Prospettive in Pediatria Gennaio-Marzo 2016 • Vol. 46 • N. 181 • Pp. 10-24 Malattie metaboliche ereditarie Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni Rossella Parini1 Alessandra Brambilla1 Cinzia Galimberti1 Serena Gasperini1 Attilio Rovelli2 UOS Malattie Metaboliche Rare, Clinica Pediatrica, Fondazione MBBM, ASST-Monza, Monza; 2 UOS Trapianto di Midollo, Clinica Pediatrica, Fondazione MBBM, ASST-Monza, Monza 1 La comprensione sempre maggiore dei meccanismi fisiopatologici e l’acquisizione di sempre più raffinate tecniche di manipolazione cellulare hanno dato un grande impulso, a partire dagli anni 2000, allo sviluppo di terapie specifiche per le malattie metaboliche, anche associabili in terapia combinata, che permettono di aumentare l’attività enzimatica attraverso diversi meccanismi d’azione o di detossificare o ridurre il substrato accumulato. Ciò ha portato molte speranze all’interno della comunità scientifica, delle associazioni di pazienti e della popolazione. Purtroppo ci si è poi resi conto del fatto che più frequentemente le manifestazioni della malattia sono solo attenuate dalla terapia innovativa, che lascia un’importante componente non risolta di malattia residua, con conseguente riduzione della qualità di vita del paziente e della famiglia. Vengono prese in considerazione in questo articolo le terapie attualmente disponibili per le malattie metaboliche (terapia dietetica, trapianto di cellule staminali ematopoietiche, terapia enzimatica sostitutiva, terapia genica, terapia di riduzione del substrato, terapia di modificazione del substrato, terapia di stabilizzazione enzimatica), analizzandone i limiti di cui ci si è dovuti rendere conto (delusioni) a lungo termine dopo le iniziali speranze e i successi verificati a breve termine. Riassunto With the progressive improvement of knowledge on pathophysiological mechanisms and cell manipulation, from the year 2000 many specific innovative treatments for metabolic diseases, as monotherapy or in combination, were developed that increased the activity of the defective protein or decreased the amount of the accumulated substrate. Such progress brought hope to the scientific community, patients associations and the general population. However, it soon became clear that frequently such innovative drugs were only able to attenuate the manifestations of the disease in patients, while significant burden of disease remained which severely impacts quality of life for patients and families. Herein, we focus on the available treatment options for metabolic diseases (diet therapy, haematopoietic stem cell transplantation, enzyme replacement therapy, gene therapy, substrate reduction and substrate modification therapy, pharmacological chaperone therapy), analysing the limits of their efficiency in the long-term (disappointments) after the initial hopes and achievements seen in the short-term. Summary Abbreviazioni ADA-SCID: Sindrome da immunodeficienza combinata da deficit congenito di adenosin-deaminasi AIFA: Agenzia Italiana Farmaco AS: Arginasi BEE: Barriera emato-encefalica BH4: Tetraidrobiopterina, cofattore della fenilalanina idrossilasi 10 BMT: Bone marrow transplantation = trapianto di midollo CGD: Chronic granulomatous disease = malattia granulomatosa cronica CPS: carbamilfosfato sintetasi DGJ : 1-deossigalattonojirimicina DQ: Developmental quotient = quoziente di sviluppo E-IMD: European registry and network for intoxication type metabolic diseases Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni ERT: Enzyme replacement therapy = terapia enzimatica sostitutiva GLD: Leucodistrofia a cellule globoidi (malattia di Krabbe) GSD: Glycogen storage disease = glicogenosi HSCT : Haematopoietic stem cell transplantation = trapianto di cellule staminali ematopoietiche IVA: Isovaleric Acidemia = acidemia isovalerica MLD: Leucodistrofia metacromatica Mannosio 6P: Mannosio-6-fosfato MMA: Methylmalonicacidemia = acidemia metilmalonica MNGIE: Mitochondrial neurogastrointestinal encephalopathy = encefalopatia neuro-gastro-intestinale mitocondriale MPS IH/H-S/S: Mucopolisaccaridosi I Hurler/Hurler-Scheie/ Scheie MPS: Mucopolisaccaridosi NAGS: N-acetilglutammato sintetasi NYHA: New York Heart Association OTC: ornitina transcarbamilasi PKU: fenilchetonuria PTC124: Sinonimo di Ataluren SRT: Substrate reduction therapy = terapia di riduzione del substrato TES: Terapia enzimatica sostitutiva Metodologia della ricerca bibliografica È stata svolta una ricerca attraverso PubMed utilizzando termini quali “inborn errors of metabolism”, “metabolic diseases”, “genetic diseases”, “lysosomal storage disease”, “organic acidemias”, “urea cycle defects”, “tyrosinemia”, “alkaptonuria”, “ADA-SCID”, “treatment efficacy”, “treatment outcome”, “guidelines”, “recommendations”, “HSCT”, “BMT”, “substrate reduction therapy”, “enzyme enhancement therapy”, “ERT”, “substrate modification”, “PTC124”, “pharmacological chaperone therapy”, anche incrociandoli tra loro, con filtro per articoli successivi al 2009. Sono stati inoltre inclusi studi noti agli autori, anche se pubblicati prima di quella data. Introduzione Molto è cambiato nel campo della patologia metabolica ereditaria negli ultimi trent’anni, l’abbiamo vissuto giorno per giorno e forse stentiamo a rendercene conto. Il cambiamento più evidente è stato sulle malattie da accumulo lisosomiale, malattie che trent’anni fa avevano solo terapie palliative e ora hanno a disposizione sulla carta una serie di diversi trattamenti con diversi meccanismi d’azione, anche associabili tra loro. Paradossalmente, la terapia in cui si riponevano allora le maggiori speranze, la terapia genica, solo oggi inizia a proporsi, e per un numero ancora molto limitato di malattie (leucodistrofia metacromatica, adrenoleucodistrofia), nella realtà clinica (Aubourg, 2016). Trent’anni fa molti di noi pensavano che in un tempo ragionevole si sarebbe arrivati anche ad avere a disposizione una terapia risolutiva per le malattie metaboliche da intossicazione (acidosi organiche e difetti del ciclo dell’urea), che sarebbe potuta essere la stessa terapia genica, o una molecola esogena capace di metabolizzare il metabolita tossico, o un preparato che inibisse a monte la via metabolica bloccata. Quest’ultima evenienza si è verificata in effetti per una sola malattia, la tirosinemia tipo I che ha visto una profonda modificazione della propria storia naturale. Nonostante gli importanti avanzamenti che complessivamente sono stati ottenuti nella cura delle malattie metaboliche, possiamo anche vedere chiaramente i limiti di questo cammino verso la migliore terapia possibile che, non raggiungendo completamente l’obiettivo sperato (una “pseudo-guarigione”), porta con sé costi prima di tutto umani e sociali non indifferenti. Obiettivo La presente review si è posta l’obiettivo di prendere in considerazione le possibilità terapeutiche che sono attualmente disponibili per vari tipi di malattie metaboliche rare e tentare di fare