Di CAROLA SIMONA GALUZZI 5^A erica - a.s. 2012-2013 INDICE Pag. 3 I DOCUMENTI Pag. 27 GLI ARTICOLI Pag. 56 TEMA ARGOMENTATIVO SULLA CRISI DOCUMENTO 1: RAPPORTO CENSIS DICEMBRE 2012 «La società italiana al 2012» del 46° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2012 - da www.censis.it 07.12.2012 Segnali di reazione degli italiani: in moto processi di riposizionamento nel sociale e nell’economia. Verso l’e-consumatore competente, nuove ambizioni nelle scelte di studio e di lavoro, riorganizzazione all’estero del sistema d’impresa, segmenti produttivi emergenti, industria digitale. I rischi: smottamento del ceto medio, reazioni di rabbia, protesta senza rappresentanza Roma, 7 dicembre 2012 – (L’ANNO DEL GRANDE RIPOSIZIONAMENTO) Italiani oltre la sopravvivenza. 2,5 milioni di famiglie hanno venduto oro o altri oggetti preziosi negli ultimi due anni, 300.000 famiglie mobili e opere d’arte, l’85% ha eliminato sprechi ed eccessi nei consumi, il 73% va a caccia di offerte e alimenti poco costosi. Sono alcune delle difese strenue degli italiani di fronte alla persistenza della crisi. Non ultima, la messa in circuito del patrimonio immobiliare posseduto, affittando alloggi non utilizzati o trasformando il proprio in un piccolo bed & breakfast (nelle grandi città, con oltre 250.000 abitanti, il fenomeno riguarda il 2,5% delle famiglie). E sono 2,7 milioni gli italiani che coltivano ortaggi e verdura da consumare ogni giorno, 11 milioni si preparano regolarmente cibi in casa, come pane, conserve, gelati. Anche nei consumi si registra una discontinuità rispetto al passato. Il 62,8% degli italiani ha ridotto gli spostamenti in auto e scooter per risparmiare sulla benzina, nel periodo gennaio-settembre 2012 il mercato dell’auto registra il 25% di immatricolazioni in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e c’è un boom delle biciclette: più di 3,5 milioni di due ruote vendute in un biennio. Verso l’e-consumatore competente. Le funzioni del consumo si stanno modificando anche grazie alla diffusione delle nuove tecnologie. Il 14,9% degli italiani è iscritto a gruppi di acquisto online che offrono beni e servizi a basso costo. E nelle decisioni di spesa alimentare il 42% considera molto importanti le informazioni sulla provenienza dei prodotti, collocandole al primo posto tra i fattori che orientano la decisione di acquisto. Il responsabile familiare degli acquisti è soprattutto donna (66,5%), uomo nel 43,9% dei casi al Nord-Est. La casa-patrimonio resta assolutamente maggioritaria nelle scelte degli italiani, ma le necessità contingenti stanno rivalutando l’affitto. Nel 2011 la quota di famiglie in locazione ha raggiunto il 21% e nelle aree metropolitane la percentuale sfiora il 30%. Nel trasporto privato si sta diffondendo la logica del noleggio e del car sharing. Diminuisce la quota di famiglie che hanno più di un’automobile (dal 33,4% al 32,1% tra il 2010 e il 2011), il fatturato dell’industria del noleggio si attesta sui 5 miliardi di euro (+2,2% tra il 2010 e il 2011) e il numero degli addetti è in crescita (+3,2% nel periodo 2010-2011 e +3,3% nel primo trimestre del 2012 rispetto al primo trimestre del 2011). Nuove ambizioni nelle scelte di studio e di lavoro. Con il prolungarsi della crisi e dei suoi effetti sull’occupazione e sul benessere delle famiglie, cominciano a emergere segnali di riposizionamento dei giovani rispetto alle scelte di studio e di lavoro. Nel corrente anno scolastico è aumentato dell’1,9% rispetto all’anno precedente il peso delle preiscrizioni agli istituti tecnici e professionali. Le immatricolazioni all’università sono diminuite del 6,3% e i dati provvisori relativi al 2011-2012 segnano un’ulteriore contrazione del 3%. La crisi ha evidenziato come la laurea non costituisca più un valido scudo contro la disoccupazione giovanile, né garantisca migliori condizioni di occupabilità e rimuneratività rispetto ai diplomati. I giovani si indirizzano allora verso percorsi di inserimento lavorativo meno aleatori, dai contorni professionali più certi: tra il 2007 e il 2010 i corsi di laurea di tipo umanistico-sociale (i gruppi letterario, insegnamento, linguistico, politico-sociale, psicologico) subiscono nell’insieme una riduzione del loro peso percentuale sul totale delle immatricolazione di più del 3% (passano dal 33% al 29,9% del totale), mentre i percorsi a valenza tecnico-scientifica (i gruppi agrario, chimico-farmaceutico, geobiologico, ingegneria, scientifico) registrano un +2,7% (la loro quota passa dal 26% al 28,7%). I giovani che hanno deciso di completare la loro formazione superiore all’estero sono aumentati del 42,6% tra il 2007 e il 2010. Con un significativo sacrificio delle famiglie: nell’ultimo anno il 30,3% ha sostenuto costi aggiuntivi scolastici, il 21,5% per un figlio senza lavoro, il 16,1% per un figlio che frequenta una università italiana e il 5,6% per una università straniera. La riorganizzazione all’estero del sistema d’impresa. Il manifatturiero ha subito un restringimento della base produttiva: il 4,7% di imprese in meno tra il 2009 e oggi. Il saldo tra iscritte e cancellate è stato pari a -30.023. Emerge però un processo di riposizionamento in corso. I flussi dell’export italiano sono parzialmente cambiati, orientandosi verso le economie emergenti: tra il 2007 e oggi la quota di esportazioni verso l’Unione europea si è ridotta dal 61% al 56%, mentre quella verso le principali aree emergenti è aumentata dal 21% al 27%. Attualmente la Cina assorbe il 2,7% delle nostre esportazioni, la Russia il 2,5% e i Paesi dell’Africa settentrionale il 2,9%. Negli scambi con l’estero è diminuito il peso del made in Italy (tessile, abbigliamento-moda, alimentari, mobile-arredo), ma è aumentata la penetrazione di altre specializzazioni manifatturiere, come la metallurgia, la chimica e la farmaceutica. Si è ridimensionato il numero delle imprese esportatrici (dal picco massimo di 206.800 unità nel 2006 si è passati a 205.302 nel 2011), ma aumentano gli investimenti in partecipazioni all’estero, che superano oggi le 27.000 unità (nel 2005 si era a quota 21.740). Dal 2008 a oggi le strutture commerciali che hanno chiuso sono state più di 446.000, a fronte di poco più di 319.000 nuove aperture. Nella prima metà del 2012 il saldo resta negativo (-24.390 imprese). Ma altri segmenti produttivi registrano segnali di crescita: prosegue l’espansione delle strutture della distribuzione organizzata (dalle 17.804 del 2009 alle 18.978 del 2011) e degli operatori del commercio via web, tv e a distanza (passati da 29.163 a 32.718). Il dinamismo dell’economia collaborativa e dei segmenti emergenti. Ci sono porzioni del sistema produttivo che non sono rimaste immobili di fronte alla crisi. C’è il sistema delle imprese cooperative, cresciute del 14% tra il 2001 e il 2011, attestandosi a poco più di 79.900 unità, ancora in grado di generare occupazione: +8% di addetti tra il 2007 e il 2011, a fronte del -1,2% degli occupati in Italia, e +2,8% anche nei primi nove mesi del 2012 (+36.000 addetti rispetto all’anno precedente). Ci sono le imprese femminili, oggi pari a 1.435.000, il 23,4% del totale delle aziende italiane: a settembre 2012 si sono ridotte appena di 593 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, a fronte di una diminuzione di oltre 29.000 imprese guidate da uomini. C’è il sistema della media impresa, che conta 3.220 aziende, con un contributo del 15% alla produzione manifatturiera, che arriva al 21% se si considera l’indotto: negli ultimi dieci anni l’aggregato dei bilanci è rimasto sempre in utile, grazie anche al fatto che il 90% esporta, con una incidenza del 44% delle vendite all’estero sul fatturato complessivo. C’è poi il settore delle Ict, in particolare delle applicazioni Internet: nelle circa 800 startup del 2011 l’età media degli imprenditori è 32 anni. E poi le green Technologies: si stima che il 27% delle imprese industriali abbia