che importa sottolineare è il differente significato che ha per Comte la sociologia rispetto a coloro che dopo di lui si dedicheranno alla vera e propria definizione del campo di indagine e dei metodi che le
sono propri.
Nel volume quarto si è già parlato lungamente della filosofia di Comte
e del positivismo; qui noi ci riferiremo soprattutto a quegli aspetti di Com te che
serviranno in seguito come giustificazione « razionale » e « scientifica » per la
creazione della sociologia vera e propria.
Abbiamo già visto come coloro che in seguito verranno chiamati socialisti
utopisti hanno reagito nei confronti della società industriale e come la delusione
dello stato secondo ragione li aveva spinti a considerare che i mali presenti della società dovevano essere affrontati con strumenti nuovi che essi indicavano nella
prospettiva di una scienza sociale, che si ispirasse nei metodi alle scienze naturali, che fosse come esse « esatta », che si articolasse intorno ad un « principio
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
unico » come era stata la legge di gravitazione per le scienze naturali; avevano
denunciato le contraddizioni tra l'affermazione della società industriale e i mali
che essa generava, tra l'avanzare del progresso tecnico e la non corrispondenza
di un miglioramento nelle condizioni di vita dei lavoratori, era stata adombrata
nell'economia e nei rapporti di produzione una fonte delle contraddizioni e dei
mali della società e perfino la proprietà era stata posta sotto accusa se non nel
suo diritto di esistenza, almeno nei suoi modi. Essi però non erano andati al di là
della denuncia delle condizioni della società a loro contemporanea e le fantasticherie utopistiche da loro create avevano poco a che fare con i presupposti razionali
a cui pure avevano voluto ispirarsi.
Carote mutua dai socialisti utopisti e in particolare da Saint-Simon l'esigenza
di una scienza sociale e si accinge alla costruzione di essa per dare una solida base
alla riorganizzazione della società. Ma se da Saint-Simon Carote deriva l'esigenza
di una scienza sociale, da Condorcet e dagli illuministi mutua la nozione di progresso e in questa duplice prospettiva concepisce un sistema organico che, tenendo conto dei risultati delle scienze in continuo progresso, dia una prospettiva
di equilibrio e di stabilità.
Carote afferma che il problema sociale è tale che non può essere risolto immediatamente, che occorre risolvere prima altri problemi di ordine teorico e che
la nuova organizzazione sociale deve poggiare su basi scientifiche, deve soddisfare
alle due esigenze fondamentali del cammino dell'umanità: quelle dell'ordine e del
progresso. Le soluzioni alle crisi presenti non possono essere empiriche o immediate come molto spesso i politici credono, ma debbono essere demandate alla
scienza, che ·è previsione e quindi azione, quando la riflessione scientifica avrà
indicato a cosa tendeva il cammino dell'uomo, allora solamente si potrà ancorare
l'organizzazione sociale a qualche cosa di stabile e definitivo tale, che si compia
il disegno a cui la stessa umanità era indirizzata.
Comte vuole creare una politica positiva, che abbia la ragione come guida,
che si ispiri ai principi scientifici e che sia coerente nelle sue realizzazioni e nelle
sue prospettive. Ciò rappresentava a suo giudizio la risposta più soddisfacente
allo stato di disorganizzazione e di anarchia in cui si dibatteva la società del suo
tempo; tale condizione era conseguenza della rivoluzione francese e, piu in generale, della critica operata dalla cultura settecentesca. I politici si rifiutavano di
considerare i fenomeni sociali nelle loro implicazioni teoriche più ampie; essi
prospettavano risposte empiriche e soluzioni immediate ai problemi della società. La reale soluzione richiede invece di essere affrontata con l'ausilio di strumenti teorici adeguati. L'efficacia e la persuasività di tali strumenti viene posta
in rilievo da Carote mediante un'accurata analisi dello sviluppo storico della società stessa. Egli ritiene che ormai sia possibile studiare la società con l'aiuto del
metodo positivo, con un metodo cioè libero da implicazioni metafisiche, per cui
si cessa di ricercare le cause dei fenomeni e se ne ricercano invece le leggi. L'età
p.
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
presente dimostra secondo Comte che il tipo di società teologico-militare che era
stato predominante ma ormai in disfacimento, deve essere sostituito da una società nuova determinata dallo spirito positivo. Ciò viene provato sulla base della
legge che Comte pensa di aver scoperto, la legge dei tre stadi, per cui l 'umanità
passa necessariamente attraverso tre fasi: la fase teologica, quella metafisica e
quella positiva. A ciascuna fase corrisponde un differente modo di riflessione sulla
società; oggi l'umanità ha raggiunto la sua piena maturità perché ha visto nella
scienza l'unico strumento capace di cogliere gli sviluppi della storia e del pensiero.
La verità della legge dei tre stadi è dimostrata anche dall'evoluzione delle scienze
che Comte classifica secondo un ordine che va dalla più semplice e più analitica
(matematica) alla più complessa e più sintetica (sociologia).
Ogni scienza ha progredito attraversando le tre fasi successive che si ripetono
per ogni singola scienza come per la società nel suo complesso. Della legge dei
tre stadi e della classificazione delle scienze secondo Comte si è già lungamente
parlato nel capitolo xv del volume quarto; noi qui richiameremo il fatto che per
Comte la sociologia è l'ultima tra le scienze, quella che può nascere al momento
in cui l'umanità ha raggiunto la più alta possibilità di astrazione e di riflessione,
cioè nel momento in cui prende per oggetto la sua stessa storia e la sua organizzazione. La sociologia, che Comte chiama in un primo momento fisica sociale,
utilizza i risultati raggiunti dalle altre scienze, dimostra che il cammino dell'uomo è unitario e permette di capire meglio il passato stesso chiarendo quali
sono state le leggi del progresso.
La fiducia nella sociologia positiva deve scaturire, secondo Comte, dalla presa
di coscienza dello stato di irrimediabile anarchia in cui si trova la società a lui
contemporanea. Questo stato di anarchia è la conseguenza di un lungo processo
storico che ha portato a deteriorarsi sempre di più le organizzazioni sociali conseguite allo stadio teologico contemporaneamente all'affermarsi dei principi dello
stadio metafisica. Ciò che è caratteristico è il fatto che lo stato di grave confusione in cui versa la società cui Comte fa riferimento scaturisce principalmente
dalle contraddizioni sorte all'interno della visione teologica che non trovano soluzione in quella metafisica. In effetti, la sola organizzazione coerente della società è
quella teologica; la politica metafisica svolge una funzione eminentemente critica
ed è incapace di proporre proprie soluzioni organiche. Ne risulta che, al deteriorarsi della coerenza e dell'armonia teologica, frutto della critica metafisica non è
subentrata una nuova organizzazione della società e si è giunti a uno stadio ibrido
della vita sociale caratterizzato necessariamente dalla sfiducia e dalla incapacità di
operare secondo prospettive unitarie e sistematiche. Così lo spirito teologico si
muove continuamente in contraddizioni; non c'è dubbio che lo sviluppo delle
scienze, dell'industria e delle arti è stata la causa principale della crisi dello spirito
teologico, ma la politica teologica non può opporsi a questo sviluppo perché non
può impedire il cammino della storia e il progresso dell'uomo ed è quindi costretta
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L'esigenza di una « scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
continuamente da questo sviluppo a far concessioni che risultano contradittorie
con i principi cui si ispira. Cosl lo spirito metafisica, nel suo momento più
alto, nella fase più avanzata della rivoluzione francese, si è dimostrato incapace
di ricostruire una unità organica ed ha proposto soluzioni ancor più utopistiche,
incoerenti e superate di quelle teologiche; infatti lo stato di natura non appare
altro che una trasformazione della condizione dell'uomo prima del peccato originale; il richiamo alla società greca e romana, le condanne dello sviluppo industriale, come le numerose derivazioni dallo spirito teologico (la dottrina della
religione naturale per esempio) sono tutte manifestazioni gravi di incoerenza e
indicative della incapacità intrinseca dello spirito metafisica a proporsi la riorganizzazione della società; una volta che l'antico regime politico è stato quasi completamente distrutto e che la dottrina critica ha assolto il suo compito, la sua incapacità da un punto di vista filosofico di procedere in modo coerente e sistematico diventa di grande ostacolo all'affermazione dei principi razionali. Il pensiero
metafisico per Comte non è altro che una tappa necessaria del cammino dell'intelligenza umana, momento che lega la distruzione dell'antico ordine e l'affermazione del nuovo, ma il prolungamento di un simile stato può diventare
negativo e ritardare l'avvento di una nuova armonia. Il modo che ha Comte di
intendere lo sviluppo del pensiero discende dalla particolare concezione che
Comte ha della ragione. Secondo Comte infatti è impossibile che il pensiero
critico possa assurgere a ordine normale e permanente perché questo vorrebbe
dire prendere l'eccezione per la regola in quan.to l'attività normale della ragione
ha bisogno di punti fermi su cui far perno dogmaticamente; lo scetticismo invece
costituisce una sorta di perturbazione patologica dell'attività della ragione (normali sono invece le conoscenze che si pongono secondo un piano organico e coerente, come quello teologico e positivo) necessaria, ma che occorre superare al
più presto. Comunque, da un punto di vista più ampio, spirito teologico e spirito
metafisico presentano la comune caratteristica di possedere un metodo fondato
più sull'immaginazione che sull'osservazione e una dottrina volta esclusivamente
alla ricerca di nozioni assolute. Tipico dello spirito positivo è invece la relativizzazione delle conoscenze.
Il passaggio dall'assoluto al relativo è una dei più importanti risultati a cui
è giunto il pensiero scientifico ed è da attribuirsi al passaggio dallo studio delle
cause, necessariamente assoluto, allo studio delle leggi dei fenomeni, necessariamente relativo. « Ogni studio della natura intima degli esseri, delle loro cause
prime e finali ecc., deve evidentemente essere sempre assoluto, mentre ogni ricerca delle sole leggi dei fenomeni è eminentemente relativa, perché essa presuppone immediatamente un progresso continuo della riflessione subordinata al perfezionamento graduale dell'osservazione, senza che l'esatta verità possa essere
mai, in alcun genere, perfettamente svelata: di modo che il carattere relativo delle
conoscenze scientifiche è necessariamente inseparabile dalla vera nozione delle
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costit1,1irsi della sociologia
leggi naturali, nello stesso modo che la chimerica tendenza alle conoscenze assolute accompagna spontaneamente un qualsiasi impiego di finzioni teologiche o
entità metafisiche. » La relatività della conoscenza è dunque un'altra caratteristica che accompagna e caratterizza il pensiero positivo.
Una volta affermata la superiorità dello spirito positivo sugli altri momenti
e la necessità di un'affermazione generalizzata del medesimo che permetta la soluzione all'anarchia presente e la vera riorganizzazione della società, Comte si accinge a costruire la sociologia positiva, l'ultima e la più complessa delle scienze.
Gli ultimi tre volumi del Cours de philosophie positive, l'opera più importante di
Comte, sono interamente dedicati alla sociologia; essa si compone di due differenti branche: la statica e la dinamica sociale che corrispondono alle due categorie dell'ordine e del progresso.
Le nozioni di ordine e di progresso sono essenziali per Comte, sono gli strumenti metodologici che gli permettono di analizzare la società; essi sono due
aspetti coesistenti e non alternativi, come invece per lungo tempo si è creduto;
infatti solo nel sapere positivo essi si integreranno mentre ancora sembrano essere
contraddittori laddove i conservatori si rappresentano come i difensori dell'ordine e i rivoluzionari gli assertori del progresso. Ciò contrasta con la visione
che ha Comte della totalità del fatto sociale nel suo complesso: «L'ordine e il
progresso, che l'antichità riteneva come essenzialmente inconciliabili, costituiscono sempre di più, a causa della natura della civilizzazione moderna, due condizioni ugualmente imperiose, di cui l'intima e indissolubile combinazione caratterizza ormai sia la difficoltà fondamentale che la principale risorsa di ogni autentico sistema politico. Nessun ordine reale può essere stabilito, né soprattutto
durare, se non è pienamente compatibile con il progresso; nessun grande progresso può effettivamente essere raggiunto, se non tende alla fine ad un evidente consolidamento dell'ordine.» (Il riferimento alle scienze biologiche è significativo « le nozioni reali di ordine e di progresso debbono essere in fisica sociale, rigorosamente indivisibili così come lo sono in biologia le nozioni di organizzazione e di vita, da cui agli occhi della scienza, evidentemente derivano».
Ne consegue che ogni scissione in biologia come in.sociologia sarebbe inopportuna e irrazionale.)
La statica e la dinamica sociale sono due elementi connessi entro la visione
del tutto della società, che deve essere, qui come sempre, -l'assunzione fondamentale e primaria per Comte. La dinamica sociale è lo studio della società, l'indagine volta a determinare l'evoluzione necessaria della società attraverso la
legge dei tre stadi.: La statica sociale è lo studio del modo in cui in ogni epoca
l'umanità si è organizzata intorno a una idea centrale e come questa « idea centrale» ha determinato «il consenso» da parte di tutta l'umanità (La religione
nello stadio teologico era il perno di coesione della società, essa generava il
« consenso » e determinava la stabilità della società).
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
« Lo studio statico dell'organismo sociale deve coincidere al fondo, con la
teoria positiva dell'ordine, che non può in effetti consistere in fondo altro che
in una giusta armonia permanente a diverse condizioni di esistenza delle società
umane; si vede, parimenti, ancora più sensibilme~te che lo studio dinamico della
vita collettiva dell'umanità costituisce necessariamente la teoria positiva del progresso sociale che, scartando ogni vano pensiero di perfezione assoluta e illimitata, deve naturalmente ridursi alla semplice nozione di questo sviluppo fondamentale. » Attraverso lo studio della statica e dinamica sociale apparirà chiaro
lo stadio positivo come punto di arrivo della società; la generalizzazione del
pensiero positivo permetterà il ricostituirsi dell'ordine e questo maggior livello di sviluppo raggiunto provocherà la fine dell'anarchia di cui è preda la società in mancanza di un « consenso » generale. Questo processo storico è già in
atto poiché l'uomo tende a una solidarietà naturale spontanea; occorre solo che
esso sia reso esplicito. C'è infatti un'armonia organica tra le parti del sistema
sociale, specifica di ogni determinato stadio dello sviluppo, riflesso però di un'armonia più ampia e superiore che sussiste sempre anche nelle epoche rivoluzionarie propriamente dette. È chiaro quindi che statica e dinamica tendono a comporsi in una prospettiva organica e unitaria, a profitto della visione armonica
generale. Si tratta di un rapporto derivato spontaneamente da una struttura naturale originaria che si deve assumere e perfezionare continuamente. Comte con
questa sua prospettiva realistica si riconnette alla problematica generale dell'illuminismo. «La nozione dell'armonia sociale conduce direttamente a considerare
l'ordine artificiale e volontario come un semplice prolungamento di quell'ordine
naturale e involontario verso cui tendono senza posa necessariamente, sotto un
rapporto qualunque, le diverse società umane. » Così, le diverse strutture sociali
si realizzano, ad ogni stadio dello sviluppo, nel modo più avanzato possibile e
sono manifestazioni necessarie di un movimento spontaneo, naturale; le anomalie
che si possono riscontrare non inficiano la costante regolarità dell'evoluzione. I
fenomeni sociali, come tutti i fenomeni, sono sottoposti a leggi invariabili e necessarie; le norme che regolano la coesione dei vari momenti dello sviluppo della
società, come quelle che sono alla base dello sviluppo stesso sono scritte nella
natura; la loro individuazione coincide con il progressivo disvelarsi della realtà
sociale.
Una volta che sarà ricostituito l'ordine intorno alla idea centrale, il consenso
generato permetterà di dirigere le ricerche verso un sempre maggior sfruttamento delle risorse naturali e un aumento costante della ricchezza. Questa prospettiva si colloca all'interno del riassestamento dei :rapporti sociali creati dalla
società industriale che è la realizzazione che si accompagna al pensiero positivo.
La società industriale che implica l'organizzazione :razionale del lavoro sembra
essere fonte di contraddizioni tra imprenditori e lavoratori solo perché ambedue
non si ispirano nello svolgimento delle loro funzioni ad una politica positiva.
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L'esigenza di una « scienza sociale »: il costituirsi della sociologia
«L'industria moderna tende evidentemente a espandere continuamente le
sue imprese, ogni estensione raggiunta determina subito la nascita di una superiore. Ora questa tendenza naturale, lungi dall'essere sfavorevole ai proletari, è
la sola che permetterà la sistemazione della vita materiale, quando sarà regolata
da un'autorità morale. Poiché è unicamente a dei chefs puissants che il potere filosofico imporrà dei reali doveri abituali in favore dei loro subordinati. »
Un'autorità morale deve regolare i rapporti tra gli uomini e imporre i principi dell'ordine universale. Gli interessi tra imprenditori e lavoratori dovranno
convergere e questo impedirà l'aggravarsi di crisi e nuove guerre. Questa contraddizione è infatti esaltata e messa in luce dai « metafisici » che nella loro opera
critica tendono alla distruzione e non all'ordine, e incapaci di soluzioni reali prospettano soluzioni utopiche quali il «comunismo». L'autorità morale è retaggio
dei « savants » che forti del « pouvoir philosophique » determineranno le funzioni sociali di ciascuno.
Nel Cours de politique positive Comte aggiungerà alla classificazione delle
scienze l'etica. L'ultima parte del pensiero di Comte, come è stato già riferito
nel capitolo anzidetto, è stata oggetto di molte discussioni e varie sono state
le interpretazioni sul significato delle ultime affermazioni comtiane; noi non
affronteremo questa disputa né ripeteremo affermazioni già esposte. Ai fini della
concezione che Comte ha della sociologia non ci sembra che le sue ultime affermazioni siano contraddittorie con la sua concezione della medesima né che tolgano nulla al significato che Comte dà al termine sociologia. In realtà la religione
della scienza creata da Comte con usi e costumi rigidamente definiti non è contraddittoria con la visione del mondo che egli ha, perché oggetto di venerazione
sarà sempre la scienza stessa se pur trasferita nel campo del sentimento. Anzi
questa stessa coerenza, o se si vuole ambivalenza, è sempre presente nel pensiero
sociale di Comte; si ha nel momento stesso in cui Comte afferma che la forza di
coesione di una società risiede nel consenso generale a una concezione del mondo.
Questo consenso assurge allora a forza assoluta e diventa per ciò stesso un imperativo di carattere religioso; ma tale sentimento di partecipazione e di sottomissione non ancorato a elementi strutturali e oggettivi, diventa difficilmente
assimilabile alla ragione. In realtà ciò che Comte afferma nella statica sociale,
che la società si è sempre organizzata intorno a un sistema condiviso di valori
morali, generalizzato e determinante il consenso, è una delle affermazioni essenziali di Comte. Se indubbiamente ha capito e sottolineato l'importanza della
religione nello stadio teologico come fattore di coesione generante ordine e stabilità di potere, assumendo poi questo elemento a principio generale, è caduto
nell'errore di credere che nella società industriale era fattore determinante per la
società un'acquisizione intellettuale, quale quella del metodo di analisi positiva, piuttosto che la contraddizione creata dal conflitto capitale-lavoro. Tenuto
conto di questo è evidente che la filosofia di Comte diventa, nell'analisi reale della
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L'esigenza di una « scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
società industriale, una visione parziale e incapace di cogliere il tessuto connettivo
dei rapporti sociali. In questo senso i sociologi che verranno dopo di lui erediteranno da Comte gli elementi meno significativi del suo pensiero e attaccando in lui
«il filosofo» daranno della sua opera una interpretazione riduttiva. L'entusiasmo
di Comte per il pensiero positivo darà origine a una pseudoscienza apologetica
della società borghese che nasconderà dietro l'obiettività della scienza i meccanismi di conservazione e di sfruttamento. Gli eredi di Comte in sociologia
abbandoneranno lo storicismo e la finalizzazione della scienza e accoglieranno
di lui proprio quella costruzione di ingegneria sociale che accettando la realtà
come un punto d'arrivo indiscusso cercasse i modi in cui si determina «il consenso». Per molti sociologi, l'autorità morale può veramente fugare il fantasma
della lotta di classe.
IV · HERBERT SPENCER
La sociologia di Spencer nasce in una situazione politico-culturale assai differente da quella in cui era maturato il pensiero di Comte; essa riflette la tradizione culturale inglese specifica, differente da quella francese, e le conseguenze
derivate dalle diverse modalità di ascesa al potere della borghesia inglese rispetto
a quella francese. La borghesia francese infatti era diventata classe dominante di
recente attraverso una rivoluzione violenta che aveva sconvolto l'assetto sociale
esistente, mentre la borghesia inglese aveva già da due secoli preso il potere e
lo aveva consolidato costruendo la società più avanzata nel processo industriale;
inoltre la rivoluzione francese fu essenzialmente laica e combatté la religione cattolica perché strettamente legata al vecchio ordine sociale e perché oscurantista e
antiprogressista, mentre la religione inglese protestante esaltava maggiormente i
valori dell'individuo e non aveva costituito un grande sostegno politico-economico del feudalesimo.
Se quindi per Comte la sociologia deve dare una risposta ai disordini e riassestare un equilibrio sociale che è minacciato (questo equilibrio può essere raggiunto attraverso l'affermazione dello spirito scientifico), per Spencer la sociologia deve giustificare l'ordine .già esistente, esaltando la funzione dell'individuo
e del libero scambio e nello stesso tempo deve aprire alle innovazioni la società
borghese lasciando immutata la sua ideologia e la sua sicurezza. Questa è la matrice di quella conciliazione operata da Spencer di cui si parlerà nel capitolo v
del presente volume. Ai fini di questo capitolo l'interesse sarà appuntato sulla
visione che Spencer ha della sociologia di cui fu, insieme a Comte, uno dei padri.
La sociologia per Spencer è la scienza che verifica la legge generale dell'evoluzione nel campo dei fenomeni sociali. Come si vedrà nel capitolo già menzionato, secondo lui i principi più generali della scienza moderna sono quelli della
conservazione della materia e dell'energia, nonché la legge dell'evoluzione che
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L'esigenza di una « scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
regola la continua ridistribuzione di materia e di energia. Questa legge è applicabile ad ogni specie di fenomeni; come in ogni altra scienza è infatti il principio
evoluzionistico che potrà chiarire la genesi e lo sviluppo dell'organizzazione sociale. Il principio evoluzionistico si estende dunque nelle specie inorganica, organica e superorganicache sono momenti dell'unico sviluppo generale della natura.
L'evoluzione superorganica riguarda i fenomeni psichici e si manifesta negli
aggregati organici più sviluppati, nei quali è presente qualche forma di cooperazione, ma « quella forma di evoluzione superorganica che immensamente supera
tutte le altre, in estensione, in complessità, in importanza è mostrata dalle società
umane nei loro sviluppi, nelle loro strutture, nelle loro funzioni, nei loro prodotti... i fenomeni in essa compresi sono raggruppati sotto il nome di sociologia ». Dato che ògni specie di evoluzione si attua sempre attraverso il passaggio
dal semplice al complesso, dall'omogeneo all'eterogeneo, dall'indefinito al definito, il parallelo tra sviluppo inorganico, organico e superorganico è per Spencer una costante che serve a dimostrare l'unità del processo e la possibilità di
creazione di una scienza deduttiva. L'evoluzione sociale pur non sottraendosi
alle stesse leggi delle altre specie, ha però la caratteristica di essere la più complessa
perché avviene a un grado di sviluppo già raggiunto dalle altre.
La genesi della società viene descritta da Spencer relativamente ai fattori
che ne condizionano il sorgere. I fattori originari primi si riferiscono sia al mondo
inorganico e organico sia alla natura dell'uomo, ai suoi sentimenti, alle sue emozioni. Nei suoi stadi primitivi l'evoluzione sociale dipende da una combinazione
di circostanze favorevoli e i fattori esterni quali il clima, la flora, la fauna, il suolo
e la superficie sono fondamentali perché generano le condizioni che permettono
la sopravvivenza. L 'uomo primitivo è in preda a sentimenti ed emozioni immediate ed impulsive, ma è suscettibile di sviluppo e capace di accumulare progressivamente esperienze e riflessioni sulla sua stessa natura e su quella delle cose
circostanti. Così il timore dei vivi è il sentimento che origina il potere politico,
mentre il timore dei morti dà origine alle credenze religiose. Il processo evolutivo
della lotta per la vita si snoda attraverso l'azione combinata dei fattori interni ed
esterni all'uomo; la capacità di accumulazione spiega la genesi di tutti quei prodotti tipici dell'evoluzione superorganica, come il linguaggio, la scienza, l'arte.
L'evoluzione rende l'uomo atto a modificare l'ambiente circostante e a cooperare
con gli altri.
Dalla prima forma di cooperazione esistente che è la famiglia, all'orda primitiva, alla tribù fino alle società più evolute le trasformazioni si svolgono secondo
una prospettiva di sempre maggior integrazione che rende necessarie strutture
e funzioni sociali sempre più elaborate, che evolvono verso una complessità crescente e una differenziazione progressiva. La società pur essendo una entità che
ha una sua propria vita, nella misura in cui esistono relazioni permanenti tra le
parti che contribuiscono alla conservazione dell'ordinamento, viene però da
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L'esigenza di una « scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
Spencer concepita essenzialmente per il vantaggio dei suoi membri. La sociologia di Spencer è fortemente individualistica: la società è spiegata solo attraverso i rapporti tra i suoi membri. « La scienza della sociologia, muovendo
dalle unità sociali così condizionate, e così costituite in quanto al corpo, in
quanto alle emozioni, in quanto all'intelligenza, e così imbevute di certe idee originariamente acquisite e dei correlativi sentimenti, ha il compito di spiegare
tutti i fenomeni che risultano dalle loro azioni combinate. »
Al sorgere dell'organizzazione sociale si delineano due differenti funzioni relative ai due caratteri della lotta per la vita: la necessità di aggredire e di difendersi e il bisogno di sostentamento. « Quando dalle tribù primitive, punto differenziate, si passa alle tribù immediatamente superiori, si trovano classi di padroni e schiavi; padroni che, come guerrieri, esercitano le attività difensive e offensive della tribù, e quindi sono particolarmente in relazione con le forze circostanti; schiavi che esercitano attività interne per il sostentamento generale, in
primo luogo dei loro padroni, e in secondo luogo di loro stessi. » Da questa semplice struttura primitiva sorgono in virtù del processo evolutivo funzioni sempre
più differenziate e strutture sempre più complesse. Si originano sistemi regoladvi e nutritivi più elaborati. La classe dominante che presiede al sistema regolativo organizzerà l'apparato statale, mentre il sistema nutritivo si differenzia in
sistema produttivo e sistema distributivo con la creazione di canali di comunicazione; l'organizzazione religiosa sarà fornita di gradi gerarchici e cerimoniale,
mentre la classe dominata moltiplicherà le sue funzioni sempre in posizione subordinata. La classificazione dei tipi di società viene condotta sulla base del genere
predominante di attività sociale cui corrisponde una determinata fase dell'organizzazione della società. I due tipi sociali che si contrappongono essenzialmente sono
il militare e l'industriale. La società militare tende a sviluppare strutture atte a
compiere azioni offensive c difensive. Nella società industriale saranno predominanti le strutture che si occupano del sostentamento e le strutture difensive e
offensive sono mantenute al solo fine di proteggere le attività industriali. È ovvio
che i due sistemi coesistono sempre ma variano le proporzioni tra i due. Il tipo
militare corrisponde a un momento arretrato dello sviluppo sociale. Caratteristica della società militare è l'accentramento dell'autorità, la cooperazione forzata
tra gli individui, la forte disciplina, l'organizzazione della produzione vista solo
in funzione delle strutture governative e militari, un clero fortemente gerarchizzato, e una religione vendicativa. « Questa struttura, che rende una società atta
all'azione combinata contro altre società, è associata alla credenza che gli individui esistano a vantaggio del tutto, e non il tutto a vantaggio degli individui. »
La società industriale ha invece strutture e funzioni molto diverse. Il governo
politico è rappresentativo, si ha un alto senso dei diritti personali, una maggiore
libertà politica, la cooperazione è volontaria. « Dalla primitiva condizione di vita
predatoria, in cui il padrone mantiene gli schiavi affinché lavorino per lui, si
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
passa per gradi di libertà crescente fino a una condizione come la nostra, in cui
imprenditori e lavoratori, compratori e venditori, sono tutti completamente indipendenti, e in cui v'è facoltà illimitata di costituire associazioni, che si governano con principi democratici.» Gli affari si effettuano attraverso il libero scambio, l'organizzazione religiosa è meno gerarchizzata, si hanno pluralità di credenze;
in genere i rapporti tra cittadino e stato sono opposti a quelli esistenti nella società militare: «Invece della teoria che il dovere dell'obbedienza all'agente del
governo è illimitato, sorge quella che suprema legge è la volontà dei cittadini,
della quale l'agente del governo non è se non l'esecutore.»
Spencer è un convinto assertore della società industriale; la vede come affermazione dell'individuo, trionfo della democrazia e della libertà e premessa
di conquiste ancora maggiori. Prospettando una società futura come ulteriore
sviluppo di quella industriale, contrappone alla credenza (propria di questa società) «la vita è fatta per il lavoro», la credenza « il lavoro è fatto per la vita».
Abbiamo già detto come la sociologia di Spencer è strettamente collegata
alla società inglese del suo tempo. Egli risente dell'ideologia della classe liberaiborghese, utilitarista e individualista, che plaude al libero scambio e afferma la
superiorità della democrazia parlamentare. È soprattutto questo il lato importante della concezione di Spencer, lo spirito che pervade la sua opera non molto
rigorosa, ma aderente al bisogno del suo tempo. La filosofia della storia di Comte
pur nei suoi intenti indubbiamente conservatori, aveva elaborato, con rigore e
coerenza, una prospettiva capace di cogliere e valutare tutto lo sviluppo della
storia e del pensiero; Spencer invece costruisce tutta la sua opera sulla base dell'estensione generica e impropria del principio dell'evoluzione dalla biologia alla
società, e coglie di quest'ultima gli aspetti superficiali ed esterni. Egli manca di
un'approfondita analisi storica, riduce i fenomeni sociali a rapporti di relazioni
all'interno della società, ricerca nel passato solo una verifica empirica di costanti
parziali e astoriche, dà alla sociologia un compito eminentemente descrittivo e
frantuma la realtà nei vari aspetti senza un collegamento storico. Non ha capito
lo sforzo di Comte di cercare le leggi del processo storico in una visione unitaria,
coerente e finalizzata, volta ad affermare una cultura laica e libera da ogni substrato
metafisica. Pur ammettendo la relatività della conoscenza, Spencer riconosce
un ruolo alla religione, descrive e non cerca nessi, giustifica e non finalizza; la
stessa distinzione tra società industriale e militare è vaga e imprecisa senza una
indagine storica che realmente dimostri l'avvicendarsi di questi tipi. Oggi della
sua opera è rimasto poco; è però vero che insieme a Com te ha determinato lo
sviluppo della sociologia che è rimasta fondamentalmente descrittiva e incapace
di cogliere il reale senso del cammino della storia. La società americana, la cui
ideologia molto deve a Spencer lo ha per lungo tempo glorificato, come assertore dei diritti dell'individuo, come sostenitore degli astratti ideali della libertà
e della den;ocrazia.
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V · ÉMILE DURKHEIM
Con Émile Durkheim la sociologia precisa la sua fisionomia e acquista una
sua autonomia. Comte era ancora un filosofo della storia, Spencer applica in modo
generale la legge dell'evoluzione alla società, Durkheim entra invece nel vivo dei
fenomeni sociali, delimita un campo di indagine e lo affronta con strumenti
propri. Egli, pur riconoscendo a Comte e a Spencer di aver impostato il problema, contesta loro di non essere usciti da generalizzazioni sulla società, rimprovera loro di essere ancora filosofi e come tali, causa il loro soggettivismo, viziati
da implicazioni metafisiche. Rivaluta l'empiria come fonte di conoscenza e l'uso
di strumenti specifici e adeguati al campo che vuole studiare. Si riallaccia a Comte
e a Spencer ma se ne discosta insieme; ha ancora bisogno di affermazioni teoriche
generali sulla società, ma le verifica subito empiricamente nell'analisi di fenomeni
sociali come il suicidio e la divisione del lavoro. Durkheim è già un « sociologo »
moderno, con tutti i limiti che ciò comporta e con l'esposizione del suo pensiero
entriamo nel vivo della sociologia moderna. Abbandonata la ricerca di leggi dello
sviluppo storico, viene esaltata la funzione descrittiva dei singoli fenomeni sociali e dei nessi causali che essi presentano.
Émile Durkheim nasce a Épinal da famiglia ebrea nel I858. Studia filosofia a
Parigi all'École normale. Molto presto si dedica allo studio delle scienze sociali,
nel I 887 a Bordeaux ottiene la cattedra di scienze sociali. Nel I 893 sostiene la
sua tesi di dottorato De la division du travail social (La divisione del lavoro sociale)
che è la sua prima opera importante. Egli afferma che questa opera è un tentativo
di trattare i fatti morali secondo il metodo delle scienze positive. La sociologia
è la scienza della morale; il suo oggetto di studio sono i fatti sociali, di cui la divisione del lavoro è un esempio. L'analisi della divisione del lavoro gli permette
di opporre alla visione individualistica e utilitaristica della società la visione di
una società che ha una propria entità e che è esterna e costrittiva rispetto all'individuo. Nel I 89 5 pubblica Les règles de la méthode sociologique (Le regole del metodo sociologico) che è un tentativo di sistemazione metodologica per affrontare lo studio
dei fatti sociali in modo oggettivo e quindi scientifico. Nel I 897 pubblica Le
suicide (Il suicidio) che è la prima ricerca empirica fondata sulla base di statistiche.
In questa opera Durkheim esemplifica il suo metodo mediante l 'uso di parametri oggettivi quali le statistiche, e afferma che il suicidio è un fatto sociale e
deve essere studiato indipendentemente dall'incidenza dei fattori individuali.
Nel 1 898 inizia la pubblicazione de « L 'année sociologique », una delle più importanti riviste di sociologia. Nel I9oz diventa professore di scienza dell'educazione e di sociologia alla Sorbona; nello stesso anno pubblica L'éducation morale
(L'educazione morale) che è una raccolta delle sue lezioni. È dello stesso anno la
seconda edizione del De la division du travail social con una nuova prefazione nella
quale propone in forma sistematica come soluzione ali 'anomia esistente il corpo-
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L'esigenza di una « scienza sociale »: il costituirsi della sociologia
rativismo. Nel 1912 pubblica il suo ultimo lavoro Les formes élémefllaires de la vie
religeuse (Le forme elementari della vita religiosa), altra opera fondata su dati empirici
nella quale elabora una teoria delle religioni. All'avvento della prima guerra
mondiale, Durkheim fu interventista contro la Germania. Muore nel novembre
1917. Viene pubblicato postumo Le socialisme (Il socialismo) che è la raccolta di una
serie di lezioni tenute alla Sorbona.
L'opera di Durkheim è accentrata intorno a quello che Comte definiva« statica sociale ». Più specificamente il problema che Durkheim si pone è quello
dell'ordine e dei suoi fondamenti come elemento necessario alla salute morale
della società. Egli nega validità alle teorie utilitaristiche e contrattualistiche che,
basando sull'individuo l'analisi dei fenomeni sociali, sono insufficienti a chiarire
le ragioni della struttura sociale e del sistema normativa e afferma che l'ordine è
frutto di una coscienza collettiva e non di un contratto. Per dimostrare la sua tesi
prende in esame la divisione del lavoro, che gli economisti ritenevano essere la
risultante di un sistema teso al maggior soddisfacimento dei bisogni individuali
e all'aumento della produttività, e gli attribuisce una funzione morale.
La divisione del lavoro come ogni altro fenomeno sociale deve essere spiegato
attraverso la causa che lo ha prodotto e il bisogno a cui corrisponde che equivale
alla funzione che esso ricopre. Le cause oggettive della divisione del lavoro sono
per Durkheim l'aumento della popolazione e la densità dinamica, cioè il moltiplicarsi del numero dei rapporti sociali; la sua funzione specifica è quella di
ricreare un nuovo tipo di solidarietà. Il fondamento della società è infatti per
Durkheim la solidarietà che non è determinata dall'individuo ma dalla coscienza
collettiva, esterna rispetto all'individuo e cogente. Nelle società primitive, nei
piccoli gruppi fortemente integrati, in cui gli individui sono intercambiabili e
sono predominanti i sentimenti collettivi, domina un tipo di solidarietà che
Durkheim definisce meccanica. Nelle società più avanzate, ad alto grado di differenziazione, dove è generalizzata la divisione del lavoro, si sviluppa un tipo di solidarietà che Durkheim chiama organica. Il consenso nella prima è generato dalla
somiglianza, nella seconda dalla differenziazione. La divisione del lavoro non ha
dunque fondamento negli interessi individuali utilitaristici ma ha una base morale extraindividuale perché l'accrescersi della società indebolendo la coscienza
. collettiva deve ricrearla segmentandosi in gruppi omogenei quali appunto sono
quelli che sorgono dalla divisione del lavoro e dalla specializzazione dei compiti.
Durkheim arriva a teorizzare il corporativismo come fondamento morale dell'ordine all'interno di una società. Pretende che i risultati della sua indagine siano
frutto di un'analisi scientifica della società quale è appunto l'analisi sociologica
ancorata a una metodologia oggettiva e quindi scientifica. Per Durkheim la scientificità è strettamente legata all'oggettività e da questa considerazione deriva la
regola fondamentale da lui enucleata: i fatti sociali devono essere considerati
come cose. Quest'affermazione sarà la base per la costruzione di una pretesa me-
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
todologia delle scienze sociali che superando il soggettivismo proprio dei filosofi permetterà la comprensione positiva dei fatti sociali.
Nelle Règles de la méthode sociologique Durkheim chiarirà il suo metodo e fornirà
gli strumenti per l'indagine sociale. Per Dutikheim i «grandi sociologi precedenti» (Comte, Spencer, ecc.) sono rimasti nell'ambito di una visione generale
relativa alla natura della società, ai rapporti tra tl regno sociale e quello biologico,
al cammino generale del progresso. Perché la sociologia sia effettivamente una
scienza occorre invece liberarla da ogni implicazione metafisica, dagli arbitri soggettivi e considerare la società attraverso parametri oggettivi.
Per compiere questa operazione occorre definire bene qual è la materia
propria della sociologia e ciò che distingue la sociologia da ogni altro tipo di
scienza. Se materia di indagine della sociologia sono i fatti sociali è necessario
sapere quali sono i fatti sociali. Essi « consistono in modalità di azione, di pensiero e di sentimento, esterni all'individuo e che sono dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono a lui». Attraverso l'analisi dei fatti sociali si può conoscere lo stato di salute in cui versa la società in quel momento.
Ciò che Durkheim sottolinea in tutta la sua opera è che il fatto sociale non può
essere spiegato in termini individuali perché esso ha origine non dalla somma
delle volontà individuali ma dalla struttura stessa della società. Una prova di
questo è che un qualsiasi fenomeno sociale non può essere modificato dal singolo individuo e nemmeno da una somma di individui; perché esso sia modificato occorre che si modifichi la struttura stessa della società. Polemizzando con
gli utilitaristi, egli osserva che se i fenomeni sociali sono il risultato del perseguimento del fine individuale del soddisfacimento dei bisogni e quindi della felicità,
non si spiega come la società moderna e la divisione del lavoro che ne è la conseguenza abbiano provocato l'aumento di fenomeni come il suicidio che sono indice di uno stato di anomia (nel « suicidio » confronterà le statistiche dei suicidi
con parametri che indicano un accresciuto benessere nella società e dimostrerà
che all'aumento del benessere corrisponde un aumento dei suicidi).
Neppure le teorie biologistiche ed evoluzionistiche della società riescono a
spiegare quella sfera della morale che, sottratta all'arbitrio individuale, agisce e
pesa sulle coscienze individuali in modo esterno a loro stesse. Se Durkheim invoca come causa di fenomeni quale la divisione del lavoro parametri come l'aumento della popolazione e la densità dinamica, la funzione dei fenomeni sociali
risiede in quella coscienza collettiva che regola le azioni morali dell'uomo e che
si riflette sull'individuo determinandolo dall'esterno. In questo senso gli elementi
esterni all'individuo attraverso i quali possono essere spiegati e analizzati i fatti
sociali sono il diritto e le statistiche. Il primo infatti rappresenta la regolamentazione che nasce dalla coscienza collettiva (per Durkheim, a differenti tipi di solidarietà corrispondono differenti tipi di diritto: alla solidarietà meccanica corrisponde il diritto a funzione repressiva, alla solidarietà organica il diritto a fun-
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
zione restitutiva); le seconde forniscono i tassi e le percentuali dei vari fenomeni
che segnalano le correnti esistenti nella società al di fuori del singolo individuo che
nelle statistiche non è presente se non come espressione del tutto sociale, non
con le motivazioni del proprio comportamento. L'oggettività di queste cifre e
di quelle regole verificabili da tutti permetteranno di guardare ai fatti sociali
come cose e alla sociologia di essere una scienza come tutte le altre, cioè oggettiva.
Le regole metodologiche che usa Durkheim passano attraverso il problema
della definizione dei fenomeni sociali, e la distinzione tra ciò che è normale in una
società e ciò che è patologico. La categoria che usa Durkheim per stabilire ciò
che è normale e ciò che è patologico è la generalizzazione dello stesso fenomeno.
Proprio perché Durkheim ha proclamato l'eliminazione di ogni categoria individuale e del giudizio morale dalla sociologia, è evidente che ogni regola deve
avere una sua caratterizzazione oggettiva; secondo Durkheim la generalizzazione
è appunto la categoria oggettiva di definizione di uno stato normale della società.
Lo stato normale di una società è sempre relativo a un momento dato della società.
L'individuazione degli stati normali di una società permette la classificazione dei
tipi sociali che partendo dall'unità primitiva, l'orda, si classificano e si differenziano in base alla loro successiva complessità; quindi anche la comparazione di
differenti tipi sociali può essere fatta in relazione al momento di complessità
che ha raggiunto una determinata società. È evidente che dal momento che
Durkheim pone al centro delle sue ricerche il problema dell'ordine, ne deriva
come conseguenza che lo studio della società nello stadio di sviluppo raggiunto
è relativo alla solidarietà che si determina nella società in quel determinato stadio. Non solo, ma ne consegue anche che bisogna sempre di pil1 stringere i legami tra l'individuo e la società, legami che poggiano su imperativi morali;
l'integrazione allo status quo esistente risulta essere il miglior fine da perseguire. Per questo la divisione del lavoro creando legami corporativistici è moralmente utile e ll.uspicabile.
Tutto questo è per Durkheim oggettivo e scientifico e quindi ineluttabile.
Quei presupposti dl asservimento alle strutture di potere della società del suo
tempo di cui avevamo parlato diventano qui assolutamente espliciti e la formazione di una « scienza apologetica » che registra i fenomeni sociali e sottopone
ad analisi critica solo lo stato morale della società è raggiunta. Questa stessa
cosiddetta scienza è poi ulteriormente giustificata come ricerca di soluzioni morali e quindi utili alla società. Continuando nell'esposizione delle regole metodologiche di Durkheim egli, dopo aver definito il tipo normale e la morfologia
dei tipi sociali, si pone il problema della spiegazione dei fenomeni sociali dei quali
cerca « la causa efficiente » e la funzione che assolvono. Ogni fenomeno sociale
ha la sua causa in un altro fenomeno sociale e la funzione di un fatto sociale deve
essere sempre ricercata nel rapporto che ha con qualche fine sociale. Questo tipo
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
di rapporto causale e il problema della funzione di un fenomeno sociale hanno un
intento chiaramente antindividualista. Egli pone in rilievo ancora una volta che
l'individuo così come la psicologia individuale sono insufficienti a spiegare l'origine di fenomeni sociali. Sottolineando l'importanza del sociale e della sua esteriorità rispetto all'individuo, l'ambiente sociale viene ad assumere una funzione
di primaria importanza, ma mentre attacca le posizioni utilitaristiche ed individualistiche sottovaluta il problema dei rapporti di produzione e la causa efficiente
viene da lui individuata solamente con il fenomeno della variazione concomitante.
Nella sostanza il fine a cui tende la spiegazione della società è sempre vivo
in termini di coesione sociale, di ordine e di moralità. Tutta la scientificità di
Durkheim ha come unico fine la giustificazione dell'ordine. I parametri e le categorie di cui si serve sono prese a prestito da altre scienze (ad esempio la divisione tra normale e patologico è derivata dalla biologia e dalla medicina) e sono
sempre giustificate in nome della loro oggettività e della loro verificabilità. Ogni
opera di Durkheim osserva rigorosamente le sue regole metodologiche. Prendiamo la celebre analisi del suicidio. Nella prima parte del libro egli controbatte tutte le teorie sia biologiche (razza ecc.) sia psicologiche (cause mentali ecc.)
che attribuiscono il suicidio a cause di tipo individuale, usando come parametri
le statistiche (parametri, inutile dire, oggettivi e verificabili). Confrontando le statistiche relative ai vari fenomeni che prende in considerazione, nel caso in cui
riscontra variazioni concomitanti le individua come rapporti di casualità. L'analisi delle statistiche dimostra una certa costanza nel numero dei suicidi e i tassi
di incremento e di decremento sono significativi solo in relazione a determinate
caratteristiche dell'ambiente sociale preso in esame. Dalla prima constatazione
trae la conseguenza che esiste una co"ente suicida all'interno della società, la
seconda gli permette una catalogazione dei vari tipi di suicidio esistenti, sempre
legati allo status morale della società o del gruppo: suicidio altruistico, suicidio egoistico e suicidio anomico. Il primo si riscontra tra i gruppi sociali fortemente coesi, il secondo quando un gruppo sociale non dà sufficienti ragioni ad
un uomo per stare in vita, il terzo quando in una società predomina l'anomia (il
concetto di anomia è una creazione di Durkheim: designa una società in cui la
coscienza collettiva è molto affievolita, la regolamentazione è debole e non c'è
integrazione). Il correttivo al suicidio è una maggior coesione e integrazione della
società.
Tra gli altri scritti di Durkheim è particolarmente significativo Le socialisme.
In questo libro violentemente anticomunista egli propone come soluzioni al disordine delle società industriali una serie di organizzazioni intermedie corporativiste che ricostituiscano nell'uomo quel senso di solidarietà e di appartenenza
alla società. La prospettiva del comunismo sembra a Durkheim utopistica e la
nega alla radice accusandola di anti-scientificità, ma in realtà è proprio la sua
opera, contraddittoria, priva di ogni prospettiva storica, apologetica, a mancare
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L'esigenza di una «scienza sociale»: il costituirsi della sociologia
di qualsiasi scientificità. Le categorie che usa sono infatti empiriche, non c'è
alcuna astrazione generalizzante, né uno sforzo di andare al di là dell'esigenza
astrattamente oggettiva. Per esempio l'affermazione del suicidio come fenomeno
sociale, pur essendo valida in se stessa, rimane un presupposto astratto, in quanto
viene usato senza mediazioni realmente significanti, ma puramente descrittive.
Nella sostanza, il compito della sociologia deve essere per Durkheim quello di
giustificare l'ordine all'interno della società; il fine quello di integrare gli individui
e di sottrarli allo stato di caos e di disordine che genera anomia e infelicità.
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CAPITOLO QUARTO
L,esigenza di una scuola nuova
e la nascita della pedagogia scientifica
DI RENATO TISATO
I · CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Il periodo che viene preso in esame in questo capitolo è denso di eventi di enorme importanza nel quadro della storia dell'educazione, così come, d'altra parte,
esso appare decisivo anche in tutti gli altri settori della storia della civiltà. Il mondo
delle istituzioni educative cambia più in questo periodo di qmtnto non sia cambiato prima in venti secoli e bisogna rendersi conto, affrontando il suo studio, che
ci si trova di fronte ad una realtà completamente nuova e, per di più, in continuo
movimento.
Le fondamentali linee di sviluppo della problematica pedagogica lungo l'arco
sotteso fra la metà del ?'IX secolo e il primo decennio del xx secolo possono essere ridotte a tre:
1) l'attacco a fondo e progressivo che la società civile muove, per la prima
volta nella storia, per la totale eliminazione dell'analfabetismo strumentale e il
sorgere di una scuola di massa;
z) l'affermarsi del culto della scienza nel campo dell'educazione, a duplice
livello e cioè: a) come fiducia nella possibilità di elaborare una scienza pedagogica;
b) come fiducia nel valore formativo dell'educazione scientifica;
3) il fiorire delle cosiddette «scuole nuove» e il successivo svilupparsi della
riflessione critica sull'« educazione nuova» e del movimento, a livello sia teoretico
sia pratico, della « scuola attiva ».
Questi tre motivi saranno svolti partitamente nei paragrafi successivi. In
essi cercheremo di identificare il loro fondamento comune e di cogliere il legame
che hanno col generale processo di trasformazione economica, sociale, politica,
culturale, dell'intera società nel periodo considerato.
II · LA LIQUIDAZIONE DELL'ANALFABETISMO STRUMENTALE
L'idea che l'educazione spetti all'uomo in quanto tale e perciò a tutto il popolo e non solo ai membri delle classi dirigenti è un motivo che abbiamo incontrato in numerosi pensatori dei secoli precedenti, con limpidissima formulazione da
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
parte di Lutero, successivamente ripresa e svolta da Comenio. Senonché si era
sempre trattato di convinzioni personali di singoli. La rivoluzione francese aveva
preso l'impegno di tradurre questo ideale in realtà ma, per i motivi che abbiamo
a suo luogo esaminato, non aveva potuto realizzare il suo programma.
Durante la prima metà del XIX secolo, nel campo liberale, per non parlare dei
reazionari, prevale la tendenza a identificare la libertà con la pura garanzia formale
che l'iniziativa del singolo non sarà turbata nella sua esplicazione, mentre viene
generalmente respinta l'interpretazione positiva della libertà come effettivo « potere » di attuare le possibilità individuali. Ne risulta che il possesso della cultura
finisce inevitabilmente per assumere, in pratica, l'aspetto di un privilegio.
In Francia Adolphe Thiers definisce l'istruzione «un principio di agiatezza»
che, appunto in quanto tale, non può essere esteso a tutti. Ma c'è di più: lo stesso
Thiers dichiara la propria ostilità all'universale diffusione della cultura poiché
l'esperienza dimostra che «gli operai più istruiti sono i più indisciplinati e pericolosi». In Inghilterra Sa:muel Withbread teme che l'istruzione, mettendo i lavolatori in condizione di leggere opere sediziose, contrarie alla morale e alla religione, li renda aggressivi, insolenti e ribelli. In Italia Rosmini trae dalla sua
«legge» secondo la quale il potere, la ricchezza e la cultura tenderebbero ad equilibrarsi, la conclusione che il « sovrabbondare » del sapere nelle classi povere e
subalterne sarebbe quanto mai pericoloso perché stimolerebbe tali classi ad esigere
benessere e potere in misura adeguata all'acquisito sapere. Il che significa costruire un mirabile circolo vizioso: la massa non può pretendere di partecipare al
potere e all'agiatezza «in quanto» è ignorante ma deve essere conservata nell'ignoranza «perché» non possa legittimamente aspirare al potere e all'agiatezza.
Nella seconda metà del secolo la situazione si capovolge completamente. I sostenitori dell'integrale esclusione delle masse diminuiscono progressivamente di
numero e di peso e comincia a prevalere la tesi della necessità di istruire ed educare i ceti subalterni per renderli atti a partecipare con senso di responsabilità alla
vita economica e politica. I gruppi dirigenti assumono come fondamentale il
compito di diffondere l'istruzione. I principi della gratuità e dell'obbligatorietà
della scuola vengono progressivamente accettati ed applicati. È riconosciuto, in
forma più o meno ufficiale e diretta, il dovere dello stato di provvedere all'educazione dei cittadini. A questo proposito, anzi, continua e si inasprisce la polemica
tra fautori del « monopolio » statale in campo educativo e fautori della « libertà »,
nel senso, ovviamente, di facoltà per enti e privati di istituire e gestire scuole ed
istituti di educazione. È una lotta che va ben distinta da quelle che si combattono
per garantire al docente la massima libertà di coscienza, di orientamento ideologico, di metodo e per impegnare la scuola ad educare i cittadini allo spirito e alla
pratica della libertà. Si tratta, anzi, di prog~ammi spesso addirittura antitetici,
nonostante la confusione ingenerata dall'uso ambiguo del termine. Insomma, è
lecito chiedersi fino a che punto si lotti per la libertà della scuola e fino a che
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
punto, invece, per il libero controllo della scuola, riconosciuta, ormai, come il più
formidabile strumento per la formazione di quel tipo di uomo, di lavoratore, di
cittadino che l'esistenza della società emergente dalla rivoluzione industriale e
liberale postula. Siamo di fronte ad un interrogativo destinato a farsi più pressante nel corso dei decenni, fino ad assumere un tono altamente drammatico ai
nostri giorni, come vedremo in alcuni capitoli successivi.
La spinta alla realizzazione della ciclopica impresa della diffusione universale della cultura è concepibile solo nel quadro del formidabile balzo in avanti
dell'economia provocato dalla rivoluzione industriale. Che fra diffusione della
cultura e livello del reddito complessivo di una società vi sia interdipendenza
appare scontato. Indubbiamente c'è anche un problema di distribuzione e quindi
di scelte, che possono esser fatte in base a criteri extraeconomici ma, oltre un
certo limite, un'ulteriore diffusione della possibilità di educarsi presuppone un
aumento del reddito. D'altro canto è ormai pacifico che se l'aumento del reddito
è condizione del progresso dell'educazione, quest'ultimo, a sua volta, si :ripercuote positivamente sul primo. Di qui l'ineluttabilità del carattere aristocratico
che l'educazione assume in una società a basso livello produttivo (e tali furono,
in misura maggiore o minore, tutte le società che precedettero la :rivoluzione
industriale) e, per converso, del carattere statico che assume l'economia in una
società a basso livello culturale.
Questo ci permette di capire come, al di là delle vicissitudini della politica
interna dei singoli stati, che indubbiamente hanno una certa ripercussione nel
campo dell'educazione, questa si evolva in maniera abbastanza continua ed eguale,
secondo immanenti categoriche necessità, anche in stati differenti purché egualmente o quasi egualmente sviluppati dal punto di vista economico e sociale.
Ma il rapporto fra rivoluzione industriale e :rivoluzione nel campo dell'educazione non si esaurisce a livello delle possibilità economiche. La :rivoluzione
industriale non porta soltanto ad una trasformazione della tecnica e ad un incremento della ricchezza: essa provoca la trasformazione del modo di vita, un
mutamento globale della società. Assume un nuovo significato l'intera esistenza
dell'uomo e, in primo luogo, quella dell'uomo che lavora nell'industria, proprio
in funzione delle modalità del lavoro industriale.
Normalmente, nelle storie della pedagogia e delle istituzioni educative, ci si
limita ad affermare che l'esigenza di una scuola di massa consegue allo sviluppo
dell'industria e all'avvento dello stato liberale, prima, e democratico, poi. Si tratta
di una considerazione ovvia, di una pura constatazione di fatti. Le cose si fanno
alquanto più difficili allorché si passa al riconoscimento del tipo di nesso che tiene·
collegati i due, anzi, i tre piani. Indubbiamente l'avvento della scuola di massa
coincide con un :radicale cambiamento nelle forme di lavoro. Ma detto cambiamento è tale da giustificare quell'avvento? da costituirne, anzi, la ragiotJ. d'essere?
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
La risposta appare facile e senz'altro affermativa qualora si pensi alla diffusione e differenziazione delle attività terziarie, impiegatizie e tecnico-direttive. Ma
queste giustificano, semmai, il diffondersi e differenziarsi di scuole a livello secondario e superiore di tipo tecnico-professionale, nonché la progressiva acquisizione di maggiore importanza, in queste scuole, delle discipline scientifiche di
fronte al tradizionale curriculum a carattere retorico-letterario. La risposta diviene però alquanto pìu ardua qualora si pensi alla caratterizzazione del lavoro
manuale imposta alle masse dall'avvento del grande complesso meccanizzato.
Grazie al perfezionamento della macchina la produzione si concentra e si
realizza una divisione del lavoro sempre più spinta, in rapporto funzionale con
l'aumento della produzione. I lavori unitari cedono il posto a lavori parcellari e
si ha una generale degradazione dell'abilità professionale.« Dove prima occorreva
un operaio completo, capace di abbracciare l'insieme del lavoro, di dirigerlo, di regolare gli utensili, ora basta un manovale specializzato che si limita a "servire" una
macchina ... Scompare in tal modo tutto l'antico edificio professionale con i suoi
modi di lavorare, le sue abitudini ... » (Georges Friedmann). La destrezza, il colpo
d'occhio, la capacità di scegliere strumenti e pezzi, di valutare la temperatura
di un forno, di prevedere le reazioni di una fibra tessile ecc., qualità che erano
frutto di una lunga esperienza e di una lunga pratica, ora non servono più, tanto
che sorge spontanea la domanda: a questo punto l'istruzione è ancora necessaria?
E viceversa è proprio in questo momento che l'istruzione di massa diventa una
realtà.
D'altra parte non sembra riferibile al periodo in esame e all'educazione
elementare la considerazione che, essendo « la tecnologia non... una serie di
ricette o di descrizioni», ma, piuttosto, un complesso di «vedute d'irtsieme dei
materiali e degli utensili», una guida a «ricavare rapporti astratti partendo dalla
sperimentazione e dalla misura », l'istruzione sarà necessaria anche e soprattutto
per l'operaio di tipo nuovo ma non più nella forma di acquisizione di abilità
manuali, di astuzie del mestiere, di specializzazione precoce ed esclusiva, ma in
quella di «un solido fondamento scientifico», di un'abilità avente per base un
«fondamento tecnico e scientifico generale», atto, tra l'altro, a mettere l'operaio
in condizione di «adattarsi con minor danno ai cambiamenti di funzione>> resi
inevitabili dall'instabilità implicita nel continuo progresso della tecnica (Friedmann). Si tratta di considerazioni la cui validità si proietta in una fase molto
più avanzata della :rivoluzione industriale, rispetto al periodo di .cui ci stiamo
occupando.
'
Tutto sommato appare più realistica l'ipotesi secondo la quale la spinta alla
creazione della scuola di massa, se ha la sua possibilità nel sov:rabbondare di :ricchezza resa disponibile dalla macchina, ha la sua necessità in sede politica.
Osserva acutamente il sociologo inglese A.K.C. Ottaway che, negli anni
'6o, i lavoratori inglesi erano più interessati alla :riforma parla~entare che alla
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
richiesta di educazione per classi inferiori e che appare una singolare caratteristica dello sviluppo della democrazia inglese il fatto « che il voto sia stato concesso al popolo prima, e che la sua educazione sia stata migliorata dopo ». Sintomatico, a questo proposito, è l'atteggiamento dello statista Robert Lowe, il quale,
tenace avversario della riforma elettorale, dopo la realizzazione di questa diviene
un fautore dell'Education act, visto che sarà pur necessario «educare i nostri
padroni».
Educarli a che? Ad integrarsi nella società, d'accordo: ma in quale veste?
Di protagonisti o di gregari soddisfatti?
Siamo di fronte, da un lato, alla dura realtà della spersonalizzazione conseguente dal lavoro parcellare, dall'altro, al sospetto di un'istruzione mirante a
indottrinare, a manipolare e quindi a integrare saldamente nel sistema le masse.
Dobbiamo dunque concludere che gli ideali delliberalismo e della democrazia sono soltanto colossali mistificazioni? È chiaro chç: le esigenze oggettive e
le intime contraddizioni del capitalismo industriale costituiscono un formidabile impedimento all'attuazione di quegli ideali ma questo non implica, a parer
nostro, la vanificazione degli ideali stessi; implica invece l'esigenza di ricercare
attentamente le ragioni profonde di quell'impedimento e di identificare la via e i
mezzi atti a tradurre in pratica quelle che, al di là di ogni mistificazione, rimangono
pur sempre fra le più profonde aspirazioni dell'uomo moderno.
L'esposizione analitica del processo attraverso il quale i paesi economicamente e culturalmente più progrediti affrontano, come deciso ed efficace impegno,
durante la seconda metà del XIX secolo, il problema della liquidazione dell'analfabetismo strumentale, non solo richiederebbe una trattazione che trascende di
gran lunga i limiti imposti dall'economia generale dell'opera al presente paragrafo, ma incontrerebbe ostacoli oggettivi ancor oggi difficilmente superabili a
causa della scarsità, diversità, non eguale attendibilità della documentazione disponibile.
Cercheremo pertanto di indicare al lettore i fatti e i dati statistici più importanti, sufficienti a permettere la costruzione delle linee tendenziali di sviluppo del
fenomeno che qui d interessa, con particolare riguardo a Francia, Inghiltérra,
Prussia e Russia. Della situazione italiana si dirà nel capitolo IX di questo stesso
volume.
In Francia, dopo la rivoluzione del '48 la vittoria dei conservatori inaugura
una politica regressiva anche nel campo scolastico, politica che ha la sua attuazione concreta nella legge Falloux del 1 8 5o. Questa legge (i cui veri autori sono
Montalembert, Mons. Dupanloup e Thiers) costituisce un grande successo dei clericali, che si vedono spianata la strada per una formidabile ripresa in base al principio della «libertà di insegnamento». Il titolo secondo organizza l'insegnamento
primario. L'articolo 36 fa obbligo ad ogni comune di organizzare una o più
scuole per i fanciulli di sesso maschile (senza precisare il rapporto numerico tra
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insegnanti ed alunni). Per quanto riguarda le femmine l'obbligo è fatto ai comuni con più di 8oo abitanti ma con una seria restrizione: « se le loro risorse
ordinarie lo permettono». La gratuità è concessa solo a coloro che le amministrazioni comunali riconoscono ufficialmente come « indigenti ». Nelle comunità
dove esistono differenti culti riconosciuti è autorizzata l'istituzione di scuole diverse per alunni di confessione diversa. Infine è previsto che una scuola « libera » possa tenere il posto di quella pubblica, dispensando in questo caso il
comune dall'obbligo di aprirne una.
Nel I867, verso la fine del secondo impero, una legge del ministro Duruy
incoraggia, con opportune sovvenzioni statali, i comuni ad aprire scuole gratuite e stabilisce per tutti i comuni di più di 500 abitanti l'obbligo di aprire
anche una scuola per le femmine.
Neppure questa legge, però, sancisce il principio dell'obbligo. Nessuna limitazione è fatta all'attività delle congregazioni e la stessa scuola pubblica conserva
il carattere prettamente confessionale impostale dalla legge Falloux.
Secondo un rapporto dello stesso ministro Duruy gli analfabeti sarebbero,
in Francia, nel I864, il I3,5 %Soltanto un decennio più tardi dopo la vittoria dei repubblicani, nel quadro
di un 'intensa opera di democratizzazione e di laicizzazione della società francese,
per opera del ministro Jules Ferry, saranno varate alcune leggi decisive, relative
alla creazione di scuole normali per maestri (I879), alla gratuità (I88I), all'obbligo
(I88z), leggi che, completate dalle «Istruzioni» del I887, caratterizzeranno la
scuola primaria-popolare francese fino al I940.
Sappiamo come la Prussia, dopo il disastro di Jena, punti, per la propria
ripresa, prevalentemente sulla diffusione della cultura e, in particolare, sulla creazione di una efficiente scuola popolare. Wilhelm von Humboldt e Karl von
Altenstein sono gli artefici principali di un edificio destinato, nel corso del XIX
secolo, a ingrandirsi ed a perfezionarsi fino ad apparire, per alcuni decenni, un
insuperabile modello a tutti i paesi civili.
Nel I 848 sembra che l'innesto dei principi liberali sulla solida struttura prussiana possa fare veramente della scuola tedesca un formidabile strumento di progresso. L'assemblea di Francoforte si pronuncia per la separazione della scuola
dalla chiesa e fa suo il programma froebeliano di educazione prescolastica. Senonché il fallimento della rivoluzione si fa sentire, anche qui, pesantemente.
La costituzione del I85o sancisce, invero, all'articolo 24, il principio della
gratuità per la scuola popolare; in pratica, però, tale principio tarderà alquanto
ad essere universalmente applicato.
Nel I 8 53 le Regulativen, dettate da un violento spirito di opposizione contro
il movimento liberale e contro il cristianesimo troppo aperto « alla Pestalozzi »,
soffocano ogni aspirazione progressiva e attribuiscono, di fatto, il monopolio,
nel campo delle direttive pedagogiche e del controllo, all'autorità religiosa. Bi73
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
sognerà arrivare fino al I872. perché il governo torni ad affidare le funzioni ispettive ad autorità laiche.
Il problema della coesistenza di fanciulli professanti religioni diverse è risolto con la formula della pluralità di scuole confessionali. Solo la Slesia, a causa
della disseminazione di piccoli gruppi religiosamente eterogenei, è costretta a
creare scuole « miste ».
Ma quello che, a nostro parere, va maggiormente sottolineato, perché si
giunga a comprendere l'autentico significato della scuola prussiana e poi tedesca, è il rigido centralismo burocratico della sua organizzazione e il suo spirito
animatore.
Scrive a questo proposito, nel I 87 z, Émile de L~veleye, con esplicita intenzione elogiativa: «L'organizzazione delle scuole è ricalcata su quella dell'esercito.
Vi regna lo stesso ordine, la stessa disciplina, lo stesso spirito di precisione rigorosa nei particolari.
«Il genio di Federico n si perpetua qui come in tutte le altre branche dell'amministrazione. »
Ma, forse, ancora più significativo, in materia, è il passo contenuto nel libro
di uno studioso dell'epoca, L. Finscher: «Bisogna che lo spirito cristiano penetri tutto l'uomo, perché il cittadino porti nella vita politica le virtù che vi
sono indispensabili ... La scuola deve ispirare al fanciullo l'obbedienza, il rispetto,
l'umiltà, il gusto del lavoro, la tolleranza, la giustizia nell'interesse della vita
sociale, la devozione, la disciplina, lo spirito di sacrificio nell'interesse dello
stato. »
Si tratta di un brano che, se è stato scritto per la scuola prussiana, testimonia, però, dell'atmosfera largamente dominante in tutta l'Europa del tempo. La
società, nonostante l'avvento delliberalismo e il primo delinearsi di prospettive
democratiche, è ancora abbondantemente intrisa di spirito autoritario. La sua
struttura è gerarchica a tutti i livelli, dalla famiglia allo stato, passando, ovviamente, per la scuola. Virtù supreme sono, ancora, il rispetto dell'ordine costituito e il volonteroso adeguarsi alle direttive e al pensiero dei « superiori », il
tutto caratterizzato, in clima di incipiente imperialismo, da esaltazione nazionalistica e da una certa aggressività militaristica, in funzione della quale va considerata anche la progressiva importanza attribuita al rispetto delle norme igieniche, all'educazione fisica e alle prime manifestazioni sportive.
In Inghilterra la scuola sorse e si sviluppò, come tutte le altre istituzioni,
per l'opera di iniziative private, di individui o di gruppi, al di fuori di una schematica inquadratura teorica e legislativa. Durante la prima metà del XIX secolo
l 'Inghilterra, come non possiede una organica costituzione né un vero e proprio
codice, così non possiede neppure una legislazione scolastica sistematicamente
coordinata, ma soltanto un'accozzaglia di leggi, emendamenti, compromessi, diversi da regione a regione, da scuola a scuola.
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Lo spirito centralizzatore e razionalistico della rivoluzione francese e del regime napoleonico lasciano ben poca traccia nelle isole britanniche. Pertanto, se
già durante la prima metà del secolo si nota la tendenza dello stato.a cominciare
ad interessarsi delle questioni scolastiche, ciò dipende, più che da influenza del
pensiero e delle esperienze continentali, dalla pressione esercitata dalla rivoluzione industriale in pieno sviluppo.
Il sorgere di grandi centri industriali, l'intensificarsi dei traffici, l'addensarsi
di enormi masse di operai e di impiegati nelle città rendono urgente la creazione
di scuole, istituti professionali d'arti e mestieri. Cominciano così a svilupparsi
alcune scuole private, dette academies, che mirano a dare una preparazione meramente utilitaria e tecnica ai figli della piccola e media borghesia.
Complessivamente, . però, lo stato dell'istruzione primaria è assolutamente
deplorevole. Successive inchieste, fatte nel I8o3, nel I8I8 e nel I833, confermano
che i progressi, nel settore della scuola popolare, sono minimi e del tutto impari
al progresso economico e tecnico del paese.
Nel I 8 I 6 il partito whig, sotto la pressione dell'opinione pubblica, solleva
per la prima volta la questione ed invoca l'intervento dello stato. Vengono aperte
le Birbeck Schools, per operai ed impiegati adulti, che, la sera e la domenica,
possono iniziare o completare la loro educazione elementare.
. Finalmente nel I 832-3 3 il Reform act, modificando la legge elettorale ed
allargando il suffragio nei centri industriali, rende possibile la conquista del potere da parte del partito liberale col ministero capeggiato da Lord Grey. Tale
governo prende di petto anche il problema della scuola.
Vengono votate leggi che disciplinano l'impiego dei ragazzi negli stabilimenti industriali. I ragazzi non possono da questo momento essere impiegati
nelle fabbriche prima che abbiano compiuto i nove anni. Bisognerà però attendere
fino al I847 per giungere al Fielden's act (che sembrerà una grande conquista)
per il quale la durata massima della giornata lavorativ-a dei fanciulli sarà portata
a dieci ore!
Si deve notare, inoltre, che l'intervento statale è di ordine puramente finanziario: l'iniziativa di istituire e gestire scuole viene lasciata ai privati ed in particolare alle chiese (principalmente alla chiesa anglicana); solo che ora lo stato
assume la veste di un filantropo assai ricco che soccorre e tutt'al più consiglia,
senza esercitare però alcun potere sovrano.
Bisogna arrivare al I 840 perché lo stato inglese intervenga con intendimenti
più propriamente tecnico-pedagogici, cercando di realizzare una certa uniformità di programmi nei vari istituti della scuola secondaria. (Va chiarito che la
secondary school si contrappone alla primary non già nel senso di una scuola che
succede, cronologicamente e logicamente, all'altra, ma nel senso di una scuola a
fondamento umanistico, riservata alle classi dirigenti e distinta dalla scuola ri-·
servata alle classi popolari.)
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
Ancora una volta, però, lo stato inglese trova tenaci resistenze nelle vecchie
public schools, gelose dei loro secolari privilegi e nelle chiese, le quali temono che
l'intervento statale finisca prima o poi con lo scalzare il loro monopolio.
Solo a partire dal I87o, in seguito alla riforma elettorale del I867, si cominceranno ad avere trasformazioni radicali. L'atto del I 870 prevede la creazione
degli school-boards, corpi elettivi aventi il compito di organizzare e dirigere scuole
elementari in quelle parti del paese dove non esistono scuole sovvenzionate da
comunità religiose. Altri atti, del I 872, I 876, I 88o, completano l'opera e danno
vita ad una scuola primaria obbligatoria, controllata dallo stato. Nel I9o2 una
grande legge organica eliminerà molte delle incongruenze sopravvissute e definirà
chiaramente il diritto e i doveri dello stato in questa materia. Questo non significa nazionalizzazione dell'insegnamento e neppure centralizzazione secondo lo
stile francese ed italiano. Non significa neppure laicizzazione (in Inghilterra scuola
« laica » significa, al più, scuola fondata su un insegnamento religioso « biblico »
anziché confessionale). La scuola rimane prevalentemente privata e l'autorità statale si fa sentire mediante rigorose ispezioni periodiche.
In Russia, nel I864 l'imperatore Alessandro dà forza di legge a un regolamento generale delle scuole popolari proposto dal ministro, principe Pavel Gagarin.
Dalla :relazione premessa a tale :regolamento apprendiamo, per esempio, che
a Pietrobu:rgo, capitale dell'impero e una delle città più occidentalizzate, su
40o.ooo abitanti esistono I 8 scuole elementari con una popolazione di I 28 I alunni,
dei quali I 3 5 femmine. Secondo un altro documento ufficiale, alla stessa data,
il :rapporto fra alunni e abitanti, nel complesso dell'impero, sarebbe di uno su
centosedici.
La legge del I 864 :resterà di fatto lettera morta e bis~gnerà arrivare alla
:rivoluzione comunista perché il problema venga preso energicamente di petto.
Un brevissimo cenno alla situazione negli altri stati europei. Prima di tutto
si deve sottolineare la posizione d'avanguardia occupata, in questo settore, dai
paesi scandinavi: Svezia, Danimarca e, sia pure a qualche distanza, Norvegia.
Basti dire per la Svezia che una legge sull'obbligo della frequenza della scuola
primaria risale addirittura al I 7 34 e che nel I 842 esiste ormai una completa rete di
scuole e, per la Danimarca (dove già nel I 64 7 si comminano pene ai trasgressori dell'obbligo scolastico), che nel I 87o il 99,28% dei fanciulli in età frequenta regolarmente la scuola. L'Olanda merita di essere ricordata per aver introdotto, già
nel I 8o6, il principio della laicità della scuola, portando anche nel campo dell'istruzione primaria le conseguenze della separazione della chiesa dallo stato: al
maestro la morale, il dogma al sacerdote, ma fuori della scuola.
Anche in Svizzera (dove l'obbligo si afferma intorno al I87o) si tende a
eliminare il carattere :rigorosamente confessionale della scuola pubblica. Alquanto
meno brillante è la situazione del Belgio.
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Comunque all'estremo opposto troviamo la Spagna, dove ancora attorno al
188o la percentuale degli analfabeti è circa dell'83% e la Grecia.
Il primato dei popoli di stirpe germanica, anglosassone e scandinava risulta
dunque evidentissimo. Ci limiteremo a ricordare che si tratta di popoli di religione riformata. L'esistenza di un rapporto funzionale tra protestantesimo e sviluppo della cultura sembra, dunque, confermato.
Pensiamo che possa risultare di qualche utilità, a chiusura di questa illustrazione che, ripetiamo, vuoi essere soltanto indicativa, fornire, a titolo riassuntivo,
alcuni dati contenuti in una « memoria »di Luigi Bodio, del1891. Questa « memoria» ci fornisce, fra l'altro, una tabella comparativa delle percentuali di analfabeti
tra le reclute dei principali stati europei. L'anno base è il 1876. Ecco i dati:
Italia 52%; Francia 16%; Impero germanico z,n%; Austria 41 %; Ungheria 57%; Svizzera 4,6%; Belgio 18,4o%; Olanda 12 %; Svezia o,9o%; Russia
So%.
III · SCUOLA UMANISTICO-LETTERARIA
E SCUOLA TECNICO-SCIENTIFICA
La critica al predominio assoluto del latino e del greco quali discipline eminentemente « formative » affonda le radici ben indietro nel tempo: basti ricordare Locke e gli sviluppi, in campo pedagogico, del cartesianesimo. È indubbio
però che, sia pure con qualche riserva e sfumatura, l'umanesimo classico-letterario continua a prevalere nettamente nella scuola secondaria durante il XVII e XVIII
secolo.
Il primo serio attacco alla tradizione, sul piano delle iniziative concrete e
non solo delle argomentazioni teoriche, viene portato dalla rivoluzione francese
che si ispira agli argomenti messi innanzi da Diderot, d' Alembert, Condorcet,
per non indicare che i più famosi. È sintomatico che Napoleone, nel quadro
del suo progetto di restaurazione dell'ordine e di consacrazione dei privilegi ottenuti, mediante la rivoluzione, dalla borghesia, si preoccupi di rimettere in onore
le cosiddette « umanità ». La vittoria del classicismo appare completa con la restaurazione e da questo momento si profila netto il legame di solidarietà fra tendenze conservatrici e difesa della scuola di tipo tradizionale, da una parte, tendenze progressiste e richiesta di un ctÙ:riculum scolastico imperniato attorno alle
scienze matematiche e naturali, dall'altra, anche se, a prima vista, possa sembrare
strano, come osserva Dina Bertoni Jovine, « che tutta una classe di cittadini e
cioè l'alta borghesia, non avesse che interessi letterari, mentre tutta ùn'altra
classe e cioè la media e la piccola borghesia non avrebbe avuto che interessi
scientifici o tecnici ».
In realtà il problema non è così semplice: il grandioso svilupparsi e diffondersi dell'industria nel corso del xix secolo non poteva non porre, a un certo
momento, in primo piano, il problema della preparazione tecnico-professionale
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L'esigenza di una .scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
in tutte le direzioni ed a tutti i livelli. Già a partire dal xvn secolo, invero, i pietisti e in particolar modo Franke e, successivamente, il movimento filantropico di Basedow, avevano formulato la proposta di una scuola maggiormente
rispondente ai bisogni della vita, ma, sebbene il programma fosse accolto favorevolmente da gruppi di tecnici, commercianti e agricoltori, in realtà di istituti ispirati a tale programma ne erano sorti ben pochi. Ora invece, sotto la
spinta delle trasformazioni tecnologiche ed economiche, le vecchie proposte si
rinsaldano e divengono operanti.
Senonché, mentre da una parte c'è una folla- a dirla col nostro Aristide Gabelli - di « calzolai, pizzicagnoli, falegnami, gente senza tradizione culturale »,
che non può apprezzare il valore « formativo » del latino, del greco e della matematica pura e che alla scuola chiede soltanto un modesto diploma, atto a garantire
ai figli un miglioramento di condizione economica e una certa promozione sociale,
è vero, dall'altra parte, che l'industria non può più accontentarsi delle scuole di
arti e mestieri o produttrici di impiegatelli di infima categoria e preme, per la
sua stessa dialettica interna, verso l'alto, fino a istituzioni di livello universitario.
Sotto questa spinta si profila la tendenza a trasformare i programmi delle
preesistenti scuole umanistiche attraverso la concessione di maggiore spazio alle
scienze, alle lingue moderne e, in generale, alle materie direttamente utili alla
vita pratica. Contro questa tendenza, però, si organizza una fiera resistenza
da parte dei fautori ortodossi della tradizione, i quali obiettano che «la molteplicità è sempre confusione ... [che] non si può fare senza danno dei fini educativi ... » (Filippo Masci).
Sono, così, posti i termini per la giustificazione di una strutturazione « tripartita » della scuola secondaria: da una parte la tradizionale scuola umanistico-letteraria, che apre la strada a tutte le facoltà universitarie e fornisce la base
culturale e la formazione intellettuale e morale alla futura « classe dirigente ».
Di fronte ad essa la scuola tecnico-scientifica, prodotto della rivoluzione industriale, articolata a sua volta in due gradi: quello sfociante, dopo un curriculum di tre o quattro anni, in un piccolo diploma di tecnico subordinato o di
impiegato d'ordine e quéllo che porta ad istituti a livello universitario ed a funzioni direttive nel campo dell'industria, del commercio, della ricerca scientifica e
aspira, quindi, ad ottenere patenti di nobiltà almeno pari a quello della scuola
tradizionale, in nome di un « umanesimo moderno » o « umanesimo del lavoro ».
. In realtà, nella realizzazione concreta, le cose risultano alquanto più complesse dello schema sopra descritto e ciò non solo perché le scuole « tecniche »,
di entrambi i gradi, tendono -- e non può essere che così, dato il prevalere in
esse di una componente che porta inesorabilmente ad una specializzazione sempre
più spinta - ad articolarsi in molteplici istituzioni parallele (istituti per ragionieri, geometri, agronomi, esperti industriali, suddivisi a loro volta in meccanici,
elettrotecnici, chimici ecc.) ma perché accanto o, meglio, al di sotto di questi
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
due tipi di scuola secondaria vanno affermandosi delle ancora più modeste strutture post-elementari o di scuola popolare, senza sbocchi, il cui compito sarebbe
quello di fornire qualcosa di più dei meri «strumenti» (leggere, scrivere, far di
conto) alle grandi masse. Non dimentichiamo, poi, per quanto si riferisce a quest<: Ultime, che la liquidazione dell'analfabetismo strumentale è, sì, in corso di
attuazione ma non per questo, specie nei paesi latino-cattolici e balcanici, attuata.
Il dibattito pro e contro il « vecchio » e il « nuovo » umanesimo vede scendere in linea filosofi, letterati, scienziati illustri in tutta Europa. I temi portati
a sostegno dell'una e dell'altra tesi hanno finito col trasformarsi, spesso, in luoghi
comuni, parecchi dei quali sopravvivono ancora ai giorni nostri, nei residui dibattiti relativi a talune riforme scolastiche e in quelli, più alla moda, relativi ai
rapporti fra le «due culture». Per questo crediamo di qualche interesse richiamarne, schematicamente, alcuni fra i più significativi.
Tra gli argomenti« a favore» della scuola umanistico-letteraria possiamo operare un triplice raggruppamento:
I) Lo studio del latino e del greco è praticamente utile:
a) perché fa conoscere l'etimologia di molti termini scientifici;
b) perché (questo vale specialmente per i popoli neolatini) permette di conoscere meglio l'origine e la struttura delle lingue moderne;
c) perché permette di conoscere meglio il diritto romano;
d) perché permette di studiare meglio la storia antica;
e) perché il latino può costituire ancora una lingua universale per le persone
colte.
z) Lo studio del latino e del greco è un insostituibile strumento didattico
perché costringe l'alunno ad una ginnastica mentale quale nessuna altra disciplina potrebbe proporre.
3) Lo studio del latino e del greco pone il giovane di fronte a un mondo di
valori a) estetici, b) morali e civili, che rimangono esemplari ancora ai nostri giorni.
Si nota, a questo proposito, da taluno (per esempio il francese Ferdinand
Brunetière, il tedesco Tuiskan Ziller e il nostro Nicola Fornelli), che le letterature
antiche, cioè prodotte da civiltà più giovani della nostra, risponderebbero allo
spirito giovanile più e meglio delle creazioni letterarie dei nostri giorni.
Gli argomenti portati dai fautori di una scuola ispirata ad un umanesimo
più rispondente alle caratteristiche e alle esigenze dei tempi moderni ribattono
punto per punto: la conoscenza dell'etimologia è superflua e talora, perfino, dannosa: l'essenziale è conoscere l'uso corretto dei vocaboli di cui ci si serve; discorso, questo, che può essere esteso dal campo dei singoli vocaboli a quello
delle lingue nel loro complesso.
Quanto al diritto romano, qualcuno si limita ad osservare che, semmai, il
latino può servire al giurista ma non all'avvocato o al cittadino qualunque; qualche altro si spinge più in là, fino ad auspicare l'abbandono di un diritto nato
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
in condizioni storiche profondamente diverse dalle moderne. Non abbiamo incontrato prese di posizione specifiche contro il mito della restaurazione della
lingua universale, prova, questa, che ai critici l'argomento stesso è sembrato
risibile e quindi trascurabile.
Quanto all'argomento della «ginnastica mentale» è rifiutato con tutta una
gamma di motivazioni. Si va da chi è d'accordo nell'attribuire alle lingue, in
generale, questa importante prerogativa didattica ma, estendendola alle lingue
moderne, più accessibili e più utili per altri aspetti, vorrebbe trasferito a queste
ultime il privilegio delle prime; a chi invece rifiuta alle lingue, antiche o moderne,
una prerogativa che sarebbe posseduta, in eguale o in maggiore misura, dalle
scienze, a chi infine vede in ogni ginnastica astratta, grammaticale o scientifica,
un aggravio delle menti giovanili, specie nei primi anni della scuola secondaria,
dove varrebbe un insegnamento più intuitivo.
L'obiezione più acuta, però, ci sembra quella mossa dal francese Raoul Frary
il quale, dopo aver osservato che, comunque, l'unica giustificazione del duro sacrificio, che il perfetto possesso delle lingue antiche richiede, sarebbe costituita dalla
possibilità di giungere, attraverso tale possesso, a penetrare lo spirito della classicità, così conclude: « Ma poiché tale coronamento è inaccessibile a diciannove
alunni su venti, si è immaginata, d'altra parte abbastanza tardi, la tesi della ginnastica mentale ... »
Del resto questo tipo di obiezione è implicato anche in quel passo di Arturo
Graf dove è detto che « ormai », tenuto conto della degradazione subita attraverso i secoli dagli studi classici, quale che sia il punto di vista di principio, bisogna pur decidersi ad adeguarsi ai tempi, che vogliono in primo piano le scienze.
"Infine la questione dei valori, estetici ed etico-civili.
In generale i fautori di un uinanesimo moderno si battono per dimostrare la non-inferiorità o addirittura la superiorità delle letterature moderne rispetto
alle antiche.
Quanto agli esempi di virtù civica e morale che si troverebbero nei personaggi, storici o poetici, del mondo antico, prevale la tendenza a demitizzare
tali virtù, riportando le entro i limiti di una società, schiavista e razzista (quella
greca) che sarebbe assurdo proporre come modello ai giovani d'oggi.
Nel complesso, però, in nessuno di questi « modernisti » è rintracciabile
quell'atteggiamento iconoclastico e «barbarico» che taluno pre~enderebbe di
trovarvi: da Spencer a Bain, da Mach a Graf, tutti mostrano di auspicare una
scuola in cui sia realizzata l'armonia fra la dimensione estetica e quella tecnicoscientifica dell'uomo e, riguardo alla scuola classica, si limitano a chiedere la sua
decadenza dal ruolo di custode dispotica della strada che porta agli studi superiori e il suo rientro nei ranghi, come scuola specialistica accanto ad altre scuole
specialistiche.
So
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IV · PEDAGOGIA E SCIENZA
Che non si possa educare senza possedere una buona conoscenza dell'educando è tesi vecchia almeno quanto la letteratura pedagogica. Senonché, fin verso
la . metà del XIX secolo, le descrizioni della psiche e dei suoi dinamismi proposte da filosofi e pedagogisti sono o dedotte da presupposti metafisici o, nel
migliore dei casi, fondate su osservazioni personali, spesso casuali, quasi sempre asistematiche, mai verificate sperimentalmente. La seconda metà del XIX secolo
vede, al contrario, l'impostazione di indagini autenticamente scientifiche anche in
questo campo.
In primo luogo abbiamo gli sviluppi dello herbartismo, cospicui in Germamania ma notevoli anche in altri paesi, compresa l'Italia.
Secondariamente si ha l'affermazione del positivismo, al quale spetta indubbiamente il merito di avere affermato il diritto della scienza di andare «oltre il
mondo visibile e tangibile degli astri, delle pietre e delle piante entro il quale la
si confinava sdegnosamente» e di affrontare i problemi dell'anima «munita degli
strumenti, esatti e penetranti, dei quali trecento anni di esperienze hanno provato
la validità e stabilito la portata» (Taine). Fino a che punto i pedagogisti del
positivismo svolgano in modo conseguente e criticamente controllato questo
tema, è cosa che verrà considerata più avanti. Per ora ci basta osservare che solo
nel clima generale creato dal positivismo può svilupparsi anche nel campo pedagogico quell'indagine autenticamente scientifica senza la quale verrebbe a mancare una delle condizioni essenziali per l'attuazione del piano educativo proposto dalla civiltà contemporanea.
In terzo luogo si ha il costituirsi della psicologia come autentica disciplina
scientifica. Si tratta di una delle più rivoluzionarie fra le imprese della scienza,
destinata, pertanto, a promuovere accanite resistenze da parte dei ceti conservatori. Accanto alla psicologia vengono assumendo sempre maggiore importanza
per lo sviluppo della pedagogia anche la psichiatria, la pediatria, la sociologia,
l'antropologia.
Delle polemiche, provocate dal tentativo di costruire una pedagogia come
scienza, e specialmente delle gravi difficoltà incontrate dai protagonisti del tentativo stesso si dirà via via nel corso dei paragrafi seguenti. Qui ci limitiamo a
indicare la ragione essenziale di tali difficoltà nella insufficiente consapevolezza
critica della maggior parte dei pensatori del periodo in questione circa il significato, il fondamento, i limiti della conoscenza scientifica in quanto tale.
Naturalmente la crisi, che colpirà il positivismo e la democrazia nei decenni
a cavallo fra i due secoli, coinvolgerà anche la pedagogia. Avremo così una ripresa del vecchio umanesimo, rammodernato, raffinato nel linguaggio, rafforzato
dalle argomentazioni delle più moderne filosofie idealistiche e spiritualistiche.
La nota caratteristica di questa nuova pedagogia antipositivistica sarà co81
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
stituita dal fatto che essa accetta, formalmente, la tesi secondo la quale l'educazione deve fondarsi sulla conoscenza scientifica dell'educando, ma nega la possibilità di una considerazione obiettiva, sperimentale, dello spirito, per cui l'autentica scientificità della pedagogia è fatta coincidere con la filosofia dello spirito
e il rapporto maestro-scolaro viene ricondotto, in ultima analisi, a un mistico,
cioè irrazionale, « contatto di anime ».
Vedremo a suo tempo come lo spiritualismo pedagogico celi sempre un
atteggiamento sostanzialmente antidemocratico. Naturalmente, fra i pedagogisti
d~ questa tendenza troveremo, accanto a negatori espliciti e integrali della democrazia, anche sinceri assertori di una democrazia «più vera», di una democrazia« superiore». In realtà un'analisi attenta delle autentiche posizioni di questi
ultimi ci rivelerà come, per usare una felice espressione di Francesco De Bartolomeis, il livello democratico dello spiritualismo tradizionalista non possa, nella
miglior delle ipotesi, essere molto alto.
a) Lo herbartismo
La fortuna di Herbart pedagogista è piuttosto tardiva, specialmente fuori
dalla Germania. Fin verso l'ultimo decennio del XIX secolo l'interesse degli studiosi si rivolgeva, semmai, preferibilmente alla psicologia e all'etica del pensatore
tedesco (di cui si è parlato nel capitolo xm del volume quarto).
In Germania, invece, le cose erano andate alquanto diversamente.
Chiamato, più come noto conoscitore e rielaboratore del pensiero di Pestalozzi che come autore della Pedagogia generale, a Konigsberg, sulla cattedra che
era stata di Kant, Herbart riuscì - grazie alle tendenze riformatrici del governo
prussiano consigliato specialmente da Wilhelm von Humboldt - ad istituire
in tale università un seminario pedagogico con annessa scuola, con la duplice
funzione di fornire un campo di osservazione e di sperimentazione.
Senonché l'istituto ideato, organizzato e diretto con zelo da Herbart, combattuto da misoneisti e ·ostacolato da génte interessata e da miopi funzionari,
non sopravviverà alla partenza del grande pedagogista da Konigsberg (1833).
I decenni successivi, caratterizzati dall'alternarsi di conati riformatori e rivoluzionari e da riprese conservatrici e reazionarie, vedranno diminuire grandemente
l'interesse per le teorie pedagogiche herbartiane. Bisognerà arrivare fin verso
la fine degli anni cinquanta per incontrare una ripresa dello herbartismo, per
opera di Karl Volkmar Stoy (1815-85), il quale, all'università di Jena, terrà
delle conferenze per illustrare il pensiero del grande pedagogista e riuscirà.~nche
ad organizzare una scuola sperimentale analoga a quella di Konigsberg.
Il più importante seguace di Herbart è, però, Tuiskan Ziller (1817-82),
professore all'università di Lipsia, dove organizza anche un seminario pedagogico con annessa scuola di esercitazioni didattiche nella quale i futuri professori degli istituti secondari apprendono praticamente il metodo di insegnare e
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
approfondiscono attraverso osservazioni dirette la loro conoscenza della psiche
umana nell'età evolutiva. Nel r869 Ziller riesce a fondare, sempre a Lipsia, la Lega per la pedagogia scientifica che riunisce insegnanti di ogni grado, dal professore universitario, al direttore di scuole normali ed elementari, al maestro, al curato e al pastore che nel suo villaggio assolve al compito di ispettore scolastico.
Il nostro autore, che taluno definisce « discepolo entusiasta e quasi cieco ammiratore .dell'Herbart... » tale da rappresentare, nella scuola herbartiana, «l'ortodossia e l'arido formalismo» (Luigi Credaro), è, in realtà, un autentico riformatore, tanto più importante in quanto lo herbartismo che si diffonderà in Europa e nel
mondo, tra la fine del xrx secolo e l'inizio del xx, sarà caratterizzato precisamente
da taluni motivi assai più zilleriani che ortodosso-herbartiani.
In questa sede, ovviamente, è possibile solo un rapidissimo richiamo a tali
motivi. Herbart, com'è noto, aveva parlato di « multilateralità » ma aveva respinto la« onnilateralità »degli interessi. L'onnilateralità, ammesso che fosse possibile, porterebbe alla dispersione e, quindi, alla stagnazione. È necessario, sì,
che ogni disciplina sia presentata non come un organismo compiuto ma come
il fondamento di un sapere più vasto; ma questo non esclude, e anzi implica, la
concentrazione dell'interesse sopra una disciplina particolare. Insomma, se tutti
devono avere un certo grado di amore e di gusto per tutte le cose, è non meno
importante che ciascuno tenda a diventare « virtuoso » nel campo che· gli si rivela
più congeniale.
Questo tema è svolto da Ziller, il quale ne deriva la teoria della « concentrazione>>. Si tratta di far convergere tutto l'insegnamento su un unico problema, condizione essenziale per suscitare il sentimento, sorgente perenne di ogni
interesse. Egli ritiene poi che la disciplina maggiormente dotata della capacità
di focalizzare tutte le altre in vista della formazione del carattere sia la storia, intesa come compendio di ideali in fatti e persone.
Il secondo dei temi che caratterizzano la dottrina zilleriana è costituito dal
principio delle «epoche di cultura». L'ipotesi che esista una corrispondenza
fra le successive tappe dello sviluppo dell'individuo e quelle dello sviluppo della
specie, già sostenuta, in senso lato, da Vico, Rousseau, Pestalozzi e approfondita
poi da Spencer, era stata rifiutata da Herbart che la trovava incompatibile con
la sua concezione dell'anima inizialmente tabula rasa. Ziller, invece, la fa sua,
dandole però un'interpretazione originale. Si tratta, per lui, di una corrispondenza
fra i tratti essenziali dei vari momenti della storia della cultura e gli interessi e
gli atteggiamenti espressivi dell'individuo nelle varie fasi dell'età evolutiva. Nello
stabilire questa corrispondenza Ziller si spinge però fino all'autentica pedanteria.
Un ultimo cenno merita la riforma zilleriana dei «gradi formali», che egli
porta a cinque, suddividendo il primo (la «chiarezza» di Herbart) in «analisi»
e « sintesi ». La nuova classificazione sarà largamente accettata dai seguaci,. in
Germania e fuori.
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L'esigenza di
un~
scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
Nei paesi extratedeschi, come già si è detto, lo herbartismo pedagogico fiorisce solo a partire dalla fine del XIX secolo. In Olanda Hartse, in Francia
Pinloche, in Italia Fornelli e successivamente Credaro si preoccuperanno di
diffondere il pensiero di Herbart e della sua scuola. Nicola Fornelli crede di
identificare la causa di questo quasi improvviso entusiasmo per la pedagogia
herbartiana nella insofferenza per il crescente enciclopedismo che aduggiava la
scuola italiana e per il carattere eminentemente «formativo» che di fronte ad
esso lo herbartismo assume. Credaro, invece, scorge la causa di tale entusiasmo
nella consapevolezza, che finalmente alla fine del secolo si fa strada anche in
Italia, della necessità, per tutti i docenti, di disporre oltre che del possesso. della
loro disciplina, anche di una chiara e valente preparazione didattica: in tal senso
lo he:rbartismo, lungi dal contrapporsi al positivismo, finirebbe, almeno nel terreno dell'impegno metodologico, per convergere con esso.
Negli Stati Uniti d'America lo herbartismo appare, durante gli ultimi decenni
del XIX secolo, come la dottrina capace di offrire una filosofia e una psicologia
dell'educazione di cui si sente il bisogno, ma che la cultura americana non ha
ancora prodotto. Si giunge così alla fondazione, nel I 89z, di un club Herbart,
per iniziativa di Charles McMurry, nell'Illinois. Tale club si trasformerà nel
I 895 in società nazionale Herbart, della quale farà parte, per qualche tempo,
anche John Dewey. Successivamente, come conseguenza di severe critiche mosse
allo herbartismo (anche da Dewey), l'istituzione si trasformerà in società nazionale per lo studio dell'educazione.
b) Il positivismo
Nella storia dell'educazione l'età del positivismo costituisce un momento
d'importanza decisiva. Non c'è settore del campo che non venga profondamente
scavato e nel quale non vengano attuate, o proposte, trasformazioni radicali:
dalla scuola materna a quelle differenziali per subnormali e disadattati, alle secondarie di vario ordine e grado, all'università; dal problema dei fini a quello del
metodo, del contenuto, della disciplina, dei sussidi didattici, dei rapporti fra istituzioni scolastiche ed esigenze della nuova società.
Volendo, comunque, enucleare i motivi essenziali, ai quali, in ultima istanza,
tutti gli altri si ricollegano, ci pare che essi possano :ridursi a due:
I) l'impegno a costituire una pedagogia su basi scientifiche;
z) la piena fiducia nel valore formativo della scienza.
Per quanto riguarda il primo punto le difficoltà incontrate sono, a loro volta,
di due ordini:
I) l'estrema complessità dell'oggetto;
z) la necessità di risolvere il problema dei :rapporti fra discorso scientifico e
discorso normativa.
Possiamo dichiarare fin d'ora che i positivisti del periodo «classico» sem·
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
brano ignorare completamente il secondo ordine di difficoltà (conseguenza, questa,
del loro sostanziale intellettualismo etico). Di fronte al primo ordine manifestano
maggiore consapevolezza e preoccupazione, ciò che porta, qualche volta, taluno
di loro ad assumere un atteggiamento di cautela e di attesa. In generale, però,
anche di fronte alle difficoltà del primo ordine prevale nei positivisti una certa
esaltazione ottimistica, chiara sopravvivenza romantica, che li spinge ad indulgere, spesso, ad affrettate generalizzazioni, senza valutare adeguatamente la· portata dell'impegno assunto.
La possibilità di una pedagogia scientifica è più accettata come presupposto
che dimostrata, così che ci si preoccupa di elaborare tale scienza assai più che
di considerarne la possibilità, il fondamento, il metodo, i limiti. Il risultato di
tutto questo è che le costruzioni dei positivisti si trovano sospese a mezzo fra
l'empirismo ingenuo e un naturalismo filosofico assai più prossimo alla filosofia
.della natura di tipo rinascimentale che alla scienza nel significato moderno della
parola.
A parziale giustificazione degli autori qui presi in considerazione bisogna
però tener presente il fatto che durante il periodo della loro egemonia le scienze
che possono fungere da ausiliarie della pedagogia (psicologia generale e dell'età
evolutiva, sociologia, antropologia culturale) o non sono ancora nate o stanno
appena movendo i primi passi.
A questo punto, tenendo presente il fatto che qui non si sta considerando
l'intero panorama della problematica pedagogica affrontata dal positivismo, bensì
un problema specifico, apparirà chiara la ragione per cui, anziché addentrarci ad
analizzare partitamente le singole « pedagogie scientifiche »proposte dai vari autori, ci limitiamo a prendere in esame il grado di criticità (o di acrisia) degli autori
stessi di fronte al problema che ci interessa.
Comte, partendo dal presupposto che il meccanismo sociale riposa, in ultima analisi, su opinioni e che la crisi della civiltà moderna è dovuta all'anarchia
intellettuale, logicamente attribuisce una posizione primaria all'impegno pedagogico. Alla fine del Cours, anzi, egli promette di elaborare, in futuro, un
compiuto « sistema » pedagogico. In una lettera a Clotilde de Vaux, del luglio
1845, egli afferma che« l'educazione ... costituisce sempre, per sua natura, la principale applicazione di ogni sistema generale destinato a governare spiritualmente
l'Umanità». Che si tratti di fondare una pedagogia scientifica e che tale fondazione sia possibile, Comte ammette implicitamente là dove rifiuta l'ipotesi che i
«fenomeni sociali» siano condanna:ti, «da una specie di fatale eccezione», a
rimanere nello stadio teologico-metafisica e afferma la «possibilità» di concepire
e di coltivare la scienza sociale « al modo di tutte le altre scienze interamente
positive ».
Senonché, mentre, a questo punto, sarebbe legittimo attendersi che proprio
all'elaborazione e all'applicazione del «sistema» di pedagogia positiva fosse
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della
pedago~ia
scientifica
attribuita, secondo l'impostazione illuministica del problema, la funzione di fattore essenziale e primario nel processo di trasformazione dell'umanità, Comte
dichiara« prematura» l'elaborazione immediata del sistema pedagogico, in quanto
l'educazione dell'individuo riproduce necessariamente il grado di sviluppo della
specie, ragion per cui ness?n piano di educazione positiva potrebbe essere saggiamente concepito finché l'evoluzione generale dell'umanità non sarà giunta
allo stadio positivo, non soltanto sul piano della sistemazione generale delle conoscenze, ma anche su quello sociale e politico.
Non è possibile addentrarci, qui, in un'approfondita analisi del problema che
coinvolge la quest-ione di fondo della coesistenza e del contrasto di una tendenza
intellettualistica e di una irrazionalistica nell'ambito del pensiero di Comte. Ci
sembra, però, di poter tranquillamente affermare che, indubbiamente, è dal.Cours
che emergono i motivi generali che fanno del pensiero comtiano uno dei pilastri della pedagogia del positivismo, e sia pure, come osserva Émile Littré, nel
senso di una pura indicazione della linea di svolgimento tendenziale del movimento, « lasciando agli esperimenti fatti in classe e agli eventi la cura di indicare
le soluzioni transitorie ».
Nella sua Introduzione alla scienza sociale Spencer affronta, implicitamente,
il problema della possibilità anche di quella particolare scienza sociale che è,
appunto, la pedagogia. Il nostro autore osserva che i fenomeni affrontati dalle
scienze sociali sono, fra tutti, i più complessi e quindi i meno suscettibili di un
trattamento esatto. Quelli che si possono ricondurre alla generalizzazione possono essere generalizzati solo « entro larghissimi limiti di variazione » e molti,
addirittura, si sottraggono all'attività generalizzante. «Ma fin dove è possibile
la generalizzazione e la interpretazione che su di essa si fonda, fin là giunge la
scienza.»
Altrove, nello stesso libro, Spencer afferma che uno dei massimi ostacoli
per la costruzione di una scienza sociale è quello derivante dall'impossibilità di
afferrare tutti i fenomeni estremamente vari e complessi di cui tale scienza si
occupa e di fissarli chiaramente nella molteplicità e varietà dei loro rapporti e
nel gioco delle loro proporzioni. Nonostante questi gravissimi limiti, il filosofo
inglese non si dichiara affatto disposto ad accontentarsi del punto di vista del
senso comune: « Con i metodi ispirati dal senso comune non si viene a capo di
nulla neppure [per riparare] una lastra di metallo. E che diremo, dunque, della
società? "Credete che sia più facile suonare me che uno zufolo? " domanda
Amleto. È forse più facile raddrizzar l'umanità che una lastra di ferro?»
Nel suo trattato sulla Educazione intellettuale, morale e fisica, Spen~er, dando
per scontata la possibilità di fon_dare la pedagogia su basi scientifiche, si limita ad
osservare che l'attuale coesistenza di molti metodi contrastanti (riflesso, nel campo
dell'educazione del declin~re del principio di autorità tipico dell'età presente)
caratterizza la fase di trapasso dalla «unanimità degli ignoranti» alla « unani-
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
mità degli scienziati». Non c'è dubbio, per il nostro autore, saldamente ancorato alla concezione della scienza quale rispecchiamento delle strutture intime della
realtà, che semmai, un giorno, gli uomini scoprissero « il vero metodo educativo », questo non potrebbe non imporsi in modo assoluto a tutti, tanto che il
discordare da esso costituirebbe errore e provocherebbe danno.
I fondamentali motivi comtiani e, soprattutto, spenceriani ora illustrati, si
ritrovano agevolmente, ad apertura di pagina, in tutti i pedagogisti della corrente
positivistica, compresi quellÌ italiani. Di questi ultimi, però, ci riserviamo di trattare un poco più ampiamente nel capitolo vu di questo volume. Per ora, e in
ordine al solo problema che qui ci ha interessati, ci limitiamo a segnalare come
al dogmatismo acritico dell' Ardigò faccia riscontro una maggiore consapevolezza
e una conseguente più attenta cautela in Gabelli, De. Dominicis e Siçiliani.
Quanto al secondo aspetto di quello che abbiamo definito il culto della pedagogia positivistica per la scienza, vale a dire la fiducia nel valore formativo
della scienza stessa, esso coinvolge tre ordini di problemi: quello concernente i
rapporti fra cultura scientifica e cultura umanistico-letteraria, quello relativo al
metodo e quello, infine, relativo alla laicità della scuola.
Sul primo punto si deve segnalare l'atteggiamento (per dire il vero non
sempre univoco e conseguente) dei positivisti di fronte al dibattito pro e contro
gli studi umanistico-letterari.
Vediamo, ora, di richiamare i motivi che maggiormente emergono dal corso
della storia della pedagogia in rapporto al secondo e al terzo punto.
Nessuna accusa è più infondata, nei riguardi della pedagogia positivistica,
di quella di nozionismo. Vero è che per i positivisti le nozioni acquistano un
valore prevalentemente strumentale, in vista del promovimento di una piena maturità di giudizio e, poiché proprio questo rovesciamento dei rapporti fra i contenuti del sapere e i modi del suo apprendimento costituisce uno dei motivi
essenziali fra quelli che caratterizzano il passaggio dal « vecchio » al « nuovo »
modo di intendere il fatto educativo - in quanto primato del metodo quale
strumento atto a promuovere lo svolgimento autonomo del discente vuol dire
primato di quest'ultimo di fronte al docente e, soprattutto, di fronte al sapere
elaborato dalle generazioni passate ed affidato al «libro» -possiamo senz'altro
affermare che i positivisti si pongono sul piano della scuola attiva e si possono
«ricollegare ai grandi precedenti dei Rousseau, dei Pestalozzi, dei Froebel» (Ugo
Spirito).
Questo atteggiamento pedocentrico, antiintellettualistico, antilibresco, è particolarmente evidente nel già citato libro Educazione intellettuale, morale e fisica
di Spencer (1861), di cui si ritroverà l'eco in quasi tutti gli scritti pedagogici
fioriti in Europa nei decenni immediatamente successivi. Il motivo ispiratore
della metodologia spence:riana è quello secondo il quale bisogna far entrare nella
scuola tutte quelle attività spontanee, apparentemente senza scopo, mediante le
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
quali il fanciullo, ma non solo il fanciullo, l'uomo in generale, apprende da sé,
prima di andare a scuola, nelle attività extrascolastiche, durante tutta la vita
post-scolastica. L'ordinamento delle materie deve corrispondere al processo di
sviluppo delle varie attività psichiche. Niente verbalismo: il « dire » troppo al
fanciullo trasforma quest'ultimo in un recipiente delle osservazioni altrui. La
vecchia scuola presentava agli alunni «il mero prodotto dell'osservazione» anziché far loro ripercorrere, il processo di ricerca che ha condotto ad ottenere i
prodotti stessi. Leggi e regole, tutto ciò che non sia direttamente osservabile,
dimostrabile, verificabile sperimentalmente, condannerebbe inesorabilmente all' enciclopedismo rapsodico ed arido, privando i fanciulli di quella visione d'insieme,
di quella prospettiva che, sola, riesce a dare un significato anche alle nozioni.
Per quanto riguarda il terzo punto si deve riconoscere che spesso i positivisti del tardo Ottocento tendono, effettivamente, a identificare la laicità con la
«neutralità» di fronte ai vari credi e alle varie ideologie, e col giustificare la neutralità mediante una confessione - spesso un tentativo ipocrita e provocatorio di «incompetenza». Non mancano però gli spiriti più coerenti e coraggiosi:
citeremo, per l'Italia, Pietro Siciliani e Andrea Angiulli. Resta, comunque~ incontrovertibile, la constatazione che i tempi appaiono ancora immaturi per l'elaborazione di una teoria del laicismo come « positività » e cioè come piena consapevolezza del fatto che, nel mondo moderno, il supremo imperativo categorico
è quello di impegnarci in attività socialmente rilevanti solo quando esse siano state dimostrate valide dal discorso scientifico - il solo valido intersoggettivamente- e di abituarsi, negli altri casi, all'epochè (sospensione di giudizio).
c) Pedagogia e scienze ausiliarie
Possiamo articolare il nostro discorso sul contributo fornito dalle scienze
umane alla pedagogia in tre parti, relative, rispettivamente: alle scienze medicobiologiche, alla psicologia, alle scienze sociali. Ovviamente, in questa sede ~arà
necessario limitarsi poco più che a un'elencazione indicativa.
·
Scienze medico-biologiche. La biologia propone alla riflessione dei pedagogisti
il concetto di eredità. Si tratta, nientemeno, di distinguere e delimitare il campo
accessibile alle influenze ambientali e, conseguentemente, di fornire un contributo
rilevante per la fissazione dei confini entro i quali la stessa azione educativa,
diretta o indiretta, potrà risultare efficace. Dal « divieni quel che sei » di Pindaro,
per il quale« pieno valore ha soltanto colui nel quale il pregio glorioso è innato»,
fino alla proclamazione della onnipotenza dell'educazione da parte di Helvétius,
e fino al sociologismo imperante, come vedremo, ai nostri giorni, una riconsiderazione dell'intera storia della pedagogia sotto questo particolare angolo di visuale potrebbe risultare ricca di spunti estremamente suggestivi.
Si potrebbe, fra l'altro, controllare come l'alternarsi delle tre tesi sia andato
di pari passo con l'affermarsi di concezioni politico-sociali «autoritarie» o «li88
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
berali ». Nel periodo che stiamo esaminando, per esempio, è indiscutibile che
il riconoscimento dell'esistenza di attitudini ereditarie è prevalentemente usufruito nel senso di addossare alla società la grave responsabilità di rintracciarle
e di renderne possibile, anzi, di favorirne lo sviluppo, e d'altra parte, si tratta,
per la prima volta nella storia della cultura, di trasferire il discorso su questo
argomento dal piano delle declamazioni oratorie e delle pseudodimostrazioni
speculative a quello dell'osservazione e del controllo sperimentale.
Un altro concetto proposto dalla biologia è quello di « maturazione » intesa
come sviluppo dell'organismo in funzione del tempo e dell'età, dipendente da
mutamenti anatomofisiologico-biochimici e relativamente indipendente dalle condizioni ambientali, dalle esperienze e dall'esercizio. È evidente che, sul piano
pedagogico, si tratta, qui, di convalidare o meno l'impostazione, potremmo dire, rousseauiana, per la quale è necessario che il bambino, in ogni stadio, riceva
gli stimoli, il tipo di insegnamento compatibili con il suo potenziale cerebrale.