una revisione critica dei successi e delle limitazioni di ognuno sulla base della letteratura più recente. Le malattie metaboliche rare e le terapie Le malattie metaboliche rare sono malattie genetiche monogeniche che interessano il metabolismo intermedio degli aminoacidi, degli zuccheri o dei lipidi, il metabolismo/traffico delle molecole nei vari organelli intracellulari e altre particolari vie metaboliche che comprendono il metabolismo dei metalli, degli acidi nucleici, della sintesi dell’eme, degli acidi biliari, degli ormoni, dei neurotrasmettittori. Sono trasmesse nella maggior parte dei casi in maniera autosomica recessiva, alcune sono X-linked e altre riconoscono una trasmissione matri-lineare perché dovute ad alterazioni del DNA mitocondriale. La cura per qualunque malattia metabolica può essere ideata solo quando sia ben nota la fisiopatologia e quando sia disponibile la tecnologia di supporto (ad esempio per le malattie da accumulo è stato necessario comprendere il ruolo del mannosio-6P, biomarker presente sulla maggior parte degli enzimi indirizzati al lisosoma e sviluppare la tecnica del DNA ricombinante). Presentiamo qui aggiornamenti e considerazioni riguardo alla maggior parte delle terapie disponibili attualmente per le malattie metaboliche, seguendo un ordine temporale di introduzione nella pratica clinica. Terapia dietetica La terapia dietetica rappresenta la base del trattamento delle malattie da difetto del catabolismo proteico (aminoacidopatie, acidosi organiche, difetti del ciclo dell’urea), delle glicogenosi (difetti di catabolismo del glicogeno) e dei difetti della beta ossidazione dei grassi (difetti di utilizzo dei lipidi). I principi su cui si 11 R. Parini et al. basa la terapia dietetica di questi gruppi di patologie sono stati ben definiti nella seconda metà del ’900 e sono sintetizzati nella tabella I. Alla terapia dietetica si associano farmaci diversi nelle diverse patologie (Tab. I) e anche per questi non si sono registrate grandi novità negli ultimi anni, salvo la disponibilità di un nuovo preparato detossificante (scavenger) per via endovenosa per le iperammoniemie che associa sodio benzoato e sodio fenilacetato (Ammonul®) (Häberle et al., 2012) e l’acido carglumico (Carbaglu®), disponibile per via orale per il difetto di N-acetlglutammato sintetasi (NAGS), un raro difetto del ciclo dell’urea e in corso di studio per le iperammoniemie secondarie delle acidosi organiche. L’acido carglumico è un analogo strutturale dell’N-acetilglutammato a cui si sostituisce nel difetto di NAGS per attivare la carbamilfosfato sintetasi (Häberle et al., 2012). Aminoacidopatie/acidosi organiche/difetti del ciclo dell’urea Rilevanti negli ultimi anni per queste patologie sono stati i tentativi di sistematizzare le informazioni sulla storia naturale e la terapia con studi multicentrici indipendenti, soprattutto a livello europeo (se ne citano solo alcuni: Häberle et al., 2012, Huemer et al., 2015a, Huemer et al., 2015b, Huemer et al., 2016; Baumgartner et al., 2014). In quest’ottica è anche la creazione di un registro per le acidosi organiche e i difetti del ciclo dell’urea nel contesto di un consorzio (E-IMD) finanziato dall’Unione Europea, che ha raccolto dati su 795 pazienti (Kölker et al., 2015a, 2015b, 2015c, Heringer et al., 2015). Questi lodevoli sforzi non hanno per il momento sortito particolari nuove indicazioni in merito al trattamento dei pazienti. Una riflessione sulla medicalizzazione eccessiva che è sempre in agguato può essere fatta leggendo due lavori del gruppo di Venditti (NIH, Bethesda, USA) sulle acidemie metilmaloniche, isolata e con omocistinuria (Manoli et al., 2015a; Manoli et al., 2015b). Questi lavori mostrano che l’uso eccessivo di miscele aminoacidiche prive dei precursori (valina, isoleucina, treonina e metionina) determina verosimilmente uno sbilanciamento degli apporti aminoacidici a favore della leucina, portando a una riduzione di valina e isoleucina plasmatiche e in ultima analisi a un deficit di accrescimento nell’acidemia metilmalonica isolata, mentre i pazienti con acidemia metilmalonica con omocistinuria corrono un rischio ancora più grave, in quanto possono andare incontro a una carenza di metionina che può portare gravi danni allo sviluppo cerebrale (Manoli et al., 2015b). Se associamo questi dati all’informazione che la qualità di vita di questi pazienti e dei loro famigliari è peggiore di quella dei bambini leucemici, dei pazienti Down e di quelli con anemia falciforme e che la necessità di dieta rigida occupa un posto importante nella riduzione della qualità di vita (Fabre et al., 2013), ci rendiamo conto della necessità di fare passi avanti nella terapia di questi pazienti. Tabella I. Terapia dietetica e farmaci associati. Gruppo di malattie Principale obiettivo della dieta Altri scopi Terapie farmacologiche associate Difetti del catabolismo degli aminoacidi Riduzione apporto proteico Evitare catabolismo proteico, mantenere buon accrescimento, evitare carenze nutrizionali B12 (MMA), B6 (omocistinuria) Glicina (IVA) Biotina (def biotinidasi) Carnitina (acidurie organiche) Nitisinone (tirosinemia tipo I, Alcaptonuria?) BH4 nella PKU Difetti del ciclo dell’urea Riduzione apporto proteico Evitare catabolismo proteico, mantenere buon accrescimento, evitare carenze nutrizionali Citrullina (per CPS e OTC), arginina (tranne che per AS), acido carglumico (per difetto di NAGS) Farmaci detossificanti (scavenger): sodio fenilbutirrato, sodio benzoato, sodio fenilacetato Difetti della degradazione o della sintesi del glicogeno Pasti piccoli e frequenti Diverso rapporto carboidrati/ proteine/lipidi in relazione alle vie metaboliche funzionanti, mantenere buon accrescimento, evitare carenze nutrizionali Sintomatici Difetti della beta-ossidazione degli acidi grassi Pasti piccoli e frequenti Scarso apporto lipidico. Mantenere buon accrescimento, evitare carenze nutrizionali Riboflavina nelle forme sensibili Carnitina in alcuni difetti 12 Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni Glicogenosi (GSD) Un’altra riflessione va fatta sul trattamento dietetico della GSD tipo III che dovrebbe essere iperproteico per sfruttare la neoglucogenesi normalmente funzionante in questi pazienti e il più possibile ipoglucidico per evitare l’accumulo di molecole di glicogeno anormale nei muscoli, nel cuore e nel fegato (Kishnani et al., 2010). L’indicazione contemporanea a utilizzare la maizena cruda se il paziente non è in grado di mantenere la glicemia tra un pasto e l’altro diventa in qualche modo contradditoria, perché la maizena è un carboidrato e la dieta a quel punto nella pratica non può più essere ipoglucidica. Molti pazienti trattati con la dieta iperproteica ma non ipoglucidica, sviluppano grave ipostenia, cardiomiopatia e cirrosi. Come uscire da questo circolo vizioso? Sono stati pubblicati negli ultimi anni un certo numero di casi trattati con dieta iperlipidica, oltre che iperproteica, e tutti hanno avuto