effettuato investimenti in questo comparto, così come il 26,7% delle imprese di costruzioni, il 21% delle imprese di servizi, fino a punte di quasi il 40% tra le public utilities. La logica biomediatica spinge l’industria digitale. Siamo entrati nell’era biomediatica, in cui la miniaturizzazione dei dispositivi hardware e la proliferazione delle connessioni mobili ampliano le funzioni, potenziano le facoltà, facilitano l’espressione e le relazioni delle persone. L’utenza del web in Italia è aumentata di 9 punti percentuali nell’ultimo anno, portando il tasso di penetrazione al 62,1% della popolazione nel 2012 (era il 27,8% solo dieci anni fa, nel 2002). Gli smartphone di ultima generazione sempre connessi in rete arrivano al 27,7% di utenza (e la percentuale sale al 54,8% tra i giovani), con un incremento del 10% in un anno. Quasi la metà della popolazione (il 47,4%, percentuale che sale al 62,9% tra i diplomati e i laureati) utilizza almeno un social network. E le applicazioni del web permeano ormai ogni aspetto della nostra vita quotidiana: si usano per trovare una strada (lo fa con il pc o lo smartphone il 37,6% delle persone con accesso alla rete, una quota che sale al 55,2% tra i più istruiti), l’home banking (rispettivamente, il 25,6% e il 41,2%), fare acquisti (rispettivamente, il 19,3% e il 28,1%), prenotare viaggi (15,9% e 26,2%), cercare lavoro (11,8% e 18,4%), sbrigare pratiche con uffici (9,6% e 14,1%), prenotare una visita medica (6,6% e 8,5%). La spesa per il traffico dati con telefoni cellulari continua a crescere, fino a poco meno di 5 miliardi di euro nel 2011 (+8,9% rispetto all’anno precedente), superando così la soglia del 50% rispetto agli introiti da servizi di fonia vocale (l’incidenza era del 25% solo nel 2005). Nel primo trimestre del 2012 i terminali smartphone e tablet in circolazione erano 39,4 milioni, a metà anno le schede sim utilizzate per il traffico dati hanno sfiorato la cifra record di 21 milioni, con un volume di traffico dati sulla banda larga mobile che ha compiuto un balzo del 36,5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. L’immobiliare in crisi riparte dalla domanda abitativa. A fine anno le transazioni immobiliari si attesteranno sulle 485.000 unità, tornando così ai valori precedenti a quelli del ciclo espansivo, che arrivò nel 2006 a registrare il picco di 870.000 compravendite. Nel periodo 2008-2011 il numero di mutui per l’acquisto di abitazioni è diminuito di oltre il 20% rispetto al quadriennio 20042007. Nel primo semestre del 2012 la domanda di mutui ha fatto registrare un’ulteriore contrazione del 44% rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono però 907.000 le famiglie intenzionate a comprare casa nel 2012: erano 1,4 milioni nel 2001, sono poi scese a circa 1 milione nel 2007 e il consuntivo per il 2011 è stato di 925.000. Nel 2011 le famiglie che sono riuscite a realizzare l’acquisto sono state il 65,2%, ma quest’anno scenderanno al 53,5% (il 45,7% nei comuni capoluogo). Gli acquirenti sono in prevalenza già proprietari (8 su 10), per due terzi sono famiglie con due percettori di reddito, per il 61% appartenenti al ceto medio, per il 26% collocati nella fascia di reddito alta, per il 13% con reddito medio. Il federalismo incompiuto genera «ricentralismo». La percezione del peso delle politiche nazionali è aumentata nell’ultimo triennio, ma il livello regionale e locale viene comunque individuato come quello più importante dal 38% dei cittadini. Il forte legame degli italiani con il territorio è confermato dal fatto che il 92,8% dei maggiorenni ritiene che la propria regione abbia elementi di specificità che la distinguono dalle altre. La maggioranza (il 65,9%) dichiara di seguire con attenzione la politica a livello comunale. E anche sullo spinosissimo tema dei servizi sanitari la maggioranza dei cittadini si è espressa a favore dell’attribuzione alle Regioni di maggiori responsabilità: il 57,3% lo considera un fatto positivo, soprattutto per la vicinanza con i problemi locali, e solo il 30,5% è di parere contrario, soprattutto per il rischio che si accentuino le disparità territoriali. (I RISCHI DELLA SEPARAZIONE TRA ÉLITE E POPOLO) Lo smottamento del ceto medio. Il reddito medio degli italiani si riduce a causa del difficile passaggio dell’economia, ma anche per effetto dei profondi mutamenti della nostra struttura sociale, che hanno affievolito la proverbiale capacità delle famiglie di produrre reddito e accumulare ricchezza. Negli ultimi vent’anni la ricchezza netta delle famiglie è aumentata del 65,4% grazie soprattutto dall’aumento del valore degli immobili posseduti (+79,2%). I redditi, al contrario, non hanno subito variazioni: negli anni ’90 il reddito medio procapite delle famiglie è aumentato, passando da circa 17.500 a 18.500 euro, si è mantenuto stabile nella prima metà degli anni 2000, ma a partire dal 2007 è sceso ai livelli del 1993: -0,6% in termini reali tra il 1993 e il 2011. Negli ultimi dieci anni, la ricchezza finanziaria netta è passa da 26.000 a 15.600 euro a famiglia, con una riduzione del 40,5%. La quota di famiglie con una ricchezza netta superiore a 500.000 euro è praticamente raddoppiata, passando dal 6% al 12,5%, mentre la ricchezza del ceto medio (cioè le famiglie con un patrimonio, tra immobili e beni mobili, compreso tra 50.000 e 500.000 euro) è diminuita dal 66,4% al 48,3%. E c’è stato uno slittamento della ricchezza verso le componenti più anziane della popolazione. Se nel 1991 i nuclei con capofamiglia di età inferiore a 35 anni detenevano il 17,1% della ricchezza totale delle famiglie, nel 2010 la loro quota è scesa al 5,2%. Un ulteriore elemento che determina la riduzione del reddito medio è la quota rilevante di famiglie immigrate (il 6,6% del totale), per il 45,1% con un reddito inferiore a 15.000 euro annui. Reazioni di rabbia alla crisi della politica. Il crollo morale della politica e la corruzione sono ritenute le cause principali della crisi: lo pensa il 43,1% degli italiani. Segue il debito pubblico legato a sprechi e clientele (26,6%) e l’evasione fiscale (26,4%). La politica europea e l’euro vengono dopo (17,8%), così come i problemi delle banche (13,7%). Il sentimento più diffuso tra gli italiani in questo momento è la rabbia (52,3%), poi la paura (21,4%), la voglia di reagire (20,1%), il senso di frustrazione (11,8%). Le paure per il futuro sono innanzitutto la malattia (35,9%) e la non autosufficienza (27%), poi il futuro dei figli (26,6%), la situazione economica generale (25,5%), la disoccupazione e il rischio di perdere il lavoro (25,2%). Lo slittamento etico. Il 74% dei cittadini europei è convinto che la corruzione sia un problema grave nel proprio Paese, ma in Italia la percentuale sale all’87%. Il 47% degli europei ritiene che negli ultimi tre anni la corruzione sia aumentata, ma in Italia tale percezione sale al 56%. Il 46% degli italiani, contro il 29% della media Ue, afferma di essere stato colpito personalmente dalla corruzione nella propria vita quotidiana. Secondo un’indagine del Censis, per la maggioranza degli italiani in futuro aumenteranno i comportamenti scorretti per fare carriera (lo pensa il 64,1%), l’evasione fiscale (58,6%), le tangenti negli appalti pubblici (55,1%) e la mercificazione del corpo (53,2%). Una protesta senza rappresentanza. Il doppio tsunami della crisi economicofinanziaria e del crollo reputazionale di forze politiche e istituzioni ha investito i politici della Seconda Repubblica. Nell’ultimo anno i partecipanti a iniziative di protesta contro la politica sono stati il 4,1% della popolazione (fra i giovani la quota sale al 13%). Questa forte disponibilità dell’opinione pubblica all’indignazione e alla mobilitazione «contro» si iscrive nel contesto più generale di crisi delle democrazie rappresentative che attraversa gran parte delle società europee, ma assume in Italia caratteri più radicali e una diffusione più