Sviluppato, questo concetto porterà all'ipotesi dell'esistenza di un momento « ottimo » per ogni apprendimento specifico, prima del quale l'insegnamento sarebbe
praticamente inutile e condannerebbe l'alunno ad uno sforzo dannoso e dopo
del quale ogni rinvio darebbe poco vantaggio o, addirittura, porterebbe a una diminuzione di rendimento.
Passando alla medicina vera e propria, si rivelano di grande importanza lo
studio delle malattie infantili che rende possibile un'efficace profilassi e una razionale organizzazione dell'igiene scolastica; gli studi sulla fatica, e, soprattutto, le
ricerche relative all'educazione degli anormali.
Quest'ultimo punto ci porta a nominare quattro studiosi la cui opera deve
essere considerata una fedele espressione delle esigenze di rinnovamento della
scuola e dell'educazione in generale. Ci riferiamo ai francesi Jean-Marie-Gaspard
Itard e Edouard Séguin, al belga Ovide Decroly e alla italiana Maria Montessori.
ltard è noto soprattutto per il tentativo (fallito) di recuperare alla civiltà
il cosiddetto Selvaggio dell' Aveyron, un fanciullo catturato nei boschi (del dipartimento, appunto, di A veyron) in condizioni del tutto animalesche e considerato
per qualche tempo, da molti studiosi, come un provvidenziale, insostituibile
caso di «uomo della natura». L'Itard, nel suo, pur vano, tentativo di recupero,
ha modo di affermare alcuni principi che saranno confermati dalla pedagogia posteriore: il principio secondo il quale lo sviluppo psichico non può compiersi
fuori della vita sociale e, pertanto, la deficienza è imputabile principalmente a
fattori sociali (nel caso specifico: all'isolamento) e il principio secondo il quale
l'azione dell'educatore deve lasciarsi guidare dalla progressiva comparsa delle facoltà intellettuali.
Séguin evidenzia l'importanza del far leva su tutte le funzioni psichiche e in
particolare sull'affettività e non sulla sola intelligenza, l'importanza determinante
dell'ambiente e, nel quadro dell'ambiente, della libera attività dell'educando.
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
Di Decroly e della Montessori si parlerà più ampiamente nel capitolo xi
del volume settimo, in quanto l'influsso del loro pensiero e della loro opera
si farà sentire, in Europa e nel mondo, soprattutto in pieno xx secolo. Per ora
ci limitiamo a presentarli come due dei massimi esponenti di quel movimento
che, partendo dalla psichiatria e passando attraverso la pedagogia dei subnormali,
giunge ad elaborare una pedagogia generale.
Potremmo aggiungere, per concludere questo rapido discorso indicativo, che
il merito precipuo dei medici-pedagogisti citati consiste (facendo eccezione, in
parte, per la Montessori) nell'aver capito che l'esperienza fatta sui subnormali è
valida non in quanto fornisca procedimenti meccanicamente trasferibili ai normali,
ma in quanto costringe a individualizzare la terapia, mette in luce la necessità di
un costante collegamento fra medico, psicologo ed educatore e permette di approfondire meglio, attraverso le loro manifestazioni abnormi, talune funzioni essenziali della psiche normale.
Pedagogia e psicologia. La necessità che l'insegnante e, in generale, l'educatore
studi egli stesso psicologia e ricorra ai consigli dello psicologo specializzato, è
stata sentita (dove pur lo è stata) solo in tempi recentissimi.
Le ragioni di un così grande ritardo possono essere trovate nella pretesa per
cui tutti si credono «naturalmente» dotati di quel tanto di «intuizione psicologica » indispensabile per essere maestro, e nella troppo recente nascita
della psicologia scientifica generale e della psicologia dell'età evolutiva in particolare.
Dal momento della sua apparizione, però, la psicologia dell'età evolutiva, e
le sue applicazioni alla pedagogia hanno uno sviluppo rapido e imponente né
si vede come potrebbe essere altrimenti, se è vero che la psicologia applicata
all'educazione è uno dei due rami più importanti della psicologia applicata in
generale (l'altro è costituito dalla psicologia industriale).
Non a caso il tipo di indagine psicologica che qui ci interessa ha il massimo
sviluppo precisamente nei paesi più industrializzati: USA, Inghilterra,. URSS,
Germania, Francia.
Uno degli aspetti più rilevanti nell'evoluzione della scienza in questione è
quello che riguarda i metodi. Si prendono le mosse con alcuni tentativi di « biografie infantili» costruite per lo più da scienziati-genitori, i quali talora inseriscono nella loro indagine esperimenti e misurazioni.
Verranno poi i tests e l'applicazione, effettuata in America a partire dal
1904, sui bambini in età scolastica, di vari sistemi di misurazione già applicati in
altri campi.
La nota più significativa, nell'evoluzione in campo metodologico, è chiaramente costituita dal progressivo passaggio dall'impiego dell'osservazione a quello
dell'esperimento o di tecniche ad esso vicine. Ne consegue l'accentuarsi del rigore
e, con esso, della difficoltà.
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
Se passiamo ora a considerare le conclusioni teoriche più tipiche di questa
psicologia pedagogica, la nostra attenzione è attirata soprattutto da tre ordini di
mòtivi:
I) Tendenza a stabilire un parallelismo tra fenomeni organici e manifestazioni psichiche. È una grande conquista della scienza moderna, esposta, però,
sotto l'impulso del positivismo spenceriano e tedesco, alla tentazione di operare
la riduzione di tutti i piani della realtà ad un unico piano fondamentale mediante
un rigoroso rapporto causale e, quindi, al pericolo di slittare in un piatto materialismo.
z) Tendenza all'analisi, alla determinazione degli «elementi» costitutivi della
psiche, dei loro rapporti e delle leggi regolanti tali rapporti. Ora, come affermerà
la scienza più matura, le scomposizioni possono essere necessarie a livelli di ricerca ma risultano pericolose nelle applicazioni, specialmente nel campo dell'educazione.
3) Tendenza ad estendere il criterio della misurazione alla vita psichica, usufruendo ddle tecniche via via perfezionate da altre scienze, quali la sociologia,
l'economia e la statistica. L'adozione del criterio della misurazione riguarda,
all'inizio, essenzialmente il campo dell'intelligenza; più avanti le tecniche della
misura si estenderanno anche al campo del carattere e, infine, a quello della socialità.
Nel complesso si può identificare come prevalente, fin dal primo attuarsi del
connubio fra pedagogia e psicologia, l'impegno ad adeguare éoncretamente l'azione educativa alle fasi evolutive dell'alunno. E proprio questo concetto di «fase
evolutiva » merita che ci si· soffermi un momento per una sia pur rapida riflessione.
Nel corso della storia delle indagini sullo spirito umano, ben prima dell'affermarsi della psicologia scientifica, si rivelano, in rapporto al problema dello
svolgimento della persona, due tendenze fondamentali: la prima, la più antica,
descrive il passaggio dall'infanzia alla maturità come un'evoluzione graduale, un
accrescimento essenzialmente quantitativo, una successione di età che segnano,
poi, ed è questo l'aspetto pedagogicamente più rilevante della cosa, un passaggio dal meno al più, dall'imperfetto al perfetto o, per usare la classica terminologia aristotelica, dalla potenza all'atto.
È un'impostazione che spiega il disinteresse degli antichi per la psicologia
dell'età evolutiva e che, a sua volta, si spiega con tale disinteresse. È, ancora,
un'impostazione connessa con una struttura statica e autoritaria della società,
per la quale la generazione adulta si ritiene depositaria dei « valori » eterni ed
immutabili e crede suo diritto-dovere trasmettere tali valori, intatti, nel più breve
tempo possibile, alla generazione che cresce.
L'altra tendenza, al contrario, descrive l'età evolutiva quasi come una successione di metamorfosi, in ognuna delle quali l'individuo assume tratti in parte
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
eterogenei rispetto a quelli già assunti o da assumere nelle altre fasi, con le quali,
comunque, la diversità è essenzialmente qualitativa anziché di grado.
Il lettore ha trovato questa teoria fin dagli albori (e non a caso!) dell'età moderna: pensi a Comenio, Fénelon, Vico e Rousseau. Una civiltà convinta che la
verità sia figlia del tempo e che l'infinita diversità degli individui sia la ragion
prima del progresso umano, una società che afferma il diritto per ogni forma di
vita, di cultura, di attività, di proclamarsi superiorem non recognoscens deve pure,
alfine, giungere a proclamare l'eguale dignità, oltre che dei sessi, delle razze
e dei livelli sociali, anche delle diverse fasi della vita individuale. Così si avrà la
cosiddetta «rivoluzione copernicana» anche nel campo dell'educazione, con la
collocazione, al centro del processo educativo, non più del contenuto culturale
(depositato nel « libro » di cui è perfetto conoscitore ed interprete autorizzato il
maestro) ma dell'alunno, con la sua personalità, i suoi bisogni, i suoi interessi.
Questa teoria fornisce inoltre una solida giustificazione a quella strutturazione « ciclica » della scuola che costituisce una indubbia apertura verso la realizzazione di una diffusione di « tutto » il sapere fra « tutti » gli uomini entro i ben
precisi limiti in cui tale realizzazione è possibile in una società divisa in classi.
Infatti, a questo punto, il problema diventa quello di « tradurre » qualsivoglia
contenuto nel tipo di « linguaggio » corrispondente al grado di maturazione dell'alunno al quale ci si rivolge: l'essenziale è che tutti vadano a scuola per un certo
numero di anni (cinque-otto), senza che la società si impegni a far percorrere a
tutti l'intero curriculum.
Tra la fine del XIX secolo e gli inizi del xx, nel quadro di quella complessa
ventata irrazionalistica che spazzerà l'Europa (e non solo sul piano culturale, se
è vero che essa costituirà la preparazione ideologica della prima guerra mondiale
e della successiva involuzione autoritaria) anche la psicologia e, in particolare,
proprio la psicologia applicata all'educazione dovrà ·sostenere una serie di attacchi, i quali, se in alcuni paesi- fra i quali l'Italia- provocheranno un periodo
di vera e propria stasi, altrove raggiungeranno l'effetto, ampiamente positivo, di
favorire l'acquisizione da parte della psicologia stessa di una maggiore consapevolezza circa il proprio campo e i propri metodi.
La nuova psicologia dell'età evolutiva sarà caratterizzata da maggiore autonomia nei riguardi delle altre scienze e dalla considerazione del fanciullo come
personalità totale, dotata di caratteristiche irripetibili, in parte derivanti dal condizionamento sociale. Si aprono così le porte ad una tematica destinata ad occupare il centro del dibattito pedagogico nei decenni successivi: quella relativa
all'individualizzazione del metodo, quella concernente l'educazione alla socialità e,
infine, quella riguardante il carattere « strutturalmente » sociale sia della psiche
sia della cultura. In questa direzione la nuova pedagogia seguirà i suggerimenti
del behaviorismo, del gestaltismo, del globalismo, della psicoanalisi. Ma sugli
sviluppi di questi motivi si tornerà più analiticamente nel volume ottavo.
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L'esigenza.- di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
Pedagogia e sociologia. Il sorgere e l'affermarsi della sociologia permette che
vengano affrontati a livello di indagine scientifica due ordini di problemi interessanti l'educazione. Si tratta in primo luogo di studiare l'azione che la società
nel suo complesso, intenzionalmente o no, mediante tutti gli elementi, formali o
meno, costitutivi della sua struttura e tra loro interagenti, esercita sull'individuo;
in secondo luogo di determinare le caratteristiche strutturali che quel particolare
gruppo associativo che è la scuola deve assumere per realizzare il fine di produrre il tipo di uomo (di lavoratore, di cittadino) richiesto da una determinata società in un determinato momento del suo sviluppo storico.
Il primo punto, a sua volta, si articola in tre tipi di ricerche, relative: a) alla
storia delle strutture particolari (quindi anche delle istituzioni educative) e della
cultura nei suoi rapporti con la storia generale della società; b) al modo con cui
ogni struttura particolare (famiglia, scuola, banda, chiesa, fabbrica, ecc.) influenza
lo sviluppo dell'individuo; c) al rapporto fra maturazione biopsichica e trasformazione dei comportamenti sociali (qui, evidentemente, siamo in una fascia di
competenze comuni a sociologia, psicologia e pedagogia).
Lo stesso discorso può essere fatto anche sotto un'angolazione diversa. Possiamo, cioè, richiamare l'attenzione sul fatto che la sociologia mette in evidenza il
carattere «strutturalmente» sociale dell'individuo e di tutti gli elementi costitutivi
della cultura: dalla lingua, parlata e scritta, al calcolo e alla misurazione, alle
norme del comune vivere civile a quelle del costume e a quelle più propriamente
etiche e religiose, alla storia, alla geografia, all'arte, alla scienza, alla filosofia ecc.
Ragion per cui gli individui che entrano in rapporto nel processo dell'educazione sono già, per se stessi, prima di tale rapporto, entità essenzialmente sociali.
Ne deriva, ancora, che l'azione educativa è un evento sociale e socialmente rilevante non solo in quanto, introducendo l'educando in una vita di gruppo extrafamiliare, lo avvia a vivere nella più vasta« società» (attivamente o passivamente,
questo dipende dal tipo di società in funzione del quale la scuola è chiamata a
educare), ma anche in quanto i contenuti culturali che essa fornisce, da un lato,
costituiscono altrettanti « strumenti » senza dei quali il vivere in società sarebbe
impossibile ma, d'altro canto, essendo essi stessi «prodotti» di un certo tipo di
società, predeterminano l'alunno a un certo tipo di comportamento sociale.
Senonché il riconoscimento dell'esistenza di rapporti funzionali tra educazione e società può condurre a sbocchi diametralmente opposti: da un lato può
portare ad attribuire all'educazione in generale e in particolare alla scuola, una
virtù demiurgica, capace di trasformare la società. È l'atteggiamento che possiamo indicare come illuministico: basti pensare a Helvétius e a Condorcet, atteggiamento ancora presente in alcuni aspetti del positivismo di Comte.
Indubbiamente, però, la tesi prevalente nella seconda metà del XIX secolo è quella che sottolinea, invece, la dipendenza dell'educazione dalla società. In tal senso si parla di « sociologismo pedagogico », chiaramente rileva93
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
bile nel pensiero di Spencer. Secondo questa tesi, la sociologia dovrebbe elaborare, al limite, studi statistici delle abitudini, dei desideri, degli interessi, delle idee
di fatto sussistenti, per derivarne il piano di lavoro da imporre ai vari gradi e
tipi di scuola. La scuola, insomma, dovrebbe limitarsi ad offrire coscientemente il
genere di educazione che l'insieme sociale fornisce inconsciamente, ivi compresi
i suoi difetti e le sue perversioni.
Il sociologismo pedagogico ha probabilmente la sua espressione più tipica
nel pensiero del francese Émile Durkheim (di cui si è parlato nel capitolo m),
per il quale l'educazione, « lungi dall'aver per unico e principale scopo l'individuo, è prima di tutto il mezzo col quale la società rinnova perpetuamente le
condizioni della propria esistenza». Essa «è l'azione esercitata dalle generazioni
adulte su quelle che non sono ancora mature per la vita sociale. Essa ha per scopo
di suscitare e di sviluppare nel fanciullo un certo numero di stati fisici, intellettuali e mentali, reclamati e dalla società politica nel suo insieme e dall'ambiente
sociale al quale egli è particolarmente destinato ».
Senonché l'impostazione sociologica ammette anche uno sbocco di tipo rivoluzionario. Una volta dedotte le caratteristiche dell'individuo dalla condizione
storica in cui gli è capitato di vivere, tutto il discorso pedagogico sulla selezione
e sull'orientamento e lo stesso discorso psicologico sulle attitudini va rifatto su
basi completamente nuove. Si tratta di eliminare i condizionamenti negativi e
di arricchire l'ambiente di stimoli culturalmente positivi. Si tratta, soprattutto, di
mettere tutti gli individui in condizioni di partenza sostanzialmente e non solo
formalmente uguali. Questa tematica è tipica del marxismo, il quale, però, più
che puntare sulla profonda trasformazione della scuola (scuola a tempo pieno,
satura di stimoli vitali ed uguale per tutti almeno per un congruo numero di anni)
gioca tutto sulla carta della rivoluzione, giungendo così, per altra via, alla svalutazione del processo educativo e alla negazione dell'autonomia dell'educazione.
Se i valori, i contenuti culturali, le istituzioni scolastiche sono mere sovrastrutture rispetto alle condizioni socio-economiche dominanti, ne deriva l'impossibilità, e, al limite, la negatività, di un radicale rinnovamento del piano educativo
entro il quadro della società esistente. L'uomo nuovo, pienamente e armonicamente sviluppato, potrà essere solo il risultato della trasformazione rivoluzionaria delle strutture.
A questo punto sorge il problema della possibile convergenza della diagnosi
sociologica marxistica e dell'esigenza che abbiamo definito illuministica: ma si
tratta di un problema i cui termini cominciano ad ess'f!re chiaramente posti solo
ai nostri giorni e che sarà pertanto affrontato nell'ultimo volume.
d) Pedagogia sperimentale
È necessario distinguere l'espressione «pedagogia sperimentale» non solo
da altre quali « pedagogia positiva », « psicologia pedagogica » ma, anche, da
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
« pedagogia scientifica ». Che una pedagogia la quale voglia atteggiarsi a disciplina autenticamente scientifica non possa configurarsi che come scienza sperimentale, è indiscutibile. In realtà, però, sappiamo come il termine « scientifico »
sia stato usato talora per indicare concezioni fondate su procedimenti meramente
speculativi (Herbart) o più o meno direttamente avallate da argomenti psicologici, sociologici ecc. Si tratta, invece, di costruire un tipo di discorso rigorosamente pedagogico (il quale, cioè, escluda dal proprio campo tutti quei fatti che
non riguardino direttamente il processo educativo) e, altrettanto rigorosamente,
sperimentale, conseguente, cioè a tutta una serie di lavori di carattere indiscutibilmente sperimentale (creazione di gruppi di controllo, controprove, misurazione, elaborazione statistica dei risultati ecc.).
Si può far risalire l'origine della pedagogia sperimentale alla « pedologia »
dello statunitense J.G. Stanley Hall (I884-I9z4), la quale si propone di studiare
il fanciullo in tutti i suoi aspetti, somatici e psichici e di controllare con rigore
sperimentale l'efficacia dei vari metodi e delle varie tecniche nel campo didattico.
Stanley Hall è autore, fra l'altro, di un volume sull'adolescenza, Adolescence,
che costituisce « il primo tentativo organico di studi di un periodo della vita
umana, condotto col metodo del questionario » (Zunini).
Sempre negli Stati Uniti merita di essere ricordato, fra i creatori della pedagogia sperimentale, J.M. Rice (I857-I934)· Dopo avere studiato in Germania, a
J ena e a Lip sia, egli, tornato in America, si inserisce entusiasticamente nel movimento per lo studio del fanciullo e della didattica che aveva ricevuto gran parte
del suo impulso dall'opera dello Stanley Hall. Colpito dall'esistenza, nel campo
della pedagogia, di un inestricabile groviglio di teorie spesso decisamente in contrasto tra loro, egli giunge, nel I 894, alla conclusione che tale confusione derivi
dal fatto che « noi possediamo innumerevoli opinioni ma non disponiamo di
fatti a sostegno delle nostre opinioni, e che pertanto è necessario raccogliere fatti
e, .soprattutto, interpretarli in maniera da ricavarne conclusioni universalmente
valide». Si tratta, dunque, di trovare il criterio «oggettivo» per l'elaborazione
e l'interpretazione dell'esperienza e tale criterio non può essere che il metodo
sperimentale. I risultati delle ricerche di Rice furono pubblicati dapprima a
partire dal I 896, nella rivista « The form » e successivamente coordinati sistematicamente nel libro Scientijic management in education (Direttive scientifiche nell'educazione), considerato «di grande interesse» ancora alla fine degli anni '3o da
uno sperimentalista autorevolissimo come R. Buyse.
Nello spirito dello sperimentalismo pedagogico operano, sempre negli Stati
Uniti, organizzazioni come la National Association for the Study of Children
(I893) o il centro di ricerca scientifico creato a Chicago nel 1899· Uno studioso
delle origini e dello sviluppo del movimento che qui ci interessa, ha elencato,
in The pedagogica/ seminary, ben 44I titoli di riviste ed opere di pedagogia sperimentale pubblicate, negli Stati Uniti, durante il solo anno r 899·
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
Per quanto riguarda l'Europa e nell'ambito del periodo che in questo capitolo
stiamo considerando, ci limiteremo a citare Ernest Meumann e Wilhelm A. Lay
per la Germania, Alfred Binet per la Francia e William Winch per l 'Inghilterra.
Ernest Meumann (I86z-I9I 5) consegue la laurea in filosofia, ma ben presto
è attratto dalla psicologia: si reca a Lipsia (I 89 I) dove diventa dapprima discepolo
e, successivamente, assistente e collaboratore di Wundt.
Meumann ha ben chiara l'idea che una pedagogia sperimentale non può risolversi in psicologia applicata, ma deve configurarsi come una ricerca « nella
quale l'obiettivo vero della esperienza è il decidere direttamente del valore dei
procedimenti e dei metodi pedagogici ». In realtà, però, questa parte del programma è destinata a rimanere poco più che nelle intenzioni dell'autore il quale,
fortemente influenzato dalla concezione di Wundt, non solo approfondisce assai
più il settore della psicologia sperimentale di quello della didattica, ma anche,
quando affronta ricerche propriamente pedagogiche, considera che il luogo adatto
per queste ricerche sia il laboratorio piuttosto che la scuola, in quanto è nel laboratorio che sono nati e che si possono meglio utilizzare i procedimenti della
ricerca sperimentale. Con ciò egli si espone alla facile accusa di creare un ambiente
e una situazione artificiali e di perdere di vista proprio quel mondo concreto del
fanciullo che si tratterebbe di indagare.
Contemporanéo di Meumann "è Wilhelm A. Lay (I86z-I9z6).
Ciò che differenzia massimamente Lay da Meumann è il maggior interesse
che il primo rivela per le questioni metodologico-didattiche, e conseguentemente
per l'elaborazione, per ogni materia, delle tecniche più redditizie. Insomma l'interesse circa i processi mentali è, nel Lay, in funzione dei risultati ottenuti sul
piano dell'apprendimento. Oggetto degli studi di Lay, diversamente da quanto
accadeva per Meumann, è assai più la classe, come gruppo ordinario di alunni,
che il singolo alunno isolato nell'ambiente artificioso del laboratorio.
La critica che, in generale, si muove a Lay (ma si tratta di una questione
teorica di notevole importanza che verrà da noi ripresa più avanti) è dunque
un'altra e riguarda la sua pretesa di ridurre tutta la pedagogia a pedagogia sperimentale, e la pedagogia sperimentale a didattica sperimentale, nella convinzione
che la pedagogia sperimentale sia, semplicemente, «la pedagogia generale dell'avvenire ».
Alfred Binet (I857-I9II) del quale si è parlato nel capitolo n del presente
volume, allievo di Jean-Martin Charcot- uno dei massimi esponenti della neuropsichiatria francese, cui pure si è fatto cenno nel capitolo anzidetto - sebbene
conservi l'interesse dimostrato dal suo maestro per i probletni di psicologia patologica, viene progressivamente concentrando la sua attenzione sui problemi della
intelligenza e della personalità e, in particolare, della psicologia differenziale.
Nel I9o4 il governo francese nomina una commissione con l'incarico di studiare
le cause del ritardo fra numerosi alunni della scuola pubblica. Sviluppando il la-
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
voro che gli è stato affidato nell'ambito di questa commissione, Binet, in collaborazione con Théodore Simon, prepara il primo « test » mirante a fornire un
indice del grado di funzionamento intellettuale dell'individuo.
Nel 1908, rielaborando la sua« scala», Binet raggruppa le prove in livelli di
età, introducendo così il concetto di « età mentale » destinato ad assumere un'importanza fondamentale nella storia della pedagogia del nostro secolo. I reattivi
Binet-Simon accendono ben presto l'interesse degli studiosi di tutto il mondo:
la prima importante revisione sarà quella operata, negli Stati Uniti, all'università
di Stanford, da Terman: è nella scala revisionata da L.M. Terman (scala StanfordBinet) che, per la prima volta, viene introdotto il concetto di « quoziente di intelligenza» (QI), rapporto fra età mentale (livello medio dei risultati raggiunti dagli
alunni di una certa età) e l'età cronologica del singolo alunno.
Un altro campo di indagine scavato dal Binet è quello che riguarda la fatica
intellettuale. La Jat~!!,Ue intellectuelle ( 1898) è stata definita da R. Buyse un libro
che contiene tutti gli elementi di una vera metodologia della ricerca scolastica.
Al di là delle ricerche particolari Binet è un fervido assertore della pedagogia sperimentale anche sul piano dei principi. La vecchia pedagogia, per lui,
è risultato di pregiudizi, procede per affermazioni gratuite, confonde le dimostrazioni rigorose con le citazioni letterarie, al posto dei fatti mette avanti discorsi
ed esortazioni: di qui la necessità di trasferirsi sul piano dell'osservazione e,
soprattutto, della sperimentazione.
L'inglese William Winch (1864-193 5) non si sofferma sul problema generale
della possibilità e legittimità di una pedagogia sperimentale, problema che considera, ormai, risolto in senso affermativo: per lui si tratta di passare a un'intensa
opera di sperimentazione in campi specifici.
Fra maestro, pedagogista e psicologo deve esserci, secondo Winch, un rapporto diretto e reciproco. La scuola senza i lumi della pedagogia sperimentale e
della psicologia si· risolverebbe in «pratica», nel senso deteriore del termine.
Pedagogia e psicologia, qualora non attingessero alla viva esperienza della scuola
e al banco di prova di tale esperienza non verificassero le loro ipotesi, si risolverebbero in esercitazioni accademiche.
Date queste premesse, appare logico che Winch si dedichi soprattutto a
indagini sull'insegnamento delle singole materie scolastiche: ortografia, aritmetica ecc. Particolarmente efficaci sono alcuni suoi studi sull'insegnamento della
lettura ai principianti, della geometria e alcuni esperimenti sulla memorizzazione.
V · LE
«
SCUOLE NUOVE
»
Il fenomeno delle « scuole nuove >> deve essere considerato sotto due punti
di vista ben distinti: da un punto di vista formale esse non costituiscono un
fatto veramente nuovo. La storia delle istituzioni educative, è, in realtà, in lar-
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
ga misura storia di « scuole modello », nelle quali maggiormente si incarnano
le aspirazioni di un'epoca, l'ideale educativo di una determinata società: questo
vale per la scuola di Isocrate come per la « Giocosa » di Vittorino da Feltre, per le
«Piccole scuole» di Port-Royal, come per il Filanttopino e per Yverdun. Una
chiara distinzione fra i caratteri presentati da alcune istituzioni esemplari, d'avanguardia, sorrette, di norma, da abbondanti mezzi, e le istituzioni destinate
a più ampie masse (nei limiti in cui esistono) caratterizza tutto l'arco della
storia della società e deve essere tenuto presente dallo studioso che voglia evitare pericolose confusioni.
La novità del fenomeno che qui prendiamo in esame è costituita da taluni
motivi ricorrenti in tutti gli esperimenti, tali, cioè, da poter essere assunti quale
criterio per caratterizzare il tipo di scuola che faticosamente emerge dalla società
liberale e successivamente democratica, della quale tende ad appagare le esigenze
e ad incarnare gli ideali. Possiamo identificare il tema fondamentale delle scuole
nuove nell'impegno di promuovere un'educazione fondata sull'attività dell'educando e adeguatasi via via alle caratteristiche delle fasi dell'età evolutiva, anziché incentrata sul contenuto culturale e sulle sue strutture. Di qui l'importanza attribuita all'interesse, l'impegno ad elaborare tecniche capaci di
realizzare l'individualizzazione e la socializzazione del lavoro, il riconoscimento della necessità di ricorrere all'ausilio di scienze quali la psicologia e la
sociologia.
Un altro motivo essenziale nella pedagogia delle scuole nuove è costituito
dalla convinzione che l'educazione indiretta sia di gran longa più efficace di quella
diretta. È la vita, con le sue infinite e infinitamente varie e spesso inavvertite
stimolazioni, che « forma » la personalità, assai più delle massime e delle stesse
impostazioni dell'educatore. Ma, questo, anziché portare al deperimento e alla
scomparsa della scuola, porta al fenomeno, inverso ma solo apparentemente contraddittorio, di una scuola che tende a farsi vita, ad abbracciare sempre più della
vita ed è pertanto spinta a farsi scuola « totale », a tempo pieno ecc.
Il lettore non stenterà a riconoscere, già in questa prima presentazione globale, tutti o almeno i fondamentali motivi ai quali si ispirano, ai nostri giorni, le
forze progressiste (non più, ormai, sparute iniziative private ma vasti e poderosi
movimenti politici) che si battono per la realizzazione di una scuola unitaria
(e in questo senso veramente « popolare ») che estenda a tutti i fanciulli e gli
adolescenti le conquiste delle ottocentesche « scuole nuove ». Si tratta di un ritmo
che caratterizza l'intera storia delle istituzioni educative: realizzazioni di élite, che
si contrappongono inizialmente alle strutture, ai contenuti, ai metodi ormai
stantii della scuola a più larga diffusione e con frequenza più massiccia e che, successivamente, promuovono l'impegno a generalizzare le conquiste più geniali ed
audaci.
Senonché, alla luce di quanto si è detto nel paragrafo n del presente capitolo,
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
l'intero fenomeno delle scuole nuove può essere riconsiderato sotto un'angolazione del tutto nuova: si tratta di veder~, nel fenomeno stesso, una radicale
protesta contro quell'asservimento dell'uomo che il XIX secolo, sotto certi punti
di vista, esaspera anziché ridurre. Non a caso la prima di tali scuole è quella
aperta, nel 1859, da Tolstoj a Jasnaja Poljana, in Russia, cioè nel più chiuso
e assolutistico fra gli stati cosiddetti « civili », e non a caso in questo primo
esperimento viene avanzato il programma più radicalmente rivoluzionario:
quello dell'anarchismo pedagogico.
Con questo non si vuole respingere l'interpretazione più tradizionale di chi si
limita a vedere nelle scuole nuove il punto d'approdo del lunghissimo processo di
elaborazione della dottrina pedagogica moderna a partire dall'umanesimo e scorge
nella nuova iniziativa il carattere di protesta essenzialmente contro la vecchia educazione « adultistica », incentrata sui contenuti, ispirata ad un ideale gerarchico ed
autoritario della società. Vogliamo soltanto sottolineare il fatto che questa linea
di sviluppo della pedagogia moderna, che rappresenta uno degli aspetti del più
vasto processo di liquidazione del principio d'autorità a tutti i livelli, si trova
ad un tratto in aperto contrasto con talune caratteristiche della società capitalistico-borghese e della scuola di massa a cui tale società ha dato vita, e come da
questo contrasto si generi poi una convergenza fra i temi proposti dalla scuola
nuova e il progressivo diffondersi della scuola di massa destinata a creare le condizioni per la più grandiosa rivoluzione di tutti i tempi nel campo dell'educazione
e forse, anche molto più in là di questo campo.
Possiamo ora considerare gli esempi più significativi di scuola nuova, quali si
sono venuti configurando tra la metà del XIX secolo e, grosso modo, la prima guerra
mondiale. Ricordiamo di aver deliberatamente tralasciato alcuni importanti esperimenti (quello di Dewey a Chicago, di Decroly a Bruxelles e della Montessori a Roma) perché, pur cadendo entro il periodo qui considerato, proiettano la loro
importanza ben più in qua nel tempo e pertanto saranno considerati in seguito.
VI · LEV TOLSTOJ
Il grande iniziatore del movimento delle « scuole nuove » in Europa è, indubbiamente, il russo Lev Nikolajevic Tolstoj (1828-1910).
L'ispirazione di Tolstoj è senz'altro rousseauiana. Anche per lui «l'uomo
nasce perfetto» e «il bambino offre un modello di naturalezza, d'innocenza, di
bontà, di bellezza e di verità ».
Partendo da questa premessa, Tolstoj giunge ad una radicale negazione del
diritto di educare. L'educazione «è la premeditata formazione degli uomini secondo modelli dati», è «l'imposizione forzata, coercitiva, di un individuo sull'altro allo scopo di formare quel tipo d'uomo che a noi sembra opportuno».
Il rifiuto dell'educazione, in quanto ingiusta, infruttuosa e in ultima analisi
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
impossibile, non implica però un altrettanto radicale rifiuto dell'istruzione, intesa
come « libero rapporto tra gli individui avente per base il bisogno di ognuno
di essi di acquistare cognizioni già acquistate da altri ».
Senonché l'organizzazione elaborata per il progresso e la diffusione della
cultura è tale che nove lavoratori su dieci non godono dei frutti della scienza; e
gli studiosi di scienze sociali si sforzano di aiutare la classe dominante a « tenere
gli uomini nella schiavitù e nella miseria »; e le scienze naturali servono ad « aumentare il potere dei ricchi sui lavoratori sottomessi ed a rafforzare gli orrori della
malvagità e delle guerre».
D'altro canto, notando, specialmente durante i suoi viaggi in Occidente e in
particolar modo in Francia, come il popolo, nonostante l'azione negativa della
scuola, riesca ad essere vivace, intelligente, socievole, indagatore, in una parola:
civile, Tolstoj giunge alla conclusione che l'autentica educazione deve essere libera,
episodica, tratta dall'ambiente che offre le occasioni per il manifestarsi dell'interesse.
Dal confluire dei motivi fin qui accennati nasce, intorno al 1858, a Jasnaja
Poljana, la scuola sperimentale per i figli dei contadini. Si tratta probabilmente
dell'esperimento più spregiudicato di educazione libera esprimente la protesta
più radicale contro la tradizionale oppressione degli alunni. È una scuola senza
programma, senza orario, senza disciplina formale.
VII · CECIL REDDIE E LA SCUOLA DI ABBOTSHOLME
L'inglese Cecil Reddie (1858-1932), dopo aver studiato pedagogia in Germania, restando notevolmente influenzato dalla teoria herbartiana degli interessi,
fonda nel 1889, ad Abbotsholme nella contea di Derby, una scuola-convitto,
il cui scopo è quello di educare «quell'individuo superiore, pienamente formato
sotto tutti gli aspetti, capace di organizzare, di vivere per gli altri e di lavorare
con pieno disinteresse, che dovrebbe dirigere il nostro paese ». La scuola nuova
del Reddie sorge e si sviluppa, dunque, nella tipica atmosfera di un aristocraticismo liberale.
Bisogna formare caratteri virili, ma l'unico mezzo per giungere a tanto è
l'autoconvinzione. Di qui il motto della scuola: «La libertà è l'obbedienza alla
legge. » La vita, nella scuola di Abbotsholme, è regolata in base a una disciplina
esteriore dura ed austera, e ad una organizzazione minuziosa. Lo scopo è, però,
che il giovane giunga a comprendere le ragioni ultime di quella disciplina e di
quell'organizzazione, accettandole consapevolmente e volontariamente.
Grande importanza hanno l'educazione fisica, intesa nel senso di gioco sportivo all'aperto, e il lavoro manuale.
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L'istruzione ha finalità eminentemente formativa, antinozionistica. Le lingue
sono insegnate col metodo diretto; l'aritmetica trae spunto da problemi concreti,
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
proposti dalla vita della scuola; le scienze sono studiate, per quanto possibile,
intuitivamente.
Sulla traccia di Cecil Reddie altre scuole « nuove » verranno create in Inghilterra da J. Haden Badley (fautore, contro Reddie, della coeducazione), da E.F.
O'Neill e da Paul Robin.
VIII· EDMOND DEMOLINS, GEORGES BERTIER E L'ÉCOLE DES ROCHES
All'esperimento di Abbotsholme si ispira anche il francese Edmond Demolins (r852-19o7), fondatore della École cles Roches, dal nome del piccolo castello
in cui la scuola stessa viene sistemata nel 1 899, presso Verneuil, in Bretagna.
Il Demolins è un grande ammiratore degli anglosassoni, la cui superiorità deriverebbe dalla sintesi armonica fra un vivacissimo spirito di intraprendenza individuale ed un altrettanto forte spirito di cooperazione. Egli si propone di far entrare anche nel costume francese la teoria e la prassi dell'iniziativa privata libera
e pure rivolta a fini sociali: di qui la sua iniziativa pedagogica. Nominato presidente del consiglio di amministrazione, egli rifiuta però la direzione della scuola,
che a partire dal 1903 viene affidata a Georges Bertier, il quale può essere considerato il vero realizzatore dei principi generali fissati da Demolins.
Attorno al piccolo castello cles Roches sorgono ben presto alcuni padiglioni che permettono alla scuola-convitto di articolarsi in gruppi poco numerosi,
capaci di riprodurre una certa atmosfera familiare. Anche qui, come ad Abbotsholme, si dà grande importanza all'educazione fisica e alla vita all'aria aperta.
Il lavoro manuale è curato con l'intento di educare l'attenzione, la precisione,
la padronanza dei movimenti e lo spirito di inventiva; di mettere a disposizione
di ciascuno una « seconda attività » essenzialmente ricreativa ed anche di fornire
gli elementi per esercitare, in caso di necessità, una professione artigiana. Comunque, dalle attività lavorative deve essere bandito il dilettantismo, la superficialità, il press'a poco.
L'École cles Roches fa leva, come tutte le altre scuole nuove, sull'interesse, ma ha ben chiaro il principio per il quale l'interesse non esclude lo sforzo.
La gioia del produrre non ha nulla a che vedere col futile divertimento. Bertier e Demolins risolvono il problema dell'orientamento con un atto di fede
nello spontaneo manifestarsi delle attitudini in clima di libertà e nella perspicacia
degli insegnanti.
Nel complesso l'École cles Roches; come osserva Aldo Visalberghi, nonostante l'impostazione democratica e aperta, non poté non divenire un'òasi" di
privilegiati, a causa delle altissime rette che dovevano essere pagate dai suoi
ospiti.
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IX · SCUOLE NUOVE IN GERMANIA: LIETZ, WYNEKEN, GEHEB
Gli esperimenti di scuola nuova in Germania risentono dell'influsso romantico, per cui la concezione della civiltà come storia si traduce in rifiuto di ogni
schema tradizionale, nell'affermazione del primato delle avanguardie e, conseguentemente, nel culto della gioventù. L 'incapacità della classe adulta nel I 848 di
portare avanti la rivoluzione liberale, la sua rinuncia a continuare a battersi sul
fronte politico e il suo concentrarsi nelle attività economiche e nello sviluppo
scientifico-tecnologico in funzione economica, fanno sì che i giovani desiderosi
di rinnovamento aspirino a rompere « globalmente » coi padri e, in genere, con
la cultura ufficiale. Sorgerà, così, fra gli altri, il movimento degli « Uccelli migratori » (Wandervogel) costituito da giovani che si uniscono cameratescamente,
in promiscuità di sessi, e si dedicano a viaggi a piedi, spesso notturni, danze e
canti, in cerca di una cultura spontanea.
Sul piano pedagogico rispondono a queste esigenze gli esperimenti di Lietz,
Wyneken, Geheb.
Hermann Lietz, già collaboratore di Cecil Reddie ad Abbotsholme, fonda
tre scuole: a Feremburg (1898), a Haubinda (1901), a Bieberstein (1904), per
alunni rispettivamente dai 7 ai 12, dai 12 ai 16 e dai 16 ai 20 anni. Spregiatore
dei programmi precostituiti esclusivamente in vista degli esami, fautore del
« sincero svolgimento di ogni anima secondo la propria natura individuale », e,
conseguentemente, dell'esperienza personale quale unica via della verità, dà alle
sue scuole la struttura di repubbliche di ragazzi, nelle quali l'ordine deve discendere assai più dal costume che dal regolamento.
Sono i «Focolari di educazione in campagna» (Sanderzielhungsheime).
Lo spirito, però, della scuola-convitto di Lietz finisce per rivelarsi profondamente diverso da quello del modello inglese, manifestando la presenza di alcuni
dei più tipici e deteriori motivi della tradizione culturale tedesca: il nazionalismo,
il culto del suolo patrio e degli eroi e il pregiudizio razziale antisemita. Antidemocratico, Lietz è nemico dichiarato del socialismo e vagheggia un ideale
aristocratico, che è poi quello dei vecchi proprietari terrieri. L'autogoverno è
ammesso esclusivamente in rapporto alle scelte « inessenziali », ma di fronte al
« Necessario » si esige la più monolitica unità. Il Necessario, poi, è lo Spirito che
si incarna nella Storia e nella Patria.
Da Lietz si staccano due dei suoi principali collaboratori: Gustav Wyneken
e Paul Geheb. Wyneken ostenta un totale rifiuto della morale e degli istituti
«borghesi»,. considera l'educazione tradizionale uno strumento elaborato dalle
generazioni adulte per asservire la giovinezza e si impegna in una rivoluzione pedagogica che promuova il risvegliarsi delle profonde forze irrazionali dell'animo
tedesco. Adunate, divise, riti, canti, gite di più giorni durante le quali si dorme
sotto la tenda e si fa cucina al campo, un senso romantico della vita che si mani102
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
festa nell'avversione alla scuola e, in particolare, alla tradizione classica, alla correttezza dello spirito familiare, questa è la libera comunità scolastica di Wyneken.
La scuola del Geheb, che si ispira a un neoumanesimo di tipo goethiano,
è caratterizzata da un maggiore rispetto del principio democratico: in essa, fra
l'altro, sono accolti numerosi stranieri, ciò che facilita l'affermarsi di un umanitarismo supernazionale,. Ciò spiega la persecuzione di cui Geheb sarà fatto segno da parte del nazismo.
La comunità è divisa in « famiglie » di sei-otto alunni dei due sessi, affidati a
un capo-famiglia: «padre» o «madre»; ogni famiglia abita una« casa» intitolata a un grande: Platone, Goethe, ecc.
Nel complesso queste scuole, con le loro pratiche naturistiche e nudistiche, la spregiudicata coeducazione dei sessi, il ritorno a forme pagane di vita e in
particolare a un certo spartanismo, il disprezzo per il costume «borghese», per
la vita normale, il culto dei capi-superuomini, l'agnosticismo morale, il concetto
della vita come « servizio sociale », contribuiranno a creare un fermento che,
dopo la disfatta del I 9 I 8, finirà per convogliare imponenti gruppi di giovani tedeschi nelle file naziste.
X · GEORG KERSCHENSTEINER
Profondamente diversa da quella di Lietz, di Wyneken e di Geheb è la
·concezione di Georg Kerschensteiner (I854-I932), rinnovatore. delle scuole professionali di Monaco e teorico della Scuola del lavoro (Arbeitschule).
Nel suo pensiero sono facilmente identificabili motivi rousseauiani, kantiani,
pestalozziani, fichtiani e, soprattutto, deweyani.
L'attivismo è presente nell'esigenza di sostituire l'esperienza personale all'insegnamento libresco, ma nulla è più lontano da Kerschensteiner dell'attivismo
puro, dello spontaneismo; così come lontanissimo da lui è il feticismo de~ lavoro manuale, concepito quale insegnamento da aggiungere agli altri.
Per lui il lavoro costituisce il motivo essenziale di tutto il processo educativo,
in quanto è la forma essenziale del processo della cultura.
Il mondo è stato liberato dalle varie schiavitù per opera non tanto del sapere
quanto del lavoro. I prodotti della cultura, dalla lingua alle arti, alle scienze, alle
teorie economiche e politiche, diventano « beni » solo in quanto sono obiettivati,
.
resi concreti attraverso il lavoro.
Ma per essere veramente educativo, il lavoro deve possedere tre caratteri
essenziali : I) serietà non dilettantesca; 2) valore rio n formale, ma reale; 3) socialità.
I) L'attività pratica nel laboratorio deve abituare gli alunni alla misura, al
peso, al controllo, eliminando la tendenza alla presunzione· ed alla retorica e
ridestando sentimento di sicurezz~, di abilità, di solidità interiore. '
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita della pedagogia scientifica
z) La formazione di un'abilità, lo sviluppo di una capacità, ha valore solo
quando è al servizio di un valore reale.
Questa subordinazione delle abilità ai valori è possibile solo se le abilità
stesse siano state acquisite al servizio di essi. La scuola deve perciò badare a che
il lavoro sia costantemente rivolto a un valore pregevole ed eterno, di verità, di
moralità, di bellezza, di ordine e coerenza con se stessi.
3) Il più alto ideale della vita è vivere per servire gli altri. «Noi non diveniamo uomini che ponendoci volontariamente al servizio degli altri», lavorando
con e per gli altri uomini. Così l'educazione civica e morale finisce per coincidere
con quella professionale. Svolgere un'attività secondo le nostre attitudini, in modo
consapevole, preciso e responsabile, persuasi che nell'adempimento del nostro
ufficio, sia pure il più umile, operiamo per il bene della comunità a cui apparteniamo, convinti che il lavorare a servizio di un'idea è la cosa più importante di
tutte, questo è il senso di una vita autenticamente umana e questo deve essere
il fine che la scuola persegue ponendo il lavoro al centro della propria attività. 1
A conclusione del paragrafo è doveroso ricordare che l'intero movimento
delle scuole nuove (comprese le sue basi scientifico-sperimentali) è stato fatto
segno anche a critiche esplicitamente e radicalmente negative e ciò non solo da
parte dei difensori della tradizione che vedono nella rivoluzione pedagogica il
germe di una peste anarchistica destinata a dissolvere l 'intero tessuto sociale,
ma anche da parte di movimenti che scorgono, invece, nelle scuole nuove e nella
nuova pedagogia nient'altro che un'abile mistificazione per mezzo della quale
vengono difesi interessi tutt'altro che nobili.
L'Accademia delle scienze pedagogiche di Mosca per esempio, in una sua
Storia della pedagogia, osserva:
1) La cosiddetta educazione nuova si basa sul presupposto della apoliticità
della pedagogia, ma tale presupposto è falso.
I Altri esperimenti di scuola nuova, effettuati entro il periodo di cui ci stiamo occupando
e dei quali, per ovvie ragioni di economia generale, è impossibile dire di più, sono: la scuola di
Niiiis (Svezia), fondata da August Abrahamson
nel I872 e sviluppata successivamente da Otto
Salomon, destinata, prima, all'insegnamento del lavoro in legno ai fanciulli, trasformata, quindi, in
scuola normale di lavoro per maestri, aperta anche
agli stranieri (l'Italia vi invierà una commissione
capeggiata da Pasquale Villari). Le scuole dell'Ave Maria, fondate nella zona di Granada da Andrés Manjon fra il I888 e il I89o, scuole attive,
prevalentemente all'aperto, incentrate attorno
alla religione, destinate ai fanciulli dei ceti popolari.
La scuola fondata a Mannheim, nel I9oo, da
Siklinger e Moses, primo tentativo di struttura
mirante a risolvere organicamente il problema della individualizzazione. Essa è articolata in classi
normali, classi di recupero (per fanciulli in ritardo
per motivi estrinseci: ragioni di salute, familiari,
ecc.), classi ausiliarie, per i veri e propri ritardati
mentali e, successivamente, anche in classi per
super-normali (Begabtenschulen). In Francia merita di essere ricordata l'opera appassionata e geniale di Pauline Kergomard, che, specialmente nel
periodo fra il I 88 I e il I 896, si batte per la rigenerazione della scuola materna. In Italia, accanto
agli esperimenti più importanti della Agazzi, della
Pizzigoni e della Montessori (di cui si parlerà in
altro capitolo), meritano d'essere almeno citati
quelli di Luigi Melli a Milano (I884), di Pitagora
Conti a Palermo (I887), di Pietro Nigra, nel mantovano (I888-89), di Emidio Consorti (che, dopo aver fatto parte della commissione inviata a
Niiiis, apre, nel I889, a Ripatransone una scuola
di lavoro manuale per i maestri) Nel volume settimo si parlerà altresì degli esperimenti fatti a Chicago da John Dewey.
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L'esigenza di una scuola nuova e la nascita del!:>. pedagogia scientifica
z) Lo sviluppo del fanciullo è visto esclusivamente nella sua dimensione
biologica, mentre si rifiuta di riconoscere l'influenza delle condizioni ambientali.
3) La cosiddetta rivoluzione copernicana è un trucco, mediante il quale si
cerca di diffondere l'illusione che il mondo possa essere rinnovato pacificamente
mediante una nuova educazione, col risultato di distrarre i lavoratori dalla lotta
di classe.
4) Le scuole nuove non cessano di essere selettive e mirano a convalidare la
tesi reazionaria che i figli dei borghesi siano più dotati di quelli degli operai e
dei contadini, facendo largo uso dei metodi di ricerca e di misurazione antiscientifici in quanto non tengono conto del condizionamento sociale.
5) In realtà l'educazione nuova, individualistica ed anticomunitaria, non fa
altro che dotare fin dai primi anni i bambini borghesi di qualità atte a soddisfare
gli interessi reazionari della borghesia.
Lasciamo ogni giudizio su questa importante valutazione, parendoci che il
giudizio stesso debba formarsi spontaneamente nel pensiero del lettore attraverso
l'attenta riflessione sugli sviluppi storici della pedagogia nuova (e ci riferiamo
anche agli argomenti che saranno affrontati in seguito), sulla base della documentazione che qui si cerca di fornire con la massima obbiettività possibile.
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CAPI'I'OLO QUIN'I'O
Il pensiero ftlosoftco anglo-americano
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
Abbiamo detto nel capitolo vn del volume quinto che in Inghilterra si ebbe
un trapasso quasi senza discontinuità dalle ultime fasi del pensiero illuministico
alla prima fase del positivismo, legata al nome di John Stuart Mill. Fu solo negli
ultimi decenni del secolo che il filone empiristico subì una gtave crisi, e che
un largo numero di pensatori sentì il bisogno di rivolgersi ad altri indirizzi filosofici, in particolare alla metafisica idealistica tedesca. Il fatto degno di nota è che la
fioritura del neo-hegelismo inglese fu pressoché contemporanea alla grande diffusione dell'evoluzionismo, sia scientifico (Darwin) sia filosofico (Spencer); segno
evidente, a nostro parere, che tanto nell'uno quanto nell'altro indirizzo dovevano riflettersi alcune esigenze profondamente sentite dalla società dell'epoca.
Un accostamento delle due filosofie sembra dunque lecito, anche se in aperto
contrasto con la consuetudine invalsa nella maggior parte dei trattati di storia della
filosofia. Esso si rivelerà anzi opportuno, se potremo constatare che il positivismo
di Spencer e il neo-hegelismo ebbero effettivamente qualche carattere in comune,
e precisamente un carattere fra i più tipici della cultura del tempo. Ma, per poterei
convincere di ciò, occorrerà premettere qualche considerazione generale.
Senza volerei qui addentrare nella disamina delle complesse vicende economico-politiche verificatesi durante l'età vittoriana (il regno della regina Vittoria
durò dal 1837 al 1902), basti ricordare che esso fu caratterizzato dall'affermarsi e
consolidarsi della classe liberai-borghese, la quale finì per diventare la vera protagonista della vita del paese. Bisogna pertanto riconoscere che, se l'essenza dell'età
vittoriana fu «l'equilibrio fra la tradizione e la democrazia» (come scrive lo
storico George Macaulay Trevelyan), questo equilibrio doveva costituire una
delle massime preoccupazioni della classe anzidetta.
Questa preoccupazione si espresse in tutte le manifestazioni della vita civile,
dai costumi alla politica, dalla letteratura alle arti figurative, e non dobbiamo quindi stupirei se coinvolse anche la filosofia. L'aspirazione ad un« giusto equilibrio»
assunse qui la forma di ricerca di una conciliazione tra il nuovo, rappresentato
dalle sempre maggiori esigenze della ragione, e il vecchio, rappresentato dalla
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Il pensiero filosofico anglo-americano
tradizione religiosa; in altre parole, di una conciliazione tra la scienza e la fede.
Orbene, il tratto comune al positivismo evoluzionistico e al neo-hegelismo
va secondo noi cercato proprio nel tentativo, compiuto da entrambi, di fornire
una risposta soddisfacente all'aspirazione testé accennata. Non importa che le risposte siano state diverse; l'essenziale ci sembra che alla base di entrambi gli indirizzi si ritrovi la medesima preoccupazione.
La conciliazione tra scienza e fede propugnata dal positivismo spenceriano
fu caratterizzata da una notevole grossolanità; e la cosa si spiega tenendo conto
che esso fu la filosofia delle persone di media cultura. Quella invece propugnata
dal neo-hegelismo fu assai più raffinata, proprio perché questo indirizzo rappresentò la filosofia dei «professori universitari». Ma, per convincersi che i due
indirizzi avevano effettivamente qualcosa in comune, basta tenere presente il sostanziale moderatismo proprio di entrambi; è un moderatismo che salta all'occhio
appena si cerchi di confrontarlo con le ben più intransigenti concezioni filosofiche
sostenute- all'incirca nella medesima epoca - da Engels, che pur era senza
dubbio profondamente influenzato sia dall'evoluzionismo sia dall'hegelismo.
Riferendosi alla filosofia neo-idealistica inglese, Antonio Banfi scriveva, nel
1939, che« in essa risuona in toni eroici la crisi della cultura borghese, quasi come
un suo ideale trascender se stessa in una sfera di pura incontaminata spiritualità».
Riconosciamo appieno la fondatezza di tale osservazione, ma riteniamo di .dover
precisare che la crisi della cultura accennata da Banfi non era altro che l'espressione
di una crisi più profonda e più generale della borghesia (riscontrabile non solo in
Inghilterra bensì anche nel continente europeo e in America), dovuta alla posizione ambigua assunta da questa classe, oscillante fra l'esigenza di conservare il
proprio potere economico-politico e l'esigenza di presentarsi pur sempre come
paladina di quei valori « eterni » in nome dei quali aveva combattuto e vinto (il
valore dello spirito critico, del progresso scientifico, della ·libertà di ogni ricerca
razionale). Se teniamo conto di ciò, non avremo difficoltà a riconoscere che la
crisi culturale anzidetta - caratterizzata appunto da un perenne oscillare tra il
vecchio e il nuovo- ebbe modo di manifestarsi in varie forme: e cioè non solo
nel neo-hegelismo, ma, sia pure in toni meno eroici, nello stesso positivismo
di Spencer (ci riferiamo in particolare alla sua famosa tesi dell'esistenza di un
« inconoscibile », oggetto specifico della :religione, che il progresso della scienza
non riuscirà mai a raggiungere e dissacrare).
A conferma di quanto testé accennato circa le implicazioni della teoria spenceriana dell'inconoscibile, può essere opportuno ricordare che essa venne effettivamente recepita in molti paesi del continente europeo proprio come lo strumento
più idoneo a stabilire un giusto e definitivo equilibrio fra scienza e religione,
onde l'una non avesse alcunché a temere (né al presente né in futuro) dall'altra.
Ecco ad esempio alcuni significativi brani, ricavati dall'avvertenza che Guglielmo
Salvadori antepose nel ·I 90 I alla traduzione, da lui curata, dei Primi Principi di
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Il pensiero filosofico anglo-americano
Spencer: «Nessuno può negare che mai concezione filosofica più perfetta e originale è uscita dalla mente di un pensatore; che nessun filosofo à mai mostrato
cognizioni così vaste, o dato prova di critica così imparziale e serena. Herbert
Spencer à creato con la potenza del suo genio una nuova filosofia, sintesi suprema
dell'Universo, conciliando così la Religione e la Scienza; e à rinnovato l'idealismo, l'empirismo e la metafisica ... Quest'opera dev'esser nota non solo ai cultori
della Filosofia e della Scienza, ma deve entrare a far parte del patrimonio intellettuale di ogni persona colta.»
Dopo i paragrafi n e m, dedicati alla figura e al pensiero di Spencer, e il paragrafo IV in cui cercheremo di delineare per sommi capi il nucleo dell'idealismo
anglo-americano (ove si vedrà che questo indirizzo conservò pressoché immutate
le sue caratteristiche fondamentali nel diffondersi dall'Inghilterra agli Stati Uniti),
ne verranno dedicati altri due al pragmatismo e al neo-realismo.
Il pragmatismo nacque in America ad opera di un grande logico-matematico
e filosofo, Charles Sanders Peirce, ed ebbe all'inizio interessi prevalentemente
epistemologici. La sua origine teorica può quindi venir fatta risalire ad una esigenza di chiarificazione del sapere scientifico che si diffuse all'interno del campo
stesso degli scienziati negli ultimi decenni del secolo (si ricordi che gli scritti di
Peirce furono all'incirca contemporanei a quelli di Mach). Vedremo però che già
pochi anni dopo la pubblicazione dei primi articoli di Peirce il pragmatismo mutò
profondamente il suo carattere originario, diventando- ad opera dell'americano
William James e dell'inglese Ferdinand Schiller- una filosofia vivamente interessata ai problemi religiosi, anzi soprattutto impegnata a salvare i diritti della
fede accanto o perfino al di sopra di quelli della ragione. Il fatto che fu proprio
questa seconda « varietà » del pragmatismo, e non la prima, ad ottenere il più
ampio successo, conferma quanto poco sopra accennammo circa la vasta diffusione nella borghesia dell'epoca (fine dell'Ottocento e inizi del Novecento) dell'esigenza di salvare il patrimonio religioso- poco importa se in forma confessionale o no- di fronte all'incalzare della razionalità scientifica.
Non molto diverse furono le vicende del neo-realismo, nato in Inghilterra
nei primi anni del xx secolo ad opera di George Edward Moore. Se all'inizio ebbe
un carattere spiccatamente metodologico di indubbia serietà, circa vent'anni più
tardi un ramo di esso (l'unico che qui prenderemo in considerazione, poiché
rinviamo a un altro capitolo l'esposizione del realismo di Bertrand Russell) imboccò una direzione di indagini completamente diversa, soprattutto rivolta ad
esaltare i valori « profondi » dello spirito di fronte a quelli della fredda ragione.
E ancora una volta fu proprio in questa forma che esso incontrò il più rapido
successo.
Una visione panoramica, come quella che qui ci proponiamo di delineare, dei
quattro indirizzi testé accennati, ha il precipuo scopo di porre in luce la componente ad essi comune, componente che va fatta risalire assai più alla crisi della
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Il pensiero filosofico anglo-americano
classe borghese che non a precise motivazioni teoretiche. Quando si afferma che le
filosofie neo-idealistica, pragmatistica e neo-realistica scaturirono dalla reazione
al positivismo si commette senza dubbio un'inesattezza, non solo per evidenti
ragioni cronologiche, ma anche per l'esistenza in esse di una componente di
grande rilievo, già presente nello stesso positivismo spenceriano. Esatta può
essere invece l'osservazione, che tali filosofie assunsero un carattere via via più
marcatamente polemico, quando risultò manifesto con crescente chiarezza che la
scienza si stava imponendo come unica forma valida di conoscenza. Ma l'equivocità di tale polemica è posta in luce soprattutto dal fatto che si utilizzò in funzione
antiscientifica proprio lo spirito critico che si stava diffondendo fra gli scienziati
e che invece era sorto con il preciso scopo di rendere più rigorose le argomentazioni razionali, non di !imitarne il valore o di contrapporre alla scienza un presunto
sapere superiore.
Ritroveremo, sia pure con sfumature diverse, un analogo processo di dissoluzione del pensiero razionalistico anche in altri paesi, come la Francia e la Germania. Ciò che ci preme fin d'ora sottolineare è che, malgrado i subitanei successi
delle varie correnti di filosofia antiscientifica, la scienza non cessò affatto di avanzare (sollevando sempre nuovi problemi e affinando i propri strumenti di indagine)
e che tali correnti finirono tutte per rivelarsi meri strumenti di evasione, operati
da uomini pavidi in funzione sostanzialmente reazionaria.
II · VITA E OPERE DI SPENCER.
CARATTERI GENERALI DEL SUO PENSIERO·
Herbert Spencer nacque a Derby nel I 8z.o da famiglia della piccola borghesia;
i genitori erano entrambi assai religiosi ma di confessioni diverse - l'uno metodista, l'altra quacchera - e ciò fece sì che il ragazzo crescesse senza una convinzione dogmatica ben precisa. Il padre, che era maestro elementare, si occupò
attivamente della sua educazione, indirizzandolo fin da fanciullo verso l'attenta
osservazione dei fenomeni. Le discussioni che avvenivano in famiglia, tra il padre,
la madre e altri parenti, su problemi di etica e di politica svilupparono in lui un
sempre più vivo spirito di indipendenza.
A tredici anni fu inviato presso uno zio paterno, parroco di un villaggio
presso Bath, che esercitò una profonda influenza sul giovane. Qui rimase per circa
quattro anni, impegnandosi con molta serietà negli studi; acquistò, in particolare,
ottime cognizioni di matematica. A vendo compreso il valore del nipote, il reverendo Thomas Spencer gli propose di entrare nell'ùniversità di Cambridge, dove
avrebbe potuto facilmen~e procurargli un posto di sicuro avvenire; Herbert oppose però un netto rifiuto, provando una troppo forte avversione per l'atmosfera
chiusa e teologizzante che, come sappiamo dal capitolo vn del volume quinto imperava in quegli anni nelle università inglesi. Neanche in seguito abbandonerà
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questo atteggiamento antiaccademico, onde non svolgerà mai un'attività universitaria, malgrado i titoli dottorali conferitigli dopo il I87o da varie università
inglesi e straniere (tra cui quella di Bologna).
Nel I837 tenne per alcuni mesi la carica di aiuto maestro a Derby; ma nell'autunno di quel medesimo anno preferì entrare in un'impresa privata che si
occupava della costruzione della ferrovia Londra-Birmingham. Da essa passerà
nel I 8 38 in un'altra impresa ferroviaria, esercitandovi mansioni tecniche. In
questi impieghi ebbe modo di dar prova di grande perizia, realizzando pure alcune
piccole e ingegnose invenzioni. Dopo qualche anno trascorso nella casa paterna
e completamente dedicato agli studi (nel I 84I cominciò a interessarsi di biologia),
tornerà a lavorare come tecnico dal I 844 al I 846.
Ma ormai si era convinto di dover cambiare professione, abbracciando la
difficile carriera di scrittore. Nel I 848 ottenne il posto di vice-redattore dell'« Economist »,il più famoso periodico economico-finanziario inglese; nel I852
divenne collaboratore della « Westrriinster review », che era - come già ricordammo più volte- l'organo dell'indirizzo utilitaristico. Nel I853, avendo ricevuto una piccola eredità, poté rinunciare alla professione di giornalista per dedicarsi di nuovo interamente agli studi.
Intanto aveva portato a termine nel I 848 uno scritto dal titolo Social statics
(Statica sociale), che uscì nel I85o e gli procurò subito una discreta notorietà. Nel
I 8 5I iniziò un accurato studio delle teorie del fisiologo von Baer (del quale si
parlò nel volume quarto), studio che lo indusse ad abbracciare i principi dell'evoluzionismo respingendo la dottrina fissista e creazionista. All'argomento è
dedicato l'importante saggio The development hypothesis (L'ipotesi dello sviluppo)
scritto e pubblicato nel I 8 52. 1 Questa ipotesi viene anche largamente utilizzata
nella prima grande opera del nostro autore Principles of psychology (Principi di
psicologia, I 8 55) o ve Spencer sostiene che le attitudini e le facoltà dell'uomo non
possono essere comprese sulla base delle sole esperienze individuali ma richiedono
lo studio dei gradi attraverso cui vengono acquisite.
Ormai i suoi interessi si stanno ampliando: egli si occupa di politica, di pedagogia, di musica, di scienza, e sarà proprio la facilità con cui scrive di tanti argomenti ad attirare su di lui l'accusa di essere più giornalista che vero scienziato e
filosofo.
Nel I 8 57 pubblica sulla« W est review» un articolo dal titolo Progress, its law and
cause (Progresso, sua legge e causa) ove abbozza la tesi che l'evoluzione costituisca il
principio esplicativo di tutte le scienze. Finalmente nel I 8 59 elabora un prospetto
1 Ecco ciò che Darwin scrisse di questo
saggio: « Herbert Spencer ha messo a confronto
con grande abilità ed efficacia la teoria della creazione e quella dello sviluppo degli organismi viventi. Muovendo dall'analogia delle forme domestiche, dai cambiamenti che subiscono gli embrioni
di molte specie, dalla difficoltà di distinguere le
specie dalle varietà, e dal principio della gradazione
generale, egli giunge alla conclusione che le specie
si sono modificate, e attribuisce le modificazioni
al cambiamento di condizioni ambientali. »
IlO
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del proprio sistema di « filosofia sintetica » (come egli la chiamò) basato appunto
sul principio dell'evoluzione; sistema che negli anni successivi verrà svolto in
una serie di numerosi, ponderosi e spesso ridondanti volumi. Ecco i loro titoli:
First principles (Primi principi, pubblicati a dispense fra il I 86o e il '6z, poi rijmbblicati in un'edizione riveduta nel I867); Principles of biology (Principi di biologia,
in due volumi, I 864-67, rielaborati nel I 898-99); Principles ofpsychology (Principi di
psicologia, in due volumi, I 870-72, che sono una rielaborazione dell'opera del
185 5; un'altra edizione accresciuta uscirà nel I88o); Principles of sociology (Principi
di sociologia, in tre volumi, I 877-96); Principles of ethics (Principi di etica, in due
volumi, I 879-93).
Sarebbe più che sufficiente l'elenco testé citato per dimostrare la straordinaria
fecondità di Spencer come scrittore. Va tuttavia notato che ad esso bisognerebbe
aggiungere un gran numero di altri volumi, saggi, articoli ove - riprendendo e
ripetendo più volte le proprie argomentazioni - cerca di applicare la « filosofia
dell'evoluzione» ai campi più diversi. Noi ci limiteremo a menzionare il titolo
di due lavori di particolare interesse: Education intellectual, mora/ and pl!Ysical
(Educazione intellettuale, morale efisica, I86I) che, con molti altri scritti di argomento
analogo, dimostra la grande importanza attribuita dal nostro autore ai problemi
pedagogici, e The genesis of science (La genesi della scienza, I 864) che vuol essere una
critica positiva della classificazione comtiana delle scienze.
Merita di venire ricordato che fino al I865 i libri di Spencer incontrarono
scarsissima fortuna, ond'egli fu sul punto di interrompere la propria attività di
scrittore; furono le parole di incoraggiamento ricevute da autorevoli amici come
John Stuart Mill e gli aiuti finanziari di alcuni ammiratori americani, che lo indussero a persistere in essa. Nel giro di pochi anni le cose mutarono completamente,
sicché egli finì per diventare uno degli autori più letti non solo in Inghilterra ma
in tutta l'Europa. Malgrado alcune temporanee infermità, dovute soprattutto ad
eccesso di lavoro, trascorse l'ultima parte della vita in serena tranquillità, turbata
soltanto da un'aspra polemica avuta, nel I894, col biologo August Weismann
che negò la fondatezza della teoria- sostenuta da Spencer- dell'ereditarietà dei
caratteri acquisiti.
Morl nel I903. Nel 1904 uscirà la sua Autobiograpl!Y (Autobiografia), alla cui
stesura si era applicato con l 'impegno e la cura che gli erano abituali.
Nel corso del presente volume si sono già avute parecchie occasioni di esaminare le singole teorie di Spencer, nei capitoli dedicati alla sociologia, alla psicologia e alla pedagogia. Qui ci limiteremo pertanto ad esporre, per grandi linee, le sue
concezioni filosofiche generali, soprattutto in riferimento al problema dei rapporti
fra scienza e religione, al problema gnoseologico ed a quello morale; sarà un'esposizione critica, che si soffermerà più sulle deficienze che non sui meriti delle
soluzioni proposte da Spencer. Ciò è ben naturale, dato che gli sviluppi subiti dal
pensiero filosofico e scientifico a partire dall'inizio del nostro secolo hanno incon-
III
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Il pensiero filosofico anglo-americano
testabilmente dimostrato la scarsissima consistenza dell'entusiasmo che il sistema
spenceriano aveva suscitato in larghi strati della cultura ottocentesca. Sarebbe però
un errore storico non sforzarci di comprendere nel contempo anche i motivi. di
questo entusiasmo, cioè la funzione positiva che tale sistema effettivamente compì
nel periodo in esame, come sarebbe ingiusto dimenticare i meriti, scarsi ma
non del tutto inesistenti, che Spencer acquisì nel campo delle ricerche speciali.
A nostro personale parere i motivi teoretici della fortuna della filosofia di
Spencer - ai motivi di ordine pratico già si è fatto cenno nel paragrafo precedente
-vanno soprattutto cercati nel legame che essa stabiliva (o riteneva di stabilire),
sia pure in forma poco critica ma proprio perciò più facilmente divulgabile, tra la
concezione generale dell'universo e le importanti idee recentemente impostesi nel
campo della biologia. Molti aderirono con entusiasmo allo spencerismo, perché
credettero di scorgervi una filosofia che poneva finalmente termine ai vecchi
miti sulla «centralità» dell'uomo nel« creato», e riconosceva con franchezza che
l'essere umano (così come la società in cui vive, le forme di civiltà via via prodottesi nel corso della storia, ecc.) non è altro che un momento dello sviluppo generale della natura. Orbene, noi abbiamo il diritto e il dovere di denunciare il carattere vago, dogmatico e spesso equivoco del naturalismo spenceriano, ma non possiamo negare la serietà dell'esigenza cui esso andava incontro.
Così pure non possiamo negare la fondatezza dell'intuito, che portò Spencer
(e con lui molti altri studiosi) a vedere nella scoperta del principio evoluzionistico
non solo una grande conquista scientifica, ma un fatto culturale di enorme importanza. Era senza dubbio illusoria la pretesa spenceriana di cercare nell'evoluzione
il segreto per risolvere tutti i problemi, teoretici e pratici, ma non era ingiustificato
il richiamo a prendere atto della nuova importanza assunta - in seguito alla scoperta dell'evoluzione- dalla biologia entro il quadro delle nostre conoscenze, a
tenere conto nello studio dell'uomo, della radice biologica degli stessi fenomeni
che la tradizione considerava prettamente spirituali.
III · LE LINEE GENERALI DEL SISTEMA FILOSOFICO DI SPENCER
I Primi principi hanno inizio con una lunga sezione dedicata alla discussione
dei rapporti tra scienza e religione; anche noi, perciò, cominceremo la nostra
esposizione con una breve analisi di questo argomento (centrale, come già ricordammo, per tutta la cultura inglese dell'epoca). Con evidente riferimento a tale
discussione, Antonio Labriola ebbe a scrivere che Spencer rappresentava « l'ultimo avanzo ombratile del deismo inglese del secolo xvn »; il suo giudizio ci
sembra tuttavia inesatto per la grande differenza tra la situazione della scienza
nelle due epoche: giunta appena allora alle sue prime grandi vittorie, e ancora
carica di implicanze teologiche, nel Seicento; completamente laicizzata nell'Ottocento e accolta ormai come forma fondamentale, se non unica, della conoscenza
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Il pensiero filosofico anglo-americano
umana. Ma è noto che il filosofo italiano non aveva alcuna competenza di storia
della scienza e - da studioso di mentalità idealistica - non provava forse per essa il benché minimo interesse. Certo è a buon conto che, mentre per Newton (che
può venire considerato l'esempio più illustre di scienziato deista della fine del xvn
secolo) spettava proprio alla fisica - rivelatasi incontestabilmente capace di
risalire dai fenomeni alle loro leggi - offrire la via maestra per giungere a dio,
per Spencer invece si tratta soltanto di dimostrare che la scienza, pur non avendo
mai bisogno di far appello a dio, lascia ciomalgrado ai propri margini uno spazio
inesplorato e inesplorabile riempito dalla religione.
L'argomentazione di Spencer può venire così riassunta: la scienza si muove
entro il campo del relativo o condizionato e, pur riuscendo a spiegare sempre
nuovi fatti per l'innanzi ritenuti «inesplicabili o soprannaturali», non riuscirà
mai a spiegare tutto, e in particolare non riuscirà a spiegare i principi generalissimi sui quali essa medesima si basa (lo scienziato « constata che le cose obiettive
e su biettive sono del pari inscrutabili nella loro sostanza e nella loro genesi; in
tutte le direzioni le sue indagini lo portano alla fine di fronte a un enigma insolubile, e sempre più chiaramente riconosce che esso è un enigma insolubile»);
la religione invece, più risulta elevata e consapevole di sé, più decisamente assume
a suo specifico oggetto proprio l'inconoscibile. Ed infatti, mentre le religioni primitive si ritenevano in grado di offrire all'uomo una ben determinata raffigurazione delle potenze che agirebbero sul mondo, quelle più progredite rinunciano interamente a tali rappresentazioni, attribuendo un'importanza via via maggiore al
mistero e ad esso solo. Oggi diventa dunque sempre più manifesta la differènziazione fra scienza e religione, risultando chiaro che la prima è rivolta al « condizionato» e la seconda all'« incondizionato» (qui è evidente l'influenza di Hamilton
il cui nome viene, del resto, citato più volte dal nostro autore); i loro conflitti
«dovuti all'imperfetta separazione dei loro domini e delle loro funzioni» perdono di giorno in giorno la propria ragion d'essere, ed anzi i progressi conseguiti
dall'una si ripercuotono favorevolmente sull'altra: «Esse sono il polo positivo
e il polo negativo del pensiero, né l'uno né l'altro dei quali può crescere d'intensità senza aumentare l'intensità dell'altro.» Spencer può concluderne che « si
raggiungerà una pace permanente, quando la.Scienza sarà p~enamente convinta
che le sue spiegazioni sono prossime e relative, mentre la Religione sarà pienamente convinta che il mistero che essa contempla è ultimo e assoluto ».
A questo punto sorge, ovviamente, la domanda quale sia il posto che il
nostro autore riserva alla filosofia. Egli la colloca, com'è naturale, nel settore delle
scienze, ma con un compito speciale: quello di integrare le conoscenze scientifiche, sempre ristrette anche se via via più generali, onde procurarci una nuova
conoscenza, fermamente legata alle precedenti, ma fornita del « più alto grado di
gen.eralità ».
È fuori dubbio, secondo Spencer, che i principi più generali della scienza
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moderna sono quelli della conservazione della materia e dell'energia nonché la
legge dell'evoluzione che regola la continua ridistribuzione di materia ed energia. Per risultare saldamente fondata sui principi testé riferiti, la filosofia dovrà
dunque diventare una teoria generalissima dell'evoluzione, capace di porre in
luce l'unità del processo evolutivo in tutti i campi della realtà: dal mondo inorganico a quello organico, e da questo al mondo superorganico (cioè al mondo
umano). Mentre le singole scienze ci fanno scoprire tante evoluzioni (evoluzione
astronomica, geologica, biologica, psicologica, socio logica, ecc.), la filosofia deve
condurci a comprendere che la distinzione fra esse è solo convenzionale. In realtà
esiste « un unico Cosmo », e così esiste « una sola evoluzione che ovunque procede nello stesso modo».
Per cogliere questa suprema unità, occorrerà trovare una definizione generalissima di evoluzione. Il nostro autore ritiene di averla scoperta, definendo l'evoluzione come « trapasso da uno stato di dispersione a uno di integrazione, dall'omogeneo all'eterogeneo, dal meno coerente al più coerente». Egli vi perviene mediante considerazioni a priori, prive purtroppo di ogni valore sia scientifico che filosofico, cercando poi di verificarne la validità in tutti i settori particolari poco sopra elencati. Qui le sue considerazioni si fanno più interessanti, il
suo discorso diventa più aperto e stimolante, le sue osservazioni più acute; l'impianto generale resta tuttavia dogmatico, il tipo di argomentazione più retorico
che dimostrativo. Si ha spesso l'impressione che il vero motivo della larghissima
applicabilità della nozione spenceriana di evoluzione risieda unicamente nella sua
sostanziale genericità.
Un punto per noi particolarmente interessante del sistema spenceriano è
quello che concerne il problema della conoscenza; questo viene trattato in parte
nei Primi principi in parte nei Principi di psicologia, le cui pagine conclusive sono
rivolte alla discussione dell'idealismo di Berkeley, alla ricerca di un criterio della
verità, e infine alla formulazione e difesa di un nuovo realismo critico. Non valendo la pena scendere in troppi particolari, ci limiteremo a dire che, secondo
Spencer, la coscienza umana sarebbe, sì, costituita da elementi a priori e da elementi a posteriori come pensavano i razionalisti, ma gli elementi a priori risulterebbero tali solo per l'individuo, essendo invece a posteriori per la specie. In
altri termini: egli non ha difficoltà ad ammettere che esistano nell'individuo forme a priori della conoscenza e del sentimento, forme cioè che l'individuo non
ricava né può ricavare dalla propria esperienza diretta; tali forme, però, non costituirebbero altro che il patrimonio delle esperienze gradualmente accumulate
dalle generazioni anteriori pervenute per eredità all'individuo in esame. Con ciò
il punto di vista evoluzionistico - pur risultando « assolutamente empirico »
e cioè irriducibile a quello di un Leibniz o di un Kant - risulterebbe in grado
di differenziarsi nettamente «dall'antica concezione degli empiristi per l'estensione (nuova) che esso dà a questa concezione».
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Proprio perché le nostre conoscenze, sia a priori che a posteriori risultano di
origine integralmente empirica, esse posseggono per noi - sempre secondo Spencer- un'indiscutibile validità: se è certo, infatti, che esse non ci fanno conoscere
la verità assoluta, è altrettanto certo però che ci pongono a contatto con la realtà
relativa del mondo fenomenico in cui viviamo e agiamo. Né basta: ché Spencer si
crede in diritto di compiere un'affermazione ancora più impegnativa: se è certo
che questo mondo ci appare sottoposto a continue trasformazioni, è anche certo
che esso ci rivela, proprio nella sua perenne variabilità, qualcosa di permanente,
ossia « la realtà inconoscibile, nascosta sotto tutte queste apparenze cangianti ».
Si tratta, a rigore, di una realtà che noi non possiamo conoscere, ma della quale
abbiamo comunque coscienza: « una coscienza che non può essere messa sotto
alcuna forma».
'
E inutile fermarci a sottolineare il carattere vago e inconsistente di questa
presunta coscienza, della quale non si sa esattamente cosa sia. Possiamo solo aggiungere che la debolezza della tesi spenceriana diventa ancora più palese allorché egli afferma che sarebbe pure «un dato di coscienza» l'esistenza di un rapporto causale fra l'anzidetta realtà e il mondo fenomenico (rapporto causale in
base a cui egli si ritiene in diritto di asserire che il mondo fenomenico sarebbe
«un effetto condizionato della causa incondizionata»). È proprio questa ipotetica
corrispondenza tra l'inconoscibile e il conoscibile che gli permette di parlare di
«realismo trasfigurato». Una volta ammesso che noi abbiamo coscienza dell'esistenza dell'assoluto «come qualcosa, non come un nulla», e che anzi l'idea di
assoluto è tanto intrinseca alla nostra coscienza quanto quella di relativo ( « dalla
necessità di pensare per mezzo di relazioni, risulta che il relativo è esso stesso
inconcepibile fuorché come riferito a un non relativo»), è evidente che non rimane più, nel sistema spenceriano, motivo alcuno per sostenere l'inconoscibilità
dell'assoluto. Giunto a questo punto, il nostro autore dovrebbe limitarsi a parlare
di inaccessibilità di esso alla conoscenza scientifica, e concluderne che esiste un
altro tipo di conoscenza superiore a quella scientifica. Egli non ha avuto il coraggio di compiere questo passo, troppo incompatibile con i canoni del positivismo,
ma il semplice silenzio non cela la sua incoerenza.
Concluderemo il paragrafo con un breve cenno ai problemi dell'etica. Essi
pure, a giudizio del nostro autore, non possono venire spiegati se non li inseriamo in una concezione evoluzionistica dell'umanità. Tale inserimento infatti, ed
esso solo, ci permette di mantenere fede all'identificazione di bene e piacere,
senza negare (come faceva il gretto utilitarismo) l'esistenza di ben precisi doveri
nella coscienza del singolo. Questi doveri potrebbero venire spiegati - secondo
il solito metodo spenceriano - quali frutto del patrimonio etico lentamente accumulato dalla specie e trasmesso ereditariamente a ciascuno di noi. La specie ha
appreso dall'esperienza che, di solito, è più facile raggiungere il benessere lasciandosi gui~are da sentimenti bassi; unicamente in conseguenza di ciò, ciascuno
{
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di noi sente in sé, quale coazione puramente interiore, il dovere di lasciarsi guidare da quelli anziché da questi. Il razionalista lo interpreterà come un dovere a
priori, ma in realtà è anch'esso un frutto dell'esperienza.
Il nostro autore non intende nascondersi, con ciò, l'esistenza di conflitti assai gravi nell'umanità: conflitti fra dovere e piacere, fra piacere mio e piacere
altrui, ecc. Ritiene tuttavia che essi siano soltanto dovuti al grado di sviluppo
ancora assai limitato attualmente raggiunto dalla società umana; proprio questa
limitazione fa sì che oggi non risulti possibile una condotta perfettamente buona:
« La condotta che ha qualche elemento di dolore, o qualche conseguenza dolorosa, è parzialmente cattiva; ed il termine più elevato a cui possa giungere tale condotta, è il minimo ingiusto possibile in date condizioni, il giusto relativo. »
L'unica etica oggi possibile è, dunque, nulla più che un'etica relativa.
Noi possiamo tuttavia elevarc1 alla concezione di un'altra etica, valida per
«l'uomo ideale» considerato «come esistente in uno stato sociale ideale». In
questo stato e in esso solo risulterà possibile una condotta perfetta, ove la libera
attività dell'individuo sia limitata soltanto da un pari diritto degli altri individui
alla libertà, e anzi ciascuno cerchi spontaneamente con tutte le proprie energie il
bene degli altri insieme con il proprio. Lo studio filosofico di questa « condotta
ideale » viene chiamato da Spencer « etica assoluta ». Questa ha il compito di
formulare le regole di comportamento dell'uomo allorché sarà scomparsa ogni
costrizione sia interna che esterna, e le azioni procureranno immediato beneficio
tanto a coloro che le compiono quanto agli altri. Ciò sarà, ovviamente, realizzabile solo quando il processo evolutivo ci abbia portati ad una società in cui
ciascuno possa esplicare in completa libertà la propria vita, nettamente differenziata da quella degli altri, eppure armonizzate, tutte, da un reciproco accordo
spontaneo e infrangibile.
Nell'attesa che l'evoluzione ci porti a questo grado perfetto di convivenza
con i nostri simili, noi possiamo e dobbiamo lavorare - secondo Spencer - per
rendere via via più simile la nostra società a quella testé delineata, senza illuderci
però che si possa saltare da un grado all'altro senza percorrere tutti quelli intermedi. «Allo stesso modo che non si può abbreviare la via tra l'infanzia e la
maturità, evitando quel noioso processo di accrescimento e di sviluppo che si
opera insensibilmente con lievi incrementi, così non è possibile che le forme sociali più basse divengano più elevate, senza attraversare piccole modifiche successive.» Anche se per la lentezza dell'evoluzione non possiamo eliminare radicalmente i mali della società in cui ci tocca vivere, ciascuno di noi potrà tuttavia sentirsi contento se avrà « partecipato, anche in minima parte, allo svolgimento dell'umano».
Il sostanziale conservatorismo di questa conclusione apparentemente « moderata » è evidente, e corrisponde molto bene al conservatorismo già dimostrato
dal nostro autore sul primo argomento affrontato nel presente paragrafo, cioè sul
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problema dei rapporti tra scienza e religione. Esso risulta del resto confermato
dallo stesso comportamento personale di Spencer, che si mostrò per tutta la vita
inguaribilmente sospettoso di fronte a ogni programma di energiche riforme sociali, non esclusi quelli utopistici dei primi positivisti, né quello di pura marca
liberale propugnato da J ohn Stuart Mill. Proseguendo sulla via aperta dal suo
fondatore, il positivismo evoluzionistico finirà a poco a poco per diventare una
teoria pericolosamente addormentatrice che, sotto la facciata della « fede scientifica» in un futuro immancabile progresso, permetterà a gran parte della società
europea della fine Ottocento ,di cullarsi in un superficiale ottimismo.
IV · L'IDEALISMO
Sappiamo dalle sezioni precedenti che in Inghilterra albergava da secoli, accanto al più fiorente empirismo una mai spenta tradizione platonica, sostenitrice di un tipo di filosofia strettamente collegata alla teologia. Fu proprio tale tradizione a costituire l'humus da cui trasse impulso l'indirizzo idealistico, diffusosi
con straordinaria rapidità negli ultimi decenni del secolo. È chiaro però che esso
non poteva ignorare le nuove strutture che l'idealismo aveva assunto qualche tempo prima in Europa, particolarmente presso le scuole tedesche. Fra queste- come spiega assai bene Antonio Banfi- fu soprattutto l'hegelismo ad esercitare
sui filosofi inglesi una profonda influenza per « la sua forma più coerente e sistematica, ma insieme più ricca di tensione dialettica e - ciò che l'avvicinava alla
tradizione inglese - più assetata di concreta :realtà spirituale ».
L'assimilazione del pensiero hegeliano ebbe inizio nel 1865 con la pubblicazione, avvenuta in tale anno, di un libro di James Hutchison Stirling (1820-1909)
dal titolo The secret of Hegel (Il segreto di Hegel). Questo segreto era da cercarsi
secondo l'autore, in Kant, da cui Hegel avrebbe attinto la concezione dell'universale concreto, rendendola esplicita e mostrando come, a partire da essa, si
giunga alla tesi generale che tutto il mondo si :risolve nel pensiero. Di qui fra
l'altro l'affer~azione della spiritualità della natura, che non sarebbe altro se non
l'espressione di un principio assoluto (divino), presupposto indispensabile dell' esperienza. A differenza di H egel, Stirling concepisce però questo principio come essenzialmente statico (più simile quindi alle idee di Platone che all'assoluto
hegeliano) relegando il divenire dialettico alla coscienza umana.
A lui si ricollegano Edward Cai:rd (1820-1908) e Thomas Hill G:reen (183682), il primo dei quali si dedicò essenzialmente a problemi di filosofia della religione, mentre il secondo rivelò un maggiore impegno teoretico soprattutto nell'opera Introduction to Hume's treatise of human nature (Introduzione al trattato di
Hume sulla natura umana, 1874-75). Questo saggio è dedicato alla confutazione
dell'empirismo di Hume, cui l'autore :rimprovera in primo luogo di non :riuscire
a spiegare la vita interiore dell'uomo, proprio perché vorrebbe ridurre la coscienza
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Il pensiero filosofico anglo-alnericano
a un pulviscolo di «stati» isolati l'uno dall'altro, in secondo luogo di non riuscire a rendersi conto che, se l'esperienza non è una congerie di apparenze illusorie ma una fonte di autentiche conoscenze, ciò dipende dal fatto che essa obbedisce a un ordine immutabile. Alla teoria humiana Green contrappone una concezione idealistica della realtà, secondo cui l'ordine dell'universo troverebbe il
proprio fondamento metafisica in una coscienza eterna (dio) che includerebbe in
sé tutte le relazioni costituenti il mondo; la nostra coscienza non sarebbe altro
che la ripetizione imperfetta della coscienza divina, avendo la possibilità di diventare, attraverso i vari gradi del proprio sviluppo, ciò che la coscienza divina è
ab aeterno.
Assai più complessa è la posizione di Francis Herbert Bradley (1846~1924),
per quanto concluda essa pure, in ultima istanza, ad una filosofia sostanzialmente
teologizzante. Professore all'università di Oxford (ove l'idealismo diverrà la filosofia dominante), autore di varie opere - tra le quali ci limitiamo a ricordare
Ethical studies (Studi etici, 1876), The principles of logic (l principi della logica, 1883)Bradley si rende conto della debolezza teoretica delle concezioni sostenute dai
precedenti filosofi hegeliani, e vuol trovare una nuova più solida fondazione dell 'indirizzo cui aderisce. Questa andrebbe secondo lui cercata in uno « studio
scettico dei primi principi», cioè in uno studio espressamente rivolto a farci dubitare di « ogni preconcetto ».
Il risultato di tale studio ci porterebbe, secondo il nostro autore, a scoprire
che tutto il mondo dell'esperienza, e perfino la logica, sono pervasi di contraddizioni onde risultano in realtà incomprensibili.
La fonte di queste contraddizioni andrebbe cercata nel fatto che non si può
pensare senza stabilire relazioni, mentre proprio il concetto di relazione sarebbe
- a giudizio di Bradley - in sé contraddittorio. Ogni relazione infatti modificherebbe i termini correlati e li renderebbe diversi da quello che erano senza
relazione; in altri termini: li farebbe essere e non essere se stessi (è la cosiddetta
teoria delle «relazioni interne»). Ecco come il nostro autore analizza le difficoltà
che si incontrano allorquando si cerca di applicare una relazione a qualità diverse:
« Se (la relazione considerata) non rappresenta nulla per esse, allora tali qualità
non sono in relazione ... Se rappresenta qualcosa per esse, allora è chiaro che avremo bisogno di una nuova relazione che le connetta... Se essa stessa non ha una
relazione con i termini, in quale materia intelligibile potrà riuscire ad essere qualcosa per essi? Ma qui di nuovo siamo risospinti nel flusso di un processo senza
via d'uscita, perché siamo costretti ad andare avanti, trovando senza fine nuove
relazioni. » Dall'insolubilità del problema concernente l'applicazione delle relazioni, Bradley è indotto a sostenere che l'autentica realtà va cercata nel pre-relazionale.
Il mondo, nella forma in cui può venire da noi pensato, essendo intriso di relazioni è soltanto apparenza; la sua vera realtà, che sta al di sotto di ogni distinzione (di quella fra soggetto e oggetto, di cosa e cosa, di dato esistente e conteII8
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Il pensiero filosofico anglo-americano
nuto ideale), sarà afferrabile solo attraverso successive negazioni di tutti quei caratteri che rendono «inconsistente» l'apparenza.
Malgrado il presunto carattere « scettico » di tutta questa indagine, la sua
conclusione è proprio la negazione dello scetticismo: è la scoperta dell'assoluto,
da intendersi come «unità onnicomprensiva »in cui possono bensì farsi delle distinzioni ma non esistono delle divisioni, cioè come «totale unità d'esperienza»
che non può venire colta dal pensiero ma soltanto da un « sentire » immediato e
originario. Quanto alle apparenze, Bradley ritiene che esse possano venire ordinate in una scala gerarchica, secondo il grado con cui approssimano l'assoluto;
al vertice di tale scala starebbero la verità, la bellezza e il bene, che, pur essendo
apparenze, ci forniscono la massima approssimazione a noi accessibile. dell 'assoluto.
Il carattere teologizzante e antirazionalistico della conclusione testé accennata
è evidente, anche se le argomentazioni con cui il nostro autore si sforza di difenderla hanno spesso un aspetto di rigorose indagini logiche modernamente formulate. Il monismo che ne rappresenta il nucleo essenziale, per quanto sembri
ispirarsi a quello di Hegel, è in realtà ben lontano dalle tesi più interessanti sostenute dal filosofo tedesco. Mentre l'assoluto hegeliano è immanente al mondo
naturale ed umano, quello di Bradley trascende tutte le determinazioni del finito,
sta al di sopra delle contraddizioni del divenire, non ha storia pur contenendo
innumerevoli storie. È insomma assai più simile al dio dei vecchi mistici che alla
razionalità dialettica dell'universo.
Malgrado la scarsa consistenza della sua rielaborazione critica dell'hegelismo,
la filosofia di Bradley esercitò una larga influenza sia sugli ulteriori sviluppi dell'idealismo inglese, sia sugli stessi più insigni avversari di questo indirizzo, come George Edward Moore e Bertrand Russell, che compresero la necessità di
sottoporre ad attenta analisi le sottili argomentazioni svolte nelle opere poco sopra citate. Non si può escludere, ad esempio,,·che l'importanza attribuita da Russell alla nozione di relazione (in logica) possa essergli stata in parte suggerita
proprio da Bradley; tuttavia Russell respinse con energia il modo bradleyano di
concepire la relazione « come qualche cosa di tanto sostanziale quanto i termini
(correlati) e non di genere radicalmente diverso » e cioè respinse la dottrina delle
relazioni «interne» a favore di una teoria delle relazioni « esterne».
Fra gli studiosi che più contribuirono allo sviluppo dell'idealismo in Inghilterra occupa un posto particolare Bernard Bosanquet (1848-1923), traduttore di
Lotze e autore di varie opere, alcune delle quali rivolte alla logica e alla teoria
della conoscenza, altre all'analisi dei valori etici ed estetici: Knozvledge and reality
(Conoscenza e realtà, 1883), Logic (Logica, 1888), History of aesthetics (Storia dell'estetica, 1892), Principle of individuality and value (Principio di individualità e valore,
1912). A dimostrare la forte influenza esercitata su di lui da Bradley possono
bastare le parole che egli scrisse a proposito degli Studi etici di questo autore:
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la loro pubblicazione «fu un avvenimento che fece epoca, non solo perché ristabilivano e concludevano la discussione sull'edonismo, ma per il loro senso filosofico che trascendeva di molto quell'argomento particolare».
Anche per Bosanquet come per Bradley tutta l'esperienza è contraddittoria,
onde il nostro compito essenziale consiste nell'eliminazione graduale e progressiva di tali contraddizioni. Questa eliminazione ci porta al possesso della « cosa
reale » che « inghiotte » tutte le contraddizioni e ci rivela la sostanziale unità del
mondo: «Tanto nell'esperienza più profonda quanto nella più semplice ... noi siamo in un mondo che è interamente uno e con se stesso e con noi ... N el nostro
essere più semplice come nell'attività più alta, la "cosa reale" viene a noi come assoluto. » La filosofia, che trova « nella totalità il proprio criterio », viene così ad
assumere il carattere di religione dell'assoluto, presentandosi come essenzialmente
rivolta a farci trascendere il finito per sollevarci a cogliere la spiritualità dell'universo: « È chiaro che il Tutto è tale da potere, da una parte, includere il mutamento, e dall'altra da non lasciare che la totalità si spezzi. La totalità si esprime
nel valore che è concentrazione e fuoco della realtà nella sua essenza reale, è
centro reale positivo in cui si risolvono le contraddizioni e, fin dove si affe.rma
nell'esperienza, è un concretarsi che si fonda sulle tensioni che si sono fuse in
quel punto. »
Non potendo prendere in esame ad uno ad uno tutti i numerosi rappresentanti dell'indirizzo in questione- John Stuart Mackenzie (186o-1935), Alfred
Edward Taylor (1869-1945), James Black Baillie (1872-1940), ecc.·- ci limiteremo a riferire qualche breve notizia intorno a John Mc Taggart (1866-1925), che
tentò di dare all'idealismo inglese un orientamento alquanto diverso da quello
impressogli da Bradley. Questa diversità consiste essenzialmente nel riconoscimento del valore della pluralità e nella distinzione fra il parziale e il contraddittorio (onde il fatto, posto in luce da Bradley, che il parziale rinvii ad altro che lo
completa non costituirebbe, di per sé, una contraddizione). Ma il merito di Mc
Taggart fu soprattutto quello di avere intrapreso un esame assai preciso del sistema hegeliano, analizzato nei suoi diversi aspetti; ne sono una testimonianza i
titoli stessi delle principali opere sull'argomento: Studies in the hegelian dialectics
(Studi sulla dialettica hegeliana, 1896), Studies in hegelian cosmology (Studi sulla cosmologia hegeliana, 1901), A commentary on Hegel's logic (Un. commento sulla logica hegeliana,
1910). Le conclusioni, cui lo studioso britannico pervenne, sono alquanto sorprendenti: la dialettica, intesa come sviluppo della contraddizione, non costituirebbe la vera molla del procedimento hegeliano, ma rappresenterebbe soltanto
l'incompiutezza del finito. Di qui una revisione generale dell'hegelismo in senso
non meno teologizzante di quello che già riscontrammo in Bradley: l'autentico
possesso della verità risiederebbe nell'eliminazione della dialettica, nella liberazione del pensiero dalle imperfezioni del finito. L'assoluto sarebbe cioè l'eterno,
perfettamente compiuto in se stesso e perciò estraneo alla dialettica.
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Negli ultimi decenni dell'Ottocento l'idealismo si diffuse e acquistò presto
un grande peso culturale anche negli Stati Uniti d'America, in parte conservando
e in parte innovando i caratteri che aveva in Inghilterra. Il suo maggiore rappresentante fu ] osiah Royce (I 8 55- I 9 I 6), buon. conoscitore del pensiero tedesco
(aveva studiato un anno a Gottinga con Lotze), professore dal I88z alla Harvard University. Tra le sue numerose opere ricordiamo: The spirit oj modern philosophy (Lo spirito della filosofia moderna, I 89z), The conception 4 God (Il concetto di
dio, I895), The world and the Individuai (Il mondo e l'individuo, I9oo-oz), P.rycology
(Psicologia, I903), Problem oj Christianiry (Problema del cristianesimo, I9I3)· Scrisse
pure un saggio su Herbert Spencer (I9o4), uno su William James (I9I I), e vari
altri di etica, politica ed epistemologia.
Pur avendo subìto, come tutti gli idealisti inglesi dell'epoca, l'influenza di
Bradley, si distaccò da lui in vari punti, tanto da non ammettere di venir considerato hegeliano, preferendo qualificare la propria filosofia come « volontarismo
assoluto » o « idealismo sistematico e costruttivo ». In effetti, l'idealismo di Royce
si avvicina, per certi aspetti, più a Fichte che a Hegel e, pur rifiutando le conclusioni pragmatistiche di James (del quale parleremo nel prossimo paragrafo), mutua alcuni temi dalla sua psicologia attivistica.
Il nostro autore non ha difficoltà ad ammettere, con i realisti, che l'idea
tenda sempre a qualcosa di « altro da sé »; ma questo « altro da sé » non è come essi ritengono - una realtà esterna, bensì una maggiore esplicitazione del
« significato interno » che ogni idea possiede in se medesima. Così impostata, la
polemica contro i realisti conduce Royce a concepire l'idea come una «idea-volontà» sotto la manifesta influenza della Critica della ragion pratica kantiana. Questa
idea-volontà darebbe luogo a un processo di sempre maggiore autodeterminazione, continuamente stimolato dalla consapevolezza dell'errore (cioè dalle smentite che l'esperienza dà alle nostre previsioni intorno all'oggetto) e dallo sforzo
di superarle. Il processo non può aver termine - secondo Royce - che nel raggiungimento di una « coscienza più larga », la coscienza di dio, ove siano compresenti la ricerca insita nell'idea-volontà e la soluzione del problema costituente
la meta di tale ricerca.
L'assoluto viene così a delinearsi come una totalità che contiene simultaneamente, da un lato, tutte le determinazioni dell'esperienza finita, e dall'altro il
loro superamento. È la sua stessa infinità che gli permette di moltiplicarsi in
infinite « parti » senza perdere la propria unità, e senza peraltro eliminare le individualità dei singoli « io » in cui si riflette. Esso è universalità e individualità
in quanto è l'esperienza assoluta, totalmente realizzata in un eterno presente; è
individualità in quanto è amore come sono centri di amore i singoli esseri, ma
amore onnicomprensivo e perciò individualità perfetta.
Non ci sembra il caso di sottolineare che la complessa filosofia di Royce si
incentra - come già quella di Bradley e degli altri idealisti inglesi - sul pro-
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blema del rapporto uno-molti; ciò che si può aggiungere è che egli lo interpreta
non solo come problema metafisica-religioso, ma anche come problema umano;
onde giunge ad affermare l'esistenza di una profonda unità fra i singoli uomini e
la società, intesa quale « comunità'» spirituale attuantesi nel divenire storico.
V · IL PRAGMATISMO
È fuori dubbio che il positivismo evoluzionistico e il neo-hegelismo angloamericano, pur avendo avuto entrambi un peso notevole durante il periodo che
sta a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento, hanno perso da tempo pressoché ogni
incidenza sulla problematica della filosofia e della scienza. Non così può dirsi invece dei due indirizzi, il pragmatismo e il neo-realismo, che ci accingiamo ad
esaminare molto brevemente in questo e nel prossimo paragrafo. Per essere più
precisi: sia l'uno che l'altro hanno posto in luce- pur frammisti a non poche
speculazioni ormai prive di attualità - alcuni temi e alcuni metodi di indagine che
il ricercatore di oggi non può fare a meno di prendere in seria considerazione. Proprio perciò noi ci limiteremo qui a fornire qualche rapida notizia sulla fase iniziale
dei due indirizzi, riservandoci di tornare con maggiore ampiezza sui loro ulteriori
sviluppi nel seguito della nostra trattazione; ci proponiamo ad esempio, per
quanto riguarda il pragmatismo, di riprenderlo in esame nel volume settimo, dedicando un intero capitolo a Dewey, e discutendo in sede teoretica l'accettabilità
o meno dei numerosi suggerimenti che da esso ricavarono alcuni epistemologi
contemporanei.
La prima formulazione del programma pragmatista risale a Charles Sanders
Peirce su cui ci si è già soffermati a lungo nel capitolo IX del volume quinto (o ve
si sono esaminati i suoi contributi allo sviluppo della logica), ed è contenuta nei
due articoli che egli pubblicò sulla rivista« Popular Science Monthly » nel 1877-78
con il titolo The ftxation of belief(Come si fissano le credenze) e How to make our ideas
clear (Come rendere chiare le nostre idee).l Oggi tutti ammettono che Peirce fu uno deI I due articoli possono venire considerati
come il frutto delle vivaci discussioni che il nostro
autore aveva avuto per anni con alcui).i amici, pressoché coetanei, legati direttamente o indirettamente all'università di Cambridge (Massachusetts) nel
Metaphysical Club sorto in tale città verso il 187o.
Come Peirce stesso scriverà, questo club - che
costituì in certo senso la culla del pragmatismo era stato chiamato metaftsico metà « ironicamente »
e metà «per sfida» contro l'agnosticismo imperante in quella università. Vi prendevano parte,
oltre a Peirce e a James (di cui parleremo più
avanti), un giovane scienziato, un cultore di storia,
uno studioso di religione e - fatto alquanto singolare - quattro avvocati, tutti animati da una
sincera passione speculativa al di fuori di ogni
preoccupazione accademica; i temi principali dei
dibattiti erano la scienza, la religione, il diritto e la
logica. Come spiega assai bene il sociologo Charles
Wright Milis, gli avvocati membri del club erano
particolarmente attratti dalle discussioni di logica
(in ispecie sul problema della definizione) e proprio
in questo campo riuscirono ad esercitare una notevole influenza sugli amici: «In questo contesto
legale, e specificamente nel carattere logico del loro
interesse per il diritto, troviamo un punto di ap-
poggio per il modo in cui la scienza e la logica furono affrontate da Peirce ... egli si accostò alla scienza non
come a una materia di studio, ma come a un metodo, una tecnica, più precisamente una tecnica di
definizione. »
IZZ
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gli ingegni più acuti e più profondi vissuti negli Stati Uniti durante la seconda metà del XIX secolo, e ciomalgrado è fuori dubbio che non riuscì a far riconoscere i
propri notevolissimi meriti ai contemporanei: pur appartenendo all'ambiente
universitario (suo padre era, come sappiamo, uno dei più autorevoli matematici
della Harvard University nella quale insegnò fisica e astronomia per vari decenni) non poté mai entrare- come avrebbe desiderato -nella vera e propria
carriera accademica ed anzi non trovò nemmeno un editore disposto a pubblicare le originalissime opere che veniva scrivendo di logica e di filosofia.
Dovette pertanto limitarsi ad esporre le proprie idee in articoli e recensioni che,
sebbene numerosi, non forniscono se non una pallida idea della sua fecondissima
attività di scrittore (le principali opere del nostro autore verranno pubblicate solo
dopo la sua morte). Quando, verso la fine del secolo, egli vide attribuita a sé la
paternità dell'indirizzo pragmatista che cominciava a diventare una «filosofia di
moda», non ne rimase affatto lusingato, e qualche anno più tardi- per evitare
ogni confusione in proposito - giunse a cambiare la denominazione della propria
filosofia, chiamandola « pragmaticismo » anziché « pragmatismo ».
Questa netta e rigida presa di posizione, anche se in parte dovuta all'infelice
temperamento di Peirce, appare pienamente giustificata quando si tenga conto dei
caratteri del tutto diversi che l'indirizzo veniva di fatto ad assumere, negli anni
in esame, ad opera dei due autori (James e Schiller) che maggiormente contribuirono alla sua diffusione. L'italiano Mario Calderoni (di cui si parlerà nel volume
settimo), in un interessante studio sulle varietà del pragmatismo, giungerà a scorgere una vera e propria antitesi fra il pragmatismo prevalentemente gnoseologico e logico - dovuto a Peirce- e quello sviluppato dagli altri due, rivolto soprattutto a questioni di valore, di apprezzamento dei fini, di utilità delle credenze.
Volendo esaminare alquanto più da vicino queste differenze, occorrerà premettere qualche notizia sulla figura e l'opera dei sostenitori testé menzionati della
«seconda varietà di pragmatismo ».
William James (I84Z-191o) nacque a New York da un singolare tipo di teologo, seguace delle concezioni mistiche che erano state difese nel Settecento da
Swedenborg. Il padre riuscì a influire così profondamente sull'educazione del
ragazzo che, anche quando sarà divenuto illustre filosofo, William continuerà a
considerare la religione come problema fondamentale dell'uomo. Dopo aver compiuto lunghi viaggi in Europa, il nostro autore - ritornato in America - provò
una viva inclinazione verso gli studi naturalistici e, dedicatosi ad essi con passione,
meritò in breve il posto di assistente di fisiologia presso la Harvard University
(sono gli anni in cui divenne amico di Peirce, dal quale tuttavia non tarderà a
distaccarsi). Nel 1889 fu nominato professore di psicologia in tale università,
passando nel I 89z alla cattedra di filosofia. 1 Le sue opere più famose sono: The
x Per il contributo dato da James al sorgere
degli studi di psicologia in America, rinviamo a
quanto detto nel capitolo n, paragrafo vr.
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Il pensiero filosofico anglo-americano
principles of psychology (l principi della psicologia, 189o), The wi/1 to believe (La volontà di credere, I897), The varieties of religious experience (Le varietà dell'esperienza religiosa, I9oz), Pragmatism: a new name for some old w~ys of thinking(Pragmatismo: un
nome nuovo per alcuni vecchi modi di pensare, 1907).
L'inglese Ferdinand Schiller (I864-I937) fu professore dapprima all'università di Oxford poi a quella di Los Angeles negli Stati Uniti. Risentì l'influenza
delle concezioni evoluzionistiche di Spencer e di Darwin, ma cercò di svilupparle
in senso metafisica-religioso. Tra le sue opere ricordiamo: Riddles of the spl!Jnx, a
stut[y in the philosophy of evolution (Enigmi della sfinge: uno studio di filosofia dell'evoluzione, uscito anonimo nel 189I e poi ripubblicato nel I894 con il nome dell'autore), Axioms as postulates (Assiomi come postulati, I9oz), Humm;ism, philosophical
essays (U manismo, saggi filosofici, I 907), Formai logic: a scientiftc and social proble m
(Logica formale: un problema scientifico e sociale, I912.), Problems of belief (Problemi
della credenza, I 92.4). Logic for use: an introduction to the voluntarist theory of knowledge
(Logica per l'uso: una introdt~zione alla teoria volontaristica della conoscenza, I93o).
La prima e più caratteristica tesi del pragmatistno gnoseologico di Peirce è
stata così riassunta da Mario Calderoni: « Il solo mezzo di determinare e chiarire
il senso di una asserzione consiste nell'indicare quali esperienze particolari si
intenda con essa affermare che si produrranno o si produrrebbero date certe circostanze. » Queste parole ci fanno subito capire in che modo Peirce intendesse
risolvere il problema centrale, sollevato nel suo famoso articolo del I 878 dal titolo Come rendere chiare le nostre idee: il significato delle nostre idee va sì cercato
nell'esperienza, ma per una via diversa da quella usualmente seguita dagli empiristi. L'idea di un oggetto non consiste in un puro e semplice coacervo di dati
osservativi: è invece la rappresentazione degli effetti che esso produce al presente
o può produrre in avvenire, «è l'idea dei suoi effetti sensibili». E lo stesso può
ripetersi, ovviamente, per un asserto: se esso non ci fornisce alcuna indicazione
su « quali esperienze particolari si produrranno date certe circostanze », non risulta a rigore un autentico asserto. Potrà accadere infatti che un individuo lo accolga e un altro lo respinga senza che i due risultino in grado - né oggi né maidi decidere chi ha ragione e chi ha torto. Con che diritto sosterremo allora che
asserivano effettivamente qualcosa? Ben diversa è la situazione se l'asserto in
questione fornisce indicazioni precise su ciò che avverrà in determinate circostanze; in tal caso infatti basterà produrre realmente queste circostanze e controllare se accadono o no gli effetti previsti. La possibilità di un siffatto controllo è
l'unica garanzia che noi possediamo di non aver parlato a vuoto.
La portata della tesi testé accennata è assai più ampia di quanto potrebbe apparire a prima vista. Mentre la filosofia tradizionale ci aveva abituati a concepire la
ricerca del significato di un asserto e il controllo delle sue conseguenze come due
operazioni completamente distinte, Peirce sostiene invece che sono inseparabili
l'una dall'altra. Non è vero cioè, secondo il nostro autore, che la prima riguardi
12.4
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Il pensiero filosofico anglo-americano
la sfera della conoscenza e la seconda quella dell'azione: questa presunta distinzione delle due sfere è del tutto illusoria. La verifica pratica non è un « di più »
che si aggiunge al puro pensiero; o questo si traduce in ben determinate azioni,
o non è nulla (è un vuoto gioco di parole). In particolare, il significato di una
teoria - per quanto astratta essa possa apparirci- è il complesso delle esperienze
particolari che ci permette di prevedere.
Non è il caso di scendere in particolari sulla complessa dottrina in cui Peirce
ha cercato di sistemare l'interessantissima concezione ora delineata. Un altro lato
di essa va comunque sottolineato, anche se a nostro giudizio trattasi di un lato
meno valido e anzi passibile di sviluppi alquanto pericolosi.
Peirce non ha ritenuto necessario discutere a fondo la natura (potremmo dire
«metafisica») del soggetto che egli considera protagonista dell'attività teoretico.pratica di cui poco sopra parlammo. Ciò che gli interessa è studiare accuratamente come si esplichi in concreto - cioè con riferimento agli individui effettivi
del nostro mondo - l'attività anzidetta, in che senso essa possa dirsi razionale,
quali garanzie sussistano per il suo successo.