un netto miglioramento della cardiomiopatia e delle performance muscolari (Valayannopoulos et al., 2011; Brambilla et al., 2014; Mayorandan et al., 2014a) L’apporto di lipidi si associava a quello proteico per produrre energia attraverso la neoglucogenesi e i pazienti non avevano più necessità di maizena cruda per mantenere la glicemia. Questi risultati che sembrano indicare una superiorità della dieta iperproteica e iperlipidica sulla semplice dieta iperproteica nel mantenere l’omeostasi glucidica pur riducendo l’apporto di glucidi, necessitano di ulteriori conferme soprattutto sulla sicurezza di questa dieta a lungo termine. Il trapianto di fegato Utilizzato da tempo per i difetti del ciclo dell’urea e per le acidosi organiche, il trapianto di fegato mantiene la sua importanza soprattutto per i primi (Häberle et al., 2012). È in corso un dibattito riguardo all’indicazione per l’aciduria argininosuccinica in quanto non è chiaro se un trapianto precoce possa o meno prevenire il ritardo mentale (Nagamani et al., 2012). Solo negli Stati Uniti dal 1987 al 2010 sono stati trapiantati di fegato 265 soggetti pediatrici e 13 adulti affetti da difetti del ciclo dell’urea con sopravvivenza a 10 anni del 87% (Yu et al., 2015). Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (Haematopoietic Stem Cell Transplantation – HSCT) da midollo osseo o sangue cordonale è stato proposto sin dagli anni ’80 per le malattie da accumulo lisosomiale ed è a tutt’oggi l’unica terapia con dimostrata efficacia nella protezione del sistema nervoso centrale (Platt e Lachmann, 2009; Shapiro et al., 2015). Il HSCT permette di trasferire da un donatore sano al malato cellule multipotenti scarsamente differenziate che colonizzeranno vari tessuti. Queste cellule secernono l’enzima carente nei liquidi biologici in cui si trovano, permettendo così che le cellule del paziente, prive dell’enzima, possano captarlo e utilizzarlo. È stato dimostrato che, se si effettua un buon condizionamento, le cellule trapiantate attecchiscono e passano la barriera ematoencefalica (BEE) diventando cellule della microglia; popolano così progressivamente il sistema nervoso centrale, ottenendo che l’enzima carente sia presente in concentrazioni efficaci anche al di là della BEE (Capotondo et al., 2012). Sulla base dei successi ottenuti inizialmente sulla malattia di Hurler (Hobbs et al., 1981), negli ultimi anni ’80 e negli anni ’90 erano sorte molte speranze di poter trattare con il trapianto tutta una serie di malattie lisosomiali, ma solo per poche di esse si è potuto dimostrare un chiaro beneficio soprattutto riguardo al sistema nervoso centrale (Orchard e Tolar, 2010; Aldenhoven et al., 2015). Molto presto si comprese che il trapianto, nonostante fosse chiaramente efficace nella MPS I, non poteva essere la terapia di scelta per molte malattie con danno cerebrale molto precoce (Gaucher tipo II, forme gravi neonatali di mucolipidosi tipo II, GM 1 gangliosidosi e malattia di Krabbe a esordio precoce infantile), per la MPS III, dove il ritardo mentale è profondo e la diagnosi è spesso tardiva perché i segni somatici sono più sfumati, e neppure per la MPS II che di primo acchito poteva sembrare così simile clinicamente alla MPS I. Nella MPS I un trapianto precoce nel primo anno di vita, con quoziente di sviluppo normale, garantisce una buona protezione del sistema nervoso centrale (Aldenhoven et al., 2015), mentre non ha un effetto altrettanto brillante sulla statura e sulla struttura delle ossa che hanno verosimilmente un danno molto precoce e poco reversibile. Anche il trattamento associato ad ERT peri-trapianto, per garantire un buon livello enzimatico dal momento della diagnosi, non è stato sufficiente a modificare sostanzialmente il quadro scheletrico. La recente dimostrazione di una normale evoluzione dello scheletro nei topi MPS I trapiantati in età neonatale (Pievani et al., 2015) suggerisce che il trattamento pre-sintomatico potrebbe prevenire il danno osseo. Mentre per la MPS I esiste un’esperienza convalidata da più di 500 casi (Aldenhoven et al., 2015), per molte altre malattie lisosomiali l’esperienza è molto più limitata ed è spesso difficile trarre conclusioni definitive (Platt e Lachmann, 2009; Hollak e Wijburg, 2014). Nonostante alcuni autori indichino HSCT come terapia “standard” anche per malattia di Krabbe (GLD) e leucodistrofia metacromatica (MLD) se asintomatiche o con sintomi lievissimi (Boelens et al., 2014) in realtà il ruolo di HSCT è ancora dibattuto per queste patologie e va considerato sperimentale (Boucher et al., 2015; Duffner et al., 2009). Maggiore accordo si ha nel mondo scientifico riguardo all’adrenoleucodistrofia X-linked, per la quale è stato riportato che oltre il 50% dei sopravviventi trapiantati con minimi deficit neurologici e minimo interessamento alla risonanza magnetica, mantenevano stabili fun13 R. Parini et al. zioni neurologiche e cognitive a lungo termine dopo il trapianto (Miller et al., 2011). Un lavoro retrospettivo recente sui 5 pazienti olandesi che avevano raggiunto l’età adulta, riporta però che 3 su 5 hanno sviluppato mielopatia nella terza decade di vita, mettendo così in dubbio l’efficacia di HSCT a lungo termine (van Geel et al., 2015). Per tutte le altre malattie metaboliche, HSCT può essere una delle diverse opzioni terapeutiche per specifici casi selezionati, o un approccio “sperimentale”, perché non sono disponibili a oggi sufficienti dimostrazioni di efficacia o addirittura controindicato poiché non efficace (Tab. II). Negli anni il rischio di morbilità e mortalità di HSCT è progressivamente diminuito, come dimostrano i dati disponibili su MPS I: overall survival 78% negli anni ’94-2004, 95% nel decennio successivo; event free survival 40% negli anni ’94-2004 e 90% negli anni 2004-’14 (Aldenhoven et al., 2015). La minore attuale tossicità del trapianto ha portato: 1) al suggerimento di estendere l’indicazione a soggetti MPS I Hurler-Scheie, meno gravi dei pazienti Hurler, ma con lento declino del quoziente di sviluppo (de Ru et al., 2011); 2) a riconsiderare la possibilità di riapplicare HSCT solo all’interno di protocolli sperimentali ben definiti, in alcune patologie che sono di fatto ancora orfane di terapia, come ad esempio la forma severa di malattia di Hunter (MPS II), sulla base del fatto che la letteratura disponibile sulle esperienze fatte in passato è scarsa, riporta spesso piccole serie di soggetti trattati con protocolli differenti in centri diversi, spesso trapiantati da sorella portatrice e soprattutto in fase già sintomatica (Guffon et al., 2009; Tanaka et al., 2012). Terapia enzimatica sostitutiva L’approccio terapeutico alle patologie da accumulo Tabella II. Trapianto di cellule staminali ematopoietiche. Indicazioni. Patologia MPS I H Terapia standard^ Opzionale* Sperimentale § Se il paziente ha un DQ ≥ 80. MPS I H/S, MPS I S, MPS IIB, MPS IV, MPS VI Farber; Tay-Sachs; Sandhoff Pompe Niemann-Pick A e B Riferimenti bibliografici Se