consistente. Documento 2: Crisi intrecciate di Joaquìn Navarro-Valls • Tratto da: La Repubblica 04.11.2012 La malattia del nostro tempo, dunque, non è economica e politica ma etica, un male morale dagli effetti economici e politici devastanti. Se c’è una parola che viene utilizzata come chiave di volta per spiegare il nostro tempo è certamente la voce “crisi”. Frasi come queste si trovano scritte e si sentono dire ormai ovunque: stiamo vivendo un periodo di crisi, stiamo attraversando una fase di crisi, ormai non ci sono soluzioni a questa crisi, e così via. Le cose, d’altronde, non avvengono mai a caso, soprattutto quando di mezzo c’è la lingua e i suoi usi collettivi. Perciò, prima ancora di scandagliare le possibili applicazioni che sono generalmente attribuite a questo magico concetto, è importante tener presente l’origine del termine, anche a costo di imitare la peggiore pedanteria dei linguisti. In questo caso, infatti, la mancanza di chiarezza è l’origine del problema. E l’etimo può regalare una soluzione insospettata alla confusione in cui siamo immersi. In greco significa scelta, rinviando ad una libertà che è essenzialmente a disposizione della persona perché intrinseca a ogni uomo e donna, ancorata alla sfera più profonda di ciascuno. Su ciò ritorneremo. Nel nostro tempo, all’opposto, si parla di crisi indicando uno stato d’instabilità che riguarda in prevalenza soltanto il nostro sistema economico globale, unito alla difficoltà politica delle nostre democrazie di essere funzionanti e funzionali. Forse non è che la circostanza in cui si è trovato il mondo dopo il crac bancario statunitense del 2008 e la fine della Guerra Fredda. Ad apparire anacronistico, al di là di tutto, è l’usuale modo di concepire la crisi, come un passaggio momentaneo tra due periodi floridi e stabili dell’economia e della politica. Abbiamo adesso, infatti, una perdurante situazione di recesso, la quale non sembra finire mai in modo definitivo. Proviamo un momento a riflettere. L’attuale situazione economica è annodata alla classica mancanza di crescita della produzione e della ricchezza. Mentre, invero, le teorie economiche tradizionali, in modo diverso tra loro, immaginavano soluzioni fattibili per una piazza economica limitata a un numero circoscritto di operatori, oggi abbiamo a che fare con un mercato unico globale dove non si trovano più modi concreti per rendere il commercio in grado di produrre ricchezza, lavoro e benessere per tutti. Anche dal lato politico ci troviamo innanzi ad una situazione speculare. Thomas Paine, dopo la Rivoluzione francese, poteva ben dire che la democrazia funziona solo se la sovranità appartiene a un popolo determinato e circoscritto, ossia a una specifica nazione. Unicamente nell’ottica di una sovranità limitata a un territorio chiuso e a una parte circoscritta di cittadini è pensabile, in effetti, l’ordine democratico come lo conosciamo, per l’appunto incentrato sulla solidità di singoli Stati sovrani. Oggi, viceversa, vi è un contesto in cui tali confini non esistono più, ed ecco che la democrazia stenta pertanto a produrre un ordine politico altrettanto adeguato, corrispondente alle nuove sconfinate realtà sociali, costituite da multiformi comunità costrette a convivere insieme. Queste banali osservazioni ci introducono nel cuore della crisi contemporanea, la quale apparentemente non sembra più coincidere con l’idea arcaica di una libertà che sbaglia, ma con l’irrisolvibile presenza di un gap d’imponderabile entità, di una carenza conoscitiva degli eventi. Sia la crisi economica e sia la crisi politica, in fondo, sembrano il frutto di un’incapacità di gestire il mondo materiale, muovendo dai dati oggettivi e organizzativi che si hanno a disposizione. E probabilmente è questa la ragione per cui la crisi contemporanea appare irrisolvibile. Il vero problema è rimosso e messo da parte a vantaggio di una valutazione inadeguata che, di fatto, spinge a rincorrere il problema senza raggiungerlo mai, come fa un gatto cercando di mordersi la coda. La presente depressione può essere curata, viceversa, se viene ricondotta al suo contesto originario, legato a doppio filo con la natura stessa dell’uomo. D’altra parte, senza sapere chi siamo e chi vogliamo essere, come possiamo sperare di gestire le poche risorse e il poco lavoro che c’è? Un cataclisma naturale non è una crisi, anche se può crearla. E la carenza di materie prime non è in sé un fattore di debolezza, se non a causa dell’uso smisurato che si vuol ricavare dalle risorse a disposizione. Una crisi, infatti, o è crisi dell’uomo, e allora è risolvibile con un comportamento diverso, oppure non è proprio nulla che paia sensato esaminare in qualche modo. La malattia del nostro tempo, dunque, non è economica e politica ma etica, un male morale dagli effetti economici e politici devastanti. Il nostro attuale modo di vivere, originato dalla propensione personale a riporre la contentezza in disvalori contingenti e in obiettivi radicalmente inconsistenti, non è in grado di offrire in modo permanente il grado di perfezione e sicurezza desiderata. Come poter spiegare in modo diverso l’ondata di corruzione che sta eloquentemente lacerando la società italiana, giungendo a coinvolgere personalità di livello locale e nazionale che hanno ricevuto ampio consenso elettorale? E come l’implosione di un sistema bancario che, con tutta evidenza, ha trattato sistematicamente i piccoli risparmiatori come strumenti al servizio di una finanza dopata? Se, infatti, in futuro non sarà più possibile avere un incremento della produzione di ricchezza come avveniva nel secolo scorso e se, allo stesso modo, non sarà possibile avere nel nuovo contesto internazionale una stabilità politica e un progresso come abbiamo avuto in precedenza, ciò non significa automaticamente che la crisi presente non possa essere affrontata e superata in nessun modo. Magari si può iniziare puntando su quanto realmente dipende dalla libertà e dall’impegno di ciascuno. L’uscita dallo stallo in cui siamo calati esige, certamente, il superamento dell’atteggiamento tecnocratico che abbiamo deciso di adottare nella nostra vita sociale, non dimenticandoci però che siamo noi gli unici veri responsabili del nostro destino. Ogni persona può, infatti, se lo vuole, abbandonare l’opzione al male minore, cercando una stabilità alta che non sia soltanto la somma di prestazioni eccezionali a questo punto irraggiungibili. La realtà economica e politica, infatti, resta sempre quella che è: un mezzo al servizio della nostra felicità o della nostra infelicità. Dipende da noi stabilirlo.In sintesi, la difficoltà che stiamo vivendo sembra sentenziare che non può esistere alternativa al tracollo, trattando i mezzi politici ed economici come parametri definitivi e assoluti. Ma può anche spingerci a recuperare il vero significato in cui la nostra libertà e il nostro impegno trovano soddisfazione, alzando ed incrementando il grado di umanità della società con un lavoro magari modesto ma ben fatto e con una partecipazione politica autentica al servizio degli altri senza bramosia di potere. Il risultato positivo deriverà unicamente da un atteggiamento etico nuovo e giusto che investa su un modo di vivere più solidale e meno egoista, nel quadro di una prospettiva etica misurata socialmente e davvero aperta a quel desiderio di equilibrio che ogni persona porta in se stessa. L’essere umano, difatti, non si lascia imprigionare mai in una logica chiusa e immanente, senza entrare in crisi profonda, perdendo appunto l’unica risorsa personale che ha realmente a disposizione: la felicità. DOCUMENTO 3: Il futuro? Va riscritto di Marc Augé • 01-11-12 – Tratto da: l’Unità 3.10.12 L’ideologia del presente ci porterà alla rovina Oggi viviamo in un mondo governato in apparenza dall’istantaneità e dall’ubiquità. un compito urgente per noi tutti sarebbe quello di imparare di nuovo a pensare il tempo e, dunque, a