Convegno Sommariva Bosco – 21 ottobre 2006 – Maria Grazia Maia

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Le biomasse legnose da esbosco come fonti rinnovabili di energia.
Convegno Sommariva Bosco - 21 ottobre 2006 - Maria Grazia Maia.
Tutti hanno certamente sentito parlare delle ipotesi sull’origine delle fonti fossili come
carbone, petrolio e metano. Le varie teorie fanno tutte riferimento a origine organica,
vegetale o animale. Ad esempio il carbone si considera generato da foreste vissute
almeno circa 10 milioni di anni fa.
Il legno invece si genera in modo continuo nel presente attraverso la crescita delle
piante che si avvalgono del processo di fotosintesi clorofilliana cioè l’assorbimento di
energia luminosa con cui, partendo da composti inorganici semplici, si formano molte
delle sostanze organiche di cui sono costituite. Le piante, come tutti sanno,
sottraggono CO2 dall’aria e sono dei veri e propri “depositi” di carbonio.
In generale si può dire che i combustibili più comuni sono originati o da materiali
organici prelevati vivi in natura e trasformati dall’uomo o da materiali organici
modificati attraverso processi naturali. L’elemento fondamentale è il carbonio.
Ma perché noi diciamo che il legno è fonte rinnovabile di energia e il carbone no?
Prendiamo ad esempio una centrale termoelettrica a biomasse che bruci 100.000 t/a
di legna vergine proveniente da esbosco. La quantità di combustibile disponibile è
detta stock e supponiamo di misurarla in tonnellate. Il fabbisogno per la centrale di
100.000 t corrisponderà a una quota dello stock che deve essere prelevata ogni anno.
Di quante tonnellate deve essere lo stock per garantire l’approvvigionamento senza
depauperare le risorse? Se supponiamo che il tempo di crescita delle piante per
arrivare alla “maturazione”, cioè al momento di poter essere tagliate, sia ad esempio
20 anni1, è chiaro che al fine di poter considerare la fonte come rinnovabile, una volta
tagliate le 100.000 t necessarie per un anno, sarà indispensabile attendere 20 anni
prima di attingere nuovamente alla stessa parte dello stock. Perciò sarà necessario
avere uno stock di tonnellate:
100.000 x 20 = 2.000.000
E all’inizio dell’anno deve essere presente un’altra parte di stock di 19 anni, una di 18
e così via.
Se invece che a biomasse, la centrale andasse a carbone, il discorso sarebbe
esattamente lo stesso, ma poiché una valutazione possibile per il tempo necessario di
ricostituzione naturale del carbone dal legno è di 10 milioni di anni, lo stock per una
centrale da 100.000 t/a sarebbe dato da:
100.000 x 10.000.000 = 1.000.000.000.000 cioè mille miliardi di tonnellate.
Prima conclusione. Allora il problema non è il tipo di combustibile, ma la scala
temporale in cui il rinnovamento si verifica.
Pertanto il cardine del problema è il tempo di ricostituzione della fonte.
Lo stesso aspetto si presenta per la biomassa: noi possiamo considerare la biomassa
come rinnovabile soltanto se è garantito in modo preciso il pronto rimpiazzo dei
quantitativi combusti.
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in realtà il tempo di crescita è molto variabile in dipendenza delle specie considerate e della funzione attribuita
alle piante.
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Ma nel concetto di rinnovabile esiste un altro aspetto psicologicamente importante: il
concetto di fonte inesauribile. Nei non specialisti c’è la convinzione che il petrolio stia
per finire e che le biomasse debbano essere usate per poter avere energia una volta
finito il petrolio.
Quanto questa convinzione è attinente alla realtà?
Le disponibilità di fonti fossili non sono attualmente così ridotte come si prevedeva
(tempi stimati di esaurimento: 40 anni per petrolio, 60 anni per metano, 250 anni per
carbone), ma al di là di questo, si impongono considerazioni diverse: la necessità di
aumentare fortemente la produzione energetica per garantire lo sviluppo dei paesi in
crescita, di avere autosufficienza energetica, di superere eventuali crisi geopolitiche.