malattia avanzata Aldenhoven et al., 2015 Boelens et al., 2014 Da valutare su base individuale insieme ad altre opzioni MPS III Adrenoleucodistrofia X-linked; MLD; GLD Controindicato $ Se paziente asintomatico o segni lievissimi Se paziente asintomatico o segni lievissimi Sempre Welling et al., 2015 Se malattia avanzata Boelens et al., 2014 Se malattia avanzata Boelens et al., 2014 Si Boelens et al., 2014 Se paziente asintomatico o segni lievissimi Boelens et al., 2014 Niemann-Pick C tipo 1 Sempre Vanier, 2010 Niemann-Pick C tipo 2 Si Vanier, 2010; Breen et al., 2013 Deficit multiplo di solfatasi Si Boelens et al., 2014 MNGIE Si Halter et al., 2015 ^ Terapia di prima linea * È fattibile e può dare risultati ma non è la terapia di prima linea § Non sono disponibili evidenze di efficacia sufficienti ma è possibile che sia efficace $ Quando è noto o si suppone che la malattia non possa rispondere al trapianto 14 Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni lisosomiale è cambiato enormemente dopo l’introduzione della Terapia Enzimatica Sostitutiva (TES o, termine più usato, dall’inglese ERT cioè Enzyme Replacement Therapy). Tale strategia terapeutica ha infatti rappresentato la più significativa acquisizione degli ultimi decenni nel trattamento delle patologie da accumulo lisosomiale, pur avendo a priori il grosso limite di non passare la BEE (Platt e Lachmann, 2009) (Tab. III). ERT si basa sulla somministrazione tramite infusioni endovenose periodiche di enzimi lisosomiali ricombinanti che, una volta infusi, si distribuiscono ai tessuti e vengono internalizzati dalle cellule e diretti ai lisosomi grazie alla presenza di marcatori (quali ad esempio il mannosio-6-fosfato). Nel compartimento lisosomiale questi agiscono ristabilendo l’attività dell’enzima deficitario. La ERT è stata introdotta in clinica nei primi anni ’90 per il trattamento della malattia di Gaucher, patologia dovuta a deficit dell’enzima glucocerebrosidasi e caratterizzata dal coinvolgimento del compartimento macrofagico viscerale. L’impiego della ERT nella malattia di Gaucher tipo I, la forma più comune priva di interessamento del sistema nervoso centrale, ha portato a un tale miglioramento del quadro clinico che dopo circa un decennio dalla sua introduzione, uno dei massimi esperti di malattia di Gaucher nel 2004 affermava che “senza esagerare, la terapia enzimatica è stata una rivoluzione nella cura [dei pazienti con la malattia di Gaucher]” (Grabowski, 2004). Dopo l’inizio del trattamento con ERT, nei pazienti Gaucher si può osservare un miglioramento rapido di anemia, trombocitopenia ed epatosplenomegalia (alcuni mesi), mentre i cambiamenti in termini di aumento della densità minerale ossea richiedono anche 4-8 anni (Goker-Alpan, 2011). Il successo della ERT nella malattia di Gaucher stimolò lo sviluppo di questo approccio per il trattamento di altre malattie da accumulo come la malattia di Fabry, le MPS di tipo I, II, IV e VI e la malattia di Pompe. Per queste malattie l’effetto della ERT non si è dimostrato così dirompente come per la malattia di Gaucher, come già Grabowski aveva previsto, sulla base della patogenesi e del diverso coinvolgimento Tabella III. Malattie per le quali è disponibile ERT e trial selezionati, ancora in corso, con ERT modificato. Patologia ERT disponibile ERT attualmente in trial Riferimenti bibliografici o codice identificativo in https://clinicaltrials.gov MPS I ERT: Laronidase (Aldurazyme®) ERT intratecale associata a HSCT Hollak e Wijburg, 2014 NCT00638547 MPS II ERT: Idursulfase (Elaprase®) ERT intratecale Hollak e Wijburg, 2014 NCT02055118 e altri ERT intratecale NCT02716246 MPS III A MPS III B ERT intratecale NCT02324049 MPS IV ERT: Elosulfase (Vimizim®) Hendriksz et al., 2014 MPS VI ERT: Galsulfase (Naglazyme®) Hollak e Wijburg, 2014 MPS VII ERT NCT02432144 Gaucher ERT: Imiglucerase (Cerezyme®) Velaglucerase alfa (Vpriv®) Taliglucerase (Elelyso®) Hollak and Wijburg, 2014 Fabry ERT: Agalsidasi alfa (Replagal®); Agalsidasi beta (Fabrazyme®) El Dib et al., 2013 Pompe ERT (Myozyme®) ERT modificato + Chaperone (ATB200/AT2221) Kishnani et al. 2009a Niemann-Pick tipo B ERT (sfingomielinasi ricombinante) NCT02292654 Deficit di lipasi acida lisosomiale (LAL) ERT Sebelipase alfa NCT01757184 Alfa mannosidosi ERT alfa mannosidasi ricombinante (Lamazym®) NCT01285700 Ceroidolipofuscinosi tipo 2 ERT intratecale (Rh Tripeptidyl peptidase 1- BMN190) Ortolano et al., 2014 NCT00976352 15 R. Parini et al. tessutale, nell’editoriale già citato (Grabowski, 2004). Tutte le ERT che progressivamente, dal 2001 a oggi, hanno ricevuto l’“autorizzazione all’immissione in commercio”, hanno superato il vaglio dell’agenzia regolatrice europea (EMA) e di quella italiana (AIFA), dopo che la loro efficacia era stata dimostrata dagli studi clinici di fase III previsti. Progressivamente negli anni il numero di pazienti che si consideravano necessari per una buona riuscita di questo tipo di studi è aumentato fino ai 176 pazienti, che hanno partecipato nel 2012-2014 al trial di fase III della terapia con elosulfase alfa per la malattia di Morquio A (MPS IVA), mentre i test richiesti per valutarne l’efficacia a breve termine sono rimasti molto simili. Nonostante il continuo miglioramento della qualità dei protocolli di studio, esistono attualmente molte perplessità sulla reale efficacia a lungo termine della ERT in queste malattie, che possono riferirsi a vari aspetti: A. prima di tutto esistono i limiti degli strumenti correntemente utilizzati, necessariamente endpoints a breve termine, per dimostrare l’efficacia di ERT nei trial clinici, spesso distanti dalla realtà clinica, dove possono essere impiegati a lungo termine solo su un numero limitato e selezionato di soggetti – si escludono ad esempio i pazienti non collaboranti come i bambini troppo piccoli o i pazienti con ritardo mentale e quelli che non possono per ragioni fisiche sostenere questi test (Glamuzina et al., 2011) –, richiedono tempo disponibile da parte dell’équipe medica e un’uniformità di esecuzione che non sempre può essere raggiunta. Gli stessi test inoltre, sul lungo termine, hanno a volte rivelato outcome differenti (Tylki-Szymanska et al., 2010; Parini et al., 2015). Da questo punto di vista risultano essere sempre più cruciali gli studi collaborativi internazionali necessari per determinare l’efficacia a lungo termine della ERT e le nuove complicanze a distanza associate alle patologie in questione; B. solo per pochi organi/apparati (come fegato, milza, tessuto muscolare cardiaco) ci si può aspettare di ottenere con l’ERT una regressione dei segni di malattia, mentre nella maggior parte dei casi l’ERT si limita a stabilizzare la situazione quo ante o rallentare la progressione. È questo il caso soprattutto del tessuto osseo e cartilagineo, dell’occhio e delle valvole cardiache per le MPS, degli apparati cardio-vascolare e renale già colpiti da danno fibrotico avanzato nella malattia di Fabry, del tessuto muscolare scheletrico per la malattia di Pompe (Hollak e Wijburg, 2014). Ciò accade verosimilmente per una serie di ragioni: 1. l’accumulo del substrato è molto precoce e si hanno dimostrazioni che avvenga già durante la vita fetale (Muenzer, 2014). 