riscoprire una precisa idea di futuro. certo, senza cedere alle illusioni utopiche del xxi secolo, ma resistendo anche agli effetti deleteri dell’attuale «ideologia del presente».L’illusione della «fine della storia» (Francis Fukujama) costituisce senza dubbio l’ultima illusione, l’ultima «grande narrazione», tipo quelle del XIX secolo. In effetti, questa visione della democrazia planetaria come combinazione della democrazia rappresentativa e del libero mercato non corrisponde né alla situazione attuale né alle tendenze che vediamo svilupparsi. Ci incamminiamo, piuttosto, verso un’oligarchia planetaria a tre classi: coloro che possiedono, coloro che consumano e gli esclusi. L’accesso all’agiatezza economica e alla conoscenza è confiscato da un élite planetaria. Tra l’altro anche le dittature politiche si adattano bene al libero mercato.Cosa fare? Resistere tanto alle dottrine che ci chiudono nel passato quanto a quelle che fantasticano sul futuro. Resistere alle illusioni dell’istantaneità. Pensare sia il presente che il futuro ricordandosi che la nostra azione quotidiana ha esito positivo solo se apre prospettive ad un avvenire possibile. Ispirarsi in tutti i campi alla umiltà della scienza, che sposta continuamente le frontiere dell’ignoto. Immaginare un esistenzialismo politico capace di non cedere alla tentazione di applicare modelli preconcetti. E conservare, con l’ideale di universalità, la capacità di non perdere di vista la triplice dimensione dell’uomo: individuale, culturale, generico. Solo una rivoluzione dell’educazione per tutti permetterebbe di realizzare pienamente un tale progetto. È un’utopia, ma può aiutare a definire delle priorità e a lottare per la loro realizzazione.Non si può dire né che i diritti dell’uomo siano appannaggio di un solo paese o di una particolare cultura anche se la Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino è datata, e storicamente collegata alla Rivoluzione francese né che essi siano comunque riconosciuti e rispettati da ciascuna cultura e da qualsiasi regime politico. Nessun regime politico ne realizza completamente l’ideale. Ma, evidentemente, ci sono delle notevoli differenze da questo punto di vista: tra i diversi regimi, tra l’importanza che essi danno alle tradizioni religiose o culturali, tra queste stesse tradizioni e, ancor di più, tra le interpretazioni e gli usi che di esse sono stati fatti. Tutto questo diventa evidente nel momento in cui si considera la libertà formalmente riconosciuta e concretamente garantita a tutti gli individui, indipendentemente dal sesso, dalla loro origine e dalle loro opinioni.Tutto ciò rimanda a un compito non facile, poiché vi sono potenti personalità gli oligarchi della globalità che incarnano oggi il successo politico, economico o mediatico e le forme di resistenza che ad essi si oppongono passano spesso attraverso dei riferimenti culturali o adesioni religiose alienanti.Un circolo vizioso dunque, imputabile al fatto che in entrambi i casi è l’uguaglianza tra individui ad essere fondamentalmente negata, anche se è l’unica garanzia della loro sovranità e l’unica spinta alla loro libertà. Traduzione di Anne-Marie Bruyas DOCUMENTO 4: Più tempo, meno moneta di Luigino Bruni • Tratto da: www.avvenire.it 28 ottobre 2012 Nuova normalità: la crisi spinge a rivalutare la condivisione di beni e servizi I "new normal", i nuovi normali: così l’America chiama quella parte dell’ex ceto medio che a causa della crisi sta cambiando stile di vita, facendo cose che pochi anni fa sarebbero state considerate anormali otipiche della classe più povera. Fra questi nuovi comportamenti 'normali' non ci sono solo riduzioni del consumo di beni e servizi che fino o poco fa erano considerati ormai assodati e di fatto indispensabili, ma ci sono anche nuove pratiche di condivisione, in rapido aumento nella società americana e un po’ in tutto l’occidente in crisi. Tra queste c’è anche il grande sviluppo delle Banche del tempo, quella importante innovazione (che risale a ben prima della crisi), che consiste nel dar vita a una rete di scambi nei quali la moneta, cioè l’unità di conto e di calcolo delle equivalenze, non è il denaro ma il tempo: l’offerta, ad esempio, di un’ora di giardinaggio diventa un credito di un’ora di un’altra attività della stessa durata, sulla base di norme di reciprocità sia diretta che indiretta (dove il credito o il debito di A verso B può essere ricambiato anche da C). Nelle vere banche del tempo si riporta l’economia alla sua natura originaria di incontro fra persone, dove lo scambio di merci e di servizi è sussidiario ai beni relazionali, che oggi sono sempre più inquinati da mercati troppo anonimi e spersonalizzati. Le banche del tempo sono presenti anche sul nostro territorio, normalmente promosse da associazioni della società civile, quasi sempre all’interno di tessuti con orditi molto articolati, che in certi casi stanno prendendo la forma di veri e propri sistemi di scambio e di sviluppo locale, con reti di gruppi di acquisto solidale (Gas), cooperative, pubbliche amministrazioni lungimiranti, banche territoriali, molte associazioni, Caritas, ecc. Così in molti territori, le antiche tradizioni di virtù civili e di mestieri oggi vivono una nuova primavera, con in più un significativo protagonismo di donne e di anziani. Sono questi segnali positivi della crisi, che se estesi su più larga scala e sostenuti da buona politica, potrebbero far sì che diventino di nuovo 'normali' prassi comunitarie e solidali che hanno fondato la nostra cultura occidentale e cristiana, e che nell’era dell’opulenza e dello spreco insostenibile sono state in larga parte distrutte. Dietro questo crescente fenomeno delle banche del tempo si deve allora intravedere un processo di portata più generale e più strutturale, che potrebbe offrire elementi capaci di produrre cambiamenti di vasta portata all’interno del nostro modello economico capitalistico. Ma per comprendere la sfida che si nasconde dietro queste apparentemente semplici e ancora poco conosciute esperienze, bisogna guardare più in profondità. Anzitutto alla diseguaglianza crescente, che va però anche vista da una prospettiva non abbastanza sottolineata, e quindi molto sottovalutata. È la tendenza radicale in atto nel nostro sistema capitalistico a un progressivo allargamento dell’area coperta dagli scambi monetari. È ormai considerato 'normale', in America (ma non solo lì), pagare un extra nei teatri e musei al fine di saltare la coda; oppure pagare (e qui per fortuna solo in America) gli studenti al fine di incentivarne la performance scolastica; per non parlare della ormai normale penetrazione della logica monetaria nella sanità, nella cultura, e persino nella famiglia, dove sta diventando normale incentivare i ragazzi pagandoli per i lavori di casa. Senza entrare in questioni etiche fondamentali relative all’allargamento dell’uso della moneta in questi ambiti del civile (siamo sicuri che evitare una coda in un teatro, in un ospedale o in un aeroporto perché si è più ricchi sia compatibile con la democrazia?), c’è una conseguenza diretta di tutto ciò nella vita quotidiana delle persone, soprattutto dei nuovi e antichi poveri e dei nuovi normali. Se la moneta copre sempre più bisogni, se cioè devo pagare per ottenere beni e servizi che una volta erano offerti dalle comunità (cura, educazione, scuola, sanità...), una tanto evidente quanto taciuta conseguenza è l’aggravarsi delle condizioni di vita e dell’esclusione sociale di chi quella moneta non ce l’ha o ne ha troppo poca. Per questo in un mondo che oltre ad essere diseguale nel reddito aumenta il ricorso alla moneta per sempre nuove attività, alcune delle quali essenziali per vivere, la vita dei più poveri diventa tremendamente dura. È qui allora che si capisce il significato civile ed economico di questi movimenti di reciprocità non mercantile come le banche del tempo e dintorni. Un modo efficace per