Prpprio in rapporto a questi problemi leggiamo nelle opere di Peirce alcune
affermazioni che, se per un lato conservano tutt'oggi un vivo interesse, per un
altro lato però si prestano a gravi equivoci (come sarà dimostrato dagli stessi ulteriori sviluppi del pragmatismo).
Il nostro autore dichiara esplicitamente che il fine di ogni indagine è quello di
far sorgere in chi indaga una credenza. Fra i vari metodi effettivamente praticati a
questo fine - il metodo dell'ostinazione, quello dell'autorità, quello a priori o
metafisica, e infine quello scientifico - soltanto quest'ultimo viene studiato
da Peirce con autentico interesse. Egli lo analizza con straordinario acume, ponendone in luce alcuni caratteri di cui solo l'epistemologia del Novecento ha
compreso il pieno valore: per esempio quello importantissimo di riconoscere in
linea di principio la propria fallibilità e quindi la necessità di procedere a ininterrotte autocorrezioni. Ne risulta con eccezionale chiarezza l'intima compenetrazione - oggi ammessa da ogni studioso serio - fra ricerca scientifica e metodo
probabilistico.
Ma che cosa si deve intendere per « credenza »? Peirce ne parla come di un
« sentimento », di un « abito dello spirito radicatosi in noi », di una semplice
«abitudine all'azione». Se però le cose stanno effettivamente così e se l'unico
fine di ogni indagine è quello di fissare una credenza, ecco che, allora, tutta la
filosofia di Peirce viene ad assumere -lo si voglia o no- un'intonazione nettamente soggettivistica. Il suo problema centrale non sarà più, infatti, quello di
stabilire in via generale i nessi fra conoscere e agire (sulla base di un esame critico di queste due attività), ma sarà il problema di determinare come si formino
nell'animo umano le varie credenze, quale mansione vi adempiano, come esse
sorgano e si estinguano.
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Il pensiero
filo~ofico
anglo-americano
Il pragmatismo si trasforma così in una specie di psicologia della credenza,
rivolta a dimostrare l'essenzialità di questo sentimento in tutta la nostra vita,
nell'elaborazione delle stesse categorie conoscitive e perfino nella costituzione
della nozione di realtà.
Era il primo passo verso la concezione del pragmatismo come difesa del
valore delle credenze comunque originate, come esaltazione della volontà, come
contrapposizione del soggettivo all'oggettivo. Gli altri passi verranno facilmente
compiuti dai sostenitori di quella che abbiamo chiamato la seconda forma del
pragmatismo. E così questo indirizzo che, a detta di Calderoni, era sorto come
approfondimento del « positivismo di miglior lega », finirà di confluire nel grande
alveo della reazione al positivismo, della rivolta irrazionalistica contro la scienza.
Anche per J ames, come per Peirce, il vero banco di prova delle nostre conoscenze è l'esperienza futura, non quella passata; anche per lui ciò che caratterizza
il pensiero è il porre dei fini e cercare dei mezzi per realizzarli; la stessa scienza
può venire compresa solo se la si interpreta come strumento sempre correggibile,
appositamente costruito per accrescere la potenza umana. Ciò che differenzia i
due autori è il quadro filosofico generale in cui J ames inserisce queste concezioni.
Il punto centrale di questo quadro è - nella filosofia di James --l'affermazione che l'essenza dell'uomo risiede nell'attività, onde egli non può non agire,
né può di conseguenza rinunciare al rischio connaturato ad ogni azione. L 'individuo si trova sempre in una situazione empirica determinata e tende a modificarla
in base a questa o a quell'idea; l'adesione a un'idea piuttosto che a un'altra è l'atto
cui il nostro autore dà il nome di «credenza». L'espressione «volontà di credere » non significa altro se non il riconoscimento che le nostre credenze sono il
frutto della nostra passione e della nostra libera volontà.
Postulare una realtà oggettiva che stia immobile e compatta di fronte all'individuo e non si risolva nelle situazioni empiriche particolari che egli stesso concorre a determinare significa- secondo James- abbandonarsi al più vieto dogmatismo. L 'u,nica autentica realtà di cui sia lecito parlare è pertanto quella degli
spiriti umani, cioè dei singoli individui che a buon diritto possono venir considerati spiriti in quanto centri di azione, in quanto esseri capaci di scegliere liberamente le proprie credenze e di affrontare il rischio che la loro scelta comporta.
Il punto conclusivo a cui il nostro autore perviene è rappresentato da un pluralismo spiritualistico che, per un lato, ammette l'esistenza di innumerevoli spiriti umani fra loro solidali ma ben distinti; e per l'altro ammette l'esistenza di un
dio (molto simile a quello di John Stuart Mill) fornito di maggiori conoscenze e
di maggiore potenza degli spiriti umani, ma esso pure finito: un dio che ci aiuta
nelle nostre azioni e che perciò può venire qualificato come « provvidenza », ma
che nel contempo necessita del nostro aiuto perché non ha tracciato una volta per
sempre la linea degli eventi, ma si trova ad ogni istante di fronte a più alternative
le quali esigono sempre nuove scelte e nuove decisioni. Con questa conclusione
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Il pensiero filosofico anglo-americano
James ritiene di essere riuscito a conciliare definitivamente scienza e religione; è il
compito principale che egli attribuisce alla propria filosofia.
Anche il pragmatismo umanistico di Schiller conduce in ultima istanza a
una visione pluralistica, che riconosce all'operare umano una parte attiva di
primaria importanza nell'organizzazione progressiva dell'universo. Ciò che caratterizza il nostro autore di fronte a James (verso il quale nutre comunque la
massima stima e dal quale ammette di essere stato profondamente influenzato)
è il tentativo di ricuperare l'assoluto come punto terminale di tale organizzazione
progressiva, cioè come perfetta armonia, come « universo interamente soddisfatto
di se stesso ».
Schiller si rende ben conto che tale assoluto non costituisce una realtà, potendo venire soltanto postulato. Ma, secondo lui, è l'esperienza stessa che d conduce a tale postulazione; e proprio per questo motivo, ossia perché è l'esperienza
che d porta a postulare l'assoluto, esso non può venire concepito come separato
dal mondo dell'esperienza. Dovremo dunque pensarlo come ordine dell'universo,
come« realtà ultima che includa in sé e armonizzi» tutto il mondo dell'esperienza.
Una volta abbandonatosi ai sogni metafisico-religiosi, il nostro autore non
riesce più a porre alcun freno alle proprie divagazioni filosofiche. E così non si
accontenta più di postulare l'assoluto come ordine intellettuale dell'universo, ma
lo postula pure come «ordine morale», il che gli permette anche di postulare
l'immortalità dell'anima perché «senza l'immortalità non è possibile pensare il
mondo come un tutto armonico, come un cosmo morale ».
La gratuità di queste postulazioni è evidente, come pure il loro inserimento
nel quadro che cercammo di delineare nel paragrafo 1. Esse rendono palesi senza
ombra di dubbio i gravissimi pericoli insiti nella via, pur tanto affascinante, aperta
dall'indirizzo pragmatista. Non va comunque dimenticato che vi sono stati anche
altri sbocchi di ben maggiore serietà: uno è costituito dallo strumentalismo di
Dewey; un altro dalle istanze pragmatistiche presenti nella moderna epistemologia (direttamente ricavate dalle analisi critiche di Peirce). Di queste e di quello si
·
riparlerà - come già si è detto - nel volume settimo.
VI · IL NEO-REALISMO
Nei primi decenni del Novecento si assiste, in Inghilterra e negli Stati Uniti,
alla rinascita di un indirizzo realista che, ricollegandosi per un verso alla filosofia
del senso comune di Reid, per un altro verso a certe forme assunte dal neokantismo in Europa, intende opporsi sia al fenomenismo dei puri empiristi (cioè
alla tradizione Hume-Mill), sia all'idealismo di Bradley e dei suoi seguaci, sia allo stesso pragmatismo.
In Inghilterra il centro più importante dell'indirizzo in esame fu l'università
di Cambridge ove insegnarono alcuni dei suoi maggiori rappresentanti quali
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George Edward Moore (I873-I958), Charlie Dunbar Broad (I887-viv.) e in un
primo tempo Alfred North Whitehead (I86I-I947), che fu-professore di matematica in tale università fino al I9Io (in questo anno si trasferì, sempre come professore di matematica, a Londra e infine, nel I 924, venne chiamato in America
per insegnare filosofia alla Harvard University). Nell'ambiente dell'università di
Cambridge si formò pure Bertrand Russell, che però occupa nella storia del realismo inglese una posizione del tutto particolare, come verrà chiarito in altri capitoli della presente trattazione. Un autorevole sostenitore dell'indirizzo realista
di provenienza completamente diversa fu invece Samuel Alexander (I859-I938),
professore all'università di Manchester; egli era stato educato a Oxford ma aveva
subito l'influenza, oltreché della filosofia idealistica insegnata in tale centro di
studi, anche del positivismo evoluzionistico di Spencer: si schierò apertamente a
favore del realismo nell'opera Space, time and deiry (Spazio, tempo e deità, I92o),
sviluppandolo però in forma apertamente metafisica. Il grande successo di quest'opera fu dovuto, in notevole misura, allegarne che l'autore riteneva di poter
stabilire fra la propria metafisica e le ultime conquiste della scienza, in particolare
la teoria einsteiniana della relatività.
Negli Stati Uniti la svolta della filosofia verso il realismo si compì in due
fasi ben distinte fra loro. La necessità di contrapporre una concezione realistica
del mondo a quelle dominanti nell'ultimo decennio dell'Ottocento e nei primi
anni del Novecento fu per la prima volta proclamata nel I9Io, con molto vigore
polemico, da un gruppo di sei giovani studiosi, il più illustre dei quali sarà
William Pepperell Montague (I87S-I95 3) professore alla Columbia University di
New York. Gli argomenti da essi addotti contro il fenomenismo e l'idealismo si
richiamavano in modo diretto a quelli sviluppati in Inghilterra da Moore: il problema considerato come centrale era quello gnoseologico; il metodo usato per la
sua trattazione era basato sull'analisi della mente e mirava a dimostrare che nel
processo conoscitivo sarebbe immediatamente rilevabile la presenza di un fattore irriducibile all'attività psichica; la conclusione cui si riteneva di poter pervenire era che la mente costituirebbe un oggetto fra gli oggetti, di natura non diversa
dagli oggetti fisici. Ma le difficoltà incontrate erano molte, tanto che pochi rimasero fedeli alle tesi ora accennate: lo stesso Montague cercherà di correggerle,
pervenendo a una filosofia di tipo eclettico.
Un rilancio dell'indirizzo realistico venne operato nel I92o da un altro gruppo
di otto autori, che tuttavia vollero qualificare il proprio realismo come « critico »
per sottolinearne le differenze rispetto a quello propagandato dal gruppo precedente (da essi qualificato come «realismo ingenuo»). Il più famoso dei nuovi
realisti fu George Santayana- nato in Spagna nel I 869 e morto in Italia nel I 9 52
-professore alla Harvard University fino al I923 (nel I924 questa medesima università chiamerà Whitehead, come poco sopra accennammo). Il problema centrale non è più, ora, quello gnoseologico, ma quello dell'uomo, e più precisa128
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mente il problema di analizzare e sviscerare il significato dell'attività umana in
tutte le sue varie estrinsecazioni e in tutte le sue componenti. Il punto conclusivo
del pensiero di Santayana è che la vita dello spirito, pur risultando essenzialmente
radicata nella materia (tanto da rappresentare il vertice dello sviluppo del mondo
materiale), non si esaurisce però nel mondo della materia: tende invece a guardare
al di là di esso, a intuire il regno delle essenze ideali contrapposto a quello della
mera esistenza, a cogliere « le idee universali di bene e di bello » che il mondo
della materia « suggerisce» e alle quali « si approssima».
Le tesi testé accennate di Santayana ci dimostrano che anche nell'indirizzo
neo-realistico erano presenti talune esigenze non molto diverse da quelle affiorate
nelle scuole filosofiche che abbiamo preso in esame nei paragrafi precedenti. Malgrado le ripetute dichiarazioni circa la necessità di tenere in qualche modo conto
degli ultimi risultati acquisiti dalla scienza, i sostenitori del neo-realismo non
riuscirono, per lo meno nella maggioranza dei casi, a trovare un nesso realmente
serio tra le loro speculazioni e il lavoro degli scienziati e dei tecnici. La filosofia
continua pertanto ad apparire nei loro scritti come un'attività sostanzialmente
affine a quella dei poeti, degli artisti, dei religiosi, rivolta cioè a soddisfare bisogni
«profondi» dell'animo umano del tutto estranei ai problemi che investono il
campo della vera e propria ragione. È una filosofia spiritualistica, anche se parla
di spirito radicato nella materia; filosofia che riprende alcuni vecchi temi della
metafisica irrazionalistica, anche se proclama di non essere una vera e propria
metafisica. Di qui il grande successo che ottenne fra le « anime belle » in cerca
di una comoda via per evadere dalle dure responsabilità del mondo moderno; di
qui il suo rapido tramonto, il nessun peso avuto per la cultura più seria.
Ovviamente non tutti i seguaci dell'indirizzo in esame sono altrettanto meritevoli quanto Santayana del duro giudizio testé accennato; tant'è vero che
intorno al loro pensiero è ancora oggi accesa una seria discussione, mentre più
nessuno può illudersi di apprendere qualcosa di culturalmente valido dalle opere
di Santayana, fuorché dai suoi saggi estetico-letterari. Avremo più volte occasione
di ritornare nel volume settimo su Whitehead e, pur criticando apertamente le
tesi centrali della sua metafisica, daremo atto - con la nostra stessa polemica di ciò che egli ha rappresentato e rappresenta per la filosofia odierna. Il valore di
un autore non consiste soltanto in quanto egli ci insegna di accettabile, ma anche
· nelle argomentazioni che ci costringe a trovare per ribattere le sue proposte di
soluzione (proposte che possono essere sollecitanti solo se precise e razionalmente
formulate).
Rinviando, comunque, a un punto più avanzato della nostra esposizione
l'esame del realismo metafisica di Whitehead, sarà ora opportuno soffermarci
alquanto più diffusamente su quello che può venire considerato il vero iniziatore
del movimento, vogliamo dire su Moore; e ciò per due motivi: innanzi tutto per
l'indubbia importanza storica che egli ebbe, in secondo luogo perché nel suo
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pensiero sono stati recentemente riscontrati alcuni temi di notevolissimo interesse,
ben diversi da quelli che vennero portati al centro della speculazione filosofica
dai successivi sviluppi, in senso metafisica, dell'indirizzo realistico.
L'opera più nota di Moore è Principia ethica (Principi etici, 191 3), ma lo scritto
in cui per la prima volta egli sostenne in forma esplicita le nuove tesi del realismo
è un articolo, uscito sulla rivista« Mind »nel 1903, dal titolo The refutation of idealism
(La confutazione dell'idealismo). Esso venne ripubblicato circa vent'anni più tardi,
insieme con vari altri saggi, in un interessante volume cui il nostro autore
diede il titolo Philosophical studies (Studi filosofici, 192.2.).
Richiesto di delineare un rapido abbozzo. della propria filosofia per il volume
Contemporary british philosophy (Filosofia britannica contemporanea, 192.4), Moore volle
presentarla come «apologia del senso comune», esprimendo palesemente con
queste parole il desiderio di ricollegarsi a Reid, nonché a William Hamilton che
-come sappiamo dal capitolo vn del volume quinto- aveva curato l'edizione
delle opere del pensatore scozzese e tentato una sintesi tra la filosofia del senso
comune e il criticismo kantiano. D'accordo con il senso comune il nostro autore
sostiene che le due proposizioni« vi sono e vi sono state cose materiali»,« vi sono e vi sono stati molti soggetti » sono certamente vere, ma che tutte le analis i
di tali proposizioni finora proposte dai filosofi sono dubbie.
Il carattere polemico di questa presa di posizione è evidente; gli avversari
contro i quali Moore polemizza sono i fenomenisti e gli idealisti, che pretenderebbero far dipendere - secondo la famosa formula di Berkeley - l'esse dal
percipi: « Se esse è percipi, ciò equivale senz'altro a dire che ogni cosa che è viene
esperimentata; il che a sua volta equivale a dire, in un certo senso, che ogni cosa
che è, è qualcosa di mentale. » In altri termini: le percezioni sarebbero effettivamente qualcosa di reale, mentre gli oggetti percepiti non possederebbero alcuna
realtà loro propria.
Questa tesi si fonda, secondo Moore, su di un grave equivoco: sulla confusione cioè tra oggetto delle sensazioni e contenuto delle medesime. Una volta
commessa tale confusione, sarà naturale ricavarne che: poiché il contenuto delle
sensazioni non esiste indipendentemente dalle sensazioni stesse, neanche il loro
oggetto esisterà indipendentemente da esse. È dunque l'equivoco anzidetto ciò
che va confutato; ed è appunto contro di esso che si accentrano le critiche del
nostro autore.
Le parole che egli scrive sull'argomento sono di una limpidezza cristallina.
«Avere nella mente "conoscenza" del blu non significa avere nella mente una
"immagine" della quale il blu sia un contenuto.» Nulla esclude- è vero-- che
quando provo la sensazione del blu, la mia consapevolezza sia essa stessa blu (ossia abbia il blu come proprio contenuto); ma « la questione se lo sia o no è poco
importante». Ciò che importa è un'altra cosa, e cioè che l'introspezione mi permetta di stabilire « che io sono consapevole del blu, e con questo intendo dire che
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la mia consapevolezza ha col blu un rapporto completamente diverso e distinto »
dal rapporto tra contenente e contenuto. Proprio esso ed esso solo è il rapporto
che «in ogni caso denotiamo con la parola "conoscenza"».
Una volta eliminato l'equivoco poco sopra riferito, Moore può concludere
che alle sensazioni e ai loro oggetti va attribuita la medesima realtà. « Io sono direttamente consapevole dell'esistenza delle cose materiali nello spazio come delle mie
sensazioni; e quello di cui sono consapevole riguardo ad ambedue è precisamente lo
stesso: cioè che, in un caso, la cosa materiale, e nell'altro la mia sensazione esistono
realmente. Così, il quesito da formulare circa le cose materiali non è: qual motivo
abbiamo per supporre che esista qualcosa in corrispondenza alle nostre sensazioni?
bensì: qual motivo abbiamo per supporre che le cose materiali non esistano, dato
che la loro esistenza ha la stessa evidenza delle nostre sensazioni? » Il nostro autore
non trova motivi per escludere l'ipotesi che «non esistano» né queste né quelle;
pone però in guardia contro le gravissime conseguenze che ne deriverebbero.
«La sola alternativa ragionevole all'ammissione che la materia esista al pari dello
spirito è l'assoluto scetticismo, ossia l'ammissione che è tanto probabile quanto
no, che nulla affatto esista. Tutte le altre supposizioni... sono, se non abbiamo motivo per credere nella materia, altrettanto infondate quanto le più grossolane superstizioni. »
Le argomentazioni testé riassunte hanno fornito il punto di partenza per
tutto l'indirizzo realistico anglo-americano; a rigore, però, esse dimostravano
soltanto la possibilità del realismo, senza determinare né che cosa fosse la realtà
delle « cose materiali » né che cosa fosse il rapporto coscienza-oggetto. Fu proprio
nel tentativo di rispondere a questi problemi lasciati aperti da Moore, che gli altri
sostenitori poco sopra menzionati dell'indirizzo realistico incontrarono le più
gravi difficoltà e finirono per abbandonarsi a vuote divagazioni metafisiche.
L'inaccettabilità di tali conclusioni è manifesta. Essa non può tuttavia farci
misconoscere i meriti dell'iniziatore del movimento, la sottigliezza delle sue indagini, la serietà delle critiche da lui mosse all'idealismo: sono appunto questi i
motivi per i quali abbiamo detto- all'inizio del paragrafo v - che il neo-realismo (come il pragmatismo) conserva ancora oggi un notevole peso culturale.
È stato soprattutto il metodo seguito da Moore nel condurre le proprie argomentazioni a interessare gli studiosi moderni: metodo essenzialmente basato sopra
un'attentissima analisi delle opinioni accolte dal senso comune e sopra una scrupolosa ricerca del loro effettivo significato. Esso ha dato un impulso decisivo alla
diffusione tra gli studiosi anglosassoni di nuovi indirizzi di pensiero, come il neoempirismo, orientati a interpretare la filosofia come analisi del linguaggio. A
Moore si richiamerà in particolare la scuola dei cosiddetti « analisti oxoniensi »,
che assumerà come proprio oggetto di analisi per l'appunto il linguaggio comune,
cioè quel linguaggio che con la sua illimitata ricchezza e le sue stesse ambiguità
meglio riesce ad esprimere il modo spontaneo di pensare di tutti gli uomini.
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CAPITOLO SESTO
Il complesso quadro della ftlosofta tedesca
I
· CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
· Come è ben noto, la seconda metà del XIX secolo :rappresentò uno dei pe:riodi
decisivi per lo sviluppo del popolo tedesco, sia dal punto di vista politico pe:r la
schiacciante vittoria sulla Francia e la conseguente unificazione della Germania
sotto l'impero di Guglielmo 1, sia dal punto di vista economico pe:r il :rapido formarsi di una potente, ben organizzata, industria moderna e il conseguente incremento del commercio europeo ed extraeuropeo. Parallelamente a tale sviluppo si
acuirono anche le contraddizioni del sistema, ma la grande crisi da esse preparata
non scoppierà che più tardi, con la p:rima guerra mondiale.
Il pe:riodo in esame fu molto significativo anche sotto l'aspetto culturale.
Esso vide infatti - come abbiamo già rilevato- una sorprendente avanzata degli
studi tedeschi in pressoché tutti i rami della ricerca: da quelli delle scienze ormai
ben consolidate da tempo (quali la matematica, la fisica, la chimica, la biologia e
la stessa filologia) a quelli delle cosiddette scienze nuove (quale ad esempio la psicologia). Soltanto la filosofia parve sottrarsi a questo fenomeno generale, come
risulta confermato dal fatto che- dopo il crollo dell'hegelismo- non sorse alcun
nuovo indirizzo filosofico, capace di elaborare una concezione del mondo effettivamente in grado di soddisfare le esigenze dell'uomo moderno.
Uno degli ostacoli più gravi che si opposero alla :rinascita delle ricerche
filosofiche, fu senza dubbio costituito dalla :rivolta pressoché unanime degli
scienziati contro i discorsi troppo vaghi della Naturphilosophie. Quale significato
- ci si chiedeva - avrebbero potuto avere tali ricerche in mondo fattosi ormai
adulto, seriamente interessato all'osservazione della realtà, non più disposto a
lasciarsi trarre in inganno da vuote formule generali, onniesplicative solo perché
in g:ran parte equivoche? Di fronte a una trasformazione così profonda, le stesse
università mutarono volto: dalla vecchia struttura, imperniata sulla centralità
degli insegnamenti filosofici, passarono nel gi:ro di pochi anni a una struttura
nuova, interamente :rivolta alle discipline particolari. Ma dove avrebbe condotto
tale evoluzione? non avrebbe portato, in ultima istanza, alla morte dello stesso
istituto universitario, tradizionalmente concepito come universitas studiorum?
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Il complesso quadro della filosofia tedesca
Dobbiamo prendere francamente atto di questo stato di cose,_ per trovare una
spiegazione al frantumarsi della filosofia tedesca - negli ultimi decenni del secolo
-in scuole ~iverse pressoché isolate l'una dall'altra, assai deboli da un punto di
vista teoretico e fornite di scarso peso sugli altri rami della cultura. Ciò non significa che fossero venute improvvisamente meno, fra gli studiosi tedeschi, le istanze
filosofiche: al contrario, esse erano spesso assai vive nello stesso ambiente degli
scienziati maggiormente impegnati in ricerche specialistiche; ma restavano allo
stadio di semplici istanze, o tutt'al più si traducevano in sincere perorazioni dirette a porre in evidenza i pericoli dello specialismo.
Il fatto è che la classe borghese, ormai padrona di tutte le leve di comando
(del mondo economico come di quello universitario), non sentiva il bisogno di
alcuna seria ideologia; temeva anzi che un'approfondita elaborazione di nuove
concezioni del mondo, razionalmente impostate, potesse giungere prima o poi a
porre in discussione il predominio da essa conquistato. Si spiega così il favore
concesso ai vari indirizzi spiritualistici che contrapponevano (retoticamente) alla
scienza vaghe aspirazioni religiose, prive di qualsiasi pericolosità proprio per la
loro vaghezza; e si capisce, per contro, la freddezza con cui vennero accolte le
validissime indicazioni provenienti da Marx e da Engels, che la cultura accademica
si rifiutò di prendere in attento esame, qualificandole come prive di autentica
portata filosofica.
Per procedere con un certo ordine nell'intricato mosaico dei vari indirizzi,
cominceremo ad esporre brevemente l'interessante posizione di Helmholtz che
costituisce il più tipico esempio di scienziato seriamente preoccupato di riuscire in
qualche modo a salvare l'unità del sapere; vedremo che il suo richiamo a Kant non
ha, in fondo, altro significato se non quello di un onesto tentativo di far intervenire l' auctoritas del grande filosofo di Konigsberg a sostegno dell'anzidetto programma unitario.
Passeremo poi a discutere nel paragrafo m il significato del cosiddetto
« positivismo >> tedesco, dedicando i due paragrafi successivi a,H'esame delle conclusioni notevolmente divergenti raggiunte da tale movimento di pensiero ad
opera di uno scienziato come Du Bois-Reymond e di un filosofo come Avenarius.
Non ritorneremo invece sul « materialismo positivistico » già trattato nel capitolo v del volume quinto, né sull'oscuro e presuntuoso sistema di Diihring al
quale abbiamo fatto cenno nel capitolo
del volume precedente analizzando
le serie critiche sollevate contro di esso da Engels.
I paragrafi VI e vn saranno rivolti ad una rapida esposizione dei due indirizzi sol~tamente considerati come più rappresentativi della filosofia antipositivistica tedesca: lo spiritualismo e il neo-kantismo. Avremo agevolmente modo
di constatare che il problema. della scienza è ancora dominante in entrambi, se non
altro come tentativo di determinare quali compiti specifici rimangano aperti alla
filosofia di fronte alla massiccia avanzata del sapere scientifico. L'esame - pur
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molto schematico - degli sviluppi dello spiritualismo ci farà prendere atto delle
gravi implicazioni irrazionalistiche in esso contenute.
L'irrazionalismo ben più radicale di Nietzsche costituirà l'oggetto del paragrafo conclusivo del capitolo. Un esame approfondito della sconcertante filosofia
di questo autore fuoriesce, ovviamente, dai compiti di una trattazione come la
nostra, prevalentemente rivolta alla storia dei rapporti fra pensiero filosofico e
pensiero scientifico (sebbene risulti evidente anche in Nietzsche l'influenza di
alcune fra le più significative conquiste della scienza della sua epoca). Comunque
sia, la presenza nella cultura tedesca di un pensatore così ribelle e affascinante
deve farci riflettere sulla molteplicità dei fattori in essa operanti, alcuni dei quali
totalmente estranei agli ambienti universitari.
Chi - come Gyorgy Lukacs - ha preteso vedere, nella fase del pensiero
della quale ci stiamo occupando e in quelle ad essa immediatamente prossime, un
processo di «distruzione della ragione», ha espresso un giudizio per noi inaccettabile; giudizio che conferma tra l'altro l'incapacità dei« filosofi-letterati», come
appunto Lukacs, di tener conto dei fenomeni culturali prodottisi fuori dell'ambito
della loro competenza (è ben noto infatti, che i progressi conseguiti dalla logica,
dalla matematica, dalla fisica, dalla biologia lungo tutto l'arco dell'Ottocento
costituirono senza alcun dubbio vittorie notevolissime della ragione). E pur tuttavia si deve ammettere che ha colto in certo senso nel segno, allorché ha denunciato
i numerosi germi di irrazionalismo diffusi in una parte della cultura dell'epoca,
accanto ai potenti filoni della ricerca razionalistica. Tali germi furono- come vedremo -particolarmente manifesti in Nietzsche, ma purtroppo non erano presenti soltanto in lui. E-se poterono dilagare con tanta rapidità fra le generazioni che si
entusiasmarono alla lettura degli scritti nietzschiani, è perché le contraddizioni
della società fornivano effettivamente una base all'evasione irrazionalistica. Occorreva una grande lucidità - come abbiamo cercato di dimostrare nei capitoli XIV e xv del volume quinto - per comprendere che tali contraddizioni avrebbero potuto venire risolte solo mediante una volontà guidata dalla ragione, non
mediante improvvisazioni guidate dall'istinto o dal sentimento.
II · HELMHOLTZ
Si è già parlato più volte di Hermann von Helmholtz (1821-94) in precedenza. In effetti egli occupò una posizione di primaria importanza entro il pensiero
scientifico dell'Ottocento a causa delle sue notevolissime scoperte nei campi della fisica, della fisiologia e della psicologia; per valutarne a fondo la personalità
occorre tuttavia prendere in esame anche la sua caratteristica posizione filosofica.
Molti trattati di storia del pensiero filosofico sostengono ancora oggi che egli
fu un kantiano. Come ora cercheremo di spiegare, l'affermazione può considerarsi
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Il complesso quadro della filosofia tedesca
sostanzialmente fondata (sia pure entro limiti ben circoscrivibili), anche se il posteriore neo-kantismo non si collegherà che in minima parte alla sua opera.
È un fatto che Helmholtz studiò con molta serietà gli scritti di Kant - soprattutto durante la sua permanenza a Konigsberg, nella cui università insegnò
fisiologia umana dal I 849 al I 8 55 - e che ne fu profondamente influenzato. Ritenne anzi, erroneamente, di scorgere una conferma dell'a priori kantiano in una
delle scoperte allora più nuove della fisiologia: la cosiddetta legge della « specificità
delle energie sensoriali »di Johannes Miiller. 1 Questo errore sta a indicare la tendenza del nostro autore ad interpretare il kantismo in chiave psicologico-fisiologica (è proprio per tale sua tendenza che gli indirizzi neo-kantiani della fine del
secolo rifiuteranno, come si è detto, di connettersi direttamente a lui) .
. Per comprendere i limiti dell'adesione di Helmholtz a Kant, va osservato
tuttavia che una tesi della dottrina kantiana suscitò fin dai primi anni in lui le più
decise obiezioni; è la tesi che concerne il carattere aprioristico dell'intuizione
spaziale e che afferma - almeno secondo l'interpretazione helmholtziana l'apriorità degli stessi assiomi della geometria. Helmholtz si ritenne in dovere di
respingerla con energia perché sostanzialmente « metafisica » e in palese contrasto
con le ben note scoperte della geometria non euclidea (argomento, come sappiamo,
da lui studiato a fondo e con molta originalità). «La geometria, >> leggiamo ad
esempio nella conferenza Das Denken in der Medizin (Il pensiero nella medicina, I877),
« farebbe per Kant qualcosa di analogo a quanto (in passato) si sforzava di fare la
metafisica; egli affermò infatti che gli assiomi della geometria, da lui considerati
come proposizioni vere a priori prima di ogni esperienza, sono dati mediante l'intuizione trascendentale. »
V ero è che in altri scritti Helmholtz dimostrò una certa perplessità riguardo
all'interpretazione testé accennata giungendo a sostenere, con ben maggiore ragione, che « lo spazio può essere trascendentale senza che lo siano gli assiomi »;
è tuttavia incontestabile che proprio la tesi in esame finì - col trascorrere degli
anni - per allontanarlo sempre più dal grande filosofo di cui, nella giovinezza,
si era considerato discepolo. Nel I 884 confesserà di essere stato all'inizio dei suoi
studi un « kantiano più convinto di ora », e di avere creduto « che si trattasse di
mutare in Kant aspetti accessori di poco significato », mentre più tardi sarebbero
stati proprio i kantiani di stretta osservanza a convincerlo del contrario. Secondo
alcuni recenti studiosi, il vero kantismo di Helmholtz non andrebbe tanto cercato
in questa o quella tesi particolare, quanto nel suo stesso modo di impostare e portare avanti la ricerca scientifica in stretta connessione con la gnoseologia; su tale
argomento scrive Vincenzo Cappelletti: « La scoperta di Kant, che Helmholtz
aveva fatto a Konigsberg, era quella stessa del vincolo fecondo tra la gnoseoI Sulla teoria, sostenuta da Miiller, dell'energia specifica degli organi sensoriali e sull'interpretazione datane da Helmholtz rinviamo a
quanto detto nel capitolo xvu del volume quarto,
dove già vennero accennati i limiti del kantismo di Helrnholtz e gli effettivi nessi fra la sua
posizione filosofica e quella degli empiristi (in particolare di Mill).
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Il complesso quadro della filosofia tedesca
logia e la scienza moderna. In nome di quella scoperta Helmholtz rimase fedele a
Kant più di quanto non credesse. »
Dal nostro punto di vista la cosa più importante è però comprendere il
significato generale che ebbe, per la cultura tedesca, il «ritorniamo a Kant » di
cui Helmholtz si fece per primo banditore poco dopo la metà del secolo. Esso può
riassumersi in due punti fondament!lli: I) abbandoniamo decisamente la metafisica
hegeliana, del tutto incompatibile con la scienza moderna; z) non diamo, tuttavia,
a tale abbandono il significato di un netto e definitivo distacco della scienza dalla
filosofia, poiché questa - se interpretata come ricerca dei fondamenti della conoscenza ~ ha tuttora molto da insegnare a quella. In breve: lotta contro la metafisica e difesa della filosofia.
Per porre in chiaro il senso e le implicazioni di queste due tesi ci sembra
estremamente utile riferire alcune notevolissime pagine di Helmholtz contenute
nel suo celebre discorso Ueber das Verhaltniss der Naturwissenschaften zur Gesamtheit
der Wissenschaften (Sul rapporto tra le scienze della natura e la totalità delle scienze, 186z)
che citiamo nella traduzione di Vincenzo Cappelletti:
« Negli ultimi tempi le discipline naturalistiche sono state il più delle volte
accusate di aver percorso una strada isolata, e di essersi estraniate dalle altre
scienze, che sono tra loro congiunte da comuni studi filosofici e storici. Tale opposizione si è fatta effettivamente sentire per un certo tempo, e a me sembra che si
sia sviluppata sotto l'influsso della filosofia di Hegel, o almeno che sia stata messa
in evidenza più di prima attraverso tale filosofia. Alla fine del secolo scorso, infatti,
sottol'influsso delle teorie di Kant, questa separazione non si era ancora manifestata ... La filosofia critica di Kant cercava soltanto di esaminare le fonti e la giustificazione del nostro sapere, e di porre davanti alle singole altre scienze il metro della
loro attività ideale. Una proposizione, trovata a priori mediante l'esercizio del
puro pensiero, secondo Kant potrebbe sempre costituire una regola metodica per
il pensiero, e non avere un positivo contenuto di realtà. La filosofia dell'identità 1
fu più audace. Essa muoveva dall'ipotesi che anche il mondo reale, la natura e la
vita umana fossero i risultati del pensiero di uno Spirito creatore, il quale era
considerato, quanto all'essenza, omogeneo allo Spirito umano. Perciò lo Spirito
umano, anche senza esservi condotto dall'esperienza esterna, sembrò poter incominciare a riflettere sui pensieri del Creatore e a ritrovarli attraverso la propria
interna attività. In questo senso la filosofia dell'identità cercò di costruire a priori
i risultati essenziali di tutte le altre scienze. Questo assunto poteva realizzarsi più
o meno relativamente alla religione, al diritto, alla scienza dello Stato, alla lingua,
all'arte: relativamente insomma a quelle scienze, il cui oggetto riposa su un fondamento psicologico, e che sono, perciò, a ragione comprese sotto l 'unico nome di
scienze ~ello Spirito ... Ma il fatto che la costruzione dei più importanti, essenziali
1
La «filosofia dell'identità» è a rigore
quella di Schelling; ma Helmholtz indica con questo termine anche la filosofia di Hegel.
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risultati delle scienze dello Spirito fosse riuscito più o meno bene non provava la
giustezza della filosofia dell'identità, da cui aveva preso le mosse la filosofia di
Hegel. I fatti della natura sono stati, invece, il decisivo banco di prova. Era
ovvio che nelle scienze dello Spirito dovessero ritrovarsi le tracce dell'attività
dello Spirito umano e dei suoi stadi evolutivi. Ma se la natura riflettesse il risultato
del processo razionale d'un simile Spirito creatore, le sue forme e i suoi processi,
d'una semplicità relativamente maggiore, dovrebbero lasciarsi inserire nel sistema in modo anche più facile. Ora proprio qui fallirono gli sforzi della filosofia
dell'identità: e fallirono, possiamo dire, completamente. La hegeliana filosofia
della natura sembrò ai cultori delle discipline naturalistiche quanto meno assolutamente priva di senso. Tra i molti insigni scienziati di quel tempo non ve ne fu
uno, che avesse potuto appagarsi delle idee di Hegel. Poiché, d'altra parte, Hegel
annetteva particolare importanza al fatto di conquistarsi proprio in questo campo
quei riconoscimenti, che aveva trovato in copia altrove, egli dette vita a una pqlemica di insolita veemenza e asprezza, soprattutto rivolta contro Newton quale
primo e massimo rappresentante della ricerca scientifica. Gli scienziati furono accusati dai filosofi di angustia mentale; questi furono accusati da quelli di vaniloquio. Gli scienziati incominciarono, a questo punto, ad attribuire un certo peso al
fatto che i loro lavori fossero tenuti al riparo da ogni influenza filosofica, e si
giunse presto al punto che molti di loro, e tra essi uomini eminenti, condannarono
ogni filosofia come cosa inutile, o persino come una dannosa fantasticheria. Non
possiamo negare che in tal modo si gettò via, insieme alle ingiustificate pretese di
subordinare le altre discipline, accampate dalla filosofia dell'identità, anche la
pretesa legittima della filosofia, ossia quella di svolgere una critica delle fonti conoscitive e di fissare una misura del lavoro concettuale. »
Va notato - e la cosa non è di scarso rilievo- che il lungo brano testé riferito
si inserisce in un discorso di pedagogia universitaria essenzialmente rivolto a denunciare e combattere i gravissimi pericoli dello specialismo onde trarne la conclusione che le varie facoltà debbono, malgrado le loro differenziazioni, continuare
a far parte di una medesima universitas studiorum. « È stato fatto notare che vi sarebbe più d'un vantaggio entrinseco mandando i medici negli ospedali delle
grandi città e gli studenti delle discipline naturalistiche nelle scuole politecniche ...
Vogliamo sperare che le università tedesche possano essere preservate ancora per
lungo tempo da un tale destino! Nel caso suddetto, infatti, la connessione fra le
diverse scienze sarebbe rotta. »
Il mantenimento (anzi il recupero) dei legami tra la filosofia e le scienze naturali è secondo Helmholtz importante, proprio perché costituisce il più efficace
rimedio contro il destino testé accennato. In effetti tali legami sono in grado di
farci comprendere meglio di ogni altro argomento che la scienza degna di questo
nome non è un coacervo di singole discipline prive di connessione reciproca e
tanto meno è una semplice raccolta disorganica di sempre nuovi e più numerosi
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dati empirici, ma è una costruzione unitaria, fondata su basi concettuali e sperimentali, che gradualmente accresce « il dominio dell'uomo sulle forze della natura»; è una conquista dell'umanità di valore etico non meno che teoretico.
Chi ricordi la concezione comtiana - di cui si parlò a lungo nel volume
quarto - imperniata sulla lotta contro il frantumarsi specialistico delle ricerche e sull'esaltazione della funzione civilizzatrice della scienza, non può fare a
meno di riconoscere la profonda analogia esistente fra l'orientamento filosofico
di Helmholtz e quello del fondatore del positivismo. Anche se il grande scienziato tedesco non lesse mai alcuna opera di Comte, e sostenne invece .più volte
la necessità di un ritorno a Kant, è impossibile negare che il suo programma
culturale rifletteva assai più le esigenze del nuovo clima positivistico della Germania che non quelle di un rigoroso kantismo. Non senza motivo lo vediamo
spesso richiamarsi ad Alexander von Humboldt, che a Parigi era stato in stretto
contatto con gli ambienti comtiani. La realtà è che, nella seconda metà dell'Ottocento, un certo kantismo e un certo positivismo apparvero tutt'altro che inconciliabili, come è confermato dal fatto che essi trovarono spesso innanzi a sé
i medesimi avversari.
III · L'ATMOSFERA POSITIVISTICA IN GERMANIA
Intitolando il presente paragrafo « atmosfera positivistica » abbiamo voluto
sottolineare che, a nostro avviso, non si può parlare di una vera e propria « scuola
positivistica tedesca » come si parla di quella francese o di quella inglese. In
altri termini: il positivismo tedesco non ebbe il carattere di una ben costituita
scuola filosofica, ma si frantumò in numerosi indirizzi, spesso in viva polemica
gli uni con gli altri, uniti soltanto da un comune preponderante interesse per le
scienze esatte o positive, e dal desiderio di ristabilire un serio legame fra esse
e la speculazione filosofica, legame che si era spezzato durante il predominio della
metafisica idealistico-romantica, in particolare per la polemica di quest'ultima contro la tradizione scientifica newtoniana.
Di qui la difficoltà di stabilire quali autori debbano o non debbano venire
qualificati come « positivisti ». Vi è per esempio chi fa rientrare nel « positivismo
tedesco » i materialisti come V ogt e Moleschott che per la verità non condivisero
affatto alcune tesi assai importanti del positivismo ufficiale; chi considera come
positivista Diihring e nel contempo Engels che scrisse contro di lui un'opera
di accesissima polemica; chi infine estende la qualifica di positivista a tutti gli
psicologi sperimentali a partire da Wundt.
A voler intendere il termine in senso sufficientemente lato, potremmo chiamare « positivista » anche Helmholtz e, prima di lui, lo stesso Alexander von
Humboldt. Lasciando da ·parte quest'ultimo, che è meglio classificabile come continuatore dell'illuminismo, si deve senz'altro ammettere- come poco sopra ri-
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levammo - che in Helmholtz sono effettivamente presenti parecchi elementi caratteristici della cultura positivistica. È incontestabile, fra l'altro, che nel lungo
brano da noi riferito nel paragrafo precedente, si trovano espressi alcuni giudizi
storiografici che verranno poi fatti propri da gran parte dei positivisti tedeschi
e che purtroppo contribuiranno non poco a indirizzare in modo sbagliato le
ricerche sullo sviluppo della cultura ottocentesca (anche le ricerche condotte da
studiosi idealisti e marxisti): tale ci sembra ad esempio l'affermazione- ovviamente infondata, come dimostrano le nostre analisi del volume quarto - che le filosofie della natura di Schelling e di Hegel non avrebbero esercitato alcuna influenza
positiva sulle scienze della prima metà del secolo; e altrettanto può ripetersi per
l'affermazione (risibile o poco meno) che la polemica di Hegel contro Newton
avrebbe tratto origine dal mancato riconoscimento dei meriti dell'hegelismo da
parte degli scienziati contemporanei, o per la semplicistica spiegazione del disinteresse di molti scienziati ottocenteschi per la filosofia come risultato della loro
reazione alle fantasticherie della Naturphilosophie. Trattasi di tesi perfettamente
giustificabili entro il tipo di cultura posseduta da Helmholtz, lilla che sono diventate oggi insostenibili, anche se molti continuano a ripeterle come luoghi comuni
(basti pensare alla tesi, ovviamente derivabile dalla terza delle succitate affermazioni
helmholtziane, che il positivismo sarebbe stato una reazione all'idealismo!).
Fatte queste premesse, risulta ormai chiaro che non vale la pena discutere se
un certo pensatore tedesco degli ultimi decenni del secolo sia stato o no effettivamente un positivista; l'importante è tenere presenti due fatti: x) che la rapidissima
diffusione delle ricerche scientifiche in Germania durante l'epoca in esame portò
in primo piano taluni problemi scientifico-filosofici, i quali erano stati considerati
come poco signi~cativi o in ogni caso come problemi collaterali nei decenni precedenti (in questo quadro va anche inserito il rinato interesse per la logica e per i
fondamenti della matematica); 2) che la qualificazione sommaria di « positivisti »
attribuita agli autori che se ne occuparono è purtroppo servita a parecchi studiosi,
quale comoda scusa per non interessarsi in alcun modo di essi e per delineare una
storia della cultura germanica completamente incentrata sugli indirizzi irrazionalistici, neo-romantici, religiosi.
Fra i problemi scientifico-filosofici testé accennati occupano un particolare rilievo, oltre a quelli fondamentali della logica e della psicologia, i problemi concernenti le basi della conoscenza scientifica della natura e quindi, in particolare, quelli
connessi alla fisica e alla biologia. I primi fanno riferimento, diretto o indiretto,
ai dibattiti intorno al meccanicismo; i secondi, ai dibattiti intorno all'evoluzionismo. Poiché tali argomenti sono già stati esaminati, ci riteniamo autorizzati a
non ritornare qui su di essi. Dedicheremo comunque il prossimo paragrafo ad
un autore, Emil Du Bois-Reymond, nei cui scritti l'esame del meccanicismo assume un particolare rilievo filosofico, anche perché, così impostato, esso investe
in termini nuovi l'antico problema dei limiti della conoscibilità della natura.
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Il complesso quadro della filosofia tedesca
Fra i vari indirizzi « positivistici » tedeschi, uno possiede una particolare caratterizzazione filosofica: l 'indirizzo empiristico-fenomenista, collegato per un
lato al problema della portata delle scienze empirico-sperimentali, per l'altro lato
alle ricerche di psicologia. Uno dei suoi primi e più autorevoli rappresentanti fu
Ernst Laas (1837-85), professore dal 1872 all'università di Strasburgo.
L'opera principale di Laas ha per titolo ldealismus und Positivismus (Idealismo e
positivismo, in tre volumi I 879, '8z, '84), e tratta, nel primo volume, i principi generali dei due indirizzi che secondo l'autore si sarebbero sempre contesi la guida del
pensiero filosofico, nel secondo l'etica ide~listica e positivistica, nel terzo la teoria
della scienza idealistica e positivistica. Nel ricostruire lo sviluppo millenario
della grande contesa tra idealismo e positivismo, Laas, pur parteggiando ovviamente per il secondo indirizzo, riconosce onestamente che il primo - da lui
qualificato in via generale come « platonismo » - ha dato parecchi contributi
fondamentali al progresso della filosofia (sono i contributi di Aristotele, di Cartesio, Spinoza, Leibniz, Kant, ecc.); pochissimi furono invece gli autentici positivisti, nel senso rigoroso del termine: egli considera tali solo Protagora, Hume e
Mill (escludendo dal novero lo stesso Com te, a causa della sua pretesa di fondare
una religione dell'umanità).
Richiamandosi per l 'appunto ai pochi positivisti del passato il nostro autore sostiene che la vera realtà è costituita di fatti di percezione, i quali non sarebbero
in se medesimi né soggettivi né oggettivi; in ciascuno di essi si formerebbero da
un lato il soggetto, dall'altro l'oggetto, distinti fra loro ma implicantisi a vicenda.
« Gli oggetti della percezione non sono " soggettivi '', ma sono in quanto tali gli
oggetti " originari·'', toto genere diversi dagli stati di coscienza ad essi correlati; i
due sono simultanei... Soggetto e oggetto sono gemelli inseparabili: stanno in
piedi e cadono assieme. » In altri termini: il soggetto non è che la coscienza di un
dato fatto percettivo, e, analogamente, l'oggetto non è che l'aspetto oggettivo di
una data percezione.
In tale mondo di fatti percettivi, in cui è esclusa per definizione ogni possibile
esistenza del trascendente, Laas propugna un'etica « positivistica », concepita
come «un'etica per questa vita», esclusivamente fondata su motivi che si riconducono in ultima istanza al piacere e al dolore (pur senza essere, a suo parere,
esclusivamente egoistici).
.
Il massimo rappresentante del fenomenismo tedesco fu Avenarius, di poco
più giovane che Laas; a lui dedicheremo il paragrafo v, nel quale prenderemo, fra
l'altro, in rapido esame i suoi complessi rapporti con Mach.
Al fenomenismo si può pure ritenere collegato, sebbene in forma alquanto
.indiretta, Wilhelm Schuppe (I836-1913), iniziatore della cosiddetta «filosofia
dell'immanenza », da lui esposta e difesa in vari scritti, il principale dei quali ha per
titolo Grundriss der Erkenntnis und Logik (Saggio di gnoseologia e logica, 1894). Anche
Schuppe sostiene che la realtà prima sarebbe costituita da un dato di coscienza, an-
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Il complesso quadro della filosofia tedesca
teriore alla distinzione fra soggetto e oggetto; ciascuno di questi due, invece,
esisterebbe solo in correlazione inscindibile con l'altro. Le indagini del nostro
autore sono prevalentemente rivolte a determinare il graduale formarsi, a partire
dal dato anzidetto, del soggetto e dell'oggetto, nonché le funzioni specifiche ad
essi spettanti. Egli si sofferma in modo particolare sulla dimostrazione che l'oggetto del pensiero non è esso stesso pensiero; ciò sarebbe sufficiente, a suo credere,
per garantire le esigenze del realismo comune.
IV
· DU BOIS-REYMOND
Del grande fisiologo tedesco (di origine francese) Emil Du Bois-Reymond
(I 8 I 8-96) si è già parlato nel capitolo xvn del volume quarto, dedicato appunto
al sorgere della fisiologia ottocentesca. In quella sede si è anche fatto cenno ai
suoi profondi interessi per i problemi filosofici della scienza e in particolare al
contributo che implicitamente diede alla critica del meccanicismo nel famoso
discorso Sui limiti della conoscenza della natura del I 872. Le argomentazioni i vi esposte verranno da lui stesso riprese e ampliate in un'altra non meno celebre conferenza Die sieben Weltriithsel (l sette enigmi del mondo) tenuta 1'8 luglio I 88o all'Accademia delle scienze di Berlino per la celebrazione dell'anniversario leibniziano.
È ora giunto il momento di esaminare un po' più da vicino la posizione sostenuta
dal nostro autore in questi due discorsi, posizione che può esserci di prezioso ausilio per comprendere alcuni significativi atteggiamenti di una parte assai notevole
della cultura scientifica dell'epoca.
Va osservato che Du Bois-Reymond ammette esplicitamente, d'accordo in
ciò con i maggiori fisici dell'epoca, che il più alto grado di conoscenza scientifica
della natura ci viene fornito dalla meccanica celeste. In altri termini: questa continua a rappresentare per lui, come rappresentava per Laplace, il vero modello
della scientificità. È per l'appunto in riferimento a tale modello (cui dà il nome di
«conoscenza astronomica») che egli conduce la sua interessantissima indagine
intorno ai limiti della nostra conoscenza della natura. « La conoscenza astronomica di un sistema materiale è la più perfetta conoscenza che possiamo ottenere del
sistema. È quella di cui suole appagarsi la nostra istintiva tendenza alla spiegazione
causale.» «La conoscenza della natura propria dell'Intelligenza di Laplace rappresenta il più alto grado immaginabile della nostra conoscenza della natura, e
nell'indagare i limiti di questa conoscenza possiamo prendere quella come base.
Ciò che l'Intelligenza di Laplace non riuscisse a penetrare, ciò stesso rimarrebbe
interamente nascosto alla nostra mente. »
Come ricordammo nel capitolo v, anche Spencer aveva parlato nei Primi
principi (pubblicati per la prima volta in forma di dispense nel I 86o-6z, e poi in
volume nel I 867) di limiti invalicabili della conoscenza scientifica, il che dimostra
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Il complesso quadro della filosofia tedesca
quanto la cultura scientifica europea fosse ormai sensibile a questo tema. Ma gli
argomenti invocati da Du Bois-Reymond a sostegno della propria tesi sono indiscutibilmente più rigorosi; ed infatti mentre il pensatore inglese derivava il
carattere limitato della conoscenza scientifica dalla constatazione assai vaga (di
carattere più filosofico che non seriamente scientifico) che la conoscenza si muove
sempre nel campo del relativo o condizionato, il tedesco perviene invece alla tesi
predetta prendendo le mosse da una dettagliata analisi di alcuni problemi (tre
nella prima conferenza, sette nella seconda) che si rivelerebbero insolubili con i
metodi della meccanica laplaciana.
Va osservato che la conclusione di questa analisi non può oggi stupirei, se
teniamo presente ciò che accadde qualche decennio più tardi nella fisica (ave si
renderà necessario, per far progredire le nostre conoscenze della natura, compiere
un profondo rivolgimento proprio nell'ambito della meccanica classica). Giudicando le cose dal punto di vista odierno possiamo dire che l'errore di Du BoisReymond fu in certo senso opposto a quello di Spencer; egli peccò infatti non di
genericità ma di eccessiva precisione, per avere dogmaticamente escluso che potessero esservi altri modelli di scientificità, altrettanto validi quanto quello di
Laplace seppure diversi da esso.
Il primo punto in cui i metodi laplaciani troverebbero - secondo l'analisi
contenuta nella conferenza del1872- un ostacolo insuperabile, riguarda la natura
della materia e della forza. Limitiamoci a illustrare la gravità dell'ostacolo di cui
parla il nostro autore in riferimento al problema della materia, cioè dell'atomo.
Se esso è indivisibile, come vuole la tradizione dell'atomismo filosofico, in che
modo potremo sostenere che occupa una porzione di spazio - sia pur piccola
ma finita - mentre la geometria ci insegna che ogni porzione siffatta può venire
ulteriormente divisa? E se invece l'atomo si riduce a un punto geometrico, come
potremo ancora parlare di materia, dato che in tal caso il substrato di essa essendo privo di dimensioni - non risulterebbe più in grado di riempire alcuno
spazio?
Il secondo ostacolo, non meno grave del primo, è costituito, sempre secondo
Du Bois-Reymond, dalla «questione dell'inizio del moto». Se nello stato originario delle cose l'Intelligenza di Laplace «trovasse la materia immobile da un
tempo infinito nello spazio infinito, e inegualmente suddivisa, non saprebbe donde
si sia originata la diversa suddivisione, e se trovasse la materia già in moto,
ignorerebbe l'origine di questo moto che le apparirebbe soltanto come stato casuale della materia. In entrambi i casi rimarrebbe inappagata la sua esigenza di
spiegazione causale ».
Du Bois-Reymond scorge il terzo «inintelligibile» nel fenomeno della «coscienza ». Anche se noi potessimo in futuro conseguire una conoscenza perfetta
dell'« organo della psiche », i processi psichici resterebbero «per noi inspiegabili
tanto quanto ora ... La conoscenza astronomica del cervello, la più alta conoscenza
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che possiamo raggiungerne, ci rivela in esso null'altro che materia in movimento.
Attraverso nessuna disposizione o movimento delle particelle materiali è dato gettare un ponte verso il regno della coscienza. Il movimento può soltanto generare
movimento o ritrasformarsi in energia potenziale. Questa può soltanto generare
movimento, mantenere equilibri statici, esercitare pressioni o trazioni... La causalità meccanica si risolve puramente in un effetto meccanico. I processi psichici
che si svolgono nel cervello accanto ai processi materiali sono dunque privi per il
nostro intelletto della ragione sufficiente. Essi stanno al di fuori della legge di
causalità e per questo sono incomprensibili ».
La conferenza del I 87 2 ha termine con la famosa proclamazione del « verdetto
rinunciatario »; esistono argomenti che non solo lo scienziato ignora oggi, ma
che continuerà a ignorare anche in futuro: ignorabimus.
Ai tre enigmi testé elencati, la conferenza del 188o ne aggiunge altri quattro
(concernenti l'origine della vita, la disposizione finalistica della natura, il pensiero
razionale e« l'origine del linguaggio ad esso strettamente connesso», la libertà del
volere) rispetto ai quali, però, Du Bois-Reymond dichiara che non presentano
difficoltà « trascendenti » cioè « insuperabili », ma tali soltanto da renderei « esitanti» di fronte ad ogni tentativo di soluzione. Nel concludere l'ampio discorso,
disseminato di polemiche contro scienziati e filosofi (in particolare contro i materialisti), il nostro autore afferma che i sette enigmi potrebbero « venire COIJ;lpendiati in un unico problema, il problema del mondo». È un problema che Leibniz,
come gli altri grandi metafisici del passato, riteneva di avere risolto solo perché
« si era forgiato il mondo a suo piacimento », ma che lo scienziato moderno - il
quale si pone di fronte al mondo così com'è, non come vorrebbe che fosse deve trattare con ben maggiore cautela. « Se Leibniz, sollevandosi sulle sue stesse
spalle, potesse avere parte oggi alle nostre meditazioni, è certo che direbbe con
noi: dubitemus. >>
Sarebbe difficile trovare un altro testo, in cui l'agnosticismo positivistico riflette così fedelmente come nelle pagine di Du Bois-Reymond le difficoltà in cui si dibattevano le scienze dell'epoca (dalla fisica alla psicologia).
Anche se oggi molte di queste difficoltà ci sembrano infantili - solo perché
nel frattempo la ricerca scientifica ha compiuto straordinari progressi - va francamente riconosciuto che verso il 187o-8o esse erano reali, e ben meritevoli di
seria meditazione.
Il fatto grave è, però, che la conclusione generale che Du Bois-Reymond
ricavò dalla propria meditazione su di esse, per quanto più seria di quella ottenuta
da Spencer sulla base del carattere relativo di ogni conoscenza, era parimenti
pericolosa. Se è vero infatti che il nostro autore non giunge, come l'inglese, a
un'esplicita giustificazione della religione, vero è tuttavia che apre in ultima istanza la via a un discorso metafisica (come risulta evidente dalla stessa espressione
poco sopra riferita:« problema del mondo»). Non senza motivo il nuovo indirizzo
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positivista, sorto nel Novecento, rifiuterà con asprezza le conclusioni di Du BoisReymond, affermando risolutamente che i suoi famosi sette enigmi non rappresentano degli « inintelligibili » ma soltanto dei problemi « vuoti di senso ». ·
V
· AVENARIUS
Richard A venarius nacque a Parigi nel 1843 da famiglia tedesca, originaria di
Lipsia. Studiò filosofia e fisiologia a Lipsia e a Berlino laureandosi nel 1868.
Nel 1876 fondò, con lo psicologo Wilhelm Wundt e altri, la rivista« Viertelyahrschrift fur wissenschaftliche Philosophie » («Rivista trimestrale di filosofia scientifica ») destinata ad assumere un 'importanza notevole nella cultura tedesca, e ne
fu condirettore fino alla morte. Nel medesimo anno pubblicò un importante lavoro dal titolo Philosophie als Denken der Welt gemass dem Prinzip des kleinsten
Kraftmasses. Prolegomena zu einer Kritik der reinen Erjahrung (Filosofia come pensiero
del mondo secondo il principio del minimo dispendio di forza. Prolegomeni ad una critica
dell'esperienza pura).
Nel I 877 venne chiamato presso l'università di Zurigo per insegnarvi «filosofia induttiva », insegnamento che continuerà a tenere per tutta la vita.
L'opera principale di Avenarius si ricollega anche nel titolo a quella del 1876:
Kritik der reinen Erfahrung (Critica dell'esperienza pura, in due volumi 1889-90).
Nel 1891 egli pubblicò un altro lavoro assai importante, Der menschliche Weltbegriff
(Il concetto umano del mondo), che in certo senso costituisce una integrazione della
Kritik. Oltre ad essi, presentano un notevole interesse anche vari articoli, di filosofia e di psicologia, comparsi sulla rivista testé ricordata. Morì nel 1 896 a soli
cinquantatré anni di età.
Il pensiero filosofico di A venarius suole ancor oggi venire strettamente avvicinato a quello di Mach, quasi che essi siano stati due rappresentanti del medesimo indirizzo, il cosiddetto « empiriocriticismo ». Trattasi però, come già si è
accennato nel capitolo xn del volume quinto, di un sostanziale equivoco, poiché
i due autori - pur sostenendo, su alcuni punti, tesi pressoché identiche - divergono profondamente nell'impostazione generale della filosofia. Né la cosa
deve stupirei, se pensiamo alla loro diversa formazione culturale e ai loro diversi
interessi: ciò che spinse Mach all'epistemologia e, tramite essa, alla filosofia fu
soprattutto l'esigenza di liberare la scienza moderna (in particolare la fisica) dai
presupposti metafisici che - accolti inconsapevolmente nelle esposizioni « classiche » - ne ostacolavano gravemente a suo parere il libero e fecondo sviluppo;
ciò che spinse Avenarius alle proprie ricerche fu invece, essenzialmente, l'esigenza di trovare una giustificazione moderna del sapere filosofico di fronte a quello
scientifico, giustificazione basata non su dogmi metafisici ma sopra un'attenta
analisi dell'esperienza, rigorosamente svolta con l'ausilio di sottili indagini psicologiche.
Il problema testé accennato- di trovare una seria giustificazione della filoso144
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Il complesso quadro della filosofia tedesca
fia- è già al centro del lavoro del1876. Per risolverlo, il nostro autore prende le
mosse da un principio che secondo lui risulterebbe dimostrabile mediante l'analisi dei nostri processi psichici: nell'anima è presente« una tendenza al risparmio
di forza». Su tale principio (analogo al principio di «economicità» del sapere
scientifico già abbozzato qualche anno prima da Mach e poi da lui ampiamente
sviluppato nella Meccanica del 188 3) si fonderebbero, secondo Avenarius, tutte le
conoscenze concettuali, e in primo luogo le scienze propriamente dette che lo
applicano a settori particolari dell'esperienza. Orbene anche la filosofia non sarebbe altro che un'applicazione più elevata del medesimo principio, in quanto
avrebbe come suo compito specifico quello di « abbracciare la totalità dei fenomeni »; con ciò stesso essa si porrebbe « al termine della serie delle scienze »
quale loro unificazione a un livello più alto di generalità.
Emerge qui un secondo punto di analogia con il pensiero di Mach. Già
abbiamo detto, a proposito di quest'ultimo, che egli polemizzò a lungo ed efficacemente contro i fisici meccanicisti imperanti verso la metà del secolo, i quali
ritenevano di poter ricondurre ogni altra scienza alla meccanica illudendosi di
farne la base e l'elemento unificatore di tutto il sapere scientifico. Anche Avenarius condivide questa posizione antimeccanicista, sia pure da un punto di
vista assai diverso: egli ritiene infatti che solo l'esperimento (e non la teorizzazione meccanica) risulti in grado dì fornire un solido fondamento alle scienze e
ritiene di conseguenza che la filosofia - cui spetta, come si è detto, la funzione
di unificare tutto il conoscere - possa adempiere al suo compito solo a patto di
spingersi al di là delle esperienze prese in esame dai singoli scienziati ( « esperienze
miste » in quanto permeate di categorie aggiunte dal soggetto), fino a cogliere
la vera originaria esperienza o «esperienza pura».
L'importanza capitale attribuita all'indagine filosofica, nonché la centralità
riconosciuta all'esperienza pura quale oggetto specifico e fondamento di tale
indagine, costituisce senza dubbio uno dei temi più caratteristici del pensiero di
A venarius, e costituisce pure, a nostro avviso, uno dei punti che maggiormente
lo differenzia dal pensiero di Mach. È bensì vero, infatti, come spiegammo nel
capitolo xu del volume quinto, che anche in quest'ultimo sono implicite alcune
tesi filosofiche (malgrado le ripetute dichiarazioni di Mach di non aver inteso costruire alcun sistema filosofico); ma un conto è accettare una certa posizione
- nel caso specifico una posizione fenomenistica - per usarla come strumento
critico nel proprio lavoro scientifico, un altro conto, ben diverso, è fare di essa
l'oggetto essenziale, pressoché unico della propria ricerca. Confondere i due atteggiamenti significa non comprendere a fondo né l'uno né l'altro.
A differenza di Mach, Avenarius è un vero e proprio filosofo; ·n suo fenomenismo vuoi essere cioè uria ben precisa filosofia che egli contrappone, a torto
o a ragione, alle filosofie del passato e che cerca di fondare con argomentazioni
prettamente filosofiche (quale ad esempio il « metodo di eliminazione » di cui
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Il complesso quadro della filosofia tedesca
ripetutamente si avvale per giungere all'« esperienza pura» partendo dalle« esperienze miste»). La sua posizione di filosofo, non di epistemologo, già presente
nella prima opera del '76, diventa ancora più chiara nelle successive.
In esse troviamo infatti una graduale precisazione della nozione di « esperienza pura», intesa quale unità indifferenziata, a sé stante, di psichico e fisico.
L'esperienza pura è il primum di ogni conoscenza; è il punto da cui dobbiamo
prendere le mosse per ricostruire il mondo soggettivo e oggettivo in tutta la loro
complessità. Questa ricostruzione porrà a nudo il vero senso dei problemi via
via formulati dalla scienza e dalla filosofia, evidenziando l'inconsistenza di gran
parte di essi.
Nell'esperienza pura emergono «situazioni di fatto», in ciascuna delle quali
si ha un io e un ambiente circostante, inscindibilmente coordinati fra loro ( « è
una coordinazione che non può essere sciolta»). Quando, per esempio, si dice
che un determinato io scorge un albero, la reale situazione di fatto è che «l'io
e l'albero sono, a pari grado, contenuto di un solo e medesimo dato. Io e l'ambiente stanno assolutamente sulla stessa linea per quanto riguarda il loro essere
dato ». Per evitare ogni possibile interpretazione soggettivistica del « dato »,
il nostro autore lo descrive come un evento biologico, come uno stato del sistema
nervoso. Un tale stato è costituito di elementi (le vere e proprie sensazioni) e di
«caratteri» (quali il piacere e il dolore, la medesimezza e l'alterità, ecc., che esprimono il rapporto fra l'io e l'ambiente). Al di fuori di questi «elementi» e «caratteri» non v'è nulla. Le stesse cosiddette strutture razionali della natura e della
mente si dissolvono secondo A venarius in « caratteri », onde risulta chiara
l'infondatezza delle filosofie (come quella kantiana) che pretenderebbero considerarle come categorie a priori. Egli giunge a sostenere che perfino i concetti
di materia e di spirito si dissolvono, se sottoposti ad un'analisi come la sua;
essi derivano infatti dai due «caratteri» della medesimezza e dell'alterità. La materia viene tradizionalmente concepita come identica a se stessa e opposta allo
spirito, e di contro, lo spirito come identico a se stesso e opposto alla materia;
ma fuori del gioco di questa opposizione né la materia né lo spirito hanno alcuna
consistenza. Cadono quindi, d 'un tratto, tutti i famosi problemi metafisici circa
la possibilità di un 'interazione fra essi.
Senonché, come tutti sanno, in ciò che abbiamo chiamato l'« ambiente circostante », non sono inclusi soltanto i corpi del mondo fisico (nel senso lato di
questo termine), ma anche gli altri uomini: ossia quello che Avenarius chiama
der Mittmensch («il prossimo»). Orbene - si domanda il nostro autore come può accadere che un« io» attribuisca ad una parte dell'ambiente circostante,
cioè a quella porzione di esso che suol venire chiamata « un altro uomo », le
stesse percezioni, gli stessi pensieri, la stessa volontà che avverte in sé? Avenarius
risponde: ciò accade sulla base di un processo fittizio, ipotetico, « l'introiezione ».
«In seguito all'introiezione l'individuo M trova da un lato le parti dell'ambiente
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come cose e dall'altro gli individui che percepiscono le cose; dunque cose e
percezioni di cose. » È tale processo ed esso solo che ha fatto sorgere la distinzione
tradizionale fra mondo interno e mondo esterno, dando l'avvio a tutti gli innumerevoli tentativi metafisici di unificar li riducendo questo a quello (idealismo)
o quello a questo (materialismo). Una descrizione esatta dell'esperienza, nella sua
purezza, basterà - secondo il nostro autore - a dissolvere anche questi problemi, permettendo finalmente al filosofo di costruire una concezione totale
del mondo altrettanto valida quanto le concezioni settoriali di esso, elaborate
dagli scienziati. E sarà proprio questa concezione unitaria a rendere possibile
il massimo «risparmio di forza», di cui abbiamo fatto parola all'inizio del paragrafo.
Nessuno può negare la grande coerenza della costruzione testé sommariamente delineata; è anche impossibile negare, però, il suo carattere artificiale e
arbitrario. Essa si regge su argomentazioni puramente astratte, che parlano sì
di psicologia e di fisiologia, ma che in realtà non fanno mai riferimento ad alcuna ricerca scientificamente fondata di queste discipline. Non è senza motivo
che Avenarius scrive, nella Critica dell'esperienza pura, che la filosofia non ha bisogno di altro se non di « una trattazione puramente formale del sistema nervoso».
Egli ha senza dubbio sentito vivissima l'esigenza di costruire una filosofia
altrettanto seria quanto la scienza, da èontrapporre alle vecchie metafisiche romantiche, ma purtroppo non ha saputo compiere alcun passo veramente significativo verso la sua effettiva costruzione. Ben diversamente da ciò che è accaduto
per Mach, i veri eredi di Avenarius dovranno venire cercati, nel Novecento,
assai più fra le correnti di « filosofia pura >> (estranea ad ogni seria problematica
scientifica) che non fra gli autentici filosofi-scienziati.
VI · LO SPIRITUALISMO: LOTZE
Anche in Germania come in altri paesi europei (particolarmente in Francia)
si ebbe, a partire dalla metà dell'Ottocento, una vivace rinascita dello spiritualismo,
rielaborato in formule nuove che intendevano provare la piena compatibilità
di esso con i grandi risultati della scienza moderna. Il rappresentante più illustre
di questa rinascita fu Hermann Lotze, che esercitò una notevole influenza anche
fuori dal proprio paese; come ricordammo nel capitolo v, vari suoi scritti vennero tradotti in inglese da Bernard Bosanquet.
Lotze nacque a Bautzen nel 1 8 I 7; studiò medicina e filosofia all'università
di Lipsia ove conseguì la docenza in entrambe le discipline. Ancora giovanissimo
pubblicò due notevoli opere, una di metafisica e l'altra di logica, rispettivamente
nel 1841 e nel 1843. Nel 1844 gli venne offerta dall'università di Gottinga la
cattedra di filosofia, che era stata tenuta per vari anni da Herbart. A Gottinga
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insegnò dal I844 al I88o, quando venne chiamato presso l'università di Berlino.
Qui però il suo insegnamento fu molto breve perché morì nel I881.
Già si è fatto cenno, nel capitolo xvii del volume quarto, alla singolare posizione assunta dal nostro autore intorno ai problemi biologici, posizione che si può
riassumere nelle seguenti due tesi, in apparente contrasto tra loro: per un lato,
strenua difesa di un rigoroso meccanicismo e, per l'altro, franco riconoscimento
della presenza nel mondo di un ordine teleologico. Volendo ora riprendere in
esame il quadro generale della sua filosofia, occorrerà fare più diretto riferimento
alle opere principali da lui scritte su questo specifico argomento, oltre - ben
inteso - a quelle già menzionate nel capitolo predetto.
La più nota di esse ha per titolo Mikrokosmus (Microcosmo, in tre volumi,
I 8 56-64); è assai interessante perché cerca di esporre in forma semplice e chiara
una psicologia in stretta connessione con la fisiologia e con la storia della civiltà,
passando poi a trattare argomenti generali di carattere cosmologico e religioso.
Di notevole interesse è pure la Geschichte der Aesthetik in Deutschland (Storia
dell'estetica in Germania) che Lotze pubblicò nel I868. Qualche anno più tardi egli
si accinse a rielaborare e riordinare tutte le proprie concezioni in una grande
opera, System der Philosophie (Sistema di filosofia), che avrebbe dovuto consistere
di tre parti rispettivamente dedicate alla logica, alla metafisica e all'estetica; la
morte gli impedì tuttavia di stendere la terza. Le prime due hanno per titolo:
Drei Biicher der Logik (Tre libri di logica, I874), e Drei Biicher der Metaphysik (Tre
libri di metafisica, I879). Merita di venire notato che il nuovo trattato di logica,
il quale non è altro che un rifacimento e un ampliamento di quello del I 843,
è collocato, nel Sistema di filosofia, prima della metafisica, mentre negli scritti
giovanili era quest'ultima a precedere la logica.
Compito della logica è, secondo Lotze, di esaminare le concatenazioni dei
pensieri, senza interessarsi degli atti psichici da cui scaturiscono. Questi esistono
come determinati fenomeni temporali, e il loro studio rientra nell'ambito di
un'altra disciplina, la psicologia.
Ogni termine rinchiude un « contenuto di pensiero », e questo possiede in
sé un ben preciso significato indipendentemente dal fatto di rinviare ad una
rappresentazione. La logica pura si interessa per l'appunto di tali contenuti e
delle loro connessioni; le sue leggi non sono, pertanto, esclusivamente formali
in quanto si basano sui rapporti fra contenuti (in particolare sul rapporto fra il
contenuto del soggetto di una proposizione e quello del suo predicato). È l'esame
di questi rapporti che le permetterà di giungere ad enunciati forniti di validità
generale. Essa si suddivide in tre capitoli fondamentali: teoria del concetto, del
giudizio e del ragionamento. Tutti e tre possono venire svolti in forma rigorosamente astratta, con nessun altro riferimento fuorché ai contenuti di pensiero.
Se poi si collegano questi contenuti a determinate rappresentazioni, si avrà
la logica applicata. Non è detto però che tali rappresentazioni debbano venire
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ricavate dal mondo esterno; è possibilissimo che gli oggetti cui la logica viene
applicata siano, essi stessi, meri enti concettuali. Ciò accade di fatto, secondo
Lotze, nella matematica e nella giurisprudenza. Ecco ad esempio quanto egli
scrive a proposito della prima di queste discipline: « La matematica non ricava
dal mondo esterno né i propri oggetti né i metodi per trattarli; ciò che proviene
dal mondo esterno può solo suggerirle di avviare la ricerca in questa o quella
direzione, ma i veri oggetti della sua trattazione sono sempre e soltanto le immagini che la nostra intuizione trova in sé o il nostro pensiero costruisce. I fenomeni
del mondo esterno possono soltanto richiamarcele in modo approssimato. La
trattazione di tali oggetti consiste nell<;> svilupparne le infinite conseguenze necessarie, certamente non tratte da alcuna esperienza; conseguenze che scaturiscono dalle infinite molteplici combinazioni possibili delle anzidette immagini
interne. E questo sviluppo è tutt'altro che breve: tali conseguenze infatti non si
dispiegano di per sé innanzi a noi, sì da richiedere soltanto l'atto di contemplarle.
In ogni tempo la logica si è applicata alla matematica dell'epoca per trovare
esempi di metodi di ricerca più sottili, più profondi e più efficaci; chiaro segno,
questo, che il pensiero trova un numero sufficiente di occasioni di lavoro anche
se, prescindendo da un mondo esterno ad esso estraneo, si limita a scrutare
nel fondo la natura delle proprie immagini. »
Abbiamo riferito per disteso il brano testé citato, perché in esso affiora,
con manifesta evidenza, la tendenza di Lotze a collocare in secondo piano il
mondo esterno, dirigendo le proprie indagini verso qualcosa che possiede un
altro tipo di esistenza. È una chiara propensione verso nuove forme di platonismo,
propensione che ricomparirà poco più tardi in altri autori, influenzati in modo
diretto o indiretto da lui (per esempio nella scuola neo-kantiana di Marburg,
della quale ci occuperemo nel prossimo paragrafo).
Una volta chiariti il significato e l'importanza della logica, resta ora da dire
che una qualunque conoscenza veramente scientifica dovrà, secondo Lotze, assumere l'aspetto di teoria logicamente articolata. Tale è per l'appunto la cosiddetta meccanica razionale, che proprio perciò può costituire la base sicura di
tutte le altre scienze (ivi inclusa, come già sappiamo, la stessa biologia).
È proprio lo sviluppo coerente della concezione meccanicistica testé accennata che ci conduce però, sempre secondo Lotze, a scoprirne i limiti insuperabili.
Una volta respinta nel modo più reciso - come venne spiegato nell'anzidetto
capitolo del volume quarto - ogni forma di vitalismo, e respinto con essa qualunque uso non rigorosamente meccanico del concetto di forza (identificata cioè
la forza con i suoi effetti meccanici), si dovrà riconoscere che il meccanicismo
non è in grado di spiegare l'intero ordine dell'universo.
Tale riconoscimento non va inteso nel senso che lo studio dei fenomeni
concreti ci solleciti a cercare altre leggi, al di là di quelle della meccanica. Secondo Lotze questa scienza, strutturata in forma matematicamente (e logicamente)
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perfetta, esaurisce tutto intero il campo delle conoscenze scientifiche comunque
possibili. Attenendosi agli insegnamenti di Herbart, egli ~ostiene che la stessa
psicologia scientifica va trattata in forma matematico-meccanica, e giunge ad
asserire che perfino i fenomeni sociali, se studiati scientificamente, devono venire
spiegati in termini meccanici.
Ma se vogliamo spingerei più a fondo, indagando il «perché» dell'ordine
dell'universo, allora la meccanica non potrà più darci alcuna risposta. Questo
« perché » potrà venirci fornito solo dalla metafisica. Dal nuovo punto di vista,
il nesso necessario dei fenomeni assumerà, allora, l'aspetto di mera apparenza,
rinviandoci a un ordine più reale, sottostante ai fenomeni.
Per l'appunto qui, cioè nel presunto rinvio a un «reale più profondo»,
va cercata la vera radice dello spiritualismo di Lotze. Una volta ammessa l'esistenza di siffatta realtà, è chiaro che egli potrà sbizzarrirsi a descriverla con le
più ardite metafore metafisiche.
Senza soffermarci su inutili particolari, basterà aggiungere che il punto
conclusivo di tali metafore è una concezione di tipo leibniziano, secondo cui la
vera realtà - del mondo fisico come di quello psichico - sarebbe costituita
di monadi, intese come sostanze spirituali. Constatata l'impossibilità di ridurre
integralmente lo psichico al fisico, il nostro autore ritiene che solo la riduzione
di questo a quello può farci raggiungere una visione unitaria dell'universo.
Proprio come Leibniz, egli ammetterà poi che la pluJalità delle monadi ci rinvia
a una monade suprema, cioè a dio, solo garante dell~ordine razionale del cosmo.
Questa« monade delle monadi »si varrebbe dell'ordine meccanico dell'universo
quale strumento per realizzare i propri fini, non diversamente da come opera
l'anima di ogni singolo uomo che utilizza quale strumento il rispettivo corpo.
Procedendo senza controllo lungo la via testé accennata, Lotze giunge infine
ad asserire che il fine supremo di dio è proprio il bene del mondo. Si accorge
sì che tale asserto è ancora più ardito di tutti i precedenti, ma ritiene di poterlo
giustificare appellandosi alla «testimonianza interna della coscienza», all'invincibile speranza che sta alla base di tutta la nostra vita morale.
Il carattere prettamente dogmatico di tutta questa costruzione, che rappresenta un gratuito ritorno a filosofie ormai vecchie di circa due secoli, è evidente
a chiunque. La famosa conciliazione, che il nostro autore si era proposto di attuare, fra spiritualismo e scienza moderna, non poteva dar luogo a un fallimento
più completo.
Al termine della Logica, in manifesta polemica con il positivismo, Lotze
esprime la speranza che la filosofia tedesca ritornerà sempre al tentativo di « comprendere il decorso del mondo, e non soltanto di calcolarlo » (« den Weltverlauf
zu verstehen, und ihn nicht bloss zu berechnen »).È un fatto però, che l'unica via da lui
indicata per giungere a questa comprensione superiore al calcolo, è stata quella
della fede, cioè della rinuncia totale a comprendere.
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Dopo Lotze, l'indirizzo spiritualistico non trovò in Germania che sostenitori ancora più deboli di lui da un punto di vista rigorosamente teoretico. Il più
celebre fra essi fu Eduard von Hartmann (I842-I9o6), autore di un'opera Philosophie des Umbewussten (Filosofia dell'inconscio, I869)- che incontrò una notevolissima, seppure passeggera, fortuna. Vi si sostiene che il principio del mondo è
un assoluto spirituale inconscio, sintesi dello spirito assoluto di Hegel e della
volontà di Schopenhauer; esso sarebbe l'uno-tutto, cioè un dio immanente all'universo ma che trascende ogni propria determinata manifestazione. Per giungere a tale principio, l 'uomo non avrebbe che a riflettere attentamente sia sui
modi con cui risulta organizzata la natura (in forma finalistica ma inconsapevole),
sia sulla nostra complessa e oscura vita istintiva e volitiva; sia infine sulla stessa
attività del pensiero (che si regge su idee a priori, delle quali non possediamo in
realtà un'effettiva consapevolezza in quanto le troviamo in noi come qualcosa di
dato, indipendente dal nostro io).
Meritano infine di venire ricordate le figure di due pensatori che, pur senza
avere una forte tempra di filosofi, esercitarono una vasta e profonda influenza
entro la cultura europea della fine Ottocento. La prima è quella di Afrikàn Spir
(I837-9o), russo di nascita ma vissuto a lungo in Germania, che - partendo
dall'opposizione, secondo lui netta e incontestabile, fra l'unità e la perfezione
di dio e la molteplicità e malvagità del mondo - condusse per tutta la vita
un'appassionata e «ispirata» polemica sia contro le filosofie materialistiche tendenti a negare il principio assoluto (divino) dell'universo, sia contro le filosofie
romantiche tendenti a identificarlo con la natura. La seconda è quella di Rudolph
Eucken (I 846-I926), valente scrittore (fu premio Nobel per la letteratura nel
I9o8), il quale sostenne in numerose e affascinanti opere l'impossibilità di spiegare
il mondo dell'esperienza se non facendo ricorso a uno spirito trascendente, che si
manifesterebbe nell'attività estetica, filosofica ed etico-religiosa delle grandi
personalità della storia.
VII · IL NEO-KANTISMO
Abbiamo cercato di spiegare nel paragrafo n il significato e i limiti del richiamo a Kant da parte di Helmholtz. Fu solo nel decennio I 860-70 che ebbe
inizio un vero e proprio movimento filosofico, diretto a riprendere e rinnovare
i temi della filosofia kantiana.
Nel I865 Otto Liebmann (I84o-I9I2) pubblicò quella che può considerarsi
l'opera-manifesto del rinato criticismo; essa aveva per titolo Kant und die Epigonen
(Kant e gli epigoni): ogni suo capitolo terminava col ritornello «occorre dunque
ritornare a Kant ». L'anno successivo Friedrich Albert Lange (I828-75) diede
alle stampe la sua famosa Geschichte des Materialismus und Kritik seiner Bedeutung
in der Gegenwart (Storia del materialismo e critica del suo significato nel momento attuale,
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I866), che è un esame storico-critico del materialismo attraverso cui l'autore
perviene al recupero del trascendentalismo kantiano. Il nucleo centrale del pensiero di Kant va cercato, secondo Lange, nella Critica della ragion pura, le cui
complesse teorie possono venire riassunte nell'affermazione conclusiva che solo
il mondo fenomenico risulta conoscibile, mentre la cosa in sé va unicamente
ammessa come causa problematica dei fenomeni. Ogni tentativo di completare
la conoscenza del mondo fenomenico con l 'introduzione di un mondo ideale,
sarebbe esclusivamente giustificabile sul piano etico e su quello estetico.
L'opera ebbe un notevole successo, anche perché cercava di convilldare
la concezione kantiana con argomenti tratti da una seria riflessione critica sui
risultati della scienza moderna. Non si può dire però che il suo autore avesse
compreso a fondo il nucleo centrale della filosofia di Kant, in quanto si lasciava
sfuggire il vero significato dell'lo penso e, pur non cadendo nello psicologismo e
fisiologismo di Helmholtz, si limitava a sostenere una specie di parallelismo psicofisico, in base a cui la coscienza sarebbe la faccia interiore dei processi fisiologici
che si compiono entro l'organismo nel momento in cui si attua la percezione.
In breve, il kantismo di Lange era senza dubbio ancora fortemente condizionato
dall'atmosfera positivistica, per quanto intendesse liberarsi da essa.
L'autentico salto qualitativo, dal kantismo al neo-kantismo, ebbe luogo
pochi anni più tardi ad opera delle due scuole di Marburg e di Heidelberg. La
prima venne fondata da Hermann Cohen (I848-I9I8), che fu appunto professore
a Marburg dal I876 al I912; l'indirizzo da lui iniziato venne poi proseguito da
Paul Natorp (I854-I92.4), anch'egli professore a Marburg dal I88I fino alla
morte, e più tardi da Ernst Cassirer (I874-I945), al quale ultimo dedicheremo,
data la sua importanza, un intero capitolo nel volume settimo.
La seconda invece (pure nota come « scuola del Baden » o « scuola sud-occidentale») venne fondata da Wilhelm Windelband (I848-I9I 5), professore prima
a Zurigo, a Friburgo e a Strasburgo, poi (dal I903) a Heidelberg, e proseguita
dal suo discepolo Heinrich Rickert (I863-I936), che successe al maestro in questa
università.
Fra il I 87 I e il I 89o Cohen scrisse tre importanti volumi dedicati all 'interpretazione della teoria kantiana: Kants Theorie der reinen Erfahrung (Teoria kantiana
dell'esperienza pura, I87I, z.a edizione, molto ampliata, I885); Kants Begriindung
der Ethik (Fondazione kantiana dell'etica, I877); Kants Begrundung der Aesthetik
(Fondazione kantiana dell'estetica, 1889). Fra la prima e la seconda edizione della
Teoria kantiana dell'esperienza pura, pubblicò un'opera che costituisce in certo
senso un ponte fra le due: Das Prinzip der lnftnitesimalmethode und seine Geschichte
(Il principio del metodo inftnitesimale e la sua storia, 1883). Essa è della massima importanza per comprendere lo sviluppo del pensiero di Cohen, in quanto si incentra sopra un tema che diventerà essenziale per la sua filosofia: la contrapposizione estensivo-intensivo che nell'opera in esame viene ricondotta all'antitesi
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fra « numeri ordinari » e « numeri infinitesimali »; ha tuttavia uno scarso valore
scientifico come dimostra il giudizio datone da Gottlob Frege in una recensione
del1885 (ove leggiamo che Cohen «non brilla per chiarezza e talvolta è addirittura illogico»). A partire dal1902. comincia infine a uscire il ponderoso System der
Philosophie (Sistema di filosofia) che Cohen suddivide in tre parti: Logik der reinen
Erkenntnis (Logica della conoscenza pura, 1902.); Ethik der reinen Willens (Etica della
volontà pura, 1904); Aesthetik des reinen Gefiihls (Estetica del sentimento puro, 1912,
in due volumi).
Fra le molte opere di Natorp ricorderemo le seguenti: Descartes' Erkenntnistheorie (Teoria cartesiana della conoscenza, 188z); Forschungen zur Geschichte des Erkenntnisproblem im Altertum (Ricerche sulla storia del problema della conoscenza nell'antichità, 1884); Einleitung in die Psychologie nach kritischer Methode (Introduzione alla
psicologia secondo il metodo critico, 1888); Platons Ideenlehre. Bine Einfiihrung in den
Idealistnus (Dottrina platonica delle idee. Una iniziazione all'idealismo, 1903); Die
logischen Grundlagen der exakten Wissenschaften (l fondamenti logici delle scienze esatte,
191o); Allgemeine Psychologie (Psicologia generale, 1912., vol. 1, il solo apparso);
Kant und die marburger Schule (Kant e la scuola di Marburg, 1912.). Scrisse pure alcuni
studi di argomento pedagogico, occupandosi in particolare di Pestalozzi.
Il neo-kantismo di Cohen prende le mosse dal netto rifiuto dell'impostazione
tradizionale degli studi kantiani, secondo cui il grande merito del filosofo di
Konigsberg sarebbe stato di aver scoperto che l'atto del conoscere è la sintesi
di due fattori eterogenei: il primo costituito dai dati percettivi, il secondo dalle
forme a priori. Una volta ammessa l'assoluta distinzione di questi due fattori,
risulta impossibile- secondo Cohen- giustificare l'unità dell'atto conoscitivo
se non sacrificando arbitrariamente o il primo fattore, come fa l'interpretazione
idealistica del kantismo, o il secondo, come fa l'interpretazione psicologistica.
Contro entrambe queste interpretazioni il nostro autore sostiene che il vero senso
della dottrina kantiana è un altro: è il metodo trascendentale, inteso come ricerca
delle condizioni di possibilità dell'esperienza, in quanto oggettivamente valida,
cioè in quanto esperienza scientifica (ovvero esperienza elaborata dalla fisica
matematica).
Dal nuovo punto di vista le forme a priori non sono più dei vuoti ricettacoli
scissi dal loro contenuto; sono soltanto degli elementi trascendentali che possono
venire considerati separatamente dalla particolarità dei singoli fenomeni. «La
forma, » scrive Cohen, «non costituisce affatto l'opposto del contenuto; al
contrario, designa la legge del contenuto. » Potremmo spiegare la cosa dicendo
che essa è la legge immanente al contenuto.
È inutile sottolineare l'importanza che viene ad assumere la scienza (cioè
la fisica matematica) nel sistema coheniano. È precisamente essa a farci penetrare
la struttura logica della natura, ossia a farci cogliere l'esperienza non come un
caos di dati percettivi, ma come una costruzione coerente, universalmente e ne-
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cessariamente valida. In altri termini: essa costituisce un aspetto privilegiato dell'esperienza, di cui la filosofia critica deve fissare le condizioni di possibilità e di
validità, correlandola non ai singoli oggetti pensati ma all'oggetto pensabile.
Sviluppando fino alle estreme conseguenze questa linea interpretativa, Cohen
giungerà a sostenere che la teoria del,l'esperienza si riduce in ultima istanza a teoria
della scienza.
Merita di essere rilevata la posizione che viene ad assumere, in questa interpretazione del kantismo, la famosa nozione della cosa in sé. Mentre gli studiosi
idealisti vi avevano scorto- come ricordammo fin dall'ultimo capitolo del volume terzo - il punto debole della filosofia critica, Cohen invece « fa di essa il
punto di partenza e il concetto supremo di tutto' il pensiero ... La cosa in sé non
è altro (infatti) che l'autolimitazione del principio dell'esperienza possibile»
(Jules Vuillemin), ossia ha la funzione di fondare la possibilità e nel contempo i
limiti dell'esperienza. Il filosofo di Marburg si spinge ad asserire che essa è
« l 'insieme delle conoscenze scientifiche », o il loro metodo; è la legge del pensiero che regola la conoscenza della natura, e che, in quanto tale, stabilisce un
nesso fra concezione causale e concezione teleologica dell'esperienza. È un fatto
incontestabile, secondo Cohen, che la fisica matematica ci conduce sì a stabilire
leggi via via più generali, ma resta ciò malgrado incapace di farci scoprire l'unità
sistematica dell'esperienza (compito specifico della concezione teleologica del
mondo). Stando così le cose, per comprendere a fondo il significato e la ragione
di tale incapacità, dovremo necessariamente fare appello a un principio di autolimitazione dell'esperienza: orbene è proprio la cosa in sé a fornirci tale principio.
Resta ancora da chiarire come si costituisca, sulla base del trascendentale
nel senso attribuitogli da Cohen, il dato stesso delle percezioni, ossia il cosiddetto
«reale». Il nostro autore cerca di spiegarlo con un'analisi estremamente complessa della logica kantiana, in particolare della teoria dello schematismo. Fa
ali 'uopo intervenire il cosiddetto principio delle grandezze intensive, in base a
cui risulta possibile giungere a tali grandezze partendo dagli infinitesimi (che, in
se medesimi, non sono né zero né grandezze finite). Ecco ciò che scrive in proposito: « Allo stesso modo che non conosciamo la natura se non come scienza
della natura, e non conosciamo gli oggetti se non come oggetti dell'esperienza, ...
così non possiamo legittimare il reale, considerato quale oggetto dell'esperienza,
se non sulla base di un principio che lo renda partecipe della possibilità dell'esperienza. È il principio delle grandezze intensive. » Questo riesce a renderlo partecipe
di tale possibilità, in quanto ci fa assistere al modo stesso come l'oggettivo (il
reale dei dati sensoriali) si produce dal possibile attraverso infiniti gradi infinitesimi. Il calcolo infinitesimale, che è appunto il capitolo della matematica moderna ove si trovano esposti i metodi per operare con gli infinitesimi, assume così
un'importanza centrale nel sistema di Cohen: non risulta più soltanto uno strumento fondamentale della fisica matematica, come tutti sanno, ma uno strumento
(
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fondamentale anche per la filosofia. « Mediante le grandezze intensive, noi vediamo compiersi sotto i nostri occhi, non più nelle chimere metafisiche dell'autocoscienza ma nella positività scientifica del conoscere, il passaggio dal noumeno
al fenomeno, dal pensiero alla conoscenza, onde la filosofia discende finalmente
dal cielo alla terra» (Vuillemin). In breve: l'analisi infinitesimale ci fa cogliere il
costituirsi stesso del dato, ci fornisce la vera chiave mediante cui comprendere il
legame profondo fra la possibilità dell'esperienza e l'esperienza effettiva.
Emerge in tal modo il carattere platonico, anzi pitagorico, della concezione
coheniana: essa può dirsi platonica in quanto considera il mondo possibile come
fondamento del mondo reale, e può dirsi pitagorica in quanto ci addita nelle
entità numeriche (sia pure infinitesimali) lo strumento unico e indispensabile
per il trapasso da quello a questo.
Pur mantenendo in via generale l'orientamento platonico testé delineato,
Natorp apporta però una notevolissima correzione alla filosofia del proprio
maestro. Non accetta più infatti il privilegiamento coheniano dell'esperienza
fisico-matematica, ma «reclama un'estensione del criticismo e dei suoi metodi
anche fuori dello specifico ambito conoscitivo-scientifico ed esige che l'intera
cultura umana sia argomento di considerazione filosofica » (Leo Lugarini), esige
cioè che l'esperienza considerata dalla filosofia non sia più soltanto quella elaborata
dalla scienza, ma anche l'esperienza morale, quella estetica, quella religiosa, ecc.
E, proprio p~r rendere possibile questa considerazione più ampia, torna a riconoscere piena dignità alla psicologia sia pure intesa non come psicologia empirica
ma come « psicologia generale », cioè come vera e propria scienza filosofica.
Ritorneremo brevemente su questo ampliamento nel prossimo volume,
allorché prenderemo in esame la profonda svolta apportata al neo-kantismo di
Marburg dal suo ultimo e più illustre rappresentante, Ernst Cassirer. Qui basti
rilevare che l'« idealismo critico» di Cohen rappresenta senza alcun dubbio
uno dei più notevoli tentativi compiuti dall'idealismo di legare intimamente
tra loro scienza e filosofia. Come tale, esso conserva ancora oggi un grande
interesse storico; nulla di più, però, ché nel nostro secolo il pensiero filosoficoscientifico si avvierà per strade completamente diverse.
Passando ora a parlare della seconda scuola neo-kantiana tedesca della fine
Ottocento, va detto anzitutto che, mentre il neo-kantismo di Marburg prese le
mosse dal problema della conoscenza scientifica, quello di Heidelberg pose subito
al centro delle proprie ricerche il problema del valore. In effetti, secondo Wilhelm
Windelband, conoscere significa giudicare e giudicare significa riconoscere un
valore, onde si conclude che il valore deve costituire il punto focale di tutta la
problematica filosofica.
Fu appunto alla luce di questa tesi che egli delineò una nuova interpretazione
del pensiero di Kant, cercando di sostenere che il suo insegnamento conserva
ancora oggi un'immutata validità. Alla difesa di tale interpretazione sono dedicati
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vari saggi, raccolti nel volume Praeludien (Preludi, I883), che ottenne rapidamente
un notevole successo di pubblico; ne uscirono, durante la stessa vita dell'autore,
parecchie edizioni via via arricchite e ampliate. Il medesimo argomento verrà
ripreso più tardi nella Einleitung indie Philosophie (Introduzione alla filosofia, I9I4)·
Malgrado il vasto interesse suscitato da questi scritti, le opere più note di
Windelband restano tuttavia. quelle dedicate a tratteggiare i problemi filosofici
nel loro sviluppo storico: Geschichte der neueren Philosophie (Storia della filosofia
moderna, I878-8o), eh~ presenta la gnoseologia kantiana come punto in cui troverebbero una soluzione conclusiva i grandi dibattiti tra empirismo e razionalismo,
e Geschichte der Philosophie (Storia della filosofia, I889-92). Esse vennero a lungo
annoverate fra i prodotti più validi della storiografia filosofica ottocentesca.
Un carattere più organico e più teoretico hanno i numerosi lavori di Heinrich
Rickert, fra i quali vanno ricordati: Der Gegenstand der Erkenntnis (L'oggetto della
conoscenza, I892); Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung (l limiti della
formazione dei concetti nelle scienze della natura, I 896-I9o2); Kulturwissenschaft und
Naturwissenschaft (Scienza della cultura e scienza della natura, I 899); Geschichtsphilosophie (Filosofia della storia, I905); Grundprobleme der Philosophie (Problemi fondamentali
della filosofia, I 9 34). Scrisse pure una monografia su Kant, dal titolo: Kant als
Philosoph der modernen Kultur (Kant come filosofo della cultura moderna, I924).
Come si è detto, la filosofia è, per i due autori in esame, essenzialmente
teoria dei valori. A questa conclusione Windelband giunge attraverso la critica
dei sistemi metafisici e la constatazione che tutti gli oggetti del sapere sono ormai
«divisi senza residuo fra le scienze particola~i ». Non essendo più possibile, in
questa condizione, attribuire alla filosofia un campo specifico di oggetti da indagare, e non avendo d'altra parte più alcun senso volerla intendere come « dottrina della totalità del mondo», non ci resterà che concepirla come «metafisica
del sapere », cioè come ricerca del valore oggettivo da attribuirsi ai prodotti
dell'attività umana (tanto alle conoscenze scientifiche quanto alle azioni etiche
e alle intuizioni artistiche). «Essa indaga se vi sia una scienza, cioè un pensiero
che possegga il valore della verità con validità universale e necessaria; se vi sia
una morale, cioè un volere e un agire che posseggano il valore del bene con validità universale e necessaria; se vi sia un'arte, cioè un intuire e un sentire che
posseggano con validità universale e necessaria il valore della bellezza. »
I valori cui Windelband e Rickert ritengono di poter pervenire sarebbero,
secondo essi, strutture permanenti della vita psichica, fornite di validità incondizionata, e costituirebbero nel loro complesso la « coscienza normale » cioè un
imperativo al quale tutti debbono piegarsi. Il richiamo alla trascendenza implicito
in questa conclusione è evidente; esso costituisce, malgrado le intenzioni dei
nostri autori, un pesante ritorno alla metafisica.
Nel quadro della concezione testé accennata, assume un'importanza particolare una tesi ripetutamente esposta e difesa da Windelband e da Rickert:
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la teoria della distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito. Questa
distinzione viene fondata non sull'oggetto delle scienze medesime, ma sul loro
metodo: le scienze della natura infatti, secondo la scuola di Heidelberg, studiano
la realtà esclusivamente in rapporto alle leggi universali (scienze nomotetiche),
le scienze dello spirito invece mirano a cogliere l'individualità con riferimento
ai valori universali (scienze idiografiche). La più caratteristica scienza dello spirito
è la storia, il cui vero compito viene fatto risiedere nello sforzo di conservare
ciò che ha valore, abbandonando nell'oblio ciò che è privo di valore. La storia
dunque non crea essa medesima i valori, ma li presuppone come qualcosa di
eterno, che esiste al disopra dei fenomeni sviluppantisi nel tempo.
È opportuno ricordare fin d'ora che all'incirca nei medesimi anni anche un
altro celebre autore tedesco, Wilhelm Dilthey (I8 33-I9I I), avanzò la tesi della netta
distinzione fra scienze dello spirito e scienze della natura, nel volume Einleitung
in die Geisteswissenschaften (Introduzione alle scienze dello spirito, I883). Le argomentazioni da lui addotte a sostegno di tale tesi differivano però radicalmente
da quelle di Windelband e di Rickert. «Per Dilthey, » scrive in proposito Pietro
Rossi, che è uno dei migliori studiosi odierni del nostro autore, « le scienze
storico-sociali fanno parte, insieme alla psicologia, delle scienze dello spirito;
e queste si contr~ppongono alle scienze della natura in virtù di un'originaria differenza di campo di ricerca che condiziona la diversità del metodo impiegato. Le
loro categorie costituiscono la traduzione in termini astratti delle forme strutturali
della vita - categorie come quelle di valore, significato, scopo; ed i loro metodi
consentono di risalire da ogni manifestazione determinata storicamente allo spirito degli uomini che l 'hanno prodotta- e in ciò consiste il procedimento della
comprensione, analogo a quello dell'introspezione. Le scienze della natura si avvalgono invece della categoria di causa, e attraverso l'accertamento dei rapporti
causali edificano un sistema di leggi: ma il mondo che esse indagano resta sempre
estraneo all'uomo, un mondo con cui l'uomo è in costante rapporto, ma che riconosce altro da sé, e che può penetrare soltanto con altri strumenti. »
Il tema della distinzione fra scienze della natura e scienze dello spirito fu
al centro di numerosi dibattiti durante gli ultimi decenni del secolo scorso e i
primi anni del nostro. L 'importanza filosofica di tali dibattiti risulta con chiarezza,
appena si rifletta sui due più gravi problemi i vi implicati: I) esistono o non esistono due ambiti di ricerca radicalmente distinti: mondo della natura e mondo
dello spirito? 2) esistono o non esistono due criteri di scientificità tra loro irriducibili, onde le scienze dello spirito dovrebbero avvalersi di metodi completamente diversi da quelli in uso presso le scienze della natura? Dilthey rispondeva
positivamente al primo quesito, ricavando poi l'esistenza di metodi diversi
-per i ·due anzidetti tipi di scienze- dall'esistenza di due mondi contrapposti
(natura e spirito); Windelband e Rickert negavano invece questa contrapposizione,
e giustificavano l'esistenza di metodi diversi per i due tipi di scienze sulla. sola
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base dei diversi compiti che esse si prefiggono (ricerca di leggi generali oppure
determinazione dell'individualità dei fenomeni studiati).
Ai dibattiti testé accennati partecipò pure vivacemente Georg Simmel (I 8 s8I9I 8), che tentò di determinare le condizioni di validità delle scienze storiche
considerandole nel loro rapporto con le scienze sociali. In tal modo il problema
centrale diventa per lui quello di caratterizzare il compito della sociologia differenziandolo da quello delle scienze della natura (differenziazione che, secondo
lui, i sociologi positivisti si erano lasciata sfuggire). La diversità fra la posizione
di Windelband e di Rickert da un lato, e quella di Simmel dall'altro, presenta un
particolare interesse, dato che anche quest'ultimo prese le mosse da un punto di
partenza sostanzialmente neo-criticista. Riteniamo di non poterla illustrare in
modo migliore che riferendo, ancora una volta, un brano di Pietro Rossi: « In
Windelband e in Rickert l'autonomia della conoscenza storica viene riconosciuta
sulla base dell'antitesi metodologica tra orientamento generalizzante e orientamento individualizzante del conoscere; in Simmel la struttura categoriale della
conoscenza storica viene definita sulla base di un'interpretazione relativistica
del neo-criticismo, 1 elaborata attraverso l'analisi metodologica delle scienze sociali. »
VIII · NIETZSCHE
Friedrich Nietzsche nacque nel I 844 a Rocken presso Liitzen, sul confine
fra la Turingia e la Sassonia; suo padre, che era un pastore luterano, morì nel I 849,
a soli trentasei anni, di una grave infiammazione cerebrale. Dopo aver compiuto i primi studi universitari in teologia e in lingue classiche a Bonn, il giovane
passò nel I86s all'università di Lipsia per seguire il proprio maestro di filologia che
si era allora trasferito in quest'ultima città. Nel I 868, appena ventiquattrenne, ottenne un incarico di filosofia classica presso l'università svizzera di Basilea. Nel
I869 incontrò il grande musicista Richard Wagner con cui subito strinse una viva
amicizia. L'anno successivo si arruolò nella Croce Rossa tedesca per partecipare
in questo modo alla guerra franco-prussiana.
Aveva intanto scoperto, quasi per caso, alcune opere di Schopenhauer: le
lesse con passione e abbracciò con entusiasmo i principi della sua filosofia. Risalgono a questo periodo le due opere Die Geburt der Tragodie oder Griechentum
und Pessimismus (La nascita della tragedia ovvero gr~cità e pessimismo, I 872.) e Unzeitgemiisse Betrachtungen (Considerazioni inattuali, I873-76).
Nel I876 ebbe inizio nel nostro autore una grave crisi fisica e psichica;
si manifestarono cioè i primi sintomi della malattia che lo porterà gradualmente
alla pazzia. Risalgono a tale anno il suo distacco da Wagner (i rapporti fra i due
I Con le parole « interpretazione relativistica » Pietro Rossi intende riferirsi al fatto che,
secondo Simmel, le categorie storiografiche sa-
rebbero null'altro che presupposti psicologici, non
assoluti ma relativi, « i quali assolvono la funzione
di organizzare concettualmente il dato empirico ».
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cesseranno completamente nel '79) e il suo abbandono della filosofia di Schopenhauer. Già nel I 875 aveva provvisoriamente interrotto, per ragioni di salute,
il proprio insegnamento a Basilea; nel I879 presentò regolare istanza al rettore
dell'università per venire definitivamente dimesso dal posto che vi aveva coperto.
Cominciò allora una vita inquieta, ansiosa, spostandosi continuamente, malgrado
le notevoli ristrettezze finanziarie (poteva infatti contare soltanto su di una piccola
pensione), da una località all'altra della Svizzera e dell'Italia settentrionale, proteso
con tutte le proprie energie ad abbozzare quella che avrebbe dovuto essere a suo
parere una grande riforma dei costumi e della cultura. Ne tracciò le linee fondamentali in numerosi e affascinanti scritti, fra i quali ricordiamo: Menschliches,
Allzumenschliches (Umano, troppo umano, I 878-8o); Morgenrothe, Gedanken iiber die
moralischen Vorurteile (Aurora, pensieri sui pregiudizi morali, I88I); Die frohliche
Wissenschaft (La gaia scienza, I88z).
Nel I883 ha inizio un terzo periodo dell'evoluzione spirituale di Nietzsche,
caratterizzato dall'elaborazione della teoria del superuomo. Ad esso risalgono
le seguenti opere: Also sprach Zarathustra (Così parlò Zaratustra), poema filosofico
scritto fra il I 8 8 3 e il I 8 8 5, ma pubblicato solo nel I 89 I ; Jenseits von Gut und Bose
(Al di là del bene e del male, I 885); Zur Genealogie der Mora! (La genealogia della morale,
I 887); Gò'tzendammerung (Crepuscolo degli idoli, I 888); Der Antichrist (L'anticristo,
I888); Ecce homo (una specie di autobiografia, composta nel I888); Der Wille zur
Macht (La volontà di potenza), rimasta incompiuta e pubblicata postuma.
Il 3 gennaio I889 fu colto da un accesso di pazzia mentre era a Torino,
città nella quale amava soggiornare frequentemente. Pochi giorni dopo un amico,
sceso dalla Svizzera, riuscì a riportarlo a Basilea, ove entrò in una clinica psichiatrica il I o dello stesso mese. L 'infermità lo accompagnò fino alla morte,
avvenuta nel I9oo.
Nella Nascita della tragedia, che può dirsi la sola opera veramente organica
di Nietzsche, egli riconosce che l'arte si fonda sopra un'originaria dualità: la
dualità fra spirito apollineo, ave è dominante l'armonia delle forme, e spirito
dionisiaco, ove è invece dominante l'esaltazione scatenata dai sentimenti. La tragedia greca sarebbe sorta appunto dalla lotta e dalla conciliazione fra Apollo e
Dioniso. Questa conciliazione non comportava però una visione ottimistica dell'universo: il cosiddetto ottimismo greco si radica in realtà, secondo il nostro
autore, su di un profondo pessimismo (pessimismo che è tuttavia espressione di
forza, non di decadenza).
Pur riconoscendo, come abbiamo testé accennato, il peso spettante allo spirito apollineo, Nietzsche attribuisce comunque un'importanza assai superiore a
quello dionisiaco: mentre il primo è la fonte delle impressioni del bello, il secondo ci pone in grado di trasfigurare nel sublime l'assurdo dell'esistenza umana.
Il sublime e solo esso ci eleva al di sopra del mondo come rappresentazione (nel
senso schopenhaueriano del termine), per farci entrare nel mondo come volontà.
I
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Il complesso quadro della filosofia tedesca
Nelle successive indagini sull'arte, Nietzsche finirà per insistere vieppiù sullo
spirito dionisiaco, lasciando in ombra quello apollineo.
Anche le ricerche sul pensiero filosofico greco riconfermarono nel nostro
autore la convinzione che alla base di esso dovesse trovarsi un profondo pessimismo. Egli ne scorge le tracce soprattutto nella filosofia presocratica, che considera quale seconda grande produzione (accanto alla tragedia) della civiltà ellenica.
Entrambe hanno raggiunto il loro massimo splendore nel v secolo a.C., ma
già sul finire di esso in entrambe è cominciata ad affiorare una gravissima crisi
legata ai nomi di Euripide e di Socrate.
Di particolare interesse sono, per noi, le critiche che Nietzsche solleva contro
il filosofo ateniese: critiche dirette soprattutto contro il suo razionalismo e contro
il suo ottimismo. Socrate fu il primo a « contrapporre la tirannia del razionalismo
alla tirannia dell'istinto»; e fu colpa tanto più grave in quanto era ben consapevole (come dimostra la sua ironia) delle catastrofiche conseguenze implicite in
questa riforma. In altre parole: egli ebbe il torto di contrapporre alla vita Ja riflessione sulla vita, e così aperse la strada a Platone che giunse all'assurdità di
voler negare valore alla vita corporea. Con la filosofia alessandrina la crisi assumerà un carattere manifesto e incontestabile.
È inutile sottolineare l'antitesi fra questa interpretazione dello sviluppo del
pensiero greco e quella data qualche decennio prima da Hegel. Basti far notare
che Nietzsche compie, con essa, uno sforzo per l'innanzi mai visto di capovolgere
completamente i giudizi tradizionali sulla civiltà greca. Più tardi egli cercherà
con pari energia di capovolgere tutti i valori usualmente accolti dalla riflessione filosofica.
Come poco sopra accennammo, il trapasso dalla prima alla seconda fase del
pensiero nietzschiano ha inizio col distacco da Schopenhauer. Ciò che il nostro
autore gli rimprovera è di avere ricavato dal proprio pessimismo un atteggiamento
di rinuncia e di abbandono, analogo a quello della morale cristiana; a questo
pessimismo pavido egli vuole invece- contrapporre un pessimismo eroico, che
accetta la vita con tutte le sue contraddizioni e scorge proprio in esse un motivo di esaltazione, una spinta a superare ogni limite che l'uomo trova innanzi a sé.