2. questo provoca all’interno della cellula una serie di reazioni secondarie e terziarie a catena, tra le quali alterato riconoscimento dei segnali 16 intracellulari, attivazione di vie sintetiche proinfiammatorie, precoce apoptosi cellulare, che determinerebbero in alcuni tessuti, come ad esempio la cartilagine di accrescimento nelle MPS, un danno irreversibile; 3. la scarsa efficacia sul tessuto osseo e quindi sulla crescita staturale sarebbe favorita anche dalla scarsa penetrazione della ERT, per la ridotta vascolarizzazione del tessuto osseo. Appare chiaro ormai nelle MPS, da osservazioni su coppie di fratelli, che il trattamento precoce, quasi pre-sintomatico, permette di ottenere una migliore evoluzione della crescita e della struttura dell’osso (McGill et al., 2010, Tajima et al., 2013, Laraway et al., 2013, Leal et al., 2014, Gabrielli et al., 2016) come a dimostrare che il problema principale non sia tanto la penetrazione nel tessuto osseo, quanto l’impossibilità di intervenire su tessuti già alquanto danneggiati sia dall’accumulo che dalla cascata di reazioni a catena innescata dall’accumulo. Da qui l’accento che viene posto, sia dalle società scientifiche che dalle associazioni di famiglie, sulla necessità che il medico sappia riconoscere i primi segni/sintomi di malattia (diagnosi precoce) e che i servizi sanitari pubblici prendano in considerazione l’attivazione dello screening neonatale per le malattie da accumulo lisosomiale, che hanno una possibilità terapeutica (Meikle et al., 2006); C. esiste una difficoltà nel verificare/predire i benefici della ERT in popolazioni di pazienti con quadri clinici molto eterogenei, sia per età che per gravità, che per diverso coinvolgimento di organi e apparati (Hollak e Wijburg, 2014). Tutto ciò va anche considerato nel contesto della rarità di queste malattie e della carenza, di cui si sta diventando consapevoli, di dati dettagliati e circostanziati riguardanti la storia naturale delle patologie da accumulo e i diversi fenotipi clinici. A questo proposito, va segnalato lo sforzo fatto recentemente, correlato al trial di fase III per la ERT della MPS IVa, di valutare per almeno due anni la storia naturale di un ampio gruppo di pazienti non trattati, utilizzando gli stessi test approvati per il trial clinico (Harmatz et al., 2015); D. anticorpi anti-ERT vengono prodotti soprattutto dai pazienti con le forme più gravi che, non sintetizzando completamente la proteina, riconoscono la ERT come una molecola estranea al proprio organismo. Questo effetto, cellule T-dipendente, è particolarmente evidente nei pazienti con la forma infantile di malattia di Pompe, ma è stato segnalato anche per altre patologie (Broomfield et al., 2016). Nella malattia di Pompe, la ERT si è dimostrata efficace sia nella forma classica infantile con cardiomiopatia (Kishnani et al., 2009a), che nella forma a esordio tardivo, dove il cuore è in genere risparmiato e si ha Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni un interessamento selettivo del muscolo scheletrico (Toscano e Schoser, 2013). Purtroppo però, soprattutto nelle forme più gravi di malattia di Pompe classica (CRIM negativi), come abbiamo detto, la ERT provoca la comparsa di anticorpi ad alto titolo che verosimilmente inibiscono gli effetti benefici della terapia (Banugaria et al., 2011). A oggi tuttavia, l’induzione profilattica di una tolleranza immunologica con l’utilizzo di rituximab e methotrexate sembrerebbe efficace nel ridurre l’insorgenza di tale temibile complicanza (Banugaria et al., 2013). Anche per questa malattia è auspicabile uno studio europeo indipendente che cerchi di chiarire l’impatto dei diversi regimi terapeutici sull’evoluzione della patologia. La ERT inoltre non è in grado, dato che non passa la BEE, di agire sul danno da verosimile accumulo di glicogeno nella sostanza bianca cerebrale, che si osserva ormai da alcuni anni nei lungo-sopravviventi. Inoltre, anche nei pazienti di questo gruppo che rispondono meglio alla terapia, si osserva un lento peggioramento della funzione muscolare negli anni (Prater et al., 2012). Al di là delle perplessità sulla reale efficacia a lungo termine, last but not least, c’è il problema del costo molto elevato di questi farmaci innovativi (circa 200.000 Euro per paziente/anno in media) che causa un rapporto costo/efficacia molto alto (Hollak et al., 2015). Va detto da una parte che la collaborazione con le industrie farmaceutiche è fondamentale per lo sviluppo e la produzione di farmaci innovativi, e che le aziende, salvo eccezioni, si attengono a un codice etico molto preciso (vedi per l’Italia codice Farmindustria), dall’altra, che l’attività di ricerca in questa direzione da parte delle aziende è aumentata in maniera esponenziale a partire dall’anno 2000, quando anche l’Europa, dopo gli Stati Uniti, ha promosso leggi atte a favorire la produzione di farmaci cosiddetti “orfani” per malattie rare. Nonostante questo sia in assoluto un bene, vi sono ragioni sufficienti per proporre, come si sta facendo da parte del mondo scientifico sempre più insistentemente (Hollak et al., 2011; Hollak e Wijburg, 2014), che il follow-up a lungo termine dell’efficacia dei farmaci nella cosiddetta fase IV (post-commercializzazione) sia basato sulla malattia e non sul farmaco e affidato in modo esclusivo ai ricercatori per fare in modo di ottenere in breve tempo dati di alta qualità (Hollak et al., 2015). L’esempio più noto di questa difficoltà di valutare l’efficacia dei farmaci è quello della malattia di Fabry. Per questa malattia sono attualmente disponibili due farmaci per ERT, agalsidasi alfa e agalsidasi beta, la cui immissione in commercio è stata autorizzata contemporaneamente nell’Unione Europea più di 10 anni fa. Le differenze tra i due farmaci riguardano principalmente la struttura del radicale glucidico della glicoproteina enzimatica che, essendo specie-specifico, è differente perché agalsidasi alfa è prodotta su cellule umane in coltura, mentre agalsidasi beta su cellule di ovaio di criceto. I due farmaci sono stati registrati con differenti indicazioni di dosaggio/kg e la posologia non è per il momento modulabile, come invece è avvenuto per la malattia di Gaucher (Kishnani et al., 2009b). Per questi due farmaci esistono due registri internazionali separati, supportati dalle rispettive aziende produttrici, che raccolgono le informazioni cliniche dei pazienti. Nonostante ciò, una review sistematica degli effetti dei due farmaci (El Dib et al., 2013) si conclude con l’indicazione che sono necessari ulteriori studi prospettici per dimostrare l’efficacia a lungo termine della terapia e per identificare eventualmente la superiorità di un farmaco rispetto all’altro. Terapia genica La