combattere la mancanza di reddito è ridurre il ricorso alla moneta per ottenere beni e servizi. Se fossimo capaci di organizzare la nostra vita quotidiana sfruttando di più il principio di reciprocità, metterlo più a sistema, potremmo gestire una parte significativa di servizi di cura, di assistenza ma anche di mestieri e competenze, senza ricorrere allo strumento monetario. Anche perché molti dei nuovi 'normali' sono nella condizione, perché giovani, donne e anziani, di avere meno reddito ma più tempo e spesso competenze non richieste oggi dal mercato del lavoro ma molto utili alla gente. Perché allora non far ripartire in Italia una nuova stagione di sistemi locali di scambio basati sul principio di reciprocità? Come cittadini ci riapproprieremo di pezzi importanti di vita associata, di democrazia e quindi di libertà, e metteremmo in moto creatività, innovazione, protagonismo, lavoro, nuova fiducia e capitali civili la cui mancanza è la vera povertà dell’Italia di oggi. Sarebbe una stagione simile alla nascita del movimento cooperativo di fine ottocento, quando in tempo di profonda crisi industriale e rurale, l’Italia seppe dar vita ad un vero miracolo economico-civile, creando decine di migliaia di nuove imprese in tutto il Paese. Occorrerebbe però anche una politica lungimirante che, ad esempio, non veda queste transazioni come forme di evasione fiscale ma come una espressione del principio di sussidiarietà, di cui tanti parlano ma pochi concretizzano. Da questa crisi sicuramente uscirà una nuova 'normalità': oggi ci troviamo di fronte ad un bivio epocale tra una nuova normalità fatta di miseria per tanti e super privilegi per pochi, e una nuova normalità con maggiore condivisione, democrazia e opportunità per tutti. Dobbiamo allora operare e sperare affinché si imbocchi questa seconda direzione. DOCUMENTO 5: Manifesto per un capitalismo popolare di Fausto Panunzi • Tratto da: www.lavoce.info 05.10.2012 La crisi di consenso dell’economia di mercato e le (presunte) ragioni di un suo rilancio. A poco più di venti anni dalla caduta del muro di Berlino, che certificava il fallimento dell’esperimento delle economie del socialismo reale, l’economia di mercato non se la passa bene, malgrado tutti ammettano che a essa non vi siano reali alternative. La crisi economica che ha attanagliato gran parte dei Paesi occidentali e che in alcuni non sembra avere fine, ha portato molti a scendere in piazza proprio contro l’economia di mercato, come hanno fatto gli indignados e il movimento di Occupy Wall Street. Ci vuole coraggio allora a scrivere proprio oggi un libro che nell’edizione italiana ha il titolo di “Manifesto Capitalista” e in quella inglese di “A Capitalism for the People”. E il coraggio non manca certo a Luigi Zingales, economista dell’università di Chicago, prossimo presidente della prestigiosissima American Finance Association, editorialista del Sole-24 Ore, membro del consiglio di amministrazione di Telecom e molte altre cose ancora. LE RAGIONI DELL’AVVERSIONE AL CAPITALISMO. Zingales non nega la crisi di consenso dell’economia di mercato e, anzi, nella prima parte del libro propone un’approfondita analisi delle ragioni di tale mancanza di popolarità del capitalismo attuale. L’economia di mercato, per funzionare bene, deve fornire incentivi a chi esercita impegno nelle proprie attività, a chi ha talento, a chi ha propensione a innovare e rischiare. La conseguenza è che genera disuguaglianze: chi ha successo (o perché ha talento o perché ha lavorato più e meglio di altri o perché ha visto opportunità che altri non hanno visto) guadagna più di chi non ha successo. Le disuguaglianze non sono di per sé popolari, dato che sono pochi i vincitori e molti di più i perdenti. La globalizzazione e le nuove tecnologie, creando in molti settori un unico mercato mondiale, hanno amplificato la tendenza alla disuguaglianza. Nessuno si accontenta di avere un prodotto buono: tutti vogliono avere il prodotto migliore o i prodotti migliori o semplicemente quelli che sono alla moda. Quindi alcune imprese fanno profitti stellari, mentre altre sono costrette a chiudere. Ma anche i lavoratori sono toccati da questa apertura delle frontiere: le imprese possono scegliere di de-localizzare le produzione o di dare in outsourcing una quantità sempre maggiore di servizi. Questo riduce i salari dei lavoratori poco qualificati nei Paesi occidentali e crea disoccupazione in alcuni segmenti del mercato del lavoro. La forbice crescente tra l’andamento della produttività e i salari medi è lo specchio di questa crescente disuguaglianza. Se questi fattori di per sé non rendono popolare l’economia di mercato, scoprire che alcune imprese prosperano grazie a concessioni che vengono dal potere politico o il fatto che alcune banche siano state salvate con i soldi dei risparmiatori perché erano “too big to fail”, dopo che i manager che le avevano portate sull’orlo del fallimento avevano intascato bonus milionari, è stato il vero colpo di grazia al consenso per il mercato. E, aggiunge Zingales, l’intervento pubblico spesso non risolve i problemi, ma li aggrava. La capacità delle imprese, attraverso la loro attività di lobby, di condizionare a proprio favore la regolamentazione o di ottenere monopoli va a scapito dei contribuenti e dei consumatori. E lo Stato sta fallendo anche nella sua funzione di ammortizzatore contro le disuguaglianze crescenti create dalla globalizzazione. Un miglior livello di istruzione potrebbe portare a salari più elevati e a una maggiore probabilità di impiego. Ma, ci ricorda Zingales, il fattore che è maggiormente significativo nel determinare l’apprendimento degli studenti è la qualità degli insegnanti, che dovrebbero essereselezionati in base alle loro capacità. Questo, però, è impedito dalle potenti lobby degli insegnanti anche in quella che dovrebbe essere la patria del libero mercato e della meritocrazia, cioè gli Stati Uniti. Siamo in presenza di un doppio fallimento: quello di un mercato sempre meno concorrenziale e sempre più preda delle grandi imprese e quello di uno Stato che dovrebbe fare rispettare le regole e invece le interpreta e le adatta alle esigenze del big business. Il Tea Party con la sua avversione al crescente ruolo del governo e il movimento Occupy Wall Street con la sua avversione al mercato hanno in realtà molto in comune: avversano in realtà le deviazioni dalla concorrenza sul mercato e le degenerazioni economiche e politiche che ne conseguono.La situazione italiana è per molti aspetti ancora peggiore. Da noi l’intreccio tra politica e economia è incarnato da Silvio Berlusconi, che ha dominato la scena pubblica italiana degli ultimi venti anni. Il libro mette impietosamente in evidenza i fallimenti dei suoi tanti anni di governo. CHI GUIDERÀ IL CAMBIAMENTO Zingales, però, non si rassegna a vedere sparire il modello di società che lui sognava da ragazzo e che lo ha entusiasmato nella sua esperienza di studio e lavoro americana e nella seconda parte del libro analizza alcuni fattori che potrebbero rovesciare il trend. Inutile pensare di fermare la globalizzazione o il progresso tecnico. Il protezionismo e il neoluddismo hanno poco da offrire. Servono invece altre cose. Una rete di protezione sociale, con sussidi di disoccupazione abbinati alla possibilità di riqualificazione personale dei lavoratori. Un sistema di voucher scolastici per le famiglie, così da incentivare la concorrenza tra le scuole e quindi la qualità della didattica. Norme sociali “cooperative” che possano supplire all’assenza di regolamentazione. Un ruolo importante per l’etica, che consenta di andare al di là degli incentivi dati dalla legge e dalle sanzioni che essa può imporre. Regole semplici che possano essere fatte rispettare senza manipolazioni e che generino trasparenza. Limitare la forza del lobbismo, dando potere ai consumatori con strumenti come le class action. Dati resi pubblici per una