Liberatosi dal « romanticismo » schopenhaueriano (e wagneriano), Nietzsche
può ora esaltare la volontà di vivere come volontà di affermarsi dell'individuo
proprio in quanto individuo: volontà di espandersi, di infrangere gli ostacoli e,
in particolare, di vincere le forze della natura. È ben comprensibile che in questa
nuova fase egli senta il fascino dell'illuminismo (Umano, troppo umano è dedicato
a V oltaire), e subisca entro certi limiti l 'influenza della stessa scienza positivistica.
Lo scienziato che predilige è Darwin, in quanto ritiene di poter utilizzare ai propri
fini l'idea, da lui sostenuta, di «lotta per l'esistenza».
L'avvicinamento di Nietzsche al positivismo non va, comunque, inteso quale
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accettazione dell'ideale della scientificità; ciò che egli riconosce è soltanto il
valore della scienza come strumento per l'affermazione dell'uomo. Ma un conto
è servirsi della ragione scientifica, un altro conto - completamente diverso è subire la tirannia di tale ragione. Il nostro autore si ribella contro di essa come
già si era ribellato contro il razionalismo di Socrate. Le colpe che le rimprovera
sono essenzialmente due: 1) di uccidere lo spirito della tragedia, la sincerità
dell'istinto, l'irruenza della volontà naturale; z) di sostituirvi l'ipocrisia, l'equivoco, la finzione. In altri termini, subire la tirannia della ragione scientifica significa accettare una nuova forma di ascetismo, altrettanto innaturale quanto
quello cristiano: ascetismo che opprime ciò che vi è di più vivo e profondo nell 'uomo, che investe i valori reali del nostro stesso essere. « I cosiddetti spiriti
liberi di oggi, » egli scrive, « sono spiriti tutt'altro che liberi, perché credono
ancora alla ·verità. » « Anche noi, odierni ricercatori della verità, noi atei e antimetafisici, anche noi prendiamo ancora il nostro fuoco dall'incendio che fu appiccato da una fede millenaria, da quella fede cristiana che fu anche la fede di
Platone, e cioè che dio è la verità, che la verità è divina ... Ma come, ma come, se
questo diventa sempre più inverosimile, se più nulla si palesa divino, fuorché
l'errore, la cecità, la menzogna, e se dio stesso si rivela il nostro più lungo errore?»
La teoria (o, più esattamente, il mito) del superuomo che - come già si
disse - caratterizza la terza fase del pensiero nietzschianot affonda senza dubbio
le proprie radici nel darwinismo, liberamente interpretato dal nostro autore.
Il supertiomo viene infatti concepito come il frutto più alto dell'evoluzione,
l'esponente più elevato della specie umana, formatosi attraverso la lotta per
l'esistenza: lotta che porta necessariamente alla vittoria del più forte contro gli
inetti, contro i deboli e gli impotenti. Proprio perciò il superuomo non si trova
più vincolato dalle leggi della morale tradizionale, altrettanto ingannatrice quanto
la ragione: sta al di là del bene e del male; compie un radicale rovesciamento
della vecchia tavola dei valori creandone dei nuovi. Non è un egoista che cerchi
meschinamente la propria felicità j è in certo senso un asceta in quantot se è vero
che ha dei diritti che gli altri non hanno, ha pure dei doveri decisamente superiori
a quelli dell'uomo comune (impastato di mediocrità).
Il mondo che troviamo innanzi a noi non è razionale, né bellot né nobile;
la sua condizione generale è il caos, la mancanza di qualsiasi ordine, l'assenza di
qualsiasi finalità. Proprio perciò esso ritorna eternamente su se medesimo, si
ripete necessariamente e perennemente senza avere né un principio né una fine.
Il superuomo comprende questa intima necessità del cosmo e non tenta di mascherarla con menzogne di verun genere; ma neanche si lascia intimidire da
essa e prosegue nella propria missione, che è quella di elevare il destino della
nostra specie, di insegnarci a superare la natura umana. « L 'uomo è cosa che deve
essere oltrepassata, è un ponte e non una meta: egli deve chiamare se stesso
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beato per il suo meriggio e per la sua sera, onde gli è segnato il cammino a nuove
aurore.»
A questo scopo il superuomo abbatte senza pietà i vecchi dogmi della metafisica, della scienza e dell'etica; non è tuttavia un nichilista, perché distrugge
allo scopo di ricreare ( « sempre deve distruggere chi vuol creare »), cioè allo
scopo di liberare l'io da ogni sovrastruttura posticcia e inessenziale. Tutto ciò
che è od è stato diventa, per lui, « un mezzo, uno strumento, un martello »; il
suo conoscere è un creare, un legiferare; il suo « volere la verità » equivale a
«volere la potenza». Egli è l'uomo veramente libero, che cerca di dominare
tutte le possibilità senza rinunciare ad alcuna, è l'incarnazione delle volontà di
potenza. Il suo insegnamento aprirà al mondo una nuova era: aprirà la via alla
vittoria di Dioniso su Socrate, dell'infinità della vita sull'autolimitazione della
ragione.
Proprio perché la natura non possiede alcun ordine, essa non è in grado di
imporre alcun dovere. Al «tu devi» dell'etica tradizionale, Nietzsche oppone
il « io voglio » del creatore. La volontà di potenza, di creazione, di continuo
dispiegamento della propria forza è il carattere più profondo del superuomo;
è la sua verità (verità nella quale risulta impegnato tutto il suo essere, non la sola
sua coscienza); è l'espressione della perenne apertura dell'individuo umano, la
cui autentica esistenza va sempre al di là di tutto quanto egli abbia di già realizzato.
Il superuomo insegna la volontà di potenza non con le parole, ma con l'esempio; egli è il filosofo dell'avvenire perché- a differenza dei filosofi del passatonon pretende di provare con argomenti razionali la propria verità, ma la vive,
e cioè lotta senza tregua (affrontando i più duri sacrifici) per abbattere ogni ostacolo al nostro libero divenire, per spronare l'uomo verso un orizzonte senza
limiti.
Come abbiamo scritto nel paragrafo r, e come ora risulta ben chiaro, il pensiero di Nietzsche rappresentò senza dubbio una forma radicale di irrazionalismo
vitalistico; forse la più radicale che si sia mai presentata nella storia della filosofia,
certo una delle più affascinanti proprio per la paradossalità delle tesi ivi sostenute.
Né ci si deve stupire che, all'inizio del nuovo secolo, abbia potuto riscuotere tanti
consensi in vastissime schiere di lettori, se si tiene presente che la sferza di
Nietzsche seppe rivelare implacabilmente le mille falsità del mondo in cui ci si
trovava costretti a vivere. La crisi dei valori tradizionali era in effetti reale, profonda, incontestabile. Ma la mera denuncia non costituisce ancora l'indicazione
di una soluzione. Essa può anzi costituire la fonte dei più gravi equivoci, quando
susciti l'impressione- come purtroppo suscitano molte pagine di Nietzscheche tale soluzione vada cercata non attraverso un approfondito rigore di analisi,
ma con l'appello al semplice intuito, all'istinto e ai più oscuri moti dell'animo.
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CAPITOLO SETTIMO
Positivismo e antipositivismo in Francia
I
· CONSIDERAZIONI GENERALI
Non è il caso di richiamare le vicende politico-economiche della Francia
dalla metà dell'Ottocento alla prima guerra mondiale. Basti ricordare, in via generalissima, che il periodo è contrassegnato dal consolidamento del potere della
borghesia, la quale riesce due volte a sconfiggere il proletariato: una prima volta
nel I 8 5I cqn il colpo di stato compiuto il .2 dicembre da colui che sarà Napoleone
m; una seconda volta con la caduta della Comune (maggio I87I). Le due vittorie
presentano però alcuni caratteri profondamente diversi: la prima infatti, dà luogo
a un governo che, malgrado la sua debolezza e la manifesta corruzione, può
ancora suscitare l'impressione di una certa stabilità e nascondere i numerosi contrasti interni sotto l'apparenza di un progresso generale (economico-politico)
del paese; la seconda invece, che si accompagna a una gravissima sconfitta militare, scaturisce da un'esplosione violenta di contraddizioni sociali che, sebbene
soffocate nel sangue, non possono essere facilmente dimenticate. Gli eventi del
I870-7I hanno ormai posto irrimediabilmente in luce le malattie della Francia,
suscitando parecchi dubbi sul suo futuro: la stessa classe dirigente, pur unita nella
lotta contro il proletariato, rivela profonde spaccature nel campo ideologico, e
sembra cercare qualcosa. di nuovo, che non sa definire con esattezza.
La cultura del paese, pressoché interamente nelle mani della borghesia, riflette chiaramente queste oscillazioni.
In un primo tempo abbiamo una rapida diffusione del positivismo, inteso soprattutto come fiducia nel progresso tecnico-scientifico. Esso esercita una profonda influenza anche nel campo della filologia, della letteratura, della storiografia
politica, e fa sorgere l'esigenza di nuove discipline scientifiche come la psicologia
(che Comte aveva escluso dalla propria famosa classificazione delle scienze fondamentali), della sociologia (intesa in un senso molto più preciso e meno filosofico
di quello comtiano), della storia delle scienze (non limitata - secondo quanto
Comte aveva previsto - allo studio del trapasso dagli stadi teologico e metafisica
a quello positivo, ma estesa agli stessi sviluppi effettivamente conseguiti dal sapere durante la fase della sua piena scientificità). Permane, sì, accanto a questo
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Positivismo e antipositivismo in Francia
filone essenzialmente laico un filone di cultura tradizionale cattolica, ma fra i
due si stabilisce una specie di modus vivendi per il rapido abbandono - da parte
dei più noti positivisti- della «religione dell'umanità» che nell'ultima fase del
pensiero di Comte aveva assunto aspetti manifestamente risibili, e per la sostituzione di essa con un atteggiamento agnostico nei confronti dei problemi metafisico-teologici. È un atteggiamento che sminuisce la carica polemica, di origine
illuministica, ancora contenuta nelle opere del fondatore del positivismo, ma
che sembra sufficiente alla maggior parte degli scienziati, in quanto permette loro
di proseguire le proprie ricerche specialistiche senza preoccupazioni di ordine
extra-scientifico, e nel contempo non li obbliga a impegnarsi su temi che potrebbero rivelarsi pericolosamente sovversivi.
Le cose mutano profondamente verso la fine del secolo. Lo spiritualismo
acquista una nuova combattività, prende il sopravvento nell'ambito delle facoltà
filosofiche, passa decisamente alla controffensiva contro le concezioni positivistico-scientifiche. Il bersaglio che esso prende soprattutto di mira è il determinismo, cui contrappone l'appassionata esaltazione della libertà (non intesa però,
nella maggior parte dei casi, come libertà politica e tanto meno come libertà
delle classi sfruttate, ma come libertà dello «spirito» che si manifesterebbe nelle
creazioni dell'uomo di genio e negli stessi processi naturali).
È un fatto innegabile che la cultura positivistica aveva assunto, nelle sue ultime fasi, un carattere manifestamente dogmatico e in certo senso addormentatore.
Essa si limitava a una specie di rispettosa venerazione delle scienze, senza tentare
di analizzarne la complessa dialettica interna; confondeva le leggi scientifiche con
le grossolane generalizzazioni di esse tentate da filosofi scarsamente impegnati
in ricerche specifiche; chiudeva gli occhi di fronte alle tragiche contraddizioni
della società, nella fiducia che un immancabile «progresso» avrebbe finito per
risolverle tutte in un tempo più o meno lungo.
Di fronte a questo dogmatismo dilagante, due erano gli atteggiamenti possibili: o un ritorno al significato autentico del positivismo, cioè a uno studio
critico approfondito della conoscenza scientifica (cioè della sua reale consistenza,
degli affinamenti via via maggiori che essa esige, delle rivoluzioni metodologiche
imposte dalle nuove scoperte della matematica e delle ricerche sperimentali), o una
sommaria negazione della « razionalità scientifica », prima o poi destinata a sfociare in una negazione generale dei diritti della ragione.
La cultura francese imboccò entrambe le vie, non senza equivoci contatti
fra l'un:a e l'altra. Ma i sostenitori della prima furono assai più timidi di quelli
della seconda, e si dimostrarono notevolmente meno agguerriti di essi, per lo
meno dal punto di vista filosofico.
Il primo indirizzo (che possiamo genericamente denotare come « indirizzo
epistemologico») trovò il .suo più valido rappresentante in Henri Poincaré,
grandissimo scienziato, ma non altrettanto grande filosofo. Il secondo ebbe vari
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Positivismo e antipositivismo in Francia
seguaci, il più celebre dei quali fu senza dubbio Henri Bergson, grande scrittore,
affascinante parlatore, capace delle più ardite costruzioni metafisiche.
Purtroppo la palma della vittoria toccò senza dubbio a Bergson, non solo per
le sue doti personali, ma anche perché il suo pensiero - scarsamente rigoroso poteva venire recepito con notevole facilità e si prestava alle più varie interpretazioni. Cosi la cultura francese divenne in grandissima parte bergsoniana, per lo
meno nei campi della filosofia, della letteratura, dell'arte e perfino della politica;
il campo degli scienziati rimase isolato e si rinchiuse in ricerche specialistiche, continuando in parecchi casi ad accettare un atteggiamento passivamente agnostico.
L'antiintellettualismo, l'antipositivismo e l'antideterminismo portarono lo
stesso Bergson- come spiegheremo nell'ultimo paragrafo- a conclusioni mistiche, che segnarono la definitiva spaccatura fra cultura filosofica e cultura scientifica, e ridussero quest'ultima al rango di mero strumento ptatico, privo di impegno universale.
II · LA DIFFUSIONE DEL POSITIVISMO. TAINE
Come ricordammo nel capitolo xv del volume quarto e in particolare nel
paragrafo ivi dedicato alla vi{a dì Comte, la « religione dell'umanità » da lui fondata durante la cosiddetta fase mistica degli ultimi anni (1845-57), sopravvisse per
qualche tempo alla scomparsa del grande filosofo, raggiungendo una certa diffusione sia in Francia sia in Inghilterra e in America. Malgrado le sue stravaganze
e i suoi molti equivoci essa aveva il pregio di andare incontro al desiderio - che
sappiamo assai diffuso tra la borghesia dell'Ottocento- di fornire una sorta di
conciliazione fra il nuovo spirito scientifico e l'esigenza religiosa. Se non conseguì
un maggior successo, fu perché molti ritennero di poter raggiungere il medesimo
scopo per altra via più sicura, cioè mediante una divisione dei compiti fra la religione tradizionale e la scienza (privata di pressoché ogni impegno filosofico).
Fra i discepoli diretti di Comte meritano una particolare menzione Émile Littré
(1801-81), che nel 1867 fondò la «Revue de philosophie positive» (la cui pubblicazione durerà fino al 1883), e Pierre Laffitte (1823-1903) che ebbe la prima cattedra
di storia generale delle scienze al Collège de France. Mentre Littré fini per rifiutare ogni valore alla fase mistica del pensiero comtiano (egli aveva cominciato a
esprimere le prime perplessità al riguardo allorché Comte era ancora in vita, e ciò
aveva segnato un inizio di rottura fra i due, come ricordammo nel citato capitolo),
Laffitte difese invece l'inscindibilità fra questa e le fasi precedenti, sostenendo che
il pensiero comtiano doveva venire accolto nella sua globalità (egli si proclamava
pertanto come l'unico vero erede del messaggio di Comte).
Proprio per l'atteggiamento ora accennato, il «direttore del positivismo »
(come appunto si presentava Laffitte) non riuscì ad ottenere un effettivo seguito
nella cultura francese. I suoi scritti - fra i quali ci limitiamo a ricordare il Cours de
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philosophie première (Corso di filosofia prima, I889-9o)- non rivelano alcuna originalità in campo teoretico e sembrano essenzialmente rivolti a dimostrare alla
borghesia francese l'utilità di appoggiare la diffusione della dottrina positivistica:
«creata dall'umanità, la filosofia prima compie un ruolo essenziale al servizio
di essa. È una forza per il nostro perfezionamento, nel perseguire il destino umano,
che è quello di vivere per la Famiglia, per la Patria e per l'Umanità».
Maggior peso ebbe invece la propaganda a favore del positivismo compiuta
da Littré- ad esempio nell'opera A. Comte et la philosophie positive (A. Comte e la
filosofia positiva, I863)- anche per l'indubbia fama che egli aveva saputo conquistarsi con le sue ricerche erudite. 1 A conferma di tale fama ricordiamo che nel
I87I entrò nell'Académie française malgrado l'accanita opposizione del partito
clericale, e nel I 875 venne nominato senatore a vita. Secondo Littré la vera grande
scoperta di Comte sarebbe stata la dimostrazione che la filosofia può venire trattata
con il medesimo metodo positivo in uso presso le scienze esatte. Così intesa essa
dovrebbe però limitarsi ad affermazioni relative, respingendo agnosticamente
qualsiasi ipotesi metafisica, sia spiritualistica sia materialistica. Questo tipo di
agnosticismo - caratteristico di gran parte della cultura positivistica - costituì
la comoda trincea dietro cui si ripararono parecchi studiosi «laici» dell'epoca,
desiderosi, come si è già detto, di non impegnarsi nel difficile e scottante problema
dei rapporti tra scienza e religione.
Per quanto il pensiero di Littré abbia avuto una notevole risonanza, la formazione di un vero e proprio « clima positivistico » nella cultura francese fu soprattutto dovuta a due «letterati» (nel senso più generale di questo termine):
Ernest Renan (I8z3-9z) e Hyppolite Taine (I8z8-93).
Renan fu essenzialmente uno storico della religione ebraico-cristiana; le sue
principali opere sull'argomento sono l' Histoire des origines du christianisme (Storia
delle origini del cristianesimo) in vari volumi - il primo dei quali è la celeberrima
Vie de Jésus (Vita di Gesù, I863)- e l'Histoire du peuple d'lsrael (Storia del popolo
d'Israele, I887-94). La sua opera filosofica più importanteèL'avenir de la science,
pensées de I 848 (L'avvenire della scienza, pensieri del z848), che costituisce un inno romantico alla scienza, esaltata come una religione cui sono legati « i destini dell'umanità» e la stessa« perfezione dell'jndividuo ».Anche se all'atto di pubblicarla circa quarant'anni dopo averla sctitta, e cioè nel I 890, l'autore vi antepose
una prefazione in cui avanzava taluni gravi dubbi sulla potenza moralizzatrice
della scienza, l'opera ci offre una sincera testimonianza della fede - non solo di
Renan ma di pressoché tutta la sua generazione- nel sapere scientifico e nell 'umanità che ha saputo dar vita a una élite di studiosi capaci di afferrare i segreti
1 Vanno menzionate in particolare: la traduzione delle Opere di Ippocrate che Littré curò
fra il 1839 e il 1861 (egli aveva iniziato la propria
carriera come medico), e le sue ricerche in campo
linguistico, che si conclusero con la pubblicazione
delle seguenti due opere: Histoire de la langue
française (Storia della lingua françese, x86z) e Diçtionnaire de la langue jrançaise (Dizionario della lingua
françese, in quattro volumi, 1863-73, oltre a un
volume di supplemento, 1877).
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Positivismo e antipositivismo in Francia
dell'universo (i riflessi di questa fede si possono per esempio riscontrare nel chimico Berthelot, amico di Renan, al quale si è già fatto cenno nel capitolo IV).
Anche la fama di Taine fu soprattutto dovuta alle ricerche da lui compiute
nel campo della storia; è celebre la sua opera Origines de la France contemporaine
(Origini della Francia contemporanea in cinque volumi, I875-93), che, trattando
la nascita e lo sviluppo della rivoluzione francese fino al I 8o8, ne forniscono un
quadro aspramente negativo, quale poteva piacere - in quegli anni - alla parte
più reazionaria della borghesia. Ma egli fu pure uno studioso assai acuto di filosofia, ove dimostrò una preparazione nettamente superiore a quella del contemporaneo Renan. Le sue principali opere di argomento filosofico sono tre: Les philosophes français du XIX siècle (l filosofi francesi del XIX secolo, I 8 57), Philosophie de l'art
(Filosofia dell'arte, 1865), e De l'intelligence (Sull'intelligenza, 187o), solitamente considerate come testi fondamentali del positivismo francese, seppure assai lontane
dalla vera e propria problematica comtiana.
Nella prima Taine sostiene che lo scopo fondamentale del sapere è quello di
giungere a una concezione unitaria dell'universo. Mentre la vecchia metafisica
riteneva, per adempiere a questo scopo, di dover fare ricorso a qualche principio
trascendente, la scienza ci insegna invece che esso può venire trovato nell'ambito
stesso dei fatti. «Noi scopriamo l'unità dell'universo,» egli scrive, «e comprendiamo ciò che la produce. Essa non proviene da una cosa esterna, al di fuori del
mondo, né da una cosa misteriosa nascosta nel mondo. Proviene invece da un
fatto generale simile agli altri, da una legge generatrice da cui si deducono le altre
come dalla legge dell'attrazione derivano tutti i fenomeni della pesantezza.»
Già ricordammo nel volume quarto (capitolo xvi) che anche un grande
scienziato come Joseph Fourier aveva parlato, nel 1822., di «fatti generali» e
già sottolineammo, in quella sede, i pericoli di questa espressione; va notato però
che, mentre essa era perdonabile nei primi decenni dell'Ottocento, ora però nella seconda metà del secolo - il farvi ricorso senza alcuna indagine critica diventa una colpa assai più grave. È la dimostrazione che il positivista Taine sta
trasformando, senza avvedersene, lo studio rigoroso della scienza - iniziato con
tanta serietà da Comte, proprio sotto l'influenza di Fourier, nell'intento di provare la superiorità della conoscenza scientifica dei fenomeni sulle presunte « spiegazioni » teologiche o metafisiche di essi - in mito della scienza intesa come sapere assoluto. Sarà per l'appunto ques~a interpretazione dogmatica del positivismo ciò che susciterà contro di esso la giusta rivolta di tanti scienziati. È invero
innegabile che l'entusiastica ammirazione di Taine, e di molti altri positivisti della
sua generazione, per il sapere scientifico non poteva non apparire - a chi era
realmente impegnato nella ricerca matematica, fisica, ecc. - più come un atto di
fede, una declamazione romantica, che non come il risultato di un'attenta analisi
razionale; valgano a provarlo le seguenti parole: «L'oggetto finale della scienza è
questa legge suprema; e colui che, d'un balzo, potesse trasportarsi nel seno di
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Positivismo e antipositivismo in Francia
essa, vi vedrebbe discendere, come da una sorgente, lungo canali distinti e ramificati, il torrente eterno degli eventi e il mare infinito delle cose. »
Alquanto diversa, e più complessa, è la posizione sostenuta dal nostro autore
nella terza delle opere citate. Quanto alla seconda, Philosophie de l'art, basti ricordare che essa delinea i tratti più caratteristici dell'estetica positivistica: l'opera
d'arte è il prodotto delle circostanze che la condizionano; è in queste pertanto, e
non nell'attività creatrice dell'artista, che vanno cercate sia le leggi che regolano
le forme generali dell'immaginazione umana, sia quelle che determinano le variazioni degli stili e le differenze fra l'arte di un popolo e l'arte di un altro.
L'accennata maggior complessità dell'opera De l'intelligence, che suoi venire
considerata il capolavoro di Taine, si rivela già dalla sua stessa impostazione, ove
è manifesta l'influenza di Mill. L'autore si propone di ricostruire la vita della
psiche a partire dai suoi elementi ultimi (le sensazioni) sulla base di leggi in tutto
analoghe a quelle naturali, senza fare appello a forze metafisiche come l'intelligenza, la volontà, ecc., cioè alle « facoltà » postulate dalla vecchia psicologia filosofica. Il risultato cui tale ricostruzione lo conduce è che la psiche si riduce in realtà
ad un flusso di sensazioni, le quali non possono venir considerate come qualcosa
di soggettivo perché - esaminate sotto un altro aspetto - non sono altro che
vibrazioni nervose. La presunta unità dell'io sarebbe soltanto un'armonia delle
sensazioni, un effetto della loro mutua dipendenza. « Un flusso e un fascio di sensazioni e di impulsi, che, visti da un altro lato, sono pure un flusso e un fascio di
vibrazioni nervose, ecco lo spirito. »
Vale la pena elencare alcune difficoltà che Taine incontrava nella. dimostrazione della tesi testé riferita e accennare al tipico modo in cui egli ritiene di poterle
superare:
1) come distinguere le allucinazioni dalle sensazioni? Il nostro autore ammette l'esistenza di una effettiva« lotta» fra esse, lotta che si conclude con un equilibrio nel quale consiste lo « stato di veglia razionale ».
z) come si passa dalle sensazioni alla conoscenza delle qualità generali? Taine
risponde che essa ha luogo con la « sostituzione dei segni alle percezioni »: i
nomi, le idee generali, non sono altro che segni sorti per porre ordine a una
« infinità di impressioni ». Un analogo processo sostit_utivo è ciò che produce la
conoscenza di un oggetto individuale esterno come pure degli eventi futuri.
3) stando così le cose, che tipo di esistenza si potrà attribuire agli oggetti
esterni? La risposta di Taine è qui analoga a quella di Mill: gli oggetti esterni
non sono altro che possibilità permanenti di certi gruppi di sensazioni ovvero
- il che in fondo è lo stesso - sono possibilità permanenti di serie di movimenti.
4) anche il problema tradizionale della verità, come corrispondenza tra eventi
interni· ed eventi esterni, viene risolto sulla base della nozione poco fa riferita di
sostituzione: « ogni sensazione normale corrisponde a qualche fatto esterno che
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essa trascrive con approssimazione più o meno grande e di cui è il sostituto
interno.»
Non è il caso di fermarci ad illustrare l'artificiosità della complessa costruzione
di Taine, che tuttavia, malgrado l'intrinseca debolezza, esercitò una potente azione
di stimolo sul sorgere delle ricerche psicologiche in Francia. Ciò che ci sembra
opportuno porre in luce è il permanere in essa di parecchie tesi dell'antica metafisica, agevolmente individuabili malgrado la nuova formulazione in cui il nostro
autore le presenta; tali per esempio: il parallelismo (di origine spinoziana) tra mondo fisico e psichico, l'appello a una tendenza mai rigorosamente analizzata per spiegare il fatto che un segno venga sostituito a un insieme di più percezioni, la concezione della natura come ordine cui l'uomo deve sottomettersi in ogf!i propria attività, ecc. Ma la carica metafisica di Taine, su cui hanno concordemente insistito tutti i suoi critici, emerge con particolare chiarezza· nella conclusione
dell'opera in esame allorché, per rendere «scientificamente»' plausibile il ricorso
alla categoria della possibilità come fondamento dell'esistenza reale, egli fa
appello a una nota teoria matematica moderna, senza rendersi conto del carattere prettamente astratto delle entità da essa trattate: « I matematici ammettono
oggi che la quantità reale è un caso della quantità immaginaria, caso particolare
e singolare, in cui gli elementi della quantità immaginaria presentano certe condizioni che mancano neg~i altri casi. Non sarebbe lecito ammettere, in maniera
analoga, che l'esistenza reale non è che un caso dell'esistenza possibile, caso particolare e singolare, in cui gli elementi dell'esistenza possibile presentano certe condizioni che mancano negli altri casi? Ciò posto, non si potrebbe passare alla ricerca
di questi elementi e queste condizioni? Qui noi siamo alle soglie della metafisica. » Sebbene Taine si affretti a dire che ncin intende superarle, è chiaro che
-col solo parlare nel modo testé accennato di «esistenza possibile» - egli si è già
inoltrato entro il regno della disciplina tanto combattuta da Comte; e con ciò stesso
ha dimostrato in modo definitivo l'aspetto illusorio del proprio positivismo.
Malgrado il carattere incontestabilmente metafisica della conclv~ione testé
accennata, è fuori dubbio- come già rilevammo- che gli scritti di'.Taine diedero un potentissimo contributo alla diffusione di un'atmosfera positivistica entro
la cultura francese. A questo fine furono, forse, più determinanti le sue ricerche
particolari (nel campo dell'arte, della storia e soprattutto della psicologia) che non
le sue concezioni propriamente filosofiche. È certo, comunque, che queste finirono per esercitare un'influenza profondamente negativa sull'interpretazione corrente del positivismo, sicché molti videro in esso non tanto un indirizzo critico
inteso a dimostrare l'inconsistenza della metafisica, quanto un semplice canone di
prudenza che consigliava agli studiosi « seri » di preferirle altri, più sicuri, campi
di indagine.
Le conseguenze di questa interpretazione furono sostanzialmente due: per
un lato l'abbandono dei problemi metafisici nelle mani di indirizzi filosofici com-
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pletamente diversi, per un altro lato il dirottamento di alcuni ricercatori di formazione positivistica verso un tipo di indagini più concrete di quelle metafisiche
seppur sempre, in certo senso, filosofiche.
Rinviando ai prossimi paragrafi l'esame degli indirizzi metafisici « antipositivistici » prosperati in piem~ clima positivistico, ci limiteremo qui a ricordare i
principali settori di indagine sorti per influenza indiretta del positivismo: la psicologia, la sociologia, la storia delle scienze, l'antropologia.
A proposito di quest'ultima, va ricordato il notevolissimo contributo che
diede al suo sviluppo un valente studioso di indubbia formazione positivistica,
Lucien Lévy-Bruhl (I857-I939), autore di una delle più pregevoli monografie su
Comte: La philosophie d'A. Comte (La filosofia di A. Comte, I 900). Sollecitato, in
parte, dagli stessi studi di Comte sullo sviluppo dell'umanità, in parte dall'esigenza
di indagare la natura dell'uomo attraverso l'osservazione diretta dei fenomeni e
non mediante considerazioni di mero carattere speculativo, egli si accinse allo
studio dei popoli primitivi (dei loro costumi, delle loro religioni, delle loro concezioni sulla natura, ecc.) con un impegno veramente encomiabile. Se i risultati
da lui ottenuti sull'argomento sono stati oggi di molto oltrepassati, le sue opere
costituiscono, comunque, il punto di partenza di gran parte dell'antropologia moderna; di esse basti ricordare: Les fonctions menta/es dans les sociétés inférieures (Le
funzioni mentali nelle società inferiori, I9Io), La mentalité primitive (La mentalità primitiva, I9zz), e Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive (Il sovrannaturale e
la natura nella mentalità primitiva, I93 I).
III · LO SPIRITUALISMO
Come sappiamo dal volume quarto lo spiritualismo francese è collegato, nei
primi anni dell'Ottocento, al nome di Maine de Biran; nei decenni successivi
Vietar Cousin tentò di assimilarne parecchi temi entro il proprio eclettismo.
Verso la metà del secolo si assiste a un ritorno a concezioni schiettamente spiritualistiche, difese nella loro originaria purezza, che vengono considerate come il
più valido baluardo della filosofia contro il rapido diffondersi della cultura empiristica e scientistica. Si giunge, da parte dei suoi più accesi sostenitori, ad affermare che esso rappresentò anche in passato l'unica autentica filosofia francese,
mentre l'illuminismo fu un «pensiero di importazione», quasi un'onta di cui la
Francia doveva trovare il modo di liberarsi al più presto e in forma definitiva.
I rappresentanti più autorevoli di questa fase dello spiritualismo francese
furono: Félix Ravaisson-Mollien (I8I3-I9oo), per qualche anno professore alla
Sorbonne ove ebbe per discepolo Boutroux; Paul Janet (I823-99), egli pure professore alla Sorbonne; Jules Lachelier (I834-I9I8), professore dell'École Normale Supérieure; e lo svizzero Charles Secrétan (I 8 15-9 5), professore all'università di Losanna ma assai legato agli ambienti filosofici francesi.
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Le opere principali di Ravaisson sono: Essai sur la métapf?ysique d' Aristote
(Saggio sulla metafisica di Aristotele, I837-46), De l'habitnde (L'abitudine, I838),
Rapport sur la philosophie en France au XIX siècle (Rappòrto sulla filosofia in Francia
nel XIX secolo, I868); quelle di Janet: Le matérialisme contemporain en Allemagne
(Il materialismo contemporaneo in Germania, I864), Les causes fina/es (Le cause finali,
I 877), Principes de psychologie et de métapf?ysique (Principi di psicologia e di metafisica,
1897); quelle di Lachelier: Du fondement de l'induction (Il fondamento dell'induzione,
I871), Psychologie et métapf?ysique (Psicologia e metafisica, I885); e infine quelle
di Secrétan: L-a philosophie de Leibniz (La filosofia di Leibniz, I 840), La philosophie
de la liberté (La filosofia della libertà, I 849), La raison et le christianisme (La ragione
e il cristianesimo, I863), Le principe de la morale (Il principio della morale, I884).
Come .risulta dal titolo stesso della sua prima opera poco sopra citata, le
ricerche di Ravaisson presero inizio dallo studio di Aristotele; egli era infatti
convinto che, per ricuperare la vera dimensione del pensiero filosofico, fosse
proprio necessario ritornare a quella gloriosa metafisica che aveva costituito il
bersaglio comune degli iniziatori della filosofia moderna. La necessità di un riesame approfondito del pensiero di Aristotele era del resto sentita in quegli anni
anche da altri seri studiosi; basti citare il nome di Adolph Trendelenburg (I80272), professore all'università di Berlino, che intendeva rifarsi al grande filosofo
greco in funzione apertamente antihegeliana.
Uno dei punti del sistema aristotelico che suscitano la più viva approvazione
di Ravaisson, è la concezione del movimento come trapasso dalla potenza all'atto; proprio questa concezione, infatti, ci permette - secondo lui - di cogliere il moto ascensionale della natura, il suo tendere verso la perfezione. Veniamo così a scoprire che l 'universo può venire compreso solo facendo riferimento
al principio divino che lo pervade (non alle cause meccaniche, come pretenderebbe la scienza moderna), e che in sostanza tutto il mondo è attività spirituale. .
I temi fondamentali dello spiritualismo che il nostro autore elabora a partire
dalle argomentazioni testé accennate sono: la materia non è che la degradazione
dello spirito e la causalità meccanica non è che la degradazione della libera attività; l'abitudine (a cui, come sappiamo, è dedicato uno degli scritti principali di
Ravaisson) costituisce un esempio di termine medio fra natura e spirito, in quanto
ci dimostra come l'attività psichica possa degradare in qualcosa di inconsapevole
e automatico; la forza organizzatrice dell'universo è un principio di libertà assoluta, di perfezione e di moralità.
Il vero compito del filosofo sarà pertanto di farci cogliere tale principio nell'armonia dell'universo e nella struttura intima del nostro animo. Il risultato
cui dovremo pervenire sarà la costruzione di una filosofia «eroica», « aristocratica »: la filosofia della nuova era, assolutamente inconciliabile con le « filosofie
plebee» dei secoli precedenti, cioè con l 'illuminismo, l'empirismo, il positivismo. ·
La superiorità della nuova concezione rispetto alle precedenti dipenderebbe dal
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fatto che essa non si fonda più sul mero esame dell'esperienza esterna, ma su
qualcosa di ben più profondo, cioè sull'analisi dell'esperienza interna o « esperienza di coscienza » (dove è evidente il richiamo a Pascal, cui Ravaisson dedicò
un interessante saggio, pubblicato nel 1887).
Una volta delineato il pensiero di Ravaisson, che fu senza dubbio il più
originale degli autori poco sopra menzionati, potremo !imitarci - per gli altri ad alcuni brevissimi cenni.
Janet fu soprattutto noto per le sue aspre polemiche nei confronti del materialismo, a cui contrappose una visione spiritualistica della natura, giungendo a
sostenere che il principio esplicatore dei fenomeni naturali come di quelli umani
può venire cercato soltanto in dio. Anche Lachelier attribuì molta importanza
al problema della natura, affermando che il meccanicismo ne coglie unicamente
l'apparenza esterna: il suo ordine autentico è, infatti, quello finalistico, onde
il vero fondamento dell'induzione va esso pure cercato nella convergenza di tutti
i fenomeni verso un fine. Il principio dell'universo è spirituale, e lo spirito è non
solo volontà ma intelletto. Il compito essenziale della filosofia è quello di riportare tutta la realtà al pensiero e di attuare l'unione della nostra anima con dio.
Per Secrétan il problema centrale non è più quello della natura, ma quello
della libertà. Si tratta di comprendere in che cosa essa consista e di distinguere
con chiarezza la libertà umana da quella divina. Solo questa è assoluta (essa si
manifestò ad esempio nel «miracolo» della creazione); quella invece è limitata
dalle condizioni in cui l'uomo si trova (essa si manifestò nella ribellione di Adamo
e, successivamente, nel processo della redenzione).
Merita di venire ricordato che Secrétan (come del resto anche Ravaisson)
seguì per un certo tempo le lezioni di Schelling a Monaco; è un fatto assai significativo che può chiarirci il tipico orientamento assunto dall'indirizzo di cui
ci stiamo occupando, tanto più se teniamo conto che il filosofo tedesco era
pervenuto in quegli anni alla fase mistico-mitologica del suo pensiero. Per quanto.
Secrétan abbia sostenuto che la propria filosofia era « essenzialmente una confutazione di Schelling » (ciò che il nostro autore gli rimprovera è in prhno luogo
di non aver compreso l'assoluta libertà di dio), non v'ha dubbio che egli ne subì
profondamente l'influenza. È un'influenza che incise in misura notevole non solo
sullo sviluppo delle concezioni di Secrétan, ma anche su quello di parecchi autori
a lui vicini.
I caratteri di questo tipo di spiritualismo sono così evidenti, che non vale
la pena soffermarci ulteriormente su di essi (trattasi di limiti che purtroppo peseranno a lungo sul pensiero filosofico francese). Ci sembra invece opportuno
prendere in rapido esame la figura di un altro studioso che può in un certo senso
venire considerato spiritualista, pur non collegandosi direttamente all'indirizzo
finora trattato.
Intendiamo riferirei a Augustin Cournot ( 1 802-77), cui si è già fatto cenno
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nel capitolo vm del volume precedente per i suoi studi sull'applicabilità del calcolo delle probabilità ai fenomeni di massa. Prescindendo dai numerosi lavori
che scrisse su argomenti di matematica pura e di economia matematica, basti qui
riferire il titolo di alcuni suoi volumi di carattere prevalentemente filosofico:
Essai sur /es fondements de nos connaissances et sur /es caractères de la critique philosophique (Saggio sui fondamenti delle nostre conoscenze e sui caratteri della critica filosofica,
18 51), Traité de l' enchatnement des idées fondamenta/es dans /es sciences et dans l' histoire
(Trattato della connessione delle idee fondamentali nelle scienze e nella storia, t86t), Matérialisme, vitalisme, ratio'nalisme; études sur l' emploi des données de la science en philosophie (Materialismo, vitalismo, razionalismo; studi sull'uso dei dati della scienza in filosofia, 1875).
Anche Cournot, come tutti gli altri spiritualisti dell'epoca, elabora le proprie
concezioni filosofiche ispirandosi in primo luogo a Leibniz.' Da lui attinge infatti l'idea che ritiene di dover collocare al centro delle proprie riflessioni sul sapere scientifico: l'idea cioè dell'esistenza di una netta distinzione fra «ordine logico» che regola il mondo delle espressioni (cioè il linguaggio), e «ordine razionale » che adegua la profonda natura delle cose.
La ragione umana può, mediante la matematica (irriducibile, secondo il nostro
autore, a mera logica), elevarsi a cogliere quest'ordine profondo delle cose; ma
ciò non significa ancora che possa prevedere integralmente il succedersi dei fenomeni fisici (come pretenderebbe il determinista). Questi infatti contengono in
sé qualcosa di contingente dovuto all'intrecciarsi, nella produzione di un singolo
evento, di più cause concorrenti. Interviene allora il calcolo delle probabilità che
opera una specie di mediazione fra i dati teorici e quelli fattuali.
Fino a questo. punto la filosofia di Cournot non presenta ancora i caratteri
dello spiritualismo; si limita ad essere una filosofia antideterminista, che il nostro
autore ritiene di poter ricavare direttamente dalle proprie ricerche intorno al calcolo delle probabilità e alle sue applicazioni. Le cose mutano però non appena
egli introduce, sotto l'influenza di Bichat e di altri biologi, una concezione vitalistica nel proprio primitivo razionalismo.
Ciò che lo conduce a questa svolta è la riflessione sui fenomeni biologici, e
poi su quelli psicologici, sociali e storici. Essi ci porterebbero di fronte a un ordine non completamente accessibile alla ragione, ma di cui questa può cionondimeno cogliere la natura (Cournot lo chiama « transrazionale »). È proprio la scoperta di tale ordine che fornisce al nostro autore le armi per combattere il materialismo e contrapporgli una visione spiritualistica dell'universo.
Di importanza decisiva sono, a questo riguardo, le riflessioni di Coumot sulla
storia che si intrecciano con le sue riflessioni sul cristianesimo, ove risultano ben
evidenti i richiami a Pascal: « Più le nostre conoscenze scientifiche si ampliano,
più l'uomo ha motivi per considerarsi come un atomo sperduto nell'immensità
del creato e nell'immensità del tempo.» Come spiega Jean De La Harpe: «Quando
si passa sul terreno della storia, dove la religione finisce per confondersi con il
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Positivismo e antipositivismo in Francia
cristianesimo, vediamo emergere a poco a poco in lui (Cournot) il credente: la
profondità delle sue vedute implica necessariamente una meditazione prolungata
sopra delle cose vissute. Egli parla delle armonie funzionali cui il cristianesimo
deve il proprio trionfo, armonie fra l'ambiente e la dottrina che le altre religioni
non presentano; il suo immenso successo proviene dal fatto che, paragonato alle
altre religioni, il cristianesimo non comporterebbe "che dei principi compatibili
con i progressi ulteriori della civilizzazione ''. »
Questa convergenza tra vitalismo, spiritualismo ed esaltazione della superiorità del cristianesimo su ogni altra religione, costituisce una dei tratti più significativi del pensiero filosofico di Cournot e di parecchi altri scienziati francesi a lui
contemporanei. È una realtà che occorre tenere presente, quando si vuole davvero comprendere, in tutti i suoi aspetti, la cultura diffusasi in Francia nell'epoca
di cui ci stiamo occupando.
Allorché si parla della fortuna dello spiritualismo in tale paese, non ci si può
limitare a prendere in considerazione i soli ambienti filosofici o letterari. E quando
si lanciano facili accuse di dogmatismo agli scienziati positivisti, bisogna tenere
conto del tipo di filosofia sempre più dogmatica che veniva ad essi contrapposta
dagli scienziati cattolici.
IV · RENOUVIER E BOUTROUX
Mentre sia il positivismo che lo spiritualismo rappresentarono due indirizzi
forniti entrambi di una propria coerenza interna, non altrettanto può dirsi dei
vari tentativi che pretesero conciliare in forma più o meno ambigua le istanze
avanzate da questo e da quello; tale per esempio il tentativo di Alfred Fouillée
(I 8 38- I 9 I z ), che ritenne di poter interpretare tutti i fenomeni, tanto fisici quanto
psichici, con l'equivoco concetto di idea-forza; o quello del poeta filosofo JeanMarie Guyau (I854-88), che si illuse di trovare nell'ideale sociologico dell'umanità la spiegazione della morale, dell'arte e del sentimento religioso. Le loro dottrine, basate unicamente su compromessi, non conservano più, oggi, alcun interesse.
Notevolmente diversa ci sembra invece l'importanza dei due autori cui è dedicato il presente paragrafo. Malgrado la debolezza teorica delle loro concezioni,
essi ebbero un peso effettivo e duraturo nel successivo sviluppo del pensiero francese, soprattutto per quanto riguarda il problema dei rapporti tra pensiero filosofico e pensiero scientifico. La loro stessa posizione nei confronti del positivismo, da cui presero le mosse sia pure per combatterlo accanitamente, può essere
molto istruttiva per farci valutare con esattezza il significato che ebbe - nella
Francia della seconda metà dell'Ottocento - l'eredità della filosofia comtiana.
Charles Renouvier (I 8 I 5- I 90 3) fu uno dei più rinomati maestri della filosofia
francese della sua epoca; decisamente laico eppure non positivista (sebbene fosse
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Positivismo e antipositivismo in Francia
stato nella giovinezza in contatto personale con Comte) egli rappresenta bene il
tipo di cultura gradita a quella parte della borghesia che vuole mostrarsi aperta
sia verso la scienza sia verso il pensiero metafisica, sensibile alle nuove istanze dello
spiritualismo e nel contempo capace di conservare la migliore eredità dei philosophes settecenteschi (in ispecie per ciò che riguarda le loro critiche all'aspetto superstizioso delle religioni tradizionali). Tra le sue molte opere ci limiteremo a ricordare le seguenti: Essais de critique générale (Saggi di critica generale, 4 voli., (I 8 54-64),
La science de la morale (La scienza della morale, I 869), Uchronie (Ucronia, I 876), Esquis-
se d'une classiftcation systématique des doctrines philosophiques (Abbozzo di una classificazione sistematica delle dottrine filosofiche, I 88 5-86), La nouvelle monadologie (La nuova monadologia, I899), Les dilemmes de la métaphysique (l dilemmi delle metafisica, I9o3).
Renouvier si propone di tenere simultaneamente conto vuoi di alcune istanze
del positivismo vuoi delle più profonde esigenze della filosofia kantiana. Del positivismo égli accoglie la riduzione della conoscenza a ricerca delle leggi che regolano i fatti: il « fatto » dei positivisti viene però da lui inteso come fenomeno, ossia come pura rappresentazione, oltre cui non esiste alcuna realtà (ciò che implica
il ripudio completo della dottrina kantiana della« cosa in sé»). I fenomeni avrebbero due aspetti, uno oggettivo, che costituisce il mondo naturale, e uno soggettivo, che costituisce l'io. Del kantismo egli accoglie la concezione secondo cui i
fenomeni non sussistono isolatamente l'uno dall'altro, ma sono sempre in relazione reciproca, onde non è possibile comprendere un fenomeno se non considerandolo in funzione di altri. Le leggi di natura scoperte dalle scienze sarebbero,
. per l'appunto, esempi di queste relazioni; le categorie costituirebbero i modi più
generali di riferire un fenomeno agli altri.
Ciò che Renouvier respinge con decisione è che il riferimento ad altro si
estenda all'infinito; l'infinito attuale è infatti per lui un concetto contraddittorio
(si noti che egli sostiene questa tesi proprio nei medesimi anni in cui Georg
Cantar elabora la famosa teoria degli insiemi infiniti che si rivelerà in breve tempo
la base della matematica moderna!). Di qui la negazione della divisibilità all'infinito dello spazio e del tempo, la negazione della continuità del moto e, in ultima
istanza, del determinismo meccanicistico. L'affermazione che tra i fenomeni vi è
un'insuperabile discontinuità lo porta a sostenere che ogni fenomeno sarebbe un
« cominciamento assoluto », e quindi in certo senso libero come le azioni umane.
La conclusione di tutte queste argomentazioni è la pretesa risoluzione dell'antinomia kantiana fra mondo naturale della necessità e mondo morale della libertà. I due mondi vep.gono ad identificarsi; la causa fisica perde il suo carattere
necessitante e la libertà si presenta essa stessa come una forma di causalità: « Gli
atti liberi non sono effetti senza causa; la loro causa è l'uomo, nell'insieme e nella
pienezza· delle sue funzioni.»
È facile comprendere che in questo quadro la « personalità » come libera coscienza diventa il tema centrale della filosofia di Renouvier; non senza motivo i
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Positivismo e antipositivismo in Francia
concetti di personalità e di finalità sono da lui aggiunti alle dieci categorie kantiane.
Il suo kantismo si trasforma così in uno spiritualismo, di marca leibniziana, e il
nostro autore può parlare di nuova monadologia.
Per verità egli si rende conto che l'aver provato - come ritiene di essere
riuscito a fare - che i rapporti dei fenomeni sono contingenti non significa ancora aver dimostrato che essi sono liberi; significa però aver dimostrato che possono esserlo. A questo punto interverrà la ragione pratica a integrare le argomentazioni teoretiche. Come spiega assai bene Piero Martinetti, la soluzione del problema « deve essere chiesta » - secondo Renouvier - « alla ragion pratica: la
ragion pratica deve porre il proprio fondamento e con esso quello della ragione
in genere perché la ragione è l'uomo e l'uomo è uomo pratico ... L'esistenza della
ragione pratica e della morale è una contraddizione nel sistema della necessità:
se la morale è vera, la necessità che la fa essere è in contraddizione con se stessa. Ed
anche la scienza non è meglio garantita che la morale: l'errore è necessario quanto
la verità, il falso è vero come necessario: tutto è legittimo alla sua ora e al suo
posto ... Il puro intelletto, indifferente, impassibile sarebbe per sé condannato allo
scetticismo: è la volontà che intervenendo nel giudizio decide sulla scelta de'Ile
verità liberamente accettate. La verità non ci è straniera, non si impone a noi:
noi la possediamo solo quando la dobbiamo a noi stessi. Quindi se noi affermiamo
la libertà, non è perché si imponga all'intelligenza, perché la vediamo o la dimostriamo: noi la scegliamo perché vogliamo la moralità e la scienza ».
La debolezza di questo volontarismo spiritualistico è evidente; esso poteva
piacere alla borghesia francese dell'epoca solo perché le offriva una facile conciliazione tra libertà, scienza e moralità. Ma era una conciliazione illusoria, verbalistica, che traeva la propria capacità di risolvere i problemi solo dalla genericità e
astrattezza con cui li formulava.
Ne è una riprova il dualismo radicale che Renouvier scorge fra la morale e la
storia, da cui deriva il suo accanito antihegelismo e irt generale il suo antistoricismo. Esso culmina nell'opera Ucronia, ove l'autore giunge all'assurdo di voler
analizzare, con ricchezza di particolari, la « storia possibile » degli europei, descrivendo ciò che essi avrebbero potuto realizzare se avessero creduto nella libertà
invece di lasciarsi dominare dagli odi e dagli egoismi.
La filosofia antipositivistica rivela qui il suo più autentico carattere: di evasione dalla realtà, di elegante strumento per distrarre gli uomini dai loro veri e
concreti problemi teoretici e pratici, per cullarli nella fantasia illudendoli che il
mondo sia il regno della libertà.
Émile Boutroux (I 84 5- I 92 I), fu discepolo di Ravaisson e ne seguì l'indirizzo
spiritualistico. La novità della sua posizione rispetto a quella del maestro è soprattutto costituita dal tentativo di pervenire allo spiritualismo attraverso la critica del positivismo e, in particolare, attraverso l'analisi delle difficoltà che sarebbero riscontrabili nella scienza moderna.
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Positivismo e antipositivismo in Francia
Fu professore alle università di Montpellier e di Nancy, poi (dal 1877) all'École normale e alla Sorbonne; la sua tenace, e talvolta acuta, polemica contro
il positivismo caratterizza assai bene l'atteggiamento di una notevole parte della
filosofia ufficiale francese di fronte all'avanzata della scienza. È una reazione che in
certo senso simboleggia la grave spaccatura (che perdurerà fino ai nostri giorni)
della .cultura francese in due schieramenti contrapposti: umanistico-letterario e
razionalistico-scientifico. Non senza motivo Giovanni Gentile la esalterà come
« la prima forte riscossa contro lo spirito materialistico della scienza e della filosofia».
Le opere principali di Boutroux sono: De la contingence des lois de la nature
(Della contingenza delle leggi della natura, 1874), che non è altro se non la tesi di dottorato con cui il nostro autore si laureò alla Sorbonne, De l'idée de loi naturelle
dans la science et la philosophie contemporaines (Dell'idea di legge naturale nella scienza e
nella filosofia contemporanee, 1895) che riassume il nucleo delle lezioni tenute da
Boutroux alla Sorbonne nel 1892-93, Questions de morale et d'éducation (Questioni di
morale e di educazione, 1895), Études d'histoire de la philosophie (Studi di storia della
filosofia, 1897-1908), La nature et l'esprit (La nattlra e lo spirito, 1904-05), Science et
religion dans la philosophie contemporaine (Scienza e religione nella filosofia contemporanea,
1908), William James (1911).
Il punto di partenza di Boutroux sembra molto simile a quello dei positivisti:
egli condivide con essi l'idea che esista un ordine naturale per le scienze fondamentali e che il primo compito del filosofo sia di riflettere sulla struttura di tali scienze
nonché sulle loro relazioni reciproche. Come ordine naturale accetta, in sostanza,
la classificazione comtiana con qualche ritocco: alla matematica non attribuisce
più il primo posto, ma il secondo, in quanto le antepone la logica; all'astronomia
sostituisce la meccanica; e infine riconosce (come del resto tutti i positivisti della
generazione successiva a Comte) una piena autonomia scientifica alla psicologia,
collocandola fra la biologia e la sociologia.
Le più profonde divergenze affiorano, invece, appena si consideri il modo
come Boutroux affronta l'esame della classificazione anzidetta. Egli non si limita,
come Comte, ad analizzare le differenze esistenti tra i metodi delle varie scienze,
la diversa generalità e complessità delle loro leggi, le ragioni per cui una scienza
« superiore » non si sviluppa fin quando quelle ad essa « inferiori » non abbiano
raggiunto lo stadio positivo; vuole invece scoprire qualcosa di più: il significato
profondo delle verità da esse scoperto, la radice ultima della specificità di una
scienza rispetto all'altra. E la cerca, con una impostazione caratteristicamente metafisica del problema, in una diversità che esisterebbe in oijecto tra gli ordini stessi
dei fenomeni studiati.
In altri termini: ritiene che ciasc~na scienza ci riveli un ordine ben preciso dei
fenomeni, cosicché alle varie scienze corrisponderanno altrettanti ordini irriducibili uno all'altro. Postula, anzi, alla base di tutti questi ordini l'esistenza di un
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Positivismo e antipositivismo in Francia
puro essere «ancora indeterminato», cui succederanno un «essere logicamente
determinato » e poi via via un ordine matematico, meccanico, fisico, ecc. Ognuno
di questi ordini si presenterebbe, come abbiamo detto, irriducibile agli altri, e
quindi conterrebbe qualcosa di nuovo, di« contingente» rispetto ad essi (di qui il
nome di «contingentismo» solitamente attribuito alla filosofia di Boutroux). Per
esempio, l'ordine rivelatoci dalle leggi meccaniche risulterebbe totalmente originale rispetto a quello colto dalle leggi matematiche, e quindi sarebbe « contingente » rispetto ad esse; altrettanto accadrebbe per quello fisico nei confro1;1ti dell'ordine meccanico, e cosi di seguito.
È inutile sottolineare, tanto la cosa appare evidente, che la concezione ora
delineata offriva una giustificazione filosofica alla crisi che proprio in quegli anni
anni (cioè fra il187o e il19oo) veniva affiorando da varie parti entro il meccanicismo: se infatti ogni o:çdine si presenta come irriducibile ai precedenti, che fondamento può avere la pretesa di spiegare tutte le leggi scientifiche in termini meccanici? Boutroux commette il manifesto errore di identificare il meccanicismo con il
positivismo (noi sappiamo infatti - e lo rilevammo a suo tempo - che la stessa
concezione comtiana delle scienze, come ben distinte una dall'altra, contiene già
un germe indiscutibilmente antimeccanicistico); ma, a parte questo errore, fa
qualcosa di ben più grave: sposta il problema dal campo metodo logico (potremmo
anzi dire: dal campo della filosofia della scienza) a quello ontologico. È una svolta
che darà luogo ai più pericolosi equivoci.
Non si vuol negare, con ciò, che lo stesso Boutroux abbia compiuto alcune
analisi abbastanza sottili della struttura delle varie scienze (analisi, comunque,
assai meno rigorose e circostanziate di quelle ad esempio, svolte pressoché nei
medesimi anni, dal posi tivista Mach); si deve anzi dare atto che fu particolarmente per suo merito che lo spiritualismo francese della fine del secolo riconobbe
- ben diversamente da quello dei decenni precedenti - il fondamentale interesse
filosofico spettante agli studi di epistemologia, diretti a porre in chiaro il significato e la portata del sapere scientifico. Si tratta però di un solo aspetto del contingentismo, che non può farci dimenticare altri lati ben diversi di esso: in particolare non può farci dimenticare quanto contribuì a rafforzare in Francia le correnti irrazionalistiche e misticheggianti.
Una volta ammessa l'esistenza di veri e propri salti fra un ordine e l'altro del
mondo, Boutroux ne deduce - come già abbiamo detto - che i fenomeni di un
ordine inferiore non possono costituire la causa dei fenomeni appartenenti a un
ordine superiore. Ma non si ferma qui; sostiene invece che proprio tale vuoto di
causalità porrebbe in evidenza qualcosa di più profondo che è in grado di colmarlo, cioè la presenza, nella stessa natura, di un principio di libertà inafferrabile
alla più rigorosa conoscenza scientifica.
Per difendere questa tesi, prettamente metafisica, il nostro autore si sofferma,
in modo particolare, su due dei salti testé accennati: quello tra ordine biologico
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Positivismo e antipositivismo in Francia
e ordine chimico-fisico, e quello tra ordine psicologico e ordine biologico.
Con il primo Boutroux si inserisce apertamente nei dibattiti che - come vedremo in un prossimo capitolo - tornarono ad agitare la scienza biologica verso
la fine dell'Ottocento, schierandosi apertamente dalla parte dei vitalisti, e cioè
polemizzando in modo molto energico contro ogni tentativo di spiegare i fenomeni biologici con semplici leggi tratte dalla chimica e dalla fisica. Scrive per
esempio: « Le leggi della fisiologia appaiono, in conclusione, irriducibili ... Negli
stessi sistemi in cui sono più strettamente avvicinate alle leggi fisico-chimiche,
esse rimangono distinte e originali ... Il determinismo fisiologico, considerato in se
stesso, differisce dal determinismo fisico-chimico, come questo differiva dal determinismo puramente meccanico. È più stretto, perché regola fenomeni che le leggi
fisico-chimiche lasciavano indeterminati. Ma si fonda su di una nozione di legge
più complessa e più oscura ... Il determinismo, restringendosi, diviene più impenetrabile e più irriducibile alla necessità. »
Con il secondo dei salti poco fa riferiti (tra ordine psicologico e ordine biologico) Boutroux sottolinea l'irriducibilità, che a suo parere sarebbe scientificamente innegabile, tra « coscienza umana » e vita animale. Il riconoscimento di
questa irriducibilità gli consente, infine, di salire - senza più preoccupazioni di
sorta - dallo studio delle scienze naturali a quello dell'individualità intrinsecamente libera dell'uomo, e di giustificare, sulla base dell'originalità dell'ordine
spirituale, le più ardite tesi della filosofia spiritualistica.
La via verso la metafisica è ormai aperta; è una via che riscuote il plauso entusiastico di quanti vogliono conciliare il nuovo con il vecchio. Essa farà sorgere
nel nostro autore e nei suoi numerosi seguaci l'illusione di poter riuscire financo a
salvare la validità della religione tradizionale, dimostrandone la compatibilità con
i risultati più moderni della critica delle scienze. La religione infatti, purificata
dalle superstizioni, troverebbe la propria sede naturale nella coscienza e consisterebbe nella considerazione di un nuovo aspetto dei fenomeni irraggiungibile dal
simbolismo di qualsiasi scienza: del loro « significato morale », cioè, dei « sentimenti che essi suggeriscono », della « vita interiore che esprimono e suscitano ».
Proprio la considerazione di questo nuovo aspetto dei fenomeni sarebbe in grado
di portarci all'accettazione dell'esistenza di dio e al riconoscimento dell'altissima
funzione compiuta dal cristianesimo.
Attraverso una serie di passaggi che qui non possiamo analizzare, Boutroux
concluderà infine la parabola del suo pensiero con una dichiarazione aperta di misticismo che lo accomuna a gran parte dei filosofi antipositivisti.
È inutile ripetere che il successo del contingentismo fu enorme; ad esso fecero appello più o meno direttamente tutti coloro che intendevano opporsi al
«determinismo» delle scienze per« salvare la libertà». Il successivo sviluppo delle ricerche epistemologiche ha tuttavia dimostrato che esso era privo, in realtà, di
qualsiasi valore teoretico. Era infatti fondato su di un gravissimo equivoco me1
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Positivismo e antipositivismo in Francia
tafisico: la sostanzializzazione delle differenze di metodo fra scienza e scienza, di
fatto constatabili a un certo livello dello sviluppo del pensiero, e quindi la loro
trasformazione in differenze assolute, di carattere metafisica.
Vedremo, nel seguito della nostra trattazione, che l'indeterminismo ha trovato molti difensori nella fisica più recente; ma nessuno di essi ha potuto ricollegarsi, nemmeno indirettamente, alle fragili argomentazioni del fondatore del
contigentismo.
V · L'EPISTEMOLOGIA. POINCARÉ
Come abbiamo riferito nei paragrafi III e IV, la polemica contro il meccanicismo fu assai vivace in Francia durante il periodo di cui ci stiamo occupando:
basti pensare a Lachelier che accusava tale indirizzo di fermarsi all'aspetto esterno
della natura senza riuscire a penetrarne l'autentico ordine essenzialmente finalistico; o a Boutroux il quale sosteneva l'esistenza di una vera e propria discontinuità
fra un ordine di fenomeni e l'altro. Tenuto conto di ciò, e tenuto conto delle
critiche alla meccanica« classica» che all'incirca nei medesimi anni cominciavano
ad affiorare in vaste schiere di fisici (ne discutemmo a lungo nei capitoli x, XI e
xn del volume quinto), taluni storici della filosofia hanno ritenuto di poter parlare di un unico movimento di « rivolta » contro il meccanicismo e, tramite questo,
contro il positivismo, che avrebbe coinvolto tanto la migliore filosofia quanto
la migliore scienza dell'epoca.
Noi riteniamo invece che questa sommaria unificazione nasconda un grosso
equivoco; troppo diverse ci sembrano infatti - per poter venire assimilate fra
loro - le argomentazioni addotte contro il meccanicismo dai filosofi di ispirazione spiritualistica testé menzionati e quelle dei fisici come Mach, il cui fine non
era certo di buttare a mare la scienza galileiano-newtoniana, ma, al contrario, di
correggerne alcuni gravi difetti che ne frenavano lo sviluppo. Le prime erano
argomentazioni dirette, in ultima istanza, contro tutta la razionalità .scientifica
ed avevano quindi un manifesto carattere antipositivistico; le seconde invece
erano rivolte contro le ipotesi metafisiche tacitamente accolte dai fisici « classici »
e perciò costituivano, a ben guardare, un intelligente proseguimento del programma originario di Comte.
Quanto ora detto non esclude che vi siano state effettive convergenze fra
l'indirizzo spiritualista e la corrente che potremmo chiamare «degli epistemologi». Furono però convergenze in certo senso estrinseche, dovute per un lato
al desiderio (cui già si fece cenno) di alcuni continuatori o innovatori dello spiritualismo, di rivelarsi aggiornati sulle più moderne ricerche critiche intorno alla
scienza e, anzi, capaci di utilizzarle per una originale difesa della loro - in realtà
assai vecchia - filosofia, per un altro lato all'orientamento personale di alcuni .
epistemologi (come il cattolico Duhem), ansiosi di stabilire un qualche rapporto
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Positivismo e antipositivismo in Francia
fra le proprie sottili indagini intorno alla struttura della scienza e la fede religiosa
da essi sinceramente condivisa e appassionatamente difesa.
I più noti epistemologi francesi della fine dell'Ottocento e dei primi anni del
Novecento furono: il matematico Henri Poincaré (1854-1912.), uno dei massimi
scienziati europei dell'epoca, che abbiamo già più volte ricordato nei capitoli precedenti; il matematico Gaston Milhaud (I858-I9I8), e il fisico Pierre Duhem
(I86I-I9I6), testé menzionato, cui si era già fatto cenno alla fine del capitolo xr
del volume precedente quale uno dei più accesi sostenitori dell'energetica.
Milhaud e Duhem furono soprattutto celebri come storici della scienza: del
primo ci limitiamo a ricordare gli Études sur la pensée scientifique (Studi sul pensiero
scientifico, I9o6) che trattano sia problemi dell'antica Grecia sia problemi dell'epoca
moderna; del secondo: Les sources des théories physiques. Les origines de la statique
(Le sorgenti delle teorie fisiche. Le origini della statica, in due volumi, 1905-o6), Études
sur Léonard de Vinci: ceux qu'il a lu, ceux qui l'ont lu (Studi su Leonardo da Vinci:
quelli che egli ha letto, quelli che l'hanno letto, in tre volumi, I 9o6-o9-I 3), Le système
du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic (Il sistema del mondo.
Storia delle dottrine cosmologiche da Platone a Copernico, in cinque volumi I9I3-I7;
un sesto volume uscirà, vari anni dopo la morte dell'autore, nel I954)·
Come epistemologo, Milhaud sostenne che la dimostrazione logica non può
ricavare nulla di nuovo dai principi convenzionalmente accolti; la vera conoscenza trae origine unicamente dall'osservazione empirica e, in quanto tale, si
basa non sulla dimostrazione ma su una specie di evidenza intuitiva (o « certezza
razionale ») : perciò il progresso scientifico è soprattutto dovuto alla libera inventività del ricercatore.
Anche Duhem riconobbe un grande valore a questa libera inventività, ma in
un senso alquanto diverso e più articolato. Nella sua celebre opera La théorie
physique (La teoria fisica, I9o6) egli si fece infatti banditore di una concezione ipotetico-convenzionalistica delle teorie scientifiche, manifestamente ispirata a Mach:
« La teoria fisica, » scrive, « è una costruzione simbolica dello spirito umano,
destinata a dare una sintesi, quanto più possibile completa, semplice e logica,
delle leggi scoperte dall'esperienza»; perciò essa può risultare soltanto« buona»
o « cattiva », non vera o falsa (e proprio per questo non può entrare in conflitto
con la metafisica, che è invece rivolta alla conoscenza dell'essere dell'universo).
È interessante notare la funzione determinante che egli attribuisce, nell'elaborazione delle teorie fisiche, allo sviluppo storico da esse subito in passato: sarebbe
proprio questo sviluppo a condurre il ricercatore in un dato momento della storia, a optare per una certa ipotesi a preferenza di altre, togliendo cosi alla sua
scelta il carattere di arbitrarietà che essa avrebbe, se esaminata in via puramente
astratta. Se ne conclude - sempre secondo Duhem - che lo studio della storia
della scienza deve far parte integrante della stessa ricerca scientifica, quando naturalmente venga inteso come riflessione critica sulle grandi costruzioni del pasI8I
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Positivismo e antipositivismo in Francia
sato, sulle ipotesi via via accolte, sui motivi in base a cui queste ipotesi vennero
col tempo abbandonate. Tale studio avrebbe inoltre l'incomparabile merito di
farci comprendere la funzione esatta della scienza nello sviluppo globale della
conoscenza umana: « È il mezzo migliore per dare, a quelli che studiano la fisica,
un'idea giusta e una visione chiara dell'organizzazione così complessa e così viva
di questa scienza. »
Per quanto significative possano apparirci le ricerche storico-critiche di Milhaud e di Duhem, è tuttavia nostro parere che assai maggiore sia l'importanza
spettante alle concezioni di filosofia della scienza ideate da Poincaré, e ciò tanto
per il loro intrinseco valore, quanto per i loro stessi limiti (che eserciteranno un
peso notevole sopra il successivo sviluppo delle indagini epistemologiche in
Francia). Riteniamo quindi doveroso soffermarci alquanto più diffusamente su di
esse, valendoci all'uopo delle tre opere fondamentali in cui risultano esposte:
La science et 1'0'pothèse (La scienza e l'ipotesi, 1902), La valeur de la science (Il valore
della scienza, 1904), Science et méthode (Scienza e metodo, 19o8). Questo esame ci sembra tanto più necessario, in quanto sul pensiero filosofico di Poincaré si sono da
tempo creati grossi equivoci, come risulta dalla stessa denominazione (di « convenzionalismo») con cui tale pensiero suole venire indicato.
La sottile e precisa analisi della struttura delle scienze, compiuta dal grande
matematico, lo conduce alla conclusione che tale struttura presenta caratteri nettamente distinti per l'aritmetica, la geometria e la fisica.
L'aritmetica ha senza dubbio - come tutti riconoscono - la struttura di
sistema rigorosamente deduttivo, ma i fondamenti sui quali essa si regge non posseggono, secondo il nostro autore, né un carattere puramente logico né un carattere puramente convenzionale. Il più importante assioma di questa scienza cioè il cosiddetto « assioma di induzione completa » o « regola del ragionamento
per ricorrenza » - non ha infatti un carattere puramente logico, essendo irriducibile al principio di non contraddizione in quanto « contiene, condensati per così
dire in un'unica formula, un'infinità di sillogismi »; e, d'altra p~rte, non ha neppure un carattere meramente convenzionale, non potendo venire sostitùito (come
accade per qualsiasi convenzione) da assiomi diversi da esso. Né infine sarebbe
possibile ricavarlo dall'esperienza, poiché riguarda un'infinità di elementi (cioè la
serie illimitata dei numeri naturali), infinità che sfugge per principio ad ogni osservazione. Poincaré ne conclude che l'assioma in questione è l'unico principio
scientifico che possa « insegnarci qualcosa di nuovo », qualcosa cioè che non proviene dall'esperienza e che ciomalgrado arricchisce in modo effettivo la nostra
conoscenza (non limitandosi a esplicitare nozioni già da noi possedute, come fanno
le argomentazioni puramente logiche). Esso soddisfa dunque alle condizioni enunciate da Kant perché una scienza risulti autenticamente tale: « È il vero tipo di
giudizio sintetico a priori. »
Anche se il nostro autore non discute a fondo i suoi rapporti con il criti182
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Positivismo e antipositivismo in Francia
cismo kantiano, basta quanto ora detto par farci escludere che egli possa venire
catalogato come « convenzionalista».
Completamente diversa è - sempre secondo Poincaré - la situazione della
geometria. Anche questa ha senza dubbio, come l'aritmetica, una struttura eminentemente deduttiva; possiede però un carattere del tutto nuovo, in quanto nessuno dei suoi assiomi è dotato di quella intrinseca necessità che riscontrammo nel
principio di induzione. In altre parole: tali assiomi sono mere convenzioni (a
proposito della geometria potremo dunque dire che la posizione sostenuta dal
nostro autore è certamente e apertamente convenzionalistica).
Poincaré non ha difficoltà ad ammettere che queste convenzioni siano suggerite dall'esperienza; aggiunge subito, però, che si tratta di un suggerimento soltanto indiretto, in quanto la geometria non pretende affatto di parlare intorno ai
corpi naturali, limitandosi a studiare le proprietà di « certi solidi ideali, assolutamente invarianti » che sono immagini estremamente semplificate dei solidi di fatto
percepiti dai nostri sensi. Malgrado la tenuità del rapporto esistente fra i solidi
geometrici e quelli naturali, esso sarebbe tuttavia sufficiente a far sì che la geometria risulti utilizzabile nella descrizione dell'esperienza, ove si stabilisca (e qui
di nuovo interviene un atto convenzionale) di ragionare sui corpi naturali «come se fossero situati nello spazio geometrico ». Il carattere indiretto del suggerimento testé accennato escluderebbe, comunque, che l'esperienza possa mai entrare
in contraddizione con i postulati in esame, onde l'inutilità di rivolgersi ad essa
per trovare argomenti pro o contro l'accettazione del famoso postulato euclideo
delle parallele. Il posto di favore che noi siamo soliti attribuire alla geometria
di Euclide non dipende dal fatto che essa sia «vera» (mentre le altre sarebbero
«false»), ma solo dal fatto che è «la più semplice» e perciò «la più comoda»
fra tutte le geometrie possibili.
Ancora maggiore è la differenza che il nostro autore ritiene di scorgere fra
le due scienze anzidette e la fisica. Questa possiede, secondo lui, un legame incontrovertibile con l'esperienza, poiché contiene leggi direttamente ricavate dai
fatti e proprio perciò sempre soggette a revisione (potendo i fatti venire osservati
con strumenti via via più precisi). L'esperienza però non ci impone il linguaggio
in cui esprimere tali fatti: questo sarà creato da noi e, per risultare sufficientemente ricco e preciso, non potrà essere altro che il linguaggio matematico:
«Tutte le leggi sono ricavate dai fatti; ma per enunciarli è necessaria una lingua
speciale; il linguaggio ordinario è troppo povero, e d'altra parte troppo vago,
per esprimere dei rapporti così delicati, così ricchi e precisi... le matematiche ci
forniscono il solo linguaggio che il fisico possa parlare. »
La fisica che Poincaré analizza è dunque essenzialmente una fisica-matematica. Le teorie in cui essa si articola faranno capo, dal punto di vista logico, a
principi generalissimi che possono venire formulati soltanto sulla base di analogie;
ed è, ancora una volta, esclusivamente la matematica che, secondo il nostro autore,
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può guidarci a cogliere le analogie« autentiche, profonde» esistenti fra i fenomeni.
Proprio per questa loro origine i principi in questione non potranno mai venire
contraddetti direttamente dall'esperienza; potrà accadere tuttavia che ci troviamo
costretti ad abbandonarli o a modifica:rli :radicalmente, se l'esperienza ci mostrerà
che hanno cessato di essere fecondi.
È manifesto, in questa concezione, il tentativo di Poinca:ré di :riuscire a conciliare due aspetti antitetici, secondo lui, simultaneamente presenti nella fisica: uno
soggettivo e convenzionale, l'altro oggettivo di origine empirica. Ma il suo tentativo non si limita qui; esso investe la stessa nozione di «fatto».
Significativa è, a questo proposito, la posizione che egli assume di fronte
alla distinzione- proposta dall'epistemologo be:rgsoniano Edoua:rd Le Roytra «fatto bruto» e «fatto scientifico», il primo dei quali sarebbe dato dall'esperienza, mentre il secondo sarebbe creato dallo scienziato. Poinca:ré non ha difficoltà a :riconoscere la differenza fra i due, ma non ammette che fra essi esista una
frontiera « esatta e precisa » come afferma Le Roy e che il fatto bruto « non essendo scientifico, sia al di fuori della scienza». In :realtà il fatto scientifico non è che
il fatto bruto «tradotto in un altro linguaggio», più comodo e più esatto; non
si può pertanto sostenere che esso sia « creato » dallo scienziato: tutto ciò che
questi crea è esclusivamente « il linguaggio in cui lo enuncia».
Qui la distinzione tra esperienza e linguaggio è ancora una volta utilizzata dal
nostro autore per conciliare l'oggettività e la soggettività della scienza. Sarebbe
certo possibile sollevare molte obiezioni contro questo tipo di conciliazione; non
si può comunque negare che essa :riveli un'esigenza molto seria: esigenza profondamente sentita da Poinca:ré come da tutti gli scienziati militanti della sua epoca,
che per un lato erano ben consapevoli di non poter più mantenere in vita la
vecchia interpretazione dogmatica delle teorie scientifiche come rispecchiamento
fedele della :realtà, per un altro lato si :rendevano chiaramente conto del pericolo
di giungere- attraverso questo abbandono- ad un'interpretazione me:ramente
soggettivistica dell'intera scienza.
Taluni storici hanno creduto di poter :rilevare una certa differenza di impostazione tra la prima delle tre opere epistemologiche poco sopra citate di Poinca:ré
(La scienza e l'ipotesi) e le due successive: più orientata in senso convenzionalistico
la prima, e più preoccupate le altre di salvare l'oggettività del sapere scientifico.
A nostro parere questa differenza in :realtà non sussiste, come sarebbe facile dimostrare riferendo le numerose dichiarazioni, contenute nel volume del 1902.,
contro ogni tentativo di confondere la convenzionalità e l'arbitrarietà, o di sfruttare lo spirito critico acquisito dall'epistemologia moderna per sostenere la tesi
del « fallimento della scienza ». V ero è, invece, che lo stile :risulta alquanto mutato (in ispecie nell'opera Il valore della scienza) per un motivo personale ben comprensibile: perché Poincaré ha dovuto constatare, con vivo disappunto, che molte
argomentazioni da lui svolte nel volume precedente erano state utilizzate dagli
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spiritualisti ad uno scopo pressoché antitetico a quello che le llVeva ispirate.
La polemica contro il bergsoniano Le Roy già poco sopra ricordato è, non
solo molto significativa da questo punto di vista, ma profondamente illuminante
su tutto il pensiero di Poincaré. Da essa risulta infatti evidente che il grande matematico si rende ben conto del vero fine a cui l'avversario vuol giungere: la
lotta contro l'intellettualismo e, di conseguenza, la svalutazione di tutta la scienza.
« Se egli (Le Roy) considera l'intelletto come irrimediabilmente impotente, non
è che per concedere il più largo spazio ad altre sorgenti del conoscere, al cuore,
per esempio, al sentimento, all'istinto o alla fede.» È una tesi su cui lo scienziato
Poincaré non può assolutamente trovarsi d'accordo; essa comporterebbe la negazione di tutte le conquiste più belle dell'umanità, di ciò che, solo, rende la vita
umana degna di essere vissuta; e rinchiuderebbe il processo conoscitivo nell'animo del singolo, escludendo da esso quella collaborazione fra individui diversi, che
costituisce un fattore essenziale del lavoro scientifico, e che anzi, è la condizione
sine qua non del progresso del sapere. « Il fatto è che la filosofia antiintellettualistica, rifiutando l'analisi e il " discorso ", si condanna per ciò stesso ad essere
non trasmissibile, risulta una filosofia essenzialmente interna, o per lo meno ciò che
può esserne trasmesso sono soltanto le negazioni; come stupirsi allora che per un
osservatore esterno essa assuma l'aspetto dello scetticismo? Qui sta il punto debole di questa filosofia; se vuole restare fedele a se stessa, esaurisce la propria
forza in una negazione e in un grido di entusiasmo. Ogni autore può ripetere
questa negazione e questo grido, variarne la forma, ma senza aggiungervi nulla. »
Malgrado il vigore delle argomentazioni testé accennate, la battaglia di Poincaré contro la filosofia antiintellettualistica non ebbe esito favorevole. Le ragioni
della sua sconfitta furono principalmente due: per un lato la situazione della
borghesia francese (su cui torneremo nel prossimo paragrafo) che vedeva nell'irrazionalismo una facile evasione ai gravi problemi del momento, per un altro lato
i non pochi equivoci che si annidavano nello stesso pensiero del nostro autore.
Essi vanno dal mancato riconoscimento dei meriti storici del positivismo (errore
tanto più grave se si pensa che tutta la critica della scienza della fine dell'Ottocento non era altro, in ultima istanza, che uno sviluppo moderno dell'originario
programma di Comte), alle frequenti concessioni verbali alla filosofia «di moda»
(come ad esempio le affermazioni circa « la potenza creatrice dello spirito » o
circa l'esistenza di qualcosa che non sia pensiero, «il pensiero non è che un lampo
in mezzo a una lunga notte, ma è un lampo che è tutto »); dal sistematico ricorso
ad argomentazioni di mero tipo psicologico, che portano non di rado il nostro
autore a fare riferimento a ricordi personali per descrivere « la libera iniziativa del
matematico » nel momento più significativo dell'invenzione, all'uso inconttollato
di termini che egli trasferisce pari pari dal campo della psicologia a quello dell'epistemologia senza compiere alcuno sforzo per dar loro un senso preciso e rigoroso (si pensi ai termini « semplicità», « comodità», e simili); dal rifiuto del-
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l'incontestabile valore spettante all'assiomatizzazione (a proposito delle teorie fisiche come a proposito della teoria del caso), alla caparbia incomprensione di
quanto vi era di originale e di fecondo nelle nuove ricerche di logica simbolica.
Soprattutto grave fu quest'ultimo punto, che finì per esercitare un'influenza
negativa sull'orientamento generale dell'epistemologia francese, impedendole di
raggiungere il livello di rigore formale che caratterizzerà le analoghe ricerche
svolte pressoché nella medesima epoca in Germania e in Inghilterra. È un carattere che oggi ci fa sentire irrimediabilmente invecchiate molte pagine di Poincaré,
malgrado lo straordinario acume del loro autore; e che talvolta sembrano quasi
avvicinarle - a torto - agli scritti di alcuni filosofi spiritualisti, molto brillanti
da un punto di vista retorico ma incapaci di accrescere sul serio la nostra consapevolezza intorno alla reale struttura del sapere scientifico.
VI
·
BERGSON
Henri Bergson (1859-1941) è universalmente considerato il maggior filosofo
francese della prima metà del xx secolo. Il suo pensiero suole venire qualificato
come spiritualista, sebbene alcuni interpreti vogliano piuttosto scorgervi una specie di naturalismo; il fatto è che egli - come del resto molti spiritualisti della
generazione a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento- fu tutt'altro che insensibile ai grandi progressi conseguiti dalle scienze dell'epoca e ritenne per così dire
necessario far scaturire la propria concezione filosofica da un preliminare esame
critico delle cosiddette « verità » scientifiche. Se pertanto è innegabile che si ricollegò sotto parecchi aspetti al vero e proprio spiritualismo di Ravaisson, bisogna peraltro riconoscere che intese pure presentarsi come continuatore di Boutroux e in un certo senso degli stessi epistemologi. Anche se negli anni giovanili
aveva coltivato in modo particolare gli studi di matematica e di meccanica, si
interessò poi soprattutto di argomenti biologici subendo in modo evidente l'influenza dell'evoluzionismo.
Le sue opere principali sono: Essai sur /es données immédiates de la cosciente
(Saggio sui dati immediati della coscienza, 1889), Matière et mémoire (Materia e memoria,
1896), Le rire (Il riso, 1899), L'évolution créatrice (L'evoluzione creatrice, 1907), Les
deux sources de la morale et de la religion (Le due sorgenti della morale e della religione,
1932). Le tematiche in esse affrontate rivelano un certo sviluppo, incentrandosi
la prima opera sulla contrapposizione fra tempo e spazio, mentre la seconda si
impernia sul problema della materia e tenta, con riferimento a un esempio concreto (quello della memoria), di indicare una via- che verrà poi ulteriormente
approfondita - per superare il dualismo metafisica tra materia e spirito. Il volumetto sul riso fa parte per se stesso, risultando essenzialmente diretto a cogliere
l'essenza dell'arte attraverso l'analisi delle sue differenze dal «comico». L'evoluzione creatrice è lo scritto più sistematico, che si propone di delineare una conce186
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Positivismo e antipositivismo in Francia
zione generale dell'universo: concezione che si basa su un tipo di evoluzionismo
apertamente contrapposto a quello di Spencer. L'ultima importante opera affronta,
infine, i problemi etici e religiosi alla luce delle idee elaborate negli scritti precedenti. Nel I922 Bergson sentì pure la necessità di sottoporre a un esame critico la teoria einsteiniana della relatività - nel volume Durée et simultanéité
(Durata e simultaneità) - sollevando contro di essa alcune obiezioni. cui verrà
fatto un breve cenno nel capitolo xn del volume settimo.
Non intendiamo qui fermarci analiticamente sul contenuto dei vari scritti
testé elencati; ci sembra infatti inutile- dal punto di vista della presente trattazione - prendere in esame le singole teorie (via via ideate dal nostro autore)
che hanno perso da tempo gran parte del loro valore. La cosa essenziale è per noi
'un'altra: e cioè riuscire a dare un'idea di che cosa Bergson rappresentò per la
cultura ufficiale francese; della forte impronta che vi segnò (ancora oggi rintracciabile in molti esistenzialisti); della svolta in senso anticartesiano e antiscientifico
che impresse a gran parte della filosofia da lui influenzata.
Quanto alla sua vita, basti ricordare che insegnò al Collège de France dal I 900
al I 92 I ottenendo uno straordinario successo, sì da diventare il « filosofo di moda». Impersonò così bene le esigenze della borghesia francese dell'epoca e i suoi
gusti, le sue ansie e le sue aspirazioni, che sarebbe impossibile comprenderne la
fortuna senza fare diretto riferimento al tipo dei suoi uditori e lettori. Nel I928 gli
venne assegnato il premio Nobel per la letteratura. Di origine israelitica, aveva
abbandonato nella giovinezza ogni religione positiva; più tardi si avvicinò gradualmente al cattolicesimo (anche se i più stretti difensori del dogma cattolico
negarono la serietà dei presunti rapporti fra la concezione teistica ortodossa del
mondo e quella bergsoniana). Si fermò tuttavia prima di compiere l'ultimo passo
della conversione ufficiale, temendo che ciò avrebbe potuto venire interpretato
come un atto di debolezza di fronte alla campagna antisemitica che si stava diffondendo in Europa. Si spense a Parigi mentre la città era occupata dalle truppe
naziste.
Uno dei punti essenziali di tutto il pensiero di Bergson consiste nell'esaltazione della coscienza interiore, capace, secondo lui, di rivelarci un « reale » originario che l'esperienza ordinaria e in particolare quella scientifica non arri verebbero a conoscere. Questa bipolarità fra coscienza interiore ed esperienza esteriore si andrà accentuando nelle opere della maturità fino a trasformarsi in vera e
propria contrapposizione tra una facoltà intuitiva (profonda) e il mero intelletto
(destinato a rimanere alla superficie delle cose); essa tuttavia è già presente- come
vedremo meglio in seguito - nei suoi primi scritti e pone in luce il compito
essenziale che Bergson sempre si prefisse: quello di delineare una nuova forma di
spiritualismo che, riconoscendo la funzione indispensabile - ma su piani assolutamente diversi e inconfondibili - sia dell'interiorità sia dell'esteriorità, risultasse gradita ad una borghesia la quale non poteva certo rinunciare ai grandi ri-
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sultati della scienza moderna ma nel contempo voleva evitare nel modo ptu
assoluto che se ne traessero spunti per una concezione materialistica del mondo.
Il problema, che ha dato modo a Bergson di approfondire la bipolarità del
nostro essere è quello del tempo, affrontato, come sappiamo, fin dal primo saggio
del I 889. Per la meccanica, esso è puramente una serie di istanti che si susseguono
in un ben determinato ordine rettilineo: passato, presente e futuro; per la realtà
della coscienza, il tempo è invece qualcosa di irriducibile all'istante, è « durata »,
è un flusso continuo i cui successivi momenti si compenetrano a vicenda, senza
poter venire separati l'uno dall'altro. La concezione del tempo di cui fa uso la
meccanica è senza dubbio fornita - anche secondo Bergson - di un certo
grado di verità; esteriorizzando il tempo, tale disciplina riesce infatti a ottenere
innegabili successi pratici, a portare un'effettiva chiarificazione nell'analisi dei
fenomeni concernenti il mondo inorganico. Essa cela però un gravissimo equivoco: quello di confondere il tempo con lo spazio, di considerare gli istanti come
qualcosa di statico (quali sono i punti spaziali), di non comprendere che ogni
istante porta al di là di se stesso, ci conduce quindi a svisare con ciò stesso alcuni
dati fondamentali della nostra effettiva percezione: quei dati su cui si fonda la
peculiarità della durata. Di qui l'inadeguatezza della meccanica, e in genere della
fisica, a spiegare i fenomeni del mondo organico, a cogliere il profondo divenire
della vita. Questo si sottrae per principio a ogni trattazione matematica e di conseguenza alla categoria della causalità unicamente valida per il mondo dell'estensione e dell'immobilità.
La tenace, costante polemica di Bergson contro il determinismo in genere,
e in particolare contro il determinismo della psicologia associazionistica, trova
proprio la sua radice nella contrapposizione testé accennata fra il tempo (inteso
come durata) e lo spazio. « In quanto gli oggetti non portano il segno del tempo
trascorso », e cioè esistono in un tempo spazializzato in cui tutti gli istanti sono
eguali, «l'analisi di essi può metterei in presenza di condizioni elementari identiche » e può pertanto farceli inserire in un quadro deterministico. Ciò non può
invece accadere per la coscienza che serba le tracce della propria durata: «Non
potendosi per essa presentare uno stesso momento due volte, non si potrà mai
per i fatti di coscienza parlare di condizioni identiche. » Il nostro autore ne conclude che l'anima è libera, in quanto i suoi atti sono imprevedibili. Proprio perché
è immersa nel perenne fluire della durata, i suoi atti sono sempre la creazione di
qualcosa di nuovo, di irriducibile agli stati antecedenti, di essenzialmente originale. E neanche si può dire che l'anima sia la causa di questi atti, giacché non è
una sostanza separata da essi, ma vive e si costituisce unicamente in essi.
Nell'Evoluzione creatrice Bergson accuserà l'evoluzionismo di Spencer di essere
meccanicistico, e perciò di non riuscire a spiegarci il vero senso dell'evoluzione.
Questo può venire colto soltanto da chi comprenda che l'universo si evolve in
quanto il suo esistere è un progredire nella durata, e che appunto nella durata si
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esprime il vero e proprio « slancio vitale », cioè una forza che agisce al di fuori
di ogni schema deterministico. Tale forza sarebbe il nocciolo più profondo della
realtà: presente nella vita dell'uomo come in quella della natura, sia pure in forme
diverse, dando luogo - nel primo - a un unico tipo di vita, e invece - nella
seconda - a una vita che si suddivide in innumerevoli tipi diversi (biforcandosi
anzitutto in vita animale e vegetale).
Merita di venire notato che l'opposizione di Bergson al meccanicismo non
lo portò affatto a difendere il finalismo: anche questo, infatti, si lascerebbe sfuggire l'essenzialità del tempo; esso non sarebbe altro che un meccanicismo rovesciato, in cui tutto risulta determinato da qualcosa che esiste al di fuori del
tempo (il fine futuro anziché la causa passata). Lo slancio vitale sarebbe invece
spontaneità che fuoriesce da ogni schema, e che perciò è perennemente creatrice:
«Il cammino da percorrere si crea a mano a mano che l'atto lo percorre.»
Nel volume Materia e memoria il nostro autore compie uno sforzo notevole
per analizzare in concreto, con ricchezza di particolari, i rapporti fra l'attività
cerebrale e l'attività della coscienza; in questa analisi, giustamente famosa, viene
attribuita un'importanza di primo piano alla percezione, considerata come atto
di inserzione dell'immagine del nostro corpo nel sistema delle immagini costituenti il mondo. L'esame è condotto con diretto riferimento alle scoperte compiute in quegli anni dalla psico-fisiologia, sia pure per contestarne le conclusioni
e dimostrare (contro ogni forma di materialismo) che «in una coscienza c'è
infinitamente di più che nel cervello corrispondente ». Il medesimo problema della
materia verrà ripreso nell'Evoluzione creatrice, ma - fatto estremamente significativo - con un'impostazione del tutto diversa, cioè con quella medesima ampiezza e vaghezza che già rilevammo a proposito dello «slancio vitale». Ed infatti, come questo viene ad assumere (secondo quanto abbiamo poco sopra ricordato) il carattere di forza cosmica, così anche la materia diventa un principio altrettanto generale, seppure in certo senso interno al precedente: diventa la materiaspazialità contrapposto allo slancio vitale-durata, principio - quello - di divisione e di contrasto, e questo, invece, di unità e di armonia. Siamo, come ognun
vede, in piena metafisica; cioè in un tipo di trattazione puramente immaginativa,
al di là di ogni possibile controllo sulla base dei risultati della scienza. Forte del
largo consenso ottenuto dall'analisi della bipolarità spazio-tempo compiuta nel
Saggio del I 889, Bergson si sente ormai autorizzato a scorgere ovunque rapporti
bipolari ed a cercare proprio in essi la spiegazione di ogni problema della filosofia.
Qui ci interessa in particolare la bipolarità - analizzata nell' Et;oluzione creatrice - fra istinto e intelletto, che pur essendo nettamente diversi, non sarebbero
mai, secondo il nostro autore, totalmente separabili fra loro.
L'istinto, presente negli animali come nell'uomo, è la facoltà di usare strumenti naturali (nel senso di «non creati artificialmente») e, in quanto tale, si
trova in diretto contatto con le cose: precisamente con le cose cui gli anzidetti
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strumenti sono per natura preordinati. La sua azione è spontanea, quasi incosciente, tale però da condurci a cogliere le cose dal di dentro, senza lasciare che ci fermiamo ai loro rapporti estrinseci.
L'intelletto invece è una facoltà prevalentemente sviluppata nell'uomo, intesa a fornirgli strumenti artificiali, capaci di accrescere la sua potenza difensiva
contro altri uomini e contro le forze avverse della natura. Per costruire siffatti
strumenti, l'intelletto è costretto a rivolgersi non direttamente alle cose ma ai
loro rapporti, perché nell'ipotesi che questi restino costanti, potrà ricavarne preziosi suggerimenti onde affrontare con efficacia le situazioni che di volta in volta
troverà di fronte a sé. Di qui il ricorso all'astrazione che fissa i caratteri fluenti
della realtà in concetti chiari e precisi i quali, se pur si lasciano sfuggire l 'unità
del reale, hanno però il vantaggio di risultare esattamente individuati e non mutevoli. Essi saranno i pezzi, ben solidi, con cui la scienza fabbricherà le proprie
rappresentazioni del mondo: rappresentazioni che si riveleranno senza dubbio
utilissime ai fini pratici ma prive, per il modo stesso con cui vennero costruite,
di un contatto immediato con la realtà interna degli oggetti.
È inutile sottolineare, tanto la cosa risulta evidente, che la caratterizzazione
testé delineata dell'intelletto, pur riconoscendone l'indubbia potenza, tende in
realtà a presentarlo come un'attività di secondo piano incapace di penetrare l'intimo essere dell'universo: inferiore, sotto un certo aspetto, allo stesso istinto che
ci porta a guardare dentro alle cose simp~tizzando con esse.
La vera facoltà conoscitiva non è comunque riducibile, secondo Bergson, né
all'una né all'altra delle due attività finora prese in esame, ma proviene dalla loro
fusione; o, per essere più precisi, costituisce uno sviluppo dell'istinto, allorché
questo riesca a raggiungere la consapevolezza di cui era privo e ad acquistare un
carattere pienamente disinteressato. Compiuto questo passo, esso cesserà infatti
di essere mero istinto per diventare intuizione.
L'intuizione è, per il nostro autore, l'atto supremo con cui noi riusciamo ad
oltrepassare il campo dei concetti e delle leggi scientifiche, per spingerei - al di là
dei rapporti esterni fra le cose - al vero cuore della realtà.
Egli ritiene (confermando anche con ciò il carattere antiscientifico della propria filosofia) che una forma di intuizione sarebbe gia presente nell'arte, in quanto
essa penetra nell'anima delle cose infinitamente più a fondo di qualunque pur
minutissima descrizione scientifica, di qualunque riproduzione fotografica per
quanto precisa. L'intuizione estetica sarebbe però qualcosa di limitato a questa o
quella realtà particolare: il grado più alto, l'intuizione della vita in generale, sarà
presente solo nella metafisica.
Come organo supremo dell'uomo, l'intuizione è la base del vero sapere filosofico: anzi, di un'attività che non può nemmeno più venir chiamata «puro e
semplice sapere ». Essa ci guida infatti a un « filosofare » che non è un mero conoscere, ma un inserirei nel flusso della realtà; un immedesimarci col divenire del-
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l'universo, un partecipare allo sforzo creatore. Cosl intesa, la filosofia« è l'approfondimento del divenire in generale, è il vero evoluzionismo e, per conseguenza,
il vero prolungamento della scienza».
Bergson ritrova la bipolarità di cui abbiamo parlato anche nel mondo sociale.
Essa si esprime anzitutto, nella sfera etica, come distinzione tra morale dell'obbligo e morale assoluta: attuantesi la prima, nel rispetto statico delle leggi e delle
consuetudini che garantiscono la solidità del corpo sociale; e invece la seconda
nella vita del santo e dell'eroe che apre nuove vie al progresso morale. Nella
sfera religiosa, la bipolarità anzidetta si esprime come distinzione tra religione
statica e religione dinamica: la prima fondata sui miti e sui dogmi, la seconda sull'esperienza del divino, vissuta dal mistico.
Mentre nelle opere della giovinezza Bergson aveva dimostrato un'incontestabile penetrazione dei fenomeni particolari, in ispecie psichici e biologici, il suo
interesse si rivolge, nelle ultime, a concezioni generalissime, ove non è rimasto
pressoché più nulla del primitivo acume di fine e attento osservatore. L'aperta e
incontrollata esaltazione del misticismo religioso, del contatto diretto e immediato
dell'animo umano con l'assoluto costituisce- da questo punto di vista- un
fatto estremamente significativo.
A ben guardare le cose, le premesse di questa conclusione erano già contenute, però, nella stessa impostazione originaria delle sue indagini. Ed infatti
l'enorme importanza assegnata alla contrapposizione fra tempo (come durata) e
spazio celava in realtà il desiderio di abbattere il primato della ragione per assegnarlo a un tipo di conoscenza totalmente diverso da essa. Né si trattava, a rigore,
di combattere soltanto l'astrattezza dei concetti matematico-meccanici, ma di respingere in toto il metodo scientifico e soprattutto l'esigenza- in esso presentedi sottoporre a ininterrotti controlli, via via più precisi, ogni prova addotta a sostegno di questa o quella tesi, ogni categoria usata per esprimerla, ogni ipotesi
implicitamente o esplicitamente ammessa. Si trattava in altri termini di ridare vita
a un vecchio tipo di argomentazioni, essenzialmente retoriche, capaci di persuadere anziché di dimostrare, di suscitare passioni anziché ben precisi dibattiti logici, di offrire ai più difficili problemi soluzioni vaghe e nebulose, e proprio perciò
fornite di un'apparente definitività. Era il tipo di discorso più gradito alla classe
dirigente della Francia che amava cullarsi di illusioni, credendosi al centro della
cultura mondiale, senza affrontare con il dovuto rigore i veri problemi dell'epoca.
È ben comprensibile che una filosofia, partita dalle premesse testé accennate,
abbia trovato il proprio coronamento nell'esaltazione dell'intuizione come vertice
dell'attività umana: vertice che rivela apertamente il proprio carattere non conoscitivo, non razionale, in quanto dissolventesi nell'oscurità dell'atto mistico.
Il pensiero di Bergson, esposto in stile affascinante e suadente, ha certo incontrato una grande fortuna. E non v'ha dubbio che abbia fornito ai suoi seguaci
molte soddisfazioni emotive; certo è però che ha creato in loro le più forti diffi-
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Positivismo e antipositivismo in Francia
denze nei confronti della ragione e ha finito per costituire un comodo alibi per chi
desiderava sottrarsi alle diuturne estenuanti fatiche della ricerca, volta ad accrescere il patrimonio delle conoscenze effettive in tutti i campi del mondo naturale
e umano. Anziché essere una filosofia del movimento, della vita, del progresso,
il bergsonismo ha cosi rivelato la sua vera natura: di filosofia dell'evasione, della
protesta verbale, della fuga dalle più serie responsabilità.
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CAPITOLO OTTAVO
Positivismo cd hcgclismo in Italia
DI MARIO QUARANTA
I · CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
L'unificazione dell'Italia ha posto la classe politica dirigente di fronte a grandi
problemi economici e sociali. L'Italia era un paese ancora arretrato e con profonde
differenziazioni regionali. Il distacco tra il ristretto gruppo dirigente e le masse del
paese fu un dato permanente, anche perché l'obiettivo prioritario del risanamento
del bilancio dello stato e del pareggio venne raggiunto attraverso un prelievo
fiscale sulla tassazione indiretta e una serie di misure che colpivano i ceti meno
abbienti. In questo primo periodo venne dato un particolare impulso alla costruzione di opere pubbliche e di infrastrutture (con un impegno massiccio nel campo
ferroviario). L'industria era ancora poco sviluppata e il proletariato si trovò per
un lungo periodo diretto dagli anarchici, permanendo in uno stadio subalterno
(in quanto appunto non si poneva il problema del potere). Le forze culturali organizzate erano poche e impegnate, per un lungo periodo, nei problemi posti dal
compimento dell'unificazione (prioritaria la regolamentazione del rapporto fra
stato e chiesa).« Il periodo 1861-7o segna il progressivo consolidamento dell'egemonia centro-settentrionale e la costituzione di uno Stato al servizio degli interessi di questo gruppo borghese ... Questo decennio segna lo svuotamento dell'iniziativa rivoluzionaria della Sinistra... L'opposizione istituzionale abbandona
il terreno parlamentare, si chiarisce come opposizione sociale, confermando, con
lo spostamento a sinistra della sua base sociale, il consolidarsi dello Stato borghese, ormai sicuro della sua egemonia sui ceti medi, riconciliati con le istituzioni, con la monarchia » (Eugenio Curiel).
La cultura politica moderata non va oltre i miti tradizionalistici dell'umanesimo retorico e la cultura democratica rivela interne, profonde differenziazioni. Il
processo di integrazione del ceto intellettuale è abbastanza rapido, in ragione diretta con la necessità di difesa del blocco dominante dalle forze eversive. La
borghesia liberale, superate le resistenze feudali e della chiesa, l'ecupera, sul piano
di una legittimazione storica e ideologica, i valori religiosi, sia con il riconoscimento dell'esistenza di un sentimento religioso di tipo laico, sia con la giustificazione teorica dei contenuti trascendentistici della religione. Inoltre restituisce
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Positivismo ed hegelismo in Italia
validità e potere alla chiesa nella misura richiesta dalla necessità della stabilizzazione dell'ordine. I contrasti sociali in Italia si erano rivelati subito assai acuti:
di qui la necessità, propria di tutto il blocco borghese, di una revisione in senso
moderato di quel patrimonio illuministico che pur era stato il tessuto culturale
comune degli intellettuali meridionali e del nord Italia (sia attraverso la mediazione hegeliana, sia attraverso la tradizione italiana di Romagnosi e Cattaneo).
Avviene pertanto la teorizzazione di una concezione utilitaristica della religione,
ritenuta essenziale per la conservazione sociale.
La religione deve essere conservata perché le masse dei contadini e piccoloborghesi tradizionalisti rimangano devote al clero, la cui alleanza diventa indispensabile per il contenimento dell'incipiente socialismo. Su questo terreno avviene una sostanziale unificazione fra gli hegeliani di Napoli e i positivisti moderati del notd; solo ristretti e isolati gruppi di repubblicani tentano un'opera di
aperta critica alla gestione moderata della cultura, ma con scarsi esiti. Per
troppo tempo è stata fatta una netta separazione fra l'hegelismo napoletano e il
positivismo, collegati l'uno alla cultura della destra storica e l'altro alla« sinistra».
E u~a differenziazione che a un attento esame non regge. Gli intellettuali napoletani fanno il loro apprendistato politico nel Piemonte e qui saldano il loro liberalismo di origine culturale hegeliana, con la lotta politica portata avanti dai moderati piemontesi. Il loro recupero della tradizione illuministica (anche italiana)
è un dato di fatto che i recenti studi hanno messo in luce. D'altra parte l'esito
positivistico di quasi tutti gli hegeliani è un dato abbastanza rilevante.
Per questo riteniamo utile partire da un esame complessivo del positivismo
ed evidenziare poi il contributo che a questa comune matrice illuministica hanno
portato gli intellettuali di Napoli.
Il positivismo italiano è stato urt fenomeno culturale assai complesso, con una
differenziazione interna che ha risposto a precise esigenze di ordine politico-culturale e teoriche nell'ambito di quella unificazione culturale che la borghesia italiana si accinse a fare subito dopo l'unità d'Italia.
Il positivismo si afferma nel nostro paese tra il 1870 e il 1900, in una situazione che vede la borghesia moderata italiana su posizioni assai arretrate, ad esempio, rispetto a quella francese, che in questo periodo segna una nuova svolta antitradizionalistica, con la «Terza Repubblica ». Il pensiero di Comte, considerato
solitamente utile come termine comparativo, si afferma in Francia in un momento
di grande sviluppo sociale, culturale e scientifico. La filosofia di Comte rappresenta proprio il momento egemonico della borghesia finanziaria francese, politicamente moderata, ma che però ha dietro di sé la stabilizzazione napoleonica delle
conquiste irreversibili della rivoluzione giacobina. L'Italia ha invece appena concluso la sua unificazione politica, nei modi che abbiamo indicato.
Nell'ambito del tradizionalismo cattolico-liberale le posizioni positivistiche
straniere più avanzate vengono emarginate, assieme al filone illuministico 1om194
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Positivismo ed hegelismo in Italia
bardo (Cattaneo). I positivisti più coerenti si trovano nella duplice necessità
di affermare una cultura laica moderata, capace di sostituire lo spiritualismo dei
decenni precedenti (Rosmini, Gioberti) e di elevare una barriera: contro i motivi
idealistici che stavano diffondendosi nei centri hegeliani dell'Italia meridionale.
Il positivismo rappresenta questa cultura laica, radicale, che estende la sua
influenza anche fra gli intellettuali che hanno una funzione dirigente nel movimento operaio italiano. Lo stesso marxismo italiano si è configurato, nel suo filone
dominante, come una variante positivistica.
L'ideologia positivistica fu pertanto il tramite di un ruolo egemonico della
cultura laica, che si estese fino al movimento operaio socialista.
I motivi più validi sul piano teorico, sono stati la riaffermata necessità di collegare strettamente il sapere filosofico ai progressi metodologici della scienza, il
mantenimento di un ruolo autonomo della filosofia, la critica di tutti i tentativi
di ripresa della metafisica e della teologia, il rinnovamento degli studi antropologici, psicologici, giuridici e sociologici.
Anche questi motivi non sempre sono stati difesi da tutti i positivisti; basti
accennare al fatto che il pensatore positivista più fortunato in Italia è stato
Spencer, e questo fatto va messo in relazione alla funzione tradizionalistica, conservatrice, rappresentata dalla soluzione che Spencer offriva del rapporto scienza-religione, considerato non antitetico ma pienamente legittimato sul piano
teorico.
Dove il positivismo italiano trovò uno dei punti di maggior forza fu nel
campo scolastico, come si vedrà nel capitolo dedicato a questo argomento. Proprio in relazione ·ai suoi motivi più autentici, di promozione culturale, di promuovimento dell'elevazione sociale dei ceti popolari, condusse una grande campagna per la costituzione di una nuova scuola. Però il carattere moderato prima
rilevato, emerge anche nella battaglia per l'ammodernamento della scuola, nella
quale posizioni sostanzialmente conservatrici possono essere propagandate in
funzione riformatrice e assumere un ruolo avanzato, solo rispetto alla stagnazione propria della situazione italiana.
Anche l'hegelismo napoletano ha una matrice sociale non dissimile da quella
del positivismo, in quanto costituisce una variante culturale meridionale di quel
ceto intellettuale intermedio, che ha formato l'ossatura burocratico-amministrativa dell'Italia unita.
Gli hegeliani di Napoli non costituiscono un gruppo culturale omogeneo,
ma assai differenziato; la « lettura » di Hegel è stata fatta secondo diversi interessi teorici e culturali, pertanto è impossibile unificare sotto un'unica caratterizzazione un fenomeno culturale così variegato.
L'incontro e la conoscenza di Hegel avviene in un primo momento, attraverso traduzioni e riassunti francesi e solo tardi con la lettura diretta dei testi del
filosofo tedesco.
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Positivismo ed hegelismo in Italia
Il primo hegelismo napoletano, rappresentato da Domenico Mazzoni, Stefano Cusani, Giambattista Passerini, Stanislao Gatti, e dai primi scritti di Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa, utilizza Hegel più per un allargamento
della cultura personale, che per una necessità di revisione teorica della cultura
tradizionale, dal momento che passa largamente per la mediazione culturale operata da Vietar Cousin negli anni trenta.
Un diverso discorso deve essere fatto a proposito dell'hegelismo elaborato
da Spaventa e De Sanctis durante il forzato esilio e dopo, nel loro insegnamento
napoletano.
Nel decennio 185o-6o c'è un fluire di intellettuali meridionali nel Piemonte,
tra i più noti: De Sanctis, Spaventa, Salvatore Tommasi, Angelo Camillo De Meis,
Francesco Ferrara. Questi intellettuali hanno già consumato un'esperienza di lotta
politico-culturale contro l'oligarchia feudale borbonica e il loro richiamo a Hegel
ha avuto il significato della riaffermazione del liberalismo come rottura radicale
rispetto a una situazione esistente nel regno di Napoli.
In Piemonte questi intellettuali si trovano di fronte a una situazione caratterizzata dall'esistenza di un liberalismo moderato, in cui sono ancora forti gli
elementi della cultura feudale e clericale. Nel meridione illegittimismo borbonico
si era identificato con il cattolicesimo; di qui una radicalizzazione degli intellettuali liberali in senso laico e antichiesastico. Per questo la loro funzione in Piemonte è di avanguardia e di rottura rispetto all'equilibrio politico-culturale esistente. Gli intellettuali meridionali sono infatti i più accesi e convinti fautori di
una modernizzazione e laicizzazione della cultura e della scuola; il loro hegelismo
è proprio funzionale a questa battaglia, in cui evidenti sono i recuperi di istanze
illuministiche.
La soluzione monarchico-moderata è quella che si afferma, pur fra acuti contrasti, e molti di questi intellettuali, che in un primo momento a~evano sostenuto posizioni liberal-democratiche, prendono atto dello sbocco politico e in
questo contesto adeguano la loro posizione.
Assistiamo, dopo il sessanta e in particolare dopo il I 876, a « conversioni »
positivistiche o ad atteggiamenti positivisteggianti di gran parte degli hegeliani.
La motivazione di questo fenomeno ha più un'origine politico-culturale che teorica, proprio in relazione al progetto politico che sottese tutta la revisione filosofica degli hegeliani.
Un fatto assai significativo nella storia degli intellettuali è rappresentato dall'andata al potere della «sinistra». In questo momento avviene una emarginazione della destra cattolico-liberale dal blocco moderato, e gli intellettuali laici,
che erano stati fino allora emarginati o danneggiati, riprendono nuovo peso politico e culturale e si inseriscono nelle istituzioni politico-culturali del paese. Il
tramite di mediazione culturale della radicalizzazione laicistica, che si accentua
particolarmente in questo periodo, è rappresentato dal positivismo. Il nuovo
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Positivismo ed hegelismo in Italia
blocco politico-culturale, che ha nello sviluppo della massoneria uno strumento
efficace di elevazione e integrazione sociale di gran parte del personale burocratico
meridionale, emargina parte del personale moderato liberal-cattolico, che inizia
una lunga e violenta polemica contro il trasformismo degli « uomini nuovi ». Il
ceto intellettuale intermedio si attesta così sulle posizioni di equilibrio politico
raggiunto a livello nazionale e rappresentato sul piano culturale dal positivismo.