terapia genica è stata il sogno degli anni ’70 (Friedmann e Roblin, 1972), il traguardo prossimo che avrebbe rivoluzionato la cura delle malattie genetiche negli anni ’90 (Hess, 1996) e l’obiettivo da raggiungere con molta cautela forse solo per alcune malattie genetiche negli anni 2000 (Blaese, 2007). Di fatto, come spesso accade, l’aumento delle conoscenze e le prime esperienze hanno dimostrato che la materia era molto più complicata di quello che si poteva pensare 10 anni prima (Blaese, 2007). Riportiamo qui due esempi noti. I primi tentativi di terapia genica per via sistemica, non organo-mirata, in una malattia genetica monogenica sono stati effettuati nei primi anni ’90 su pazienti affetti da immunodeficienza combinata severa (SCID) dovuta a deficit di adenosin-deaminasi (Aiuti e Roncarolo, 2009). La terapia genica consisteva nell’infusione di linfociti o cellule staminali ematopoietiche del paziente dopo correzione genica in vitro. Pochi anni dopo il trattamento si estese ad altre immunodeficienze congenite, come la SCID X-linked e la malattia granulomatosa cronica (CGD). Purtroppo un discreto numero di pazienti SCID-X linked e CGD sviluppò leucemia linfatica acuta a cellule T (SCID-X linked) o mielodisplasia (CGD); queste patologie ematologiche erano causate da un effetto tossico correlato al trasferimento genico: il vettore gamma-retrovirale con sequenze finali enhancer e promoter mantenute attive era in grado, non solo di attivare il gene terapeutico, ma anche di regolare verso l’alto l’espressione di oncogeni nelle vicinanze del sito di inserzione (mutagenesi inserzionale) (Montiel-Equihua et al., 2012). Alcuni anni dopo, nel 1999, il signor Jesse Gelsinger, 18enne con forma lieve di deficit di ornitina-transcarbamilasi, un difetto del ciclo dell’urea con trasmissione X-linked, che aveva volontariamente partecipato al trial di terapia genica con somministrazione diretta del vettore nel tessuto epatico, moriva 98 ore dopo aver ricevuto il vettore, per una estesa e fulminante sindrome infiammatoria che aveva indotto insufficienza multiorgano. La vicenda andò sui mezzi di informazione di massa e fece molto clamore. Successivamente James Wilson (2009), 17 R. Parini et al. allora direttore dell’Istituto di Terapia genica umana alla Università di Pennsylvania, descrisse la vicenda analizzando i fatti retrospettivamente e traendo alcuni suggerimenti utili per migliorare la preparazione di futuri trial. Tra questi anche un’interessante riflessione su come deve essere richiesto il consenso informato. Nonostante queste prime difficoltà, le ricerche sulla terapia genica negli ultimi 15 anni sono progredite: Biffi et al. (2013) hanno pubblicato i risultati favorevoli della terapia genica ex vivo per la leucodistrofia metacromatica ottenuti sui primi tre pazienti; sono inoltre in corso trial clinici per MPS II, MPS IIIA, MPS IIIB, MPS VI, malattie di Pompe, Gaucher, Fabry e ceroidolipofuscinosi neuronale (Parenti et al., 2015a). Negli anni la terapia genica è diventata più sicura con l’utilizzo dei Lentivirus, ma la sua efficacia nel lungo periodo deve essere ancora documentata. A tutt’oggi nessun tipo di terapia genica è disponibile in commercio. Altri approcci terapeutici con piccole molecole Oltre alla somministrazione di cellule sane che producono l’enzima carente (HSCT), alla somministrazione per via endovenosa dello stesso enzima (ERT) e al trasferimento del gene cosiddetto wild-type cioè sano, nell’individuo affetto, esiste la possibilità di ridurre l’accumulo del substrato inibendone la produzione (Terapia di riduzione del substrato, Substrate Reduction Therapy – SRT), di modificare il substrato per sottoporlo ad altri meccanismi di degradazione, di migliorare la stabilità di un enzima difettoso per fare in modo che possa passare il “controllo qualità” cellulare ed entrare nel lisosoma (utilizzando un chaperone), invece di essere degradato nel reticolo endoplasmico. I farmaci utilizzati a questo scopo sono piccole molecole che hanno il vantaggio di poter essere assunte oralmente, di diffondersi bene in tutti i tessuti e di non essere immunogene (Tab. IV). Terapia di riduzione del substrato (Substrate Reduction Therapy – SRT) La SRT ha al suo attivo un grande successo con la tirosinemia tipo I (Mayorandan et al. 2014b) e risultati meno dirompenti e più controversi per le malattie da accumulo lisosomiale (Hollak e Wijburg, 2014). La tirosinemia tipo I, grave malattia che porta molto precocemente a insufficienza epatica con elevatissimo rischio di degenerazione maligna e tubulopatia per la tossicità principalmente del succinilacetone, che si forma e si accumula a causa del difetto enzimatico di fumarilacetoacetasi, è l’unico esempio di malattia da intossicazione per la quale sia stata utilizzata con successo una SRT. Il farmaco è il nitisinone, sostanza utilizzata in passato come erbicida (Arnoux et al., 2015), impiegato nel trattamento della tirosine18 mia tipo I, perché è in grado di inibire in modo efficiente l’enzima 4- idrossifenilpiruvico diossigenasi, sulla via di degradazione della tirosina, alcuni passaggi a monte della fumarilacetoacetasi. I pazienti affetti da tirosinemia tipo I hanno visto ridursi in modo drastico il rischio di sviluppare tumori epatici e non sviluppano più insufficienza epatica o tubulopatia. Hanno però, per l’inibizione “alta” indotta dal nitisinone, un rischio concreto di avere un’ipertirosinemia che potrebbe essere la causa o la concausa del ritardo mentale riconosciuto in molti di questi pazienti, che ora sono diventati lungo-sopravviventi (Arnoux et al., 2015). Ne consegue che i soggetti affetti da tirosinemia tipo I che sono trattati col nitisinone devono anche assumere una terapia dietetica discretamente rigida (apporto di proteine naturali comparabile a quello che viene somministrato nella fenilchetonuria) (de Laet et al., 2013). Ha interesse segnalare che il nitisinone potrebbe essere efficace anche nella cura dell’alcaptonuria, o oocronosi, la malattia delle urine scure e della cute grigio-blu da depositi di acido omogentisico. L’acido omogentisico, accumulato per il difetto dell’enzima omogentisico ossidasi, che pure è sulla via di degradazione della tirosina, si deposita nelle cartilagini articolari determinando una grave e invalidante osteoartrite nell’adulto. Sembrava evidente che il nitisinone avrebbe potuto agire anche su questa malattia esattamente attraverso lo stesso meccanismo di inibizione del substrato, ma i trial conclusi fino ad ora non sono stati in grado di dimostrare un’efficacia clinica del farmaco (Introne et al., 2011; Arnoux et al., 2015) mentre hanno mostrato una riduzione del 95% dell’acido omogentisico in plasma e urine. Farmaco davvero inefficace o difficoltà di dimostrare l’efficacia in una malattia con progressione molto lenta? In questo caso si tende a pensare che lo strumento “trial clinico classico”, che in genere valuta risultati a breve termine, non sia adeguato per dimostrare l’efficacia