maggiore trasparenza e migliore informazione dei cittadini. Una riforma della finanza che impedisca il “too big to fail”. Tasse pigouviane che correggano le esternalità, fonti di fallimenti di mercato. Come si vede, sono tanti i fattori che secondo Zingales potrebbero tornare a darci un capitalismo popolare, cioè per la gente e non avversato dalla gente. Ciascuno di essi è già stato proposto nel dibattito di politica economica e nessuno sembra di per sé decisivo, anche se la lucidità e l’esaustività di questo libro ce li fanno apprezzare meglio.Il libro colpisce per la qualità e la ricchezza delle argomentazioni, in cui dati presi da studi accademici sono intrecciati con episodi della vita dell’autore. Zingales ripete molte volte la sua tesi principale, ma sempre da un punto di vista diverso. È una sintesi molto riuscita di conoscenze che gli vengono dall’attività di ricerca e di una capacità di farsi leggere acquisita come editorialista.La sensazione che mi è rimasta alla fine del libro è quella di preoccupazione, forse perché ho trovato la prima parte più convincente della seconda. La domanda che ci si pone inevitabilmente è: ma perché stavolta il capitalismo dovrebbe essere capace di riformarsi? Cosa ci può indurre a pensare che, passata l’emergenza, tutto non tornerà come prima? A sorpresa, un ruolo positivo può essere giocato, secondo Zingales, dal sentimento anti-establishment – non importa se politico o economico - che nasce quando una fetta della popolazione si impoverisce. Gli attori del cambiamento possono essere donne, giovani e immigrati, cioè gli esclusi dai privilegi che il sistema economico odierno concede. La crisi li renderà consci che non hanno da perdere nulla dal cambiamento all’infuori delle proprie catene, come avrebbe detto un altro, più famoso - ad oggi - Manifesto. Ma non è ovvio che il movimento populista che sta nascendo in quasi tutti i Paesi occidentali si indirizzerà in una direzione che alla fine sarà promercato. Zingales ricorda l’esperienza degli Stati Uniti della fine del 1800 e inizio del 1900, che portò all’adozione di misure come lo Sherman Act del 1890, cioè la legge antitrust americana. Ma quanto è generalizzabile quell’esperienza? Nessuno lo sa, temo. Da parte mia, più che nei movimenti populisti, cerco motivi di speranza guardando i banchi dei miei studenti, pensando che trenta anni fa su quegli stessi banchi sedeva proprio Luigi Zingales e sperando che tanti tra di loro avranno la sua smisurata energia, il suo incredibile talento e la sua passione civile. Luigi Zingales, Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta. Rizzoli (collana saggi italiani), 2012, 407 pagine. DOCUMENTO 6: Il disagio degli europei in cerca di futuro di Claudio Magris • Tratto da: http://www.corriere.it 23 ottobre 2012 Questa crisi alimenta i particolarismi più ottusi Un paio di settimane fa ero a Madrid, nei giorni delle manifestazioni contro il governo e degli scontri con la polizia, di cui hanno ampia- mente riferito i nostri giornali e le nostre televisioni, talora esagerandone - specialmente sullo schermo - la portata e la violenza. Trovandomi per caso in una delle zone calde, ho provato un sentimento non di paura - pensavo a dimostrazioni ben più inquietanti, da quelle a Trieste nell'immediato dopoguerra a quelle degli anni Settanta o alle battaglie per le strade a Genova nel 1960 o in occasione del G8 - ma di sconforto, uno sconforto che sconfinava in un vago timore sovrapersonale, in un vero malessere. Proprio i comprensibili motivi all'origine della protesta - le condizioni di vita sempre più dure per un numero sempre più vasto di persone, le crescenti difficoltà di far fronte alle esigenze fondamentali della popolazione (sanità, assistenza sociale, pensioni, lavoro) - incutevano una plumbea, smarrita tristezza, facevano sentire fisicamente l'incombere di un futuro di grigiore e di vita grama e umiliata. Davano un senso di insicurezza, evocato recentemente da Bauman. Questo sentimento di un futuro frustrante ed opaco non preoccupa direttamente la mia generazione; come ai vecchi di Svevo, a noi non interessa personalmente il futuro, il nostro universo è il presente, da afferrare e godere o da scansare quando ci fa soffrire. La gente della mia età non è immalinconita dalle incertezze e dal possibile squallore del futuro; abbiamo già, in generale, estratto da tempo le carte al nostro tavolo da gioco, carte che ci danno una buona probabilità di cavarcela abbastanza bene per il tempo che ci interessa. Ma chi si apre oggi alla stagione della vita in cui si decidono l'esistenza, la sua qualità e il suo significato, si sente impedito nelle sue esigenze di sbocciare, di costruire il proprio mondo, di far valere il proprio diritto alla felicità proclamato dalla Dichiarazione americana. E allora lo sgomento prende pure chi non teme per se stesso e, se fosse per lui, continuerebbe a spassarsela vuotando la dispensa per lui ancora più che sufficiente; lo sgomento lo afferra e non solo perché teme per altri che gli stanno a cuore almeno come se stesso - figli, nipoti - ma perché siamo tutti responsabili del destino di tutti e non si può essere felici se si è circondati dalla tristezza, non si può essere veramente vivi in un mondo spento. Nelle stesse ore, i giornali a Madrid parlavano dei fermenti di separatismo sempre più intensi in Catalogna e dell'involuzione e della paralisi che ne derivano alla politica dell'intero Paese, di quel grande e vitale Paese che è la Spagna, e dell'Europa in generale. C'è nell'aria la sensazione di un crepuscolo dell'Europa. Quelle dimostrazioni - simili a quelle di tante altre regioni europee - non apparivano l'espressione di una ribellione politica, di un progetto alternativo, magari discutibile o inaccettabile, ma pur sempre progetto di futuro; non evocavano l'immagine di un esercito all'attacco, ma piuttosto di reparti che marciano per la cerimonia dell'ammainabandiera. L'Unione Europea - con le sue commissioni, i suoi bizantinismi, le sue cautele, le sue necessità di compromesso, il paralizzante incrociarsi dei veti dei suoi Stati membri, le sue infinite mediazioni sempre più simili a situazioni di stallo sembrava, sembra lontana come l'imperatore della celebre parabola kafkiana, il cui messaggio risolutivo è per strada ma non arriva mai. E intanto, alimentati dalla crisi economica, si diffondono i miasmi dei nazionalismi, dei particolarismi, dei localismi, delle ottuse e rancorose velleità separatiste, nell'assurda smania che ogni nazionalità o etnia, che devono ovviamente potersi sviluppare pienamente, debba o possa divenire uno Stato (la Svizzera dovrebbe quindi spaccarsi in quattro Stati, cosa che gli svizzeri non sembrano vogliosi di fare) e che la chiusura in un'astiosa separatezza possa risolvere la crisi economica. La nostra unica realtà possibile, l'unica che possa garantire sicurezza e stabilità, è l'Europa. Uno Stato europeo, un vero Stato - federale, decentrato, ma con una sua coesione e una sua cogente autorità, come gli Stati Uniti d'America - un'Europa di cui gli attuali Stati nazionali diventino regioni, ognuna con la sua autonomia ma nessuna delle quali abbia ad esempio diritto di veto in merito alle decisioni politiche di un governo che realmente governi né diritto di darsi leggi e tantomeno costituzioni in contrasto con i principi della Costituzione europea. Uno Stato europeo la cui autorità si affidi non ad avvertimenti o a moniti, ma all'effettività di un vero diritto. Un reale Stato europeo è l'unica possibilità di un nostro futuro dignitoso. Oggi i problemi non sono più nazionali, riguardano tutti; è ridicolo ad esempio avere leggi diverse, nei diversi Paesi, riguardo all'immigrazione, come sarebbe ridicolo avere a questo proposito leggi diverse a Bologna e a Genova. Un autentico Stato europeo potrebbe inoltre ridurre molti costi, ad esempio le spese per tutte le infinite commissioni, rappresentanze e