Ma soprattutto si impone la necessità di diminuire l’inquinamento dovuto alla
eccessiva combustione di fonti fossili. In sintesi: finirà prima l’aria o il petrolio?
La ricerca di fonti alternative (e il risparmio energetico) è di primaria importanza, ma
la combustione delle biomasse “tal quali” non può essere risolutiva. Il problema si
sposta sullo sviluppo delle fonti rinnovabili “tecnologiche”.
Seconda conclusione: la ricerca di fonti alternative nasce da esigenze diverse
dall’inesauribilità.
E le biomasse sono inesauribili?
Molto spesso si sentono affermazioni del tipo “le biomasse sono un patrimonio
immenso non sfruttato” (cfr. ad esempio La Stampa – Nord Ovest – sabato 14 ottobre
2006, pag. 44). Vediamo il caso della provincia di Cuneo, provincia che risulta
certamente più ricca di boschi di molte altre.
Fonte IPLA2: “la provvigione legnosa complessiva di tutti i boschi dell’area montana
della Provincia di Cuneo, in base ai dati dei PTF, è valutata in circa 40.320.000 m3 di
legname; di questi, nel corso del quindicennio di validità del piano e qualora si
eseguano tutti gli interventi previsti, sono potenzialmente retraibili circa 11.248.000
m3 equivalenti al 27,9% del totale (circa 750.000 m3 annui). Restringendo l’indagine
alle sole proprietà pubbliche la provvigione di riferimento scende a circa 12.279.000
m3 mentre la ripresa potenziale è di circa 1.912.000 m3 (15,6% 127.460 m3 annui).
Analizzando la disponibilità legnosa di assortimenti idonei alla sminuzzatura per
produzione di cippato, in 15 anni, si rendono potenzialmente disponibili circa
5.095.000 m3” che, secondo la tabella 15 dell’IPLA, corrispondono, per la provincia di
Cuneo, a 14.266.950 m3 (steri3) di cippato, cioè a 951.130 m3/a. Volendo tradurre in
tonnellate, utilizzando per il calcolo il dato, che peraltro dipende da vari fattori,
secondo cui 1 metro stero di cippato pesa 350 kg, si otterrebbe circa 332.895 t/a. Ma
attenzione: questi sono i quantitativi potenzialmente disponibili, non effettivamente
fruibili! Nelle conclusioni della pubblicazione IPLA si osserva che i quantitativi fruibili
sono molto inferiori a quelli disponibili e che il legno di risulta dagli interventi previsti
nel PFT ha spesso “destinazioni in competizione con la cippatura, in particolare la
legna da ardere in tronchetti che spunta prezzi nettamente più alti (faggio, querce,
robinia in particolare); anche nel caso del castagno la destinazione per l’industria del
tannino e dei pannelli di fibre o la paleria per ingegneria naturalistica costituiscono
possibili usi alternativi in competizione”.
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Istituto per le piante da legno e l’ambiente – “Valutazione sulla disponibilità di biomasse legnose destinabili
alla triturazione per uso energetico in zone montane provinciali e subprovinciali”, ottobre 2003
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Volume complessivo di 1 m3di pezzi di legno, compresi gli interstizi tra i pezzi
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Di fatto sul territorio provinciale è presente un’industria (I.C.L) che utilizza 110.000
t/a di legno di castagno (provenienti in parte anche da fuori provincia) per estrazione
di tannino e produzione di pannelli.
Ma allora come le alimentiamo tutte queste centrali? (le attuali proposte sono almeno
tre).
Il consumo di energia elettrica della provincia di Cuneo è stato nel 20054 di 4.788,1
milioni di KWh, cioè 4.788.100 MWh.
Anche se ipotizzassimo una o due centrali per un totale di 100.000 t/a di biomassa
legnosa, si potrebbero produrre annualmente 80.000 MWh (potenza elettrica
complessiva 10 MW) pari all’1,67% del consumo.