D'altra parte le esigenze immanentistiche e antidualistiche erano accolte dallo
stesso positivismo, con in più un'attenzione nuova verso l'affermarsi delle scienze
nell'ambito del sapere. Per sostenere questo ulteriore sforzo di aggiornamento
culturale e di rielaborazione teorica, gli hegeliani più attenti agli sviluppi della
cultura laica europea si sentono impreparati. Questa posizione è espressa con
lucidità e sofferta partecipazione da Spaventa in questi termini: « Noi che abbiamo visto tante mutazioni, tante fasi, tante nascite e morti, tanti trionfi e sconfitte (pars parva fui), proviamo un sentimento doloroso, portiamo dentro di noi
due mondi, il vecchio e il nuovo, il passato e il presente, e gran parte dell'attività nostra si spende e si consuma nel difficile lavoro di combinarli e conciliarli
insieme nell'unità dell'intendimento e del volere, ch'è la vita vera dello spirito.
Sino a tanti anni fa, è stato il regno dell'apriori, delle entità astratte, della metafisica; ora è cominciato quello dell'aposteriori, dell'entità concrete, del positivo,
del positivismo. È naturale che chi è stato suddito fedel~ e convinto del sovrano
spodestato non si trovi bene nella vita nuova, e che o non si raccapezzi più (lo
sconclusionato), o operi senza fede, senza coscienza (il Girella), o marcisca nell'isolamento o nell'impotenza (il filosofo fossile).»
Lo studio del positivismo rappresenta l'ultima testimonianza della loro capacità di prendere atto di un mutato clima intellettuale e di nuovi ptoblemi che si
impongono nella cultura nazionale più avanzata. Altri hegeliani, con in testa
Augusto V era, tenteranno di polemizzare aspramente contro il positivismo e contro tutte le innovazioni metodologiche e teoriche che la cultura positivistica più
valida e feconda produrrà, e questo sulla scorta di un'adesione a un hegelismo
platonizzante e edificante. La precisa individuazione dei limiti teorici dell'hegelismo napoletano e del positivismo, oltre che la consapevolezza della funzione culturale esercitata da queste due correnti, sarà chiarita da Antonio Labriola, in un
originale processo autocritico. Anche per qu.esto Labriola sopravanza le posizioni
raggiunte dalla cultura meridionale di fine Ottocento. La sua ricerca solo molto
tardi sarà rivalutata nella cultura italiana; egli rimase sostanzialmente un isolato sia
sul piano politico sia su quello culturale. Pe1: questo rinviamo l'esame del suo pensiero al volume successivo.
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II ·VITA E OPERE DI ARDIGÒ
Roberto Ardigò nacque a Casteldidone (Cremona) il 28 gennaio I 828. Il
padre, impoverito dopo un dissesto finanziario, si trasferl come custode di un
magazzino a Mantova nel 1836. Dopo aver condotto a termine il ginnasio nel
1845, poté proseguire gli studi in seminario solo per l'intervento di un'agiata
famiglia mantovana. Fu ordinato prete nel I 8 5I. Nel I 8 54 si reca, per poco tempo,
a Vienna, per seguire il corso di perfezionamento all'istituto di teologia sublime
Agostino da Ippona. Insegna nel ginnasio del seminario fino al I 867; nel I 866
si abilita all'insegnamento della filosofia e dal 1869 è titolare della cattedra di filosofia al liceo di Mantova.
L'ambiente culturale mantovano, in cui crebbe Ardigò, era di orientamento
spiccatamente cattolico-liberale ed è stato dominato a lungo dall'insegnamento
di Enrico Tazzoli, verso il quale si accanì l'azione persecutoria delle gerarchie
ecclesiastiche romane. Come è noto Tazzoli è stato sconsacrato alla vigilia della
sua esecuzione a Belfiore e poi tutti i professori del seminario vennero destituiti
di autorità perché il loro insegnamento era improntato all'indirizzo cattolicoliberale.
Ardigò il 17 marzo z869, in occasione della festa del suo liceo, legge un
discorso su Pietro Pomponazzi. In questo scritto esalta i tre momenti più importanti della vita politica e culturale della storia moderna: il rinascimento, la riforma
e la rivoluzione francese. Egli individua nella filosofia di Pomponazzi « l'indipendenza della ragione nella scienza, la natura da per tutto, nel mondo della materia e dello spirito, il concetto psicofisico dell'anima; ecco dunque i grandi insegnamenti che trovammo nel Pomponazzi ».
Quest'opera è importante perché è il primo contributo teorico di Ardigò e
segna la sua separazione dalle precedenti credenze religiose. Non è casuale che il
nostro autore abbia presentato Pomponazzi come punto di riferimento cultutale
e teorico. Quest'opera segna con precisione il disegno della speculazione ardigoiana insieme ai suoi limiti. Le posizioni teoriche qui espresse saranno poi ulteriormente elaborate ed arricchite, nia mai superate.
Questo scritto non ha importanza nella storiografia su Pomponazzi, è piuttosto il manifesto ideologico di Ardigò. Il problema dominante nella sua speculazione è e rimarrà quello gnoseologico; egli dichiara espressamente che il suo
distacco dalla fede religiosa è stato successivo alla chiarificazione di questo problema, del quale egli accetta la soluzione prospettata da Pomponazzi: · monistica e
immanentistica; questa conclusione costituirà la base di tutto il suo sistema filosofico. Egli tenta di collçgare queste conclusioni teoriche di carattere generale,
con i risultati più avanzati della scienza contemporanea. Il suo pre-galileismo gli
preclude però la possibilità di affrontare i problemi metodologici e filosofici
più vivi della cultura scientifica europea. Egli delimita sostanzialmente il suo cam-
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Positivismo ed hegelismo in Italia
po di indagine alla psicologia, che solo allora stava per avere una prima sistemazione scientifica.
Ardigò scrisse una Succinta narrazione della mia vita scientifica il 1 5 aprile
1877, in allegato alla domanda per il concorso al~a cattedra di storia della filosofia presso l'Istituto superiore di Firenze, in cui espresse in modo assai preciso lo sviluppo interno del suo pensiero e per questo è opportuno riportarlo ampiamente: « M.j sono occupato della Storia dell'Arte; massimamente dell'Architettura, per la quale ho sempre avuto una certa passione. E della Storia in genere. Soprattutto in quanto è la Storia del pensiero. Quindi della Storia delle
Letterature e delle Scienze. E più che d'ogni altra della Dogmatica Ecclesiastica,
e della Filosofia. Di quest'ultima in moltissimi libri; tra le quali opere grandi
di Ritter, Zeller, Kuno Fischer. E direttamente negli stessi scritti di Filosofi...
Platonico nel senso di S. Agostino e di Malebranche, per più anni, la riflessione
mia propria, promossa dalla insufficienza dei vecchi sistemi, dalle speculazioni
della scuola critica e realistica; e soprattutto dai progressi e dai risultati delle
scienze di osservazione, venne sempre più rinforzando le dubbiezze in me nate e
cresciute per tempo, circa i principi della filosofia tradizionale. Al dubbio un po'
alla volta sottentrò la persuasione della erroneità loro. Nel mentre che intanto
si andavano disegnando nella mia mente i tratti fondamentali di una dottrina
filosofica nuova, di indole analoga alle scienze positive, e con risultati collimanti
con quelli da esse ottenuti. Queste mie idee nuove chiarite e completate per lo
studio diretto da me intrapreso degli stessi fatti psicologici, coll'ajuto delle scienze
sperimentali e coll'operazione e lo sperimento mio stesso, finirono poi per sostituirsi affatto, nella mia· convinzione scientifica, alle precedenti; e costituiscono
ora la mia professione filosofica. »
Nella biografia di Ardigò tutti gli studiosi si sono soffermati in modo particolare sul suo passaggio al positivismo, dopo che il libro su Pomponazzi fu
messo all'indice e Ardigò sospeso a divinis.
Nei 1870 legge all'accademia virgiliana di Mantova La psicologia come
scienza positiva, in cui il suo pensiero trova una compiuta sistemazione; e nel
1871, dopo una presa di posizione contro l'infallibilità del papa, abbandona definitivamente l'abito ecclesiastico. Alcuni critici, fra cui Gentile, negano che Ardigò sia. mai stato cattolico ; altri al contrario vedono solo un passaggio da una
metafisica trascendentistica a una naturalistica. Ora è indubbio che Ardigò sia
stato un sincero credente e per più anni. Se integriamo le indicazioni date nella
lettera a monsignor Luigi Martini, nella Morale dei positivisti (1878) e nella Prefazione (r88r) letta all'università di Padova, con la Narrazione citata, emerge un
quadro preciso del sofferto travaglio intellettuale di Ardigò e della decisiva importanza assunta dallo studio delle scienze, come dice espressamente anche nell'articolo Guardando il rosso di una rosa del 1907 circa «l'avversione dei partigiani
arrabbiati del clericalismo politico, congiurati ai danni della scienza, della civiltà,
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Positivismo ed hegelismo in Italia
della patria». Che questa sia stata poi l'interpretazione corrente nel campo cattolico e liberale lo testimonia la lunga polemica che ne seguì.
Nel I 88 I il ministro della pubblica istruzione, Guido Baccelli, offrì ad Ardigò
il posto di insegnante straordinario di storia della filosofia all'università di Padova,
e fino al collocamento a riposo nel I 909 Ardigò insegnò presso questa università.
Con una ininterrotta operosità pubblicò nel I 877 La formazione naturale del
fatto del sistema solare, nel I89I Il Vero, dedicato «all'illustre Pasquale Villari ...
il quale col suo scritto La filosofia positiva e il metodo storico del I 866 giovò a fissare
definitivamente l'indirizzo scientifico dell'autore», nel I894 La ragione in cui tentò
di dimostrare che la ragione «non è altro che ciò, che, dell'organizzazione fattasi
negli apparati anatomico-fisiologici, viene a manifestarsi nella coscienza, la quale
poi ne rivela, come diciamo, solo una parte». Nel I898 pubblicò L'unità della coscienza che l'autore stesso riconobbe come il suo « testamento filosofico, che riassume con nuove applicazioni e nuovi sviluppi le dottrine esposte ed accennate in
tutti gli altri, e completa la trilogia, promessa nel I89I, del Vero, della Ragione
della Unità della coscienza». Durante i trent'anni del suo insegnamento padovano
mantenne sempre una coerente posizione politica. Liberale ( « del liberalismo risoluto, notorio, ardente e battagliero di tutta la mia vita, e fino dalla prima giovinezza, posso offrire prove positive a centinaia») ma antimassone («la Massonerià in
uno stato libero è un non senso: e a combattere l'oscurantismo è più efficace l'opera indefessa ed aperta di educazione e di elevazione civile che non l'opera tenebrosa e nascosta di una setta»), rifiutò di far parte della lista moderata nelle elezioni
comunali del I 8 84; fu consigliere comunale dal I 8 7 I al I 879 dove si caratterizzò
per un vivo interessamento ai problemi della sua città. Collaborò alla « Rivista
repubblicana» di Arcangelo Ghisleri e di Alberto Mario e sostenne sempre, con
polemico vigore, aspri scontri giornalistici con i clericali.
Sul finire del secolo, polemizzò contro l'insorgente irrazionalismo, in patticolare contro «la brillante ed evanescente filosofia bergsoniana ... (che) è più che
altro una specie di irrazionalismo, che può dar causa a nuove forme di nietzschianismo
e imperialismo sociale antitetici all'etica e alla idealità del socialismo». Tentò di
dimostrare negli ultimi due suoi scritti che l'idealismo era una negazione della
scienza,, cioè della cultura europea più avanzata, ma questo lo riportava ad una rielaborazione di tipo panteistico-religioso della sua concezione della filosofia della
natura. In una direzione cioè in cui più facile era la critica degli idealisti e degli
scienziati. Ardigò morì a Padova il 15 settembre I92o, suicida.
Nelle sue opere e nel suo insegnamento Ardigò rivela una preparazione
culturale e filosofica di prim'ordine. Egli conosce le opere filosofiche dei classici
e dei moderni oltre che le ricerche scientifiche (fisiche, chimiche e psicologiche)
più importanti del tempo. Ha studiato gli scritti di Darwin, Bain, Mill, Taine,
Littré, Fechner, Wundt, James, Mach, Avenarius, per citarne solo alcuni facilmente controllabili.
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Positivismo ed hegelismo in Italia
Lesse sempre « La revue cles cours scientifiques », la rivista che assolse una
funzione di aggiornamento e informazione superiore forse alla « Scientia » di
Federigo Enriques e di Eugenio Rignano. Infine la padronanza dell'inglese, francese, tedesco oltre che del latino e greco, gli ha permesso di conoscere direttamente
le opere scientifiche e filosofiche dei classici e dei contemporanei, in un periodo
in cui i più dovevano ricorrere a traduzioni poco attendibili, ragguagli o riassunti.
III · IL PENSIERO DI ROBERTO ARDIGÒ
a) Psicologia
Ardigò assegna il primato alla psicologia, che egli intende portare a livello
scientifico (positivo). Questa sua posizione non è conseguente al suo studio
delle scienze, ma all'impostazione iniziale del problema della conoscenza, centrale
in tutta la speculazione del nostro autore.
La psicologia come scienza positiva, stampata nel I 87o, ha svolto un ruolo importante nella cultura italiana perché ha definitivamente screditato le psicologié
spiritualistiche e metafisiche allora ancora dominanti (Rosmini, Mamiani).
In quest'opera sono presenti istanze scientifiche che assumeranno un rilievo
fondamentale nelle mccessive ricerche degli psicologi, come la necessità di usare
strumenti scientifici e indagini statistiche. Già nel I 876 Ardigò propose la costituzione di un« gabinetto filosofico» al liceo di Mantova, e all'università di Padova
fece pervenire da Lipsia degli strumenti per le indagini di psicologia.
Per Ardigò la sensazione è l'oggetto primo dell'indagine psicologica e la
percezione rappresenta uno stadio successivo e assai complesso perché implica
«l'impressione dell'oggetto esterno sull'organo del senso ... i dati associativi integranti le sensazioni ... l'esperimento attuale che cimenta la verità dell'atto rappresentativo ... e quindi dà luogo al giudizio contenuto nella percezione ». La
formazione delle idee si configura come un processo di integrazione delle percezioni. Le idee, la rete di concetti che formano le sistemazioni scientifiche hanno una
validità provvisoria, variabile, perché l'osservazione più rigorosa del fatto può
rendere necessaria una diversa sistemazione concettuale: « Insomma è sempre il
fatto il punto di partenza. E questo è al tutto certo ed irreformabile. Dove invece
il principio è un punto di arrivo, che può anche essere abbandonato, corretto,
oltrepassato. »
Qual è lo strumento conoscitivo che ci garantisce la validità di questa posizione? Per Ardigò è la legge dell'indistinto. Il pensiero procede costitutivamente per
distinzioni, onde da un indistinto si passa a un distinto, che è a sua volta un indistinto rispetto a una successiva distinzione. Questa legge è del pensiero, ma anche della realtà perché è precedente alla caratterizzazione di soggetto e oggetto
in cui solitamente si configura il rapporto conoscitivo. La giustificazione di questa
legge è data dalla sua stessa capacità conoscitiva sia della natura che dell'uomo:
20I
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« Tale indistinto non si può spiegare perché la spiegazione è una distinzione, e
questa, in quanto tale, è la negazione dell'indistinto; ma però si può pensare e si
pensa realmente, anzi è la condizione sottintesa dei pensieri determinanti. »
Su questo aspetto della sistemazione teorica di Ardigò si sono appuntate le
critiche e le riserve più tenaci ed è indubbio che questo punto è fondamentale nella
filosofia ardigoiana perché l'indistinto è l'elemento portante di tutta la gnoseologia. Alle richieste di spiegare quale sia l'origine di questa legge, Ardigò ha
risposto o polemizzando e in modo efficace con le posizioni di altri positivisti
(Spencer e Comte) o tentando di dimostrare l'insussistenza del problema stesso
nell'ambito della psicologia positiva. L'indistinto non è né una realtà antologica,
né un inconoscibile (Spencer), ma un ignoto, cioè una realtà non ancora conosciuta
ma non inconoscibile per principio. La nostra conoscenza è sempre relativa, però
« la cognizione empirica nostra per quanto imperfetta, è ciò nulla astante più
certa della vecchia met~sica ». La relatività della nostra conoscenza non è determinata da un rapporto fra il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto, ma fra una
serie di atti progressivamente coscienti. Il processo conoscitivo investe tutta la
realtà, che però non può essere conosciuta in un unico, mistico atto, ma progressivamente. In questo processo naturale-psicologico l'unità e la continuità della
coscienza (e della natura) sono suoi connotati essenziali: «La natura è la continuità
di una cosa con tutte le altre. » Questa solidale relazione fra i fatti è parte integrante
di una totalità cosmica che ha un suo ritmo in cui si attua e perciò si conosce:
«L'universalità delle cose è essa stessa la causa prima, in quanto le si attribuisce
la ragione di tutto ciò che vi succede; è essa stessa l'Infinito, in quanto si ~itiene
senza limite sostanzialmente e potenzialmente, è essa stessa l'Assoluto, in quanto
si concepisce avere in se stessa la ragione di ciò che è e eli ciò che si fa. »
Nel processo di distinzione, la stessa differenza fra il pensiero e l'azione è uno
dei risultati o momenti di questo stesso processo. Come elemento di mediazione
fra i due piani della realtà Ardigò situa l'arte, che pertanto non è autonoma,
ma strettamente relazionata e condizionata sia al conoscere che al fare: «I diversi stati affettivi i quali, anch'essi, si distribuiscono in una scala analoga alla
chimica delle affinità. Una scala degli stati affettivi, nella quale dal più grossolanamente e brutalmente voluttuoso, si va al più schiettamente e umanamente ingenuo.
Il primo, la soddisfazione ignobile prodotta dalla più bassa delle funzioni fisiologiche: il secondo, quella sublime della evidenza nella funzione più elevata dell'apprensione astratta ... Nel mezzo di questa scala degli stati affettivi si trovano gli
stati estetici, o della bellezza. La quale perciò è l'anello di congiunzione tra l'evidenza o il vero di una parte, la voluttà o il buono dall'altra. E CO'\Ì queste dell'evidenza, della bellezza e della volontà, non sono trt: entità affatto e foto coelo disfarmi l'una dall'altra, e appartenenti, secondo l'opinione volgare comunissima, a tre
regioni metafisiche diverse. E l'evidenza, non una sola, ma molte specie di evidenze diverse. E così la voluttà e la bellezza. Anche la bellezza; non una sola, ma molte
zoz
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Positivismo ed hegelismo in Italia
forme di bellezze diverse. Nella quale ultima sentenza si ha il concetto fondamentale della filosofia positiva dell'arte, della quale mi duole di non poter qui se non
recare questo cenno. >>
Come abbiamo visto la formazione naturale (non creazione) del pensiero
rivela una legge costitutiva del mondo naturale, e nell'opera La formazione naturale
ne/fatto del sistema solare (1877) Ardigò sviluppa e conferma questa sua posizione,
analizzando l'ipotesi di Kant e Laplace. Questo stesso procedimento egli adotta
in tutti gli altri campi del sapere.
h) La morale e la sociologia
Anche la morale è una formazione naturale che ha un aspetto bio-psicologico
ed uno storico-sociale: « Le idealità morali non sono un assoluto fuori della natura.
Sono dei fatti naturali. E precisamente delle formazioni della psiche umana collimanti colle formazioni umane esterne, ossia coi fatti sociali. Ma in quanto sono un
dato fatto di un dato sito in un dato tempo, e sono realmente al sito e al tempo, e
accidentali, come le circostanze di esso.» La condotta dell'uomo non è determinata né da imperativi etici né da idealità dedotte da un essere supremo. La morale di
Ardigò è in netto contrasto con le teorizzazioni metafisiche e trascendentali; egli
mette in evidenza i condizionamenti socio-culturali del comportamento morale.
L'uomo è responsabile (libero) in rapporto a una normale costituzione psicofisica e a una adeguata impulsività potenziale, correttamente orientata. Nella
determinazione della condotta morale concorrono anche le istituzioni politiche e
educative perché «nella idealità. sociale è tutta la ragione della moralità». L'etica
è pertanto una parte della scienza sociale (sociologia). «La morale individuale è
essenzialmente dipendente dalla morale sociale; e ... l 'Etica è un ramo della politica,
come diceva Aristotele, ossia della sociologia come si dice adesso». La sociologia
ha per oggetto « la costituzione della società civile e quindi la giustizia che ne è la
funzione caratteristica ». Ardigò raggiunge la persuasione che « mai non fu possibile in una coscienza individuale una Idealità etica, ossia un principio di Giustizia,
di formazione inconsapevole che non corrispondesse al fatto della Legge sociale
realmente stabilitasi nell'ambiente al quale la coscienza stessa fu. educata». L'uomo ha un comportamento eticamente giusto nella misura in cui concorre alla stabilizzazione dell'armonia sociale cioè a i~serire sé e gli altri individui allivello delle
« idealità sociali già formate ». Esistono però nella società delle tensioni sociali che
possono determinare anche delle rivoluzioni. Ardigò giudica queste possibili situazioni in questo modo: « Tale processo anormale della rivoluzione, nel fondo,
è quello stesso normale detto sopra della evoluzione. Poiché anche in questo il
Governo sociale è determinato dal consenso delle parti subordinate » e dal momento che la giustizia ha una funzione regolativa essenziale nella vita sociale,
quando vengono meno le sue esigenze, avvengono le rivoluzioni. « La rivoluzione
sociale ... suppone adunque ·una condizione avanzata di cultura morale dei membri
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Positivismo ed hegelismo in Italia
della Società. Più è questa cultura morale e più irresistibile la forza rivoluzionaria.
Ma più questa forza è irresistibile e più la sua azione è moderata e procede per
moto evolutivo anziché sovversivo ». Queste posizioni sono il riflesso quasi speculare e la giustificazione del liberalismo di Ardigò, fatto proprio anche da
quei socialisti, come Turati, che proprio sulla Morale dei positivisti compirono la
loro prima educazione etico-politica. Ardigò non conobbe direttamente le opere
di Marx e di Engels e del materialismo storico ebbe la conoscenza della « vulgata »
positivistica. Egli respinse come unilaterale e insufficiente la concezione materialistica della storia perché « colla concezione materialistica della storia si vuole spiegare una formazione naturale, che ne dipende solo in parte e solo indirettamente,
trascurando altri essenziali coefficienti ». E in altra parte: « Il fatto economico non
è l'unico che determini il formarsi di un certo modo della società, mentre a ciò
concorrono con esso altri fatti. »
V a sottolineato che i pochi giudizi espressi da Ardigò su questa questione
sono del tutto occasionali. Egli riteneva di aver risolto le questioni inerenti alla
storia e alla società nella sua sociologia; è evidente comunque la differenza fra
una concezione psicologistica dell'uomo e il marxismo. Solo Rodolfo Mondolfo
ha tentato di intravvedere un possibile recupero marxiano (delle Glosse a Feuerbach)
da parte di Ardigò perché anche in quella posizione di Marx « lo spirito umano
appare quale attività che crea progressivamente le condizioni della sua azione ulteriore, e continuamente reagisce su di esse, generando, anzi che uno stagnante
adattamento passivo, la perpetua vitalità del proprio sviluppo» (Mondolfo). C'è
soltanto da aggiungere che proprio nelle Glosse Marx mette in evidenza: i limiti
del materialismo di Feuerbach, e questa critica vale anche per il positivismo (materialismo volgare) di Ardigò, come vide anche Gramsci.
c) Osservazioni critiche
Roberto Ardigò è stato, per riconoscimento unanime, il filosofo italiano
che ha presentato nel modo più coerente e conseguente le posizioni positivistiche.
Nel corso di oltre un trentennio egli ha sempre sostenuto, sia nelle opere
sistematiche che in numerose e vivaci polemiche, un suo preciso disegno culturale:
affermare la validità del positivismo come una concezione generale del mondo,
autonoma e autosufficiente, contrapposta radicalmente a tutte le posizioni metafisiche, idealistiche e spiritualistiche.
Il suo pensiero rappresenta pertanto il punto più avanzato ed elaborato
raggiunto dal positivismo italiano, anche se oggi si possono elevare contro questo
sistema ampie e motivate riserve.
La filosofia di Ardigò presenta un'interna coerenza e una unitarietà di
sviluppo; tutti i tentativi di individuare una differenziazione fra i primi scritti
e gli ultimi sono stati poco convincenti. Ardigò ha tentato di offrire una siste-
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mazione sufficientemente organica di tutti i più importanti problemi gnoseologici,
etici, politici partendo da un principio unitario ed unificante, che traeva la sua
validità dall'essere il risultato più sicuro della scienza. Il privilegiamento della
psicologia è una caratteristica che di'stingue la posizione di Ardigò da quella di
Comte, il quale negava validità scientifica alla psicologia perché fondata sull'introspezione. Con Ardigò continua cosi il processo di svincolamento della conoscenza dalla pratica sociale; ormai l'economia politica non è più presente nella
classificazione del sapere ed è sostituita dalla sociologia, intesa come la scienza
che offre una spiegazione « naturale » dei fenomeni sociali.
Bisogna però rilevare che in Ardigò è avvertita l'esigenza di considerare la
psicologia come una scienza che utilizza i risultati di altre scienze collaterali. Siamo
di fronte a un atteggiamento per certi aspetti nuovo e originale, tale da indurci a
concludere che per Ardigò l'introspezione è uno dei mezzi, validi in un ambito
delimitato e anche altri sono gli strumenti che dobbiamo utilizzare per un esauriente esame del complesso « fatto » psicologico. A questo proposito egli precisa:
«Interrogo i gesti, le voci, gli atti, i costumi dell'uomo incivilito e incolto e del
bruto selvatico e addomesticato nella gioventù e nella vecchiaia, nella calma e
nella passione, nello stato normale di sanità, nelle malattie e nelle alterazioni
mentali, sotto l'influenza di agenti che eccitano e paralizzano i nervi, coll'uso
intero o solo parziale degli organi; insomma in ogni suo stato e condizione, naturale o artificiale. Né mi accontento di osservarne i modi e le forme, ma ne enumero i casi e ne faccio la statistica. »
Per sottolineare gli aspetti innovativi della psicologia ardigoiana, è stato
giustamente notato (Wilhelm Biittemeyer) che Ardigò fa proprie e generalizza, a
proposito del meccanismo percettivo, i risultati raggiunti da Hermann von Helmholtz negli studi sulla fisiologia dei sensi. Di lui Ardigò studiò queste due pubblicazioni, uscite sulla « Revue des cours scientifiques » del I 868-70: D es progrès
recents dans la théorie de la vision, Revue générale du développement des sciences dans /es
temps modernes oltre il libro Théorie pf?ysiologique de la musique fondée sur l'étude des
sensations auditives. L'importanza delle ricerche di Helmholtz è confermata dai
più recenti studi di psicologi gestaltisti, che però sono orientati a porre una
netta differenziazione fra la psicologia di Helmholtz e la Gestalt, anche se le
ricerche del fisiologo tedesco hanno costituito un precedente necessario. Paolo
Bozzi a proposito di questo problema sostiene che « il mutamento intervenuto
con la teoria della Gestalt consiste principalmente nel riconoscere ai fatti della
esperienza diretta e a tutte le loro proprietà un ruolo importante almeno quanto
quello delle acquisizioni raggiunte attraverso lo studio degli aspetti fisici e fisiologici implicati nel processo percettivo ». C'è solo da aggiungere che in Ardigò
è presente una insoddisfazione della prospettiva elementaristica, determinata dalla
sua impostazione generale sempre tesa ad accentuare gli elementi e i meccanismi
che evidenziano la continuità nel fatto percettivo.
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Un altro aspetto interessante del pensiero di Ardigò è la funzione che assegna alla filosofia. A giudizio di Ardigò in Comte e Spencer la filosofia si riduce a
una sistemazione dei risultati delle scienze; viene negata la capacità critica della
filosofia nei confronti della società perché questa è stUdiata come un fatto « naturale »; la scienza della società non è diversa - in linea di principio - dalle scienze
naturali. In Ardigò la filosofia mantiene una sua autonomia, una funzione critica
all'interno delle scienze e della società. «La filosofia è il concepimento del problema scientifico. La scienza speciale ne è la soluzione. Perciò le scienze speciali
sono state precedute dalla filosofia, e le succedettero. Ma, succedendo le scienze
speciali alla filosofia, essa ricomparve sempre ancora, perché l'avvenimento delle
scienze speciali produsse il concepimento di problemi nuovi. E così sarà in seguito
senza fine. La filosofia in una parola è la matrice eterna della scienza, come la natura in genere lo è delle sue forme. »
Questa capacità critica si manifesta anche nella sociologia ardigoiana, in cui
emergono con maggiore evidenza i suoi orientamenti liberal-democratici, quando
sostiene che « se una aspirazione sociale è legittima, ingiusta cosa e vana è il valeda contrariare, poiché è la stessa natura onnipotente che la vuole, ed è certo che
trionferà ». Le idealità sociali sono strettamente connesse con la società in cui sorgono e la giustizia deve conformarsi a quelle idealità. La norma giuridica però non
riuscirà mai ad 'esprimere adeguatamente quelle idealità, perciò i legislatori debbono apportare ai codici quei continui miglioramenti che la situazione esige. Questo
è tanto più necessario dal momento che il comportamento etico è strettamente relazionato alla politica. Di qui il riconoscimento positivo di Ardigò delle ricerche
di Cesare Lombroso e della sua scuola perché « incominciarono a fare una analisi
nuova e socialmente importantissima della dinamica vera delle azioni umane, e
delle diverse gradazioni di equilibrio degli agenti irresponsabili e responsabili che
vi concorrono, e della valutazione più giusta della cosiddetta forza irresistibile. E
in ispecial modo quelle del nostro Lombroso sugli individui, che esso chiama i rei
di delitti senza movente».
Pur con questi riconoscimenti positivi bisogna convenire che l'attività complessiva di Ardigò verso la scienza è stata sterile e dogmatica e ha avuto un ruolo
positivo nel contesto di una situazione, come quella italiana, in cui lo stadio della
conoscenza e dell'approfondimento delle scienze era relativamente modesto almeno fino alla fine del secolo. Egli accetta acriticamente i risultati delle scienze
contempor~nee senza dimostrare alcun interesse verso quei problemi metodologici che proprio in quel periodo si manifestavano nella più avanzata cultura scientifica europea.
Per questo è improponibile una convergenza filosofica fra Ardigò e Mach,
anche se ci sono alcuni riferimenti culturali comuni. Ardigò non ha svolto
nell'ambito della psicologia -l'unica scienza su cui si è impegnato lungo il corso
della sua vita - la funzione che Mach ha avuto nella revisione critica della scienza
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di fine Ottocento. Anzi gli psicologi più seri non riconoscono nella psicologia
di Ardigò un patrimonio scientifico da completare o integrare, ma una strada
da abbandonare se si vuole procedere in feconde ricerche. Cosl tutta la ricerca e
il progresso metodologico e teorico della scienza contemporanea e in particolare
della psicologia è avvenuto al di fuori dell'orientamento positivistico sostenuto
da Ardigò.
Nel campo etico-politico il positivismo del nostro autore può essere catalogato come «socialismo borghese», di cui parla Marx nel Manifesto. L'etica non
ha solo una funzione normativa di adattamento dell'individuo nella società, né il
diritto penale si configura solo come una organizzazione difensiva della società
nei confronti dell'individuo disadattato. L'una e l'altro si trasformano in stretta
relazione con le modificazioni della stessa realtà (e mentalità) sociale, che ha il
suo riflesso nelle istituzioni sociali. Queste vanno corrette, trasformate continuamente per adeguarsi al progresso sociale e culturale della collettività. In questa
capacità risiede la stabilità della istituzione, il cui principio regolatore deve essere
un ideale di giustizia.
IV · LA SCUOLA DI ARDIGÒ
La sistemazione teorica di Ardigò costitul per oltre un ventennio il punto di
riferimento più importante nella cultura laica e positivistica italiana.
Si può dire che egli fu il promotore di una scuola perché non pochi fra i pensatori più significativi della generazione di fine secolo furono suoi allievi ed espressamente si richiamarono alle sue posizioni, pur in un originale e autonomo sviluppo delle proprie teorie. Questi sono: Giovanni Dandolo, Giovanni Marchesini, Giuseppe Tarozzi, Ludovico Limentani, Rodolfo Mondolfo, Alessandro Levi
e altri. Ora ci soffermeremo solo sulle posizioni più interessanti espresse da due
scolari di Ardigò sul problema della conoscenza, cioè sul rapporto filosofiascienza.
Per comprendere nei suoi esatti termini i contributi filosofici che gli autori segnalati diedero al pensiero italiano bisogna sottolineare un dato culturale assai importante. La cultura filosofica italiana di fine secolo è caratterizzata dalla
ripresa e dall'affermazione dell'idealismo di Croce e Gentile e alcuni filosofi posirivisti indicati operano una critica interna al positivismo ardigoiano tale da giustificare una integrazione con istanze filosofiche idealistiche. Questi positivisti
iniziano cioè una revisione del patrimonio teorico di Ardigò in senso nettamente
antirealistico, cosl com'era l'orientamento dominante della cultura italiana. Basterebbe esaminare i saggi che sull' Ardigò hanno scritto i suoi allievi per controllare a quale tipo di analisi e integrazione sottopongano il pensiero del filosofo
mantovano.
Bisogna riconoscere che i limiti del naturalismo di Ardigò offrivano possibili
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agganci per una critica antirealistica, anche se egli durante tutto il corso della sua
operosa attività culturale criticò sempre l'idealismo e il pragmatismo. Il limite
forse più evidente riguarda proprio la sua sistemazione scientifica.
Egli, in polemica con il materialismo, aveva affermato che « la gradazione
delle formazioni o degli esseri naturali è una gradazione di autonomie ».
Non esiste cioè un determinismo che coinvolga tutti gli aspetti della formazione naturale, perché fra i vari livelli del processo ci sono condizionamenti, intersecazioni che producono risultati nuovi, non predeterminabili. Questa posizione, che nel complesso della filosofia di Ardigò assolve un compito preciso e delimitato, fu ripresa ad esempio da Tarozzi per legittimare l'accettazione di un contingentismo simile a quello di Boutroux e di Bergson. Per Tarozzi «l'idea di necessità come universale dominatrice dell'universo e dello spirito è una illegittima
illazione dal determinismo metodo logico; essa ha un carattere non positivo ma
metafisica». La sua ricerca approdò così a una sostanziale accettazione delle più
note tesi idealistiche (L'infinito e il divino, I9S 1).
Un'altra via scelse Giovanni Dandolo. Questi portò alcuni contributi di
analisi psicologica assai penetranti, indagò particolarmente le condizioni che presiedono al processo conoscitivo; studiò i concetti di causa e di legge naturale in
rapporto alla loro genesi psicologica, e tentò un approccio psicologistico, non
privo di interesse, Intorno al numero (1896), con riferimenti ai dibattiti più avanzati
dell'epoca.
L'ultimo suo scritto, Intorno al valore della scienza (1908), è una riaffermazione
del valore conoscitivo della scienza e della validità del realismo, in polemica con
Mach. « Attraverso una concezione obiettivistica della causa e della legge, noi
vorremmo difendere l'obiettività della scienza della natura, specialmente contro
quella forma di soggettivismo che essa assume nella forma idealistica di Ernesto
Mach. »Egli combatté sia la caratterizzazione descrittivo-economica della scienza,
sia il carattere speculare del processo conoscitivo per riaffermare che « la causalità, legge inalienabile dell'intelligenza umana e fulcro della scienza», deve essere
difesa e riaffermata come condizione stessa della conoscibilità scientifica. La legge
scientifica ha un rapporto oggettivo ed è un'approssimazione, una tendenza verso
la realtà.
Queste due diverse interpretazioni pressoché antitetiche, emergenti dall'ambito del positivismo ardigoiano rivelano - pur nel diverso impegno speculativo
-due esiti ugualmente improponibili o sterili perché tesi all'affermazione di principi o istanze, portati al di fuori di un effettivo lavoro scientifico. Ambedue le
posizioni sono al di sotto di quel travaglio metodologico che investì le scienze di
fine Ottocento e che ebbe in Mach uno dei più acuti interpreti. Individuare, sia
pure correttamente, gli sbocchi idealistici di questo processo di revisione metodologica della scienza, era positivo ma insufficiente per poter saldare il sapere filosofico al rinnovamento che si svolgeva all'interno del patrimonio scientifico. La
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lotta per l'affermazione di una razionalità che doveva avere nella scienza una delle
più importanti matrici era pertanto soprattutto un'esigenza quasi solo declamata,
perché non si sapeva poi farvi corrispondere un'adeguata riformulazione dell'indagine filosofica. Così il divorzio fra filosofia e scienza, che si indicava come uno
dei limiti più negativi della cultura tradizionale, trovò, proprio nell'ambito del
positivismo, un terreno quanto mai favorevole.
V · CESARE LOMBROSO E LE RIVISTE POSITIVISTE
Uno dei rappresentanti più conseguenti del naturalismo positivisticoè stato Cesare Lombroso (r833-1907). Il suo pensiero si ricollega strettamente al materialismo di Moleschott (già esposto nel volume precedente), di cui tradusse nel r866
La circolazione della vita. Egli tentò un'originale utilizzazione dei risultati della fisiologia, psicologia, patologia e della teoria dell'evoluzione per dare una spiegazione
di un fenomeno socialmente assai diffuso nell'Italia post-unitaria: la delinquenza;
per questo è considerato il fondatore dell'antropologia criminale. Bisogna ricordare che in quel periodo era in corso la vasta azione repressiva contro il brigantaggio e proprio dall'esame del cranio ddb_rigante Vilella(r871) Lombroso ritenne di
trovare una conferma delle sue tesi generali e cioè che la delinquenza è determinata
dalla costituzione fisica anomala dell'individuo, per cui il delitto è un fenomeno
naturale. Il delinquente è un irresponsabile e pertanto deve essere messo in condizione di non nuocere alla società. La « Scuola positiva del diritto penale », sorta
su queste posizioni, contribuì in modo efficace al rinnovamento del diritto penale.
Su queste posizioni si schierarono molti scienziati e giuristi d'Europa; una particolare influenza esercitò in America latina José Jngenieros, il più importante filosofo e sociologo a cui si richiamarono tutti i positivisti di quella regione.
Le opere più importanti scritte da Lombroso sono: Genio e follia (I 864),
Studi clinici sulla natura, causa e terapia della pellagra (r87o), L'uomo delinquente
(1876), Sull'incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo (1879), La donna
delinquente, la prostituta e la donna normale, in collaborazione con Guglielmo Perrero
(1893), Genio e degenerazione (1897).
Un'altra delle tesi più discusse di Lombroso è quella che identifica il genio
con la follia e in senso più generale con ogni atteggiamento ritenuto eccezionale.
Lombroso fu direttore del manicomio di Pavia, uno dei più importanti
d'Italia, e fece una brillante carriera universitaria (professore di psichiatria a Torino, di antropologia criminale, di medicina legale ed igiene). Condusse vaste
ricerche e per primo avvertì la necessità di « un trattato completo di geografia
medica di tutta Italia, una vera e intera carta igienica di questa penisola », per poter
individuare quali sono le malattie più diffuse. Egli stesso condusse importanti
ricerche su quelli che erano i due mali più gravi dell'Italia di àllora, il cretinismo
e la pellagra. Sostenne frequenti e vivaci polemiche sia con gli scienziati sia con i
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sociologi, come Napoleone Colajanni il quale criticava la scuola antropologico-criminale perché non teneva conto dell'influenza dei fattori sociali della delinquenza,
esagerando quelli fisici ed antropologici. Comunque anche Lombroso, in una
revisione del suo pensiero, riconobbe l'importanza dei fattori sociali (L'eziologia
del delitto, 1893).
Le ricerche di Lombroso sono state poi utilizzate e approfondite da una
schiera innumerevole di allievi italiani ed europei: medici, neuropsichiatri, criminologi, giuristi, pedagogisti. La ricerca lombrosiana, improntata fondamentalmente ad un esame anatomico e fisico-chimico dell'uomo, era in quegli anni non
molto dissimile dalle ricerche sperimentali del primo Freud. Poi intervenne un
diverso orientamento nella ricerca psicanalitica di Freud e i lombrosiani cercarono di ridurre le posizioni di Freud nel quadro delle spiegazioni chimiche del
loro maestro (Enrico Morselli). Le ricerche di Lombroso, dopo le lunghe polemiche e gli altrettanti lunghi silenzi, stanno subendo una revisione di giudizio più
equilibrato e positivo. Ne riportiamo uno dei più accreditabili: « Lombroso ebbe
anche lui certe intuizioni vicine a quelle di Freud. Oltre al rigido materialismo, al
determinismo e all'ateismo che ebbero in comune, Lombroso ebbe vivissimo il
senso dell'irresponsabilità dell'individuo anormale e delle possibilità di una terapia (fosse pure quella della "sembiosi" che può precorrere certe forme della
psicanalisi post-freudiana). Anche lui sentì- ed è forse il suo maggior meritol'enorme valore del concetto di ''regressione '' in mezzo alla visione ottimistica
di Darwin ... L'" atavismo" stesso, dal quale Freud fu condotto a poco a poco ad
allontanarsi, era per Lombroso un fep.omeno stesso di protezione naturale a certi
fattori traumatizzanti (alcool, clima, eredità, meteori) e, come scrisse, un" ritorno
all'antico ". Perfino l'ipotesi sintetica finale dell'epilessia, la quale gli permise di
aggiungere un fattore patologico al terreno della " degenerescenza atavica '' e di
" spiegare " tutti i fenomeni anormali dell'uomo, era interpretata in direzione
post-freudiana, forse meno semplicistica di quanto non si creda: l'epilessia veniva
infatti ricondotta da Lombroso ad una serie di attività psichiche incoscienti »
(Michel David). Da quanto siamo venuti dicendo risulta che nei centri italiani
culturalmente più avanzati e più importanti dell'Italia post-unitaria (Torino, Bologna, Firenze, Padova) si trovano, in funzione preminente, i positivisti: Roma si
configurò solo come il centro burocratico-amministrativo del nuovo regno e per
Napoli valgono altre considerazioni che esporremo più avanti.
In questi centri assistiamo al sorgere di una pubblicistica culturale di grande
interesse. Attraverso questi strumenti culturali si ristabilisce uno stretto collegamento della cultura italiana con la cultura europea (tedesca, inglese e francese). Le
due riviste più importanti sono state « La rivista di filosofia scientifica », diretta da
Morselli e uscita a Torino dal 1881 al 1891, e« Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale », fondata nel 1 8So da Cesare Lombroso, con Enrico
Ferri e Raffaele Garofalo come condirettori. Il programma della rivista filosofica è
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chiaramente delineato fin dal primo numero e sintetizzato nell'obiettivo di lavorare
« per la vittoria del metodo sperimentale e la definitiva congiunzione della filosofia
e dellà scienza anche in Italia ». Ciò che di meglio la cultura positivista ha prodotto
nel suo tentativo di generalizzazione filosofica collegata con la scienza si trova in
questa rivista. Vi hanno collaborato Ardigò, Siciliani, Angiulli, De Sarlo, Marchesini, T anzi, Fano, Pilo; economisti come Salvatore Cognetti De Martiis, il fisico
Giovanni Cantoni, l'astronomo Giovanni Celoria, il matematico Enrico d'Ovidio, e moltissimi biologi. La preminenza dei biologi (fra cui Giuseppe Sergi)
conferma l'importanza che assunse questa scienza in quel periodo. Ci furono
frequenti dibattiti fra diversi scienziati (uno fra i più importanti fu quello fra
Ettore Regàlia e Morselli-Sergi). Non si sottovalutò la ricerca e l'indagine sulla
storia del pensiero filosofico italiano e si avvertì la necessità di rendere conto- attraverso una puntuale informazione degli articoli e saggi apparsi sulle riviste
francesi, inglesi, tedesche, olandesi, spagnole, svizzere -- della ricerca filosofica
e scientifica europea. Pertanto va condiviso largamente il giudizio positivo che
Morselli esprimeva nell'ultimo numero della rivista: « Ha combattuto per un
alto ideale, la unificazione della filosofia con la scienza; ha raccolto attorno a sé
la falange dei pensatori più eletti e degli spiriti più indipendenti di cui si onori
l'Italia, ha servito di tramite agli ingegni superiori per esercitare una benefica
azione sui giovani studiosi. Non è dubbio che il nostro lavoro di dieci anni ha
giovato a diffondere la coltura filosofica fra gli scienziati e la scientifica fra i filosofi. Una notevole riforma si è operata nel pensiero italiano durante gli ultimi due
lustri». Un giudizio altrettanto positivo si deve dare sul contributo creativo della
rivista di Lombroso. Uscì dopo un'accurata preparazione e consultnione fra
Ioo psichiatri, medici legali e giuristi italiani e stranieri e la garanzia di una collaborazione dei migliori studiosi europei. Lombroso precisa nel programma « che
la psichiatria e le scienze criminali fossero legate insieme da vincoli indissolubili,
pochi erano i veri scienziati che non pensassero da un pezzo. Ma come e quanto
quel vincolo si facesse sentire più stretto, lo prova ora vedere le pubblicazioni
psichiatriche che toccano continuamente di criminalità, come quelle penali e carcerarie di alienazioni mentali ... A noi parve giunto il tempo di trarre da quell'unione un frutto fecondo in una rivista la quale riannodasse tutte queste sparse fila
sorgendo come rampollo dalle eccellentissime Riviste di freniatria e di medicina
legale, di discipline carcerarie e penali che onorano il nostro paese ».
Anche qui la stessa esigenza di una unificazione del sapere scientifico e di una
utilizzazione politica dei risultati delle ricerche per un serio rinnovamento degli
ospedali psichiatrici, della legislazione carceraria e per una più precisa conoscePza
delle gravi condizioni igienico-sanitarie dell'Italia. Anche su questa rivista si incontrano pregevoli studi <>ul pensiero sociale e filosofico italiano, con tentativi
originali di revisione critica di alcuni autori.
Una caratteristica comune alle due riviste fu un'impostazione non settaria
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o esclusivistica: si trovano infatti scritti di scienziati o filosofi non tutti d'accordo
con l'orientamento espresso dalla direzione delle riviste. Non si trattò di un facile
eclettismo, ma di uno stile di lavoro e di ricerca orientato a sollecitare un ampio
dibattito su problemi che solo allora venivano affrontati per la prima volta; di
qui la necessità di ascoltare le diverse voci, a volte fra loro contrastanti. Si accesero dibattiti e polemiche improntati a un appassionato interesse per la ricerca
scientifica e a una franca verifica delle rispettive posizioni filosofiche e ideologiche.
VI · HEGELISMO E SCIENZA: DE MEIS E TOMMASI
Abbiamo già sottolineato che molti hegeliani, di fronte all'affermarsi della
scienza nella cultura europea, o tentano un approccio di tipo idealistico, sterile di
risultati, o accettano questa dimensione nuova della razionalità, dopo un profondo
processo autocritico.
Questi due esiti, opposti, si ritrovano nella ricerca di Angelo Camillo De
Meis e di Salvatore Tommasi. Il primo sarà indicato come un classico esempio
negativo di un uso hegeliano della scienza moderna; in Tommasi il pensiero
scientifico italiano raggiungerà invece uno dei suoi risultati migliori anche sul
piano metodologico. Il Tommasi non tenterà di legittimare una metafisica di segno contrario, ma indicherà nel metodo sperimentale uno strumento essenziale
della ricerca scientifica e nel naturalismo l'integrazione filosoficamente più corretta; in una sistemazione sempre aperta a ulteriori apporti e approfondimenti.
Il tentativo più impegnato di utilizzare la filosofia hegeliana per spiegare la
natura è stato compiuto da Angelo Camillo De Meis (I 8 I 7-9 I), uno degli allievi
più stimati da Francesco De Sanctis e Bertrando Spaventa, studioso di fisiologia
e patologia del corpo umano e insegnante di storia della medicina all'università
di Bologna dal I863.
De Meis parte dal convincimento che la filosofia di Hegel è valida in quanto
riesce a spiegare razionalmente tutto il processo della realtà e perciò anche la natura. Ora la filosofia della natura di Hegel è una parte essenziale e insostituibile
di tutta la sua sistemazione filosofica anche se è l'aspetto meno giustificato dallo
Hegel stesso. De Meis tentò per tutta la vita di trovare il punto di congiunzione
fra la dialettica hegeliana e la scienza moderna, in quanto la validità complessiva
del sistema hegeliano non doveva essere cercata in una revisione della logica
hegeliana (come farà Spaventa) ma in un convincente riscontro e verificazione
nello studio della scienza e in particolare della medicina.
Per raggiungere questo scopo il nostro autore non ritiene essenziale lo studio
dei problemi che la scienza storicamente pone all'attenzione dello scienziato,
ma piuttosto precisare 1n via preliminare il significato teorico della scienza e
della storia della scienza che per De Meis « non consiste in una serie di verità
che sorgono l'una accanto all'altra ... ma è una verità sola, che si sviluppa in un
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processo di forme tutte vere ... è una .ragione che si traduce in natura, è una natura che si risolve in pensiero ». Per questo motivo « la storia prammatica della
medicina non è la vera sua storia». Con quèsta presa di posizione generale vengono rifiutati lo sperimentalismo e la pratica scientifica perché inutili o devianti rispetto alla caratterizzazione di una razionalità logicamente valida che la scienza
deve solo far propria. De Meis giungerà così a condannare tutta la scienza
contemporanea (,Parwin e la scienza moderna, 1886) e a proporre una nuova sistemazione« logica» delle specie naturali, nei volumi l tipi vegetali (1865), l tipi animali (1 872.-75), che ovviamente non è stata presa in seria considerazione da nessuno
studioso. Egli tentò inoltre di ridurre i risultati della scienza ad alcune indicazioni
così generiche da poter essere utilizzate per la sua riaffermazione di un « principio vitale, ipermeccanico superiore, con altre leggi diverse dalle leggi naturali
che ne regola l 'uso ». Solo in questo contesto può essere utilizzato il materialismo degli scienziati contemporanei: « Il preteso materialismo di questi nostri
giorni altro non è che la potente concentrazione della scienza medica, fisiologica
e patologica, intorno a tre processi di cui si compone la vita ... che è quanto dire
intorno a tre principi e a tre verità generali. Ma la verità in fondo è una... , e tutti e
tre i processi, il chimico, il cellulare ed il fisico, possono apparire divisi e distinti,
ma in realtà non formano che una sola unità, un solo processo vitale.» Il punto
più importante, decisivo, rimane l'esame di quel momento del processo naturale
in cui è riscontrabile l 'unificazione fra illogos e la natura (la vita): « La vita è una
forza, ma questa forza è ragione, e questa ragione è natura; la ragione è la funzione,
la natura è l'organo e la funzione effettuata dall'organo: la funzione crea l'organo,
e l'organo ricrea ed esegue la funzione. Tale è il giro, tale è il processo della vita»,
che rimaneva però ancora non risolto negli schemi della dialettica hegeliana. E il
nostro autore si convinse che il primum non poteva non trovarsi al di fuori della
realtà indagata dalla scienza, in un atto di creazione (Deus creavi/, 1869). De Meis
è noto anche per aver scritto due articoli Il sovrano (1868) in cui dà una giustificazione teorica della funzione mediatrice della monarchia fra il popolo e il ceto
dirigente. Questi articoli suscitarono vivaci polemiche specialmente nell'ambiente
bolognese perché con grande chiarezza precisavano i motivi dell'adesione di molti
intellettuali alla direzione monarchica piemontese.
Di De Meis è infine utile ricordare uno scritto autobiografico, Dopo la laurea
(1868-69), in cui è delineata in modi assai efficaci la delusione di uno studioso
di filosofia e letteratura di fronte alla scienza, ritenuta estranea ai più autentici
sentimenti dell'uomo. È un tema questo che avrà altre e più ampie risonanze all'inizio del nuovo secolo quando assisteremo a un nuovo ritorno idealistico, che
si configurerà come la più rigida negazione del valore conoscitivo della scienza.
Altro esito ebbe lo studio della scienza (fisiologia) nell'hegeliano Salvatore
Tommasi (1813-88), che fu professore di clinica medica a Pavia dal 1861 al 1864
e dal 1864 insegnante di clinica medica a Napoli. Qui fondò l'ospedale clinico e
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diresse « Morgagni », la più importante rivista di scienza medica di quel tempo.
Tommasi passa da una concezione aprioristica, finalistica della natura a una
aperta difesa del naturalismo sperimentale, attraverso una pratica di clinico e una
acuta riflessione metodologica sulla scienza medica, in particolare della fisiologia,
di cui privilegiò il ruolo.
Nelle Istituzioni di fisiologia ( 1 8 5z) sono dominanti le preoccupazioni filosofiche
generali: « Il concetto fondamentale che il fisiologista deve farsi dell'organismo,
è quello di totalità; il quale concetto comprende la pluralità e l'unità... e l'organismo è appunto la coincidenza di molti particolari in una sola .individualità.
Egli è pertanto l'accordo di due termini opposti... è la vera concretezza, perché
esprime la dialettica degli opposti. »
Nella prolusione al primo corso di lezioni all'ospedale clinico di Napoli del
1865 (Le dottrine mediche e la chimica) questa posizione è abbandonata: «Nelle
scienze obbiettive e naturali, la dottrina non può consistere in un a priori, non può
sorgere dalle speculazioni metafisiche ... quindi parlar di filosofia in medicina è un
controsenso. » Bisogna affrontare i problemi che sorgono all'interno dello studio
della scienza medica e « le dottrine in tutte le scienze naturali, e quindi anche nella
medicina, non sono che la legge, o un insieme di leggi logicamente connesse ».
È necessario individuare il compito preciso di ogni scienziato, quello deL clinico
e del fisiologo; e dato che« non è la malatia che ammala l'organismo, ma è l'organismo stesso che si ammala ... ammesso questo postulato dell'indole essenzialmente fisiologica della medicina moderna, il gran passo è fatto: la medicina...
diventa scienza umana». Con il discorso Il naturalismo moderno del 1866 Tommasi
raggiunge la sua maturità come metodologo e come filosofo della scienza.
Questo saggio fu considerato subito come il frutto più maturo del positivismo
dove il suo riferimento a Galilei («noi siamo della scuola di Galilei ») è fatto proprio per rivendicare la validità di un metodo sperimentale contro gli apriorismi
pseudoscientifici degli hegeliani e la necessità di un rapporto di collaborazione
tra scienziati e filosofi tutti interessati al progresso del sapere scientifico e filosofico.
« Non vuol dire che io intenda proclamare il divorzio tra le scienze naturali e le
speculative e morali, ... al contrario, la natura e l'uomo, la geologia e la storia compongono necessariamente un tutto organico, ... che meraviglia adunque che il
filosofo abbia da improntare dalla sola esperienza il materiale o il contenuto dei
suoi concetti universali ... e d'altra parte che i naturalisti riconoscano, anzi invochino, una forma ideale al frutto delle loro esperienze? »
Una discussione di grande interesse e ancora di viva attualità fu quella sollevata da Tommasi sull'origine delle psicopatie.
L'originale posizione del nostro scienziato fu al centro di vivaci polemiche
sia con i suoi amici hegeliani che con alcuni naturalisti (Moleschott). Tommasi,
come abbiamo sottolineato, considera la fisiologia alla base dello studio scientifico
della medicina, e la malattia come una rottura di un determinato equilibrio fisio214
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Positivismo ed hegelismo in Italia
logico dell'organismo. Lo studio della malattia implica un esame complessivo
dell'organismo umano e dei condizionamenti esterni. Per questo è impossibile
raggiungere in questo campo una generalizzazione molto astratta delle « leggi »,
come in fisica.
Tommasi procede prima di tutto a una caratterizzazione della psicopatia
e raggiunge la persuasione che « la patologia delle psicopatie è una cosa a sé:
ha qualche cosa di proprio, di caratteristico ». Questo elemento caratteristico non
è né una alterazione chimica o anatomica, né un fatto ereditario, anche se questi
elementi possono essere compresenti. La psicopatia investe l'equilibrio generale
del malato con il mondo circostante. L 'uomo ha una lunga storia dietro di sé.
Nella Commemorazione di Carlo Darwin (188z.) Tommasi, esaltando le conquiste
del grande scienziato - in opposizione agli idealisti alla De Meis - precisa che
«quanto maggiore è l'ambiente morale dell'uomo, tanto maggiore è la funzione
delle sue cellule cerebrali, e il perfezionamento del suo cervello e del suo cranio »
onde gli « istinti nuovi suppongono naturalmente una modificazione sostanziale
delle cellule cerebrali; ... una forma nuova di organizzazione». Quando questa
organizzazione, questo equilibrio, che è il frutto di un perfezionamento secolare
si rompe, per ristabilire l'equilibrio bisogna operare non un intervento circoscritto a un organo, ma utilizzare quel complesso di mezzi educativi e morali,
che sono stati essenziali nel processo storico dell'umanità. La coscienza, la personalità dell'uomo non è un dato acquisito e permanente, ma muta e si modifica
nelle relazioni sociali che instaura; pertanto nella cura delle psicopatie l'accentuazione sarà data al processo educativo inteso in senso lato come « rieducazione »
di processi fisici e morali da reinstaurare in un organismo « squilibrato ».
VII ·VITA E OPERE DI BERTRANDO SPAVENTA
Bertrando Spaventa è riconosciuto come il filosofo più importante dell'hegelismo napoletano e attorno alla sua figura si è andato accumulando un ampio
lavoro critico ed esegetico. Nell'affrontare l'esame del suo pensiero, terremo nettamente distinti due ordini di problemi: l'individuazione dell'oggettiva incidenza
culturale e filosofica avuta dal nostro filosofo nella cultura italiana dell'Ottocento
e l'uso che della filosofia di Spaventa è stato fatto in un secondo momento da
Gentile prima e dai nuovi « marxisti » poi, per rivendicare due diverse e contrastanti interpretazioni del suo pensiero. Spaventa si è caratterizzato nella cultura
italiana del periodo risorgimentale fondamentalmente per tre importanti contributi. Egli ha iniziato un riesame complessivo di tutta la nostra tradizione filosofica;
ha operato una lettura e interpretazione di Hegel; e ha poi offerto gli strumenti
teorici per una critica del positivismo.
Bertrando Spaventa nacque a Bomba (Chieti) il z.6 giugno 1817; a dodici
anni entrò nel seminario di Chieti. Insegnò poi per alcuni anni matematica e filo-
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sofia nel seminario di Montecassino. Nel I 840 accetta di farsi prete per poter
usufruire di un benefizio e aiutare la numerosa famiglia. Lo Spaventa più tardi
darà questa motivazione per la scelta fatta senza una sinct:ra adesione alle verità
del cattolicesimo: « Io dissi nel farmi prete: Amo mio padre e mia madre e i fratelli miei più che me stesso. Questo è stato ed è la mia irreligione. » Solo dopo dieci
anni decise di abbandonare l'abito sacerdotale.
Nel I 846 aprl una scuola privata di filosofia a Napoli, che venne chiusa
poco dopo per l'intervento della polizia borbonica, su delazione del professore Palmieri, che accusò Spaventa di fare propaganda per le idee liberali. Nel I847
entra in casa del generale Pignatelli come precettore e in seguito agli avvenimenti
del I 848 è costretto a lasciare Napoli e a rifugiarsi a Firenze. Nel settembre I 8 5o
lascia la famiglia Pignatelli e va in Piemonte. A questa data si è soliti stabilire la
sua svestizione. Non si hanno sicuri dati sull'attività svolta durante il periodo
napoletano. È stata avanzata l'ipotesi che Bertrando abbia partecipato segretamente all'attività pubblicistica sul giornale «Nazionale», diretto dal fratello
Silvio, che uscì a Napoli nel I 844 e attorno a cui si unificò il movimento liberale nella lotta contro il regime borbonico.
A Torino Spaventa inizia una intensa attività giornalistica - unico suo
lavoro- sui giornali liberali «Il Progresso », « Cimento », « Piemonte », «Rivista contemporanea » e fissa, nel breve volgere di alcuni anni, i motivi centrali del
suo pensiero politico e filosofico. Nel primo articolo precisa il suo obiettivo di
fondo: « Ora importa a noi italiani di compiere l'opera cominciata dalla nostra rivoluzione: importa che la coscienza del diritto assoluto dell'uomo, della ragione,
del pensiero, divenga per noi universale; importa che questa coscienza penetri in
tutte le manifestazioni della vita nostra. » Il programma politico-culturale che egli
delinea in tutta la complessità dei suoi motivi, è incentrato sulla necessità della
lotta per l'unità e sulla rivendicazione della nazionalità perché « nazionalità è per
noi unità; unità viva, libera e potente come Stato. E perché noi vogliamo questa unità come libero Stato? Perché noi sappiamo che solo nella unità come
libero Stato possono spiegarsi liberamente tutte le potenze della nostra vita ».
Ora, siccome «l'unità vera d'una nazione, la libertà d'un popolo, non si ottengono che con le grandi idee », bisognerà intraprendere un ampio lavoro politico e culturale verso gli intellettuali, che sono i naturali mediatori fra il popolo e
le classi dirigenti; inoltre è urgente iniziare un lavoro storico per individuare
gli elementi unitari della cultura italiana. E questo va fatto nel Piemonte, dove si
sta forgiando la nuova classe dirigente, perché « il rinnovamento filosofico italiano,
impedito in Napoli, dove ebbe principio, deve, come il movimento politico, incominciare in Piemonte ». Egli pubblicò una serie di articoli sulla libertà di insegnamento, fortemente polemici contro i moderati che volevano acconsentire alla
gestione privatistica, cioè cattolica, delle scuole. Inoltre condusse una famosa
polemica contro i gesuiti per difendere la politica liberale e nazionale del Pie.216
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Positivismo ed hegelismo in Italia
monte. In queste polemiche, contro gli elementi « estranei » della nostra tradizione
culturale più autentica, rivendica la funzione di avanguardia degli intellettuali laici
e conferma l'urgenza del compito politico:« Bisogna che si restauri la vera nostra
tradizione filosofica, mettendola in armonia con le nuove tendenze della civiltà;
bisogna insomma che la filosofia sia per noi un principio vivente il quale animi
ed informi tutte le manifestazioni della vita nazionale.» Qual è l'espressione più
alta raggiunta dal pensiero filosofico europeo? Per Spaventa non ci sono dubbi:
è la filosofia di Hegel; perciò« il far intendere Hegel, all'Italia, vorrebbe dire rifare
l'Italia». Non si tratta però di fare una semplice diffusione del pensiero del filosofo
tedesco perché, come avverte il fratello Silvio, « gli Italiani non intenderanno mai
che cosa sia la filosofia moderna se non ricavandola dagli stessi loro filosofi; e di
questo ci è una ragione forte, che non dà loro poi tanto torto se non capiscono
niente di una filosofia che si vedono cadere in sul capo come dal cielo».
Bertrando intraprende pertanto un attento esame della tradizione filosofica
italiana per scorgere quale « traduzione », in termini filosofici autonomi, sia possibile fare del pensiero europeo che ha in Hegel il suo punto più avanzato. Già
nel I 8 5o traccia questa prima conclusione : « Il pensiero filosofico italiano non fu
spento sui roghi de' nostri filosofi, ma mutò stanza, e si continuò in più libera terra
e in menti più libere; talché il ricercarlo nella nuova sua patria non è una servile
imitazione della nazionalità alemanna, ma la riconquista di ciò che era nostro,
ed ora sotto altra forma è diventato una proprietà dello spirito universale, e la
condizione essenziale della civiltà nostra e di tutti i popoli. Non i nostri filosofi
degli ultimi duecento anni, ma Spinoza, Kant, Fichte, Schelling ed Hegel sono
stati i veri discepoli di Bruno, di Vanini, di Campanella, di Vico ed altri illustri. »
È la prima formulazione della teoria della circolazione del pensiero che sarà poi
integrata da ulteriori perfezionamenti, ma che rimarrà identica nell'impianto
generale, specialmente dopo che nel I 8 57 scrive al fratello: « La mia scoperta consiste nell'aver trovato che la certezza sensibile hegeliana è né più né meno che la
percezione intellettiva di Rosmini. »
Spaventa riteneva cosi di avere dimostrato una continuità fra il pensiero filosofico italiano ed europeo, e che i nostri Galluppi, Rosmini, Gioberti avessero
riportato in Italia, in diversa formulazione, quello che era il contributo filosofico
più valido e autentico della filosofia europea, cioè l'idealismo tedesco. Per questo
lo studio del pensiero di Gioberti assume un rilievo decisivo per condurre una
duplice operazione politico-culturale e teorica. Per quanto riguarda il primo
aspetto, rimane valido ciò che vide subito il fratello Silvio: « Il tuo lavoro su Gioberti potrà essere l'anello di comunicazione tra la filosofia ordinaria, che c'è in
Italia, e quella che noi vorremmo che vi fosse. » Questa comunicazione, bisogna .
aggiungere, toglieva legittimità e spazio agli spiritualisti che si richiamavano proprio a Gioberti, e vedevano così recuperato, ma come momento parziale, il cattolicesimo del loro filosofo.
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Sul piano teorico lo studio di Gioberti si inseriva nella tormentata lettura
di Hegel e lo orientava in un senso nettamente soggettivistico, con il riconoscimento che «la vera Idea giobertiana: non è l'essere, ma il creare; non l'Ente, ma
lo Spirito. Atto creativo è dialettica, assoluta dialettica; e la dialettica è l'organismo
o vita ideale. La filosofia, come riproduzione fedele di tale organismo, è dunque
essa stessa dialettica; è, a suo modo, creare».
Spaventa opererà una sistemazione organica del suo pensiero ·dal I86o.
In tale anno è nominato professore di storia della filosofia a BC>!0gna dove lesse la
prolusione Carattere e sviluppo della filosofia italiana dal secolo XVI alla fine del nostro
tempo, e l'anno successivo è chiamato da De Sanctis a Napoli a coprire la cattedra
di filosofia; il 2 3 novembre legge la famosa prolusione, nota con il titolo La fi-
losofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea.
La produzione dello Spaventa è classificabile abbastanza nettamente. Gli
scritti pubblicati sulle riviste torinesi, di politica culturale, sono stati raccolti da
Gentile nel I 9 I I e nel I 920 con i titoli La politica dei gesuiti nel ~ecolo XVI e nel XIX,
e La libertà d'insegnamento. Gli scritti di storia della filosofia italiana sono: l principi
di filosofia italiana del sec. xv (I 8 5I); Frammenti di studi sulla filosofia italiana del
sec. xv (I85 2); Studi su Campanella (I8 54); Del principio della riforma religiosa,politica
e filosofica del sec. XVI (I 8 55); L'amore dell'eterno e del divino in G. Bruno (I 8 55);
Concetto dell'infinito in Bruno (I859). Scrisse anche una serie di studi sul pensiero
europeo e su Hegel: Il sensismo del secolo XVII e V. Cousin (I859); La filosofia di Kant
e la sua relazione con la filosofia italiana (I856); Studi sopra la filosofia di Hegel (I85o);
Sul problema della cognizione in generale e dello spirito (I858). Negli anni successivi
l'interesse di Spaventa· si concentra su un riesame della filosofia di Gioberti
(La filosofia di Gioberti, I863) e di Hegel: Le prime categorie della logica di Hegel
(I863); Principi di filosofia (I867); Studi sull'etica di Hegel (I869). Infine scrisse alcuni
articoli e saggi di polemica verso il positivismo e per un recupero del kantismo
in funzione antipositivistica: Paolottismo, positivismo, razionalismo (I868); Sulle
psicopatie in generale (I872); La legge del più forte (I874); Idealismo o realismo? (I874);
Note sulla metafisica dopo Kant (I873); Kant e l'empirismo (I88o).
Nell'ultimo periodo Spaventa condusse vivaci polemiche politiche contro gli
« uomini nuovi », per rivendicare la validità di una politica che ormai era impossibile riproporre: «Una volta quando si stava peggio (e quindi si stava meglio), si diceva: de rege nihil, ed era atto di assoluto timore, che significava: il re
è tutto. »
La posizione di Spaventa è una critica del trasformismo, ma fatta da posizioni conservatrici e reazionarie. Basti ricordare quali sono state le motivazioni
delle critiche politiche di un Labriola al trasformismo, fatte « da sinistra », per
rivendicare un diverso ordinamento sociale. Parallelamente a questa polemica
Spaventa «traduce» lo Hegel politico, con l'intento di un recupero mondano
delle attribuzioni « divine » dello stato. Egli condanna i nuovi integrati nel
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blocco oligarchico, dal punto di vista della componente liberai-moderata e perciò
è polemico anche contro De Sanctis,'' il quale tenta di dare una soluzione alla
vita politica italiana, proponendo il « centro sinistro ».
VIII ·IL PENSIERO DI SPAVENTA
a) La teoria della circolazione europea della filosofia italiana
Spaventa formulò la teoria della circolazione europea del pensiero filosofico
italiano, su sollecitazioni politico-culturali e non per un interesse storiograficocritico. Egli voleva ricongiungere il pensiero italiano a quella che considerava
la migliore e più valida tradizione filosofica europea, l'idealismo tedesco.
Egli partiva dalla persuasione che « non ci sono due filosofie moderne; due,
tre, quattro correnti filosofiche perpetue, quante sono le nazioni presenti in Europa: ma ci è una sola filosofia, essenzialmente una. Questa unità è lo sviluppo
stesso della filosofia nelle diverse nazioni ». Lo studio del pensiero europeo è
pertanto un fatto unitario, e gli arresti temporanei della comunicazione culturale
in qualche nazione possono essere determinati solo da particolari congiunture
politiche. Per quanto riguarda il « ritardo » italiano, Spaventa lo imputa fondamentalmente alla chiesa cattolica, che perciò viene considerata non solo come « la
principale cagione della nostra rovina », ma soprattutto come l'istituzione che ha
tentato di bloccare lo sviluppo del pensiero moderno con un intervento meramente repressivo.
Ora è noto che la teoria di Spaventa non ha nessun valore scientifico anche
se ha fatto da supporto.a tutto un orientamento della ricerca storiografica italiana
contemporanea. Gli studi più seri in questo campo si sono orientati a rivedere
criticamente e radicalmente i risultati raggiunti da Spaventa e dai suoi discepoli.
L'organicità e l'interna coerenza della teoria di Spaventa è esemplata largamente,
almeno per quanto riguarda il pensiero moderno, sulla Storia della filosofia di Hegel.
Comunque inizia da questo periodo una rinascita di interesse di studi sul pensiero
filosofico italiano. Non è su questo terreno che la teoria deve essere valutata, ma
su quello politico-culturale, l'unico in cui abbia un significato preciso. Il progetto
ideologico di Spaventa rispondeva a una complessa operazione politica, in funzione dell'unificazione culturale degli intellettuali del blocco moderato. Egli tendeva a emarginare e battere tutte le teorizzazioni di Gioberti e dei giobertiani i
quali rivendicavano, come è noto, un'origine autoctona, pelasgica, del pensiero
italiano e il suo primato rispetto al pensiero europeo.
Spaventa invece intende rivendicare la matrice mondana, laica, antichiesastica del pensiero italiano, che sorge appunto nel periodo del rinascimento (e
non durante la scolastica). Egli mette in evidenza che la validità di Bruno, Campanella, Vico è data proprio dal fatto che sono filosofi europei, in quanto affrontano i problemi filosofici che la civiltà europea pone. Solo a questa condizione è
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possibile un ricongiungimento del pensiero italiano con quello contemporaneo.
E siccome il pensiero attualmente più avanzato è quello di Hegel, bisogna vedere
quale « traduzione » di questo pensiero è stata operata in Italia in termini di autonomo sviluppo filosofico. Lo studio di Gioberti assume pertanto una grande importanza, non come semplice analogia più o meno valida, né come riferimento
meramente culturale (di « fonti » culturali), ma come richiamo al filosofo che ha affrontato gli stessi problemi teorici di Hegel. In Spaventa lo studio di Gioberti sarà
parallelo e contemporaneo a quello di Hegel, perché solo un superamento di
questa posizione permetterà di far progredire il pensiero italiano-europeo.
È stato notato che in questa teoria viene reciso il legame tra il pensiero filosofico e quello scientifico. Questa frattura non è casuale, né determinata dal
fatto che Spaventa non sapesse che Galileo è un pensatore importante. Tanto è
vero che uno degli ultimi scritti di Spaventa è su Galileo e questo incontro avviene
proprio quando Spaventa tenta di rielaborare il suo pensiero in stretta tensione
polemica con il positivismo; di qui la necessità di controllare se è possibile recuperare, nell'ambito della sua filosofia, anche alcune posizioni del grande scienziato,
il che avviene, però, al prezzo di una interpretazione platonica di Galileo (comunque il breve scritto testimonia solo un insorgente interesse di Spaventa strettamente connesso con la necessità della sua battaglia antipositivistica). L'esclusione del pensiero scientifico dalla classificazione di Spaventa è pertanto strettamente connessa alla sua interpretazione di Hegel e al privilegiamento di una corrente filosofica, oltre che alla considerazione che la scienza e il sapere scientifico
è al limite solo un momento subordinato e inessenziale del processo id~le e
storico del pensiero moderno.
La mediazione culturale operata in questo momento da Spaventa esclude
in linea di principio la riconsiderazione di alcuni momenti dello sviluppo culturale
e filosofico. È evidente che il privilegiamento della figura di Bruno è polemica
rispetto alla valutazione di Galileo, perché si ritiene che Bruno abbia operato
una sintesi teorica in cui i motivi del copernicanesimo erano inclusi e risolti. Non
solo, ma tutta la polemica con la chiesa avrebbe assunto tutt'altro aspetto e
consistenza se fatta rivendicando la validità del programma teorico e scientifico
di Galileo.
Proprio nell'incapacità di farsi erede dei risultati più significativi del pensiero
laico europeo, si evidenziano i limiti di Spaventa. La sua linea di politica culturale
è stata progettata in funzione difensiva verso una cultura (quella cattolica), che
solo in un ambito assai delimitato esercitava ancora una influenza.
b) Spaventa e Hegel
Abbiamo già sottolineato quale importanza abbia attribuito Spaventa al pensiero di Hegel, di cui rielaborò le opere più significative. Egli affronta, fin dal
periodo torinese, il problema di una utilizzazione e revisione del patrimonio teorizzo
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Positivismo ed hegelismo in Italia
co di Hegel, nella persuasione che «il vero significato dell'hegelismo ... è quello
di essere la filosofia della mediazione assoluta, cioè della creazione ». A raggiungere
questa conclusione ha contribuito lo studio del pensiero di Gioberti, che per il
nostro autore « compendia in sé i momenti anteriori, cioè Galluppi e Rosmini,
come Hegel compendia Kant, Fichte e Schelling ».
Alla conclusione dello studio del pensiero moderno, Spaventa mette in evidenza che il punto comune del pensiero italiano (Gioberti) ed europeo (Hegel) è
«il conoscere come assoluta chiarezza. Tale è il pensiero puro di Hegel; tale è
l'intuito di Gioberti. Pensare puro e intuito puro vuol dire: la realtà assolutamente
chiara, assolutamente trasparente, cioè assolutamente conosciuta. Pensare puro e
intuito è dunque l'orizzonte o il cielo della verità: il vero cielo della scienza. A
questo cielo noi ci siamo elevati mediante la storia; il puro conoscere non è altro
per noi che il risultato del processo storico ». Ora, perché il puro conoscere sia
coscienza, bisogna che « apparisca come risultato del processo della coscienza
stessa e in se stessa e non già del semplice processo storico ». Il problema sollevato,
che è stato al centro della ricerca teorica del nostro autore, è quello del rapporto
della Fenomenologia con la Logica, cioè della fenomenologia come parte dell' Enciclopedia delle scienze. Per Spaventa la fenomenologia « è la formazione in generale
della coscienza la quale non si riposa, è sempre dialettica, finché non diventa coscienza scientifica, cioè... Scienza ».
Il risultato del processo fenomenologico coincide con il principio della scienza. Il processo storico e ideale conduce alla conclusione che « non ci sono due
specie di pensiero, o meglio, due forme di pensiero: il pensiero è uno, è lo
stesso ». Il processo conoscitivo, inteso come creazione, induce a privilegiare la
fenomenologia in quanto « scienza della scienza come fenomeno, cioè scienza
dell'esperienza della coscienza».
Che questa conclusione introduca un elemento di differenziazione nel sistema
hegeliano, lo ha presente anche il nostro autore, per il quale « dopo Hegel noi
non è che dobbiamo fare altro che ripetere e commentare macchinalmente le sue
deduzioni come tante formule sacramentali». L'attualità e utilizzabilità di Hegel
è strettamente condizionata alla possibilità di una rifondazione metafisica della
realtà, che la Logica preclude e solo attraverso la Fenomenologia è possibile recuperare, come momento storico e ideale della processualità. Il primato accordato alla
Fenomenologia lascia aperta la possibilità, non di una difesa sterile del « sistema »
hegeliano nel suo complesso, ma di una conferma delle sue direttrici di fondo.
L 'uso della Fenomenologia è cosl funzionale alla necessità di affrontare la discussione
sullo sviluppo del pensiero filosofico tedesco, che dopo il 1 86o è prevalentemente
posi tivista.
Spaventa sa che Hegel è stato interpretato sia in chiave antropologico~aterialistica sia in chiave teologico-metafisica, ed egli tenta di salvarne la validità
con una rifondazione della logica che precluda all'origine questi esiti. Per questo
ZZI
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Positivismo ed hegelismo in Italia
la discussione sull'importanza della fenomenologia è connessa con la revisione
della dialettica hegeliana, che Spaventa intende utilizzare nella critica all'insorgente
positivismo. La soluzione del problema teorico è anche l'approntamento di strumenti critici per la polemica filosofica antimaterialista dell'ultimo Spaventa. Ora
«risolvere il problema del conoscere è provare l'identità come mentalità; provare
l'identità come mentalità è provare la creazione, giacché l'identità come mentalità
è appunto l'attività creativa; dunque risolvere il problema del conoscere è provare
la creazione )).
All'origine della logica hegeliana ci sono le categorie di essere, non essere e
divenire; è di qui che deve partire un riesame di Hegel, che Spaventa compie ·sulla
base della critica di Adolf Trendelenburg, il quale aveva sostenuto che l'unità di
essere e non essere, in quanto identità assoluta, è assoluta quiete, onde sarebbe inspiegabile il divenire. « Il puro_ essere, uguale a se stesso, è quiete; il nulla, che è
uguale a se stesso, è del pari quiete. Come mai dall'unità di due rappresentazioni in
quiete deriva il divenire in movimento? )) (Trendelenburg). Spaventa ritornò più
volte su questo problema, dallo scritto Sulle prime categorie della logica di Hegel, all'ultimo, Esame di un'obiezione di Teichmiiller alla dialettica di H egei, oltre al noto
scritto inedito, pubblicato da Gentile per giustificare l'esito «attualistico)) della
ricerca spaventiana.
Questi raggiunge infatti la seguente conclusione: « Penso, cioè nasco come
pensare; ma non posso afferrar me stesso come pensare, ma solo come pensato, e
perciò perisco come pensare. Perendo come pensare, penso, e perciò nasco come
pensare. E così sempre.))
Sulla base di questa soluzione, che esclude in linea di principio la dialettica
di lago-natura-spirito come essenziale nel processo della realtà, egli affronta ora
l'esame dei risultati del nuovo pensiero filosofico tedesco (materialista), non nel
tentativo di dare « forme logiche ai fenomeni naturali )) come fece il De Meis, ma
partendo dal riconoscimento che « il reale come reale non è vero; il reale è vero
in quello che ha di ideale)).
c) Spaventa e il positivismo
Verso il I 870 Spaventa conclude la sua revisione dell 'hegelismo, raggiungendo una soluzione che ritiene più idonea per affrontare un riesame dei contributi
del pensiero filosofico e scientifico contemporanei. Dopo il 1869 Spaventa affronta la lettura di Fechner, Herbart, Lotze, Helmholtz, Darwin, A venarius.
Tutta la sua ricerca è ora tesa a criticare questo orientamento filosofico, attraverso
una serie di prese di posizioni teoriche e culturali. Egli parte dal riconoscimento
della necessità dello studio della scienza perché « il reale senza scienza è solo una
parte del reale; la quale presa p el tutto e riprodotta semplicemente dalla scienza,
è falsa, perché solo in quella unità, che è il tutto, essa ha il suo vero significato )).
Spaventa non si limita a rivendicare l'« idealità)) del momento originario del pro2.2.2.
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cesso della realtà, perché « il vero Reale, non è il vero senza il fatto né il fatto
senza il vero; l'uno senza l'altro sono due astrazioni: il vero Reale è il vero come
fare e fatto ». Egli entra nel vivo delle posizioni teoriche degli autori citati, affermando la necessità di una teorica del conoscere che superi quelle che considera
posizioni prekantiane, in particolare quelle che tendono a presentare la conoscenza
come una formazione naturale, in cui sarebbe determinante il condizionamento biologico e psicologico. Di fronte a queste posizioni, Spaventa rivendica la validità
della soluzione gnoseologica data da Kant con l'a priori, in quanto l'a priori «è
la stessa potenza nuova della natura, la potenza umana, quale risulta e si concentra
e si individua da tutta la sparsa attualità antecedente; e perciò è insieme un assoluto a posteriori». Gli orientamenti psicologistici del naturalismo approdano, secondo il nostro autore, a vecchie posizioni metafisiche meccanicistiche; il problema è pertanto quello di raggiungere la formulazione di una nuova metafisica
del reale che sia più rigorosa nel risolvere le reali contraddizioni presenti nell'esperienza. Cosi nell'indagine del rapporto fra anima e corpo egli segnala «l'errore
di considerare l'organismo come la combinazione di forze fisiche e chimiche,
non come l'energia stessa dell'individualità». La polemica che egli conduce
sull'origine delle psicopatie e poi nel saggio Idealismo o realismo? è nella direzione
di una rivendicazione di ragioni antimaterialiste, che presiedono ai fenomeni
psicologici e biologici. Su questa base egli giudica i presunti limiti del pensiero filosofico europeo, rivendicando la validità del criticismo. In questo modo egli prelude alla reazione antimaterialista che si sta prospettando nel pensiero
europeo.
Per Spaventa, insomma, Hegel, corretto in senso soggettivistico, ha già
dato risposte persuasive a tutte le possibili obiezioni e istanze del positivismo.
Esemplare quanto dice su Darwin; egli non lo condanna, come ha fatto De
Meis, né lo giudica positivamente all'interno delle sue scoperte e generalizzazioni,
come ha fatto Tommasi, ma si limita a dichiarare che «la metafisica hegeliana
(è) come una profezia, cioè l'organismo e la correzione anticipata della moderna
scienza dell'esperienza».
Per riassumere, Spaventa di fronte al positivismo tenta una duplice operazione:
considera le scienze necessarie ma in un ambito preciso e delimitato e solo nella
misura in cui si possono saldare a una considerazione metafisica dell'esperienza
non meccanicistica o naturalistica; da qui egli procede poi per rivendicare il
suo « umanesimo » antropologico. Il risultato è importante perché è stato al
centro dell'interpretazione di Spaventa da parte di chi rivendica un'apertura
del filosofo all'esperienza e alle correnti più vive del pensiero filosofico. È indubbio che in Spaventa ci sia il tentativo di rivedere i termini stessi in cui si pone il
positivismo; è nota la conclusione cui giunge nella famosa prefazione a Logica e
metafisica del I 867: « Il positivismo non è un sistema particolare. Molti si dicono
positivisti e non si accordano tra loro. Nelle scienze naturali, si confonde col na223
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Positivismo ed hegelismo· in Italia
turalismo. Ma la sua maggiore importanza, e direi quasi la sua origine, è nelle
scienze che concernono l'uomo. Qui è il valore e il diritto del positivismo. Se la
natura deve essere studiata quale essa è realmente e ci si mostra ne' suoi fenomeni,
e non già con astratte e preconcette categorie, tanto più l'uomo e il mondo umano;
il quale in tanto è ed esiste davvero, in quanto si fa quello che è; e si fa lui, da sé,
colle proprie potenze; e si fa di continuo, e progredendo sempre, ecc. La vera natura, essere, esistere umano, è il fare umano. In altri termini, l'uomo è essenzialmente storia; e chi dice storia, dice positivismo, aposteriorismo. L'uomo a priori
è l'uomo astratto, non reale: l'uomo senza storia. Il positivismo rappresenta,
dunque, un elemento vero nella scienza dell'uomo. In brevi parole, per me esso è
la vera espressione dell'esigenza contenuta nel vero idealismo: l 'infinita esistenza
è attività delle cose e specialmente dell'uomo. Questa attività è il diritto del positivismo. In questo senso, io sono positivista. »
In questa posizione, che rappresenta l'ultima e conclusiva acquisizione del
nostro autore, sottolineiamo questi elementi:
a) il riconoscimento che il positivismo non è un« sistema», una posizione filosoficamente autonoma, e perciò è bisognoso di integrazione;
b) la separazione fra naturalismo e positivismo serve per recidere il legame
esistente tra lo sviluppo delle scienze e le conclusioni filosofiche cui giunge il positivismo;
c) il positivismo è pertanto circoscritto a una riconsiderazione dell'uomo, nell'ambito del processo storico e cosmico.
È evidente che, privato il positivismo dei due elementi caratterizzanti (il
processo conoscitivo come formazione naturale, lo sviluppo delle scienze come
coessenziale nella determinazione dell'orientamento filosofico generale), Spaventa può dichiarare che il suo idealismo porta a compimento le istanze più autentiche del positivismo. La risoluzione della natura nel fare dell'uomo e nell'attività delle cose è la negazione dell'oggettività del mondo e del processo conoscitivo, che preclude qualsiasi possibilità di legittimare le scienze, considerate nel
loro autonomo e oggettivo sviluppo. Spaventa tenta qui di rendere compatibile il proprio idealismo con il positivismo, depauperando quest'ultimo di quanto
aveva di più significativo. È la stessa operazione che faranno poi i positivisti ardigoiani verso l'idealismo. Va sottolineato solo che questo genere di operazioni
sono sempre condotte sotto il segno dell 'umanesimo. Anche Giovanni Marchesini
si sforzerà di caratterizzare il pensiero dell'Ardigò come « umanismo naturalistico » o « naturalismo umanistico ». Il positivismo si viene pertanto a configurare
«come filosofia della cultura (che si converte così nell'umanismo, affermazione
dei valori umani che sgorgano dallo spirito dell'uomo, oggetto centrale della filosofia» (Rodolfo Mondolfo). È lo stesso terreno scelto da Spaventa. Ma l'uomo,
privato dei suoi nessi storico-sociali determinati e del suo retroterra biologico-antropologico, può essere il « luogo » per le più diverse operazioni teoriche, sia nella
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direzione di un recupero di istanze « positive », che di quelle « ideali ». Siamo ovviamente sul terreno di un tentativo di conciliazione di opposte tendenze e in
quanto tale criticabile sia per « troppo di idealismo » sia « per troppo di materialismo», come infatti avviene da parte degli hegeliani e da parte dei positivisti. Non
siamo comunque di fronte a una sintesi nuova, ma al tentativo di una unificazione,
o meglio di un ricongiungimento dell'idealismo hegeliano con la scienza contemporanea, compiuto al di fuori del progetto di De Meis o di una statica difesa di
tutto l'impianto hegeliano.
IX ·AUGUSTO VERA
Un altro significativo rappresentante dell'hegelismo napoletano è Augusto
V era, di cui si è tentata una revisione critica, in senso accentuatamente positivo,
rispetto a Spaventa.
Nato ad Amelia, in Umbria, nel maggio I8I3, da una famiglia benestante,
studiò molto presto le lingue classiche e straniere. Nel I 8 3 5 va a Parigi, poi in
Svizzera. Nel I839 ritorna a Parigi e insegna in scuole di provincia; nel I845 si
addottora alla Sorbona con le richieste due tesi, una in latino e una in francese:
Platonis, Aristotelis et Hegelii de medio termine doctrina (I 84 5) e Problème de la certitude
(I845). Queste due opere rivelano, più che vari articoli precedenti, l'orientamento
eclettico .di Vera, in linea con Cousin, allora di fatto il vero responsabile della politica universitaria, sotto il dominio di Luigi Filippo.
Nelle due opere citate Vera affronta il problema del medio termine, cioè
della dimostrazione: « Dimostrare non è altra cosa che trovare un mezzo tra il finito e l'infinito.» Egli trova una soluzione del rapporto tra esistenza ed essenza,
postulando l'esistenza di una intelligenza divina, che dà ragione della realtà del
mondo. Noi possiamo però conoscere solo la manifestazione esistenziale di questo
assoluto; il problema pertanto è quello di « trovare una idea che esprima il duplice
carattere di questo essere e ne dimostri la realtà. Ora queste condizioni si trovano
riunite nell'idea di causa», come fondamento della certezza nella conoscenza in
quanto« è l'idea più adatta alla conoscenza dell'assoluto, che ... ci fa penetrare nella
natura stessa della sostanza ».
Sul finire del I847 egli passa da una sostanziale accettazione delle posizioni
dell'eclettismo cousiniano all'hegelismo. Questo passaggio, fatto poi oggetto di
polemiche e di varie interpretazioni, è segnato dallo scritto Saggio sulla filosofia
della religione di Hegel (1848) e, definitivamente, dall'lntroduction à la philosophie de
Hegel (I 8 55), dove la polemica antieclettica si fa precisa e puntuale. È stato da
tutti sottolineato che questo passaggio non segna una radicale inversione nella
speculazione di Vera, ma piuttosto una prosecuzione di sue precedenti posizioni.
Per questo motivo è stato posto in evidenza l'aspetto politico-culturale generale
che presiede a questa nuova posizione, dal momento appunto che non è possibile
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individuare elementi teorici di netta rottura. « L'" idea " di Hegel fissa, stabilizza,
converte in principio la funzione ancora subalterna dell'" idea" nell'eclettismo,
che nell'eclettismo resta a mezza via tra la validità oggettiva assoluta propria della
ragione e la soggettività della scienza pensante. Ma il potenziamento d'uso, di
funzione, corrisponde nella filosofia di Vera al mantenimento di una perfetta continuità con la tendenza del pensiero francese precedente per ciò che concerne il suo
retroterra » (Guido Oldrini). È significativo pertanto che questo incontro con
Hegel avvenga proprio sulla base di una accettazione sostanziale della « filosofia
della religione ». II saggio citato inizia proprio con l'affermazione che « la filosofia
si è, in ogni tempo, applicata a ricercare l'origine e i fondamenti della religione, e a
distinguere i suoi elementi transitori e apparenti dai suoi principi e termini assoluti », per rimarcare poi che « la filosofia e la religione hanno un solo e medesimo
oggetto, giacché loro oggetto è l'essenza delle cose, l'eterno, l'assoluto, Dio».
Vera va in Inghilterra, per ragioni strettamente personali, negli anni 185218 59, mantenendo però stretti rapporti con gli ambienti culturali francesi. In
questo periodo egli continua lo studio e la traduzione delle opere di Hegel,
convinto che bisogna presentare il pensiero del filosofo tedesco nella integralità
delle sue posizioni filosofiche. In Inghilterra pubblica l' lntroduction citata, la traduzione della Logica di Hegel in due volumi e An inquiry into speculative and
experimental science (Una ricerca sulla scienza speculativa e sperimentale, 18 56): una
violenta critica a tutta la tradizione filosofica empiristica inglese. Egli vuole così
sottolineare un uso esclusivamente antirealista di Hegel, confermando quella
che è e sarà una costante del suo pensiero, espresso con estrema chiarezza:
«L'idealismo e il materialismo sono come i due limiti estremi entro cui si agita
il pensiero umano... e rappresentano le due direzioni opposte dell'intelligenza
che cerca il vero ora al di fuori, ora al di dentro di se stessa, ora nell'esperienza e ora nella ragione. » Questa posizione però lo isola completamente nell'ambiente culturale inglese, così nel 1859 ritorna in Italia perché Mamiani
gli offre un incarico di storia della filosofia all'Accademia scientifico-letteraria
di Milano, dove nel novembre 1861 pronuncia l'orazione Amore e filosofia. Alla
fine dell'anno è chiamato da De Sanctis a coprire la cattedra di storia della
filosofia all'università di Napoli dove insegnerà fino al collocamento a riposo. Morì a S. Giorgio a Cremano (Napoli) il 13luglio 1885. Nel periodo del suo
insegnamento italiano, la polemica antipositivistica si fa sempre più insistente ed
egli rivendica apertamente l'esclusiva validità di un esito religioso: «La filosofia
hegeliana, checché si dica è la sola e vera filosofia; e lo è anzitutto, perché è essenzialmente religiosa, e religiosa nel senso profondo della dottrina cristiana. » In
questo periodo scrisse, in tre volumi, Il problema dell'Assoluto (187z, 1875, 1879).
La sua polemica all'interno degli hegeliani napoletani, in particolare con Spaventa, è volta a rivendicare la validità complessiva dell'idea hegeliana, nella sua assoluta autonomia logica e antologica. Di qui un privilegiamento delle opere sizz6
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Positivismo ed hegelismo in Italia
stematiche di Hegel, in particolare dell'Enciclopedia, di contro alla Fenomenologia,
considerata solo come un« frammento staccato dal tutto». È indubbio che l'accentuazione posta da V era, sia funzionale a una lettura di tipo metafisica-religioso
di Hegel. Va sottolineato però che la posizione culturale e filosofica di Spaventa e
Vera non si caratterizza nei termini contrapposti di « sinistra » e « destra », ma
all'interno di una utilizzazione del pensiero di Hegel in funzione di una gestione
moderata del blocco culturale meridionale, che aveva in Napoli il suo centro.
Napoli, per complesse ragioni politiche e sociali, non riuscì mai ad assolvere una
funzione di mediazione culturale nazionale, ma è stata sempre una componente
di un articolato blocco sociale e politico, perciò la battaglia per assumere una funzione di direzione all'interno della cultura meridionale fu assai acuta in misura
diretta del ristretto ambito in cui avveniva. In questo preciso contesto le posizioni di V era si caratterizzano sul piano politico come apertamente reazionarie e
su quello culturale come tendenti a un recupero dell'esclusiva dimensione religiosa del filosofare.
X · FRANCESCO DE SANCTIS
De Sanctis è senza dubbio l'intellettuale più avanzato sul piano politico e
culturale espresso dall'hegelismo napoletano. Egli si soffermò a studiare il pensiero
di H egel in tre momenti distinti: nel periodo della « scuola napoletana» (I 84 546), nel periodo del carcere e nel I 8 58 (la famosa Lezione quarta sulla Divina
Commedia).
In questi diversi momenti, se si esclude il periodo della « lettura » della
Logica di Hegel fatta in carcere, De Sanctis assume un preciso atteggiamento critico di fronte alle posizioni hegeliane. Nel primo scritto affronta i due problemi
della «morte dell'arte» e della definizione dell'arte, e in tutti e due i casi De
Sanctis respinge le formulazioni hegeliane, in cui individua subito l'impianto
platonico: « Volendo dimostrare che l'arte pur oggi esiste, che pure oggi essa può
diventare creatrice, noi abbiamo da raggiungere uno scopo contrario a quello
di Hegel, che l'ultima sua conseguenza fu questa: l'arte oggi è morta. E noi vedremo che, considerata l'arte nel senso di Hegel, necessariamente doveva giungersi
a questa conseguenza; ma che, usciti che si sia da quel circolo, può ben dimostrarsi
il contrario, e può dimostrarsi che la scienza non combatte, non distrugge l'arte.»
Lo scritto del I858 è contemporaneo al dialogo Schopenhauer e Leopardi, il contributo filosoficamente più rilevante di De Sanctis perché non ~'esatta individuazione di un orientamento reazionario che stava assumèndo la cultura europea, con il lancio delle posizioni del filosofo tedesco, ma anche perché oltre a una
critica sul piano teorico c'è una storicizzazione dei motivi che presiedono alla
diffusione del pensiero di Schopenhauer. Inoltre De Sanctis indica una alternativa materialistica (Leopardi) a questa prospettiva spiritualistica, con una am-
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Positivismo ed hegelismo in Italia
piezza di motivazioni di grande acutezza e attualità. In questo contesto va letta
la critica all'estetica hegeliana, che è stata considerata da alcuni studiosi non compiuta sul piano teorico; è da notare che l'autore stesso non ritenne opportuno
pubblicarla. Comunque va sottolineato che a De Sanctis interessa soprattutto cogliere il momento culturale e politico in cui viene operato un particolare uso dell'estetica hegeliana e della filosofia schopenhaueriana.
Già nel primo scritto citato, la critica all'estetica hegeliana («il particolare
di Hegel è un velo del generale, la sua forma è l'apparenza dell'idea ... Il sistema
ha fruttificato nella scuola. Il contenuto, il significato interiore, l'idea, il concetto,
ecco la calamita del critico hegeliano »), si innerva con un riferimento preciso
allo Schopenhauer come colui « che ha portato alle sue ultime conseguenze la
teorica. Il poeta, secondo lui, dee nell'individuo considerar solo l'essenziale, il
genere di esso, e perciò sua materia sono le idee nel senso platonico, le specie
delle cose, sciolte dalla loro temporanea esistenza ». Nel saggio sui due filosofi
c'è, come abbiamo detto, la più radicale critica del nuovo spiritualismo: « "Cosa
sei tu?" "Sono spiritualista. " E con questo talismano l'onestà ti spunta sulla
fronte, e ti si fa lieta accoglienza in tutta l'Europa civile. Sono spiritualista, e
Ferdinando n mi farà una lettera di raccomandazione al Papa, Luigi Napoleone
mi farà girar Parigi senza accompagnamento, e Cavour mi farà cavaliere di San
Maurizio. » Abbiamo scelto questo giudizio «politico» per rimarcare un'avvenuta consumazione dell'esperienza hegeliana e l'assunzione di una nuova posizione che si configurerà di aperto accoglimento del « realismo rivoluzionario »
rappresentato dal positivismo, come nuovo e più persuasivo strumento interpretativo della cultura e della politica europea.
Questa nuova prospettiva teorica e storica è dispiegata nella Storia della
letteratura italiana, scritta da De Sanctis in un momento di eccezionale tensione intellettuale, nel I 870, dopo che ebbe criticato e radicalmente i due manuali scolastici del clericale Cesare Cantù e dell'anticlericale Luigi Settembrini e
dopo avere individuato i limiti del tentativo conciliatorista del positivista Bonaventura Zumbini. Proprio nella polemica con questo raggiungerà una chiara ridefinizione, antihegeliana, della sua posizione estetica: «L'indipendenza dell'arte è
il primo canone di tutte le estetiche e il primo articolo del Credo, né un'estetica è
possibile che non abbia questo fondamento; sicché non solo questa non è una critica sentimentale, anzi è la sola critica razionale, la sola che si possa chiamare scienza ... Ogni scienza ha i suoi supposti, i suoi antecedenti. Il supposto della estetica è
fra l'altro il contenuto astratto. E la scienza comincia quando il contenuto vive e
si muove nel cervello dell'artista e diventa forma, la quale è perciò il contenuto
medesimo in quanto è arte. La forma non è a priori, non è qualcosa che stia da sé
e diversa dal contenuto, quasi orname.nto o veste, o apparenza, o aggiunto di esso;
anzi è essa generata dal contenuto, attivo nella mente dell'artista: tal contenuto,
tal forma. »
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Positivismo ed hegelismo in Italia
La Letteratura italiana di De Sanctis ·non è strutturata secondo uno schema
hegeliano, ma secondo )e acquisizioni storiografiche democratico-repubblicane.
Se confrontiamo la ·storia della filosofia di Spaventa con quella di De Sanctis,
dobbiamo riconoscere che questa presenta il pensiero filosofico, considerato parte
essenziale della storia etico-politica e letteraria di una nazione, in netta antitesi
a quanto afferma Spaventa. « Galileo, Bacone, Cartesio sono i veri padri del
mondo moderno, la coscienza della nuova scienza. » Questa posizione giustifica
un ricongiungiment.o con la cultura europea che riconosce nell'illuminismo le
posizioni culturalmente più avanzate e l'antecedente del nuovo orientamento
sperimentale, mentre Spaventa, riconoscendo in Galluppi, Rosmini e Gioberti i
mediatori culturali della più avanzata cultura laica europea, accettava il cattolicesimo come tramite fondamentale della cultura liberale. In De Sanctis invece c'è
l'aperto riconoscimento della validità del nuovo orientamento culturale, visto in
stretta connessione con un più generale risveglio politico: « Nel suo cammino il
senso del reale si va sempre più sviluppando, e le scienze positive prendono il di
sopra, cacciando di nido tutte le costruzioni ideali e sistematiche ... La rivoluzione
arrestata e sistemata in organismi provvisori ripiglia la sua libertà, si riannoda
all'Ottantanove, tira le conseguenze. Comparisce il socialismo nell'ordine politico,
il positivismo nell'ordine intellettuale. Il verbo non è più solo Libertà, ma Giustizia, la parte fatta a tutti gli elementi reali dell'esistenza, la democrazia non solo
giuridica, ma effettiva. »
La pubblicazione della Storia della letteratura fu un consapevole atto politico
e culturale: quello di offrire appunto in un quadro complessivo e unitario la storia
politica e intellettuale di una nazione, che attingeva così una nuova coscienza di sé.
Con quest'opera la cultura borghese progressista dell'Ottocento raggiunge il
punto più alto nella consapevolezza di una funzione egemone e rappresentativa
dell'unità nazionale. Dopo, non sarà costruita nessun'altra storia letteraria con
un impianto cosi organico e con direttrici di orientamento generale così avanzate.
Anzi assisteremo al processo inverso, fino alle teorizzazioni crociane, tendenti a
negare, in linea di principio, ogni possibile storia della letteratura italiana, se non
come espediente didattico, per un buon uso divulgativo. Così l'adesione critica al
positivismo, ampiamente motivata nella conferenza dell'I I marzo I883, Il darwinismo nell'arte, era preceduta dall'esatta definizione della funzione assolta da quell'idealismo che «piace alla colta borghesia, perché da una parte, rigettando il
misticismo, prende un aspetto laicale e scientifico, e dall'altra, rigettando il materialismo, condanna i moti rivoluzionari, come esplosioni plebee di forze brute ».
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CAPITOLO NONO
Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento
e gli inizi del Novecento
DI RENATO TISATO
I
· CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Fra le critiche mosse alla classe cui toccò dirigere la politica italiana nei primi
decenni seguenti l 'unificazione, assume particolare rilievo, per noi, a questo
punto, quella di avere affidato all'educazione e in particolare alla scuola, il compito di « creare una unità nazionale operante nella coscienza dei cittadini », mentre
il problema più urgente sarebbe stato quello di realizzare condizioni nuove di
vita, eliminando i residui feudali, la miseria, le ingiustizie, le sopraffazioni. Tale
inadeguatezza programmatica, poi, sembra imputabile, a volta a volta, ad « ignoranza» delle forze che obiettivamente dirigono l'andamento della storia (Dina
Bertoni ]ovine) o a precisa volontà di far «credere che il progresso sociale si
possa assicurare attraverso un sapiente cangiamento interno (alla struttura esistente) e non piuttosto attraverso il dialettico succedersi delle classi» (Massimo
Salvadori).
O utopisti in buona fede o consapevoli strumenti della conservazione del
privilegio: pare che per i pedagogisti, gli uomini di scuola, i politici, che si interessano in questo periodo della creazione degli istituti, della determinazione dei
contenuti e della elaborazione di metodi per una educazione di massa, non ci sia
altra scelta.
In realtà un aut-aut così assoluto finisce, per la sua stessa assolutezza, col
risultare astratto. La questione coinvolge una valutazione non solo della realtà
economica, sociale e politica italiana durante il periodo in esame, ma anche dei
movimenti culturali contemporanei e, in primo luogo, del positivismo, che caratterizza l'epoca ed esercita un'influenza quasi egemonica nel campo pedagogico.
Ovviamente, in questa sede, non possiamo che concentrare la nostra attenzione attorno a pochissimi punti essenziali, !imitandoci a identificare le linee direttrici per un approfondimento del discorso.
La storiografia appare, oggi, pressoché unanime nell'accettare il giudizio di
Gramsci secondo il quale l'argomento che vorrebbe ascrivere a «merito» delle
classi colte di aver operato da « sole » nella lotta per il risorgimento nazionale, è
un argomento « triviale e frusto » che va spazzato via. Al contrario, il non aver
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
saputo agganciare e dirigere le masse popolari, impegnandosi per svilupparne i
fermenti progressivi, va imputato a demerito, immaturità, debolezza intima.
Senonché, qualora la mancata partecipazione delle masse venga ricondotta al ritardo generale sul piano della rivoluzione industriale e dell'accumulazione capitalistica- così che la rivoluzione nasce dall'esigenza di creare le condizioni generali perché le forze economiche capitalistiche possano nascere e svilupparsi, tesi
anche questa sostenuta da Gramsci - si deve concludere che il mancato aggancio
delle masse ebbe un complesso di cause « oggettive » e non si vede con quale
coerenza, se è così, si possa parlare di« demerito» in rapporto all'« immaturità»
e alla « debolezza » della borghesia italiana.
È, comunque, indubbio che il periodo in esame è caratterizzato, per quanto
riguarda la lotta politica, dall'antagonismo destra-sinistra, in un primo tempo,
dal suo sbocco trasformistico in un secondo momento e dal suo superamento,
alla fine, in funzione antisocialista.
· Il problema, a questo punto, diventa: se esista oggettivamente una radicale
opposizione tra le parti. La risposta, qualora si rifletta su quel che si è detto sopra
e sulle caratteristiche della linea di sviluppo del rapporto fra i gruppi in questione,
non può essere che negativa. La classe politica emersa dal risorgimento appare
essenzialmente omogenea, indipendentemente dalle etichette ufficiali. Essa rappresenta gli interessi e le aspirazioni di un sottile strato della società italiana, ignorando i problemi delle grandi masse prevalentemente contadine.!
Parrebbe facile inferire che, dunque, la funzione che una classe egemone così
avulsa dai bisogni, dai problemi, dagli interessi delle masse deve attribuire alla
scuola, non può essere che ipnotica, quietiva, caratterizzata dalla diffusione di
dottrine provvidenzialistiche, razionalistico-oggettive. Senonché, una volta
messo, ipoteticamente, fra parentesi il « pericolo » che le masse, istruite, diventino
insofferenti del vigente stato di cose (supponendo, cioè, che tale pericolo possa
essere completamente neutralizzato mediante un'opportuna saturazione della
scuola di morale tradizionale e di ideologie religiose) è chiaro come una profonda
trasformazione dell'organizzazione scolastica, anche sul piano meramente tecnico, non
possa attuarsi senza un'altrettanto profonda trasformazione della società.
Basti pensare, a titolo esemplificativo, l'immane sforzo finanziario ed economico che sarebbe richiesto dall'impegno a liquidare, nel tempo più breve possibile, l'analfabetismo strumentale di massa: creazione di infrastrutture edilizie,
reperimento, formazione e retribuzione di insegnanti, fornitura gratuita di sussidi didattici, organizzazione delle refezioni e, al limite, mantenimento parziale o
totale degli scolari. Emergono, evidentemente, enormi problemi di distribuzione
del reddito nazionale, implicanti un dirottamento, a volte radicale, delle scelte e ,
. I Per dare un 'idea della pressoché universale
accettazione di questa interpretazione, basterà ricordare che essa è com~ne:!; studiosi profondamen-
te diversi per orientamento e nettamente caratterizzati quali Croce, Saverio De Dominicis, Ivanoe
Bonomi e Gramsci.
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
al di là, problemi di incremento del reddito medesimo: dunque una vera rivoluzione, la quale, però, non può essere accettata da una classe politica caratterizzata
dai tratti che sopra abbiamo considerato: la situazione si rivela, dunque, i:rrimediabilmente contraddittoria, almeno nel quadro di un capitalismo ancora tenacemente aggrappato ai principi dello stato liberale.
A questo punto dobbiamo :riconsiderare lo stesso problema sul piano del
pensiero :riflesso, esplicitato e :risolto con :rigore di metodo negli scritti dei principali pensatori.
Si tratta, prima di tutto, di affrontare la questione della legittimità della :riduzione del positivismo a filosofia « borghese » in :rapporto funzionale con una
determinata fase dello sviluppo capitalistico.
Se si accetta dogmaticamente questa impostazione è facile giungere alla accusa amara e sarcastica secondo la quale i positivisti avrebbero giustificato il
tentativo di compensare con la scarsa istruzione la grande miseria, le tasse insopportabili, le lunghe leve, in una parola lo sfruttamento (Be:rtoni ]ovine). Si può
addirittura giungere, come abbiamo prospettato sopra, a sospettare che la ve:ra
funzione attribuita alla scuola sia soprattutto quella di persuadere che il mondo
attuale è il migliore dei mondi possibili. E, in verità, leggendo, per esempio,
taluni passi di Aristide Gabelli, 1 in cui è scritto che «bisogna dire la verità alle
masse» e che la verità consiste nell'affermazione che esistono «mali di cui non
ha colpa nessuno e che nessuno, malgrado ogni buona volontà potrà mai guarire »,
non si può non :rimanere perplessi. Senonché sarebbe agevole dimostrare, testi
alla mano, prima di tutto che Gabelli è f:ra i più moderati nei campo dei positivisti italiani; secondariamente che il passo citato si perde, negli scritti dello stesso
Gabelli, in mezzo a tanti altri ispirati ad una concezione senz'altro più avanzata
e progressiva.
Complessivamente la tesi prevalente negli scritti dei positivisti non è quella
pe:r cui si possa« compensare» la fame con l'istruzione, sebbene l'altra, per cui i
I Aristide Gabelli nasce a Belluno nel I S30.
Il padre, insegnante di matematica, è discendente
di Gaspare Gozzi. Frequenta il ginnasio e il liceo a
Venezia. Si iscrive in giurisprudenza all'università
di Padova, dopo avere partecipato come volontario nella guardia nazionale alla difesa della repubblica, nel IS49· Dichiarato idoneo al servizio militare, si sottrae all'obbligo concorrendo a un posto
di perfezionamento all'università di Vienna, dove
rimane tre anni: dal I S54 al I S57. La permanenza
a Vienna ha una grande importanza per la sua
formazione, specialmente per il contatto in cui
entra con numerosi tedeschi protestanti. Per sottrarsi ad una nuova çhiamata alle armi, nel IS59
esula e si stabilisce a Milano dove esercita l'avvocatura e collabora a numerose riviste giuridiche.
Dopo l'unificazione entra nell'amministrazione
pubblica: sarà provveditore agli studi di Roma e
ispettore centrale. Nonostante l'incalzare di una
malattia inesorabile collabora in maniera decisiva
alla creazione della scuola nazionale: fra l 'altro,
nel ISSS, elabora i nuovi programmi per l'istruzione elementare. È deputato del collegio di Dolo
e difende una linea di liberalesimo moderato.
Muore nel IS9I.