istituzioni parassitarie. L'Europa è, in sé, una grande potenza ed è penoso vederla spesso ridotta a litigiosa o, peggio, cauta e impotente assemblea condominiale. Per essere all'altezza di se stessa, per diventare veramente Europa, l'Unione Europea dovrebbe essere governata con decisione e autorità, senza vaporosi ecumenismi né paura di mettere in riga, a seconda dei casi, chi vuol tener pulita casa propria gettando le immondizie in quella del vicino. Probabilmente l'Unione Europea non è in grado di agire con robusta fermezza, ma se continuerà a non esserlo sarà la sua fine, un progressivo spegnersi di luci in un cinema che si vuota. Per la prima volta nella Storia, si cerca di costruire una grande comunità politica senza lo strumento della guerra. Proprio il rifiuto della guerra esige un'autorità che funzioni; la titubanza non è democrazia, ma la sua morte.Se si ha la sensazione che l'Europa unita stia scricchiolando e sfilacciandosi, è naturale, per chi crede in essa, provare quel senso di disagio e depressione di quella sera a Madrid. Naturalmente ciò non significa arrendersi alla malinconia; non siamo al mondo per indulgere ai nostri stati d'animo, alle malinconie delle nostre animucce che talvolta derivano da una cattiva digestione. Disagio o no, si continua a lavorare come si può per ciò che si ritiene giusto o il meno peggio, nella testarda convinzione che «non praevalebunt». Il malessere e la stanchezza pessimista sono un male da combattere, tanto più quanto più essi sono, come oggi, sempre più diffusi. Certo, a leggere i grandi documenti così pieni di fede, dei padri fondatori dell'idea di un'Europa unita, come ad esempio il Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni ci si accorge che, in quell'epoca orrenda - come diceva Karl Valentin, geniale cabarettista e ispiratore di Brecht - il futuro era migliore. DOCUMENTO 7: Il Nord contro il Sud. L'Europa sulle barricate di Lucio Caracciolo • tratto da: la Repubblica 16 Ottobre 2012 Formiche e cicale Un giorno usciremo dall’eurocrisi. Quando proveremo a trarne un bilancio, non dovremo valutare solo i danni economici, sociali e politici prodotti in questi anni di decrescita, di lacerazioni nel corpo delle nostre società, di delegittimazione delle istituzioni e della stessa vita pubblica. Dovremo censire anche gli effetti culturali della disputa intorno ai “caratteri nazionali”, presunta origine della crisi in corso. Come se un redivivo Luca Pacioli avesse elaborato una partita doppia geoculturale, è di moda contrapporre i viziosi meridionali ai virtuosi nordici, le cicale alle formiche, i fannulloni mediterranei agli operosi baltici. Stampa da boulevard, blog da strapazzo? Anche. Non mancano però gli intellettuali e i leader politici impegnati in questo sport. Fioccano invettive incrociate fra nordici e meridionali all’insegna di un asserito destino che imporrebbe comportamenti sociali ed economici prestabiliti a seconda del clima o del parallelo di riferimento. In tal modo è l’idea, anzi la storia stessa d’Europa, a essere violentata. Se davvero ciascuno di noi fosse confitto nel determinismo geografico, che senso avrebbe parlare di un progetto europeo? Se alcuni greci truccano i conti in quanto greci e non in quanto imbroglioni, di quale orizzonte comune discettiamo? E se un estone, un tedesco o un austriaco sono per definizione rigorosi in virtù dei rigidi inverni, perché mai dovrebbero scendere a compromessi con i pigri, goderecci abitatori del Belpaese o della penisola iberica? In tempo di crisi la ragione va in soffitta. Si ricorre agli slogan. È il festival degli estremismi: le questioni vengono poste e asseritamente risolte a fil di spada – oggi una metafora, ieri meno e quanto al domani incrociamo le dita. Senza nemmeno curarsi di darcene spiegazione, molti tra coloro che fino a poco tempo fa inneggiavano al “mondo globale” e dipingevano i rapporti fra i paesi europei in termini di perfetta interdipendenza inclinano ormai al semplicismo bipolare. Nord contro Sud, Sud contro Nord. Bianco e nero, nero e bianco. Di qui al razzismo, il passo è breve.Siamo nel campo delle “verità eterne”. Indiscutibili perché indimostrabili. Ma se le nostre società e le nostre economie sono rette da una regola inflessibile, se ciascuno di noi appartiene per nascita a una casta semidivina o irredimibile, che senso ha (avuto) tentare di allestire un’architettura comunitaria dal Mare del Nord all’Egeo? Di recente, un diplomatico tedesco spiegava così il fallimento della logica di Maastricht: «Abbiamo cercato di nordificare i mediterranei. Solo se fossimo diventati omologhi anche nella cultura monetaria avremmo potuto gestire una divisa comune. A quanto pare, è stata un’illusione». L’avventura dell’euro sarà giudicata dagli storici. Ma qui è in gioco molto più di un mezzo di scambio. Come avverte uno dei massimi storici dell’Europa contemporanea, Mark Mazower: «L’economia ha guidato il dibattito sulla crisi dell’Eurozona, ma è della politica che dovremmo preoccuparci. Dopotutto, il progetto europeo del dopoguerra si fondava sull’uso dell’integrazione economica e dei suoi benefici per emancipare il continente dal suo passato sanguinoso. Ma ora nell’Europa meridionale la violenza sta tornando in seguito ai programmi di austerità che vengono reclamizzati come prezzo per continuare a far parte dell’Eurozona. Il punto non è solo l’essere membro dell’Eurozona: in questione sono la natura e il futuro della democrazia». Di tutte le democrazie, meridionali e settentrionali. DOCUMENTO 8: Tempo Di Bloccare La Spesa? di Jean Pisani-Ferry • Tratto da: www.project-syndicate.org 31.10.2012 E’ il momento per una fase di risanamento di bilancio o di stimoli fiscali? E’ il momento per una fase di risanamento di bilancio o di stimoli fiscali? I governi dovrebbero tagliare la spesa o incrementarla? Ancora una volta la questione è oggetto di disputa tra politici ed economisti. I cittadini sono a ragione confusi, visto che nel 2008-2009 si era detto loro che l’imperativo era stimolare l’economia, e nel 2010-2011 che era giunto il momento di tagliare le spese. Le priorità dovrebbero essere ancora una volta ribaltate? In occasione dell’annuale riunione del Fondo Monetario Internazionale nel mese di ottobre, l’economista responsabile del Fondo, Oliver Blanchard ha alimentato la polemica sottolineando che negli ultimi tempi i governi hanno la tendenza a sottovalutare le conseguenze negative dell’intensificazione di una politica di consolidamento fiscale. Si è tipicamente assunto che il taglio della spesa pubblica di un dollaro, nel breve periodo, comporterebbe una riduzione del PIL di 50 centesimi; secondo Blanchard, nelle condizioni attuali l’esito reale è una diminuzione di 0.90- 1.70 dollari. Una grande differenza, ma anche un risultato sconcertante: come può esserci tanta incertezza? Contrariamente a quanto tale disparità di previsione possa suggerire, gli economisti in realtà conoscono molto circa gli effetti che una determinata politica fiscale potrebbe avere, almeno molto più di prima. Fino agli anni ottanta, si assumeva regolarmente che il cosiddetto “moltiplicatore” –il rapporto di variazione del PIL alla variazione della spesa pubblica- sia stabile e maggiore di uno. E si pensava che il taglio della spesa di un dollaro comporti una riduzione del PIL di più di un dollaro, cosicché il risanamento finanziario risulta economicamente costoso (mentre, viceversa, una politica di incentivi era efficace). Poi c’è stata la contro-rivoluzione, che ha portato avanti una lunga lista di motivi per cui è probabile che il moltiplicatore sia molto più basso. Si taglia la spesa, si diceva, e l’inflazione diminuisce. La banca centrale abbassa i tassi di interesse; le famiglie spendono in previsione della riduzione delle tasse; e la fiducia delle imprese aumenta. Alla fine, vi è un impatto negativo sulla produzione modesto, se non nullo. Gli economisti sono molto suscettibili, ma