Terza conclusione: nell’attuale situazione cuneese le biomasse legnose non
costituiscono una fonte inesauribile e non si può neanche lontanamente pensare di
risolvere tutti i problemi energetici attraverso di esse.
Uno degli aspetti che conduce a considerare le biomasse legnose come auspicabili
fonti di energia è l’ipotesi di un contributo nullo all’effetto serra. Ma a quali condizioni
questo avviene davvero?
La combustione del legno produce anidride carbonica, tuttavia più o meno altrettanta
è la CO2 che è servita per la crescita del legno stesso.
Supponiamo di partire da un albero appena piantato. L’albero nella sua crescita
assorbe CO2 e fissa carbonio in modo crescente fino ad un certo punto in cui
raggiunge un equilibrio e il fabbisogno diventa costante. La velocità di assorbimento
della CO2 è proporzionale alla velocità di crescita della pianta, che risulta maggiore
quando la pianta è giovane e via via minore quando invecchia.
La miglior condizione di utilizzo del legno dei boschi si ha solo quando gli alberi sono
sfruttati una volta giunti a questo equilibrio, e quando il prelevamento di un individuo
sia compensato dall'insediamento di un'analoga pianta che sarà tagliata non prima
che anch'essa raggiunga l'equilibrio di crescita. (Altro discorso sono le colture
dedicate, per cui le piante allevate “in batteria” vengono tagliate anche ogni due anni
avendo come unica destinazione la cippatura).
Risulta allora chiaro come l'albero possieda una sorta di "credito di CO2" quantificabile
nella CO2 da esso assorbita durante la crescita. Tale credito può essere considerato
intrinseco al materiale e quindi conservato nei manufatti che prendono origine da quel
legno. Questo credito rimane "intrappolato" nel materiale sino a quando non
intervenga un processo di combustione o di degenerazione a liberare la CO2 e quindi a
reimmettere in atmosfera la quantità di carbonio precedentemente assorbita.
Sulla base di queste considerazioni, risulta possibile dire che il taglio di un albero e la
sua conseguente combustione non provoca alcun incremento delle emissioni di CO2 in
atmosfera.
Tuttavia anche in questo caso interviene il fattore tempo. E si vede chiaramente
riprendendo il caso del carbone. Le piante che si sono trasformate in carbone hanno
incamerato carbonio 10 milioni di anni fa e sono rimaste in deposito per tutto questo
tempo; l’equilibrio nell’atmosfera si è instaurato in assenza del carbonio fissato nei
giacimenti; la recente combustione delle fonti fossili è talmente rapida e consistente
da portare squilibri. Viviamo nell’età del fuoco. Motori a scoppio, centrali
termoelettriche, gran parte dell’industria, riscaldamento e raffreddamento degli edifici,
sono basati sulla combustione. Questo è il problema: liberare CO2 senza limiti e molto
più in fretta di quanto sia possibile l’assorbimento.
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Cfr. www.terna.it
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Ma anche per le centrali a biomasse, la liberazione della CO2 potrebbe essere non
adeguatamente compensata!
Quarta conclusione: la combustione delle biomasse legnose può essere considerata
neutra rispetto alla produzione di anidride carbonica soltanto se ogni prelievo viene
rimpiazzato in modo preciso con quantitativi equivalenti di piante in crescita. La
neutralità delle biomasse non può essere un assunto di base senza un’attenta verifica
delle condizioni.
Ai fini della riduzione dell’anidride carbonica in atmosfera, la combustione del legno
ottiene risultati ottimali?
In realtà la cosa più efficace dovrebbe essere:
 estendere le superfici dedicate alle foreste
 tagliare solo quando c’è la maturazione degli alberi
 utilizzare al massimo le parti legnose dedicabili ad opere
 produrre energia termica o elettrica soltanto dagli scarti.
I motivi dei primi due punti sono stati esplicitati sopra.