Scritti principali: Sulla corrispondenza dell'educazione alla civiltà moderna (IS66); L'uomo e le scienze
morali (IS69); L'istruzione obbligatoria in Italia
(IS7o); L'Italia e l'istruzione femminile (IS7o); L'insegnamento religioso e le scuole pubbliche (IS72}; Metodo di insegnare in relazione colla vita (IS73}; Del
principio di autoritàpreuo le nazioni cattoliche (IS74};
Il metodo di insegnamento nelle scuole elementari d'Italia
(ISSo); Su/lavoro manuale nelle scuole di Germania
(ISS7); L'istruzione clauica (ISSS}; Sul modo di riordinare' l'insegnamento religioso (IS9o); Il metodo e gli
asili Froebei(ISS9); Il positivi.rmo naturalistico in filosofia (IS9I).
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due problemi, quello della fame e quello dell'istruzione, vanno affrontati insieme.
La consapevolezza non è, di per se stessa, né conservatrice né rivoluzionaria: diventa questo o quello a seconda della realtà obiettiva di cui prende atto. Non è
una questione di scelta a priori fra conservazione e progresso. È piuttosto una
questione di metodo nell'azione politica, discendente, a sua volta, dalla scelta
operata fra il punto di vista secondo il quale l'idea fondamentale dell'etica democratica è l'idea del contratto sociale, e il punto di vista secondo il quale le contraddizioni, lungi dall'andar dissimulate, devono anzi essere approfondite, poiché
solo quando esse sono insopportabili l'esigenza del superamento diventa più forte d'ogni resistenza. È facile, poi, dietro questa scelta, scorgere il più profondo significato dell'antitesi fra le due concezioni filosofiche che si dividono
attualmente il mondo: quella empiristico-humiana e quella dialettico-hegeliana.
Possiamo così avviarci a concludere questo discorso introduttivo: la fiducia
nella diffusione della cultura fondata sulla scienza, quale strumento di rivoluzione
pacifica non può a cuor leggero essere definita un 'utopia (o un tranello) « borghese », a meno che non si voglia declassare al rango di meramente borghese la
rivoluzione metodologica del XVII secolo e, quindi, la nascita e lo sviluppo delle
scienze; ragion per cui bisogna decidersi ad ammettere che rifiutare in toto il
positivismo significa, se si vuoi essere coerenti, risalire il cammino percorso negli
ultimi cinque secoli e ripiombare nella barbarie.
Che la borghesia capitalistica, a un certo punto, abbandoni gli ideali del radicalismo illuminato non implica necessariamente la condanna di quest'ultimo:
tutt'altro. In tale abbandono affiora, in realtà, la crisi di un paese troppo in fretta,
e non per suo merito, approdato alla libertà. Così, mentre gli intellettuali si esaltano dei vari« ismi », rimasticando e mal digerendo gli scritti di Maurice Barrès e
Charles Maurras, Bergson e Nietzsche, sognano avventure «uniche» ed «eroiche »
e ringraziano la provvidenza che semina « il buon seme della morte nei pigri solchi
dell'umanità », le masse, purtroppo ancora « pagane » proprio per carenza di cultura e in particolar modo di abito mentale « scientifico », si accingono a rendersi
disponibili per la demagogia cattolica, per il massimalismo parolaio e imbelle e, da
ultimo, per il fascismo.
Del resto in questa interpretazione siamo confortati anche dal parere, sia pure
singolarmente contraddittorio, di Antonio Banfi, il quale, dopo aver definito il
positivismo frutto dell'euforia borghese in un periodo di prorompente progresso
scientifico, tecnico ed economico ed aver aggiunto che, allorquando il capitalismo
entra nella fase dell'imperialismo, la borghesia abbraccia principi regolativi di
ordine irrazionalistico, mentre il positivismo rimarrebbe retaggio di intellettuali
di secondo rango, piccolo borghesi riformisti, deve pur concedere che l'abbandono della fiducia nella scienza e nella tecnica (e nel positivismo che tale fiducia
razionalizza e sistema) da parte della borghesia deriva dal fatto che scienza e tecnica
« si sono mostrate capaci di spezzare il compromesso borghese tra idealità uni-
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Il dibattito sulla scuola in .Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
versale e interessi particolaristici di una classe privilegiata e di estendere agli altri
ceti la coscienza di un diritto e di una forza sociale».
Si tratta di un'ammissione estremamente importante, in quanto libera la
scienza e la tecnica dalla funzione meramente sovrastruttUrale a servizio della
classe che le avrebbe generate e che se ne sarebbe servita al solo scopo di conquistare e di conservare l'egemonia, e le presenta come forze essenzialmente capaci di
demistificare le ideologie e di promuovere l'universale acquisizione della coscienza
delle forze che regolano la storia.
Che l'intera politica italiana, nel periodo che stiamo esaminando, sia caratterizzata dalla tenace resistenza che le forze retrive o conservatrici oppongono ad
ogni iniziativa mirante a realizzare forme di vita sociale più avanzate, è fuori discussione. Per il campo che ci interessa basterà pensare agli ostacoli incontrati dal
principio dell'obbligo scolastico, sia in sede legislativa sia, e più, in fase applicativa e ai limiti finanziari e organizzativi che hanno svuotato di contenuto ogni
tentativo di adeguare le scuole secondarie ai fini proposti dalle rinnovate esigenze
della vita moderna o a rammodernare le strutture e la vita culturale dell'università.
Quel che ci preme, qui, di porre in chiaro è in primo luogo il fatto che i positivisti
furono tutti, sia pure con le sfumature di tono dipendenti dalla varietà delle angolazioni, contro questo stato di cose e che una lettura spassionata dei loro testi li
rivela tenacemente e spesso lucidamente impegnati sulla via del progresso; secondariamente la validità del principio per cui ogni movimento che si proponga
di attuare radicali, profonde, durature trasformazioni della vita sociale a tutti i
livelli, non può non assumere un carattere essenzialmente pedagogico. Ciò vale
particolarmente per la trasformazione della società in senso democratico, la quale
dipende, sì, dalla crescente partecipazione di tutte le classi sociali alla direzione
della cosa pubblica ma, appunto per questo, esige, perché tale partecipazione sia
effettiva, la piena consapevolezza e, dunque, l'approfondimento della scienza dell 'uomo come realtà storica e la sempre maggiore diffusione della cultura.
II ·LA LEGGE CASATI
Lo strumento fondamentale di cui la classe dominante si servirà per dirigere la
politica scolastica italiana fino alla riforma del 192.3 e, in parte, anche oltre, è la
Legge organica sulla Pubblica Istruzione del 13 novembre 1859, comunemente indicata col nome del ministro incaricato di redigeda, il vecchio patriota milanese
Gabrio Casati, anche se la critica è ormai concorde nell'affermare che i veri autori
della legge furono alcuni collaboratori del ministro: Achille Mauri e, soprattutto,
il medico chioggiotto, rifugiato in Piemonte dopo il 1848, Angelo Fava.
Questa legge, della quale Pasquale Villari dice che « è copiata, calcolata sulle
migliori d 'Europa », mentre Gaetano Salvemini afferma trattarsi di un « sistema
eclettico e composito» e alla quale la Bertoni Jovine muove l'accusa di rispondere
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
solo agli interessi delle classi privilegiate, è varata, nonostante la sua ampiezza
(ben 38o articoli) in soli quattro mesi, giovandosi il ministro e i suoi collaboratori
del vantaggio loro concesso dal fatto di poter lavorare in regime di « pieni
poteri » a causa dello stato di guerra. Ciò significa, in altre parole, che questa
Magna Charta non fu mai sottoposta all'esame critico di alcun parlamento!
Essa consta di cinque titoli, trattanti, rispettivamente (anche la distribuzione
della materia ha il suo significato): dell'amministrazione centrale e locale (46 articoli); dell'istruzione superiore ( I4 I articoli); secondaria (84 articoli), tecnica
(43 articoli), elementare e normale (58 articoli). Seguono otto articoli di disposi:doni finali e generali.
Dal punto di vista amministrativo e disciplinare la legge impone alla scuola
una struttura fortemente accentrata, .gerarchizzata, attribuendo estesissimi poteri
al ministro e, localmente, ai funzionari (provveditori, ispettori) nominati dall'alto.
Il consiglio superiore della pubblica istruzione, oltre ad essere costituito da
membri di nomina regia, ha mera facoltà consultiva.
La legge concede ad ogni cittadino che abbia compiuto i venticinque anni di
età il diritto di aprire una scuola; esige però che possieda taluni specificati requisiti e lo impegna ad adottare i programmi delle scuole pubbliche e ad accettare il
controllo delle autorità scolastiche statali. Diplomi e licenze possono essere concessi solo dalle scuole pubbliche, i cui insegnanti costituiscono le commissioni
davanti alle quali sosterranno gli esami gli alunni provenienti dalla scuola privata.
Vivaci proteste da parte di liberali e democratici provocherà, ad unificazione
avvenuta, la progressiva estensione della legge ai territori via via annessi. Si
vedrà, anche e specialmente in questa iniziativa, una chiara manifestazione della
precisa volontà autoritaria di asservire le menti dei giovani allo stato mediante il
.controllo della burocrazia e di instaurare un vero e proprio « monopolio dell'intelligenza nazionale».
Dal punto di vista sociale il limite più grave è costituito, come vedremo,
dalla scarsa sensibilità di fronte al problema della creazione di una seria e completa
scuola popolare. Dal punto di vista culturale permane il distacco fra scuole tecniche
e scuola umanistico-letteraria e il riconoscimento di una netta superiorità alla .seconda. Considerata, infine, come strumento di unificazione nazionale, la legge
Casati rivela i limiti conseguenti all'impreparazione degli organi dirigenti piemontesi, per mancanza di indagini, statistiche e studi appropriati, ad affrontare
il problema della creazione di un modello valido per tutto il paese.
III · LA SCUOLA PRIMARIA
L'istruzione elementare è delegata ai comuni, ai quali spetta la creazione e
manutenzione delle scuole, nonché la nomina e la retribuzione degli insegnanti.
La legge, però, chiarisce che l'impegno fatto ai comuni è« secondo i bisogni degli
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abitanti» ma anche «in proporzione delle loro facoltà» (art. 3 I 7). Ora, è facile
capire come fra i bisogni dei cittadini e le disponibilità delle finanze comunali la
propo:rzionalità sia, di norma, inversa, ragion per cui dove il livello economico è
più basso e l'istruzione meno diffusa il comune si trova ad essere sg:ravato dall'obbligo! Si aggiunga che le amministrazioni comunali, data la legislazione elettorale vigente, sono in mano ai gruppi più :retrivi e ci si :renderà facilmente conto
della scarsa efficacia della legge quale strumento atto a liquidare l'analfabetismo
strumentale. Si aggiunga che la legge stessa, mentre sancisce il principio dell'obbligatorietà e prevede, all'articolo 32.6, pene contro i trasgressori, :rimane sotto
questo punto di vista, inapplicabile anche formalmente, dato che nessuna norma
preciserà, fino al I877, quali siano queste pene. 1
Ma consideriamo, ora, questa scuola elementare un poco più da vicino.
Due corsi, inferiore e superiore, biennali: solo del primo l 'istituzione è universalmente obbligatoria. La prima classe « può » (qualora ce ne siano i mezzi)
essere sdoppiata in prima inferiore e prima superiore. In questo caso (che si verifica solo nei centri più popolosi e :ricchi) il corso completo viene ad essere quinquennale: perciò nei centri :rurali l'« obbligo » (e il diritto!) si esaurisce, quando
va bene, in due anni, insufficienti anche a fornire un discreto possesso delle discipline strumentali, leggere, scrivere e fare di conto.
Le materie di insegnamento sono: religione, lingua italiana, aritmetica.
L'insegnamento del catechismo è obbligatorio e si svolge sotto il controllo dell'autorità ecclesiastica. È prevista la possibilità dell'esonero per gli acattolici.
Il principio unificato:re è costituito dalla lingua materna. Di qui la funzione .p:reponderante attribuita alla lettura, attraverso la quale vengono offerte al fanciullo
alcune nozioni di storia, geografia e scienze naturali.
Le scuole si aprono il I 5 ottobre e si chiudono il I 5 agosto. Sono previste
variazioni di calendario nei centri rurali, allo scopo di tener conto delle esigenze
di lavoro nei campi. Le lezioni durano cinque ore, divise in due turni.
Un maestro che insegni in due classi non dovrà avere più di settanta alunni.
Qualora, invece, insegni in una sola classe gliene potranno essere affidati anche
cento.
L'articolo I37 del :regolamento del I86o prevede che «le scuole debbano
essere salubri, con molta luce, in luoghi tranquilli e decenti ». Le scuole per
maschi devono essere separate da quelle per femmine. In ogni scuola dovrebbe
esserci una tettoia per la :ricreazione e un cortile attrezzato per esercizi ginnici.
Il comune è tenuto a somministrare la legna da ardere; « è quindi abolito
l'uso di costringere gli alunni a provvedere la legna o a pagare per ciò una tassa»
(art. I4o). Per l'inchiostro, invece, il comune può chiedere un contributo alle
famiglie.
I
A sgravio, parziale o totale, degli obblighi
del comune, sono tenute in conto le esistenti
scuole gestite da corporazioni o da privati.
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Il comune deve curarsi dell'istruzione militare degli alunni. Deve designare
un istruttore e provvedere le armi necessarie(!) (art. I45)·
Il problema della liquidazione dell'analfabetismo appare, all'indomani dell'unificazione, veramente ciclopico data la tragica situazione del paese. Nel I 865
il ministro della Pubblica Istruzione Natoli comunica le seguenti percentuali di
analfabeti: complessivamente, per l'intero territorio, 75 %·In Basilicata, Calabria,
Abruzzo, Campania si hanno punte sopra il 90%. I minimi sono quelli del Piemonte (57%) e della Lombardia (59%). Il minor numero di analfabeti si riscontra
nelle province di Torino, Sondrio, Novara; il maggiore in quelle di Catanzaro,
Reggio e Cosenza. Il quadro appare ancora più scuro se si considera la situazione
della popolazione femminile: qui si passa dal 6o% del progredito Piemonte al
98% deila Basilicata e della Calabria. Una memoria pubblicata da Luigi Bodio nel
I 89 I d fornisce una tavola còmparativa delle percentuali di analfabeti tra le reclute
dei principali stati europei. Prendendo come campione l'anno I 876 abbiamo: Italia
5z %; Francia I 6 %; impero germanico z,3 7 %; Austria 4I %; Svizzera 4,6 %; Belgio I 8,40 %; Olanda I z %; Svezia o,9 %; Russia So%· Il lettore rifletta, poi, sul fatto che questi numeri si riferiscono all'analfabetismo «anagrafico». Ovviamente,
considerando il fenomeno dell'analfabetismo cosiddetto «di ritJrno »,inevitabile
per gente che ha malamente frequentato uno striminzito biennio come quello che
abbiamo descritto, le cose andrebbero molto peggio. Per non parlare dell'analfabetismo intellettuale e civile, quello di chi sa alla meno peggio leggere scrivere
e far di conto ma ignora le leggi della vita assodata e le conquiste della scienza,
di chi, insomma, per usare una frase di Filippo Turati (I 9oS) «è al di sotto della
civiltà moderna, inferiore alle esigenze dell'industria, del lavoro, dell'emigrazione » ed « è un impaccio alla democrazia, poiché democrazia è nome vano senza
subbietto quando manca il cittadino nell'uomo».
Una delle più gravi difficoltà da affrontare per la soluzione del problema dell'analfabetismo è costitl.;li.ta dal reperimento e dalla formazione dei maestri. Impresa veramente imponente, se si pens·a che gli alunni della scuola primaria, che
sono 1.458.ooo nell'anno I870-7I, saranno 3.ooo.ooo nel I907-o8, anno nel quale,
però, in base ai dati a disposizione del ministro Luigi Credaro, dovrebbero essere, se l'obbligo fosse universalmente rispettato, ben cinque milioni! Ora,
anche se la legge Casati prevede, come sappiamo, di assegnare ad ogni maestro settanta e perfino cento alunni, resta pur sempre la necessità di poter disporre, in un tempo ragionevolmente breve, di molte. decine di migliaia di nuovi
insegnanti.
Riprendendo la legge Lanza del I 8 58, la legge Casati prevede l'istituzione di una scuola « normale » triennale, alla quale possono essere ammessi i
maschi che abbiano compiuto i sedici e le femmine che abbiano compiuto i
quindici anni, che abbiano completato il corso elementare e superato uno speciale
esame. L 'anomalia costituita dalla mancanza di un corso inferiore che saldi la
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scuola normale alla primaria, sarà progressivamente eliminata mediante l'istituzione di un corso prima biennale (I 88o), successivamente triennale (I 888), indicato in un primo tempo come «preparatorio » e successivamente (I 896, legge
Gianturco) come « complementare », in quanto assumerà anche la funzione di
completare l'educazione delle ragazze della piccola borghesia. I maschi, perlopiù,
arrivano alla normale dal ginnasio o dalla scuola tecnica.
Lo stato dell'insegnante elementare è estremamente misero. Basti dire,
per quanto riguarda il trattamento economico,· che esistono ben ventiquattro
classi di maestri: rurali (di prima, seconda e terza classe a seconda del numero di
abitanti del centro in cui prestano la loro opera) e urbani (ancora di prima, seconda
e· terza classe) ; secondo il corso : inferiore (prima e seconda) o superiore (terza e
quarta) e il sesso. Sì: perché la legge prevede che, ceteris paribus, una donna
percepisca un terzo in meno di un uomo! Cosicché gli stipendi oscillano da un
minimo di lire 366 annue ad un massimo di I 320. Si tenga presente che la stessa
legge prevede che un professore di liceo percepisca lire 264o e un universitario
5000. (D'altra parte anche gli universitari si sentono umiliati quando confrontano le loro 5ooo lire con le I 5.ooo dei colleghi francesi e con le 3o.ooo
dei prussiani!). Non sono previsti, fino al I886, «scatti» periodici e soltanto nel
I 89o si liquideranno le prime pensioni a 32 maestri e a 29 maestre, benché il
principio si trovi già nella legge del I 8 59 e il disegno in proposito sia stato presenta t o alla Camera nel I 87 2.
Né le cose vanno meglio dal punto di vista giuridico. I maestri sono in balìa
delle amministrazioni comunali: di qui innumerevoli piccoli e grossi arbitri nelle
assunzioni e nei licenziamenti, ritardi nel pagamento del già misero stipendio,
umiliazioni di fronte a qualche parroco o a qualche maggiorente urtato dalla relativamente notevole autorità morale che spesso il maestro ottiene.
A questi mali verrà in parte a rimediare la legge che va sotto i nomi dei ministri Daneo e Credaro, la quale, nel I 9 I I, avoca l 'amministrazione di tutte le
scuole primarie, eccettuate quelle dei capoluoghi di provincia e di circondario,
alla diretta tutela dello stato.
Per farsi un'idea adeguata della scuola non basta, però, considerarne la struttura e l'amministrazione; è necessario studiarne i contenuti culturali e valutarne i
metodi. Un esame, sia pure a grandi linee, di argomenti così ampi e vari, richiederebbe un capitolo a sé. Ci limiteremo a richiamare l'attenzione su tre punti.
È diffuso, anche fra gli studiosi, l'equivoco, di origine gentiliana, di identificare la scuola italiana del tardo Ottocento e del primo Novecento con una scuola
nozionistica e al tempo stesso soffocata da un rigoroso didatticismo « in quanto »
ispirata ai principi pedagogici del positivismo. I positivisti, cioè, sarebbero responsabili non solo, come abbiamo già visto, di aver affermato la tesi secondo la
quale i grandi problemi della società avrebbero potuto e dovuto essere affrontati
e risolti essenzialmente sul piano dell'educazione, ma anche di aver proposto un
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tipo di educazione fondato sulla despiritualizzazione, sulla naturalizzazione dell'educando, ridotto a macchina, a passivo vaso da riempire, strumento da manovrare secondo leggi esclusivamente biologiche.
Ora, nessuna accusa è infondata, nei riguardi della pedagogia positivistica,
più di quella di nozionismo. Ad apertura di pagina, leggendo (ovviamente senza
prevenzione!) i testi di Comte e di Spencer, di Gabelli, Ardigò, Angiulli,l Siciliani,2 De Dominicis,a per non citare che i più noti, ci si rende conto che, per
loro, le nozioni acquisite hanno un valore essenzialmente strumentale, in vista del
pro movimento di una piena maturità di giudizio. In altri termini: precisamente
negli scritti pedagogici dei positivisti si nota quel rovesciamento dei rapporti
fra i contenuti del sapere e i modi del suo apprendimento che costituisce uno
dei motivi essenziali fra quelli che caratterizzano il passaggio dal vecchio al
nuovo modo di intendere il fatto educativo: l'attribuzione del primato non più
al « sapere », allibro quale deposito del sapere e al maestro quale interprete del
libro, bensì al discente, coi suoi interessi, le sue attitudini, le sue caratteristiche
irripetibili. Nelle «Istruzioni generali» premesse ai programmi del 1888 (opera
di Gabelli), leggiamo, per esempio, che «la mira ultima di tutto l'insegnamento
non è riposta tanto nelle cognizioni stesse, quanto nelle abitudini che il pensiero
acquista dal modo in cui vengono somministrate ... ».
E in che consiste, concretamente, questo modo? Nel procedimento cosiddetto
di filosofia teoretica p~esso l'università di Bologna
I Andrea Angiulli nasce a Castellana (Bari)
nel I 8 37. Studia scienze naturali e filosofia a Na- dove terrà anche, per alcuni anni, l'incarico di pepoli, dove acquista anche una sicura conoscenza dagogia. Le sue lezioni sono sempre affollatissime
delle lingue francese, tedesca e inglese. Durante la di insegnanti, provenienti anche dalle province
rivoluzione del I 86o funge da legame tra il comi- limitrofe e costituiscono uno dei più efficaci veicoli
tato centrale di Napoli e quello di Bari. Dal I 862 di diffusione del positivismo nell'ambiente scolastico. Collabora al periodico l'« Avvenire dei maestri
~1 I865 è in Germania per studio. Successivamente
si reca a Parigi ed a Londra. Professore di liceo a elementari», che si batte vigorosamente per il rinCatania e successivamente a Napoli, dove subisce novamento delle scuole magistrali e per la diffusioduri attacchi per le sue idee, è dal ministro Cor- ne di una letteratura pedagogico-didattica più seria
renti incaricato dell'insegnamento della pedagogia ed ispirata ai moderni criteri scientifici. La divule dell'antropologia all'università di Bologna. Nel gazione da lui data al principio della laicità della
I876 torna a Napoli quale ordinario di pedagogia scuola contribuisce a rafforzare quel movimento
e, in seguito, anche quale incaricato di filosofia di opinione pubblica che renderà possibile l'approteoretica. Volendo conoscere da vicino la scuola vazione, nel I877, della legge Coppino. Muore a
per l'infanzia, accetta di insegnare etica e psicologia Bologna nel I 88 5.
Opere principali: La legge storica e il movimento
in una scuola normale froebeliana fondata dalla
filosofico del pensiero italiano (I 862); Sul rinnovamento
signora Schwabe. Muore nel I89o.
Opere principali: La filosofia e la ricerca posi- della filosofia positiva in Italia (I 872); Socialismo,
tiva (I 868); La pedagogia e la filosofia positiva (I 872); darwinismo e socio!ogia moderna (I879); Discorsi peQuestioni di filosofia contemporanea (I 873); La pedago- dagogici (I88o-8I); Sull'insegnamento religioso ai bamgia, lo Stato e la famiglia (I876); La filosofia e la bini secondo i dettami della filosofia scientifica (I 8 8 I);
scuola (I888). Nel I872 fonda la rivista «La cri- La scienza nell'educazione (3 ed. I88I); Rivoluzione e
tica e la scienza positiva», che avrà vita breve. pedagogia moderna (I 8 8 2); S loria critica delle teorie
Nel I 88 I comincia a pubblicare la « Rassegna cri- pedagogiche in relazione con le scienze politiche e sociali
tica » che dirigerà fino alla morte.
(I882); La scienza dell'educazione secondo i principii
2 Pietro Siciliani nasce a Galatina (Lecce)
della sociologia moderna (3 ed., I 884).
nel I 8 35. Si laurea in medicina ma il suo interesse
3 Saverio De Dominicis nasce a Buonalberprincipale è per la filosofia e la pedagogia. Profes- go (Benevento) nel I 846. Compie i suoi studi alsore di liceo a Firenze, ottiene nel I 867 la cattedra l'università e scuola normale superiore di Pisa,
2
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« oggettivo », « figlio legittimo del metodo sperimentale che ha rinnovato la
scienza» (Gabelli). Partire dai «fatti» e procedere, induttivamente e gradualmente, verso i concetti, le leggi, i principi. Solo così si potranno creare « teste
chiare », uomini nei quali le idee scendano al cuore per illuminare il sentimento,
laddove, di fatto, spesso è il sentimento che dal cuore monta ad offuscare la mente.
Non possiamo scendere nei dettagli: ci sembra però necessario mettere in evidenza come, per i positivisti italiani, l'adozione di questo metodo sia intesa come
la condizione necessaria e sufficiente per port~re il popolo a superare l'abisso
che attualmente separa l'arretratezza del costume dalla modernità degli istituti.
Ci sembra doveroso dichiarare, a questo proposito, che se possiamo essere
d'accordo nel ritenere intellettualisticamente ottimistica la fede nella« sufficienza»
dell'educazione, e sia pure di un'educazione cosi intesa, non potremmo essere
in alcun caso d'accordo con chi pretendesse di respingere anche la «necessità»:
un simile rifiuto, infatti, dovrebbe giustificarsi solo mediante il ricorso ad una
specie di astuzia della ragione attuantesi, però, con singolare contraddizione, attraverso incontrollate esplosioni irrazionali.
«Bisogna creare l'abitudine al dubbio intellettuale, da cui nascono la critica,
nel più fortunato dei casi la scoperta, nel più frequente il convincimento. » Ecco:
creare convinzioni che si fondino sull'osservazione dei fatti, naturali e socialj e
sul vaglio critico delle opinioni, nostre ed altrui. Solo per questa via sarà possibile
fare degli italiani un popolo consapevole e resp~nsabile, maturo per affrontare i
vantaggi ed i rischi della libertà.
Scuola « formativa », dunque, in direzione di quella che oggi definiamo edu.cazione civica; scuola che educa non tanto informando quanto formando abitudini corrette di ragionamento e di comportamento.
Che una simile formazione non possa risultare da quella misera cosa che è
la « scaletta di due classi » resa veramente obbligatoria solo nel 1877 dalla legge
Coppino, per di più, come nota amaramente Antonio Labriola, solo superando una
sorda e tenace resistenza alla Camera, quella scaletta che « la sua piccineria rese
quasi invisibile» è, purtroppo, ovvio. Resistenza di parte dell'opinione pubblica
(di quella parte che «conta»), scarsa preparazione degli insegnanti, spilorceria
<
dove si laurea con una tesi su Galilei e Kant o
l'esperienza e la critica nella filosofia moderna, pubblicata nel I874· Professore di liceo a Cremona,
Venezia, Bologna e Pisa, solleva dovunque grandi
simpatie e altrettanto vivaci ostilità per le sue teorie darwiniane, per il suo carattere indipendente,
a volte quasi eccentrico e per il suo orientamento
politico democratico-radicale. Dal I88I è professore di pedagogia all'università di Pavia. Muore
nel I930. Partecipa autorevolmente a numerosi congressi nei quali si dibattono le gravi questioni della
preparazione dei maestri, della riforma della scuola
normale e dell'università. I suoi scritti e in, particolare i suoi trattati di pedagogia generale costituì-
1
ranno fino all'inizio del nuovo secolo la principale
fonte per la preparazione degli insegnanti elementari.
Opere principali: L'antropologia in relazione
all'educazione nazionale (I87I); La dottrina dell'evoluzione (I878-8I); L'odierna missione dello stato
nell'istruzione pubblica (I88I); La thttrinafroebeliana
nel movimento della pedagogia moderna (I882); L'ordinamento della scuola elementare (I 88 3) ; La scuola popolare e i giardini Froebel (I884); Il concetto pedagogico
di Augusto Com/e (I884); Studi pedagogici (I884);
Linee di pedagogia elementare (I896-98); Idee per una
scienza dell'educazione (I 908- II); Principi di morale
sociale (I909).
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II dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
dello stato nei riguardi della scuola: tutto ciò non poteva non portare ad uno
schiacciamento del programma pedagogico dei positivisti, ad una sua riduzione
a schemi elementarizzati e stereotipi, ma in tutto questo l'impostazione positivistica c'entra ben poco!
E sono precisamente i pedagogisti i quali, consapevoli di tutto ciò, si battono
a fondo, non solo per il miglioramento della scuola, ma per la creazione, accanto
ad essa, di tutta una serie di iniziative integratrici: università popolari, biblioteche
circolanti, asili, ricreatori laici ecc. Sarà una campagna anche delle forze politiche
democratiche e radicali ma, ancora una volta, destinata ad insabbiarsi a causa della tenace resistenza dei ceti privilegiati e dello scarso entusiasmo delle masse.
Alla seconda accusa, quella di didatticismo, si possono contrapporre due
_risposte:
1) In primo luogo è necessario non dimenticare lo scarso livello culturale
dei maestri, che rende inevitabile l'elaborazione e l'imposizione di uno strumento
capace di funzionare, per dirla con Pestalozzi, in modo autonomo, indipendentemente, o quasi, dalla capacità di colui che se ne serve, dalla cultura generale e
speeifica e dalle particolari attitudini del docente.
z) In secondo luogo si deve ricordare la sopravvivenza, nella società italiana
del periodo in esame, di imponenti residui di spirito autoritario. Pretendere che
in una società strutturata gerarchicamente in tutte le sue articolazioni, dalla famiglia allo stato; per la quale le virtù supreme sono il rispetto dell'ordine costituito e il volonteroso adeguarsi alle direttive e al pensiero dei « superiori », potesse affermarsi una scuola stimolatrice di iniziative personali, suscitatrice di problemi più che dispensatrice di soluzioni, una scuola del dialogo, identificante la
disciplina con la sincerità e l'operosità anziché con l'immobilità e il silenzio, e il
profitto con l'impegno nella ricerca anziché con la puntuale ripetizione del verbo
del maestro cristallizzato nel « libro », sarebbe, più che velleitario, grottesco.
Pochi cenni sulla questione dei contenuti: essi sono quelli che la situazione
generale fin qui illustrata concede. È interessante, analizzando le circolari, le disposizioni generali, le riforme, rintracciare la linea sinuosa seguita dai vari ministri, ansiosi da un lato di accrescere il bagaglio culturale minimo delle masse e
dall'altro timorosi di imporre piani di studio eccessivamente ampi, densi, difficili,
per gli alunni ed anche ... per i maestri. Questo almeno fino alla legge Orlando
(1904). Questa legge estende l'obbligo fino ai dodici anni ed anticipa alla fine della
quarta classe l'esame di ammissione alle scuole secondarie. Quinta e sesta classe
vengono così ad assumere il carattere di « scuola popolare ». Ne deriva la necessità da un lato di concentrare in quattro anni quel che prima era distribuito in
cinque, dall'altro di fornire, nei due ultimi anni, al cittadino che lascerà gli studi,
almeno gli elementi di quel contenuto culturale il cui possesso è ormai ritenuto
indispensabile.
Ben più ampio discorso meriterebbe, invece, l'« ideologia», che permeando
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l'atmosfera della scuola le attribuisce quella capacità formativa che la società
richiede. Anche a questo proposito ci limiteremo a pochi tratti indicativi, cominciando dall'aspetto più evidente del problema dell'ideologia, vale a dire dalla sua
dimensione religiosa.
La legge Casati, all'articolo 3I 5, pone tale insegnamento al primo posto.
Il regolamento applicativo del I 86o, agli articoli 2. e 38, stabilisce la possibilità
dell'esonero, parlando, equivocamente, una volta di fanciulli «che non professano il culto cattolico» e un'altra di «allievi appartenenti a culto non cattolico».
Il pasticcio è paradigmatico, l'equivoco sarà infatti la caratteristica dominante di
tutte le disposizioni legislative e di tutte le circolari ministeriali emanate, in materia, durante i decenni successivi.
·
Già nei programmi del I867 (ministro Coppino) notiamo, non senza stupore,
l'assenza di qualsiasi indicazione relativa alla religione. Nel I87o, esattamente il
2.9 settembre, vale a dire nove giorni dopo Porta Pia, il ministro Correnti precisa,
con una circolare, che la religione dovrà essere insegnata solo ai fanciulli la cui
famiglia ne abbia fatta esplicita richiesta, capovolgendo così la situazione prevista
dalla legge del I859· La legge del I877 (Coppino) non solo non contempla la religione tra le materie obbligatorie, ma colloca al primo posto fra tali materie « le
prime nozioni dei doveri dell'uomo e del cittadino». Ciò fa pensare a molti interpreti che l'insegnamento della religione debba considerarsi ufficialmente soppresso. Comincia a questo punto tutta una storia di « eleganti » casi giuridici,
che vedono implicati amministrazioni comunali, gruppi di famiglie « impegnate »
e il Consiglio di stato. Si sottilizza nel distinguere fra diritto-dovere delle amministrazioni e diritto-dovere delle famiglie, fra obbligatorietà della scuola e obbligatorietà delle materie di studio, fra legge e regolamento e così via.
Da un'attenta lettura dei documenti e da una spassionata considerazione di
questo equilibrismo, si inferisce la sostanziale incertezza della classe politica, la
quale, pur nell'indiscutibile attrito, a volte molto aspro, con la chiesa, evita la definitiva rottura su di un terreno così delicato e, soprattutto, non vuole rinunciare
completamente ad uno strumento di manipolazione delle masse rivelatosi, in
ultima analisi, durante tanti secoli, il più efficace.
La sostanziale omogeneità della classe dirigente comprende, ovviamente,
anche quegli strati di borghesi clericali che il non expedit costringe fuori della
vita politica attiva, per cui appare centrato quel giudizio di Croce che parla di
«coincidenti interessi e di tacito accordo» tra Italia e chiesa« pur nel fragore delle
invettive e delle controinvettive che l'uno e l'altra dovevano recitare sul teatro del
mondo». Così, quando, nel I9o8, Leonida Bissolati cercherà di costringere il parlamento ad uscire dall'equivoco presentando una mozione che« invita il governo
ad assicurare il carattere laico della scuola elementare, vietando che in essa venga
impartito, sotto qualsiasi forma, l 'insegnamento religioso », il parlamento boccia
la mozione concedendole solo 6o voti a favore su 407. Ma a quell'epoca, dopo il
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grande sciopero del 1904 e la liquidazione de facto del non expedit, la convergenza tra moderatismi, laico e clericale, è già in atto e muove fatalmente verso le
decisive tappe del patto Gentiloni e dei patti lateranensi.
Per quanto riguarda la« controparte», cioè la chiesa, c'è ben poco di nuovo
da rilevare. Dal Sillabo (1854) alle encicliche Aeterni Patris (1879), Libertas (1883),
Immortale Dei (1885) di Leone xm, alla Pascendi di Pio x (1907) è un continuo ribattere lo stesso tasto, sia pure con qualche differenza di maniera e di stile. La
scuola è « libera » solo di insegnare il vero e il buono, fermo restando che il giudizio ultimo in materia è sempre e solo quello della chiesa. Se mai questa accetta,
entro certi limiti, il gioco liberale, è solo in via di « ipotesi », in quanto, cioè, le
circostanze lo rendano indispensabile o per lo meno opportuno, secondo il
principio per cui dove è al potere la chiesa tien ferma l'idea di uno stato confessionale, mentre << dove si trova in minoranza essa reclama il diritto alla tolleranza e
alla libertà di culto» (Alfredo Ottaviani).
Per quanto riguarda, infine, l'atteggiamento che di fronte al problema in
esame assume il pensiero laico riflesso, vale a dire il pensiero positivistico, ci limitiamo, per forza di cose, ad alcune rapide considerazioni.
Prima di tutto: lo schieramento è tutt'altro che omogeneo e vede notevole
distanza fra la posizione benevola verso la religione di un Gabelli (per il quale
l'educazione religiosa, opportunamente riformata, costituirebbe un fattore di
saldatura sociale e nazionale e l 'unica forma di educazione morale concepibile
per le masse), l'atteggiamento rigorosamente scientista di Angiulli (per il quale
tutti i gradi della scuola e perfino il giardino d 'infanzia devono essere permeati di
una spiritualità filosofico-positiva) e quello estremamente battagliero e conseguente di Siciliani, il quale, solo, giunge a negare, in nome della libertà dell'educando, il diritto di imporre il proprio credo religioso non solo alla chiesa e allo
stato ma anche alla famiglia.
In generale, però, prevale una cauta tendenza a identificare la laicità con la
neutralità, con l'agnosticismo, o addirittura con l'« incompetenza» dello stato
in materia religiosa (è questa la formula che verrà più volte proposta anche da
Gaetano Salvemini). Si tratta di un atteggiamento opportunistico che nasconde la
già accennata disponibilità per un rinnovamento dell'alleanza con la chiesa e che
ha le sue radici nella sostanziale sfiducia nelle masse, in quella teoria dei « due
popoli», l'uno senziente l'altro raziocinante, cara alla tradizione culturale italiana
dal rinascimento in qua: « un popolo di filosofi non lo avrete mai (Gabelli) ».
Del resto, anche sul piano più propriamente filosofico, le soluzioni proposte
dai positivisti nostrani al problema della collocazione del fatto religioso entro il
quadro della vita spirituale, rivelano, pur nella varietà delle sfumature, incertezze
e contraddizioni notevoli e non vanno più in là di un èclettico accoglimento delle
tematiche già proposte da Comte e da Spencer.
La dimensione religiosa, se costituisce l'aspetto più vistoso del problema
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
dell '.ideologia, non ne è, però, fattore unico. Pur nella sua modestia e incertezza,
il laicismo non rinuncia ad essere « formativo ». Al di là dei programmi e delle
circolari che ne illustrano lo spirito e ne suggeriscono l'interpretazione, sono i
libri di testo e soprattutto i libri di lettura che forniscono una incomparabile fonte
d'informazione, purtroppo, finora, mai sfruttata in maniera sistematica.
Ci limiteremo a toccare due punti, che permettono di concludere che soprattutto a questo livello si rivela quanto di indottrinante e di alienante c'è effettivamente nella scuola italiana e massimamente nella scuola primaria.
Prima di tutto la trinità dio-patria-famiglia, che si traduce nella diffusione di
una concezione provvidenzialistica della storia, di un filantropismo paternalistico
e di un patriottismo retorico. Quest'ultimo è agevolmente rintracciabile anche nel
particolare «tono» che viene assumendo l'educazione fisica, progressivamente
distorta nel senso dell'esercitazione premilitare, chiaro sintomo dell'incipiente
esplosione nazionalistica.
Il secondo punto su cui ci sembra opportuno richiamare l'attenzione del
lettore è quello che riguarda la coesistenza, accertabile ad apertura di pagina dei
vecchi libri di testo e, soprattutto, dei libri di « amena lettura », di due tematiche
morali, mirabilmente riassumibili in due proverbi: « Chi si contenta gode » e
«volere è potere». Qualche studioso (Bertoni ]ovine) afferma che, dopo tanti
secoli durante i quali si era abituato il popolo ad accontentarsi, ora lo si conduce
ad una sorta di insofferenza e ad un esagerato desiderio di evasione. Ci sembra
che, in realtà, i due temi coesistano, con finalità, ben inteso, nettamente distinte:
da una parte l'invito al giovane borghese all'arrampicata sociale, ardita e magari
spregiudicata; dall'altra il quietivo per i più, destinati ancora ad una vita meschina,
il tutto in un'atmosfera moralistica e individualistica che esclude qualsiasi prospettiva di soluzione connessa con profonde trasformazioni strutturali.
IV · LA SCUOLA SECONDARIA
Dei tre tipi possibili di ordinamento della scuola secondaria: scuola unica
lungo l 'intero corso; pluralità di scuole lungo l 'intero corso; scuola unica durante un primo grado « inferiore » e pluralità nel grado superiore, in Italia prevale
in modo assoluto, salvo alcuni tentativi nel Lombardo-Veneto e successivamente in Piemonte, fin dopo la metà del XIX secolo, il primo. Naturalmente
si tratta di una scuola umanistico-letteraria. Scrive a questo proposito Isidoro.Del
Lungo: « ... poco e mal curato italiano; storia appena di nomi e così la geografia;
un pizzico di greco; filosofia in dose misurata e infine un picco! catechismo di
scienze esatte schematizzato ... La cosa, poi in fondo, che sola si studiava a buono
era il latino ... » Gabelli nota che «alla metà del secolo l'istruzione [secondaria]
classica era l'unica che esistesse» e che ancora nel I 886 «noi avevamo, fra pubblici
e privati, 737 ginnasi e 326 licei».
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
Senonché, dopo l'unificazione, anche in Italia, sotto la spinta della rivoluzione
industriale, si verifica la rottura dei quadri della cultura tradizionale. La legge
Casati, sia pure con molta cautela, non può non prenderne atto, facendo posto,
nel ginnasio e maggiormente nel liceo, alla matematica, allà fisica, alla chimica e
alle scienze naturali, accanto alle discipline tradizionali}
Questa apertura, che pure a molti tradizionalisti appare eccessiva, foriera di
caos, vero cavallo di Troia atto a favorire la invasione del liceo da parte di giovani
provenienti da ambienti socioculturalmente scadenti e, comunque, non destinati
all'università, alle professioni libere ed ai posti di comando, si rivela tuttavia insufficiente. Ecco, allora, l'istituzione della scuola tecnica e dell'istituto tecnico
entrambi triennali. 2
L 'istruzione tecnica « ha per fine di dare ai giovani• che intendono dedicarsi a determinate carriere del pubblico servizio, alle industrie, ai commerci
ed alla condotta delle cose agrarie, la conveniente cultura generale e speciale »
(art. 2.72.).
Scuole ed istituti tecnici sono finanziati per metà dallo stato e per metà
dai comuni (le prime) o dalle province (i secondi). L'insegnamento dovrà essere
impostato in maniera da tener conto delle applicazioni e dei risultati pratici, con
particolare riguardo alle condizioni naturali ed economiche dello stato e delle
singole province. L'istituto tecnico può essere articolato in «sezioni» (per ragionieri, geometri, agronomi, esperti industriali, più la sezione cosiddetta fisicomatematica di cui diremo appresso).
Fra istituto e scuola tecnica non c'è alcun legame organico né per quanto
riguarda i contenuti e i metodi né per quanto si riferisce all'amministrazione e alla
disciplina. La « scuola », infatti, assomma in sé ben tre finalità; quella di completare la cultura generale di chi non potrà procedere; quella di fornire una preparazione professionale di modesto impegno; quella di preparare all'istituto. Precisamente la contraddittorietà di questi fini toglie efficacia e chiarezza all'azione
della scuola, come verrà subitp rilevato da numerosi critici. A questo punto appare chiaro come, anche in Italia, al vecchio sistema basato sulla scuola unica se
ne sia sostituito, di fatto, un altro, fondato sulla tripartizione.a
1 Per dare al lettore un'idea più concreta
dell'orario settimanale può essere utile segnalare
che mentre in prima ginnasio sono previste: 8
ore d'italiano, 9 di latino, 3 di geografia, e 2 di
matematica (totale = zz), in terza liceo si hanno:
3 ore di italiano, 4 di latino, 3 di greco, 41 / 1 di
storia, 4 di matematica, 4 di fisica e chimica, 2 di
storia naturale e geografia fisica, 3 di filosofia
(totale = 271 /.).
2 Nel 1870 l'istituto verrà trasformato in
quadrierinale.
~ In un certo senso la contrapposizione fra
scuola umanistico-letteraria e scuola tecnico-Scientifica è meno grave di quella fra « scuola » tecnica
e « istituto ». La ·linea di demarcazione di classe,
fra coloro che possono far studiare i figli fino verso
i vent'anni e quelli che non possono mandarli a
scuola oltre i quattordici-quindici passa all'interno
dei due campi culturali. Indipendentemente dal
problema della creazione di un triennio di scuola
secondaria di primo grado unico, di cui si fa cenno
più avanti, è indiscutibile l'esistenza di un processo
di convergenza.
Un decreto del 1888 istituisce l'esame di licenza ginnasiale inferiore, al duplice scopo di permettere a chi debba lasciare gli studi di avere un
certificato che ammetta in uffici secondari e di facilitare il passaggio dalla scuola classica alla tecnica
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Il dibattito, sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
Il liceo-ginnasio continua a conservare la funzione specifica di preparare all'università, mediante lo studio delle lingue e delle letterature antiche, i giovani
appartenenti alla classe egemonica. Però nel monopolio si apre una smagliatura
allorché, già nel I 86I, si concede ai giovani che abbiano frequentato la sezione
fisico-matematica di accedere a talune facoltà universitarie. 1
. Del resto gli istituti tecnici non risulteranno, per alcuni decenni, gran che
rispondenti alle aspirazioni del pubblico. Nel I 874-75 gli iscritti alle scuole ed agli
istituti tecnici sono 24.273 contro 41.997 iscritti ai licei-ginnasi. Ancora nel
I89o-9I essi saranno 41.98I contro 71.751. Finalmente, nel I9oo-oi, passeranno
a 48.054 contro 45.505 e nel I9o8-o9 a 91.357 contro circa 75.ooo.
Particolarmente faticoso è il decollo delle sezioni agraria e industriale: la
tenace convinzione che nulla, meglio dell'esperienza diretta sul campo e nella fabbrica, possa creare.il buon dirigente d'azienda agricola ed il buon capo officina,
fanno sì che per parecchio tempo gli iscritti alle, del resto poche, sezioni siano in
numero addirittura irrisorio, tale da far dubitare dell'opportunità di affrontare,
per loro, spese ingenti.
Contemporaneamente, la polemica contro il distacco esistente fra scuola
tecnica ed istituto ed il prevalere della tesi secondo la quale la « scuola » dovrebbe
fornire una cultura di base non professionale, generale e formativa per quanto
diversa da quella impartita nei ginnasi sembra preludere ~Ila creazione di una
scuola secondaria completa, parallela al liceo-ginnasio, diversamente ispirata ma
di pari dignità.
Così la scuola secondaria italiana si avvia verso la soluzione « binaria », sia
pure con molta riluttanza a riconoscere pari diritti ai corsi paralleli.
Si tratterà, però, di una gestazione assai lunga e faticosa se, come vedremo,
non sarà ancora giunta a conclusione (se non attraverso improvvisazioni demagogiche e provvisorie) ancora nel I969! Ciò non vuol dire che non si riscontrino, nel periodo preso in esame, tentativi miranti a realizzare:
.a) una secondaria unica lungo tutto l'arco: Cesare Correnti, nel I 870, presenta il progetto di fondere tutte le scuole secondarie in una sola, articolata in
tre gradi, con poche materie fondamentali comuni a tutti gli studenti ed altre
opzionali a seconda dell'indirizzo scelto via via.
b) una scuola secondaria unica limitatamente al primo grado. È quest'ultimo
il campo dei dibattiti più vivaci e frequenti che sembrano talora prossimi a sfociare in conclusioni positive. Terenzio Mamiani nel I 86 3; Giovanni Maria Bertini
e viceversa. Significativa, sotto questo punto di
vista, è anche la differenza delle tasse scolastiche.
Per il ginnasio inferiore e la scuola tecnica esse
sono (anno r884-85): ammissione lire 5; frequenza re; esame 15. Per il liceo, e l'istituto tecnico: ammissione 40; frequenza 6o; esame 75· Un
ragazzo che frequenti l'ultimo anno di liceo o di
istituto tecnico costa, dunque, solo di tasse, lire
r 3 5. Si tenga presente che, nello stesso tempo, lo
stipendio mensile di un professore di liceo è di
circa lire ~oo.
r Matematica e scienze, biennio propedeutico per la scuola di applicazione di ingegneria,
nonché, successivamente, altre scuole superiori di
commercio, agricoltura, nautica, nonché scuole
militari.
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
nel I 8 6 5, Michele Coppino nel I 867, Paolo Boselli nel I 890 elaboreranno progetti
che, però, o non giungeranno neppure alla discussione in parlamento o saranno
insabbiati o bocciati.
Un cenno particolare merita il punto di vista sostenuto da Giuseppe Tarozzi
nel congresso del I905 della Federazione nazionale insegnanti scuola media.
Egli nota, acutamente, che la posizione di privilegio attribuita alla scuola classica trae origine non solo dalla supposta sua maggiore attitudine a preparare
all'istruzione universitaria mediante la formazione linguistico-letteraria, ma dalla
convinzione che essa tuteli « il carattere etnico e patrio della cultura », collegando
così educazione classica ed orgoglio patriottico-razziale. Tarozzi ritiene che il
mondo classico non sia il più adatto a fornire un'educazione, sia pure larga e
generale, alle nuove generazioni ed auspica l'attribuzione di maggiore importanza allo studio delle scienze e delle letterature moderne. Conseguentemente domanda libero accesso all'università anche per i provenienti dagli istituti tecnici
e dalle scuole normali. Pensa, infine, che ai vari tipi di scuole secondarie superiori
si debba giungere da un unico tipo di scuola media inferiore, senza latino.
Particolarmente audace è il progetto elaborato nel I9I4, per la riforma della
preparazione dei maestri, da Luigi Credaro. Questi (che in linea di principio vagheggerebbe una preparazione magistnle a livello universitario) prevede un corso
settennale in cui gli studi compiuti in cinque anni di scuola normale vengano completati da un biennio di specializzazione teorica e di intenso tirocinio.
V ·L'UNIVERSITÀ
Il dispotismo politico e l'ingerenza ecclesiastica specialmente nel campo della
filosofia e della scienza, avevano fatto sì che, dopo Galileo, il primato scientifico
passasse dall'Italia ad altri paesi e che, per quel tanto che era possibile, il movimento scientifico italiano si svolgesse nel corso del xvn e della prima metà del
XVIII secolo, fuori delle università.
Un certo risveglio, anche nel mondo universitario, è provocato dal diffondersi delle idee illuministiche durante la seconda metà del Settecento specialmente
a Milano e a Napoli e dalla rivoluzione francese che fa assurgere al primato, nelle
scienze come nelle lettere, l'ateneo di Pavia. Con la restaurazione si apre un nuovo periodo di generale decadenza, del quale è sintomo particolarmente evidente il
fiorire di numerosi studi extrauniversitari, specialmente a Napoli.
Il risorgimento vede, indubbiamente, l'università in primo piano ma, ancora
una volta, l'incapacità di agganciare alla rivoluzione e di dirigere le masse popolari, denuncia la separazione del mondo della cultura dai problemi più gravi del
paese; l'incapacità di ingegni pur brillanti di identificare i termini autentici di tali
problemi e, quindi, il carattere astratto delle stesse correnti progressive della
cultura italiana.
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
A confermare questo giudizio sono sufficienti due considerazioni.
La prima deriva dal confronto tra lo sviluppo che, durante il periodo prerisorgimentale e risorgimentale, hanno rispettivamente gli studi umanistico-letteterari e quelli scientifici. Alla schiera dei Prati, Tommaseo, Aleardi, Fusinato,
Dell'Ongaro, Mazzini, Mameli, Mancini, Bonghi, Villari, Spaventa, per non
citare che alcuni dei più famosi, non è possibile contrapporre un adeguato gruppo
di scienziati, che equivalgano ai Fresnel, Arago, Ampère, Helmoltz, Faraday,
Maxwell, Dalton, ecc., contemporaneamente fiorenti altr'Alpe.
La seconda si basa sulla constatazione che, ancora una volta, quel che di
meglio si fa nel campo scientifico esula dai confini del mondo accademico: basti
ricordare il gruppo del Vieusseux, l'Accademia dei georgofili e quella della Valle
Tiberina, nonché i congressi degli scienziati fra il I 838 e il I 848. In Italia non
esiste nulla che corrisponda all'École Polytechnique francese: viceversa a Roma
esiste ancora una cattedra di fisica sacra, avente lo scopo di magnificare, con una
trattazione distinta in sei parti secondo i giorni della creazione, l'opera del creatore e di confutare gli abusi della scienza.
La legge Casati si propone la ristrutturazione delle università del regno di
Sardegna e della Lombardia, vale a dire di quelle di Torino, Pavia, Cagliari. Essa
prevede la soppressione, per carenza di studenti, dell'università di Sassari e la
istituzione di una Accademia scientifico-letteraria a Milano. Di pari passo con le
annessioni la legge viene estesa o adattata alle università di Pisa, Siena, Bologna,
Parma, Modena, Macerata, Palermo, Messina, Catania, Padova, Roma. A queste
vanno aggiunte le università cosiddette «libere» di Ferrara, Perugia, Camerino,
Urbino.
Non è possibile, qui e, d'altro canto, sarebbe di scarso interesse, considerare
minutamente il dibattito sull'università e le vicissitudini dei singoli atenei nel
periodo compreso fra la realizzazione dell'unità italiana e la prima guerra mondiale.
Ci limiteremo, pertanto, a richiamare l'attenzione del lettore sui principali
gruppi di problemi.
Il primo è quello che riguarda il numero, la distribuzione, l'estensione delle
università.
È chiaro, infatti, che la secolare divisione dell'Italia in numerosi stati di
varia estensione, ognuno dei quali aveva avuto l'ambizione di costituire una sua
università, aveva determinato una distribuzione estremamente irregolare nel
quadro dell'intero territorio nazionale: basti pensare che mentre nella pianura
padana si incontrano, a poche decine di chilometri l'una dall'altra, le università
di Pavia, Parma, Modena, Bologna e Ferrara, e nell'Italia centrale quelle di Perugia, Urbino, Camerino e Macerata, l'intera Italia meridionale possiede la sola
università di Napoli. Abbiamo, così, tutta un~ serie di richieste, e di progetti, mi,
ranti a ridurre la grave sperequazione.
Le soluzioni prospettate, però, sono profondamente contrastanti e vanno
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
dalla proposta di creare nuove università nelle regioni meno favorite dallo svolgimento della storia e di completare le università già esistenti ma non provviste di
tutte le facoltà, a quella di sopprimere le università incomplete e poco popolate
(Ferdinando Martini) e di studiare un piano di radicale redistribuzione, tenendo
conto del rapporto numerico fra studenti e università esistente in paesi stranieri
progrediti e delle esigenze delle varie regioni (progetto di legge Martini-Ferraris,
che riprende in partç il progetto Minghetti del I 86 I). In pratica, però, nessuno di
questi piani verrà attu~to.
Contemporaneo a quello sulla distribuzione è il dibattito sull'autonomia,
avviato e sostenuto specialmente da Alfredo Baccelli. Si tratta di concedere alle università personalità giuridica ed autonomia didattica, amministrativa, disciplinare,
prendendo ispirazione dagli statuti delle università-corporazioni medievali e da
quelli di talune moderne università inglesi e statunitensi. Ma, da un lato, la
tendenza fortemente accentratrice e, dall'altro, burocratica del nuovo stato che
considera pericolosa ogni forma di decentramento e le insormontabili difficoltà
oggettive - soprattutto quelle di ordine economico - che la ricostituzione
dell'autonomia universitaria incontrerebbe, portano all'insabbiamento di questo
e di simili progetti.
Ben altro rilievo assumono invece, nel periodo che stiamo esaminando, i
dibattiti relativi ai fini dell'insegnamento universitario e alla libertà di iniziativa
in campo didattico.
Per quanto riguarda i fini, ci si chiede se l'intento scientifico e quello professionale possano coesistere o se la loro diversità debba portare alla creazione di
istituti differenziati. La legge Casati, all'articolo 47, afferma: «L'istruzione superiore ha per fine di indirizzare la gioventù, già fornita delle necessarie cognizioni
generali, nelle carriere sì pubbliche che private in cui si richiede la preparazione di
accurati studi speciali, e di mantenere ed accrescere nelle diverse parti dello Statola cultura scientifica e letteraria. »
Essa accoglie, dunque, il carattere bivalente dell'università; senonché si
tratta di un accoglimento acritico: niente di più naturale, perciò, che in fase applicativa, in una situazione resa difficile dal rapido incremento quantitativo e dall'imponente variazione qualitativa della popolazione studentesca, il problema si dproponga con forza drammatica.
Progetti per attuare una netta distinzione fra corsi propriamente scientifici e
corsi professionali vengono presentati dal ministro Domenico Berti nel I 866, da
Diomede Pantaleoni nel I88I, da Giorgio Turbiglio nel I89z e dal Congresso
Universitario nel I9IZ.
Ma la tesi di gran lunga prevalente è quella sostenuta da coloro i quali osservano che la separazione sarebbe accettabile qualora i due intenti si escludessero
o, comunque, si potessero conseguire meglio separatamente che uniti, e questo,
a sua volta, varrebbe solo se si accettasse l'argomento per cui mentre lo scienziato,
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o chi vuol diventarlo, «guarda all'avvenire e discute» e non accetta dogmaticamente nessuna dottrina e nessuna affermazione, al professionista il continuo dubitare sarebbe più dannoso che utile, giacché nella vita pratica occorre operare e
non si può attendere che la scienza abbia risolto tutti i dubbi né rifugiarsi sistematicamente nella sospensione di giudizio.
Contro questo argomento si pronunciano tutti gli uomini di cultura più
avanzata, e, in primo luogo, sia pure con sfumature alquanto diverse, si pronunciano contro di esso i positivisti.
Se Ardigò si limita ad affermare che «l'istruzione superiore dovrà essere
scientifica e professionale», Angiulli precisa che «l'università deve certamente
apparecchiare al fine pratico delle così dette professioni liberali, ma innanzi tutto
ha da compiere la cultura scientifica » e che « la perfezione delle applicazioni pratiche dipende dalla perfezione della cultura scientifica».
Ma i più acuti, conseguenti e coraggiosi assertori della convergenza delle due
finalità sono Carlo Cantoni 1 e Saverio De Dominicis. 2
Dopo aver chiarito come la struttura più adeguata alla formazione professionale quale è intesa da molti sarebbe una scuola secondaria di terzo grado o la
facoltà a corsi fissi, Cantoni dimostra come questo tipo di « scuola » sia in realtà
inadatta anche per la formazione dei professionisti, in primo luogo in quanto la
stretta disciplina e il quotidiano accertamento del profitto riescono praticamente
impossibili; secondariamente perché piani di studio troppo rigidi non possono
preparare al grande numero di professioni diverse; infine perché non è possibile
discriminare a priori lo scolaro atto ai lavori scientifici da quello meglio adatto
per una professione e perché non si può accettare il principio secondo il quale chi
esercita una professione debba accontentarsi di una scienza trovata da altri, senza
minimamente impegnarsi alla sua revisione ed al suo sviluppo.
De Dominicis, approfondendo con maggiore consapevolezza critica quest'ultimo motivo, non si limita a constatare che la preparazione scientifica è necessaria quale presupposto per la « applicazione » pratica, o, tutt'al più, quale
strumento « formativo » della mente, ma giunge ad asserire che, oggi, come non
c'è scienza che non diventi azione, così non c'è tecnica« che non sia stata pensiero
1 Carlo Cantoni nasce a Groppello di Lomellina (Pavia) nel 1S4o, da una famiglia di facoltosi agricoltori, Studia a Voghera, Mortara e
Casale. Si iscrive, a Torino, alla facoltà di giurisprudenza ma due anni più tardi passa a quella di
filosofia e lettere. Frequenta corsi di perfezionamento a Firenze e Pisa. Vince un concorso di studi
all'estero e si reca in Germania, presso le università di Berlino e Gottinga. Tornato in Italia è professore di liceo a Torino ed a Milano, quindi all'Accademia scientifico-letteraria milanese; infine,
nel 1S7S passa a Pavia quale professore di filosofia
teoretica e preside di facoltà. È più volte rettore
dell'ateneo pavese e socio dell'Accademia dei
lincei. Muore nel1906.
Scritti principali: Studi critici e comparativi su
G.B. Vico (1S67); La questione universitaria (1S74);
(sullo stesso argomento pubblica due articoli ne
«La nuova Antologia» del 1SS1); La facoltà di
lettere e filosofia nei suoi rapporti coll'educazione scientifica e nazionale (1SSo) ;Emanuele Kant (l'opera prin-
cipale, grande monografia in tre voli., 1S79-S4).
2 Saverio De Dominicis, del quale si è fatto
parola in una nota precedente, dedica alla questione un'importante conferenza del 1S9o, che verrà
poi pubblicata nel volume già menzionato dal titolo Idee per una scienza dell'educazione.
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
scientifico ». Le note caratteristiche della scienza moderna sono: da un lato la sua
autonomia dalle altre attività dello spirito, dall'altro il concetto dell'intima unione
dell'elemento tecnico e scientifico, della scienza con le professioni e l'azione.
«L'Università tutta scientifica ... non è che la vecchia accademia ... L'Università
del tutto professionale si risolve in un istituto tecnico ingrandito. Il concetto della
scienza, quale si evolve dalla vita moderna, è invece il concetto di scienza che è
tecnica e di tecnica che è scienza ... »
Una volta esclusa, per l'università in generale e i singoli atenei in particolare, la facoltà di legem sibi dicere e di autoamministrarsi, cade anche la possibilità
che l'università, in quanto tale, costituisca l'istituto mediante il quale ogni generazione trasmette alla seguente non solo i risultati più avanzati raggiunti nei vari
campi della scienza dalle generazioni precedenti, ma anche quelli che essa ha saputo
aggiungervi mediante la ricerca effettuata con le più progredite tecniche.
Ragion per cui il massimo di libertà possibile finisce per identificarsi nell'estrinsecazione del pensiero del singolo docente, nel quadro di un ordinamento
didattico vincolato dai regolamenti generali emanati dal potere centrale. Del resto
in che cosa consistano le « guarentigie » concesse dalla legge Casati al docente
lo precisa l'art. 106, il quale dichiara che un membro del corpo accademico può
essere sospeso o rimosso non solo qualora abbia compiuto atti che gli abbiano
alienato la «pubblica considerazione» (concetto abbastanza ambiguo) o abbia
«persistito nell'insubordinazione alle Autorità» (! !) ma anche per «aver coJJ'insegnamento o cogli scritti impugnata la verità suJJe quali riposa l'ordine religioso e morale,
o tentato di scalzare i principii e le guarentigie che sono posti" a fondamento deJJa costituzione civile deJJo Stato». Il fatto che questo articolo sia stato applicato assai di rado
non ne riduce il carattere essenzialmente illiberale.
Per quanto riguarda la libertas discendi si deve osservare come essa non
possa, ovviamente, esercitarsi che all'interno dei ben precisi limiti imposti dalla
legge e dai regolamenti. Il numero degli esami che dovranno essere superati per
ottenere il titolo è rigorosamente fissato per ogni facoltà. L'art. 5I della legge Casati fissa anche quali esami debbano essere dati nelle diverse facoltà, e l 'art. 55 prevede che ciascuna facoltà determini, con un regolamento applicativo, « la durata,
l'ordine e la misura, secondo i quali questi insegnamenti dovranno esser dati».
Solo entro questo quadro lo studente può operare le proprie scelte e a questo
si riduce il carattere liberale della legge Casati. Essa, infatti, dice, all'art. 2. 5,
che i piani di studi formulati dalle facoltà avranno solo una funzione di « guida »
e che « gli studenti sono liberi di regolare essi stessi l'ordine degli studi che aprono
l'adito al grado a cui aspirano». Concetto ribadito all'art. I 3z in cui si afferma
«gli studenti sono liberi di regolare essi stessi l'ordine dei loro esami ». 1
1 Anche a proposito della libertas docendi e
discendi le posizioni di punta sono quelle occupate
da Saverio De Dominicis e da Carlo Cantoni. È
interessante notare, a questo proposito (e la cosa
può contribuire a liquidare certe interpretazioni
schematiche) come, laddove Antonio Labriola,
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
Il poco respiro concesso dalla legge ad un'autentica libera strutturazione del
piano di studi da parte del singolo studente e il fatto che spesso i regolamenti delle
singole facoltà e l'autoritarismo di numerosi docenti aggravano la situazione anche rispetto alla legge, sono uno dei fattori della diffusa e a sua volta grave irrequietezza che turba la vita universitaria durante gli ultimi decenni del secolo.
L'altro fattore è costituito dalla tenace chiusura dell'università di fronte alle finalità utilitarie e pratiche, la sua incapacità di superare l'antitesi fra avviamento alla
ricerca e preparazipne professionale, la persistente pretesa di lasciar fuori dall'università quei nuovi ordini di studi dei quali la borghesia viene reclamando l'istituzione richiesta dall'affermarsi dell'industria (la preparazione degli ingegneri
continua ad essere affidata a Scuole d'applicazione).
D'altra parte, sotto la spinta del progresso tecnologico ed economico, la
popolazione universitaria aumenta rapidamente. È interessante notare come il
periodo dei più gravi« tumulti» sia quello compreso fra il r88o e il 1900. Orbene
gli studenti che nell'So erano complessivamente 13.ooo (come nel r87o), nel 1901
sono z7.ooo; cioè più del doppio. Da questo momento il numero si stabilizzerà
fino alla prima guerra mondiale. Ovviamente l'incremento quantitativo porta con
sé la necessità di profonde revisioni di contenuti e di metodi, in mancanza dei
quali le violazioni disciplinari, gli scioperi, gli insulti ai docenti, il sottrarsi al
peso degli esami, ecc. diventa un fenomeno doloroso sì, ma fatale. 1
VI · CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Per concludere l'analisi che abbiamo condotto nel presente capitolo ci sembra
opportuno accennare a due ordini di considerazioni. L'avvento di una nuova
classe a posizione egemonica al posto di un'altra è sempre stato accompagnato,
nel corso della storia, non dal semplice assorbimento, da parte della prima, della
cultura elaborata dai vecchi ceti dominanti, ma anche dalla elaborazione di una
parlando agli studenti di Roma, li invita a non.
lasciarsi trarre in errore da coloro che in nome
della democrazia vagheggiano « non so che
utopica città accademica » e respinge la pretesa
degli studenti' di eleggere le magistrature accademiche (sarebbe come se i passeggeri di una nave
volessero eleggere il comandante) e di elaborare
liberamente i piani di studio (ci vuole una conoscenza « tecnica » delle discipline e dei loro nessi),
l'evoluzionista De Dominicis (che secondo certe
interpretazioni schematiche « dovrebbe » essere
più «moderato»), difende e propugna entrambe
queste richieste con argomentazioni acute e stringenti che potrebbero, salvo qualche ritocco stililistico, essere inserite di peso nei documenti dei
gruppi studenteschi più avanzati dei nostri giorni.
I Per quanto riguarda i « tumulti » vale la.
pena di citare due episodi fra i pijl clamorosi: a
Bologna, nel marzo 1891, Giosuè Carducci è fatto
segno a violente manifestazioni di ostilità da parte
di gruppi di studenti e di operai repubblicani e radicali i quali lo accusano di essere un « transfuga »,
di essersi ridotto a poeta cesareo, a ciambellano,
per avere accettato di essere padrino della bandiera
di un circolo studentesco monarchico. Fischi, insulti, scambi violenti fra gruppi contrastanti, lo
costringono ad abbandonare l'aula. A Napoli, nel
gennaio del 1892., il professore Francesco Scaduto,
noto per la sua competenza nel campo del diritto
ma anche per la sua severità agli esami, dopo essere
stato più volte disturbato durante le sue lezioni ed
avere schiaffeggiato uno studente, è coinvolto in
una vera e propria rissa. In entrambi i casi ci sono
interrogazioni e interpellanze alla Camera. Il ministro (Villari) si indigna e promette di intervenire, ma la burrasca si risolve in nulla.
ZjZ
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
cultura nuova. Così l'avvento della borghesia al posto della classe feudale non
significò puro assorbimento da parte della borghesia della cultura feudale ma creazione di una cultura essenzialmente nuova, borghese. Questo, ovviamente, senza
negare che alcuni valori possano acquistare un significato relativamente permanente che permetta loro di sopravvivere al di là della trasformazione strutturale.
Sul piano della scuola, logicamente, questo dovrebbe tradursi nella creazione
di istituti radicalmente diversi dai vecchi, per organizzazione, contenuti culturali,
metodo, disciplina. Orbene, nel periodo che abbiamo preso in esame e che vede
l'affacciarsi alla ribalta della storia delle masse contadine ed operaie, questo fenomeno non si è verificato. Assistiamo, come abbiamo visto, al moltiplicarsi di
scuole classiche o al sorgere di scuole tecniche o « popolari » caratterizzate però
dalle stigmate di una essenziale inferiorità nei riguardi del vecchio liceo.
Le richieste di un curriculum diverso, più moderno, non mancano e talora sono
anche parzialmente accolte ma sono episodiche e spesso contrastanti e la scuola
non riesce a comporle, poiché non è risolta in unità la vita sociale che essa riflette.
Anche i socialisti, fino a Gramsci, non assumeranno alcuna iniziativa mirante
a mutare profondamente questa situazione. Il loro contributo al dibattito sulla
scuola è notevole ma va misurato esclusivamente in rapporto all'opera svolta a
favore dei ceti inferiori considerati come tali. Ragion per cui, se si moltiplicheranno
le scuole riservate ai figli dei proletari o dei contadini poveri, ciò avverrà perché
tali scuole saranno intese quali strumenti atti a cristallizzare le diversità sociali già
esistenti. In questo senso è paradigmatico l'atteggiamento di Gaetano Salvemini,
il quale sostiene la necessità di creare tre tipi di scuole, destinati rispettivamente:
1) agli alunni ai quali le condizioni di famiglia non consentono di aspirare se non
a un 'istruzione postelementare di corta durata e di uso utilitario immediato;
z) agli alunni ai quali le condizioni di famiglia permettono di aspirare agli studi
universitari; 3) agli alunni di mediocre agiatezza i quali desiderano una scuola di
durata intermedia. Che una società così strutturata sia ingiusta, Salvemini è il
primo ad ammetterlo. Allo stato attuale delle cose, però, egli teme soprattutto
l'invasione delle scuole superiori da parte di giovani provenienti da ceti socioculturalmente depressi: ciò che porterebbe allo scadimento della scuola e a gravi
danni per l'intera compagine nazionale.
Il secondo ordine di considerazioni riguarda le conseguenze che sulla vita
della scuola non poteva non avere la crisi della fiducia nel progresso continuo e
pacifico, lo scatenarsi dell'attivismo irrazionalistico, del nazionalismo, dell'imperialismo. Naturalmente, prima di gettarsi in avventurose imprese di conquista,
il nazionalismo deve affondare le radici nell'animo degli italiani, attraverso una intensa e capillare azione educativa. Si tratta, in primo luogo, di conservare netta la
distinzione fra quadri dirigenti e massa, il che, tradotto in termini scolastici, vuol
dire separazione fra vari tipi di scuola, vuol dire evitare ogni « inquinamento »
della scuola riservata alla élite, severità, selettività, espulsione dei « profani » dal
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Il dibattito sulla scuola in Italia fra la metà dell'Ottocento e gli inizi del Novecento
« tempio ». Tutti questi motivi hanno il loro momento polemico nella violenta
campagna da un lato contro la « mediocrità » e il « grigiore » della democrazia,
dall'altro contro il « naturalismo » positivistico. Il fiorire di teorie genericamente
spiritualistiche, volontaristiche, attivistiche, assolve allo scopo precipuo di imporre una concezione gerarchica e oligarchica della società, nella quale gli intellettuali si illudono di costituire la vera «aristocrazia». L'esaltazione della cultura
classica va giudicata in tale situazione storica, sotto questo punto di vista è, per
dirla con Luigi Salvatorelli, l'« analfabetismo degli alfabeti», consistente in una
infarinatura storico-letteraria in cui i due elementi essenziali sono «l'esaltazione
di Roma e dell'impero romano come nostri antenati e il racconto del risorgimento
ad usum delphini ». In realtà, dietro i fumosi vaneggiamenti degli intellettuali sono
chiaramente identificabili le forze delle quali l'ideologia irrazionalistica è ad un
tempo prodotto e strumento: quelle forze che porteranno ben presto l'Italia nel
gorgo della guerra e, subito dopo, al fascismo.
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CAPITOLO DECIMO
La biologia alla fine dell'Ottocento
DI FELICE MONDELLA
I · IL DARWINISMO IN GERMANIA
Le opposizioni che neppure in Germania mancarono alla teoria di Darwin,
non poterono impedire che proprio in questo paese essa trovasse le condizioni
culturali e scientifiche più favorevoli al suo sviluppo. Qui la tradizione religiosa
non si era arrestata come in Inghilterra alla concezione provvidenzialistica della
teologia naturale che tendeva a ricercare nelle forme degli organismi la prova del
disegno e dell'attività di dio nel mondo, ma attraverso lo stesso misticismo della
Naturphilosophie e l 'interesse per la critica biblica si era articolata in sviluppi
meno rigidi e teoreticamente più ricchi. A ciò si accompagnava una maggiore laicizzazione della cultura scientifica che si era spinta ad una sua forma estrema nel
materialismo democratico radicale degli anni cinquanta.
I rappresentanti di questo materialismo, Moleschott, Vogt, Biichner vedevano nelle scienze naturali una forma di sapere democratico che doveva
opporsi alle dottrine ecclesiastiche ed alla filosofia insegnata nelle università.
Chi si era schierato dalla loro parte salutò in Darwin non solo l'autore di una
grande rivoluzione teorica, ma anche lo scienziato che aveva lavorato al di fuori
dell'ambiente accademico, seguendo quella metodologia empiristica che si era
vista con favore ed ammirazione teorizzata nell'opera di John Stuart Mill. Carl
Vogt che aveva rifiutato l'evoluzionismo di Lamarck aderì prontamente alla
concezione di Darwin, rinunciando alla sua precedente teoria secondo cui le
forme viventi erano sorte per il solo effetto di forze naturali dopo ogni catastrofe geologica. Anche l'illustre patologo Virchow si pronunciò a favore del
darwinismo rilevando che il principio della selezione naturale rende comprensibile il modo in cui nel tempo si realizza il progresso. Il fisico e fisiologo Helmholtz infine riconobbe che con la teoria di Darwin si poteva spiegare la finalità
degli organismi viventi.
Anche autori meno favorevoli ad una concezione empiristica della conoscenza scientifica come Schleiden e Fechner aderirono alla teoria dell'evoluzione.
Nel complesso la nuova teoria rispondeva ad un'attesa profonda della
cultura biologica e filosofica tedesca. La Naturphilosophie romantica, pur quasi
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La biologia alla fine dell'Ottocento
universalmente riprovata, aveva lasciato tracce profonde. L'idea di uno sviluppo storico genetico di tutte le forme viventi culminanti nell'uomo era stata
espressa speculativamente da Oken e da altri autori. Caduta tale impalcatura
mitico-speculativa era tuttavia rimasta l'esigenza di una giustificazione e di una
spiegazione razionale della molteplicità delle forme viventi. Questa esigenza
si dispiegò negli studi di embriologia e soprattutto di anatomia comparata che
venivano assumendo la comune denominazione di morfologia, termine introdotto
da Goethe e con cui molti indicavano la ricerca di una struttura universale,
geometrica od «estetica», degli organismi viventi.
Tale indirizzo di studi, per cui si coniò verso l'inizio del xx secolo il termine
più preciso di morfologia idealistica, si venne differenziando dagli studi anatomici
ispirati dalla grande scuola francese di Cuvier, soprattutto per una loro coloritura pitagorico-platonica. Si perseguiva sino all'estremo l'analogia fra cristalli
e viventi, individuando ovunque rapporti geometrici e costanti matematiche,
come ad esempio nella famosa formula della distribuzione a spirale delle foglie
lungo lo stelo della pianta. Vi si cercava anche il dispiegarsi di leggi dinamiche
di alternanza o di ritmo nei più vari e complessi processi di metamorfosi, di ripetizione e di progresso. Argomento importante di questa ricerca fu quello della
generazione alternante per cui certi organismi pur nascendo con forma diversa
da quella dei genitori producono poi organismi a loro identici. I botanici Nees
von Esenbeck (1776-1858) ed Alexander Braun (1805-77), il medico Carl Gustav
Carus (1789-1869) furono fra i cultori di questi studi morfologici che riecheggiavano costantemente alcuni motivi della scienza romantica.
Gli sviluppi più importanti della morfologia idealistica si ebbero in Inghilterra con l'opera del famoso anatomico Richard Owen, già da noi ricordato
fra gli oppositori di Darwin, e riguardano fra l'altro il problema dell'omologia,
cioè della somiglianza fra organi che mostrano una struttura comune originaria
malgrado la loro diversità di funzione.
Tale somiglianza era già da tempo ricercata nel piano comune alla struttura
ossea dei vertebrati, riscontrando ad esempio un'unità morfologica nelle estremità
degli arti superiori malgrado il loro differenziarsi in mani, zampe, pinne, ali ecc.
Per stabilire questa identità originaria di parti diverse, cioè l'omologia, Owen si
riferisce ad un archetipo o modello ideale, di cui l'esempio più tipico è appunto la
struttura del vertebrato.
Questi modelli o archetipi se da un lato erano intesi, secondo una concezione creazionistica, come l'espressione di idee divine nella natura, d'altro lato
rispondevano all'esigenza di ritrovare in essa una sorta di ordine logico necessario.
Ognuno di tali archetipi era infatti strutturato in modo tale che da esso potessero derivarsi il numero più ampio di forme fenomeniche naturali.
Nel complesso dunque i vari indirizzi della morfologia idealistica, nella misura in cui ricercavano un fondamento comune alle molteplici forme di viventi,
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La biologia alla fine dell'Ottocento
avevano preparato un terreno favorevole alla teoria di Darwin in quanto essa
pure si pr!=!sentava come spiegazione di tale molteplicità. D'altra parte nella
spiegazione evoluzionistica dell'autore inglese sembravano prevalere aspetti di
casualità e di accidentalità storica sfuggenti ad ogni sistemazione logico-astratta
o ad ogni forma di necessità razionale cui miravano molti studiosi di morfologia.
Fra questi, ad esempio, il grande embriologo Karl Ernst von Baer, che
già da tempo era giunto ad ammettere una trasmutazione delle specie, rifiutava
interamente l'ipotesi della selezione naturale in base al principio che l'evoluzione,
come lo sviluppo embrionale ed ogni altro fenomeno naturale, si realizza secondo un disegno teleologico divino, che non può assere misconosciuto in una
autentica comprensione della natura.
Anche autori che a differenza di Baer seguivano un'impostazione meccanicistica o materialistica rilevavano in Darwin la mancanza di una adeguata
trattazione morfologica e fisiologica degli organismi, l'interesse limitato ai risultati dell'allevamento o delle esplorazioni geografiche e della classificazione a
scapito delle ricerche più sistematiche e rigorose della recente biologia, in particolare della microscopia.
Fra questi lo svizzero Rudolf Albert Kolliker (1817-1905), che fu a Zurigo
allievo di Oken ed a cui si devono importanti contributi nel campo della biologia cellulare, ritiene inadeguata la spiegazione fornita da Darwin per il processo
dell'evoluzione. L'adattamento nella lotta per l'esistenza non può essere criterio
per comprendere la struttura degli organismi. Se in ciascuno di essi si può riscontrare una immediata utilità degli organi questa non può essere ritenuta la ~ola
ragione della loro esistenza; occorre ammettere che l'evoluzione degli organismi
sia il risultato di una legge generale per cui un grande piano evolutivo sottostà
allo sviluppo di tutto il mondo organizzato ed agisce sulle fortne più semplici
producendo stadi superiori di complessità. Egli ritiene in sostanza che nella formazione evolutiva dei viventi agiscano cause interne analoghe a quelle che producono la formazione dei cristalli, e che tale processo sia avvenuto per salti mediante la nascita di organismi sensibilmente diversi dai genitori (eterogenesi).
Molti degli avversari (ma anche alcuni dei primi sostenitori) della nuova
teoria dell'evoluzione si trovavano specialmente in Germania a condividere l'idea
che la conoscenza scientifica dovesse fornire leggi e principi dotati di assoluta
necessità, dovesse cogliere le cause o i fondamenti essenziali dei fenomeni e ciò,
sia che essi fossero seguaci della morfologia idealistica o convinti assertori del
più rigido meccanicismo biologico, li opponeva decisamente all'impostazione
empiristica secondo cui Darwin aveva cercato di esprimere le cause e le leggi
dell'evoluzione.
Questa concezione rigidamente sistematico-razionalistica della conoscenza
della natura riecheggiava indubbiamente alcuni motivi della Naturphilosophie
e ·doveva sia pure con una accentuazione dogmatica caratterizzare tutta l'opera
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La biologia alla fine dell'Ottocento
di Ernst Haeckel, cioè del maggiore sostenitore tedesco della teoria dell'evoluzione. In tale opera egli seppe unire un'adesione incondizionata alle idee di Darwin
e agli ideali sistematici della morfologia e del meccanicismo con una visione del
mondo di tipo materialistico.
Il
· ERNST
HAECKEL
Figlio di un funzionario prussiano, Haeckel era nato a Potsdam nel 1834
ed aveva condotto gli studi di medicina a Wiirzburg ove insegnavano Kolliker
e Virchow, di cui fu per breve tempo assistente. Un anno trascorso a Berlino,
alla scuola di Johannes Miiller, gli ispirò un vivo interesse per gli studi di zoologia marina. In un viaggio a Messina egli potè così raccogliere del prezioso materiale su animali microscopici marini e pubblicare nel I 862. la sua prima opera
importante Die Radiolarien (l radio/art).
Abbandonata nel frattempo la fede religiosa, da lui sentita profondamente
sino agli anni della prima giovinezza, aveva cominciato a nutrire una profonda
avversione per la politica reazionaria della chiesa, che insieme agli junker
prussiani ed ai principi tedeschi egli considerava un grave ostacolo alla unificazione della Germania. L'opera di Darwin aveva subito suscitato il suo entusiasmo e
nel 1863 al congresso dei naturalisti tedeschi egli pronunciò un discorso lucido
ed infiammato in cui si manifestava chiaramente il suo temperamento polemico
e la venatura profetica della sua vocazione scientifica. « Sulla bandiera ... dei
darwinisti stanno le parole: Evoluzione e Progresso! Dal campo dei conservatori avversari di Darwin suona il richiamo: Creazione e Specie! » Tale « Progresso è una legge naturale che nessuna potenza umana, né le armi dei tiranni
né le maledizioni dei preti, potranno mai durevolmente reprimere.»
Il suo fervore per il darwinismo lo condusse presto a stendere con un intenso lavoro un'ampia opera che apparve nel 1866: Genere/le Morphologie der organismen (Morfologia generale degli organismi), la quale portava come sottotitolo
« Lineamenti generali della scienza delle forme organiche, fondata meccanicisticamente mediante la teoria della discendenza di Charles Darwin, riformata».
Quest'opera, raccolta in due ponderosi volumi, suscitò pochissimo interesse
probabilmente per il carattere ostico e prolisso e per l'eccessiva sovrabbondanza
di neologismi. La sua importanza storica rimane nondimeno notevole poiché
ci permette di cogliere nella loro primitiva formulazione quelle idee che l'autore
svilupperà nelle opere successive destinate ad avere così profonda influenza sulla
cultura degli ultimi decenni del secolo.
Egli si propone innanzitutto di enunciare e realizzare per la morfologia
quello stesso programma meccanicistico che circa due decenni prima era stato
formulato per la fisiologia da Lotze, Du Bois-Reymond e Ludwig, e di ottenere così
dall'innumerevole materiale empirico descrittivo degli anatomisti e dei micro-
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La biologia alla fine dell'Ottocento
scopisti un'effettiva cognizione e spiegazione delle forme viventi. Dall'opera di
Goethe, di cui premette ad ogni capitolo uno o più passi, egli sembra derivare
la convinzione che la forma, come qualità fondamentale di ogni oggetto della
natura, possiede un suo status preciso accanto alla materia ed alla forza. Morfologia
chimica e fisica sono così le scienze che si occupano della triade forma, materia
e forza.
Egli afferma inoltre, facendo riferimento ad un passo di Johannes Miiller,
che le verità più importanti delle scienze naturali non risultano dall'analisi
filosofica né da una semplice esperienza, bensì da una esperienza pensante (denkende
Erfahrung) che sa distinguere il casuale dall'essenziale per cogliere i principi
fondamentali. Empiria e teoria devono così integrarsi in una unità che è quella
stessa in cui si integrano la descrizione della natura e la filosofia della natura.
Il termine Naturphilosophie, screditato dalle fantasticherie dei romantici,
deve essere rivalutato per esprimere il nuovo tipo di conoscenza profonda dei
fenomeni biologici aperto dalla teoria della selezione naturale di Darwin. Attraverso l'opera dell'autore inglese è infatti possibile inaugurare una nuova filosofia della natura che si contrappone a quella romantica per il suo carattere empirico, per il suo non distinguersi di principio dalla stessa scienza naturale. « Per
conto nostro, » egli afferma, « noi siamo assolutamente convinti che nella scienza
veramente "cognitiva" (erkennende) l'empiria e la filosofia non si lasciano distinguere l'una dall'altra. Questa è solo il primo ed inferiore, quella l'ultimo e più
elevato grado della conoscenza. Ogni vera scienza naturale è filosofia ed ogni vera
filosofia è scienza naturale. Ogni vera scienza è in questo senso filosofia della
natura.»
La tendenziale coincidenza di scienza e filosofia significava nel nostro autore,
come nei materialisti degli aJ1ni cinquanta, il rifiuto della tradizionale filosofia
spiritualistica delle università che operava in Germania molto spesso al servizio
del potere costituito. Per Haeckel inoltre questa convinzione sembrava trovare
una conferma nel pensiero di Goethe per il quale doveva essere possibile cogliere
l'idea nella concreta intuizione della natura. A differenza di Goethe Haeckel non
mostra però alcuna riluttanza alle formulazioni più generali ed astratte, al procedimento deduttivo che muove da rigidi assunti teorici.
A questo proposito egli insiste ripetutamente sulla completa validità del
meccanicismo teorico e dedica uno dei capitoli del primo volume della sua
Genere/le Morphologie al tema « Teleologia e causalità». Al pari dei materialisti
contemporanei egli muove dalla identificazione alquanto semplificatrice di teleologia e vitalismo da un lato e di meccanicismo e causalità dall'altro. «Tutto ciò,» egli
afferma, « che nella natura ci può sembrare il risultato intenzionale di una libera
causa finale, che domini le cause fisico-chimiche e sia indipendente da esse,
tutto ciò non è in realtà che la conseguenza necessaria della interazione delle cause
meccaniche esistenti.» La scoperta darwiniana della selezione naturale nella
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La biologia alla fine dell'Ottocento
lotta per l'esistenza ha dimostrato in modo decisivo il valore esclusivo delle
cause meccaniche nella biologia, affossando ogni considerazione teleologica e
vitalistica degli organismi.
Viene respinta quindi la posizione di Kant il quale- come afferma Haeckel- aveva espressamente sostenuto «a favore di un giudizio teleologico sulla
natura organica che i suoi processi sono completamente inesplicabili ed inaccessibili alla capacità conoscitiva dell'uomo, e che specialmente il sorgere degli
organismi più complessi è del tutto inconcepibile in base a cause meccaniche.
Kant ammette esplicitamente che alle cause meccaniche competa il diritto di
spiegare questi fenomeni ma ad esse è negata la capacità. Perciò egli volle ammettere la "finalità naturale" della teleologia solo come una massima del giudizio,
non come principio di conoscenza. Disse perciò espressamente che la natura
vivente non può essere oggetto di conoscenza (Erkenntnis), ma soltanto di
osservazione, poiché proprio le forze motrici della materia non erano sufficienti
alla spiegazione dell'organizzazione ». Secondo Haeckel questa concezione di
Kant influì negativamente sui biologi durante i successivi decenni sinché l'opera
di Darwin non rivelò chiaramente la natura di questo errore. È ora perciò possibile respingendo la teleologia ed il vitalismo, ed affermando la completa validità del metodo meccanico e causale, giungere al superamento di tutte le contrapposizioni dualistiche introdotte nella realtà fra spirito e materia, contenuto
e forma, essenza e fenomeno.
Tale superamento conduce al monismo. Come metodo il monismo non è
che l'applicazione del principio generale di causalità: «Ogni causa, ogni forza
ha il suo necessario effetto, ogni effetto, ogni fenomeno ha la sua causa necessaria. » Come sistema filosofico il monismo non è altro che il risultato generale
della nostra visione scientifica del mondo, della nostra complessiva conoscenza
della natura.
Dopo aver esposto le sue considerazioni preliminari di carattere metodologico e filosofico l'autore svolge ampiamente la parte più specificamente sistematica
della sua opera. Inizia dalla trattazione dei rapporti fra organismi e sostanze inorganiche (cristalli), rilevando per ambedue questi tipi di corpi sia una tendenza formativa interna (dovuta all'interazione delle forze atomiche) sia una tendenza formativa esterna (risultante dall'azione dell'ambiente sull'individuo). Per adattamento
egli intende in generale l'interazione dell'individuo con l'ambiente. In questa
profonda unità e continuità fra mondo organico ed inorganico vengono considerati vitali i processi caratteristici dei corpi proteici e degli altri composti complessi
del carbonio, dotati di una particolare « capacità di imbibizione ».
Seguendo coerentemente questa impostazione meccanicistica, condivisa da
moltissimi biologi contemporanei, egli nega che si possa parlare di « creazione »
della vita e sostiene invece l'ipotesi della sua generazione spontanea sulla terra.
« Dobbiamo avanzare questa ipotesi come la conseguenza immediata ed il più
z6o
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I-a biologia aUa fine dell'Ottocento
necessario completamento della teoria universalmente riconosciuta della formazione della terra di Kant-Laplace e troviamo a questo proposito una necessità
logica così stringente nel complesso dei fenomeni naturali, da poter indicare
questa deduzione - come inevitabile - per quanto a molti possa apparire
molto audace. » Ammette infatti che nel mare primitivo alcune sostanze inorganiche si siano riunite in complessi composti organici di carbonio e che questi
abbiano formato organismi più semplici delle attuali cellule, da lui denominati
monere.
Il pnmo volume della Genere/le Morphologie si completa con una ampia
trattazione estremamente ricca di suddivisioni sistematkhe e di neologismi che
prospetta la stereometria o geometria spaziale dell~ forme viventi nel loro complesso.
Più di quest'ultima trattazione era destinato a maggior successo ed a più
significativi sviluppi l'insieme di problemi del secondo volume dell'opera che
affronta il tema dello sviluppo degli organismi, sia nel senso di sviluppo embrionale
od ontogenetico che in quello di sviluppo evolutivo o fi~ogenetico. Il nome di Haeckel è rimasto legato ad un principio generale che stabilisce un preciso legame fra
questi due tipi di sviluppi e che venne da lui espresso come legge biogenetica fondamentale. Secondo la formulazione più compiuta che ne diede l'autore essa afferma che « l'ontogenesi è una ricapitolazione abbreviata ed incompleta della
filogenesi». Questa rassomiglianza fra un processo da noi attualmente osservabile, quale lo sviluppo embrionale ed un altro processo che non lo è più, quale
la passata evoluzione da forme ancestrali a forme attualmente viventi, permette
di ricostruire quest'ultimo processo, almeno in via ipotetica, in base al primo.
Tale ricostruzione agli occhi di Haeckel è tanto più importante in quanto « tutti
i fenomeni che accompagnano lo sviluppo individuale degli organismi si spiegano soltanto in base allo sviluppo paleontologico dei loro ascendenti », cioè
in quanto !'ontogenesi è l'effetto e la filogenesi è la causa.
Questa rigida impostazione del principio biogenetico agì con un'enorme e
suggestiva incisività sul pensiero biologico dei decenni successivi e suscitò alla
fine un'altrettanto drastica reazione contro di esso. Sarà perciò opportuno soffermarci sulla sua origine storica per chiarirne meglio il significato e le limitazioni.
Dalla fine del Settecento era stato più volte proposto ed elaborato il tema
generale di un parallelismo fra le varie fasi dello sviluppo embrionale ed i vari stadi
progressivi nei quali si dispiegava la scala animale, e nell'ambito della filosofia
romantica della natura si vide in tale parallelismo un aspetto della più generale
analogia fra microcosmo e macrocosmo. Già nel 1793 Karl Friedrich Kielmeyer
aveva sostenuto che le varie forze organiche, quella vegetativa della riproduzione, quella.. della irritabilità e quella sensoriale si dispongono nella scala ascendente degli animali in quello ste~so ordine di successione con cui compaiono nello sviluppo del singolo individuo.
2.61
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La biologia alla fine dell'Ottocento
Importante è il proseguimento di questo tema del parallelismo da parte
di Johann Friedrich Meckel (178I-I833) il quale passando dalla considerazione
delle forze a quella delle forme giunge a sostenere che gli animali superiori, nel
loro sviluppo embrionale, ripercorrono gli stadi morfologici della serie animale
ad essa inferiore. Altri autori sviluppano questa concezione in base all'idea di
Robinet che ogni embrione animale tende a divenire !lomo e che, solo per l'arresto di questa tendenza in determinate fasi, si producono le forme animali a lui
inferiori.
Nel I 8z8 la critica acuta e penetrante di von Baer colpisce il presupposto
fondamentale delle varie teorie del parallelismo e cioè l'idea di un unico piano
e quindi di una serie lineare unica degli animali, sostenendo come Cuvier l'esistenza
di quattro tipi animali fondamentali. Lo sviluppo dell'embrione avviene secondo
i caratteri del tipo a cui esso appartiene e solo nelle primissime fasi si ha una somiglianza fra gli embrioni dei vari tipi. Lo sviluppo embrionale si realizza inoltre
attraverso una progressiva differenziazione, per cui compaiono in primo luogo
i caratteri più generali del tipo, poi quelli della classe, dell'ordine, della famiglia
e infine della specie. Inoltre- secondo von Baer -l'embrione di un animale
superiore non assomiglia mai all'adulto di un'altra forma ma soltanto al suo
embrione.
Von Baer contribuiva in tal modo al superamento dell'idea che il modello
di perfezione ideale da porsi alla base di un'anatomia comparata fosse costituito
dall'uomo, considerato come riassunto o sinopsi di tutto il regno animale. Il
criterio che da ora verrà posto alla base dell'anatomia comparata non sarà più
l'uomo ma lo sviluppo embrionale di ciascun gruppo; in tal modo lo stato
iniziale con cui si presenta ogni organo in questo sviluppo dovrà rappresentare
lo stato generale o tipico di quest'organo per quel gruppo.
La critica serrata di von Baer alla teoria del parallelismo non impedì che
questa venisse ripresa prima della metà dell'Ottocento dall'illustre zoologo svizzero-americano Louis Agassiz (1807-73). Questi era infatti giunto a sostenere
una triplice somiglianza fra forme embrionali di alcuni pesci, forme adulte di
pesci inferiori dello stesso gruppo e loro forme fossili di periodi più antichi.
Questo triplice parallelismo, che secondo Agassiz doveva assumere il carattere di una legge generale, venne interpretato da Chambers in senso evoluzionistico. Anche Darwin riprese l'argomento in diversi passi della sua opera principale, rilevando ad esempio che la somiglianza ammessa da von Baer fra le
prime fasi embrionali di animali appartenenti a tipi diversi, può essere opportunamente spiegata mediante la loro comune discendenza. Tale somiglianza può
essersi mantenuta in quanto gli embrioni si accrescono in condizioni relativamente uniformi e sono quindi scarsamente soggetti all'azione della selezione
naturale. Darwin ammette inoltre, seguendo Agassiz, che forme antiche ed
estinte di viventi possano rassomigliare agli embrioni dei loro discendenti, ma
2.62.
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La biologia alla fine dell'Ottocçnto
r1t1ene che questa possibilità debba essere vagliata attraverso ricerche paleontologiche.
Nel 1864 un medico tedesco che risiedeva in Brasile, Fritz Miiller (1821-97),
nella sua opera Fiir Darwin (Per Darwin) era giunto alla conclusione che alcune
larve di crostacei attualmente viventi rappresentano degli stadi filogenetici di
crostacei più antichi ed estinti e che da queste forme attuali noi possiamo desumere oggi la loro forma passata. Le successive fasi nell'attuale sviluppo di questi
crostacei oggi viventi ci rappresentano cioè in modo abbreviato la storia della
loro stirpe. Questa ricapitolazione della storia ancestrale non è del tutto fedele
poiché il reperto storico, presente nello sviluppo embrionale' dall'uovo all'animale
adulto, è frequentemente falsificato dalla lotta per l'esistenza che in passato hanno dovuto sostenere le larve libere.
Queste considerazioni di Fritz Miiller insieme a quelle di Darwin vennero
riprese e sviluppate da Haeckel con la sua legge biogenetica fondamentale.
Egli accettando la distinzione posta da von Baer fra il tipo di organizzazione ed
il grado di differenziazione, ritiene però che in base alla teoria dell'evoluzione
o discendenza il tipo debba essere considerato come il prodotto della «forza
formativa interna» della ereditarietà, mentre il grado di differenziazione sarebbe
il risultato della «forza formativa esterna» dell'adattamento. Haeckel, pur tenendo
costantemente valido il principio che l'ontogenesi è immediatamente condizionata dalla filogenesi del ceppo a cui l'individuo appartiene, riconobbe come Miiller
che era possibile ricostruire la filogenesi sulla base dell'ontogenesi soltanto per
quegli organi che nel corso dell'evoluzione si fossero conservati costanti in forza
dell'eredità e non per quegli organi che si erano modificati in forza dell'adattamento. Per questi ultimi la forma originaria risulta offuscata o « falsificata »
dalle circostanze a cui hanno dovuto adattarsi e perciò in questi casi non tanto
le fasi dello sviluppo embrionale ma piuttosto l'anatomia comparata può illuminarci su di essa.
L'importanza che assumono a questo scopo l'anatomia comparata ed il
sistema generale di classificazione risulta evidente se si ricorda che classi, ordini, famiglie, ecc. rappresentano i rami dell'albero genealogico e che il grado
della loro divergenza rappresenta la maggiore o minore affinità genetica degli
organismi fra di loro e rispetto alla forma ancestrale comune. Ma se l'ontogenesi
ricapitola la filogenesi essa riprodurrà dapprima i caratteri del progenitore del
tipo, poi quelli del progenitore della classe e così via; si potrà allora, secondo
Haeckel, ammettere un triplice parallelismo fra sistema naturale, ontogenesi e filogenesi.
Se questa tesi del triplice parallelismo può considerarsi una estensione dell'analogo parallelismo formulato da Agassiz, in essa Haeckel si allontana dalle
concezioni di von Baer in quanto, a differenza di questi, ritiene che i vari stadi
embrionali rappresentino la forma adulta di animali più antichi e non i loro
embrioni.
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La biologia alla fine dell'Ottocento
L'idea che gli stadi embrionali rappresentino forme adulte di altri animali
inferiori era già stata sostenuta da Meckel ammettendo che questi animali erano
attualmente rappresentati nella scala naturale. Per Haeckel invece essi sono delle
forme ancestrali per lo più ipotetiche e da lui ricostruite in modo spesso congetturale ed arbitrario per colmare dei vuoti specialmente ai livelli più antichi
degli alberi filogenetici.
La costruzione di questi alberi genealogici o filogenetici doveva costituire il
programma più ambizioso di tutta l'opera morfologica di Haeckel e per quanto
i suoi risultati suscitassero alcuni decenni più tardi le più ampie riserve essi
agirono come uno stimolo molto fecondo sulla, ricerca.
Questo programma fu uno degli apporti originali di Haeckel rispetto all'opera
di Darwin. Nei confronti dell'autore inglese egli si distingue anche per il grande rilievo dato alla «legge» dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti e per un'impostazione del tutto rigida e priva di cautela nella trattazionè- di molti problemi
dell'evoluzione. Sostiene ad esempio che nel complesso« il movimento evolutivo
di tutto il mondo organico è continuo e progressivo anche se ci possono essere alcuni casi di regresso ». « Questi regressi, come avvengono nella storia dei
popoli prevalentemente per il predominio dei preti e dei despoti, così nella
restante natura organica sono prodotti prevalentemente attraverso il parassitismo. »
Nella parte conclusiva della Genere/le Morphologie il nostro autore passa a
considerare l'antropologia come parte della zoologia.·« L'enunciato che l'uomo
si è sviluppato da vertebrati inferiori e più prossimamente da vere scimmie è
una speciale conclusione deduttiva, che risulta con assoluta necessità dalla teoria
della discendenza. » A questa esplicita conclusione, a cui Darwin non era ancora
giunto nel 1866, Haeckel dà un significato fondamentalmente materialista. La
distinzione fra la psiche umana e quella degli animali è infatti solo quantitativa
e non qualitativa anche se l'uomo come «trionfo dell'evoluzione» ha superato
tutto il mondo inorganico.
L'ultimo capitolo dell'opera è dedicato al monismo e porta come titolo
« Dio nella natura ». Il monismo non è materialismo né spiritualismo poiché
non esiste materia senza spirito né spirito senza materia. Materia e spirito non
sono però termini che Haeckel cerchi di chiarire con un'approfondita analisi
critico-filosofica. Egli sembra confusamente identificare spirito e forza allorché
afferma: «Noi conosciamo così poco una materia senza spirito, cioè una materia
senza forza, quanto uno spirito senza materia, cioè una forza senza materia. »
Le sue parole sembrerebbero riecheggiare il materialismo di Biichner e Moleschott se non emergesse in una citazione finale di Goethe un richiamo ad una
concezione panteistica della natura. Cqntro ogni concezione di un dio architetto e creatore della natura egli rivendica infatti attraverso le parole del grande
poeta tedesco l'unità di dio e natura.
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Was war' ein Gott, der nur von aussen stiesse,
Im Kreis das Ali am Finger laufen liesse!
Ihm ziemt's, die Welt im Innern zu bewegen,
Natur in Sich, Sich in Natur zu hegen,
So dass, was in Ihm lebt und webt und ist,
Nie Seine Kraft, nie Seinen Geist vermisst.l
Il richiamo a Goethe, che costituisce un leitmotiv nell'opera ora ricordata
ed in altre ancora di Haeckel, può in parte comprendersi se si considera il grande
poeta come uno dei fondatori della morfologia. Meno giustificata è invece l'insisten~a con cui Haeckel ne fa un precursore della teoria dell'evoluzione, poiché
Goethe ebbe si delle forme viventi una concezione dinamica ma in un senso più
ideale-percettivo che non storico-temporale. Altri dubbi può suscitare il richiamo a
Goethe da parte di un autore come Haeckel che si faceva aperto sostenitore
del meccanicismo biologico. Questi dubbi possono in parte attenuarsi se si considera come tale meccanicismo fosse soprattutto programmatico e dovesse nel
concreto della sua ricerca risolversi più nello stabilire un determinismo globale
nella morfogenesi degli organismi che nel precisare i processi fisico-chimici ad
essa sottostanti.
Nel complesso Haeckel esaltava in Goethe il sostenitore di una visione panteistica della natura, colui che aveva riconosciuto la grandezza di Spinoza e
mantenuto un illuministico distacco dalle religioni positive. Pur essendo ammirato
come il grande poeta nazionale tedesco, molti ambienti ecclesiastici lo accusavano
di libertinismo e libero pensiero e proprio per questo l'opposizione democraticoradicale ritrovava in Goethe una bandiera per la propria lotta politica.
L'opera di Haeckel Genere/le Morphologie era dedicata con commosse parole
di amicizia allo studioso di anatomia comparata Cari Gegenbaur (18z6-19o3)
che aveva con la sua notevole competenza sostenuto ed aiutato il collega nella
stesura dell'opera. Insegnò anch'egli a Jena, che doveva lasciare per Heidelberg
nel 1872, ed i suoi Grundziige der vergleichende Anatomie (Lineamenti di anatomia
comparata) divennero ben presto il testo classico della morfologia evoluzionista,
che egli al pari di Haeckel riteneva la disciplina essenziale per lo studio della vita.
L'approvazione di Gegenbaur e di altri studiosi non poté impedire il quasi
completo insuccesso della Genere/le Morphologie. Essa- osserva E. S. Russel« come libro soffre molto per il modo di esposizione adottato, arido, schematico,
quasi scolastico. Alla mania prussiana di Haeckel per l'organizzazione, per le
distinzioni assolute, per il ferreo formalismo vien qui dato libero campo. Una
trattazione meno adeguata alla varietà, alla fluidità e mutevolezza degli esseri
viventi può difficilmente essere immaginata».
I Cosa sarebbe un dio, che solo da fuori incalzasse, l che si facesse girare intorno al dito il
tutto! l A lui s'addice piuttosto, che muova l'interno del mondo, l in sé la natura chiudendo, se
stesso nella natura, l così che q;;anto in lui vive,
s'ingegna, opera, esiste, l della sua forza giammai
non manchi, né del suo spirto.
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Doveva contribuire all'insuccesso dell'opera anche il tono aspramente polemico di molti passi, deprecato dallo stesso Gegenbaur, che pur condivideva
quasi interamente le tesi scientifiche dell'amico. Anche Darwin, scrivendo ad
Haeckel tutto il suo apprezzamento, gli raccomandava prudenza e moderazione.
Più comprensivo appariva invece Huxley, pur non tacendo la sua perplessità
di fronte ad una battuta con cui Haeckel, sollevando grande scalpore, aveva paragonato la corrente immagine antropomorfica di dio a quella di un vertebrato
allo stato gassoso.
Ma l'entusiasmo e la passione di Haeckel non si lasciavano facilmente trattenere. Nel 1868 egli pubblicò le lezioni di un corso divulgativo da lui tenuto
a Jena con il titolo Natiirliche Schopfungsgeschichte (Storia naturale della creazione).
Il contenuto della sua opera precedente è qui riesposto in modo più agile ed
efficace ed il libro ebbe un successo enorme. Tradotto in molte lingue e attraverso numerose edizioni, fu l'opera che non solo fece più conoscere le idee di
Haeckel ma che forse contribuì di più a diffondere la teoria dell'evoluzione.
L'esposizione che egli fa di questa teoria si pone esplicitamente lo scopo di
contribuire al progresso della libertà e del dominio della ragione guidando il
lettore ad una comprensione della natura. A questo fine egli si diffonde ampiamente sulla visione materialistica della realtà che deriva dalla nuova scienza
della vita, e ritiene di dover difendere il materialismo scientifico dalle accuse
che lo vogliono intenzionalmente confondere con il materialismo etico. Questa
ultima forma di materialismo la si cercherà invano presso « quei naturalisti e
quei filosofi il cui più elevato godimento è quello spirituale della natura ed il
cui fine massimo è quello della comprensione delle sue leggi. Questo materialismo occorre cercarlo nei palazzi dei principi della chiesa e di tutti quegli ipocriti che sotto la maschera esteriore di una pia devozione mirano soltanto alla
gerarchia tirannica ed allo sfruttamento degli altri uomini». Haeckel si sofferma
più a lungo sul problema dell'origine dell'uomo e precisa che «nessuna delle
scimmie attualmente viventi, e nessuna neppure delle cosiddette. scimmie antropoidi può essere progenitrice della razza umana. I progenitori scimmieschi di
essa sono da lungo tempo estinti». Questa precisazione non risparmiò ad Haeckel,
nella violenta reazione che accolse l'opera, l'epiteto di « professor scimmia».
Un altro motivo di attacco che venne ripreso per diversi decenni fu la cosiddetta « storia dei tre cliché», dovuta al fatto che nella prima edizione dell'opera
Haeckel usò sconsideratamente (per sua stessa ammissione) tre figure identiche
per rappresentare gli embrioni d'un cane, d'un pollo e d'una tartaruga, sia pure
a uno stadio di sviluppo in cui questi embrioni sono effettivamente somiglianti.
L'impegno politico-culturale di Haeckel, con gli scontri polemici e le violente ostilità che suscitavano, lungi dallo scoraggiare la sua attività lo incitavano
a continuare un intenso lavoro anche sul piano strettamente scientifico e didattico. I viaggi ed i rapporti con studiosi di altri paesi gli permettevano inoltre
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di raccogliere prezioso materiale scientifico per le sue ricerche di morfologia.
Nel 1872 pubblicò infatti un'altra opera Die Kalkschwiimme (Le spugne calcaree). In essa si trova la prima enunciazione della «teoria della gastrea » che egli
approfondì in scritti successivi e che rappresenta forse la più importante applicazione della sua legge biogenetica fondamentale. Alcuni studiosi avevano già
rilevato che negli embrioni di vari animali si presenta un tipico stadio iniziale di
sviluppo, caratterizzato dalla formazione di un sacco in cui si ha uno strato interno che circoscrive la cavità destinata a formare il canale digerente (entoderma)
ed uno strato esterno che si differenzia in epidermide, muscolatura e sistema nervoso (ectoderma). Haeckel ampliò queste considerazioni sostenendo che tale stadio
embrionale, da lui denominato gastrula, si forma in tutti gli animali pluricellulari
da una sfera vuota di cellule (blastula) per una depressione verso l'interno, analoga
allo schiacciamento di una palla di gomma, e per un successivo restringimento
dell'apertura verso l'esterno che viene a costituire l'orifizio del canale digerente.
Egli concluse infine che questo stadio embrionale è la riproduzione o ripetizione di una forma ancestrale molto antica vivente in modo autonomo
che denominò gastrea. La teoria della gastrea, per quanto fosse subito oggetto
di serie obiezioni, ebbe un grandissimo successo e divenne uno dei punti di
partenza della nuova morfologia evoluzionista, che a sua volta si poneva alla
base od era strettamente collegata a tutte le ricerche per una classificazione naturale dei vari gruppi animali. A queste ricerche che costituivano la sua principale
specializzazione scientifica Haeckel diede ancora un importante contributo,
sempre nel campo degli animali marini, con Das System der Medmae (Il sistema
delle meduse, 1879). Ma col passare degli anni si venne accentuando il suo impegno
per la diffusione e la difesa della sua concezione filosofica, il monismo.
Già in precedenti studi scientifici si era rivolto agli estremi più filosoficamente significativi del mondo vivente. Da un lato con gli studi sugli esseri unicellulari (1868, 187o) aveva toccato il problema dell'origine della vita, dall'altro
con un'ampia opera Die Antropogenie (L'antropogenia, 1874) aveva cercato di ricostruire tutta la genealogia dell'uomo partendo dagli esseri più semplici.
Circa l'origine delle prime forme vitali egli sostenne, come si è accennato,
l'esistenza di esseri più semplici delle cellule, dette monere, che dovevano essere
costituite da una semplice materia vitale, priva ancora della differenziazione in
nucleo e protoplasma, chiamata plasson. Huxley credette di aver individuato sul
fondo marino questa materia vitale durante la deposizione del primo cavo transatlantico, e creò per essa il nome di Bathybius Haeckelii, ma riconobbe poco dopo
che si trattava di una banale gelatina inorganica.