del nitisinone nell’alcaptonuria (Arnoux et al., 2015). Più variegato è il campo delle malattie da accumulo lisosomiale, dove sono molte le malattie per le quali è o è stato proposto questo trattamento (Tab. IV). Il primo prodotto autorizzato è stato il miglustat per la malattia di Gaucher, imino-zucchero in grado di inibire l’attività enzimatica della glucosilceramide transferasi, che catalizza il primo passaggio della biosintesi dei glicosfingolipidi (Sechi et al., 2016). Questo farmaco si è rivelato in grado di ridurre alcune manifestazioni viscerali della malattia di Gaucher (Weinreb, 2013), pur presentando solo una modesta efficacia e determinando alcuni effetti collaterali soprattutto gastrointestinali (Weinreb, 2013). Di fatto, dopo circa 10 anni dalla sua immissione in commercio il suo uso è limitato e molti pazienti che l’hanno sperimentato per un certo tempo sono poi ripassati alla ERT (Hollak e Wijburg, 2014). Da notare anche che, nonostante passi liberamente la BEE, il miglustat non sembra essere efficace sulle forme neuronopatiche (Weinreb, Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni Tabella IV. Terapie con piccole molecole, già in uso o attualmente valutate in studi clinici. Patologia Terapia associata/ efficacia Riferimenti bibliografici Dieta ipoproteica/ottima Mayorandan et al., 2014b Sintomatica/limitata Weinreb, 2013 Nitisinone trial in corso Dieta ipoproteica Arnoux et al., 2015 1) Miglustat (Zavesca®) 1) restrizione latticini/ buona viscerale e ossa, non efficace su sistema nervoso centrale, effetti collaterali Weinreb et al., 2013 2) Eliglustat (Cerdelga®) 2) -/buona viscerale e ossa, non efficace su sistema nervoso centrale, dose individualizzata Sechi et al., 2016 MPS III Genisteina -/in attesa di risultati del trial in corso Piotrowska et al., 2011; Kim et al., 2013 Niemann-Pick C Miglustat (Zavesca®) Restrizione latticini/ limitata Fecarotta et al., 2015 HSP70 -/in attesa di risultati del trial che inizierà a breve Ingemann e Kirkegaard, 2014 Ciclodestrina -/in attesa di risultati del trial che inizierà a breve Pontikis et al., 2013 Tirosinemia tipo I SRT Stabilizzazione con chaperone Nitisinone (Orfadin®) Cistinosi Alcaptonuria Gaucher Altro meccanismo Cisteamina bitartrato (Cystagon®) Niemnn-Pick C Fabry DGJ- Migalastat monoterapia o in associazione a ERT -/risultati preliminari incoraggianti Germain et al., 2012; Warnock et al., 2015 Pompe Miglustat (Zavesca®) in associazione a ERT -/risultati preliminari incoraggianti Parenti et al., 2014 2013). È stato recentemente approvato sia negli Stati Uniti che in Europa un altro inibitore di substrato per la malattia di Gaucher (Eliglustat) che sembra avere buoni effetti viscerali, non è utile per il trattamento del Gaucher neuronopatico, perché passa la BEE ma ne viene subito estromesso e ha meno effetti collaterali intestinali di miglustat (Sechi et al., 2016; Balwani et al., 2016). Il metabolismo del farmaco è principalmente epatico ed è più o meno veloce in relazione al genotipo del citocromo CYP2D6, che si consiglia di testare prima di iniziare il trattamento con Eliglustat, per poter individualizzare la dose del farmaco (Sechi et al., 2016). Il Miglustat, per la sua capacità di inibire la glucosilceramide sintetasi, è stato proposto anche per altre malattie da accumulo lisosomiale (Weinreb, 2013) con risultati poco convincenti. Al contrario, esistono dimostrazioni di efficacia nel trattamento della malattia di Niemann-Pick tipo C, grave malattia neurodegenerativa e viscerale, dovuta a un disturbo del trasporto intracellulare del colesterolo che causa secondariamente un accumulo di glicosfingolipidi. Numerosi lavori hanno riportato una riduzione della progressione o una stabilizzazione delle manifestazioni neurologiche anche in forme tardo-infantili e a esordio giovanile (Hollak e Wijburg, 2014; Fecarotta et al., 2015). È possibile che questo farmaco sia in grado di rallentare o stabilizzare per un certo tempo la malattia, per lo meno nelle forme a esordio più tardivo (Fecarotta et al., 2015), ma non certo di arrestare definitivamente la progressione, soprattutto nelle forme infantili (Di Rocco et al., 2015). 19 R. Parini et al. La genisteina è un flavonoide che come è stato dimostrato (Piotrowska et al., 2006) inibisce la sintesi dei glicosaminoglicani nei fibroblasti in coltura. Ciò avviene perché inibisce l’attività chinasica dell’epidermal growth factor receptor, necessaria per la piena espressione di geni coinvolti nella sintesi dei glicosaminoglicani (Piotrowska et al., 2006). La genisteina è stata somministrata inizialmente a dosi di 5 mg/kg/die (Piotrowska et al., 2011), poi 15 mg/kg/die e più recentemente 150 mg/kg/die come genisteina aglicone (Kim et al., 2013). È in corso uno studio di fase III monocentrico con genisteina aglicone ad alte dosi che forse ci aiuterà a capire se la genisteina può essere impiegata in clinica o no (Parenti et al., 2015a). In conclusione la SRT: 1) si è dimostrata molto efficace nel trattamento della tirosinemia tipo I e potrebbe esserlo per l’alcaptonuria ma è ancora da dimostrare; 2) per le malattie da accumulo lisosomiale ha dato finora risultati limitati o controversi e per il momento può aver senso impiegarla in gruppi particolari di pazienti (già stabilizzati o che per qualunque ragione non possono assumere ERT) senza coinvolgimento neuronale. Potrebbe anche avere un impiego in associazione ad altri farmaci. Modificazione del substrato Per la cistinosi è stato impiegato un farmaco che determina una “modificazione” del substrato. La malattia è causata dalle mutazioni di un gene che codifica una proteina di trasporto lisosomiale della cistina. La cistina intracellulare accumulata forma cristalli di cistina che portano ad alterazione delle funzioni cellulari e a precoce apoptosi. Il fenotipo è caratterizzato principalmente da danno corneale per la presenza di cristalli di cistina con fotofobia e cecità e insufficienza renale grave e precoce. Il trattamento con Cisteamina bitartrato, approvato da FDA nel 1994, penetra nei lisosomi e trasforma la cistina in cisteina e altri composti che escono dal lisosoma con un diverso meccanismo di trasporto. Il farmaco va assunto per os ogni 6 ore e provoca vari effetti collaterali quali odore di zolfo, alitosi, nausea, vomito e lesioni cutanee (angioendoteliomatosi) (Weinreb, 2013). Molti pazienti hanno perciò una scarsa compliance, ma anche quando la compliance è buona, questo farmaco è solo in grado di rallentare la progressione della malattia, non di arrestarla (Cherqui, 2012; Brodin-Sartorius et al., 2012). La terapia di stabilizzazione enzimatica (chaperone farmacologici) Il primo impiego in clinica di un chaperone farmacologico è descritto nel lavoro di Frustaci e collaboratori (2001) dove un paziente affetto da malattia di Fabry con attività enzimatica residua, in seguito a trattamento con infusioni di galattosio a giorni alterni per oltre due anni, mostrava un importante miglioramento