Per gli altri due, è evidente che c’è un beneficio se la CO2 assorbita dalle piante
rimane sotto forma di carbonio fissata all’interno di esse in deposito il più a lungo
possibile rinviando la liberazione della CO2 attraverso la combustione; ne consegue
che la combustione deve riguardare soltanto gli scarti, cioè una percentuale che varia
dal 20 al 30% delle piante abbattute. Lo stock necessario per la nostra ipotetica
centrale da 100.000 t/a va pertanto ulteriormente aumentato.
Attenzione: prima di ipotizzare la costruzione della centrale va verificata l’esistenza
dello stock!
Resta ancora da decidere se sia più opportuno l’utilizzo energetico degli scarti in
sostituzione di fonti non rinnovabili o la produzione di terriccio ammendante per
agricoltura (con fissazione del carbonio nel terreno) o addirittura la decomposizione
naturale nel bosco stesso con generazione di humus.
Da studi condotti in proposito si vede che, proprio allo scopo di contenere la
produzione di CO2, sia il compostaggio sia la digestione anaerobica degli scarti organici
sono più favorevoli rispetto alla combustione, pur avendo sottratto il contributo delle
altre fonti per la stessa produzione elettrica.
Un commento a parte è che, comunque, ovviamente, per ottenere riduzione della CO2,
sarebbe necessaria una politica mondiale di estensione delle superfici forestali e di
cessazione dell’attuale massiccio sfruttamento da parte di alcuni paesi, per tentare di
arrestare la desertificazione in atto.
Quinta conclusione: nonostante che, a determinate condizioni, si possa dire che la
combustione di biomasse legnose ha effetto neutro rispetto all’aumento di CO2 in
atmosfera, esistono modalità di gestione con risultati migliori rispetto allo scopo di
contenere tale aumento.
Ma le emissioni di una centrale a biomasse legnose sono costituite solo da anidride
carbonica?
Il processo di combustione coinvolge anche gli altri elementi presenti e i prodotti sono
moltissimi in dipendenza della composizione chimica dei combustibili stessi, della
disponibilità di ossigeno e della completezza della combustione.
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Per la legna vergine non trattata5:
Anidride carbonica CO2, Ossido di carbonio CO, IPA6 (componenti a maggior rischio dei
prodotti catramosi), Metano CH4, Acido acetico CH3COOH, Acetone CH3COCH3, Alcool
metilico HCH2OH, Paraffina (miscela a composizione variabile), Fenolo C6H5OH, TCDD
C12H4Cl4O2, Ossidi di azoto7 NOx, Anidride solforosa SO2, Acido cloridrico HCl, Acido
fluoridrico HF.
Ci sono poi le polveri!
Sesta conclusione: l’impatto ambientale di una centrale a biomasse legnose è da
valutare attentamente.
Come mai si verifica una continua richiesta di realizzare centrali a biomasse legnose?
Come tutti sanno, per le fonti rinnovabili di energia sono previste incentivazioni (in
passato “CIP6”, attualmente “certificati verdi”). Nel mese di settembre 2006 il prezzo
medio di acquisto dell’energia nella borsa elettrica è stato pari a 76,62 €/MWh. I
certificati verdi per il 2006 sono stati di 130,61 €/MWh. Quindi il MWh prodotto con
fonti rinnovabili viene pagato in media circa 207 €/MWh. Poiché il costo di produzione
di 1 MWh per una centrale a biomasse, tenuto conto di tutte le spese, compreso
l’ammortamento impianti, si può ipotizzare che vicino a 120 €, c’è ancora un buon
margine per chi si accinge all’impresa. Per una centrale da 100.000 t/a di biomasse,
per cui si può ipotizzare una potenza elettrica di 10 MWe, l’introito annuale
proveniente solo da incentivi è dato da:
10 MW x 8.000 h x 130,6 €/MWh = 10.448.000 €
e per 12 anni:
125.376.000 € = ca 243 miliardi di lire.