Se la teoria delle monere venne perdendo importanza con i successivi studi
microscopici sulla cellula, il problema dell'origine dell'uomo mantenne tutta la
sua importanza scientifica e filosofica. La sua Antropogenia destinata ad avere
nwnerose edizioni suscitò subito un grande scalpore. Non mancarono le pressioni
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di ambienti ecclesiastici e politici per allontanarlo dall'università di Jena ma
egli trovò nelle autorità preposte a questa istituzione comprensione ed appoggio.
Se a differenza di Moleschott, di Vogt e di altri scienziati materialisti egli
poté conservare la cattedra universitaria ciò fu anche dovuto alla particolare
situazione politica che portò dopo il 1870 in Germania al consolidamento del
potere di Bismarck. Nella lotta che questi conduceva contro i cattolici trovava
infatti anche un certo spazio culturale la critica materialista alle tradizionali verità
religiose condotta da Haeckel e dai suoi seguaci. Il radicalismo politico e filosofico
che accompagnava questa critica, per la sua risonanza presso un vasto pubblico in
particolare quello sensibile all'influenza dei socialdemocratici, doveva però apparire pericoloso a molti conservatori che passarono quindi al contrattacco. Haeckel
fu cosi portato a vedere un atteggiamento reazionario di tal sorta nel discorso che
Emil Du Bois-Reymond tenne nel 1872. denunciando i limiti della conoscenza
umana e proclamando il suo famoso ignorabimus, ed in cui si affermava fra l'altro
che gli alberi filogenetici di Haeckel sarebbero passati ai posteri come le genealogie degli eroi omerici.
Se la sua risposta polemica a Du Bois-Reymond non risultò di grande peso filosofico, più interessante fu la polemica che sorse con Virchow nel congresso dei
naturalisti tedeschi tenuto a Monaco nel 1877. In un suo intervento Haeckel
prendeva spunto da una nuova legislazione scolastica, che stava per essere approntata dal governo prussiano, per sostenere che la biologia evoluzionistica
doveva costituire la base del nuovo sistema educativo in quanto in essa potevano
essere attinti i principi di una cultura comprensiva di tutta l'esistenza umana.
Anche la vita psichica infatti non era che il risultato dell'attività del sistema nervoso o meglio delle sue cellule. In altri scritti egli aveva già affrontato il problema
dell'origine della psiche risolvendolo con un'identificazione, del tutto semplicistica, fra energia ed anima. In base a quest'assunto egli ammetteva un'anima
elementare degli atomi, una delle cellule ed infine un'altra più complessa che
risulta nel cervello dall'interazione delle singole anime cellulari nervose.
Virchow, che intervenne nel congresso alcuni giorni più tardi, ebbe buon
gioco ad ironizzare sulla teoria haeckeliana delle anime cellulari ed espresse tutti
i suoi dubbi anche sull'idea che l'uomo possa derivare dalle scimmie. Occorre
- afferma Virchow- saper distinguere i risultati sicuri della scienza dai frutti
della speculazione, mostrando moderazione nel godere della libertà ora concessa alla scienza. Nelle scuole bisogna insegnare solo ciò che è accertato scientificamente e da tutti condiviso e quindi la teoria dell'evoluzione vi potrà essere
introdotta solo quando essa sarà definitivamente accertata, perdendo il suo carattere di ipotesi. E ciò potrà essere fatto anche se nella teoria evoluzionistica
appaiono pericolose tendenze al socialismo.
Quest'ultimo rilievo, in un periodo in cui vigevano in Germania le leggi
antisocialiste, suonava quasi come un'accusa di alto tradimento. Haeckel re2.68
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plicò quindi polemicamente con uno scritto Freie Wissenschaft und freie Religion
(Libera scienza e libera religione, 1878) che riscosse un grande successo presso il
pubblico di idee radicali. In esso egli rileva che la teoria darwiniana può essere
tutt'altro che favorevole al socialismo. La diversità nelle condizioni di esistenza,
la stessa lotta che porta al soppravvento del migliore, attraverso la selezione naturale, possono essere addirittura considerati aristocratici e non democratici.
Haeckel rileva poi giustamente come le trasposizioni di teorie biologiche al
piano sociale politico (predilette da Virchow) siano arbitrarie e pericolose.
Contro la netta distinzione fra insegnamento e ricerca, implicita nella posizione
di Virchow, rileva poi la difficoltà di ammettere una «scienza oggettiva», poiché
non vi è una netta distinzione fra fatto e teoria e non è possibile evitare atteggiamenti personali nell'attività. dell'insegnamento. All'ignorabimus di Du BoisReymond ed al restringamur che esprimerebbe la posizione di Virchow egli oppone concludendo un suo entusiasta Impavidi progrediamur!
La lotta di Haeckel in favore dell'evoluzione non poté certo impedire che
l'insegnamento di questa teoria venisse proibito nelle scuole tedesche, ma l'efficac;ia dei suoi scritti e del suo insegnamento suscitarono nella nuova generazione
di biologi un profondo interesse per la morfologia evoluzionistica. Tuttavia i
risultati delle ricerche che vennero moltiplicandosi in questo campo- come rileva Nordenskiold- «non furono affatto ciò che Haeckel aveva previsto. Invece di prove semplici e facilmente comprensibili della indiscussa validità del
darwinismo, la giovane generazione di scienziati trovò masse di fatti complicati
che contribuirono soltanto a confondere il principio biogenetico, la teoria della gastrea e le altre " leggi naturali ''. Ciò non .corrispondeva per nulla alle sue attese.
Fiducioso di sé per natura e guastato dai successi degli anni giovanili egli si trovò
smarrito in mezzo a questi nuovi sviluppi». ·J_/asse delle ricerche biologiche più
avanzate si stava spostando infatti verso la microscopia delle strutture e dei meccanismi cellulari e la «forza dell'eredità» assunta come una entità semplice da
Haeckel diveniva il campo di dibattiti sempre più intensi e di contrapposizioni
sempre più complesse.
Haeckel non seppe inserirsi agilmente nel nuovo corso della biologia e pur
avendo abbandonato gli schematismi più rigidi derivanti dalla morfologia idealistica rimase fondamentalmente interessato al programma di una visione sistematica del grande quadro delle forme viventi, a cui dedicò ancora i tre volumi della sua Systematische Phylogenie (Filogenia sistematica, 1894-96).
Se gli sviluppi scientifici degli ultimi anni del secolo rendevano problematico il primitivo edificio teorico della teoria dell'evoluzione, anche il clima
filosofico culturale andava maturando una reazione a quella concezione materialistica della realtà che con tanta sicurezza si era pensato essere un risultato indiscutibile del XIX secolo. Haeckel fu tra i pochi a battersi con energia contro questa
reazione ed il frutto più importante di questo impegno fu la sua famosa
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opera Die Weltriitsel (Gli enigmi dell'universo) che apparve nel 1899· In essa non
incontriamo alcuna importante novità nelle idee dell'autore. L'uomo, l'anima,
il mondo e dio sono i grandi enigmi riconducibili ad un unico enigma, quello
della sostanza unica che si manifesta nelle infinite forme dell'universo sensibile
e dietro cui è inutile cercare una metafisica cosa in sé. Contro ogni forma di
dualismo egli dice di attenersi al monismo di Spinoza secondo cui materia e
spirito sono i due attributi della sostanza. Continua però a identificare lo spirito
con l'energia dei corpi, per cui tale monismo finisce col non poter essere chiaramente distinto dal materialismo. Oltre a queste e ad altre oscurità filosofiche
di fondo si incontrano nell'opera errori ed affermazioni estremamente sbrigative
e superficiali specialmente nei capitoli in cui tocca problemi di fisica o si dilunga
sulla storia ecclesiastica. Benché nell'introduzione riconosca i limiti e le insufficienze della trattazione il tono è quello abitualmente perentorio e dogmatico,
privo spesso di ogni cautela critica.
Gli enigmi dell'universo sono tuttavia dominati da un entusiasmo e da una
fiducia così profonda nel pensiero scientifico, capace di risolvere gli interrogativi
che hanno assillato l'uomo sin dal più lontano passato, di cancellare le tenebre
della superstizione e la credulità che lo hanno legato alle religioni positive, che
questa opera apparve come una sorta di catechismo o di bibbia laici per le
masse desiderose di emanciparsi dalle credenze tradizionali nell'immortalità
dell'anima, .nei miracoli, nella divinità che premia e punisce.
Il ~uccesso di questo libro fu enorme ed estremamente rilevante fu la sua
influenza sulla cultura popolare in molti paesi del mondo. Tradotto in circa
trenta lingue il numero· delle copie circolanti. ha probabilmente superato il milione. Non può quindi stupire che la reazione degli ambienti ecclesiastici fosse
estremamente aspra e superasse in violenza ed intensità quella di filosofi o scienziati. Specialmente dopo la fondazione della « Lega monista » (Monistenbund),
che si prefiggeva la diffusione delle idee di Haeckel, non si esitò ad usare contro
di lui anche l'arma della diffamazione. L'organizzazione evangelica« Keplerbund »
e quella cattolica « Thomasbund » ripresero infatti l'accusa di falsario già sollevata
alcuni decenni prima a proposito dei famosi cliché.
Lo scontro infierì a lungo fra gli opposti gruppi e si spense solo negli anni
tragici della prima guerra mondiale. La filosofia accademica, ormai dominata dalla
cosiddetta« reazione idealistica alla scienza», vi ebbe una parte solo marginale.
La lotta attorno al materialismo di Haeckel, come anni prima attorno a quella
di Moleschott e Biichner, più che filosofica era infatti una lotta politica per l'egemonia culturale delle masse, in cui i settori più radicali della borghesia e il movimento operaio continuavano a considerare il pensiero scientifico uno strumento
importante per la propria emancipazione.
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III · GLI
E
STUDI
LA TEORIA
MICROSCOPICI
SULLA
DELL'EVOLUZIONE
DI
CELLULA
NAEGELI
La teoria dell'evoluzione, nella formulazione originale che le aveva dato
Darwin, riconduceva l'origine della specie a due processi fondamentali, quello
della variazione e quello della selezione naturale, che venivano caratterizzati
soprattutto in base all'analisi della classificazione, dell'allevamento e della distribuzione geografica. Nella formulazione di Haeckel il processo evolutivo veniva
invece ricondotto a due fattori che, nel linguaggio tradizionale della morfologia
del periodo romantico, venivano espressi come tendenze formative, l'una esterna
risolventesi nell'adattamento e nell'azione dell'ambiente e responsabile delle
trasformazioni dell'organismo, l'alt1;a interna o eredità che fissa queste trasformazioni nella discendenza.
Interessati soprattutto al grande edificio morfologico degli alberi genealogici ed ai suoi rapporti con l'embriologia, Haeckel ed i suoi seguaci si erano scarsamente preoccupati di approfondire il significato di questi due fattori che apparvero invece estremamente decisivi e problematici man mano che, a partire
dagli anni settanta, si svilupparono nuove ricerche soprattutto di microscopia cellulare. Tali ricerche avevano cominciato ad assumere sempre più importanza da
quando Virchow aveva individuato chiaramente nella cellula l'elemento portatore
della vita e nello stesso tempo la struttura che assicura la continuità degli organismi nella riproduzione. Ogni organismo deriva infatti da una cellula ed ogni
cellula deriva per divisione da un'altra cellula. Un importante risultato teorico
era stato inoltre raggiunto verso il I86o allorché Max Schultze (I825-74) aveva
definito la cellula « una piccola massa di protoplasma con un nucleo ».
Se per protoplasma si poteva genericamente intendere la materia dell'organismo dotata di vita, più difficile era comprendere il significato e la costituzione
del nucleo. Nei decenni successivi si compirono tuttavia dei passi molto importanti in questa direzione. Nella sua opera Zellbildung und Zellteilung (Forntazione
e divisione della cellula, I875) il botanico Eduard Strasburger (1844-1912) stabilì
che nelle piante i nuovi nuclei derivano sempre dalla divisione di altri nuclei e descrisse il processo di divisione indiretta del nucleo (mitosi) nelle sue fasi caratteristiche. Nello stesso anno I 875 lo zoologo Otto Biitschli (I 848-1920) precisò lo
stesso processo di divisione del nucleo in cellule animali. Sullo stesso argomento
un contributo molto importante venne fornito da Walter Fleming (1843-191 5)
con la sua opera Zellsubstanz, Kern und Zellteilung (Sostanza cellulare, nucleo e divisione della cellula, 1882). In base a ricerche condotte su larve di anfibi egli distinse
nel nucleo una parte fortemente colorabile (cromatina) ed una parte scarsamente colorabile (acromatina), rilevando come durante la divisione cellulare i
granuli di cromatina si dispongono in filamenti, che successivamente (1888)
vennero chiamati cromosomi. Stabilì inoltre che durante tale divisione cellu-
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Rappresentazioni della divisione del nucleo in cellula vegetale
(da Naegeli, 1844) e in cellula animale (da Fleming, x88z).
lare si ha una scissione longitudinale di questi cromosomi. Il risultato forse
teoricamente più significativo di queste indagini microscopiche venne ottenuto
nel I 87 5 da un giovane allievo di Haeckel, Oskar Hertwig (I 849- I 9 22) chiarendo
il secolare problema della fecondazione degli organismi. Con uno studio sullo
sviluppo delle uova di riccio di mare, che presentano una particolare trasparenza,
Hertwig poté infatti stabilire che la fecondazione si basa sulla fusione dei nuclei
cellulari dell'uovo e dello spermatozoo.
Negli anni successivi, mentre si venivano determinando sempre meglio
i processi della divisione cellulare e della fecondazione, si ampliarono considerevolmente anche le indagini sulla struttura del protoplasma cellulare che presentavano particolari difficoltà per i problemi fisici ed ottici della tecnica microscopica. Sorsero così teorie divergenti che riconducevano la costituzione del
plasma cellulare o citoplasma a vacuoli, a filamenti oppure a granuli.
In contrapposizione a queste diverse teorie, che si basavano anche sulla
diversità nella preparazione del materiale da sottoporre all'osservazione microscopica, alcuni autori sostennero che la composizione del plasma cellulare dovesse invece essere ricercata in particelle o strutture non visibili al microscopio.
Fra le molecole rilevate dall'usuale indagine chimica dei corpi viventi e le formazioni cellulari otticamente visibili al microscopio vi dovevano cioè essere
nella cellula delle unità o delle strutture intermedie le quali dovevano costituire gli
elementi veramente essenziali per comprendere le proprietà della materia vivente.
Si giunse a questa considerazione soprattutto in base all'analogia fra la
cellula e l'organismo macroscopico dell'animale o della pianta. Se in quest'ultimo
cioè le funzioni complessive risiedono in parti od organi differenziati e visibili
allora anche nella cellula, che è in un certo senso un organismo elementare, le
funzioni o proprietà devono essere ricondotte a parti o a elementi in qualche
modo differenziati anche se invisibili.
Fra le proprietà della materia vivente che questi elementi o ultrastrutture
invisibili erano chiamati a spiegare vi erano innanzi tutto quelle dell'eredità e
della variazione, su cui si accentrava evidentemente l'interesse dei biologi impegnati nello studio dell'evoluzione.
Spencer fu tra i primi nel I864 a postulare l'esistenza di questi elementi
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invisibili ammettendo che i viventi sono costituiti da « unità fisiologiche »,
delle sorte di sostanze cristalloidi, fondamentalmente identiche in ogni organismo, salvo per alcune differenze nei vari tessuti. In queste unità, che ricordano
le molecole organiche di Buffon, «vi è l'attitudine intrinseca ad aggregarsi nella
forma della specie, così come negli atomi di un sale vi è l'intrinseca attitudine
a cristallizzare in un modo particolare». Queste unità che si trovano in equilibrio fra loro possono venir modificate dalle influenze ambientali in ogni parte
dell'organismo e quindi anche negli organi riproduttivi. Il che renderebbe conto
della cosiddetta eredità dei caratteri acquisiti, cioè di quella capacità di trasmettere
ai discendenti quelle trasformazioni che si sono prodotte nei vari organi di un
singolo individuo come reazione alle sue condizioni di vita.
Nel 1868 anche Darwin, come si è ricordato in un precedente capitolo,
per spiegare questo tipo di eredità avanzò l'ipotesi che nell'organismo vi fossero
delle particelle invisibili dette gemmule. A differenza delle « unità » di Spencer
queste gemmule non sono dei veri e propri costituenti elementari del vivente,
ma una sorta di agenti informatori che circolando nell'organismo imprimono
ad ogni cellula i caratteri che le sono propri e nello stesso tempo trasmettono
alle cellule sessuali, perché vi vengano fissati, i nuovi caratteri che le altre cellule
del corpo hanno acquisito nel corso della loro vita. Queste ipotesi di Spencer
e Darwin, che partivano dalla considerazione dell'organismo in toto, persero
importanza dopo lo sviluppo delle ricerche microscopiche condotte sulle cellule
durante gli anni settanta ed ottanta, ricerche che tendevano a ricondurre queste
ipotetiche unità elementari al problema del plasma cellulare. In questa direzione
spingevano ad esempio le riflessioni di uno dei più valenti studiosi di citologia, il
belga Eduard van Beneden (I845-191o), il quale aveva sostenuto nel 1874 l'esistenza di una materia vivente più primitiva del protoplasma cellulare, una materia
cioè che non presenta alcuna organizzazione otticamente visibile, ma soltanto una
determinata composizione chimica. Haeckel accettò l'idea dell'esistenza di tale
materia denominata plasson considerandola il punto di partenza del processo
evolutivo. Egli ammise inoltre che tale plasson fosse costituito da particolari molecole, dette plastiduli, che costituirebbero i veri portatori dell'eredità. Questa
funzione dei plastiduli non è però, secondo Haeckel, da ricondurre ad una particolare configurazione geometrica, bensì ad una speciale forma di movimento di
tipo ondulatorio. Il processo ereditario non sarebbe perciò costituito soltanto dalla
trasmissione di materia, cioè della sostanza chimica di questi plastiduli, ma anche
dalla loro specifica forma di movimento.
Questo modello della trasmissione ereditaria che può considerarsi di tipo
energetico-dinamico non trovò molti sostenitori anche per l'interpretazione ilozoistica che ne dava Haeckel, associando ai plastiduli una dimensione psichica o
più precisamente una memoria. Più successo ebbe invece un altro tipo di modello
delle unità biologiche elementari che può definirsi di tipo corpuscolare-geometrico.
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La biologia alla fine dell'Ottocento
Fra i primi che ne fecero ampio uso, costruendo su di esso un'ampia teoria biologico-evoluzionistica, vi fu l'illustre botanico svizzero Karl Wilhelm Naegeli
(18I7-91). Nato nel cantone di Zurigo egli poté seguire in questa città l'insegnamento dello zoologo e filosofo della natura Lorenz Oken. Dopo aver
studiato botanica a Ginevra con Alphonse de Candolle (18o6-9;) compì i
suoi studi in Germania ascoltando a Berlino le lezioni di Hegel e soffermandosi
anche a Jena ove insegnava Schleiden. Svolse la sua attività nelle università di
Friburgo e Zurigo, compiendo la sua carriera in quella di Monaco.
La concezione biologica di Naegeli è rigorosamente meccanicistica ed il suo
meccanicismo oltre ad assumere una chiara impronta materialistica si presenta
con una veste di tipo logico-geometrico che egli contrappone, come espressione
dello spirito razionalistico tedesco, all'empirismo di Darwin. Il suo metodo di
indagine si basa infatti, oltre che su sottili tecniche microscopiche, sull'uso molto
esteso di modelli fisico-geometrici estremamente elaborati e complessi.
Naegeli aveva iniziato la sua attività scientifica nel campo dell'anatomia
e della fisiologia vegetale contribuendo in modo notevole anche agli studi di
microscopia cellulare. Fu nello studio dei granuli di amido presenti nelle cellule
vegetali che egli iniziò l'elaborazione dei suoi modelli ultrastrutturali miranti a
spiegare l'igroscopia e la birifrangenza di tali particelle. Giunse così a sostenere
che costituenti fondamentali della materia vivente sono le micelle cioè delle sorta
di cristalli organici che tendono ad aggregarsi in lunghi filamenti.
Nel I 884 egli pubblicò la sua opera più famosa cioè la Mechanische prysiologische Theorie der Abstammungslehre (Teoria meccanico-ftsiologica della dottrina della
discendenza) in cui cerca di spiegare la sua concezione generale dell'evoluzione
biologica in base ad una compiuta elaborazione delle sue idee sulla ultrastruttura
della materia vivente. Egli parte dalla supposizione che le micelle, che possono
dapprima considerarsi sciolte in un mezzo fluido, per le loro forze molecolari
tendano ad orientarsi parallelamente in lunghi filamenti. Le micelle che non
hanno subito questa disposizione rimangono libere allo stato fluido. L'insieme
delle micelle orientate prende il nome di idioplasma, quello delle micelle non
orientate prende il nome di plasma nutritivo o stereoplasma.
L'idioplasma è per Naegeli la materia portatrice dei caratteri ereditari e
costituisce la sorgente di tutte le specifiche funzioni vitali. Naegeli suppone che
questo idioplasma si estenda come una rete in tutto l'organismo in modo che le
sue maglie attraversino le pareti cellulari determinando le caratteristiche morfologiche e funzionali dei vari tessuti. La diversità di queste caratteristiche viene
spiegata in base al particolare raggruppamento delle micelle costituenti la rete.
Vi sono dei primi raggruppamenti di micelle che determinano i caratteri elementari. Questi raggruppamenti combinandosi a loro volta fra di loro come le
lettere di un alfabeto producono i caratteri più complessi. Ma in che modo i vari
gruppi di micelle si dispongono lungo la rete dell'idioplasma? La risposta a
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questa domanda viene data da Naegeli in modo da spiegare molte proprietà
fondamentali dell'organismo. Ad esempio la proprietà di molti viventi di rigenerare da una loro parte un individuo completo. A questo scopo occorre ammettere che ogni frammento del cordone che si intreccia nella rete contenga tutti
gli aggruppamenti di micelle che determinano i caratteri dell'organismo intero.
Questa possibilità viene realizzata con un ingegnoso modello. Egli ammette
cioè che il filamento più fine del cordone sia costituito da micelle identiche poste
in successione lineare. Per determinare un carattere elementare questi filamenti
più fini si aggruppano in fasci, per determinare un carattere più complesso questi
fasci si riuniscono a loro volta in fasci più grossi. Il cordone, costitutivo della
rete e che risulta dalla riunione di questi fasci più grossi, possiede in tal modo una
struttura identica in ogni sua sezione trasversale e quindi in ogni suo frammento.
Questo modello meccanico geometrico dell'idioplasma possiede anche altre proprietà, su cui non ci soffermiamo, tali da spiegare come la rete possa agire in modo
diverso nei vari punti dell'organismo e nel contempo riproduca un identico processo quando una porzione di essa si trova ad esempio contenuta nell'uovo fecondato. Ma soprattutto l'idioplasma possiede una tendenza interna ad aumentare
la sua complessità che sola può spiegarci l'origine delle variazioni evolutive.
Questa teoria di Naegeli, se poteva colpire per la raffinatezza della sua elaborazione, presentava da un lato un'eccessiva astrattezza deduttiva nella ricostruzione meccanicistica degli organismi e dall'altro non poteva facilmente adeguarsi
a tutti i dati empirico-osservativi che la ricerca veniva accumulando.
La teoria doveva tuttavia costituire uno dei tentativi più importanti per
soddisfare l'esigenza di una spiegazione causale del processo evolutivo, che secondo Naegeli non poteva essere interpretato mediante la teoria della selezione
naturale di Darwin. « Per quanto riguarda il significato generale della teoria
della selezione,» scriveva Naegeli nella sua opera del 1884, «l'azione indeterminata di cause indeterminate e la decisione che attraverso tale selezione viene lasciata troppo al caso, soddisfano poco la nostra coscienza scientifica. Inoltre questa
teoria che, conformemente al suo principio, per giustificare un fenomeno si pone
soltanto il problema dell'utilità con esso conseguita, si mette in contrasto con
la vera ed esatta ricerca scientifica che tende innanzitutto a riconoscere le cause
efficienti. »
Fra le altre ed importanti obiezioni che Naegeli rivolge al principio della
selezione questa è indubbiamente quella che esprime meglio il suo tipico meccanicismo di carattere razionalistico-deduttivo che gli derivava almeno in parte,
attraverso Oken e Schleiden, dal filone matematico-pitagorico della Naturphilosophie e che indubbiamente non lo poteva disporre ad una giusta comprensione
del metodo empiristico e probabilistico di Darwin.
In uno scritto del 1865, aderendo alla teoria dell'evoluzione, egli si era già
posto il problema della causa delle variazioni sostenendo che queste non cleri275
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vano tanto da fattori ambientali quanto dalle leggi interne della materia vivente,
le stesse leggi che producono di necessità lo sviluppo dell'embrione ed in ultima
istanza la generazione spontanea della vita dalla materia inorganica. Egli pensa
cioè che negli organismi agisca un «principio di perfezionamento», il quale opera
in modo che « le variazioni individuali non siano indeterminate e sempre uguali
in ogni direzione, ma tendano preferibilmente e con un determinato orientamento verso l'alto, verso un'organizzazione sempre più complessa». Quale
prova che le variazioni sono il prodotto di fattori interni e non esterni all'organismo, egli adduce le note osservazioni da cui risulta come le condizioni ambientali, costituenti i fattori esterni della lotta per l'esistenza, non alterano il
tipo di una pianta posta in un nuovo ambiente. I nuovi caratteri adattativi che
questa presenta vengono infatti a scomparire quando la pianta è ricondotta
nell'ambiente di origine.
Nel principio di perfezionamento di Naegeli, che esprime una tendenza
automatica della materia vivente all'aumento della sua complessità di organizzazione, non pochi contemporanei videro un atteggiamento mistico-metafisico.
Nella sua opera del 1884 egli cerca di difendersi da questa accusa. Come il sistema solare si muove all'infinito nell'universo per la sua forza interna, così
anche la vita, una volta formatasi dalla materia inorganica possiede una sua forza
d'inerzia, « un movimento di sviluppo che una volta avviato non può arrestarsi
e deve continuare nella sua direzione». «Perfezionamento secondo me non è
altro che il progresso verso una struttura più complessa ed una maggiore divisione del lavoro e se in generale si è propensi ad attribuire alla parola più significato di quanto vi sia nel concetto che le corrisponde, è forse meglio sostituirla
con il termine più innocente di progressione. »
L'impostazione materialistica che Naegeli cerca di difendere dalle accuse
di misticismo, si riflette anche nella sua ferma accettazione e teorizzazione della
generazione spontanea che non si sarebbe prodotta soltanto in epoche lontane
ma si svolgerebbe tuttora. Egli pensa che la vita sia sorta in periodi successivi
realizzando così delle linee evolutive indipendenti (concezione polifiletica). Gli
organismi più complessi deriverebbero dai viventi sorti più anticamente, quelli
meno complessi discenderebbero invece dai viventi generatisi in epoca più recente.
Naegeli non misconosce tuttavia l'incidenza dei fattori ambientali nel processo evolutivo. Anche se questi provocano spesso delle variazioni soltanto transitorie, in alcuni casi agendo attraverso molte generazioni possono produrre delle
reazioni stabili di adattamento che si inserivano nella sostanza ereditaria dell'idioplasma. D'altro lato Naegeli riconosce alla selezione operante attraverso vari
fattori dell'ambiente la funzione negativa di eliminazione degli organismi meno
adatti, allo stesso modo in cui il giardiniere può potare i rami di una pianta senza
per questo modificarne le caratteristiche. È quindi nella variazione che va ricercato il nodo più profondo del processo evolutivo.
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L'opera di Naegeli ebbe nel complesso un'influenza notevole nel pensiero
biologico degli ultimi decenni del secolo. Egli fu fra i sostenitori della teoria
dell'evoluzione uno dei primi a sviluppare efficacemente le varie obiezioni alla
selezione naturale rilevando inoltre la non ereditarietà di alcuni caratteri adattativi delle piante. Decisiva fu anche la sua teorizzazione di un'idioplasma o sostanza ereditaria separata dal restante plasma cellulare.
La nettezza delle sue distinzioni concettuali e l'elaborazione estremamente
analitica dei suoi modelli meccanicistici suscitarono contrasti ed opposizioni
che offuscarono i pregi della sua impostazione teorico-raziona:listica rilevandone
i pericoli di chiusura e di astrattezza. Pericoli non certo illusori se si ricorda come
un oscuro naturalista boemo, Gregor Mendel (I8zz-84), nella sua corrispondenza con l'illustre botanico di Monaco non riuscì a convincerlo della importanza delle sue ricerche sull'eredità che indicavano una delle vie più. feconde
della biologia contemporanea.
E
IV · LA TEORIA
DI WEISSMANN
L'ONNIPOTENZA
DELLA
SELEZIONE
Il misconoscimento da parte di Naegeli delle geniali ricerche di Mendel non
può certo considerarsi un incomprensibile errore. Mentre l'abate boemo si era
dedicato con estrema precisione ad individuare l'esistenza di certe regolarità
statistiche nella trasmissione dei caratteri ereditari di alcune piante, l'interesse
dei biologi contemporanei, specialmente in Germania, era volto in base ai risultati della microscopia cellulare alla elaborazione di teorie estremamente generali
sulla evoluzione e la eredità in essa implicata.
Lungo questa via, che era stata aperta soprattutto da Naegeli, doveva svolgersi anche l'opera di August Weissmann (I834-I9I4), che può forse considerarsi il maggior teorico dell'evoluzione dopo Darwin. Egli aveva svolto
per breve tempo la professione di medico, allorché per una sua ricerca sulla
evoluzione degli insetti gli fu offerta la possibilità di insegnare zoologia a Friburgo, dove rimase sino al termine della sua vita. Dopo un periodo di studi
dedicato, sulla base di importanti ricerche microscopiche, all'evoluzione degli
animali inferiori, fu colpito a trent'anni da una malattia agli occhi e si volse
quindi ad un'attività prevalentemente teorica.
Weissmann schierandosi sin dall'inizio fra i sostenitori del darwinismo aveva
espresso dubbi ed infine rifiutato l'idea di Naegeli di un principio di perfezionamento, di una «forza filetica» interna alla materia vivente, trovandovi un'eccessiva somiglianza con la tradizionale forza vitale. Più che una tendenza progressiva alla differenziazione gli apparve importante nella materia vivente l'aspetto
di continuità e di stabilità chiaramente dimostrate nella riproduzione per divisione degli animali cellulari. In tal caso, ad esempio nella divisione di un'ameba,
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non si ha morte dell'organismo ma una sua risoluzione, una sua continuità nelle
cellule figlie. In questa circostanza la vita risulta chiaramente come un processo
che non implica necessariamente la morte.
Questa immortalità del protoplasma non si ha solamente negli organismi
unicellulari. Anche in quelli pluricellulari esistono alcune cellule, quelle germinali o riproduttive, che godono di questa virtuale immortalità. A questa importante conclusione Weissmann era giunto sulla base di precise osservazioni le
quali indicavano che nelle prime fasi dello sviluppo embrionale le cellule germinali derivano direttamente dall'uovo di cui conservano intatte le proprietà.
Egli trasforma in questo modo la distinzione fondamentale già posta da Naegeli
fra idioplasma e plasma nutritivo in una distinzione fra plasma germinale e plasma
somatico o corporeo. Nell'uovo o più in generale nelle cellule riproduttive sono
contenuti ambedue questi tipi di plasma che si separano allorché nell'embrione
le cellule germinali si dividono dalle altre cellule destinate a costituire le restanti
parti dell'organismo. Sono queste ultime cellule dette somatiche quelle destinate a
morire con l'organismo che esse costituiscono, mentre le prime, quelle riproduttive,
potranno continuare in una serie infinita di suddivisioni producendo nuovi organismi. Il corpo di un singolo organismo pluricellulare può così considerarsi come
l'involucro mortale di cellule riproduttive virtualmente immortali o, con un'immagine più suggestiva, esso può essere paragonato ad una foglia con cui l'albero
della vita rinverdisce e conserva la sua esistenza, ma d'autunno ingiallisce e
cade morta a terra; il protoplasma delle cellule riproduttive è invece il fusto che
sopravvive ad ogni generazione di foglie garantendo la loro unità di forma o
somiglianza.
Questa separazione fra soma e germe ha un carattere profondo e irreversibile, cioè le cellule somatiche non possono più ritornare ad uno stato originario
indifferenziato producendo cellule germinali. Da ciò Weissmann trasse una conseguenza che ebbe una grande importanza teorica nella biologia dei successivi
decenni, incentrando su sé quasi tutte le discussioni circa l'evoluzione e l'ereditarietà. Egli concluse cioè che tutti i nuovi caratteri acquisiti dalle cellule somatiche
per effetto delle particolari condizioni in cui viene a vivere un organismo non
si trasmettono ai discendenti. A questi vengono trasmessi solo quei caratteri fissati
nel plasma germinale delle cellule riproduttive, le quali rimangono per così dire
impermeabili agli effetti di trasformazione delle restanti cellule somatiche.
Questa tesi fondamentale con cui si negava per la prima volta con precise
argomentazioni l'ereditarietà dei caratteri acquisiti venne enunciata da Weissmann
in un famoso discorso Ueber das Problem der Vererbung (Sul problema della ereditarietà)
tenuto nel 1883. Egli cercò anche di provare sperimentalmente la sua argomentazione con varie ricerche. La più famosa fu l'allevamento di una grande quantità di
topi ai quali veniva regolarmente tagliata la coda ad ogni generazione senza
che mai nascesse un individuo con coda ridotta.
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Modello della struttura del cromosoma secondo Weissmann (r887):
il cromosoma è suddiviso in segmenti visibili detti idi;
ciascuno di questi contiene dei determinanti (disegnati come cerchi) che raccolgono le particelle ereditarie elementari, i biofori.
A
B
c
D
Schema con cui Weissmann illustra la progressiva trasformazione del plasma germinale attraverso il
processo di mescolamento (anfimissi) del plasma germinale dei genitori in quattro successive generazioni (A-D). I singoli cerchi rappresentano il plasma germinale (o idi) di provenienza paterna (p]) e materna
(m]): dall'opera Vortriige iiber Deszendenztheorie (Jena 1904) di August Weissmann.
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La biologia alla fine dell'Ottocento
L'affermazione che i caratteri ereditari sono stabilmente fissati nel plasma
delle cellule riproduttive poneva per Weissmann il compito, già fatto proprio da
Naegeli, di elaborare una complessa teoria sulla microstruttura di questo plasma, tale da spiegare il comportamento osservabile nello sviluppo embrionale
e quello ipotetico dell'evoluzione.
Il presupposto preformista di Weissmann analogo a quello di Naegeli, è
che alla molteplicità dei caratteri che costituiscono l'organismo adulto deve corrispondere nel plasma germinale una molteplicità di particelle materiali che producono tali caratteri. Rispetto al preformismo settecentesco, che tendeva a porre
nell'uovo un piccolo organismo in miniatura, l'aspetto nuovo di questo preformismo ci sembra derivare dall'analogia con la molecola chimica d'una sostanza, le cui proprietà vengono ricondotte all'azione di fattori più semplici quali gli
atomi.
Weissmann ritiene infatti che i caratteri dei viventi debbano essere ricondotti a unità biologiche elementari, dette biofori. Queste sono grosse molecole
invisibili dotate di specifiche proprietà vitali quali la nutrizione, l'accrescimento
e la riproduzione. I biofori che costituiscono come le micelle di Naegeli l'idioplasma o plasma germinale, non sono contenuti, come aveva ritenuto quest'ultimo autore, in tutto il corpo della cellula ma soltanto nel nucleo. A questa conclusione Weissmann era pervenuto utilizzando i risultati più recenti delle indagini microscopiche sulla cellula. Nel 1883 si era infatti stabilita l'individualità
dei cromosomi con la scoperta che ogni cromosoma deriva da un cromosoma
preesistente realizzando così una continuità attraverso ogni divisione cellulare.
Nel 1887 inoltre Theodor Boveri (186.z-19I 5) aveva stabilito che in tutte le cellule
dell'organismo i singoli cromosomi derivano direttamente da quelli presenti nell'uovo fecondato e che la metà di essi proviene dai cromosomi dell'uovo, l'altra
metà da quelli dello spermatozoo.
Weissmann sostenne poi che i biofori presenti nei cromosomi non agiscono
individualmente nella formazione del nuovo organismo ma cooperando fra loro
in raggruppamenti da lui chiamati determinanti. Esisterebbero tanti determinanti quanti sono gli ambiti osservabili dell'organismo che possono variare indipendentemente l'uno dall'altro. I determinanti si raccoglierebbero infine a costituire dei granuli visibili nei cromosomi e chiamati idi.
Se si deve ammettere l'esistenza dei determinanti, in base al principio che
deve esservi qualcosa di materiale nel plasma che produce le strutture differenziate dell'organismo, più difficile è stabilire il modo in cui essi agiscono. Escluso
che siano delle miniature che tendono semplicemente ad accrescersi è però necessario ammettere che questi determinanti non siano mescolati disordinatamente ma
si dispongano in un ordine preciso. Sull'ordine ed il funzionamento dei determinanti Weissmann si cimentò con grande impegno elaborando e correggendo
dei modelli dettagliati e complessi che a non pochi contemporanei apparvero
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La biologia alla fine dell'Ottocento
del tutto speculativi e che comunque erano destinati almeno in parte a cadere di
fronte al successivo sviluppo del pensiero biologico.
Ci limiteremo a ricordare di queste ipotesi di Weissmann solo alcuni aspetti
essenziali. Egli ammette innanzitutto che nello sviluppo embrionale, realizzantesi mediante la divisione della cellula uovo in nuove cellule, il plasma germinale di questa cellula uovo viene distribuito in modo ineguale, così che ciascuna
delle cellule figlie abbia solo quella porzione di determinanti destinata a specificare gli organi o i tessuti che da essa derivano. Unica eccezione a questa ipotesi
della ineguale divisione dell'idioplasma è rappresentata dalle cellule riproduttive le
quali contengono tutti i determinanti che l'uovo riceve dai genitori e attraverso
questi, dagli ascendenti della specie.
Nello spiegare poi il processo evolutivo, avendo negato sia l'esistenza di
una «forza filetica» sia la trasmissibilità dei caratteri acquisiti, Weissmann deve
ammettere coerentemente che esso si produce unicamente per selezione naturale di variazioni che hanno la loro origine esclusivamente in modificazioni del
plasma germinale cioè delle cellule riproduttive. Ipotizzare quali cause producano queste modificazioni rappresentò uno dei compiti più complessi della
elaborazione teorica di Weissmann, che venne svolgendosi in numerosi saggi
dalla fine degli anni 'So all'inizio del nuovo secolo.
Una delle principali sorgenti di variazioni è per Weissmann il mescolamento
(anfimissi) dei plasmi germinali provenienti dai genitori del nuovo organismo.
Oltre questo assortimento casuale dei determinanti, fattore di variazioni può
essere l'azione diretta dell'ambiente (ad esempio calore) sulle cellule riproduttive.
Weissmann giunge anche ad ammettere che le stesse condizioni ambientali possano agire contemporaneamente e nello stesso senso sia sulle cellule riproduttive
sia su quelle somatiche, dando così l'impressione che un carattere acquisito dall'organismo venga trasmesso ai discendenti.
Nel complesso la teoria di Weissmann suscitò forti opposizioni. Se nelle
sue argomentazioni contro la ereditarietà dei caratteri acquisiti venne riconosciuta a poco a poco una certa fondatezza, più difficile era nell'ultimo decennio
del secolo che potesse venir accettata quella che egli, in uno scritto polemico
contro Spencer (1893), chiamò la « onnipotenza della selezione naturale».
In questo periodo la tendenza prevalente nel pensiero biologico era di sfiducia e di rifiuto della teoria di Darwin il cui punto più debole veniva individuato appunto nel principio della selezione. Ma proprio di questo principio
Weissmann si fece il difensore più convinto formulando, per far fronte alle
numerose obiezioni che ad esso venivano rivolte, mia nuova teoria pubblicata
in uno scritto del 1895 Ueber Germinai-Selection (Sulla selezione germinale). Egli
parte da un'ipotesi già proposta nel 1881 da Wilhelm. Roux (sul quale si ritornerà nel paragrafo vn), secondo cui esisterebbe una sorta di competizione o
di lotta per l'esistenza fra le cellule all'interno stesso dell'organismo, ammettendo
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però questa competizione soltanto fra i determinanti del plasma germinale. Alcuni di questi finirebbero così per prevalere sugli altri in modo da produrre lungo
direzioni precise e coerenti lo sviluppo o la regressìone dì certi organi, offrendo inoltre alla selezione producentesi attraverso l'ambiente la possibilità dì agìre su variazioni più marcate dal punto dì vista della loro utilità o dannosità.
Egli pensa in questo modo di rimuovere l'apparente contraddizione che risulta nell'ammettere che le adattazioni necessarie agli organismi siano prodotte da
variazioni accidentali e di spiegare inoltre come pur rimanendo accidentali queste
variazioni possano accrescersi in una determinata direzione. Cercava cioè di ritrovare al disotto di processi apparentemente accidentali un preciso determinismo, per cui il caso più facilmente potesse essere considerato creatore di
ordine.
L'assunto da cui muoveva la teoria della selezione germinale, cioè una lotta
per l'esistenza fra i determinanti, apparve a molti contemporanei come una
ipotesi ad hoc priva di plausibilità che veniva a sorreggere un edificio teorico
indubbiamente elaborato e preciso ma che aveva il fondamentale difetto di non
poter essere sottoposto a una verifica sperimentale. Questo difetto tuttavia poteva
essere riscontrato in molte teorie sostenute dagli oppositori di W eissmann, le
quali se godevano il vantaggio di rinunciare a complessi ed ipotetici modelli di
tipo meccanicistico, incorrevano però in altre difficoltà.
V · IL NEOLAMARCKISMO
La maggioranza degli oppositori della teoria evoluzionistica di Weissmann
può essere accomunata in quell'indirizzo teorico della biologia che venne designato come neolamarckismo. Pur sostenendo posizioni molto diverse i vari autori
che si possono ricondurre a questo indirizzo potevano in genere accordarsi sia
nella difesa dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti sia nel sostenere la natura non
accidentale delle variazioni evolutive e la loro eventuale dipendenza da fattori
ambientali.
Poiché nella sua opera Darwin accetta almeno parzialmente queste tesi, più
tardi attribuite specificatamente a Lamarck, i primi sostenitori della teoria dell'evoluzione non videro nelle idee di Darwin un'opposizione ma piuttosto un
perfezionamento rispetto a quelle di Lamarck. Alcuni, in particolare Haeckel,
guardarono anzi all'autore francese come a un precursore incompreso e sfortunato.
Fu soprattutto in Francia che si venne a poco a poco considerando Lamarck
quale vero padre del trasformismo, come in questo paese si chiamò la teoria
dell'evoluzione. Qui la resistenza alla teoria dell'evoluzione fu particolarmente
forte anche per la grande influenza che continuava ad avere l'insegnamento di
Cuvier che già all'inizio del secolo aveva confutato le idee evoluzionistiche di
Lamarck e di Geoffroy Saint-Hilaire. Furono perciò alcuni intellettuali non spe2.82.
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La biologia alla fine dell'Ottocento
cialisti di biologia, come Renan ed Edgar Quinet, i primi a schierarsi a favore
della nuova teoria. E quando illustri biologi come Alfred Giard (1846-1908)
ed Edmond Perrier (1844-192.1) si allinearono fra gli assertori del neolamarckismo questo indirizzo aveva già trovato specialmente in Germania e negli Stati
Uniti autorevoli sostenitori.
Per quanto riguarda uno dei principi di questa dottrina, cioè la non accidentalità delle variazioni evolutive, in Germania già Kolliker e Naegeli se ne
erano fatti sostenitori, cercando di individuare nella materia vivente una legge
che porti necessariamente all'aumento della sua complessità organizzativa. Un
altro autore tedesco che si associa a questo rifiuto dell'origine casuale delle variazioni fu Theodor Eimer (1843-98), specialmente con una sua opera del 1888
Von Entstehung der Arten auf Grund von vererbten erworbenen Eigenschaften nach den
Gesetzen organisches Wachsens (Origine delle specie in base all'eredità dei caratteri acquisiti secondo le leggi dell'accrescimento organico). Sua considerazione fondamentale è
che «il principio di utilità di Darwin non spiega l'origine prima delle nuove
proprietà. Esso spiega soltanto ed anche parzialmente l'accrescersi e l'affermarsi
di queste proprietà. Prima che alcunché sia utile, occorre innanzitutto che esista».
Eimer nega tuttavia la concezione di Naegeli secondo cui l'origine di queste
proprietà è dovuto al dispiegarsi di una legge interna di perfezionamento. I nuovi
caratteri del vivente sorgono invece per un'interazione fra fattori interni, dovuti
alla sua costituzione ereditaria, e fattori ambientali esterni quali la temperatura
ed il nutrimento. Sorgono cioè secondo un processo che è caratteristico di ogni
forma d'accrescimento e differenziazione dei singoli organismi.
I nuovi caratteri che compaiono nella filogenesi non vengono a prodursi
in ogni direzione ma secondo linee ben determinate, cioè secondo un processo
che egli chiama ortogenesi. Eimer ritiene che fra le varie condizioni che decidono
in quale direzione dovrà procedere un determinato filone evolutivo, l'uso e non
uso degli organi e la lotta per l'esistenza abbiano un peso secondario. Più importanti sono invece le azioni fisiche dirette che vengono ad esercitarsi in modo
continuativo su varie generazioni, come già aveva sostenuto all'inizio del secolo
Geoffroy Saint-Hilaire.
Eimer, che basa le sue considerazioni soprattutto sullo studio dei disegni
e dei colori nel mantello protettivo di diversi animali, rileva inoltre che il prodursi dei caratteri secondo specifiche direzioni evolutive spiega il fatto che essi
non siano necessariamente dei caratteri utili. Molti animali provvisti di colorazioni apparentemente mimetiche sono infatti altrettanto indifesi di altri che ne
sono sprovvisti, poiché possono essere predati come questi ultimi ogni qualvolta
essi abbandonino lo stato di immobilità.
Il ritenere quale causa fondamentale dell'ortogenesi l'azione diretta dell'ambiente fisico è una tesi, come egli giustamente osserva, che non fu sostenuta da
Lamarck, il quale affermò invece una sua azione indiretta attraverso l'uso e non
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uso degli organi. Al pari di Lamarck e della grande maggioranza dei biologi
a lui contemporanei Eimer riteneva però del tutto fondata la teoria della eredità
dei caratteri acquisiti.
A differenza di Eimer gli autori più vicini al pensiero di Lamarck insistevano
nel ritenere ereditari i caratteri acquisiti che costituivano un vantaggioso adattamento dell'individuo, ottenuto attraverso l'uso e non uso degli organi o la stimolazione funzionale di determinati organi. Tutto il problema di questa ereditarietà cominciò ad occupare le ricerche e le discussioni dei biologi a partire dagli
anni ottanta, da quando Weissmann si impegnò nell'analisi dei casi che venivano
addotti a suo favore, mostrando spesso la loro infondatezza o cercando di spiegarli in base alla teoria della selezione.
Si poneva innanzitutto alla base di questa controversia un problema metodologico che aveva ampie implicazioni teoriche, cioè quello di definire che
cosa propriamente fossero tali caratteri acquisiti. La definizione che alla fine prevalse per la sua maggiore fondatezza fu quella stessa di Weissmann, secondo
cui sono acquisiti quei caratteri che compaiono per la prima volta nell'organismo di un individuo ma riguardano ·le sue cellule somatiche senza interessare
né modificare le sue cellule germinali. Tale definizione implicava ovviamente
la distinzione teorica fra i due tipi di cellule che non tutti gli autori erano
inizialmente disposti ad accettare.
Una diversa definizione davano invece altri autori sostenendo che tutti i
caratteri che la materia vivente ha assunto nella sua storia, differenziandosi nelle
varie specie, sono necessariamente acquisiti, cioè non contenuti nella materia vivente primitiva. Il problema corrisponde perciò alla domanda: « Quali sono fra
i caratteri acquisiti quelli che si trasmettono ereditariamente? »
Malgrado le divergenze nella definizione ci si poteva tuttavia accordare
almeno sul .fatto che certe mutilazioni costituivano dei caratteri acquisiti. Di
queste alcune si erano ripetute per generazioni, come la circoncisione, la lacerazione dell'imene femminile e la deformazione del piede nelle donne cinesi,
senza divenire perciò ereditarie. Altri numerosi casi di mutilazioni che si pretendevano ereditarie furono addotti dai lamarckiani a favore della loro teoria,
ma a lungo andare nessun caso fu trovato veramente convincente.
Più difficile risultava il decidere se ereditari potessero considerarsi certi
caratteri acquisiti per uso o non uso di determinati organi. Secondo alcuni
acquisita in tal modo era ad esempio l'atrofia degli organi visivi degli animali
cavernicoli. Secondo altri essa era il risultato di una selezione naturale esercitantesi di necessità su ogni variazione di un organo di grande importanza.
Durante gli anni novanta la discussione sull'acquisizione di nuovi caratteri della specie, come risultato di modificazioni funzionali, fu particolarmente
intensa ed un tipico esempio è la famosa polemica fra Spencer e Weissmann.
La posizione di Spencer a questo proposito può considerarsi esemplare in quanto
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rileva con chiarezza le motivazioni ideologiche e filosofiche che in modo sia
pure implicito o inconsapevole spinsero alcuni autori a sostenere le tesi neolamarckiane.
Per Spencer gli organismi viventi si trasformano in base a quegli stessi
principi che determinano il processo evolutivo di tutta la realtà naturale. Uno
di tali principi è quello della instabilità dell'omogeneo e poiché la materia vivente è particolarmente instabile ne deriva che i fattori esterni agiscono su di
essa producendovi delle ridistribuzioni di equilibrio che sono alla base dell'adattamento all'ambiente. Tali adattamenti si producono in genere col variare
delle funzioni in rapporto al variare delle condizioni ambientali.
Nei suoi Principles of biology (Principi di biologia) del I 864 Spencer considera
come tipici esempi di modificazioni ereditarie prodotte da variazioni funzionali
le più ampie dimensioni nelle mani dei lavoratori manuali e le dimensioni più
ridotte delle stesse mani nelle classi più agiate. Spencer ritiene che proprio
negli animali superiori e nell'uomo l'eredità dei caratteri acquisiti diviene un
fattore sempre più importante del generale processo evolutivo e ciò comporta
delle inevitabili conseguenze sul piano etico e sociale. Nel I 886 egli scriveva
infatti: « Se una nazione subisce nella sua totalità delle modificazioni prodotte
dalla eredità degli effetti che la natura dei suoi membri subisce per via di quelle
forme dell'attività quotidiana che vengono determinate dalle istituzioni e dalle
condizioni di vita, queste istituzioni e queste condizioni formeranno i cittadini
assai più celermente ed in modo assai più completo di ciò che esse non potrebbero se l'unica causa dell'adattamento fosse la frequente sopravvivenza di quegli individui che si sono più favorevolmente modificati. »
Se in questo modo Spencer vuole affermare la maggiore responsabilità
etica e sociale che deriva dall'affermazione dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti è pur anche vero che rimane del tutto ambigua questa forma di responsabilità. Essa può infatti significare anche un maggior diritto al potere nella società di quelle stesse classi che l'hanno a lungo esercitato in passato, acquisendo
così una particolare attitudine ad esso.
La concezione evoluzionistica di Spencer si trovava dunque in netto contrasto con quella elaborata da Weissmann e contro questa l'autore inglese prese
nettamente posizione in un articolo pubblicato nel I893 sulla« Contemporary Review » ove afferma che se non tutti i caratteri acquisiti vengono trasmessi vi sono
alcuni casi in cui ciò sicuramente avviene. Egli adduce ad esempio la distribuzione della sensibilità tattile sulla superficie del corpo umano. I corpuscoli tattili
sono cioè più numerosi non dove potrebbero essere più utili ma dove il corpo
viene più frequentemente a contatto con gli oggetti esterni. Replicando a queste
considerazioni W eissmann rileva che se tale distribuzione non può considerarsi utile per l'uomo può esserlo stato per i suoi ascendenti venendo così a fissarsi attraverso la selezione naturale.
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La biologia alla fine dell'Ottocento
Ma a favore della sua concezione evolutiva Spencer adduce un argomento
più importante di carattere generale. Si osserva cioè in quasi tutte le trasformazioni evolutive degli organismi un fenomeno di coadattazione, cioè una variazione correlativa di parti distinte morfologicamente ma collegate da un legame
fisiologico. Così lo sviluppo poderoso delle corna in alcuni cervi può realizzarsi
soltanto se variano le strutture ossee oltre che del cranio anche del collo e della
parte anteriore del corpo. Poiché non si può sostenere che la variazione di una
singola parte abbia come conseguenza la variazione delle altre parti ad essa funzionalmente collegate bisogna ammettere, seguendo la teoria della selezione, che
tutte le parti fra loro correlate presentino al vaglio della selezione un'appropriata e contemporanea variazione. Il che appare inammissibile. Non rimane
perciò che la spiegazione lamarckiana della graduale acquisizione di una nuova
forma attraverso l'accentuarsi della funzione e la trasmissione ereditaria.
Weissmann riconosce l'importanza di questo argomento a favore della
tesi lamarckiana. Ritiene tuttavia che tali trasformazioni coadattative possano
essere spiegate mediante la selezione naturale, senza trasmissione ereditaria di
caratteri acquisiti. Una prova di ciò si ha nei cosiddetti animali neutri delle colonie di insetti, ad esempio nelle formiche operaie. Queste normalmente non si riproducono e tuttavia nella storia della terra si sono trasformate sensibilmente,
presentando fra l'altro una regressione degli organi sessuali e delle ali ed uno
sviluppo accentuato del cervello e delle mascelle. In questo caso non si può
parlare di variazioni acquisite per uso o non uso di organi e trasmesse ai discendenti, poiché si tratta di animali sterili. L'unica spiegazione, secondo Weissmann,
è che una selezione abbia agito a favore dei genitori e quindi delle colonie da
cui sono nate operaie con variazioni più utili alla colonia.
Il problema della formazione ed eredità delle coadattazioni, affrontato nel
1893 in questa polemica fra Spencer e Weissmann, così come quello già accennato della eredità delle mutilazioni non si risolsero apertamente a. favore di
nessuno dei due contrapposti schieramenti dei neodarwiniani (così si chiamarono i seguaci di Weissmann) e dei neolamarckiani. Per questi ultimi, che si
trovavano verso il volgere del secolo a costituire una maggioranza sempre
meno compatta, una nuova e più convincente prova a favore della ereditarietà
dei caratteri acquisiti venne offerta da una serie di interessanti ricerche sperimentali condotte specialmente sugli insetti.
Uno degli esperimenti più discussi fu quello condotto all'inizio del Novecento su delle farfalle in cui si dimostrava che sottoponendo le uova di questi
insetti a forti sbalzi di temperatura si ottenevano degli individui con nuovi caratteri nella forma e nel colore delle ali, trasmissibili ai discendenti. Questi
esperimenti vennero però interpretati da Weissmann ammettendo la possibilità che si fosse avuto contemporaneamente un effetto della temperatura sia
sulle cellule somatiche sia sulle cellule germinali (induzione parallela) e non
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un trasferimento alle cellule germinali di una trasformazione precedentemente
avvenuta a livello delle cellule somatiche, come sostenevano i neolamarckiani
(induzione somatica).
Questa continua divergenza di interpretazione mostrava come fenomeni
o esperimenti addotti a prova della eredità dei caratteri acquisiti potevano, sia
pure con difficoltà, venire interpretati dai weissmanniani in senso favorevole
alla loro teoria. Ciò mostrava ormai come il terreno dello scontro non poteva
più essere limitato alla discussione di singoli dati, ma doveva fatalmente coinvolgere i principi e le teorie più generali su cui si fondava la concezione dell'organismo vivente.
Non si può tuttavia affermare che i neolamarckiani potessero scendere in
campo forti di una teoria così coerente ed elaborata come quella formulata da
Weissmann. Lo stesso richiamo a Lamarck era spesso confuso e contraddittorio,
·effettuato senza alcuna precisa analisi storica tanto che nell'autore francese alcuni vedevano il precursore delle proprie posizioni materialistiche o meccanicistiche, altri invece un campione del vitalismo che si faceva ormai strada anche
fra gli studiosi della teoria dell'evoluzione. Nel complesso si può concordare
con Delage e Goldsmith quando affermano che « il lamarckismo non ha costituito una vera scuola. Le idee che lo caratterizzano non sono state sistematizzate da alcun teorico. Esso non è un sistema, ma piuttosto un punto di vista,
una tendenza che si fa luce a proposito di tutte le grandi questioni biologiche».
A proposito dell'evoluzione, come si è già accennato, questo indirizzo
sostiene oltre la ereditarietà dei caratteri acquisiti anche l'origine non accidentale delle variazioni cioè il loro sorgere in dipendenza di fattori ambientali, per
lo più secondo un processo funzionale di adattamento. A proposito della eredità
e dell'ontogenesi questo indirizzo tende inoltre a rivendicare l'importanza primaria dei fattori ambientali e delle cause esterne contro la concezione che l'uovo
contenga in modo predeterminato tutti i caratteri del futuro organismo; in
tal modo si pone contro il preformismo e a favore della epigenesi. L'indirizzo
neolamarckiano tende infine nella trattazione degli organismi a privilegiare
l'aspetto fisiologico delle funzioni chimiche ed umorali rispetto a quello morfologico delle strutture macroscopiche e microscopiche.
Fra i problemi che gli autori lamarckiani, specialmente a tendenza meccanicistica, cercarono di affrontare, già negli ultimi anni dell'Ottocento, vi era quello dell'ipotetico meccanismo che potesse spiegare la trasmissione dei caratteri
acquisiti, cioè il modo con cui una variazione avvenuta a livello delle cellule
somatiche potesse essere trasferita o inscritta nelle cellule germinali (induzione
somatica).
Alcuni autori, rifacendosi alla teoria delle gemmule di Darwin, supponevano
che particolari sostanze attive, prodotte dai vari tessuti soggetti a trasformazioni,
giungessero attraverso il sangue alle cellule germinali improntando queste dei
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nuovi caratteri. Altri autori invece ritenevano che l'induzione somatica si realizzasse mediante un'ipotetica stimolazione energetica trasmessa dalle cellule somatiche a quelle germinali attraverso il sistema nervoso od una supposta rete di collegamenti intercellulari.
Alcuni dei sostenitori di quest'ipotesi della stimolazione energetica si sono
orientati verso una concezione dell'organismo vivente in cui la propl'ietà fondamentale sarebbe la « memoria ». Questa concezione può farsi risalire ad uno
scritto del fisiologo tedesco Edwald Hering (I834-I9I8) Ueber das Gediichniss
als eine allgemeine Funktion der organisierten Materie (Sulla memoria come funzione generale della materia organizzata, I87o). Questi movendo dal presupposto del parallelismo psicofisico di Fechner sostiene che al processo psichico della memoria
deve corrispondere nella sostanza nervosa una parallela trasformazione delle
strutture molecolari, per cui tale sostanza è in grado di riprodurre gli stati di
eccitamento a cui è stata precedentemente sottoposta. Se si estende questa capacità riproduttiva o mnemonica alla materia vivente in generale si può comprendere come le stimolazioni a cui essa è stata sottoposta vengano fissate e
trasmesse ereditariamente. All'inizio del secolo il tedesco Richard Semon (I 8 59I9I9) e l'italiano Eugenio Rignano (I87o-I93o) ripresero e svilupparono questa
dottrina mnemonica della vita, sempre nel tentativo di spiegare la ereditarietà
dei caratteri acquisiti. Pur essendo esposta in termini energetico-funzionali e
quindi contrapposti ai modelli morfologico-strutturali di Weissmann, questa
dottrina mnemonica rimaneva sostanzialmente nell'ambito di un'impostazione
materialistica. Altri seguaci dell'indirizzo neolamarckiano dovevano invece nello
stesso periodo farsi sostenitori di una forma di psicovitalismo destinato presto a
confondersi con il vitalismo sorto, come si vedrà oltre, quale reazione alla teoria dell'evoluzione.
Ancor più che in Francia il neolamarckismo trovò già negli anni settanta
dei convinti sostenitori negli Stati Uniti specialmente fra i cultori di paleontologia. La figura più rappresentativa di questo gruppo e forse di tutto l'indirizzo
neolamarckiano è appunto un paleontologo illustre, Edward Drinker Cope (I 84097), dedicatosi soprattutto allo studio dei vertebrati. Anch'egli parte dalla
fondamentale obiezione mossa a Darwin, secondo cui le variazioni puramente
accidentali hanno una probabilità minima di produrre, attraverso la selezione,
le mirabili strutture adattative degli organismi. Il sorgere di una variazione favorevole in un solo individuo o in una coppia verrebbe infatti annullata in breve
tempo dall'incrocio con gli individui del gruppo che ne sono privi. Per assicurare la sopravvivenza di un nuovo carattere, cioè di un nuovo tipo di organismo, è perciò necessario che la variazione compaia contemporaneamente e
successivamente in molti individui. Le uniche cause che possono assicurare
questa comparsa sono i cambiamenti delle condizioni fisiche ambientali e le
reazioni che necessariamente ne seguono negli organismi.
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La biologia alla fine dell'Ottocento
In modo simile a Lamarck Cope distingue due tipi di influenze ambientali
sugli organismi. Un'influenza diretta di tipo fisico-chimico che si esercita specialmente sulle piante e' gli animali inferiori a livello molecolare ed un'influenza
indiretta che si produce attraverso il movimento o l'uso di determinati organi
in risposta alle sollecitazioni dell'ambiente. Un esempio di questa influenza del
movimento, che costituisce il fattore più importante di evoluzione negli animali,
è l'ossificazione della corda dorsale in alcuni vertebrati. Questa ossificazione
segue una linea a zig zag simile alle pieghe che si formano sulla manica di un
vestito per i continui movimenti del braccio.
Poiché Cope ritiene che i movimenti degli animali traggano origine da
uno sforzo cosciente, giunge alla conclusione che l'attività psichica costituisce
il fattore fondamentale della loro evoluzione. Tale attività non viene da lui considerata, come riteneva Lamarck, un prodotto della materia vivente bensì un
principio energetico che precede e condiziona la sua organizzazione. Questa
attività psichica originaria (archiestetismo) trapassa tuttavia dallo stato cosciente
a quello incosciente man mano che le manifestazioni vitali divengono automatiche.
Le teorie di Cope, esposte in numerosi scritti fra cui Primary factors of organic
evolution (Fattori primari dell'evoluzione organica, I 896), non ebbero molta risonanza
in Europa. Ancor meno noti e forse volutamente ignorati furono gli scritti
di un altro neolamarckista inglese, Samuel Butler (1835-I902), sostenitore di
una forma di psicovitalismo analoga a quella di Cape. Figura originale di letterato e di pensatore scientifico, nella sua opera Evolution o/d and new (Evoluzione vecchia e nuova, 1879) aveva attaccato direttamente Darwin contrapponendogli come più valide le concezioni evoluzionistiche di Lamarck e dello stesso
Erasmo Darwin. In vari scritti egli sostiene infatti che le variazioni sorgono
per i bisogni che gli organismi avvertono nelle loro diverse condizioni ambientali. I viventi sono esseri attivi ed intelligenti che progrediscono attraverso la
continua tendenza a soddisfare i propri bisogni in modo analogo a quello con
cui si perfezionano le invenzioni tecniche e si trasformano le società. Ciò che
è acquisito attraverso lo sforzo cosciente dei genitori è trasmesso ai discendenti
come un processo che diviene sempre più automatico e incosciente quanto più
viene ripetuto. Butler giunge così non solo a sostenere una completa teleologia
del mondo organico ma arriva anche ad ammettere una continuità psicologica
dei viventi che si fonde in una sorta di unità panteistica della natura.
VI · LE
ORIGINI
DEL
NUOVO
VITALISMO
Alcune formulazioni del neolamarckismo assumono come si è ora visto
una netta impronta vitalistica che caratterizza alla fine dell'Ottocento anche altri
sviluppi del pensiero biologico. Il risorgere del vitalismo durante questo periodo
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La biologia alla fine dell'Ottocento
rappresenta per certi aspetti una svolta inattesa e sorprendente nella storia del
pensiero scientifico. Le cause di questa svolta vanno ricercate non solo in alcuni
sviluppi specifici delle scienze biologiche ma anche nel generale cambiamento
del clima scientifico e filosofico che matura nel decennio fra il 188o ed il 1890.
Prima di considerare queste cause più da vicino è opportuno ricordare
alcuni aspetti del primo vitalismo ottocentesco tramontato negli anni cinquanta
e nel complesso ben differente da quello che doveva sorgere alla fine del secolo.
Tale vitalismo come era sorto nella seconda metà del Settecento e si era protratto
nei primi decenni dell'Ottocento presentava due aspetti caratteristici. Da un lato
esso poteva porsi come una teoria empirico-descrittiva e non considerava necessariamente i fenomeni vitali in un contrasto netto e inconciliabile con il restante
mondo naturale. Il principio vitale sino al momento dei decisivi progressi della
elettrologia, dell'elettromagnetismo e della termodinamica poteva infatti essere
considerato un fluido od una forza inseribili nel quadro fisico dei fenomeni naturali. D'altro lato, specialmente nell'ambito del naturalismo illuministico, il vitalismo poteva considerarsi espressione di una concezione materialistica della natura.
Il principio di conservazione dell'energia e l'imporsi della nuova chimica
organica segnarono attorno alla metà del secolo il tramonto del vecchio vitalismo. Il meccanicismo biologico che gli successe, guidando i grandi sviluppi
della teoria cellulare e della nuova fisiologia, poteva però essere interpretato
filosoficamente in modo contrastante. Sin dall'inizio con Schawnn e Lotze
esso venne assunto in una concezione creazionistica e spiritualistica con il ritorno ad una sorta di dualismo cartesiano. A questa interpretazione si opposero
specialmente Moleschott e Biichner sostenendo l'identificazione di meccanicismo e materialismo che trovò un'imponente conferma nella concezione evoluzionistica di Haeckel.
Il nuovo vitalismo che emerge invece verso la fine del secolo, specialmente
nella cultura tedesca, non solo si oppone a questa concezione materialistica
esprimendo spesso le esigenze di un nuovo spiritualismo irrazionalistico o metafisico, ma tende anche a considerare il mondo della vita come un ambito del
tutto autonomo della realtà, irriducibile alla conoscenza fisica della natura.
Per chiarire meglio il significato di questo vitalismo indicheremo dapprima
alcune condizioni di ordine scientifico che favorirono il suo sorgere, in particolare la crisi del darwinismo, la confutazione della teoria della generazione
spontanea, le difficoltà incontrate nell'ambito della fisiologia ed il ritorno al
metodo teleologico. Successivamente accenneremo al nuovo clima culturale
filosofico che al sorgere del nuovo vitalismo contribuì in modo preponderante.
Che la crisi del darwinismo abbia costituito uno dei fattori decisivi per la
nascita del nuovo vitalismo può essere suggerito già immediatamente dal fatto
che tale crisi fu più acuta e profonda in Germania che può considerarsi la patria
di tale vitalismo. La teoria di Darwin, che era apparsa agli autori tedeschi peccare
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di eccessivo empirismo e di un'inadeguata fondazione causale, doveva trovare
proprio in Germania la sua sistemazione più ampia ma anche più rigida. Haeckel
con enfasi dottrinaria ritrascrisse la teoria in termini di principi e leggi universali
e necessarie. Naegeli e Weissmann cercarono per essa una rigorosa fondazione
meccanica nelle ipotetiche strutture microscopiche della cellula. Negli anni ottanta la teoria dell'evoluzione appariva un sicuro e grandioso edificio concettuale della scienza moderna in grado di segnare una nuova visione del
mondo.
Ma ormai nel suo interno già si profilavano le divergenze e le contrapposizioni, alimentate dai nuovi risultati delle ricerche e da un'analisi più precisa dei
suoi presupposti. Le divergenze presto destinate a moltiplicarsi in una serie di
ipotesi inconciliabili e incontrollabili dovevano provocare sfiducia e delusione
tanto più vive quanto più si era abituati a considerare il sapere scientifico come
una conoscenza definitiva di fatti, priva di ogni problematicità teorica. Risultava in particolare una grave sconfitta il fatto che una teoria che era apparsa
come la sicura spiegazione della molteplicità e della natura dei viventi si fosse
ridotta ormai all'enunciazione di un ipotetico processo che richiedeva esso stesso
una spiegazione.
Nessuno pensava di negare l'evoluzione come fatto storico della natura,
ma molti dubitavano ormai della teoria della selezione di Darwin, che si era posta
non soltanto come spiegazione della molteplicità dei viventi ma anche come
spiegazione dell'adattamento di ciascun organismo alle sue condizioni di esistenza, in breve della sua finalità.
Le critiche che sin dalla comparsa dell'opera di Darwin erano state mosse
numerose all'efficacia della selezione esprimevano in genere lo sforzo di individuare più appropriati fattori di evoluzione. Ora tali critiche venivano riprese
e poste in una nuova luce come dimostrazione che la finalità degli organismi
rappresenta una condizione originaria ed irriducibile.
Questo nuovo atteggiamento emerge con particolare chiarezza in un articolo scritto nel 189o dal tedesco Gustav Wolff Beitrage zur Kritik der Darwin'schen Lehre (Contributi alla critica della dottrina di Darwin). L'autore osserva
che quanto più grande è stata la conquista ottenuta in campo scientifico dalla
spiegazione meccanicistica della finalità tanto più grave è la perdita che ci deriva dal fatto che tale spiegazione non risulta dimostrata. D'altronde il valore
del principio di selezione viene a cadere completamente nel caso che si dia una
sola disposizione finalistica che non risulti spiegabile in base ad esso. « Se cioè
la teoria della selezione non spiega tutto, essa non spiega nulla. »
Secondo Wolf infatti una formulazione rigorosa di questa teoria ci porta a
concludere che essa presuppone ciò che dovrebbe spiegare. Le variazioni su cui
deve agire la selezione sono infatti casuali ed in quanto tali devono essere del
tutto prive di ogni regolarità. Ma se così fosse gli incrementi minimali delle
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La biologia alla fine dell'Ottocento
macchie di pigmenti cutanei che portano alla formazione degli occhi, proprio
perché privi di regolarità, non dovrebbero mai comporsi simmetricamente in
modo da portare nell'animale alla formazione di due occhi. Analogamente lo
sviluppo di un occhio risulterebbe del tutto inutile se non si avesse contemporaneamente lo sviluppo del corrispondente centro nervoso. Questi ed altri infiniti esempi mostrano che le variazioni avvengono in modo strettamente correlato, .cioè secondo un grado di complicazione e di regolarità che non solo contraddice l'assunto della casualità delle variazioni, ma che costituisce uno degli
aspetti fondamentali della finalità, che la teoria dovrebbe spiegare.
In un successivo articolo del 1894 Wolf osserva come i difensori del darwinismo abbiano risposto alle sue critiche limitandosi ad ammettere che le variazioni possono avvenire in modo correlato e che tali correlazioni devono essere
ricondotte alla disposizione del plasma germinale ove esse devono essere in qualche modo potenzialmente contenute. Ma tale risposta osserva Wolf non fa che spostare il problema in un campo di ricerche ancora incompiuto facendo così appello a ciò che ignoriamo. Occorre invece affrontare direttamente il problema
di ciò che è effettivamente un organismo, di ciò che è la vita. E la risposta a
questo problema non può non riconoscere che «l'adattamento finalizzato è
ciò che fa dell'organismo un organismo, è ciò che ci si presenta come l'essenza
propria della vita».
Ora il darwinismo vorrebbe spiegare l'origine di questa finalità, ma in
realtà presuppone già la vita ed introduce successivamente la finalità negli organismi. Ma ammettere la vita senza finalità e poi aggiungervi questa mediante la
selezione è evidentemente inammissibile. Occorre quindi concludere che l'origine della finalità coincide con l'origine della vita e rintracciare perciò la finalità
primaria cioè il processo nel quale per la prima volta si mostra la finalità.
Tale finalità primaria per Wolff doveva essere studiata nei processi dello
sviluppo embrionale ed in quelli di rigenerazione. Questi apparivano ormai gli
unici fenomeni di genesi della vita che potessero venir studiati direttamente in
laboratorio dal momento che l'altro ipotetico processo di origine della vita, cioè
la generazione spontanea, era ormai ritenuto inesistente dopo le ricerche compiute da Louis Pasteur (1822.-95) attorno al 186o.
La teoria della generazione spontanea era stata riproposta e confutata già
nel Seicento e nel Settecento ed in ambedue questi casi la sua negazione aveva
significato una negazione del vitalismo. Nell'Ottocento la situazione doveva rovesciarsi e della dimostrata impossibilità della generazione spontanea dovevano
avvalersi i vitalisti per affermare la irriducibilità della vita ai principi esplicativi del mondo inorganico.
Nel Settecento le dimostrazioni di Needham a favore di questa teoria erano
state invalida te dalle precise ed accurate ricerche sperimentali di Spallanzani, ma la
convinzione che esseri viventi microscopici potessero prodursi spontaneamente
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dalla materia inorganica o da quella organica in decomposizione si era ugualmente diffusa ed anche nella prima metà dell'Ottocento la maggioranza dei naturalisti non si opponeva ad essa. Taie convinzione aveva trovato le sue basi filosofiche
nel naturalismo e nel vitalismo materialistico settecenteschi, che avevano rivendicato l'autonoma capacità di movimento della materia e quindi anche la sua
possibilità di produrre la vita. Nell'Ottocento il problema della generazione
spontanea più che nei suoi aspetti filosofici veniva riproposto e discusso soprattutto nelle ricerche sulle fermentazioni che alcuni ritenevano processi capaci di
produrre microrganismi, ad esempio i lieviti.
Nel 1859 in Francia Félix-Archimède Pouchet (1800-72) aveva raccolto
in un volume tutte le argomentazioni sperimentali a favore della eterogenesi o
generazione spontanea. L'argomento suscitava un grande interesse anche nel
vasto pubblico e l'Accademia francese delle scienze bandì un premio per chi
riuscisse a chiarire in modo convincente la controversa questione. Il premio fu
vinto da Pasteur che mediante esperimenti precisi e relativamente semplici confutò le argomentazioni di Pouchet, dimostrando che in nessun liquido sterile si
possono produrre microrganismi se non per contatto con l'aria che già li contiene.
Lo scontro fra le tesi contrapposte di Pouchet e di Pasteur aveva interessato largamente l'opinione pubblica. Il primo appariva come il difensore di una
concezione materialistica della natura, nel secondo fervente cattolico si vedeva
il difensore di una concezione tradizionale spiritualistica che riproponeva l'intervento creativo divino per il sorgere della vita. Lo stesso Pasteur nella sua
estrema correttezza scientifica fu consapevole delle implicazioni filosofiche di
questa polemica ed osservava in un discorso tenuto alla Sorbonne nel 1864:
« Quale vittoria per il materialismo se potesse proclamarsi fondato sul fatto sicuro che la materia autorganizzandosi produce per se stessa la vita! Che cosa
più naturale in questo caso che deificare la materia? » Dio diverrebbe in tal
modo inutile come creatore della vita.
La completa esclusione della generazione spontanea dei microrganismi contribuiva dunque all'affermarsi dell'idea di un distacco netto fra mondo inorganico e mondo della vita e quindi al sorgere del nuovo vitalismo di impronta spiritualista.
I più coerenti sostenitori della teoria dell'evoluzione, come Haeckel, dovevano tuttavia ammettere che in epoche passate forme estremamente primitive di
vita si fossero prodotte come solo effetto delle condizioni fisico-chimiche naturali
della terra o eventualmente di altri corpi celesti. Le teorie che furono formulate a
questo proposito non ebbero comunque una grande influenza sul pensiero biologico. Per poter in effetti chiarire la lontana origine della vita occorreva avere
una più approfondita conoscenza delle basi fisico-chimiche degli attuali organismi.
Ma anche l'intenso lavoro dei fisiologi in questa direzione non era destinato a
soddisfare le attese e le speranze maturate attorno alla metà del secolo. Già
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nel 1872. l'illustre fisiologo Emil du Bois-Reymond aveva affermato che processi
come la contrazione muscolare, la secrezione delle ghiandole, il chimismo delle
cellule apparivano « oscuri senza speranza ». Anche il bilancio che poteva essere tratto alla fine del secolo appariva a non pochi del tutto insoddisfacente.
L'interpretazione dell'organismo come una macchina termica incontrava
ad esempio serie difficoltà. Appariva ad esempio oscuro come componenti strutturali della macchina, quali i muscoli, rimanessero in buona parte escluse dal
processo di combustione. Inoltre, dato che il lavoro prodotto doveva teoricamente corrispondere al calore di combustione di una data quantità di sostanze
nutritive, appariva oscuro il fatto che l'apporto di ossigeno all'organismo non
fosse necessariamente proporzionale alla quantità delle sostanze che avrebbero
dovuto essere bruciate per produrre una determinata quantità di lavoro. A queste
ed altre difficoltà di carattere termodinamico se ne aggiungevano molte di carattere fisico-chimico. Analizzando l'attività delle cellule risultava ad esempio che
l'assorbimento delle sostanze attraverso le loro pareti non si lasciava ricondurre
alle proprietà di una membrana osmotica. Le cellule epiteliali dell'intestino assorbivano infatti con facilità alcune sostanze respingendone altre e mostravano
così una tipica capacità selettiva.
Queste e molte altre peculiarità nel comportamento fisico-chimico degli
organismi, di cui i fisiologi si rendevano sempre più consapevoli, rendeva molti
alquanto scettici sulla tradizionale analogia fra organismo vivente e macchina.
A ciò si aggiungeva lo spazio sempre più ampio che assumevano nell'indagine
fisiologica gli aspetti di regolazione e di coordinazione funzionale fra i vari
organi. Questi aspetti portavano in modo più o meno esplicito a rivalutare
quella considerazione teleologica o finalistica dei processi vitali che, specialmente in Germania, i primi sostenitori della nuova fisiologia meccanicistica
avevano rigorosamente escluso dal loro programma.
Più che dell'Ottocento il problema della finalità degli organismi può considerarsi tipico della cultura settecentesca. In questa possono rintracciarsi almeno tre
modi di considerare la finalità dei viventi. Il primo corrisponde alla visione provvidenzialistica per cui ogni essere è armonicamente utile e necessario all'altro
e tutti lo sono per l'uomo. Il secondo vede l'organismo come una macchina
costruita e funzionante secondo un disegno tracciato in vista di un determinato
scopo. Il terzo infine, espresso in particolare da Kant, considera l'organismo come
un prodotto della natura in cui ogni parte è vicendevolmente fine e mezzo ed
individua in tal modo una sorta di finalità interna ad esso.
Nella prima metà dell'Ottocento ed oltre, il tema della finalità, anche presso
i vitalisti, assume scarso rilievo e viene considerato di preferenza nelle complessive
trattazioni della natura di ispirazione teologica o spiritualistica.
Per quanto possa apparire paradossale, il ritorno ad una considerazione teleologica o finalistica, che si verifica nella biologia dell'ultimo Ottocento, deve molto
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all'influenza di Darwin. Ciò non risulta indubbiamente dall'atteggiamento di
Haeckel e di altri darwinisti che come lui videro nell'autore inglese il vero instauratore del metodo causale nella biologia, il quale bandiva secondo l'ideale del
meccanicismo ogni intenzione teleologica dalla trattazione dei viventi. Ma tale
influenza può già scorgersi nelle parole di Helmholtz, quando nel I 869 osservava che secondo la teoria di Darwin «negli organismi la finalità della struttura
poteva sorgere anche senza alcun intervento di una intelligenza attraverso la
cieca potenza di una legge naturale».
Darwin si era infatti proposto di spiegare mediante la selezione naturale
le disposizioni teleologiche degli organismi rispetto all'ambiente, considerando
il vantaggio o lo svantaggio di ogni carattere come la condizione necessaria
dell'estinguersi o del variare delle specie. Vi era quindi implicita nella sua teoria
una costante considerazione della finalità o meglio del rapporto di adattamento
degli organismi, che veniva certo ricondotta a cause naturali o meccaniche, ma
che rimaneva ciò non di meno la condizione per capire il sorgere di una specie.
Ora l'idea darwiniana di ricondurre la finalità degli organismi all'interazione
con l'ambiente apriva prospettive sempre più ampie alla stessa ricercà causale.
Ciò nel 1881 veniva espresso chiaramente dal filosofo Christoph Sigwart (1830I 904): « L'osservazione teleologica costituisce una sollecitazione a rintracciare i
legami causali in tutte le direzioni attraverso cui si realizza lo scopo. Essa ha il
significato di un principio euristico; il presupposto che l'organismo è costituito
finalisticamente costringe infatti a chiedersi qual è la funzione di ogni singola
parte e a riconoscere il significato della sua forma, della sua struttura e delle sue
proprietà chimiche e conduce anche alla spiegazione di eventuali effetti secondari che non si subordinano allo scopo, ma sono inevitabili dati i mezzi impiegati.
Il significato generale del movimento darwiniano consiste proprio nel fatto
che, riconoscendo spregiudicatamente la finalità degli organismi, si pone il
compito di spiegare deterministicamente questa finalità in base a leggi generali
e a parla per di più come la conseguenza necessaria di date cause e delle loro
combinazioni. » Anche Wundt aveva rivendicato l'importanza nella biologia
del metodo finalistico che egli, ispirandosi a Fechner, considera come il rovesciamento di quello causale, in quanto procede in senso inverso dall'effetto alla
causa, che in questo modo diviene mezzo.
Più che gli studiosi di morfologia evoluzionistica furono i fisiologi, come
si è detto, a raccogliere queste sollecitazioni del darwinismo. Fra essi ricorderemo
Eduard Pfliiger (I829-1910) per il famoso saggio Die teleologische Mechanik
der lebendigen Natur (La teleologia meccanica della natura vivente, 1877) in cui si
afferma che « la causa di ogni bisogno di un essere vivente è anche ciò che determina la sua soddisfazione ». Con tale principio egli indicava che col variare
delle condizioni in cui si trova l'organismo, la risposta di esso a tali condizioni
è in genere adeguata allo scopo della sua conservazione e più in particolare
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all'espletamento delle sue funzioni. Ad esempio la risposta dell'apparato digerente ai diversi tipi di cibo è tale da garantire di massima l'espletarsi della digestione. Tale adeguamento al variare delle condizioni è ovviamente realizzato
mediante processi di tipo meccanico causale.
Il principio generale secondo cui gli organismi rispondono o reagiscono
finl!listicamente agli stimoli dell'ambiente è implicito anche nelle trattazioni di
quasi tutti i sostenitori del neolamarckismo, alcuni dei quali danno di esso come
si è visto un'interpretazione vitalistìca. La quasi totalità dei fisiologi si attiene
invece all'impostazione meccanicista anche se viene riconoscendo all'organismo
delle proprietà che appaiono nuove rispetto ai prodotti del mondo inorganico.
Un'impostazione di questo tipo si ha già nel 1881 con Wilhelm Roux il quale
considera la finalità come capacità di autoconservazione, cioè di durata dell'organismo attraverso il processo di ricambio delle sue parti e malgrado esso. In
modo analogo Hering nel 1888 caratterizzava l'organismo come un sistema fisico
capace di mantenere le sue peculiari proprietà di fronte all'ambiente esterno,
manifestando così uno stato di equilibrio dinamico notevolmente stabile.
Anche Mach in un capitolo dell'opera L'analisi delle sensazioni tratta con
la sua usuale spregiudicatezza il problema della finalità biologica. Osserva cioè
che siamo ben lontani dal poter derivare da cause efficienti molti fenomeni biologici i quali « possono essere in ogni modo parzialmente compresi quando prendiamo in considerazione lo scopo dell'autoconservazione nelle particolari circostanze di vita dell'organismo. Quali che siano le riserve teoriche che possiamo
avanzare circa l'applicazione alla biologia della concezione finalistica, sarebbe
certamente perverso rifiutarsi di usare le indicazioni offerteci dalla considerazione
dello scopo, in un campo dove la teoria della "causalità" ci fornisce delle spiegazioni così imperfette».
Mach secondo la sua concezione economicistica della scienza ammette
quindi il valore euristico ed il ruolo provvisorio della finalità che, al pari della
causalità, considera rapporti che si devono risolvere in quello per lui più comprensivo e valido di funzione. Un interessante tentativo di ricondurre il concetto di finalità a quello di una funzione si ha infatti nell'opera Empirische Teleologie
(Teleologia empirica) pubblicata nel 1899 da Paul Cossmann (1869-1942.). Secondo l'autore un processo teleologico può essere caratterizzato da tre fattori,
il fattore terminale (S) cioè lo scopo, da considerarsi una costante e da due fattori variabili, cioè l'antecedente (A) ed il Medium (M) collegabili in un rapporto
di tipo funzionale M = f (A, S). Ad esempio un raggio di luce che colpisce
l'occhio può costituire l'antecedente (A), un movimento riflesso il medium (M)
ed infine lo stato di difesa dalla luce che ne risulta l'effetto costante terminale (S).
La rivalutazione del metodo teleologico a cui si è ora accennato porta in
genere, specialmente fra i fisiologi, a considerare la finalità come una proprietà
empirico-descrittiva riconducibile ad una interpretazione meccanicistica. La
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possibilità di questa interpretazione veniva ammessa con relativa facilità dai
fisiologi propensi a ricondurre dei processi finalistici a delle strutture preesistenti.
Per chi invece considerava gli organismi dal punto di vista dell'evoluzione la
finalità o poteva essere spiegata mediante la selezione naturale oppure doveva
risultare come una proprietà primitiva e quindi un possibile argomento in favore del vitalismo.
Il sorgere del nuovo vitalismo, che si osserva in Germania nell'ultimo decennio dell'Ottocento, non si può interpretare soltanto in base agli sviluppi teoricoscientifici della biologia da noi ora ricordati. Occorre riconoscere la grande importanza, per il prodursi di questa svolta del pensiero biologico, di un nuovo
clima filosofico-letterario che rivalutava, come reazione al positivismo ed al
materialismo, una ricca tematica irrazionalistica e mistico-religiosa. Questa nuova
situazione culturale non riuscì ad impedire alla ricerca scientifica di compiere
in tutti i campi passi estremamente importanti e decisivi. Né impedì che si svolgesse proprio in Germania un'approfondita analisi critico-filosofica delle scienze
matematiche e fisiche. Risalgono agli anni settanta ed ottanta le prime indagini
sui fondamenti della meccanica condotte specialmente da Kirchoff, Mach e
Hertz. Queste indagini e la crisi del meccanicismo che portò nella fisica all'affermarsi dell'energetismo, scossero l'ingenua e dogmatica fiducia con cui si considerava la meccanica il modello e l'ideale della conoscenza scientifica della natura.
Se tali sviluppi critici ebbero un'indubbia fecondità, d'altro lato apparvero
a molti come un'ulteriore denuncia di quei limiti della conoscenza scientifica
già proclamati da Du Bois-Reymond, ed un'affermazione della sua relatività
che detronizzava la scienza della natura da quel ruolo privilegiato che la cultura
positivistica gli aveva attribuito anche nei riguardi dei problemi dell'uomo e
della storia.
Alla luce di tali ricerche critico-filosofiche la conoscenza fisica poteva risultare come un sapere del tutto fenomenico che non coglieva l'essenza più profonda della realtà, ma si limitava a comporre l'esperienza in un ordine di cui
l'uomo era l'unico e vero legislatore.
Ai biologi che da neppure cinquant'anni avevano ritenuto di portare la
loro disciplina ad una superiore dignità scientifica, instaurandola sulle basi
sicure del meccanicismo, il fatto che questo fosse posto in crisi dagli stessi fisici
non poteva non suscitare un certo disorientamento. Sorse così il dubbio che
la vita costituisse una dimensione profonda della realtà destinata a sfuggire
alle maglie concettuali della chimica e della fisica come già aveva sostenuto la
filosofia di Schopenhauer, autore che era divenuto popolare in Germania negli
ultimi decenni del secolo.
La tarda fortuna di questo filosofo romantico, così come l'opera di Nietzsche,
sono espressione di quel clima irrazionalistico di cui si è sopra accennato. Contro
la deludente superficialità filosofica dei materialisti, Schopenhauer appariva il
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filosofo che aveva saputo riconoscere il carattere fenomenico della conoscenza
scientifica della natura, la quale copre ma nello stesso tempo permette di svelare
la sua essenza nascosta, cioè la volontà infinita che si esprime in modo più o
meno oscuro e profondo nella vita degli organismi e dello stesso uomo.
Contribuì al sorgere del vitalismo in Germania oltre al successo di questo
pensatore anche un altro filosofo, che per alcuni aspetti può considerarsi suo
seguace, cioè Eduard von Hartmann cui si è già fatto cenno nel capitolo VI.
Meno originale filosoficamente ma meno proclive di Schopenhauer ad un totale
pessimismo, egli aveva svolto la sua filosofia dell'incosciente attraverso una serie numerosissima di scritti in cui spesso si sofferma a illustrare con cura i risultati
per lui più interessanti delle scienze naturali. Già nella Filosofia dell'inconscio
(prima edizione I 869) e nella Warheit und l"tum des Darwinismus (Verità ed errore del
darwinismo, 1875) egli aveva respinto il meccanicismo biologico sostenuto da
Haeckel, ammettendo la necessità di riconoscere su un piano metafisico l'intervento negli organismi di un principio organizzatore immateriale che coopera con
i processi fisico-chimici. Questo principio non è che un momento di quella
volontà incosciente che costituisce il fondamento metafisico di tutta la realtà
naturale.
VII · IL VITALISMO,
PRIME
FORMULAZIONI
Fra le prime voci a favore del nuovo vitalismo che suscitarono interesse
nel mondo scientifico vi fu quella del fisiologo Gustav Bunge (1844-19oo) che
apriva nel 1887 un suo trattato di chimica fisiologica con un capitolo su «Vitalismo e meccanicismo ». Egli respinge dalla fisiologia l'uso del termine forza
vitale ma rileva come dalla storia di questa scienza risulti che «quanto più
si riesce ad approfondire ed esaminare i fenomeni vitali, tanto più vediamo che
i processi che si ritenevano interpretabili con la fisica e la chimica sono di natura assai più complessa e sfuggono all'interpretazione meccanica ». A prova di
ciò egli adduce i processi selettivi d'assimilazione e secrezione delle cellule, le
complesse reazioni di adattamento mostrate dai protozoi e gli stessi processi
dell'eredità. Devono passare migliaia di anni prima che la fisiologia riveli i
fondamentali enigmi della cellula ed occorre perciò affrontare il problema della
vita per un'altra via. Poiché è nell'attività che consiste l'enigma della vita, questa via non ci è offerta dalla conoscenza sensibile, ma dalla conoscenza di noi
stessi, cioè dalla conoscenza psicologica inttospettiva.
È perciò importante lo studio dell'uomo « poiché nell'interna essenza di
esso possiamo penetrare mediante la coscienza interna per dar mano alla fisica
che procede dall'esterno». L'utilità di questo duplice approccio all'enigma della
vita è giustificato per il fatto che « i processi del mondo esterno nulla hanno
di comunè con le nostre sensazioni e con le nostre idee. Il mondo esterno è
per noi un libro con sette sigilli, e alla nostra osservazione e conoscenza sono
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immediatamente accessibili solo gli stati e processi della nostra coscienza. Questa semplice verità è la più grande e profonda che la mente umana abbia escogitato; ed essa ci porta a comprendere l'essenza del vitalismo. L'essenza del
vitalismo consiste in ciò che noi battiamo la sola retta via, che noi partiamo dal
conosciuto, dal mondo interno per spiegare l'ignoto, il mondo esterno. La via
opposta tiene il meccanicismo, il quale non è altro che il materialismo; esso
parte dall'ignoto, il mondo esterno, per spiegare il noto, il mondo interno ».
L'oscurità e la superficialità, sia pure significative, con cui si profila il vitalismo in queste parole di Bunge appaiono ancora più accentuate in due discorsi
tenuti nel 1883 e nel 1895 dal patologo Eduard Rindfleisch (1836-1908) il quale
dichiara di rifarsi al « nuovo vitalismo » sostenuto negli anni cinquanta dal suo
maestro Virchow. Ma mentre questi si era attenuto ad una posizione sostanzialmente materialistica Rindfleisch sembra staccarsene decisamente. Egli riconduce
la cooperazione delle cellule, che culmina nell'unità dell'organismo, ad una loro
reciproca sensazione e solidarietà le quali indicherebbero una sorta d'imperativo
morale (uno per tutti e tutti per uno) ed una parziale rivelazione della divinità.
Nelle formulazioni vitalistiche ora ricordate la vita appare come una condizione originaria ed autonoma che risulta nell'attività introspettiva dell'uomo
o da una visione complessiva sull'unità dell'organismo, unità che non può
essere compresa in base ai processi fisico-chimici, ma di cui neppure si dice come
con questi processi si articoli e componga. La sola precisazione a tale proposito
è il rifiuto di ricorrere alla vecchia forza vitale, che i meccanicisti avevano definitivamente respinto in base al principio di conservazione dell'energia e che non
appariva perciò più proponibile.
Doveva comunque essere con questo principio ed in generale con gli aspetti
energetici dell'organismo che il vitalismo doveva fare i conti per assumere una
relativa plausibilità scientifica. E a questo compito si accinse uno dei più seri
sostenitori del vitalismo Johannes Reinke (1849-1931) che fu professore di
botanica a Kiel.
In un articolo del 1899 Gedanken iiber das Wesen der Organisation (Pensieri
sull'essenza dell'organizzazione) ed in altri scritti successivi fra cui Einleitung in die
theoretische Biologie (Introduzione alla biologia teorica, 1901) Reinke sviluppa la sua
concezione basata su una netta distinzione fra i processi energetici da un lato e
le condizioni che rendono possibile il defluire di tali processi in una determinata
direzione dall'altro. Tale distinzione viene da lui espressa anche come opposizione
. fra principio dell'energia e principio della direzione.
Egli svolge le sue considerazioni partendo dall'analogia o parallelismo
fra organismi e macchine. In ambedue si ha una configurazione delle parti,
cioè una struttura, in cui si realizza un flusso d'energia. Le parti devono essere
considerate in base alla loro reciproca disposizione in vista della finalità del
tutto.
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filosofo che aveva saputo riconoscere il carattere fenomenico della conoscenza
scientifica della natura, la quale copre ma nello stesso tempo permette di svelare
la sua essenza nascosta, cioè la volontà infinita che si esprime in modo più o
meno oscuro e profondo nella vita degli organismi e dello stesso uomo.
Contribuì al sorgere del vitalismo in Germania oltre al successo di questo
pensatore anche un altro filosofo, che per alcuni aspetti può considerarsi suo
seguace, cioè Eduard von Hartmann cui si è già fatto cenno nel capitolo VI.
Meno originale filosoficamente ma meno proclive di Schopenhauer ad un totale
pessimismo, egli aveva svolto la sua filosofia dell'incosciente attraverso una serie numerosissima di scritti in cui spesso si sofferma a illustrare con cura i risultati
per lui più interessanti delle scienze naturali. Già nella Filosofia dell'inconscio
(prima edizione I 869) e nella Warheit und Irrtum des Darwinismus (Verità ed errore del
darwinismo, I 8 75) egli aveva respinto il meccanicismo biologico sostenuto da
Haeckel, ammettendo la necessità di riconoscere su un piano metafisica l'intervento negli organismi di un principio organizzatore immateriale che coopera con
i processi fisico-chimici. Questo principio non è che un momento di quella
volontà incosciente che costituisce il fondamento metafisica di tutta la realtà
naturale.
VII · IL
VITALISMO,
PRIME
FORMULAZIONI
Fra le prime voci a favore del nuovo vitalismo che suscitarono interesse
nel mondo scientifico vi fu quella del fisiologo Gustav Bunge (I844-I9oo) che
apriva nel I887 un suo trattato di chimica fisiologica con un capitolo su «Vitalismo e meccanicismo ». Egli respinge dalla fisiologia l'uso del termine forza
vitale ma rileva come dalla storia di questa scienza risulti che « quanto più
si riesce ad approfondire ed esaminare i fenomeni vitali, tanto più vediamo che
i processi che si ritenevano interpretabili con la fisica e la chimica sono di natura assai più complessa e sfuggono all'interpretazione meccanica ». A prova di
ciò egli adduce i processi selettivi d'assimilazione e secrezione delle cellule, le
complesse reazioni di adattamento mostrate dai protozoi e gli stessi processi
dell'eredità. Devono passare migliaia di anni prima che la fisiologia riveli i
fondamentali enigmi della cellula ed occorre perciò affrontare il problema della
vita per un'altra via. Poiché è nell'attività che consiste l'enigma della vita, questa via non ci è offerta dalla conoscenza sensibile, ma dalla conoscenza di noi
stessi, cioè dalla conoscenza psicologica introspettiva.
È perciò importante lo studio dell'uomo « poiché nell'interna essenza di
esso possiamo penetrare mediante la coscienza interna per dar mano alla fisica
che procede dall'esterno». L'utilità di questo duplice approccio all'enigma della
vita è giustificato per il fatto che « i processi del mondo esterno nulla hanno
di comunè con le nostre sensazioni e con le nostre idee. Il mondo esterno è
per noi un libro con sette sigilli, e alla nostra osservazione e conoscenza sono
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immediatamente accessibili solo gli stati e processi della nostra coscienza. Questa semplice verità è la più grande e profonda che la mente umana abbia escogitato; ed essa ci porta a comprendere l'essenza del vitalismo. L'essenza del
vitalismo consiste in ciò che noi battiamo la sola retta via, che noi partiamo dal
conosciuto, dal mondo interno per spiegare l'ignoto, il mondo esterno. La via
opposta tiene il meccanicismo, il quale non è altro che il materialismo; esso
parte dall'ignoto, il mondo esterno, per spiegare il noto, il mondo interno ».
L'oscurità e la superficialità, sia pure significative, con cui si profila il vitalismo in queste parole di Bunge appaiono ancora più accentuate in due discorsi
tenuti nel 1883. e nel 1895 dal patologo Eduard Rindfleisch (1836-1908) il quale
dichiara di rifarsi al « nuovo vitalismo » sostenuto negli anni cinquanta dal suo
maestro Virchow. Ma mentre questi si era attenuto ad una posizione sostanzialmente materialistica Rindfleisch sembra staccarsene decisamente. Egli riconduce
la cooperazione delle cellule, che culmina nell'unità dell'organismo, ad una loro
reciproca sensazione e solidarietà le quali indicherebbero una sorta d'imperativo
morale (uno per tutti e tutti per uno) ed una parziale rivelazione della divinità.
Nelle formulazioni vitalistiche ora ricordate la vita appare come una condizione originaria ed autonoma che risulta nell'attività introspettiva dell'uomo
o da una visione complessiva sull'unità dell'organismo, unità che non può
essere compresa in base ai processi fisico-chimici, ma di cui neppure si dice come
con questi processi si articoli e componga. La sola precisazione a tale proposito
è il rifiuto di ricorrere alla vecchia forza vitale, che i meccanicisti avevano definitivamente respinto in base al principio di conservazione dell'energia e che non
appariva perciò più proponibile.
Doveva comunque essere con questo principio ed in generale con gli aspetti
energetici dell'organismo che il vitalismo doveva fare i conti per assumere una
relativa plausibilità scientifica. E a questo compito si accinse uno dei più seri
sostenitori del vitalismo Johannes Reinke (1849-193 1) che fu professore di
botanica a Kiel.
In un articolo del 1899 Gedanken iiber das Wesen der Organisation (Pensieri
sull'essenza dell'organizzazione) ed in altri scritti successivi fra cui Einleitung in die
theoretische Biologie (Introduzione alla biologia teorica, 1901) Reinke sviluppa la sua
concezione basata su una netta distinzione fra i processi energetici da un lato e
le condizioni che rendono possibile il defluire di tali processi in una determinata
direzione dall'altro. Tale distinzione viene da lui espressa anche come opposizione
. fra principio dell'energia e principio della direzione.
Egli svolge le sue considerazioni partendo dall'analogia o parallelismo
fra organismi e macchine. In ambedue si ha una configurazione delle parti,
cioè una struttura, in cui si realizza un flusso d'energia. Le parti devono essere
considerate in base alla loro reciproca disposizione in vista della finalità del
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Oggetto particolare dell'indagine di Reinke non è propriamente l'aspetto
energetico ma la legge strutturale che guida il flusso energetico. A questo scopo
egli prende spunto da una considerazione di Lotze secondo cui le nostre macchine lavorano con « forze di seconda mano», cioè producono lavoro secondo
una specifica regolazione. Tali « forze » possono essere considerate come le « condizioni di una macchina», basantisi sulla configurazione dei suoi elementi e
denominate da Reinke «forze del sistema» o dominanti. Tali forze devono essere
distinte dall'energia poichè esse dirigono l'energia, trasformandola, concentrandola, distribuendola, senza mai trasformarsi esse stesse in energia. In una macchina infatti il sistema dei dominanti che rende possibile le sue specifiche prestazioni rimane immutato mentre l'energia viene continuamente consumata e
sostituita.
I dominanti sono dunque « forze » a cui manca un equivalente energetico,
essi non forniscono cioè lavoro meccanico ma indicano ad esso coattivamente la
via da seguire, così come la volontà del timoniere imprime una direzione al
peso di una nave. Ad esempio « le condizioni del sistema di un orologio caricato con la sua energia di funzionamento agiscono come forze del sistema ottenendo la specifica rotazione delle lancette. Che queste forze del sistema si realizzino con i mezzi energetici della durezza ed elasticità dell'acciaio è ovvio; esse
sono tuttavia forze " non energetiche ''; io posso infatti con un colpo di martello
distruggere tutte quelle forze del sistema senza un equivalente», cioè senza che
esse possano trasformarsi in altre « forze » come avviene per le trasformazioni
d'energia.
Anche negli organismi i dominanti agiscono costringendo ad esempio gli
atomi di composti semplici a riunirsi nelle molecole più complesse dei carboidrati e delle proteine. La conoscenza puramente energetica dell'organismo è
insufficiente poiché considera soltanto ciò che esso assume dall'ambiente e gli
restituisce, e non ci dice nulla delle «cause interne» della morfogenesi e dell'accrescimento. Queste cause interne sono appunto i dominanti cioè quelle proprietà specifiche del protoplasma che esso riceve e trasmette nel processo ereditario.
L'analogia con la macchina porta inoltre Reinke ad accettare l'ipotesi che
tutte le azioni finalizzate del vivente, dovute ai dominanti, abbiano la loro base
in una configurazione o struttura microscopica ignota della cellula. In tal modo
gli organismi risultano sistemi puramente materiali spiegabili mediante la loro
struttura ed i loro movimenti.
Sino a questo punto, malgrado la terminologia inconsueta, la posizione di
Reinke non sembra discostarsi dalle forme tradizionali di meccanicismo biologico. Egli osserva tuttavia - ed in ciò sembra riecheggiare il meccanicismo
creazionistico di Lotze - che la finalità sia in una macchina che in un organismo non può essere spiegata in base alle proprietà della materia. La finalità
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è del tutto estranea al mondo fisico-chimico e come nelle macchine vi è introdotta dall'uomo, così negli organismi vi è introdotta da dominanti che devono
essere considerati delle « forze intelligenti » sia pure inconsce.
Egli giunge a questa equivalenza decisiva di finalità ed intelligenza in modo
alquanto sbrigativo, cioè in base all'assunto che nella nostra comprensione o
descrizione della natura è solo partendo dall'analogia con il comportamento
dell'uomo che ci è possibile chiarire il senso della finalità. « Mai, » scrive nel
1904, «si dovrebbe per spiegazione intendere altro che descrizione, ed ogni
descrizione è più o meno antropomorfa. Il compito della biologia può consistere soltanto nell'ottenere con le nostre rappresentazioni una copia approssimativamente vera dei processi vitali. Anche nella scienza biologica viene ad
assumere validità l'antica saggezza secondo cui l'uomo è misura di tutte le cose.»
La conclusione a cui egli giunge nell'ambito della sua biologia teorica è
dunque quella che esiste un abisso fra il mondo inorganico ed il mondo vivente
di cui l'intelligenza costituisce una funzione naturale. Ma passando dal piano
della biologia a quello della filosofia della natura egli perviene a conclusioni
ancora più rilevanti cioè ad ammettere l'esistenza di una intelligenza creatrice
che domina la natura.
In un'opera dedicata a questo scopo Die Welt als Tat (Il mondo come azione,,
1899) era giunto a sostenere che noi troviamo dio nella natura attraverso quello
stesso processo induttivo con cui troviamo una legge scientifica e concludeva
le sue riflessioni esaltando il libro di Mosè in cui verità e poesia si uniscono
nel racconto della genesi.
L'identificazione di finalità ed intelligenza sostenuta da Reinke e le sue ulteriori considerazioni in favore di una creazione divina del mondo, rivelavano
per molti un'inaccettabile im.postazione metafisica e soprattutto non chiarivano
in modo adeguato sul piano filosofico le modalità d'intervento di una causalità
di tipo ideale nella natura.
Un'altra via verso il vitalismo che appariva invece, secondo alcuni, più
consona ai risultati complessivi della scienza e meno irta di difficoltà filosofiche
era quella di considerare il principio vitale di natura psicologica. Gli autori che
si fanno in tal modo sostenitori di uno psicovitalismo possono avvalersi delle
considerazioni che alcuni neolamarckiani avevano svolto a favore di un intervento dei fattori psichici nei processi di adattamento dei viventi all'ambiente
e più in generale degli studi di psicologia animale che si erano iniziati per l'influenza del darwinismo e di cui uno dei maggiori cultori era stato George John
Romanes (1848-94). Nel condurre queste ricerche di psicologia animale si
ammetteva in genere che, per la continuità implicita nel processo dell'evoluzione, la psiche doveva costituire una proprietà estesa anche ai livelli più elementari della vita.
I fautori di questo psicovitalismo ritenevano inoltre che l'attività psichica po301
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tesse costltUlre un fattore causale di natura non metafisica, in quanto l'uomo
ne ha una esperienza diretta nei suoi atti di movimento.
Contro l'idea che la psiche potesse intervenire come fattore causale nei
processi fisici e più precisamente fisiologici si trovavano però schierati tutti i sostenitori del cosiddetto parallelismo psicofisico. Questa teoria, formulata in Germania da Fechner, era stata accettata dalla maggioranza dei fisiologi e psicologi
in particolare da Wundt ed era sostenuta anche da filosofi come Spencer, Bain
ed Hoffding. Questi autori ritenevano che la constatata correlazione fra eventi
fisiologici ed eventi psicologici (ad esempio la stimolazione di un nervo e la
corrispondente sensazione) non potesse interpretarsi come un rapporto causale
ma come una coincidenza o concomitanza di due serie parallele di eventi. Il
principio di causalità può infatti applicarsi soltanto fra eventi simili ed omogenei
e tali non sono i processi psichici e quelli fisici. Questa teoria aveva l'indubbio
vantaggio di permettere una rigorosa trattazione meccanicistica dei processi
fisiologici, salvando contemporaneamente la completa autonomia d'indagine
della psicologia; senza escludere la possibilità di diverse interpretazioni filosofiche sulla natura ultima di questo parallelismo.
A partire dagli anni novanta, in un momento di crisi del meccanicismo,
questa concezione cominciò tuttavia ad essere attaccata da vari autori che sostenevano la possibilità di una reciproca azione causale fra eventi psichici e fisici.
Fra questi vi furono anche gli psicologi Stumpf e Kulpe. La polemica che sorse
fra i due opposti gruppi si estese durante i primi anni del Novecento specialmente attorno al cosiddetto principio della chiusura della causalità naturale.
I parallelisti sostenendo questo principio ribadivano che in una serie causale
di eventi fisico-meccanici non può inserirsi alcun fattore esterno al sistema in
cui questi eventi si producono e quindi neppure un fattore psichico. I sostenitori invece della causalità psicofisica ritenevano in genere di respingere l'assunto meccanicistico che in natura si diano soltanto serie causali di tipo fisicochimico. Altro punto controverso era se il principio di conservazione della
energia fosse compatibile con l'intervento causale dei processi psichici in quelli
fisiologici. Fra i sostenitori della causalità psico-fisica molti davano una risposta
positiva mentre altri ritenevano che una parte dei processi cerebrali si sottraesse
alla sua validità.
Fra gli psicovitalisti si impegnò con serietà in questo tipo di discussione
Erich Becher (1882.-192.9) che considera in generale la teoria dell'interazione
psicofisica incompatibile con il meccanicismo biologico. Egli ammette inoltre
la possibilità di spiegare i fenomeni finalistici mediante processi inconsci di
appre;ndimento per tentativi ed errori i cui risultati vengono fissati nella memoria. Più speculativa appare invece la posizione di August Pauly (1850-1914)
il quale attribuisce anche alle cellule un'attività psichica conscia di percezione
e discriminazione che sola permetterebbe di spiegare le loro reazioni finalizzate.
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VIII · L'EMBRIOLOGIA MECCANICISTICA ED IL VITALISMO DI DRIESCH
La legge biogenetica fondamentale enunciata da Haeckel considerava l'embrione come la ricapitolazione approssimativa delle trasformazioni filogenetiche
dei suoi antenati. L'embriologia appariva perciò un terreno privilegiato d'indagine per ricostruire le tracce di un passato estremamente lontano. I tessuti o
gli organi che comparivano per primi nell'embrione venivano ad esempio ritenuti caratteristici degli organismi più antichi e quindi importanti per individuare
i capostipiti ed i primi discendenti degli alberi genealogici dei vari gruppi animali.
Questo programma di ricerca stimolò notevolmente gli studi embriologici
conducendo a importanti risultati soprattutto nel campo dell'anatomia comparata, ma non favorì propriamente una analisi diretta delle cause dello sviluppo
ontogenetico. Come osserva argutamente Radl: « Il predominio della legge biogenetica fondamentale non permetteva di ricercare queste cause altrove che negli
stati morfologici precedenti; così come il fatto storico che nelle catacombe si usavano le candele è la causa per cui ancora oggi le si bruciano sugli altari, allo
stesso modo veniva considerata causa delle tasche branchiali che si osservano
oggi negli embrioni dei mammiferi la circostanza che essi una volta erano pesci;
e la causa del fenomeno che gli animali cominciano il loro sviluppo con un
uovo veniva vista nell'ipotesi che tutti gli animali pluricellulari derivano dalle
amebe.»
Anche se la causa di una determinata struttura embrionale veniva individuata in un'altra struttura dello stesso embrione, precedente di qualche ora o
di qualche minuto, si trattava pur sempre della descrizione di un processo morfologico e non dei fattori fisico-chimici che lo producono.