del20 la cardiomiopatia passando dalla classe funzionale NYHA (New York Heart Association) IV alla classe I. Il galattosio agiva legandosi come inibitore competitivo all’enzima alfa-galattosidasi A e in questo modo aumentava o stabilizzava l’attività dell’enzima. Era allora già noto che la 1-deossigalattonojirimicina (DGJ-Migalastat) aumentava con lo stesso meccanismo l’attività residua dell’alfa-galattosidasi A (Fan et al., 1999). A oggi dopo circa 15 anni, il farmaco è stato studiato sugli animali e in studi di fase I e II, sia in monoterapia che in associazione ad ERT (Germain et al., 2012; Warnock et al., 2015), ma non è ancora stato immesso sul mercato: attualmente è in attesa di valutazione da parte di EMA. Altri possibili chaperone sono stati valutati per altre malattie, uno dei quali è il miglustat per la malattia di Pompe già in commercio come SRT per la malattia di Gaucher (Parenti et al., 2014). Complessivamente chaperone in monoterapia possono essere utilizzati solo per certi tipi di mutazioni, cosiddette sensibili, quelle mutazioni cioè che danno luogo alla produzione di una proteina misfolded (cioè con una struttura tridimensionale alterata) che può essere stabilizzata da un chaperone. Vista però la loro efficacia anche nella stabilizzazione dell’enzima esogeno, molecole chaperone potrebbero avere un impiego in associazione alla ERT, per aumentarne l’efficacia (Parenti et al., 2014 e 2015b). Conclusioni Le terapie attualmente disponibili per gli errori congeniti del metabolismo rappresentano un importante avanzamento nella cura di queste malattie, ma sono ben lungi dal controllare completamente la patologia. Esiste una difficoltà nel riconoscere con chiarezza gli effetti delle terapie a lungo termine, sia per le malattie da intossicazione che per le malattie da accumulo. Questa difficoltà è legata a vari fattori: si tratta di malattie rare, sulle quali l’esperienza del singolo centro è sempre limitata; il fenotipo clinico è caratterizzato da un’ampia variabilità individuale; i registri di malattia sono spesso supportati dalle aziende che hanno impostato ottimi registri giustamente farmaco-centrici e non centrati sul paziente; per loro natura i registri spesso contengono informazioni limitate e frammentarie, soprattutto sul lungo periodo. Gli sforzi recenti indirizzati a costituire registri indipendenti che ottengano dati di buona qualità potranno forse aiutare a migliorare questo aspetto. L’evoluzione clinica dei pazienti potrebbe migliorare se la diagnosi fosse più precoce, ancora in fase presintomatica, come potrebbe avvenire solo in caso di famiglia con precedente caso indice o di screening neonatale. Questo porterebbe con sé la necessità di discriminare precocemente le forme gravi e lievi, per scegliere i diversi trattamenti, cosa non sempre agevole, ma verosimilmente permetterebbe una prognosi migliore a un buon numero di pazienti. Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni Molti sono attualmente gli sforzi al fine di migliorare le criticità ancora presenti negli approcci terapeutici finora utilizzati. Sono in corso trial di ERT intratecale (oppure intratecale + intracerebrale) per la MPS IIIA e IIIB e per la ceroidolipofuscinosi tipo 2 (Ortolano et al., 2014) (Tab. III) e stanno per iniziare trial basati su nuove strategie terapeutiche: nella malattia di Niemann-Pick tipo C con ciclodestrina, che avrebbe la proprietà di favorire l’uscita del colesterolo dal compartimento lisosomiale (Pontikis et al., 2013), e con heat-shock protein 70 (HSP70), chaperone che agisce anche come stabilizzatore delle membrane lisosomiali (Ingemann e Kirkegaard, 2014) (Tab. IV). Secondo comunicazioni verbali dovrebbe anche iniziare a breve il trial per la MPS I con un’altra piccola molecola: PTC 124 (Ataluren-Translarna®), molecola già nota e utilizzata nel trattamento di altre malattie genetiche come la distrofia muscolare di Duchenne e la fibrosi cistica (Bushby et al., 2014; Shoseyov et al., 2016) che è in grado di forzare il completamento della sintesi di una proteina enzimatica sopprimen- do un codone di stop: questo farmaco ha dunque il potenziale di essere efficace in tutte le malattie monogeniche che abbiano almeno una mutazione nonsenso (cioè un codone che determina un’interruzione prematura della sintesi proteica). Nuovi approcci che riguardano la ERT includono metodi per il miglioramento della stabilità enzimatica o per ridurre la risposta anticorpale alle proteine infuse, la produzione di enzimi modificati per aumentarne l’uptake lisosomiale o per aumentare la loro emivita, o per poter essere captati anche da cellule che non esprimono il recettore per il mannosio-6P, la produzione di proteine chimeriche che siano in grado di passare la BEE (Osborn et al., 2008), la produzione di enzimi modificati come ad esempio alfa-N-acetilgalactosaminidasi che agisce sullo stesso substrato dell’alfa galattosidasi nella Malattia di Fabry (Tajima et al., 2009). Di tutti questi nuovi approcci non possiamo ora dire quali si dimostreranno più efficaci e restiamo con molto interesse in attesa dei risultati dei prossimi studi clinici. Box di orientamento • Cosa si sapeva prima Negli ultimi 15-20 anni sono stati fatti molti passi avanti riguardo alle terapie delle malattie metaboliche che ne hanno migliorato la prognosi. Le terapie per le malattie metaboliche hanno attualmente un’efficacia parziale e i pazienti ora hanno un’importante “malattia residua” che riduce la loro qualità di vita. • Cosa sappiamo adesso Ogni nuova acquisizione sui meccanismi regolatori della vita cellulare ha permesso di intravedere nuove possibilità terapeutiche che spesso sono state messe in pratica. Sembra verosimile che ancora per tanti anni a venire la ricerca di base ci riserverà tante sorprese e ci darà tanti nuovi strumenti per trattare in modo sempre più efficiente le malattie metaboliche. • Quali ricadute sulla pratica clinica Sempre più critico diventa il riconoscimento precoce di queste malattie che permette l’accesso alle terapie innovative. I medici di libera scelta e i pediatri di famiglia sono sempre più caricati della responsabilità di saper riconoscere o almeno sospettare una malattia metabolica e inviarla tempestivamente al centro specialistico. È compito di tutta la comunità medico-scientifica garantire la diffusione delle conoscenze al suo interno. La comunicazione diagnostica deve tenere in considerazione il fatto che le possibilità terapeutiche si stanno ampliando e modificando anche velocemente nel corso degli anni. Bibliografia Aiuti A, Roncarolo MG. Ten years of gene therapy for primary immune deficiencies. Hematology Am Soc Hematol Educ Program 2009:682-9. * Review chiara e completa su terapia genica per le immunodeficienze congenite. Aldenhoven M, Wynn RF, Orchard PJ, et al. Long-term outcome of Hurler syndrome patients after hematopoietic cell transplantation: an international multicenter study. 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