Paradossalmente però il mercato del legno favorisce le importazioni, portando cioè alla
conseguenza di annullare i benefici locali in termini di occupazione e valorizzazione del
territorio. L’obiettivo principale dovrebbe essere quello di non incrementare a livello
globale la produzione di CO2 e inoltre quello di attivare a livello locale un circuito di
utilizzo del patrimonio forestale e degli scarti agricoli, quindi gli impianti devono
necessariamente vivere delle risorse locali. Di fatto, con le massicce importazioni a cui
assistiamo in alcune centrali attualmente funzionanti, si verifica che localmente
aumenta la concentrazione di CO2 e si producono altre sostanze inquinanti, senza
ritorni ambientali e socio-economici compensativi.
In realtà i cittadini pagano sulle bollette ENEL per un risultato che, nel caso delle
centrali elettriche a biomasse, come si è visto, non è garantito a priori. Tirando tutte
le somme, forse alla fine c’è guadagno solo per i gestori della centrale. Comunque che
il guadagno per i gestori della centrale non sia irrilevante è testimoniato dal numero di
progetti presentati (9 solo nel Cebano-Monregalese dal 1998 ad oggi).
Di fatto credo che la proliferazione di proposte di centrali a biomasse nasca
esclusivamente da due fattori: incentivi e possibilità di passare alla combustione del
CDR.
Conclusioni sull’uso delle biomasse a scopi energetici.
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Carlo Coco - La centrale termoelettrica di Scagnello – Memoria presentata al TAR Piemonte - febbraio 2001
IPA: idrocarburi policiclici aromatici; i dati si riferiscono al benzo(a)pirene.
I dati si riferiscono al biossido di azoto (NO2)
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A conclusione farò intervenire la Regione Liguria che nel Piano energetico ambientale
dice:
“I provvedimenti tesi a favorire lo sviluppo della produzione elettrica da fonti rinnovabili nel nostro
paese, di cui non si è ancora in grado di valutare gli effetti, possono potenzialmente provocare
distorsioni del mercato delle biomasse, in quanto gli alti incentivi alla produzione elettrica rendono
conveniente e perseguibile la strada del rifornimento di biomassa da luoghi molto lontani, tramite
trasporti navali, sia da altre regioni italiane che dall’estero. Tale scenario può essere contrastato
tramite scelte organizzative, produttive e impiantistiche calate nelle realtà locali e dimensionate sui
bisogni o le potenzialità locali. La sola attenzione agli aspetti impiantistici e alla domanda
energetica locale o regionale non sono sufficienti ad assicurare la riuscita dell’iniziativa che può e
deve trovare nella multifunzionalità del patrimonio boschivo la sua redditività ad oggi inespressa.
Molteplici sono le criticità che ostacolano la realizzazione di una politica di rilancio dell’impiego
delle biomasse legnose. Per la Regione possono essere identificate in: la frammentazione della
proprietà, l’accessibilità stradale, l’acclività, la diffusione capillare della rete del metano, la
molteplicità dei soggetti istituzionali e la complessità degli iter autorizzativi.
La diffusione ormai capillare della rete distributiva del metano impone di valutare sul lato domanda
energetica di calore solo le necessità degli edifici pubblici o collettivi dato che è difficile ipotizzare
la disponibilità dei privati a realizzare allacciamenti a una rete di teleriscaldamento quando preesiste
una rete del metano.
La scelta della taglia di impianto o di una tra le diverse tecnologie di produzione di energia termica
od elettrica deve essere compatibile, in primis, con la disponibilità reale di biomassa e con le utenze
energetiche.
Essendo l’obiettivo quello di attivare un circuito virtuoso, di utilizzo “produttivo” del bosco, gli
impianti devono necessariamente vivere delle risorse forestali locali e non costituire attrazione per
ulteriori importazioni.
Le caratteristiche dei boschi liguri fanno sì che il quantitativo massimo di biomassa secca
disponibile non superi le 30.000 t/a, fattore che restringe la tipologia di impianto utilizzabile a due:
impianti per la produzione di energia elettrica che potrebbero orientativamente essere compresi tra 1
e 4 MWe e impianti per la produzione di calore”.
Dunque non sono sola nel porre problemi e condizioni!
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