A questa impostazione dell'embriologia di tipo storico-morfologico tentò
senza successo di opporsi già nel I 874 Wilhelm His (I 8 3 I- I 904) cercando ad
esempio di ricondurre le pieghe che si susseguono nei foglietti embrionali
all'accrescimento di alcune zone rispetto ad altre, cioè ad un effetto di tensione
e di pressione. Nello stesso periodo anche Alexander Goette (I840-I9zz) propose di chiarire lo sviluppo embrionale ammettendo che l'uovo è costituito
da una massa inerte in cui si esercitano correnti osmotiche e quindi dislivelli
di pressione. A questi autori si deve aggiungere August Rauber (I84z-19I7)
il quale, rifacendosi al programma meccanicistico di Lotze, espresse nel I 8So
la convinzione che l'ontogenesi deve essere basata su una meccanica delle cellule,
e occorre studiare di queste moltiplicazione, accrescimento, migrazione e differenziazione.
Il programma di ricerca indicato da questi autori doveva essere formulato
con estrema chiarezzza da Wilhelm Roux (I85o-I9z4) che era stato allievo sia di
Haeckel che di Goette. Nella fase di crisi del darwinismo egli si schierò fra i sostenitori di questa teoria insieme a Weissmann, di cui condivideva alcune tesi fon-
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La biologia alla fine dell'Ottocento
damentali. Lo stesso Weissmann, come si è accennato, aveva ripreso per la sua
teoria della selezione germinale la concezione che Roux aveva espresso nel I 88 I
nella sua opera Der Kampf der Teile im Organismus (La lotta delle parti nell'organismo)
in cui si applica l'idea di selezione agli elementi interni del vivente per spiegarne
il loro reciproco adattamento.
-- .
Nell'opera Die Entwicklungsmechanik der Organismen (~a meccanyca dello sviluppo degli'Oi'gànismi, I89o) ed in altri scritti successivi Rouxi traccia il/programma
della nuova embriologia sperimentale, spingendosi in un'indagine estremamente
lucida degli aspetti metodologici e filosofici della biologia. Il biologo deve comportarsi di fronte all'embrione come il fisico che non si limita a considerare un
fenomeno quale un tutto inscindibile ma cerca di scomporlo nei suoi elementi
più semplici. La pura constatazione che da una formazione visibilmente semplice si produce una formazione visibilmente più complessa non ci dice infatti
nulla del reale processo di questo sviluppo. In esso si potrebbe avere una reale
produzione di molteplicità, come sostengono gli epigenetisti, oppure l'emergere
di una molteplicità precontenuta in modo latente nell'uovo, come sosteneva
ad esempio Weissmann, con una sorta di nuovo preformismo.
Il problema può essere affrontato soltanto attraverso l'analisi sperimentale.
Se nell'ambito dei fenomeni fisici questa analisi può far riferimento a forze
o azioni semplici quali pressione, tensione, attrito, ecc., in quelli organici invece
queste azioni si presentano spesso in combinazioni nuove e peculiari, ci appaiono cioè quali azioni complesse di fecondazione, eredità, differenziazione, adattamento, ecc. Ora il compito della nuova embriologia sperimentale o, come
viene designata da Roux, della meccanica dello sviluppo, è appunto quello di ricondurre i processi ontogenetici al minor numero possibile di azioni semplici ed in
particolare al ricambio materiale ed energetico di tali processi.
Roux riconosce che lo sviluppo embrionale è in un certo senso analogo
al processo storico della filogenesi, ma a differenza di questo ultimo esso può
essere costantemente ripetuto, in quanto è un tipico fenomeno che si presenta
sempre di nuovo partendo dal suo stato iniziale con regolarità. È precisamente
questa possibilità di ripetizione che rende applicabile anche nell'embriologia
come nella fisica il metodo sperimentale e la conseguente individuazione di leggi.
Roux insiste nella distinzione fra regole, a cui si perviene con il metodo
descrittivo, e leggi che possono essere ottenute soltanto con il metodo sperimentale. Così la legge della caduta libera dei corpi può essere ottenuta solo
sperimentando in condizioni appropriate e non descrivendo come i corpi cadono in condizioni usuali.
All'enunciazione programmatica ed alle analisi metodologiche Roux accompagnò anche un'importante attività sperimentale mirante, per esempio, a stabilire il diverso peso che assumono nell'ontogenesi i fattori esterni rispetto a
quelli interni ed in particolare il luogo ed il momento in cui i fattori determi-
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nant1 mterni agiscono nell'embrione. A questo proposito sia Weissmann che
Roux, sostenendo la tesi di una divisione ineguale del plasma germinale, ritenevano che nella prima segmentazione cellulare dell'uovo i determinanti della
parte destra e di quella sinistra del corpo embrionale potessero già trovarsi separati nelle due cellule risultanti da tale divisione.
Roux trovò una iniziale conferma di questa ipotesi nel fatto che la linea di
segmentazione fra queste due prime cellule tende a coincidere con il piano che
dividerà l'organismo nelle due parti simmetriche. Ma una conferma definitiva
sembrò risultare da un'esperienza da lui riferita nel 1888. Egli era cioè riuscito ad uccidere con un ago una delle due prime cellule di segmentazione di
un uovo di rana ottenendo dall'altra cellula lo sviluppo di una metà completa dell'embrione. Anche in base a questo risultato egli pervenne alla teoria secondo
cui i fattori determinanti delle varie parti dell'individuo sarebbero già ordinate
a mosaico nell'uovo e opererebbero in modo indipendente durante lo sviluppo.
Le ricerche teoriche e sperimentali di Roux sollevarono un grande interesse anche perché apparivano una conferma delle tesi estremamente dibattute
di Weissmann. Esse incontrarono tuttavia una forte opposizione soprattutto
da parte di uno dei più illustri biologi contemporanei Oskar Hertwig ( 1849- I 92.2),
già da noi ricordato ed anch'egli allievo di Haeckel, il quale polemizzò vivamente con Roux sostenendo che oggetto tipico della biologia deve essere la
cellula con le sue facoltà naturali, che non può essere ricondotta a qualcosa di
più semplice. Egli inoltre, appellandosi alle ricerche di Kirchoff sui fondamenti
della meccanica, contestò la distinzione metodologica sostenuta da Roux fra
conoscenza descrittiva e conoscenza causale.
L'opposizione di Hertwig al meccanicismo biologico di Roux e di Weissmann,
condotta soprattutto in nome di una concezione empiristico-descrittiva e morfologica della biologia, doveva ben presto passare in secondo piano di fronte al
ben più serio attacco che a tale meccanicismo venne portato sul terreno stesso
dell'embriologia sperimentale da Hans Driesch(I876-1941), che sarà nel Novecento il maggior teorico del neovitalismo.
Driesch, nato a Kreuznach da una ricca famiglia del Mecklenburgo, aveva
compiuto nel 1889 gli studi zoologici a Jena come allievo di Haeckel. La lettura di uno dei primi critici spiritualistici del darwinismo, Albert Wigand
(1812-86) e la conoscenza degli scritti di His e di Goette lo condussero ben presto ad abbandonare le idee evoluzionistiche del maestro e ad abbracciare il
programma della meccanica dello sviluppo di Roux. Egli, condividendo sostanzialmente le critiche mosse nel 1890 da Gustav Wolff al darwinismo, in uno
scritto del 1891 sosteneva che l'accettazione di una finalità biologica nello studio meccanicistico degli organismi non significa che questa finalità debba essere
spiegata in modo meccanicistico mediante la teoria casualistica della selezione
naturale. La teoria dell'evoluzione non può costituire alcuna base sicura per
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studiare le leggi dello sviluppo morfologico, ma può soltanto fornirci una galleria di antenati, come aveva affermato il filosofo neokantiano Otto Liebmann
(1840-1912.). La lettura di quest'autore cosi come lo studio di Schopenhauer
non lo avevano però distolto dal proposito di dedicarsi alle ricerche di embriologia sperimentale alle quali si applicherà con notevoli risultati per quasi un
ventennio.
Già nel 1891 nella stazione zoologica di Trieste egli compì uno dei suoi
primi e più famosi esperimenti. Proponendosi di ripetere l'esperimento con cui
Roux aveva ottenuto lo sviluppo di una metà dell'embrione di rana, giunse operando sulle uova di riccio di mare ad un risultato inatteso ed opposto. Separando
cioè le due prime cellule derivanti dalla segmentazione di queste uova rilevò
che ciascuna di esse si sviluppava in una larva completa. Questo risultato non
solo contrastava con quello di Roux ma anche con la teoria sostenuta da Weissmann dell'ineguale divisione del plasma germinale, secondo cui ognuna delle
due cellule avrebbe dovuto contenere soltanto la metà dei fattori necessari allo
sviluppo del riccio.
Trasferitosi alla stazione zoologica di Napoli, dove lavorerà per circa un
decennio, condusse subito anche qui un esperimento di particolare interesse sulle
stesse uova di riccio di mare, Le prime sedici cellule che si sviluppano da queste
uova si dispongono normalmente in una forma sferica. Comprimendo lo sviluppo dell'uovo con un sottile vetro esse si disponevano a disco e allorché il
vetro era tolto riacquistavano la forma sferica producendo una larva normale.
Anche in questo caso secondo Driesch il risultato era inconciliabile con la teoria
di Weissmann.
Convinto ormai della difficoltà di realizzare una completa riduzione meccanicistica dei fenomeni biologici e sempre interessato alla riflessione filosofica,
anche attraverso la lettura di Kant, nel 1893 pubblicò il suo primo scritto di carattere strettamente filosofico-metodologico, Die Biologie als selbststandige Grundwissenschaft (La biologia come scienza fondamentale autonoma). In esso egli comincia col
rilevare come lo studio fisiologico dell'organismo, perseguito sulla base delle
forze fisiche, deve ricondurre ogni sua azione specifica alla struttura stessa dell'organismo e quindi alla morfologia. In questo senso le azioni del vivente sono
del tutto analoghe a quelle di una macchina. Ma se da un punto di vista meccanico possiamo capire l'interazione delle parti e l'effetto complessivo della
macchina, non possiamo però capire la sua finalità cioè il motivo per cui le parti
sono combinate in un modo o in un altro in vista di un determinato effetto globale. Non possiamo perciò capire del tutto lo scopo né in base a considerazioni
causali, né logicamente derivandolo in modo necessario da leggi generali.
Questa impossibilità deve valere non solo per le macchine ma anche per gli
organismi e la forma risulta perciò un dato ultimo ed irriducibile così come lo sono
le forze naturali o le sostanze chimiche acqua e ferro. « Anche in tutti i fenomeni
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puramente fisici incontriamo per conseguenza un "residuo '' non comprensibile
meccanicamente; tutte le differenze qualitative delle forze naturali non sono più
"meccanismo ". Questa verità, cioè che tutte le cause della natura sono propriamente cause occasionali è da tempo familiare ai filosofi. »
Quest'ultima considerazione di Driesch esprime la concezione filosoficometafisica secondo cui le conoscenze scientifico-naturali non rivelano che una rete
di connessioni logiche o causali dietro le quali può nascondersi una realtà più
ricca e profonda. D'altronde la sua insistenza sulla natura rigorosamente logica
e causale di ogni conoscenza scientifica lo porta a svalutare la trattazione storicodescrittiva della natura caratteristica della morfologia evoluzionistica. Il vero
nucleo della teoria della discendenza è per Driesch la « capacità di trasformazione »
delle forme, le loro proprietà e capacità di reazione. È del tutto indifferente dal
punto di vista di una teoria generale della natura dove e quando in un certo
punto della terra certe forme organiche si siano realizzate e susseguite. Allo stesso
modo al chimico è del tutto indifferente che questo o quell'altro composto chimico sia sorto sulla terra. « A lui non interessa il casuale presentarsi di una sostanza, ma la legge della sostanza, la sostanza indipendentemente da un luogo e
tempo determinati; per chi ha confidenza con la filosofia di Schopenhauer potrei
dire: la sostanza come idea (platonica); e ciò che vale per le sostanze vale per le
forme, indipendentemente dal fatto che la loro capacità di realizzarsi si sia data
sulla terra in un dato tempo, oppure solo una volta i crostacei si siano potuti
formare dagli anellidi. »
Non potendosi quindi fondare su una rigorosa scienza della forma, la
teoria dell'evoluzione viene di nuovo relegata da Driesch ad una «galleria di
antenati» e su di essa ritornerà negli scritti successivi con accenni spesso liquidatori e sprezzanti. 1
L'unica conoscenza scientificamente valida delle trasformazioni delle forme
è la « meccanica dello sviluppo » embrionale la quale considera i processi di
accrescimento in termini fisici causali. Ma anche in questo caso i separati processi di accrescimento si svolgono come i processi fisiologici in funzione del
tutto, per un fine che è la realizzazione dell'organismo. Ed anche in questo
caso come per le funzioni fisiologiche i processi di accrescimento embrionale
devono essere ricondotti ad una struttura; perciò « potremmo dire che nella
struttura è tutto previsto finalisticamente. Ma per attenerci a questa concezione
occorre però attribuire alla " struttura '' una complicazione che supera molto la
nostra capacità di comprensione». Qualcuno perciò potrebbe appellarsi anziché
ad una struttura ultima ad un qualche principio psicologico che guidi lo sviluppo. Ma poiché « tutta la scienza naturale procede nel mondo come rappreI In un articolo del 1896 Driesch osservava
che il darwinismo« appartiene alla storia come l'altra curiosità del nostro secolo, la filosofia di Hegel ;
ambedue sono variazioni sul tema "come prendere
per il naso una intera generazione ", e non sono
propriamente tali da elevare il nostro secolo agli
occhi delle prossime generazioni ».
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sentazione, noi non potremmo appellarci, per l'insufficienza della nostra capacità rappresentativa, alla realtà inconoscibile ».
Come per una macchina se vogliamo spiegarne la finalità, così anche per
l'organismo, non ci rimane altro che rifarci alla considerazione teleologica.
Certo la scienza della natura diffida della teleologia, ma « per noi che in questo studio sosteniamo il punto di vista dell'idealismo kantiano, secondo cui
causalità e teleologia sono forme soggettive del giudizio, non vi è alcuno scrupolo nell'annoverare anche la considerazione teleologica nella scienza naturale».
Le idee esposte da Driesch in questo scritto, che potrebbero sintetizzarsi
come un meccanicismo teleologico, vengono ribadite in un'opera dell'anno
successivo Ana!Jtische Theorie der organischen Entwicklung (Teoria analitica dello
sviluppo organico, 1894). In questo scritto egli esprime ancor più chiaramente i suoi
dubbi sull'efficacia di una conoscenza meccanico-causale e ribadisce la necessità
di considerare finalisticamente i processi embriologici « come se essi fossero
fissati secondo qualità ed ordine da un'intelligenza», o come se in essi agisse
un'interna «tendenza formativa».
L'interesse di quest'opera sta principalmente nell'ampia elaborazione teorica degli ormai significativi risultati delle sue ricerche sperimentali, che tende
a costituire una complessa e generale interpretazione dell'embriogenesi. Egli
respinge innanzitutto la teoria di Roux-Weissmann dell'ineguale divisione del
plasma germinale, sostenendo che ogni nucleo cellulare contiene tutti i fattori
determinanti dell'uovo. Ma ritiene tuttavia che le disposizioni presenti nel
nucleo delle cellule non determinino per sé sole la formazione dell'embrione.
Questa avviene mediante processi elementari di divisione, accrescimento, migrazione, ecc., delle cellule che vengono prodotte da stimoli formativi i quali « scatenano » nelle cellule stesse risposte specifiche e differenti.
Per chiarire meglio le trasformazioni delle varie porzioni dell'embrione
egli introduce inoltre due concetti fondamentali. Il primo è quello di significato
prospettico, che indica tutto ciò che concretamente e di fatto deriva nell'embrione
dallo sviluppo di una determinata parte. Il secondo è quello di potenza prospettica che indica tutto ciò che può derivare, in particolari e diverse condizioni
(come quelle sperimentali) dallo sviluppo di quella determinata parte. Ad esempio nella prima divisione dell'uovo di riccio di mare il significato prospettico
di ciascuna delle due cellule è quello di una parte diversa di embrione, mentre
quando ciascuna delle due cellule sia separata la sua potenza prospettica è quella
dell'embrione intero. In base a queste considerazioni Driesch può enunciare alcuni principi generali. Ad esempio la potenza prospettica di tutte le parti dell'embrione si riduce progressivamente man mano che si compie l'ontogenesi. Ed
inoltre il principio, d'importanza decisiva per tutta la sua teoria e per le conseguenze vitalistiche che da essa trarrà, secondo cui « il significato prospettico di
ogni cellula è funzione della sua posizione rispetto al tutto » .
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Driesch illustra questo schema, che rappresenta un sistema equipotenziale armonico, con la seguente didascalia: «Secondo la teoria meccanicistica della vita questo sistema dovrebbe possedere una ignota e
complicatissima macchina, completa: a) nella lunghezza totale del sistema; b) in ciascuno dei volumi
uguali V l> V 2 , V., ecc... ; c) in ciascuno dei volumi ineguali W, X, Y; d) in ogni immaginabile volume, di
grandezza qualsiasi. Perciò la teoria meccanicistica della vita è assurda», dall'opera Philosophie des
Organischen (Lipsia 1909) di Hans Driesch.
Questo princ1p10 esprime l'idea fondamentale che sta alla base di tutta
la concezione embriologica di Driesch e cioè che il processo ontogenetico deve
essere ricondotto a due fattori fondamentali:
a) le particolari disposizioni contenute nella cellula o meglio nel nucleo;
b) gli stimoli formativi esterni alla cellula stessa, che agiscono a distanza
su di essa, partendo da punti dislocati nell'ambito della normale simmetria e
polarità dell'embrione.
Egli avanza inoltre l'ipotesi che il nucleo sia fondamentalmente costituito da una miscela di fermenti; perciò, egli dice, « noi non parliamo di una
struttura del nucleo; cosicché la nostra teoria rispetto alla forma in quanto
tale è nel suo aspetto esteriore anche epigenetica: la forma iniziale, la struttura
dell'uovo è molto più semplice che la sua forma terminale ». Egli si contrappone così in modo netto alla teoria preformistica dello sviluppo embrionale di
Roux-Weissmann, che egli considera una semplice «fotografia del problema»,
in quanto non dice altro se non che ciò che deriva da una qualsiasi parte dell'embrione è latente in essa.
Benché Driesch si sia limitato sinora ed anche in un successivo articolo
del I 896 a formulare una teoria detla vita come macchina appare ormai chiara in
lui la propensione verso il vitalismo, della cui necessità egli si convinse intimamente nel 1895, riflettendo sul problema dell'azione umana. Solo nel 1899 egli
giunse però a dichiarare apertamente la sua posizione nell'articolo Die Lokalisation morphogenetischer Vorgange. Ein Beweis vitalistisches Geschehens (La localizzazione dei processi moifogenetici. Una prova del processo vitalistico).
Egli prende qui l'avvio da un altro esperimento di rigenerazione da lui compiuto nel 1895 sull'embrione di riccio di mare. Tagliando a metà quest'embrione
nella fase di gastrula, ciascuna delle due metà ricostituiva un embrione completo. Ciò che lo colpì in questo esperimento era il fatto che l'intestino primitivo dell'animale veniva ricostituito con la sua triplice partizione regolarmente
proporzionata. Ora, egli afferma, nelle due metà della gastrula non è possibile ammettere che vi sia un punto da cui possa partire lo stimolo formativo
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che determina questa tipica tripartizione dell'intestino, vale a dire questa « localizzazione morfogenetica ». Ciò in quanto il materiale dell'intestino « è localmente uniforme e neppure si danno cause che siano in questo senso non uniformi». Si tratta perciò di un processo di localizzazione incomprensibile in
base ai processi elementari della natura sinora conosciuti, e che deve quindi
essere considerato di tipo non meccanico ma vitalistico.
Egli osserva inoltre che questa considerazione va fatta anche per altri casi
di rigenerazione in cui gli stimoli formativi non sono collegabili all'orientamento
dell'uovo e quindi ad una tipica posizione della parte rispetto al tutto. Bisogna
ammettere cioè, per quest1 processi, una specifica risposta regolativa che non può
essere di tipo meccanico pur essendo inerente al sistema in quanto tale. Questa
proprietà induce quindi a considerare tale stato dell'organismo come un sistema
equipotenziale armonico. Equipotenziale perché da ogni parte ne può derivare
ogni altra, armonico in quanto le parti così prodotte mantengono la loro proporzione rispetto al tutto.
Tale risposta regolativa o « processo indeterminato » di adattamento assume
un carattere vitalistico - come osserva Frederick B. Churchlll- proprio per
il modo con cui Driesch intende il sistema stimolo-risposta. Cioè nei casi tipici
di sviluppo gli stimoli formativi sono in grado di controllare meccanicisticamente la proporzionalità del nuovo tutto organico per via della loro normale
sfera d'influenza attraverso una sorta d'azione a distanza. Nel caso invece dei
sistemi equipotenziali armonici, che partono da uno stadio atipico, si ottiene una
ridistribuzione proporzionale dei vari elementi nel tutto, prima che un'ipotizzabile catena regolativa di eventi fisico-chimici ristabilisca il sistema nell'orientamento che permette il normale meccanismo stimolo-risposta.
Il motivo principale per cui Driesch non ritiene ipotizzabile una tale catena causale regolativa sembra dovuto all'omogeneità dj struttura che egli, in
contrasto con Weissmann, attribuisce al nucleo o meglio alla sua cromatina.
Tale omogeneità non permette infatti di supporre che nel nucleo sia predisposto
un così complesso meccanismo di regolazione.
Dopo aver così dimostrato, diversamente dalle altre forme di vitalismo,
l'esistenza d'una «legge elementare specifica» dei processi vitali, Driesch si preoccupò in numerosi scritti successivi di svolgere sempre più accuratamente la sua
nuova concezione. Il più noto di questi scritti è forse Der Vitalismus als Geschichte und Lehre (llvitalismo, storia e dottrina, 19os), in cui ribadisce la necessità
di considerare il fattore regolativo dei sistemi equipotenziali armonici come un
fattore specifico vitale. Se esso fosse infatti di natura fisico-chimica « sarebbe
forza concludere che qualunque parte immaginabile di un sistema armonico
dovrebbe di necessità racchludere in sé quel meccanismo infinitamente complicato in tutta la sua interezza. Di più poiché ciascuna parte del sistema, presa
assolutamente, può compiere qualsivoglia funzione regolativa, quando venga arti-
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ficialmente separata dal tutto nell'esperimento (nel quale, si sa, i tagli sono fatti
ad arbitrio ed in punti indeterminati); ciascun elemento del sistema dovrebbe
contenere ciascuna parte del meccanismo infinitamente complicato, e questa
parte dovrebbe essere, in ciascuna nuova esperienza, quella di un meccanismo
diverso. Ma in tal modo avremmo di necessità nel sistema un numero infinito
di meccanismi, l'uno sovrapposto all'altro ad una distanza infinitamente piccola, l'uno spostato rispetto all'altro di un differenziale».
In queste riflessioni sembra che Driesch non consideri la cellula come l'elemento vitale minimo. Ma in un passo successivo considerando gli elementi
del sistema afferma: « Sappiamo che tutti questi elementi procedono in fondo
da uno solo, da una cellula, da cui si sono andati via via formando per divisione
cellulare. Sicché il primo elemento dovrebbe necessariamente aver contenuto
in sé quello stesso meccanismo. Ne verrebbe di conseguenza che l'ipotetico
meccanismo, dotato di complessità tipica infinitamente grande, si è suddiviso
ripetute volte pur rimanendo tuttavia intero nelle sue parti. Ma questo ancora
una volta non avrebbe senso, sarebbe assurdo. È forza concludere perciò che
nessun meccanismo immaginabile può aver subito una divisione ripetuta, senza
pregiudizio della sua integrità. » Da queste e da altre affermazioni risulta chiaramente che per Driesch lo stesso fenomeno dell'eredità non poteva essere spiegato in termini fisico-chimici, ma richiedeva l'intervento di un fattore vitale.
Ciò poteva ancora essere sostenuto all'inizio del secolo, ma doveva risultare
un'affermazione sempre meno plausibile nel corso delle discussioni e degli studi
che andavano sorgendo attorno alla genetica.
Driesch si andava ormai distaccando dal lavoro sperimentale e dalla ricerca scientifica per occuparsi sempre più di filosofia, nel cui ambito egli voleva precisare innanzitutto il significato e le implicazioni generali del fattore
vitale che egli aveva chiamato col nome aristotelico di entelechia. A questo argomento egli dedicò buona parte di un ciclo di conferenze che tenne in Inghilterra e che vennero pubblicate nel 1909 col titolo The science and philosopl!J of the
organism (Scienza e filosofia dell'organismo), ed in cui espone e rielabora il contenuto di scritti precedenti. In questi egli aveva affermato che l'esistenza dell'entelechia non è dimostrata soltanto dai processi di rigenerazione e di riproduzione ma anche dalla «base storica » e dalla «individualità di coordinazione » che
si rilevano nelle risposte o reazioni degli animali agli stimoli ambientali. L'entelechia risulta perciò il fattore per cui gli organismi possono costituire una
classe di fenomeni autonomi accanto agli altri della natura. Essa è un agente
della natura (non spirituale e non metafisica) che è privo di carattere spaziale,
ma tuttavia opera nello spazio. Essa pur non essendo una forma d'energia interferisce nella causalità naturale pur senza violare il principio di conservazione
dell'energia. Come ciò possa accadere è per Driesch un problema non insolubile; ad esemp10 l'entelechia può sospendere un processo trasformando la
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energia cinetica in energia potenziale o all'inverso può liberare qell'energia
vincolata.
Senza soffermarci sulle evidenti difficoltà di queste affermazioni, ricorderemo soltanto come Driesch si sia notevolmente impegnato nel tentativo d 'inquadrare il suo vitalismo in una concezione epistemologica generale. Nella
sua opera Ordnungslehre (Dottrina dell'ordine, 191z) egli cercò ad esempio di derivare il vitalismo dalla categoria di causalità totale (Ganzheitkausalitiit) mentre
nell'opera Wirklichkeitlehre (Dottrina della realtà, 1919) elaborò una metafisica
induttiva sui temi della moralità, dell'anima e della natura.
In altri numerosissimi scritti egli si occupò di vari problemi come quelli
della psicologia e, negli ultimi anni, della parapsicologia (spiritismo, telepatia,
ecc.). Un'intensa attività per la diffusione delle sue idee anche a livello internazionale accompagnò costantemente il suo insegnamento filosofico che egli
intraprese nell'università di Heidelberg e continuò in quelle di Colonia e di
Lipsia ove nel 1933 con l'avvento del nazismo egli fu costretto a dimettersi.
Nel complesso l'opera di Driesch ha avuto un'influenza notevole nella
cultura dei primi decenni del Novecento. Ciò non tanto per i suoi scritti filosofici, spesso astrusi e scarsamente convincenti, ma per il modo sorprendente con
cui egli seppe presentare il suo vitalismo: cioè non quale riflessione filosofica
sui fenomeni della vita, come era accaduto per Reinke, ma come una conseguenza necessaria di risultati sperimentali estremamente rigorosi e brillanti,
condotti in un campo che allora costituiva uno dei settori più avanzati della
ricerca biologica. Le sue argomentazioni dimostrative in favore del vitalismo
non raccolsero il consenso degli specialisti ma cionondimeno suscitarono una
profonda impressione. La sua teoria esprimeva la profonda crisi del pensiero
biologico, ma fu anche uno stimolo profondo e decisivo per i dibattiti e le riflessioni scientifiche e filosofiche più consapevoli che in tale crisi maturarono.
pz
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CAPITOLO UNDICESIMO
Freud e la psicoanalisi
DI ELENA ZAMORANI
I
· PREMESSA
Psicoanalisi è il nome di un procedimento di indagine di processi psichici che
altrimenti sarebbe impossibile raggiungere; di un metodo terapeutico per il
trattamento di disturbi nevrotici, fondato su questa indagine; di una serie di conoscenze psicologiche, acquisite attraverso questo procedimento e che gradatamente convergono in una nuova disciplina scientifica.
Come procedimento di indagine di processi psichici, la psicoanalisi si pone in
modo rivoluzionario rispetto ai metodi della psicologia sperimentale che nella
seconda metà del secolo scorso nasceva negli istituti e laboratori universitari, pur
essendo sorta dallo stesso hu111Us culturale impregnato di spirito positivo. La psicologia sperimentale cercava di conferire rigore scientifico alle indagini sui fenomeni
psichici, applicando ad essi misure quantitative in esperimenti basati sulle associazioni, i tempi di reazione, la raccolta di materiale per lo più tratto dall'osservazione sistematica di dati autopercettivi. In questa prospettiva l'individuo appare
una variabile da misurarsi con opportune cautele metodologiche onde cogliere
l'universalità del processo psichico e una tipologia delle devianze. Con la psicoanalisi l'accento viene invece posto sulla universalità della deformazione apportata
dai desideri e le motivazioni inconscie dell'individuo, e quindi sulla tendenziosità
del comportamento umano, compreso quello dello sperimentatore.
Al posto delle cristalline leggi dell'associazionismo e del meccanicismo, la
psicoanalisi si trova di fronte alle schegge di un cristallo frantumato dalla nevrosi,
dal misterioso meccanismo dell'oblio, dalle distrazioni della mente vigile, dal
delirio notturno del sogno; ma come in un cristallo le linee di sfaldatura non sono
arbitrarie, bensì determinate in precedenza dalla struttura del minerale, così
Freud ritenne che là dove apparivano lacune e strappi era possibile scorgere l'articolazione profonda dei processi psichici. Da questa analisi emerge soprattutto
un dato: la coscienza non è che una qualità - per giunta incostante - dello
psichico, che è in gran parte inconscio. È questo il campo di indagine della psicoanalisi. Il concetto non era nuovo alle teorie filosofiche, ma la psicoanalisi lo
ha fatto proprio scientificamente, dandogli un nuovo contenuto.
313
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Freud e la psicoanalisi
Come metodo terapeutico di specifiche condizioni morbose, la psicoanalisi
tende ad agire non sintomaticamente, cioè sui soli sintomi, né procede solo descrittivamente, ma agisce sullo stesso processo morboso che si manifesta nei sintomi. Per questo usa del metodo delle associazioni spontanee, cui il paziente è
invitato ad abbandonarsi, non escludendo dalla comunicazione al terapeuta nessuna delle improvvise idee, immagini, fantasie che possono emergere alla superficie della coscienza. Compito del terapeuta è quello di interpretare la direzione
ed il significato del materiale fornito dal paziente con le libere associazioni, rintracciando il senso delle omissioni e delle discordanze per trasformare in processi
coscienti i meccanismi inconsci.
Ponendo il conflitto fra realtà e desideri al centro di ogni nevrosi, e considerando quest'ultima un soddisfacimento sostitutivo di desideri inappagati, la
psicoanalisi mostra come anche altre manifestazioni della vita umana (quali l'arte,
la morale, la religione) siano riconducibili almeno in parte allo stesso conflitto
che può generare la nevrosi, come vie che gli uomini hanno preso per legare i
loro desideri insoddisfatti, nel variare e mutare delle condizioni storiche di esaudimento e di rifiuto da parte della realtà.
Desideri che Freud rintraccia nell'infanzia, portando alla luce il conflitto
edipico, le inclinazioni narcisistiche o perverse, le fasi dell'erotismo e la brama
di sapere sessuale, rimossi e sepolti nell'inconscio di ciascuno, e mostrando da
quale terreno profondamente scavato nascano le nostre « migliori virtù », formazioni reattive e sublimazioni attraverso cui pulsioni asociali e perverse vengono distolte dalle loro mete originarie e dirette verso mete socialmente più apprezzate.
La psicoanalisi ha quindi spostato il centro di gravità dell'indagine psicologica dalla sfera conscia a quella inconscia, interpretando il comportamento
umano alla luce del suo passato infantile e irrazionale; da qui parte l'accusa di
irrazionalismo rivolta a questa dottrina. Possiamo invece affermare che Freud
ebbe il coraggio scientifico di non trascurare ciò che pareva assurdo e di non
accontentarsi di ciò che pareva coerente, cercando di rintracciare il processo di
costruzione della ragione, permeata di desideri, svelando le interferenze e le distorsioni rispetto alla realtà operate dai processi affettivi inconsci. Freud ha cioè
scoperto un nuovo aspetto del reale, distruggendo non il valore della coscienza,
ma le pretese della falsa coscienza, disvelando come questa travesta e giustifichi
quei moventi che non vuole riconoscere: « Con tutto ciò, » scrive Freud, « non
è detto che la qualità della coscienza abbia per noi perduto il suo significato. Resta
la sola luce che splende nell'oscurità della vita psichica e ci guida.» Questa scoperta di un campo del reale, scoperta che è frutto della ragione, esprime una profonda tensione razionale a conoscere ed esaminare forze ed impulsi che - nel regno della naturalità immediata - ci dominano; aspetto questo che lega Freud alla
cultura della tradizione illuministica, convinta che « il sonno ·della ragione genera
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Freud e la psicoanalisi
mostri». L'aver mostrato la vastità delle forze estranee alla ragione è una delle
cause delle resistenze alla psicoanalisi, che nasce dalla demistificante scoperta che
l'io non è padrone incontrastato in casa propria.
La validità scientifica ed euristica della teoria di Freud è inoltre comprovata
dal fatto che non solo illumina con la luce della ragione zone prima di allora oscure,
ma anche dal fatto che le sue categorie sistematizzanti ed interpretative dimostrano
la loro efficacia con la capacità di sistemare grandi quantità di dati empirici che
prima di allora non avevano trovato una spiegazione coerente.
II · STUDI SULL'ISTERIA E NASCITA DELLA PSICOANALISI
Sigmund Freud nacque il 6 maggio I 8 56 a Freiberg (oggi Pribor, in Cecoslovacchia) da Jacob, mercante di lana ebreo, sposatosi in seconde nozze con
Amalie Nathanson. Pochi anni dopo la sua nascita, il padre, coinvolto in una grave
crisi della manifattura tessile, acutizzata dall'inflazione, si trasferì a Vienna, città
in cui Sigmund compì tutti gli studi e in cui visse sino all'anno precedente la
morte.
Nel I873 Freud si iscrisse all'università; a quell'epoca la scelta per un ebreo
era ancora limitata all'alternativa tra giurisprudenza e medicina: nella sua autobiografia, Freud rammenta come dal suo desiderio di studiare legge e di dedicarsi
ad attività politiche e sociali, venisse distolto in virtù dell'attrazione che esercitarono su di lui le teorie di Darwin, che promettevano grandi progressi nella comprensione del mondo, e dell'entusiasmo suscitato dalla lettura di un saggio
goethiano sulla natura. Alla base dei suoi interessi egli pone, accanto allo studio
precoce della storia biblica, una curiosità, volta più ai rapporti umani che agli
oggetti naturali, che non aveva ancora trovato nell'osservazione il suo principale
mezzo di soddisfazione.
Gli anni d'università costituirono per Freud un severo tirocinio: da una parte
egli s'abituò, quale ebreo discriminato, al destino di trovarsi nelle file dell'opposizione e all'ostracismo della maggioranza compatta, dall'altra parte nell'istituto
di fisiologia di Ernst Briicke (I8I9-92) egli trovò il modello di disciplina scientifica in cui incanalare la propria curiosità, soddisfacendo al bisogno di rigore e
meticolosità. Qui inoltre si formò quella particolare cornice fisiologica in cui
cercò poi d'inquadrare le sue scoperte in psicologia. Sono di questi anni (I8768z) gli studi sull'istologia delle cellule nervose, in cui appare una concezione
unitaria della cellula, base della futura teoria del neurone; studi che dovette interrompere quando Briicke gli fece intendere che non gli sarebbe stato possibile
continuare la carriera di ricercatore per la mancanza di un patrimonio personale e
l'impossibilità per lunghi anni di trovare una sistemazione economicamente soddisfa~ente presso l'istituto. Freud, che si era appena laureato (I 88 I), cominciò
dunque ad esercitare presso l'ospedale generale di Vienna, e divenne assistente di
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Meynert,l specializzandosi in neurologia (I 8 8 5) con alcuni lav ori sul midollo
spinale, in cui fra l'altro metteva a punto un nuovo metodo di preparazione dei
fasci nervosi (colorazione al cloruro d'oro).
Dalle lettere e dagli scritti di Freud risulta come egli fosse soprattutto teso a
compiere qualche importante scoperta, sia in campo clinico sia in patologia, cui
legare la fama del proprio nome. Fu allora che gli capitò l'infortunio della cocaina,
di cui parlerà con disappunto ancora quarant'anni dopo: entusiasmatosi delle
virtù terapeutiche ed euforizzanti che riscontrava nella cocaina, i cui effetti non
erano ancora noti, scrisse un saggio passionato su questa sostanza, accennando
nelle conclusioni anche alla sua azione anestetizzante. Ma fu un altro medico suo
collega, Karl Koller, a farne uso in chirurgia oftalmica, acquistando così fama per
un uso benefico della cocaina. Non appena vennero conosciute le caratteristiche
dello stupefacente, Freud venne gravemente incolpato dai medici viennesi per la
sua apologia della « droga ».
Nello stesso periodo intanto Freud si fidanza con Martha Bernays, che sarebbe
divenuta la compagna della sua vita, e comincia ad occuparsi di quegli strani
pazienti che erano i « malati di nervi», discutendone con un medico più anziano
che gli fu nel contempo amico, maestro e mecenate: Josef Breuer. 2
Nel 1886, di ritorno da Parigi dove si era recato con una borsa di studio per
assistere alle lezioni e al lavoro che Jean-Martin Charcot (182.5-93) svolgeva alla
Salpetrière, a trent'anni Freud si sposa e apre il suo primo gabinetto medico,
avendo deciso di « vivere con la cura delle malattie nervose ».
Sceglieva così di guarire malati che sperimentavano tutte le cure passando da
un medico all'altro, e inimicandoseli tutti con la loro refrattarietà ad ogni rimedio,
malati dai sintomi più vari il cui quadro clinico non corrispondeva ad alcuna lesione ·
organica percepibile. Constatata subito l'inefficacia dell'elettroterapia, il rimedio
di voga a quel tempo, Freud cominciò a curare i suoi malati facendo uso dell'ipnosi, tecnica che permetteva di eliminare i sintomi patologici (di natura varia:
da contratture a paralisi senza base organica a fobie, idee fisse, ecc.), inibendoli
attraverso la suggestione, e che Breuet usava anche come strumento esplorativo
per indagare la genesi dei sintomi stessi. Si può affermare che l'origine della psicoanalisi coincide con il superamento e l'abbandono della tecnica ipnotica, compiuti da Freud sulla base deile conoscenze, delle esperienze, dei problemi e delle
insoddisfazioni generati da quella pratica stessa.
La storia della psicoanalisi e della sua origine è stata più volte scritta e tiscritta da Freud stesso, convinto come era della necessità di divulgate il più
possibile al pubblico non specializzato il sapere di cui eta l'osteggiato portatore,
anche se altrettanto convinto che un approccio libresco ed astratto dei suoi prinI Theodor HermannMeynert(1833-92.),anatomista del cervello e direttore della clinica psichiatrica.
2. Josef Breuer (184Z-I9Z5), noto fisiologo
ed internista ebreo viennese, seguace della scuola
di Helmholtz e membro corrispondente dell'Accademia viennese delle scienze, fu strettamente
legato a Freud negli anni x88Z-94·
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cipi non poteva sostituire la reale conoscenza di questi, che è essenzialmente
pratica e coinvolge tutta l'esperienza personale.
La ricostruzione che egli ci dà dei primi anni delle sue ricerche risulta però
notevolmente più lineare di quanto non appaia dalla lettura diretta delle opere (e
lettere), dalle quali emergono esitazioni, dubbi, tentativi di soluzioni in direzioni
poi abbandonate e in generale il faticoso processo attraverso cui Freud giunse alla
enunciazione dei suoi principi, mai come corollari di quel corpo istituzionalizzato
che siamo oggi abituati a chiamare psicoanalisi, ma piuttosto come avvicinamenti
progressivi all'esplicazione di fenomeni reali. In questo processo non mancarono
momenti di dubbio totale in cui veniva messa in forse tutta la validità della ricerca.
E dò sin dall'inizio, come nel 1886 quando Freud tenne una serie di lezioni
sull'isteria che suscitarono reazioni molto sfavorevoli nella società medica viennese. In particolare non si riconosceva valore euristico alla tipologia stabilita da
Charcot (distinzione fra la grande e la piccola isteria) ed alla sua teoria delle cause
isterogene, che escludeva che la ricchezza stravagante dei sintomi fosse dovuta
alla simulazione da parte dei malati e negava che l'origine di questi fenomeni fosse
da ricondurre - come allora generalmente si riteneva - ad una modificazione
degli organi genitali femminili. Sfidato da Meynert, Freud presentava un caso di
isteria maschile, ma l'accoglienza dei medici viennesi diede a Freud un'impressione di rifiuto e disinteresse tali da dissuaderlo a cercare consensi su questo
particolare argomento.
L'autorità dei suoi maestri era tale che Freud stesso dubitò delle proprie intuizioni, né ciò avvenne per la prima volta: già quando aveva esposto a Charcot
la storia clinica divenuta poi celebre come il « caso di Anna O. », di cui era stato
messo al corrente da Breuer, lo scarso interesse dimostrato dal medico francese
sembrò affievolire la sicurezza di Freud sul valore rivoluzionario del nuovo impiego della tecnica ipnotica ideato da Breuer. Ciononostante continuò ad occuparsi di quei fenomeni che la scienza ufficiale rifiutava di prendere in considerazione, ed anzi approfondì le sue conoscenze andando a Nancy (1 889), dove lavoravano Auguste Liebault (I8z3-1904) e Hyppolite Bemheim (1837-1919), noti
psichiatri che facevano uso dell'ipnosi. Il buon nome di Freud, già compromesso·
dall'incidente della cocaina, era molto decaduto, tanto che Meynert ironizzava
sulla sua professione di « ipnotizzatore », come se dopo un brillante inizio quale
fine fisiologo e anatomista si fosse abbandonato ad attività cialtronesche. In
realtà, nonostante il livello un po' basso di queste accuse, ciò che i medici viennesi
sentivano messo in pericolo dalle ricerche del giovane collega era qualche cosa di
molto importante e su cui si basava tutto l'orgoglio della loro professione: dopo
l'ubriacatura della Naturphilosophie, gli scienziati consideravano nebulose e fantastiche le astrazioni con cui la psicologia era costretta a lavorare, e si sentivano
impegnati a ricondurre ogni fenomeno psichico, che come tale non era scientificamente trattabile, a cause somatiche anatomiche o chimiche. Ciò era in sintonia con
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la rivoluzione materialista così proficua per l'avvenire della biologia, fisiologia e
neurologia, di cui è significativa espressione il giuramento della scuola di Helmholtz: «Nell'organismo non agiscono altre forze al di fuori di quelle fisico-chimiche. In tutti i casi che non possono esser spiegati in tal modo, o si deve trovare il
modo o il tipo della loro azione servendosi del metodo fisico-matematico, oppure si devono introdurre nuove forze di dignità pari alle forze fisico-chimiche
che reggono la materia, e riconducibili alla forza di attrazione e repulsione». Di
questa scuola Briicke era uno dei massimi esponenti e - come egli amava considerarsi - « ambasciatore » a Vienna.
Si spiega quindi come l'interesse di Freud per fenomeni così poco quantificabili quali l'ipnosi e l'isteria fosse vissuto come un tradimento, tanto più grave
in quanto egli aveva fatto parte della schiera delle giovani promesse dell'istituto
di fisiologia di Briicke, mentre ora sembrava essersi lasciato contagiare dalla brillante superficialità dei francesi. In verità il piano di Freud era molto ambizioso, ma
p.on si scostava dal giuramento programmatico della Berliner Physikalische Gesellschaft: egli voleva rappresentare i processi psichici come degli stati quantitativamente determinati di particelle materiali discernibili, per scoprire una teoria del
funzionamento mentale in cui introdurre il concetto di quantità: insomma una
specie di economia delle forze nervose. Significativamente però questo « progetto » non venne mai completato, e ne siamo a conoscenza solo perché venne spedito
da Freud all'amico Wilhelm Fliess, 1 il cui carteggio con Freud ci è fortunosamente pervenuto. Queste lettere sono un documento insostituibile per la ricostruzione dell'affascinante avventura che sta all'origine della psicoanalisi attraverso il
discontinuo emergere delle ipotesi e il loro rivolgimento.
Sino al 1892.,2 Freud non pubblicò nulla sull'isteria e le nevrosi in generale,
nonostante che l'abbozzo del suo primo articolo sulla diagnosi differenziale delle
paralisi organiche da quelle isteriche fosse già stato rielaborato nel periodo immediatamente successivo al suo ritorno da Parigi. Il problema tuttavia non cessava
I Wilhelm Fliess (1858-I9z8), otorinolaringoiatra ebreo berlinese, autore della « teoria dei
periodi». Nella sua opera principale, Der Ablauf
des Lebens (Il corso della vita, 19o6), dall'osservazione della periodicità del ciclo mestruale formula una
più ampia ipotesi (sorretta da errate deduzioni
matematiche) sull'importanza della periodicità nell!!
vita umana in generale. In particolare, rifacendosi
alla costituzione bisessuale di tutti gli esseri umani,
riconduce la natura specifica delle nevrosi a variazioni periodiche, postulando un interferire di periodi femminili e periodi maschili. Di formazione
scientifica simile a quella di Freud, gli fu amico e
corrispondente negli anni I897-19oz.
2 L'ultima opera di argomento neurologico
scritta da Freud è del 1897, ma il maggior suo
contributo alla neurologia è Zur Au.lfassung der
Aphasien (Per la concezione delle afasie, 1891). In
essa Freud dissente dalle teorie di Wemicke e
Meynert che tendevano a localizzare schematicamente in precisi « centri » del cervello le sedi del
linguaggio e in genere di tutte le funzioni, e
avanza una spiegazione funzionale, secondo cui i
centri sono punti nodali di un circuito generaie
responsabile delle funzioni, rifacendosi alla teoria
della «disinvolution» di Hughlings Jackson, secondo
la quale in caso di lesione, inibizione, ecc., essendo
le funzioni di recente acquisizione più fragili, si
tende a tornare a un modo di funzionamento anteriore (tale concetto verrà utilizzato da Freud,
nella teoria della libido, come regressione ad una fase
di organizzazione più arcaica). Anche come neurologo quindi Freud si era emancipato da una
concezione atomistica di corrispondenza punto a
punto fra condizioni organiche e fenomeni psichici, cioè dagli aspetti più meccanicistici della scuola
di Helmholtz.
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Freud e la psicoanalisi
di agitarlo e a Fliess comunicava continue riflessioni sulle nevrosi, il loro carattere
e le loro cause. Da queste lettere veniamo a sapere che i problemi che più interessavano Freud in quegli anni erano la possibilità di arrivare a diagnosi differenziali
tra sintomi psichici e sintomi somatici, le modalità attraverso cui distinguere
sindromi differenziali di sintomi nevrotici e in particolare la ricerca della formula
eziologica determinante l'insorgere di queste sindromi.
Accettata quindi l'isteria come oggetto d'indagine scientifica Freud trae dalla
scienza medica l'impalcatura di queste riflessioni che coinvolgono d'altronde il
più generale problema dei rapporti tra processi organici e processi psichici. Egli
notava come le paralisi e in generale tutti i disturbi della sensibilità di origine
isterica «non conoscono l'anatomia», e affermava inoltre che le «due grandi
nevrosi» (isteria e nevrastenia) differivano per il fatto che nella prima le rappresentazioni psichiche legate allo stato patologico non erano presenti. alla coscienza del
malato, differenza alla quale attribuiva grande importanza dal punto di vista
terapeutico. Rispetto alle idee dell'epoca, infine, Freud era sempre meno portato a
concedere all'ereditarietà o alla degenerazione nervosa (oltre che alle modificazioni anatomiche degli organi sessuali) validità eziologica. I più importanti dubbi
teorici, e in primo luogo quello riguardante il significato e la natura dei sintomi,
furono originati dai problemi pratici posti dalla particolare terapia catartica che
Freud aveva adottato.
Metodo catartico era stato chiamato da Breuer un singolare metodo di cura
che egli aveva sperimentato su un'unica paziente -la famosa Anna O.- una
giovane donna affetta da molteplici disturbi di origine isterica che andavano da
paralisi a stati di confusione mentale. Posta in ipnosi la ragazza rievocava una serie
di situazioni penose legate al periodo in cui aveva assistito il padre, gravemente
ammalato; in genere si trattava di intense emozioni la cui espressione era stata
impedita. Breuer ne trasse la conclusione che i ricordi corrispondessero a traumi
che non erano stati sufficientemente abreagiti, a cui cioè non fosse seguita una
reazione di scarica della tensione, e notò inoltre il particolare legame fra tali ricordi
ed i sintomi della malata: una volta rievocata la scena traumatica, che veniva
rivissuta allucinatoriamente, senza che venisse impedita l'espressione degli affetti
da essa provocati, il sintomo spariva. Il primo sintomo così guarito fu l'idrofobia
isterica di cui soffriva Anna O.; nello stato di ipnosi risultò che questo sintomo
era l'espressione di una emozione repressa, giacché la paziente narrò, visibilmente
inorridita, come da bambina avesse visto il repugnante cane della sua istitutrice,
da lei non amata, bere da un bicchiere, e come non avesse potuto dare sfogo alla
propria repulsione. L'idrofobia era quindi l'espressione deviata di questa sua
antica emozione; una volta rievocata la scena traumatica e manifestata violentemente durante lo stato di ipnosi la rabbia che le aveva provocato questo episodio,
Anna O. chiese di bere e l'idrofobia sparì per sempre.
Breuer rese sistematico questo procedimento traendone una terapia che con319
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Freud e la psicoanalisi
sisteva nell'esaminare isolatamente ogni sintomo, cercando di giungere attraverso
un percorso che invariabilmente assumeva il carattere di un viaggio a ritroso nel
tempo, sino all'episodio originario che aveva determinato il sintomo, eliminando
poi quest'ultimo mediante lo sfogo (abreazione) verbale. Il metodo, nato in parte
dall'iniziativa dell'intelligente paziente, veniva da lei chiamato talking cure (cura
parlata) o chimney sweeping (pulizia del caminetto).
Freud applicò questo metodo ad altri pazienti e convinse il riluttante Breuer,
che non riteneva si potesse generalizzare la terapia né l'ipotesi esplicativa a tutti
i casi di isteria, a pubblicare un libro. Una «comunicazione preliminare» venne
pubblicata nel I 892, e nel I 895 uscì Studien iiber Hysterie (Saggi sull'isteria), opera di
collaborazione scritta e pubblicata proprio nel momento in cui l'amicizia personale e scientifica tra i due autori era in piena crisi.
Nei Saggi sull'isteria troviamo le storie cliniche di Anna O. e di quattro pazienti
curate da Freud, concluse da un capitolo di considerazioni teoriche scritte da
Breuer e da un capitolo sulla psicoterapia dell'isteria scritto da Freud. Capitoli
questi che rivestono particolare importanza in quanto vi si trovano esplicitate
alcune ipotesi teoriche sull'apparato psichico che saranno implicitamente presenti
anche nelle opere più tarde di Freud e contemporaneamente vi si possono trovare
i punti di disaccordo fra i due autori e il superamento del metodo catartico operato
da Freud. Rifacendosi alle recenti teorie sull'eccitazione e la conduzione delle
fibre nervose e richiamandosi alle leggi dell'elettrologia, Breuer affermava che
l'eccitazione nervosa provoca una perturbazione dell'equilibrio dinamico del
sistema nervoso tale da necessitare una scarica adeguata (abreazione) poiché
sussisterebbe la tendenza a mantenere costante il livello dell'eccitamento (o
principio di costanza, ipotesi quest'ultima di Freud). Breuer postulava che alla base
della formazione dei sintomi fosse un « ingorgo » di affetti determinato dal conflitto fra la forza dell'emozione e la forza delle rappresentazioni che ne impediscono l'espressione; la forza del sintomo risulterebbe quindi dall'er:tergia deviata
dalla scarica adeguata e il suo significato starebbe nell'essere un residuo di esperienze emotive o per meglio dire un simbolo mnemonico di esse. Il fenomeno per
cui l'eccitazione nata da una rappresentazione emotiva intensa si convertiva in
sintomo somatico, sparendo dalla coscienza, era stato chiamato da Freud conversione, e Breuer ipotizzava che tale fenomeno si producesse in base ad un processo, analogo ad un «corto circuito >>, delle resistenze che presiederebbero alla suddivisione regolare dell'eccitazione. Rievocando mediante l'ipnosi la scena traumatica
si poteva avere una scarica adeguata dell'affetto rimasto incapsulato e il sintomo
spariva in quanto svuotato di energia.
Tutto ciò era stato riassunto con la formula: «Gli isterici soffrono di reminiscenze. » Il particolare carattere di queste reminiscenze veniva dal fatto che non
erano presenti alla coscienza: ciò comportava una distinzione tra coscienza e
psichismo e in particolare esigeva una spiegazione dell'oblio delle scene trauma-
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Fre'\d e la psicoanalisi
tiche. Fin dall'inizio Breuer e Freud diedero spiegazioni contrastanti di tale fenomeno: secondo Breuer l'amnesia della scena traumatica dipendeva dal fatto che
essa sarebbe stata vissuta in uno stato di coscienza particolare, ipnoide, assai simile
a quello realizzato in ipnosi. Breuer spiegava in tal modo sia l'amnesia, sia il ritorno spontaneo del ricordo in ipnosi, della quale fondava così la necessità terapeutica, operando una netta distinzione tra stato normale e stato patologico.
Freud supponeva invece che la «malattia » non presentasse processi qualitativamente diversi da quelli della «salute», e che quindi nell'un caso e nell'altro fossero da rintracciare i medesimi meccanismi: tendenze e inclinazioni analoghe a
quelle della vita quotidiana e delle quali poteva variare l'intensità. Secondo
Freud quindi dalla coscienza venivano allontanati stati o impulsi inconciliabili
con l'io: il fenomeno della conversione isterica agiva quale meccanismo di difesa
da tali rappresentazioni, deviandole verso l'espressione somatica ed eliminando
drasticamente la loro contraddizione con i valori coscienti mediante l'esclusione
dalla coscienza o rimozione. Si tratterebbe quindi di un atto di viltà morale, compiuto per proteggere l 'io: il prezzo di tale atto è che il residuo della reminiscenza,
il simbolo mnemonico psichicamente isolato, continua ad agire provocando sofferenza e impedendo una vita normale. Freud supponeva che la stessa forza psichica che si opponeva a che le rappresentazioni patogene diventassero .coscienti,
forza che egli chiamò resistenza, fosse una traccia della forza repulsiva che aveva
allontanato dalla coscienza la rappresentazione per essa insopportabile. Il processo patogeno veniva quindi centrato sulla nozione di conflitto e raffigurato
come un tentativo di fuga: se la risoluzione « normale » di un conflitto fra una
tendenza (o pulsione) e quelle che le si oppongono (resistenze) comporta l'intensa partecipazione della coscienza e la sconfitta della pulsione a cui viene sottratta la carica energetica, nel caso della risoluzione nevrotica invece l 'io si ritira
inconsciamente di fronte all'impulso, negandogli accesso alla coscienza e alla
scarica diretta. Tale fuga comporta molteplici conseguenze: l'impulso infatti,
conservata tutta la carica energetica, costringe l'io ad una deformazione e ad
un impoverimento permanente come scotto del continuo sforzo per resistere alla persistente pressione dell'impulso allontanato, rimosso. Le tendenze rimosse, una volta inconscie, possonç> trovare espressioni sostitutive: tali sono i
sintomi.
Mentre Breuer dubitava della portata del metodo da lui scoperto, considerandolo quasi applicabile ad un'unica ammalata, Freud tendeva invece ad estenderlo
ad ogni paziente, compresi quelli che non riusciva a porre in stato di ipnosi. Per
vincere la resistenza a ricordare, che non dipendeva dunque da un « non sapere »,
ma piuttosto da un « non voler sapere », Freud usò di un artificio tecnico: esercitata una pressione sulla fronte del paziente lo esortava a raccontare quel che gli
veniva in mente, assicurandolo che ciò sarebbe stato in connessione con il sintomo.
Invece di ricercare in modo selettivo e direttivo gli episodi che riportano alla
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scena traumatica primaria, si giungeva alla esplicitazione dei ricordi così evocati
e dei legami con la situazione patogena attraverso la catena delle associazioni. È il
primo passaggio verso il metodo che sarà poi chiamato delle libere associazioni
(Einfall), e già Freud enuncia la regola fondamentale di questa indagine: la rinuncia
cioè da parte del paziente ad esercitare funzione critica nei confronti delle rappresentazioni che si presentassero spontaneamente alla mente. L'abbandono dell'ipnosi non comportava soltanto un ampliamento del numero di pazienti che ora
erano passibili di analisi, ma permetteva anche di percepire meglio la forza della
resistenza opposta al riaffiorare del ricordo e di esplorare lo stratificarsi attorno al
nucleo patogeno dei temi rimossi. L'applicazione dell'ipnosi cela infatti le resistenze: rende accessibile una certa zona psichica, ma in compenso accumula le resistenze ai confini di questa zona, rendendo inaccessibile il nucleo da cui parte il
processo patogeno. Le guarigioni ottenute ipnoticamente portarono inoltre delle
delusioni, in quanto apparve chiaro che accanto all'effetto liberatorio della catarsi
si instaurava, come causa del successo terapeutico un intenso rapporto di dipendenza dal medico, tale che quando questo veniva meno, tutti i sintomi tornavano
a manifestarsi come se non avessero mai trovato una soluzione, o come se essa
fosse stata possibile solo come effetto di suggestione.
Nei Saggi sull'isteria troviamo l'enunciazione della regola fondamentale dell'analisi, l'interpretazione delle molteplici reazioni del paziente invitato ad associare come resistenze, una particolare attenzione al comportamento affettivo
del paziente verso il terapeuta, la considerazione del sintomo come difesa incompleta, cicatrice dolorosa di un processo di rimozione dalla coscienza di immagini incompatibili con l'organizzazione dell'io, una prima ipotesi sulla struttura di
uno stato psichico inconscio, quale prodotto della rimozione; la conclusione che
il compito del terapeuta sta nel trasformare i conflitti inconsci che hanno ostacolato il comportamento adeguato e che sono alla base del processo patologico
in conflitti coscienti tramite il superamento delle resistenze, e non più nel provocare semplicisticamente l'abreazione della emozione (o carica energetica)
impedita.
Poiché la rimozione è un atto di difesa opposto a rappresentazioni inconciliabili con l'io, Freud proponeva di chiamare « psiconevrosi da difesa» l'isteria, le
fobie, le nevrosi compulsive ed alcune forme psicotiche quali i deliri allucinatori.
Specifico dell'isteria rilevava essere il meccanismo di conversione nell'organico
(vomito, paralisi, cecità isterica ecc.) dell'eccitazione psichica derivata da impulsi
rimossi, mentre invece nelle nevrosi compulsive e nelle fobie si verifica una trasposizione di affetto dalla rappresentazione patogena (che può restare cosciente,
ma separata dalla sua carica emotiva) ad un'altra legata ad essa da un «falso
nesso» che le rende incomprensibili. I cerimoniali ossessivi e le fobie derivano
da questi falsi nessi: i cerimoniali corrispondono ad autoaccuse inconscie dettate
dal senso di colpa per desideri inconsci che essi tendono a «cancellare »; le fobie
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indicano timore di venir sopraffatti da questi desideri, da cui esse tendono a
«proteggere ». 1
Freud dichiarerà più tardi che la teoria della rimozione (o della difesa) è la
pietra angolare su cui si basa tutta la psicoanalisi, insistendo però sul fatto che tale
teoria non è una premessa, ma piuttosto una acquisizione del lavoro analitico, una
ipotesi che rende più comprensibili due fatti sperimentali insorti durante il tentativo di ricondurre i sintomi morbosi di un nevrotico alle loro fonti nell'ambito
storico della sua vita: il fenomeno della resistenza opposto al lavoro analitico,
che mira ad una presa di coscienza dei conflitti inconsci, e il fenomeno del rapporto
affettivo con il terapeuta, o traslazione.
Nell'analisi dei conflitti scatenanti i processi delle nevrosi, Freud giungeva
alla conclusione che si trattasse sempre di conflitti fra gli impulsi sessuali del soggetto e le resistenze contro la sessualità. Anche questo fu il risultato del lavoro
empirico come terapeuta, in quanto le associazioni dei suoi pazienti riconducevano sempre a questi temi.
Soprattutto questa asserzione era inaccettabile per Breuer, e determinò la fine
del loro rapporto di collaborazione e di amicizia: egli negò sempre l'esistenza di
tale aspetto nel caso di Anna 0., così come non volle mai prendere atto del particolare legame che si era stabilito tra lui e la ragazza, mentre Freud ancora una volta
colse l'aspetto generale di quello che sembrava un accadimento particolare, e
invece di negare l'imbarazzante incidente della paziente che s'innamora del proprio medico, indicò l'ineliminabile presenza del fenomeno, che sarà più tardi il
fulcro della terapia analitica: « Il fatto della traslazione amorevole od ostile, di
carattere rozzamente sessuale, si presenta durante ogni trattamento di nevrosi,
pur non desiderata suscitata da nessuna delle. parti. »
L'analisi del materiale associativo aveva portato all'osservazione che all'origine di un sintomo non si trova un unico fatto traumatico, ma che il sintomo è
sovradeterminato da molteplici situazioni traumatiche, spesso assai simili, la cui
evocazione si dispone in una successione cronologica che invariabilmente porta
ad episodi di carattere sessuale situati nell'infanzia.
o
III · INTERPRETAZIONE DEI
SOGNI E AUTOANALISI
L'atteggiamento di ricettiva imparzialità di fronte alle sorprese che ogni caso
gli presentava, portò Freud a prestare fede agli episodi di seduzione infantile che
gli venivano narrati con sconcertante regolarità dai suoi pazienti, per cui ritenne
1 Dal gruppo delle psiconevrosi di difesa
Freud distingueva le «nevrosi attuali» (nevrastenia, ipocondria, nevrosi d'angoscia), che sarebbero
contraddistinte da sintomi che non solo si manifestano prevalentemente sul corpo (cefalee, tachicardie, stanchezze ecc.), ma che sarebbero essi
stessi processi somatici nella cui genesi mancano i
meccanismi psichici della nevrosi. Le cause sarebbero rintracciabili nella vita sessuale attuale e dipenderebbero da processi chimico-biologici messi
in atto dall'insufficienza del soddisfacimento sessuale. Solo nel 1932 Freud considerò l'angoscia,
emozione caratteristica di questo gruppo di nevrosi, un processo interamente psichico.
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che episodi sessuali infantili fossero alla base di ogni nevrosi ed espresse chiaramente il suo punto di vista nel I 896 in un articolo che riportava alcune conferenze
tenute alla Società di psichiatria e neurologia di Vienna. Dalle lettere a Fliess possiamo vedere come egli considerasse ormai risolto l'enigma delle psiconevrosi: la
seduzione infantile (in genere perpetrata dal padre o da un fratello maggiore)
determinava la malattia, a seconda se questo incidente sessuale primario fosse stato
vissuto con disgusto (futura isteria) o con piacere poi colpevolizzato (futura nevrosi compulsiva). Si può trovare nella teoria della seduzione infantile una traccia
della eziologia traumatica di Charcot, e Freud la considerò per un certo tempo il
caput Nili di ogni nevrosi.
Nelle relazioni che Freud mandava all'amico berlinese sui progressi da lui
compiuti nella comprensione dei meccanismi nevrotici, troviamo un approfondimento delle conoscenze dei meccanismi di difesa che lo porta a studiare fenomeni
quali l'oblio, il sogno e l'allucinazione. Il suo interesse per un fenomeno apparentemente così assurdo e indecifrabile come il sogno era acuito dal frequente intersecarsi dei sogni nelle associazioni dei pazienti. Nel I895 egli scrive a Fliess di aver
trovato in un proprio sogno la conferma del fatto che il contenuto del sogno è
l'appagamento di un desiderio: si tratta del celebre sogno della «iniezione a
Irma», di cui Freud riporterà l'analisi nella Interpretazione dei sogni (Traumdeutung),
e per cui si chiederà scherzosamente se verrà messa un giorno una lapide commemorativa sulla casa in cui gli si svelò il segreto del sogno. La concezione da lui esplicitata è infatti la chiave di volta su cui poggia la complicata architettura della sua
opera sull'interpretazione del sogno, che verrà pubblicata solo nel I9oo, cioè dopo
cinque anni che furono tra i più importanti per Freud e per la psicoanalisi.
Al momento ne derivò lo Entwurf einer Psychologie (Progetto di una psicologia)
(che inviato da Freud a Fliess, venne pubblicato solo nel I 9 5o), tentativo di spiegare in termini neurofisiologici l'intera psicologia, tenendo conto degli aspetti
dinamici che veniva scoprendo nelle sue indagini. In tale manoscritto si trova lo
sviluppo di una serie di concetti e principi fondamentali per una teoria generale del
sogno e in particolare: l'affermazione che il carattere allucinatorio della scena
onirica dipende dall'assenza di un normale contatto con la realtà; il principio
che il significato del sogno va ricercato nel desiderio che vi si attua, e la scoperta
della logica del sogno, assai diversa da quella del pensiero cosciente. La comprensione della natura particolare del linguaggio del sogno permetterà una migliore e più ampia comprensione di conflitti inconsci (« i sogni racchiudono in un
guscio di noce la psicologia della nevrosi ») e Freud si avvalse di questo metodo
soprattutto su se stesso. Fu mentre redigeva la parte dedicata alla rimozione, che
Freud si convinse di aver individuato il fattore eziologico specifico e differenziale
delle psiconevrosi nella seduzione operata in genere dai genitori sui propri bambini. Questo era un risultato che Freud accolse con riluttanza, ma che pareva sistematicamente confermato dal materiale fornito dalle analisi dei suoi pazienti.
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Alcuni sintomi che Freud riscontrò su se stesso e nei propri fratelli, dopo la morte
del padre avvenuta nell'ottobre I 896, gli confermarono il sospetto che egli stesso
potesse essere stato oggetto di seduzione da parte del padre. Sotto la spinta delle
impressioni e dei conflitti interiori acuiti dalla morte del padre, Freud decise di
applicare a se stesso un'analisi quale quella a cui sottoponeva i suoi pazienti. A
Fliess egli scrive: « Il malato che oggi più mi preoccupa sono io stesso ... Questa
analisi è più difficile di ogni altra ed anche la cosa che paralizza la mia capacità di
scrivere e comunicare ciò che finora ho appreso. Tuttavia credo che debba essere
fatta e che sia un preliminare necessario per il mio lavoro. »
Il primo risultato di questa autoanalisi fu il crollo della teoria a cui egli legava
la speranza di un avvenire sicuro dal punto di vista professionale e scientifico.
In una lettera a Fliess del I 897 espone tutte le contraddizioni che si oppongono alla
credibilità delle sue tesi sulla seduzione infantile, e nello stesso tempo avanza una
possibile soluzione: il fatto che nell'inconscio non esista alcun indice di realtà
(concetto già sviluppato nel Progetto), per mezzo del quale distinguere la verità
dalla finzione emotiva, mentre da una parte riduceva da fatti realmente accaduti
a fantasie gli episodi di aggressioni sessuali subite nell'infanzia, dall'altra rendeva
assai significativo il fatto che queste fantasie ruotassero sempre intorno alle figure
dei genitori. Molti anni dopo scrisse: « Quando questa eziologia crollò per la ~ua
stessa inverosimiglianza e per la contraddizione con situazioni sicuramente accertabili, seguì uno stadio di totale perplessità. L'analisi aveva condotto per via cor- ·
retta a tali traumi sessuali infantili, e tuttavia questi erano falsi. Si era dunque
perduto il terreno della realtà. A quel tempo avrei volentieri abbandonato tutto il
lavoro come aveva fatto il mio predecessore B:reue:r in occasione della sua indesiderata scoperta. Forse perseverai soltanto perché non avevo altra scelta. Finalmente mi :resi conto che non si ha diritto a scoraggiarsi quando si è delusi nelle
proprie aspettative, ma che bisogna :rivedere queste aspettative.» Il suo isolamento nell'ambiente scientifico viennese era pressoché totale e la considerazione che
si era acquistato con i lavori di neurologia si era tramutata in biasimo e in aperta
derisione non appena Freud aveva esposto le sue teorie sul ruolo giocato dalla
sessualità nell'eziologia delle nevrosi. Tuttavia Freud riuscì assai bene a superare
non solo l 'insicurezza provocata dalle critiche altrui, ma il più profondo disagio
generato dai propri dubbi: « Se fossi depresso, sfinito, confuso, tali dubbi potrebbero essere presi come segno di stanchezza. Ma poiché mi trovo nello stato
opposto, debbo :riconoscere che essi sono il risultato di un onesto ed effettivo
lavoro intellettuale, e sono orgoglioso di poter fare una tale critica dopo essere
andato tanto a fondo. Questi dubbi sono forse solo un episodio sulla strada che
conduce verso ulteriori conoscenze? » E in effetti egli affrontava per la prima
volta il nucleo centrale di ogni nevrosi, quello che più tardi verrà chiamato il
conflitto edipico.
L'esperienza dell'autoanalisi ha un carattere di grandezza e coraggio morale
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e nello stesso tempo di rinuncia ad ogni orgoglio che ne fa un momento di grande
«bellezza intellettuale»; attraverso l'analisi dei propri sogni, fantasie e stati d'animo, Freud vive su se stesso le cose che da spettatore ha visto svolgersi nei suoi
pazienti. Di fronte all'emergere della propria infanzia non commette però l'errore di chi volesse considerare come verità storiche le tradizioni mitiche e leggendarie, ma vede piuttosto in esse ciò che realmente sono: « formazioni reattive
contro il ricordo di condizioni e di tempi assai miseri e probabilmente non sempre
gloriosi». Come egli scrive: « Alcuni tristi segreti della vita vengono così rintracciati fino alle loro prime radici e ci si può così rendere conto delle umili origini di
certi orgogli e privilegi. » Nei propri sogni egli trova soprattutto il desiderio
di liberarsi da una colpa a lui sconosciuta, che si delinea poi come «colpa verso il
padre »; sotto le proprie giustificazioni a discolpa egli trova ritorsioni dettate da
un'ostilità nascosta, risentimenti, accuse. Ma l'accusa più acerba che egli muove al
padre non copre in realtà un lontano episodio di seduzione, ma l'emergere indistinto e tumultuoso del mondo fantastico di Freud bambino e del suo contraddittorio deside~io nei confronti dei genitori. Nell'ottobre del 1897 Freud scrive all'amiCo: « Finora non ho trovato nulla di completamente nuovo, ma tutte le complicazioni· alle quali sono solitamente abituato. Non è una cosa facile. Essere interamente onesti con s.e stessi è un buon esercizio. Una sola idea di valore generale
mi è
Ho trovato amore per la· madre e gelosia verso il padre anche nel i:nio
caso, e ora ritengo çhe questo sia un fenomeno generale della prima infanzia.»
Non è quindi il misfatto del padre, ma il bambino come nodo di desideri assoluti è all'origine della nevrosi; non una storia di seduzione da parte dell'adulto,
ma il doloroso avvicinarsi all'adulto attraverso U.confuso viluppo di odio e amore
per il padre e per la madre, come nel mito di Edipo, di cui ognuno riconosce il
senso di costrizione fatale per averlo vissuto personalmente: « Ogni membro dell'uditorio è stato una volta un tale Edipo in germe e in fantasia, e da questa realizzazione di un sogno trasferito nella realtà, ognuno si ritrae con orrore e con
tutto il peso della rimozione che separa lo stato infantile da quello adulto. » È
questa un 'acquisizione di importanza fondamentale: se le fantasie coprono desideri e impulsi incestuosi dell'infanzia, se la difesa nevrotica non si volge contro un
accadimento esterno che viola l'innocente passività dell'infanzia, ma ha la funzione
di cancellare e adulterare un capitolo doloroso della storia individuale, se quindi
la nevrosi sta a testimoniare un'offesa dello sviluppo sessuale, si deve postulare
l'esistenza di una vita sessuale infantile. Dall'interpretazione dei sogni alla autoanalisi, dal disvelamento del conflitto edipico alla sessualità infantile, dai meccanismi dell'oblio e del ricordo alla dimensione dell'inconscio: una nuova svolta nella
tecnica analitica porta ad un accumulo di osservazioni che richiede di venir
ordinato, modificando la primitiva sistematizzazione dei problemi delle nevrosi ed
ampliando la ricerca in più direzioni: « Quando attraversata una stretta gola, si
giunge improvvisamente ad un'altura dove le vie si separano e si dischiudono am-
sorta.
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pie vedute per ogni parte, è lecito sostare un attimo e riflettere in quale direzione
convenga anzitutto volgere i propri passi. Qualcosa di simile succede anche a noi,
dopo aver superato questa prima interpretazione del sogno. Abbiamo raggiunto
la chiarezza di una conoscenza improvvisa.» Così Freud scrive nella Interpretazione
dei sogni, primo risultato di questa chiarezza di conoscenza, forse la più importante
delle sue opere, certo la più rivoluzionaria.
Questo il punto di partenza: «Il sogno può essere trattato come un sintomo»,
può cioè essere scomposto e dissolto nei suoi elementi attraverso il metodo delle
libere associazioni già elaborato per il sintomo; in tal modo usando di un procedimento sperimentale è possibile inserire il sogno in una concatenazione psichica
che porta alla ricostruzione ed alla interpretazione del suo significato. Con ciò
vengono radicalmente contraddette solo due di tutte le contrastanti teorie che fino
ad allora erano state avanzate: per Freud il sogno non è né un processo assurdo,
né un processo somatico; il suo motivo è un desiderio, il suo contenuto l'appagamento di quel desiderio, o meglio l'appagamento allucinatorio di un desiderio
rimosso.
Ciò che il sognatore ricorda, al risveglio, è il contenuto maniftsto del sogno;
attraverso l'analisi delle associazioni legate ad ogni singolo elemento del sogno si
arriva alla ricostruzione del contenuto latente, costituito da pensieri onirici latenti.
Il processo di trasformazione dei pensieri onirici latenti viene chiamato lavoro
onirico. Per il loro rapporto con la vita vigile, i pensieri onirici latenti investono
anche i cosiddetti residui diurni; dal lavoro onirico essi vengono condensati in modo
peculiare, mediante lo spostamento di accento da elementi significativi su elementi
apparentemente senza senso; vengono deformati, preparati per la rappresentazioni in immagini visive, e prima che si giunga al sogno manifesto sono soggetti
ad una elaborazione secondaria, che al nuovo agglomerato presta un senso plausibile.
Dal lavoro onirico deriva l'assurdità, la stranezza e l'irriconoscibilità del contenuto manifesto del sogno. In particolare il tratto di ·pensieri che dà origine al
sogno subisce una serie di trasformazioni non più riconoscibili come processi
psichici normali: una serie di pensieri « corretta» è stata tradotta in sogno mediante un trattamento « scorretto »: la condensazione agisce mediante la formazione
di compromessi, mediante associazioni superficiali, mediante occultamento delle contraddizioni e procedendo nel senso della regressione. Il sogno quindi non solo può venir
trattato come un sintomo, ma anche una volta scomposto nei suoi elementi si
rivela costruito come un sintomo. 1 Poiché esiste piena identità tra le peculiarità del
I Come il sintomo il sogno si avvale quindi
dell'espressione indiretta e in particolare della rappresentazione per simboli. È questo un elemento
che gli allievi di Freud e la cultura dei primi decenni del secolo assorbirono enfatizzandolo sino
a giungere alla costituzione di una specie di iconografia statica (vedi ad es. gli archetipi di Jung),
mentre Freud avvertiva che l'interpretazione di
ogni allusione simbolica può essere raggiunta soltanto attraverso l'indagine dei nessi che legano
l'oggetto vero e proprio e il simbolo che ne fa le
veci: se tra i simboli utilizzati, ve ne sono molti
che regolarmente o quasi significano la stessa cosa,
non si deve tuttavia dimenticare la straordinaria
plasticità del materiale psichico che fa si che il
simbolo non abbia mai un significato univoco e si
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lavoro omnco e quell'attività psichica che sboc~ nei sintomi nevrotici, Freud
deduce che una tale elaborazione psichica si verifica solo quando quest'ultima è
« traslazione di un desiderio inconscio che deriva dal materiale infantile che si
trova in stato di rimozione ».
Poiché il sogno non è un fenomeno patologico, dobbiamo dedurne che il
meccanismo psichico di cui si serve la nevrosi non viene creato da una alterazione
patologica che colpisce la vita psichica, ma si trova già pronto nella struttura
normale dell'apparato psichico.
Riportiamo un brevissimo e sintetico esempio di sogno e della sua interpretazione. «Il sogno consiste solo di due brevi immagini: " Suo zio fuma una sigaretta, benché sia sabato. Una donna carezza il sognatore e lo coccola come
fosse suo figlio ". Riguardo la prima immagine, il sognatore (ebreo) osserva che
suo zio è un uomo pio, che non ha mai commesso e mai commetterebbe una cosa
così peccaminosa. Riguardo la donna della seconda immagine, non gli viene in
mente nient'altro che sua madre. Queste due immagini, o pensieri, sono evidentemente da porre in rapporto tra loro. Ma come? Dal momento che egli ha
espressamente contestato la realtà dell'azione dello zio, viene spontaneo introdurre un " se ". " Se mio zio, quel sant'uomo, fumasse una sigaretta di sabato,
allora anch'io potrei farmi coccolare dalla mamma." Ciò significa evidentemente
che anche essere coccolato dalla madre è qualcosa di illecito, come il fumare di
sabato per l'ebreo devoto. »
L'interpretazione ha reinserito la relazione fra pensieri onirici che sono stati
omessi dal processo di lavoro onirico, mostrando quale sia il contenuto latente
celato nel contenuto manifesto.
Nell'Interpretazione dei sogni il primo esempio pratico, molto articolato e complesso, di un lavoro analitico di tal genere viene compiuto su di un sogno di
Freud stesso. È questa una peculiarità del libro, poiché il materiale a sostegno della
teoria scientifica che vi viene esposta è costituito da sogni dell'autore (perlopiù
falsati per motivi di riservatezza). È vero che i sogni dei pazienti non possono essere riportati senza la storia della loro nevrosi con cui sono in stretto rapporto, e
che inoltre possono essere considerati fenomeni abnormi in quanto sognati da
persone malate, è vero anche che non è possibile utilizzare i sogni riportati dalla
letteratura mancando il contesto associativo che solo permette di giungere al
significato, ma è anche vero che la genesi di quest'opera singolare, che dall'indagine di una situazione psicologica apparentemente marginale quale quella del
sogno trae ipotesi generali sul funzionamento della psiche umana, ha profonde
radici nell'autoanalisi di Freud. Leggiamo nella prefazione: «Questo libro ha inpossa sempre rintracciare una motivazione individuale accanto a quella valida in modo tipico. Casi
in cui la scelta di un simbolo appare enigmatica
indicano che Il rapporto simbolico è di natura genetica. « Ciò che oggi è legato simbolicamente, in
epoche remote era probabilmente legato da identità concettuale e linguistica. Il rapporto simbolico
sembra un residuo e un contrassegno di una arcaica identità. »
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fatti per me un altro significato soggettivo, che mi è riuscito chiaro, solo dopo
averlo portato a termine. Esso mi è apparso come un brano della mia autobiografia, come la mia reazione alla morte di mio padre, dunque all'avvenimento più
importante, alla perdita più straziante nella vita di un uomo. »
La genesi della teoria analitica appare quindi intimamente legata alla persona
di Freud, ma la sua generalità è basata sulla fondamentale uniformità dei processi
che si svolgono nella psiche umana. Nell'interpretare il sogno, nel mostrare cioè
la realtà che gli sta dietro e che in esso si esprime, Freud ha acquisito all'esplorazione scientifica un nuovo territorio: quello dell'inconscio, con ciò imprimendo
un carattere ineliminabile all'indagine analitica, poiché suo strumento è necessariamente la persona nella sua totalità: come è necessario analizzare se stesso
per analizzare gli altri, così è impossibile conoscere senza conoscersi, ed ogni
opacità della propria persona diviene sordità agli altri, poiché solo in costante riferimento con il proprio inconscio è possibile comprendere l 'inconscio degli altri.
Sulla realtà dell'inconscio, per sua intima natura altrettanto sconosciuta quanto quella del mondo esterno, e a noi presentata dai dati della coscienza in modo
altrettanto incompleto quanto il mondo esterno dall'indicazione dei nostri organi
di senso, è lecito fare ipotesi sotto l'esigenza di una interpretazione dei dati,
allo stesso modo che la necessità di una spiegazione dei dati sensibili giustifica le
ipotesi sulla costituzione della materia. In questa direzione l'interpretazione dei
sogni è la via regia che porta alla conoscenza dell'inconscio nella vita psichica.
L'inconscio negli studi sull'isteria era configurabile come un precipitato di
oscure sensazioni penose da riportare alla luce della coscienza; dall'interpretazione
dei sogni emerge una più vasta realtà che preme ed orienta gran parte della vita
cosciente. Dal fatto della deformazione subita dal contenuto latente del sogno per
divenire manifesto, Freud ipotizza l'esistenza di forze psichiche di cui una plasma
il desiderio onirico (cioè il contenuto latente che prima del lavoro analitico è
inconscio) mentre l'altra censura, dissimula il desiderio determinandone così l'accesso alla coscienza (nella forma del contenuto manifesto). «Riveliamo con ciò
una ben determinata concezione dell' "essenza" della coscienza, il diventar cosciente è per noi un particolare atto psichico, diverso e indipendente dal processo
di fissazione e rappresentazione, e la coscienza ci appare come un organo di senso
che percepisce un contenuto che si dà altrove.» Ne deriva una concezione dell'apparato psichico quale strumento composito, le cui componenti Freud denomina
sistemi: se schematicamente un processo psichico decorre dall'estremità percettiva
a quella motoria, Freud assimila il sistema conscio alla percezione e accanto all'estremità motoria pone il sistema preconscio (cioè il patrimonio mnestico delle esperienze
percettive passate che non essendo immediatamente presenti alla coscienza sono
suscettibili di diventarlo senza subire modifiche), e dietro di esso pone il sistema
inconscio, tutto ciò a cui l'accesso alla coscienza viene impedito o viene concesso
solo a prezzo di profonde trasformazioni.
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Negli studi sull'isteria, il primo modello della rimozione ci era fornito dall'allontanamento dalla memoria di un evento penoso, ma ora per meglio esplicitarne il meccanismo Freud avanza la fondamentale ipotesi dell'esistenza di due
processi che si attuano nell'apparato psichico e che corrispondono grosso modo
. all'attività dei due sistemi dell'inconscio e del preconscio. L'attività del primo sistema, chiamata processo primario, consiste nella ricerca di soddisfacimento attraverso il libero deflusso dell'eccitamento secondo un decorso rigidamente regolato dalla
percezione di piacere e dolore. Questo primo sistema può solo desiderare e costituisce il nucleo della nostra essenza: gli impulsi di desiderio provenienti dalla vita
infantile. Dalla incapacità del sistema primario di provocare la cessazione del bisogno che è alla base del desiderio si sviluppa il processo secondario, che, per utilmente
trasformare il mondo esterno, ostacola il deflusso dell'eccitamento, sottraendosi
. parzialmente all'esclusiva regolazione del principio di piacere/dolore e sostituendo
all'identità di percezione una identità di pensiero. Nel corso dello sviluppo l'appagamento degli indistruttibili desideri dell'infanzia può entrare in tale contraddizione con le rappresentazioni finalizzate del pensiero, da trasformare in dolore lo
stato affettivo di piacere ad esso legato: è questa l'essenza della rimozione. Si è
visto che gli impulsi di desiderio sessuali derivati dall'infanzia dopo essere stati
sottoposti a rimozione possono tentare di riemergere alla coscienza e che il sintomo nevrotico rappresenta la soluzione di compromesso del conflitto cosi scatenatosi: il sogno dimostra che il materiale represso continua a sussistere anche nell'uomo normale e che esso rimane capace di prestazioni psichiche. Nel sogno le
situazioni conflittuali hanno soluzioni drastiche ed elementari che la vita vigile
rifiuta e che vengono rappresentate secondo modalità diverse da quelle del pensiero cosciente: il sogno rivela la storia arcaica individuale, nel sogno rivive il
bambino con i suoi impulsi: quei desideri offensivi per la morale, ma impostici
dalla natura, di cui viviamo inconsapevoli e la cui rivelazione distoglie il nostro
sguardo dalle immagini dell'infanzia.
L'Interpretazione dei sogni venne ignorata dagli ambienti scientifici, oppure
considerata opera fantasiosa e ridicola alla stregua dei libri sui sogni « che si trovano nei cassetti delle cuoche »: in otto anni ne furono vendute 6oo copie. Da
ipnotizzatore illusionista a indovino per cuoche, è forse difficile per noi immaginare a quale ostracismo totale fosse condannata la psicoanalisi nascente e il suo
autore. Questa accoglienza poteva venir compresa da Freud come conseguenza
necessaria delle fondamentali ipotesi analitiche: « La presunzione della coscienza
che per esempio rifiuta il sogno con tanto dispregio, fa parte dei più robusti
meccanismi protettivi previsti in noi contro l'infiltrazione dei complessi inconsci;
ed è per questo che è così difficile convincere gli uomini della realtà dell'inconscio
e insegnare loro a conoscere cose nuove, che contraddicano il loro sapere cosciente. » Ma questa accoglienza non poteva frenarlo: « Nessuno, però, vorrà
attendersi che in quegli anni, in cui da solo rappresentavo la psicoanalisi, si fosse
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sviluppato in me un particolare rispetto per il giudizio del mondo o una tendenza
alla remissività intellettuale. »
Nell'Interpretazione dei sogni si può anche leggere la storia del distacco dai
«padri scientifici », che tuttavia fu più rivoluzionario e nel contempo meno radicale di quanto apparisse. Ciò a cui Freud tendeva era la formulazione di una base
teorica per le nuove scoperte che egli compiva in psicopatologia, per poter porre
le basi di una teoria psicologica che tenesse conto dei peculiari caratteri dell'inconscio. L'esposizione più ampia di una siffatta teoria generale si trova nell 'ultimo capitolo dell'Interpretazione dei sogni: negli anni successivi ad essa verranno
apportati pochi mutamenti. La grande speranza dell'epoca (e come abbiamo visto
dello stesso Freud) era che il progredire delle conoscenze nel campo della fisiologia
cerebrale avrebbe permesso di chiarire e descrivere in termini fisiologici i processi
psichici, ma da Breuer Freud aveva imparato che, fin che ciò non fosse stato possibile, aggirare le difficoltà sovrapponendo all'oscurità totale delle conoscenze un
linguaggio estrinsecamente mutuato dalla fisiologia sarebbe stato un'inutile mascherata. I maestri attraverso cui Freud si emancipò da una concezione rigidamente neurologica, passando da una posizione di materialismo restrittivo ad un atteggiamento di più ampio empirismo e sperimentalismo, furono Charcot, Bernheim
e Breuer. Si può notare d'altronde che il modello di apparato psichico che viene
descritto nell'Interpretazione dei sogni è costruito su linee assai simili a quelle del mqdello fisiologico e che la terminologia usata si avvicina a quella della fisica, il linguaggio appunto dell'istituto di fisiologia di Briicke. Inoltre alle fondamenta delle
concezioni di Freud ritroviamo come ineliminabile portato della sua formazione
scientifica una fede mai scossa nella universalità delle leggi naturali, e la convinzione che la storia dell'uomo è una parte della storia della natura e che quindi i fenomeni psichici sono regolati da leggi altrettanto precise che quelle che determinano
gli accadimenti fisici: nell'aver dimostrato il significato e il determinismo dei fenomeni psichici apparentemente più oscuri e arbitrari risiede gran parte del valore teorico e sperimentale della psicoanalisi per una teoria psicologica generale.
In un'opera di poco posteriore all'Interpretazione dei sogni e che a differenza di
quella ebbe un certo successo di pubblico, Zur Psychopathologie des Alltagslebens
(Psicopatologia della vita quotidiana), Freud prendeva in esame una serie di disfunzioni
momentanee di poco conto (quale il dimenticare nomi o cose, i lapsus linguae o
calami, ecc.) e di azioni sintomatiche e casuali (il giocherellare con oggetti, canticchiare, ecc.) dimostrando che anch'esse esprimono impulsi e intenzioni rimosse, e
hanno quindi per l'uomo «sano» lo stesso valore di formazioni sostitutive che i
sintomi hanno per i nevrotici.
Molte delle premesse teoriche delle scoperte di Freud sono comuni a. tutto
l'ambiente scientifico in cui egli lavorava, né bisogna sottovalutare l'indubbia
influenza di Fechner e quindi di Herbart: dai libri di testo ginnasiali a Meynert,
Briicke, e Breuer, tutta la cultura psicologica con cui Freud venne in contatto
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è permeata di herbartismo, teoria in cui si ritrova l'affermazione dell'esistenza di
uno psichismo inconscio, risultante dalla inconciliabilità di due rappresentazioni in
base al fondamentale dualismo dei processi psichici. Ma scandaloso era il contenuto che veniva dato alla dinamica di questi processi: alla base della concezione di
Freud è l'esplorazione e la descrizione in termini dialettici dei processi psichici:
se il desiderio è l'unica forza motrice dell'apparato psichico, sono i bisogni materiali che determinano tutto lo sviluppo mentale costringendo al passaggio dall'appagamento allucinatorio (o regressivo, processo primario) alla modificazione del
mondo esterno (processo secondario) : la vita psichica nasce quindi dal contrasto
tra realtà e appagamento dei desideri, e quando tale conflitto diviene troppo doloroso interviene la rimozione che modifica però con il proprio intervento la struttura dell'io a cui viene occultata così parte della realtà del mondo o parte della
realtà dei suoi desideri.
Il senso di un sintomo scaturisce da questo conflitto tra realtà e desideri,
intendendo per senso contemporaneamente il suo « da che cosa » ed il suo « verso
che cosa », cioè gli eventi da cui trae origine e gli intenti a cui serve. Tali eventi,
con « regolarità sorprendente », risultano essere il soddisfacimento di desideri
sessuali, o meglio il sostituto di quel soddisfacimento di cui il nevrotico è privato
nella vita reale. Più precisamente i sintomi mirano ad un soddisfacimento sessuale (vedi soprattutto isteria) e ad una difesa dallo stesso (vedi soprattutto nevrosi ossessiva) o ad entrambe le cose, sono cioè risultanti da un compromesso
e fanno le veci sia di ciò che viene rimosso sia della forza che rimuove e che ha
cooperato alla loro formazione. Poiché i sintomi non offrono alcun reale soddisfacimento, ma si limitano a ravvivare una situazione, una sensazione o una fantasia il cui rapporto con la vita sessuale è stato cancellato, e poiché inoltre il preteso
soddisfacimento sessuale a cui il sintomo allude mostra spesso un carattere infantile, tale che sembrerebbe dover essere piuttosto considerato come soddisfacimento di appetiti crudeli o mostruosi o addirittura innaturali, è necessario esaminare
in che consista la vita sessuale.
IV · LIBIDO, NEVROSI E
REALTÀ
Nel 1905 Freud pubblicò tre opere di grande importanza: Der Witz und
seine Beziehung zum Unbewussten (Il motto di spirito e i suoi rapporti con l'inconscio),
Bruchstiick einer Hysterie-Anafyse (Frammento di una analisi d'isteria), Drei Abhandlungen zur Sexualtheorie (Tre saggi sulla teoria della sessualità).
Da una critica di Fliess, che notava come le interpretazioni dei sogni fossero
assimilabili a motti di spirito e giochi di parole, Freud trasse lo spunto per analizzare i rapporti dei motti di spirito con l'inconscio, osservando che lo scopo del
motto è quello di ottenere un peculiare piacere raggiungendo argomenti che sono
stati soggetti a rimozione, mediante un procedimento i cui artifici hanno profonde
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analogie con il modo di funzionamento dell'inconscio, e che ricorda i giuochi
dell'infanzia. Questo lavoro di Freud, il maggior suo contributo nel campo dell'estetica, venne ignorato dal pubblico ed è tuttora un libro poco letto e poco
compreso. 1
Diversa sorte incontrarono le altre due opere: i Tre saggi furono fra tutte
quelle che fecero più scalpore e che resero universalmente impopolare l'autore,
accusato di possedere una mente fantasiosa, perversa ed oscena, accusa che venne
aggravata da quella di aver violato l'obbligo del segreto professionale pubblicando
la storia di una sua paziente, una giovanetta cui venivano attribuite tendenze per
ogni genere di perversione sessuale.
Il Frammento è infatti la storia di un caso clinico (trattato da Freud nel 1900
e divenuto poi famoso come quello di Dora), attraverso cui vengono esaminati i
rapporti tra sogni e sintomi nevrotici e la loro comune origine nell'infanzia.
Poiché i processi nevrotici, come quelli onirici, fornivano importanti contributi
alla teoria generale della struttura psichica, Freud aveva pensato in un primo
tempo ad un capitolo aggiuntivo alla Interpretazione dei sogni (« Sogni e isteria»), che
eliminò poi per non interrompere la linearità dell'argomento; la storia di Dora è
quindi la continuazione dell'Interpretazione dei sogni, e si impernia su due sogni che
all'analisi manifestano la loro interdipendenza con i sintomi e i conflitti della paziente. Nei Tre saggi troviamo per la prima volta la « teoria della libido », o studio
delle manifestazioni della funzione sessuale e delle complesse vicissitudini che
essa può attraversare nel corso del suo sviluppo, studio i cui inizi risalgono al r 890
e che già prima della fine del secolo (come testimoniano le lettere a Fliess) aveva
portato Freud alla scoperta di tutte le fasi essenziali dello sviluppo sessuale e alla
rivoluzionaria affermazione che « il bambino ha i suoi istinti e le sue attività sessuali sin dall'inizio, li porta con sé venendo al mondo, e da essi, attraverso uno
sviluppo significativo, ricco di tappe, emerge la cosiddetta sessualità normale dell'adulto ».
Le tesi di Freud sulla sessualità infantile, fondate in un primo tempo quasi
esclusivamente sui risultati delle analisi di adulti, retrocedenti verso il passato,
suscitarono scalpore, scandalo, derisione e furono uno dei punti su cui più si
basarono le resistenze contro la psicoanalisi. Fu quindi considerato un trionfo,
anni dopo, il fatto che fosse possibile confermare questi risultati mediante l'analisi
e l'osservazione diretta dei bambini: « un trionfo che gradualmente fu sminuito
dalla considerazione che la scoperta era di tal fatta che in fondo bisognava vergognarsi di averla fatta», tanto era «ovvia». Lo scandalo nasceva inoltre dal fatto
I Più noti sono altri sconfinamenti di Freud
nel mondo della creazione artistica: il felice saggio
sulla Gradiva, « nato in giornate luminose » (Der
Wahn und die Trliume in W. ]enrenr « Gradiva»
[Delirio e rogni nella « Gradiva» di W. Jenren, I 907]),
l'analisi di Bine Kindheitrerinnerung der Leonardo
da Vinci (Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci,
I9Io), e altri su Goethe, Shakespeare, Dostojevskij, ecc. Dedicata alle applicazioni non mediche
della psicoanalisi fu la rivista «)mago», fondata
nei I9II.
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che- al contrario di quanto avveniva nelle opere sessuologiche dell'epoca, in cui
l'elenco delle perversioni rassicurava il lettore che nel confronto traeva una conferma della propria buona salute - nello scritto di Freud veniva abbattuta la
frontiera fra normalità e perversione e soprattutto fra la sessualità dell'adulto e la
pretesa innocenza del bambino. Se per convenzione si considera sessualità normale l'attrazione di un sesso verso l'altro, in individui adulti, allo scopo di raggiungere l'appagamento sessuale con il contatto dei genitali nel coito, Freud distingue le deviazioni della pulsione sessuale a seconda che riguardi l'oggetto e lo
scopo, e nota come tali deviazioni siano presenti anche nella vita sessuale normale,
tanto che, se non si comprendono queste forme morbose della sessualità e non si
mettono in relazione con la normale vita sessuale, non è possibile comprendere
quest'ultima, in quanto ciò che caratterizza le manifestazioni patologiche è la
loro esclusività e la loro fissazione. Quando si afferma che i sintomi nevrotici
assumono una funzione di soddisfacimento sessuale sostitutivo si devono considerare anche i cosiddetti bisogni sessuali perversi. Nelle nevrosi, anzi, si possono
ravvisare quali formatrici dei sintomi le stesse componenti istintive delle perversioni, che nel nevrotico al contrario che nel pervertito agiscono nell'inconscio,
hanno cioè subito una rimozione; le nevrosi sono in certo qual modo il negativo
delle perversioni, sono cioè una difesa incompleta di fronte al premere di pulsioni
sessuali che hanno il carattere delle perversioni.
Ad un'idea convenzionale di una sessualità che appare con caratteri univoci
e determinati in un preciso periodo della vita umana, Freud oppone il concetto
di pulsione sessuale tendente alla ricerca di soddisfacimento dal momento della
nascita, e destinata a passare attraverso stadi intermedi, prima di servire alla riproduzione; una sessualità quindi non strettamente dipendente dagli organi genitali,
ma che può essere considerata funzione corporale di tutto l'uomo, suscettibile
quindi di una complicata evoluzione. Come ogni processo di sviluppo anche quello così intricato della funzione sessuale può essere inibito, ritardato o svolto in
maniera incompleta: la predisposizione alla nevrosi è anzi riconducibile ad un'offesa dello sviluppo sessuale. Freud chiama libido l'espressione dinamica dell'impulso sessuale nella vita psichica, e nota che è composta da impulsi parziali, in cui
può sempre nuovamente scomporsi e che soltanto gradualmente si riuniscono in
determinate organizzazioni o fasi. Fonte di questi impulsi parziali è un qualsiasi
eccitamento proveniente dal corpo, in particolare da alcune precise zone erogene;
meta è l'acquietamento di tale eccitazione. Se si osservano con imparzialità
le manifestazioni della. sessualità infantile, si può notare che la pulsione sessuale è
altamente composita, che ogni singola componente persegue il raggiungimento
del piacere indipendentemente da ogni altra, che la funzione sessuale si appoggia
dapprima su altre funzioni (ad esempio quella alimentare) importanti per la conservazione della vita, che l'attività sessuale è prevalentemente autoerotica, ma
anche rivolta all'esterno, verso oggetti di cui non il sesso ha importanza, ma il loro
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originario rapporto con l'istinto di conservazione (donde la celebre affermazione
di Freud «il bambino è un perverso polimorfo »). Attraverso un complicato
processo la funzione sessuale si rende indipendente dalle altre funzioni e viene
respinta la scelta autoerotica, sino al raggiungimento della sessualità adulta. Primo gradino della organizzazione sessuale infantile è quello orale, in cui conformemente all'interesse primario del poppante la zona orale sostiene la parte principale.
Il piacere del succhiare può separarsi dal bisogno di assunzione di cibo, anzi si
scinde inevitabilmente quando spuntano i denti: il bambino per succhiare non si
serve di un oggetto esterno, bensì di un punto del proprio corpo, perché questo
è più comodo e perché ciò lo rende indipendente dal mondo esterno che egli non
è ancora in grado di dominare. A questa fase segue l'organizzazione sadico-anale,
così chiamata perché la zona erogena principale è l'ano ed è legata ad un comportamento aggressivo del bambino; anche questa fase si appoggia su di una funzione
fisiologica essenziale, ed è autoerotica giacché si astiene da qualsiasi oggetto sessuale. Il terzo e definitivo gradino di organizzazione consiste nella raccolta della
maggior parte degli impulsi parziali sotto il primato della zona genitale: come gli
altri impulsi parziali anche quelli della zona genitale passano generalmente per un
periodo di intenso soddisfacimento autoerotico (verso i due-quattro anni) di particolare significato per lo sviluppo successivo. In epoca successiva tra la fase anale
e quella genitale Freud ritenne di dover considerare una fase fallica (verso i due-tre
anni) molto simile alla struttura sessuale definitiva e fase suprema della sessualità
infantile, in cui bambino e bambina hanno cominciato a porre la loro attività
intellettuale al servizio dell'indagine sessuale, ambedue partendo dal presupposto
della presenza generale del pene. È il momento della fioritura delle teorie sessuali
infantili, originate dall'oscurità in cui viene lasciata questa parte della vita umana e
dalla gelosia del bambino nei confronti di possibili rivali; queste teorie infantili
sono alla base delle fantasie di soddisfacimento sessuale infantile e si :ritrovano nelle fantasie patologiche dei nevrotici. A partire da questo momento i destini del
bambino e della bambina si dividono. Dal punto di vista della scelta oggettuale il
bambino entra nella fase edipica, comincia l'attività sessuale sul pene, accompagnata da fantasie di una qualsiasi attività di esso sulla madre, sua prima seduttrice nelle cure del corpo che egli cerca ora di sedurre. In una parola: la sua
virilità precocemente ridestata cerca di sostituire presso la madre il padre, che era
già stato suo modello invidiato, a causa della forza fisica che egli sente in lui, dell'autorità di cui lo trova investito. Adesso il padre è il rivale che gli sbarra la strada
e che egli vorrebbe eliminare. In seguito, sotto l'effetto parallelo di una minaccia di
castrazione reale o immaginaria (come punitiva conseguenza della sua masturbazione e della sua rivalità verso il padre) e della visione della mancanza del pene nella
donna, subisce il grande trauma della sua vita che introduce il periodo di latenza
con tutte le sue conseguenze: il timore di castrazione pone fine al conflitto edipico.
Non così nella bambina, che dopo un vano tentativo di eguagliare il bambino, spe-
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rimenta la conoscenza della propria mancanza del pene o per meglio dire dell'inferiorità del clitoride con conseguenze durature per lo sviluppo del suo carattere, e
spesso in seguito a questa prima delusione nella rivalità con il bambino la bambina
si distoglie per la prima volta dalla vita sessuale. Un altro fattore di questo allontanamento è la difficile evoluzione degli investimenti oggettuali: data la pregnanza
dell'attaccamento preedipico alla madre la bambina viene sospinta nel conflitto
edipico dopo la scoperta della mancanza del pene e in conseguenza di essa; con il
volgere del tempo la bambina dovrebbe quindi cambiare zona erogena ed oggetto,
mentre il bambino li mantiene entrambi per tutto il corso della vita. L'allontanamento della bambina dalla vita sessuale viene poi rinforzato in epoche successive
da tutto il peso delle convenzioni sociali morali e religiose e può portare la donna a
maggiore inibizione sessuale, predisponendola quindi alla nevrosi e determinando
una inibizione generale delle capacità intellettive. Nella pubertà, dopo un periodo
di latenza dello sviluppo sessuale, si giunge alla fase genitale in cui molte cariche
libidiche dell'infanzia sono rimaste conservate, altre vengono assunte nella funzione sessuale come atti preparatori, di sostegno (baci, carezze ecc.), altre ancora
vengono escluse in quanto o soppresse (rimosse) oppure trasformate (in particolare
quelle anali formano tratti del carattere), altre infine vengono sublimate andando
incontro a spostamenti di scopo. Tutta l'esperienza infantile subisce una rimozione
estremamente energica e, nel modo in cui le leggi dell'inconscio lo permettono,
tutti gli impulsi affettivi contrastanti e le reazioni allora attivate restano nell'inconscio, incombenti a disturbare lo sviluppo ulteriore. Il processo somatico della
maturazione sessuale ravviva le antiche fissazioni libidiche: a questo punto si
svolgono processi emotivi molto intensi nella direzione del conflitto edipico o in
reazione ad esso, e a partire da questo momento l'individuo umano deve dedicarsi
al difficile compito di svincolarsi dai genitori e solo dopo la soluzione di questo
compito può cessare di essere un bambino e diventa un membro della comunità
sociale. Se ciò non avviene, la vita sessuale si rivelerà inibita, non unitaria, si
frammenterà in aspirazioni contrastanti: si può parlare allora di infantilismo sessuale, situazione privilegiata per l'emergere di conflitti e quindi di soluzioni
nevrotiche. Una inibizione totale dello sviluppo comporta la fissazione della libido
su stati di fasi anteriori a quella genitale; se i processi di sviluppo avvengono in
maniera incompleta, si ha una organizzazione genitale labile, di conseguenza in
caso di difficoltà di appagamento la libido tende a tornare alle cariche pregenitali
anteriori (regressione); a seconda che questi eventi siano accompagnati da rimozione o restino coscienti si ha nevrosi o perversione.
Il punto culminante della vita sessuale infantile, il centro da cui partono gli
sviluppi ulteriori è la risoluzione del conflitto edipico, ineliminabile « finché la
comunità conoscerà soltanto la forma della famiglia », conflitto a cui il nevrotico
resta attaccato, mentre nell'uomo sano gli investimenti oggettuali infantili rivivono solo nottetempo nei sogni perversi, incestuosi, omicidi. Come abbiamo visto
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l'eziologia della nevrosi va ricercata nella storia evolutiva, cioè nell'epoca primitiva dell'individuo, ma non esiste una causa specifica o un contenuto specifico
della nevrosi: i nevrotici soccombono al peso di circostanze che i normali riescono
a dominare felicemente in virtù, oltre che della possibilità di soddisfacimento
reale, della mobilità della libido rispetto alle mete e agli oggetti e quindi delle
capacità di sublimare tendenze sessuali non soddisfacibili. La nevrosi dipende da
relazioni dinamiche e quantitative: i casi di malattia nevrotica si dispongono in
una serie nella quale i due momenti della fissazione rigida della libido e della frustrazione causata dall'impossibilità di soddifacimento reale sono disposti in modo
tale che quando uno cresce l'altro diminuisce: da una parte si hanno gli individui
che per il singolare sviluppo della loro libido sono in grado di sopportare quantità
minime di frustrazioni e che quindi si sarebbero comunque ammalati, dall'altra
persone che in circostanze più favorevoli non avrebbero avuto necessità di rifugiarsi nella malattia.
.
La psicoanalisi considera quindi il fenomeno delle nevrosi e la vita psichiCa
in generale da tre punti di vista: quello dinamico, quello topico e quello economico.
Da un punto di vista dinamico essa riconduce tutti i processi psichici al gioco· di
forze che si potenziano o si inibiscono, si associano o entrano in compromesso tra;
loro: forze di provenienza organica, che scaturiscono da una grande riserva di
energia somatica, in quanto tensioni di bisogno, e sono psichicamente rappresentate in immagini o idee con cariche affettive. Sono le pulsioni: le richieste che il
corpo pone alla vita psichica. Dapprima sulla base dell'analisi empirica Freud
credette opportuno distinguere due gruppi di pulsioni: le pulsio?i dell'io, la cui .
meta è l'autoaffermazione (o meglio la conservazione individuale) e le pulsioni
sessuali (o libidiche). Qui preme sottolineare il fatto che non solo Freud cambierà posizione su questo particolare punto della sua teoria, ma che inoltre considerò questa distinzione un'ipotesi di lavoro lecita in quanto nata dallo sviluppo storico della psicoanalisi, ma passibile di v:enir abbandonata per una diversa
formula con cui raggruppare le pulsioni fondamentali, nel caso che questa meglio rispondesse alla necessità di generalizzazione teorica. La concezione delle
nevrosi che risulta da questa sistematizzazione è la seguente: le nevrosi sono
l'espressione di conflitti tra le pulsioni dell'io e le pulsioni sessuali, qualora queste appaiano inconciliabili con l'integrità dell'io: le pulsioni sessuali vengono colpite dalla rimozione con intensità massima, ma proprio nellor9 caso è più probabile
che la rimozione fallisca, portando ad un soddisfacimento surrogativo della sessualità rimossa e ad un sistema permanente di difesa c~ntro ie. tendenze rimosse. Poich~
nessun'altra funzione nel corso dello sviluppo della ~iviltà ha subito un rifiuto
così energico e così ampio come appunto la funzione sessuale, si può affermare che il punto debole dell'organizzazione dell'io risiede nel suo rapporto con
la funzione sessuale quasi che l'antagonismo biologico tra la conservazione individuale e la conservazione della specie avesse qui trovato espressione psicologica.
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Il punto di vista economico o quantitativo ipotizza che l'apparato psichico
tende a mantenere costante la somma delle eccitazioni che lo aggravano mediante la scarica dei bisogni pulsionali. Rifacendosi alla distinzione fra processi primari e secondari sviluppata nell'Interpretazione dei sogni, Freud nota
che il passaggio dal principio di piacere al principio di realtà quale regolatore
dell'attività psichica non si effettua in una volta sola e sincronicamente per
le pulsioni dell'io e le pulsioni sessuali. Mentre la necessità di un adeguato
rapporto con il mondo esterno determina una più stretta relazione fra le pulsioni
dell'io e l'attività della coscienza, le possibilità di un appagamento autoerotico e il
periodo di latenza fanno sì che la pulsione sessuale venga trattenuta nel suo sviluppo e rimanga molto più a lungo sotto il dominio del principio di piacere. Ciò crea
uno stretto legame fra la pulsione sessuale e le fantasie e rende difficile nell'analisi
delle nevrosi la distinzione fra le fantasie inconscie e gli eventi reali, poiché la
realtà di pensiero è trattata come realtà di fatto. Ne deriva il particolare rapporto
che l 'io nevrotico ha con la realtà: poiché non può fuggire da se stesso, esso tende
a schivarne determinati elementi e a proteggersi da un incontro con essi, eventualmente sostituendo una parte indesiderata con una desiderabile fantasticata. Da
questa evasione dalla realtà deriva all'io un certo tornac~>nto della malattia che
rafforza le resistenze contro la guarigione; ma poiché liberarsi dal danno dei sintomi e mantenere il « guadagno » della malattia è impresa impossibile, il primo brano
di realtà che il nevrotico deve accettare di riconoscere è la sua nevrosi stessa.
Il punto di vista topico concerne il rapporto fra i sistemi psichici (inconscio,
preconscio e conscio) e sarà ulteriormente arricchito negli anni successivi, con la
scomposizione della personalità in tre istanze (io, superio, es). In quello che può
essere chiamato il secondo periodo della storia della psicoanalisi, l'approfondimento di questi temi porterà a nuove acquisizioni e in particolare alla rielaborazione della teoria delle pulsioni, lo studio sul narcisismo e l'applicazione della
psicoanalisi alle psicosi; esempi classici della finezza di analisi di Freud sono le
storie cliniche che egli pubblicò in quegli anni.
V · IL MOVIMENTO PSICOANALITICO
Dopo anni di lavoro solitario cominciarono a formarsi discepoli e collaboratori i cui contributi arricchirono