sono anche investigatori testardi, cosicché la disputa ha comportato nuove analisi sugli effetti dei tagli di bilancio. Sono stati messi a punto nuovi metodi per misurarne l’impatto; si sono introdotti nuovi approcci per tener conto della possibilità che il moltiplicatore possa variare nel corso del tempo; e sono stati raccolti nuovi dati per meglio incorporare le reali decisioni di bilancio. Tutto questo impegno ha pagato. Oggi ci sono prove convincenti del fatto che la stessa decisione di tagliare la spesa pubblica può avere conseguenze molto diverse, a seconda delle condizioni economiche. Questo può sembrare il Paradiso per i secchioni della politica, ma ha anche significative implicazioni per le scelte del governo. Gli effetti negativi di breve periodo per la crescita dovuti ad un taglio alla spesa sono probabilmente maggiori quando l’economia è già in recessione, anche i partner commerciali tagliano la spesa o rialzano delle tasse, il tasso di interesse della banca centrale è vicino allo zero, e i mercati non hanno particolare preoccupazioni circa la capacità dello stato di ripagare il proprio debito. In tali condizioni, come quelle del 2009, il moltiplicatore può essere vicino a due. Quindi sarebbe stato letale imbarcarsi allora in una politica di controllo dei conti pubblici. Era corretta una politica di stimoli. Ma quando l’economia è in piena espansione è improbabile che gli effetti di un taglio della spesa siano dannosi. Dunque era giusto cominciare a programmare un cambio di marcia quando la ripresa ha cominciato a materializzarsi. Le cose sono più difficili quando le finanze pubbliche sono in uno stato di acuta tensione ed i mercati sono preoccupati per la solvibilità statale, come nel caso dell’Europa meridionale. Vi è scarsa evidenza empirica per questo insieme di condizioni, perché casi di tal genere erano rari fino a poco tempo fa. Ma è logico ritenere che il ripristino della sostenibilità delle finanze pubbliche possa avere effetti fortemente positivi sulla fiducia dei mercati ed i tassi obbligazionari. Al tempo stesso, se l’economia è già in forte contrazione, come spesso accade in queste situazioni un taglio della spesa è destinato ad avere gravi effetti negativi sulla domanda interna. Il modo migliore per uscire dal dilemma è quello di adottare misure in grado di migliorare le finanze pubbliche a lungo termine senza produrre effetti negativi nel breve periodo, come la riforma del sistema pensionistico pubblico. L’aumento dell’età pensionabile, per esempio, migliora le prospettive della finanza pubblica, ma non pesa sulla domanda a breve termine. Più in generale, sono auspicabili delle misure che credibilmente diano segnali di una finanza pubblica più forte in futuro – assumendo, ovviamente, che i governi abbiano ancora qualche credibilità. Nel caso in cui questa si sia dissipata, come in Grecia, le promesse non hanno valore, ed ai governi non resta altra scelta che il taglio immediato della spesa. La comprensione di quali condizioni vengono soddisfatte, quando e come, può aiutare a definire l’agenda odierna. L’economia globale attualmente è in una fase di rallentamento; molti paesi europei – e l’Eurozona nel suo complessosono in recessione; i tassi di interesse delle banche centrali sono eccezionalmente bassi, ed è improbabile un loro rialzo a breve; ed i paesi più avanzati tagliano la spesa pubblica. Ciò comporta cautela nello sforzo di risanamento. Allo stesso tempo, i rapporti debito-PIL aumentano ancora, e molti paesi hanno perso l’accesso ai mercati o rischiano di perderlo, a causa delle precarie condizioni delle loro finanze pubbliche. Ciò, invece, implica la necessità di un ridimensionamento della spesa. Sono dunque quattro le prescrizioni per i politici: • Ogni volta che è in gioco la sostenibilità della finanza pubblica (cosa che accade più o meno in tutto il mondo avanzato, ad eccezione dell’Australia, del Canada, e di pochi altri paesi dell’Europa settentrionale, inclusa la Germania) i paesi dovrebbero continuare nelle politiche di risanamento, ma ad un ritmo moderato. • I governi non dovrebbero aumentare gli sforzi di risanamento solo perché il rallentamento dell’economia riduce il gettito fiscale, e non dovrebbero mirare ad obiettivi di disavanzo nominale nel prossimo anno. • In condizioni di acuta pressione fiscale, i governi non possono permettersi di frenare il risanamento di bilancio. Ma, per quanto possibile, dovrebbero dare quanta più enfasi possibile alle riforme di spesa che migliorano le prospettive in modo credibile, limitando nel frattempo gli effetti negativi nel breve periodo. • Infine, i funzionari di tutto il mondo dovrebbero investire in quelle istituzioni che aiutano a convincere i mercati del loro impegno verso la sostenibilità della finanza pubblica. In condizioni di pericolo, i funzionari non dovrebbero fare affidamento su scenari rosei e sperare di essere credibili. Piuttosto, dovrebbero comunicare con chiarezza ai mercati ed ai cittadini come la pensano e cosa intendono fare. DOCUMENTO 9: La resilienza dei mercati emergenti di Michael 12.10.2012 Spence • Tratto da: Http://www.project-syndicate.org Anche nella fase prolungata di crescita inferiore ai trend da parte delle economie avanzate, le economie emergenti continueranno ad essere un importante motore di crescita. In un contesto in cui gran parte del mondo è focalizzato sull’instabilità economica e una crescita debole nelle economie avanzate, i paesi in via di sviluppo (ad eccezione forse della Cina) hanno destato relativamente poco interesse negli ultimi tempi. Tuttavia, come gruppo, anche le economie dei mercati emergenti sono state influenzate negativamente dalla recente flessione dei paesi sviluppati. Saranno in grado di recuperare con le loro forze? Le principali economie emergenti sono state il principale motore di crescita a seguito dello scoppio della crisi finanziaria del 2008, e, fino a un certo punto, lo sono ancora. Ma la loro capacità di ripresa è sempre stato un aspetto della loro abilità di creare uno sviluppo cumulativo della domanda aggregata sufficiente a sostenere la crescita senza dover compensare un eventuale calo consistente della domanda nei paesi sviluppati. Una combinazione di un tasso di crescita trascurabile (o addirittura negativo) in Europa e di un importante rallentamento della crescita negli Stati Uniti ha creato questa diminuzione della domanda, indebolendo in tal modo le esportazioni delle economie emergenti. L’Europa è una delle destinazioni principali delle esportazioni di molti paesi emergenti e rappresenta il mercato più grande della Cina, che, a sua volta, è uno dei principali mercati dei prodotti finiti, semifiniti (compresi quelli utilizzati per le esportazioni di prodotti finiti) e dei beni. Gli effetti negativi derivanti dall’economia stagnante in Europa si sono quindi diffusi rapidamente nel resto dell’Asia ed oltre. Inoltre, il settore dei beni tradable dell’economia giapponese è altamente vulnerabile nei confronti di un rallentamento dell’economia cinese, mentre il recente conflitto sulle Isole Senkaku/Diaoyu ha aumentato il rischio del cosiddetto sdoppiamento economico (decoupling). In ogni caso, la prestazione economica giapponese è destinata a rimanere debole in quanto il settore dei beni non-tradable non rappresenta un forte motore per la crescita. Le domande chiave per l’economia mondiale di oggi sono pertanto legate all’entità del rallentamento della crescita e alla sua durata. Con l’implementazione di politiche lungimiranti in risposta a questo rallentamento, l’impatto potrebbe tuttavia essere relativamente moderato e di breve durata. Un aspetto chiave che getta un’ombra sul futuro è dato dalla trade finance. Le banche europee, tradizionalmente una delle fonti principali di trade finance, si sono tirate indietro radicalmente a causa dei problemi di adeguatezza di capitale determinati dalle perdite legate al debito sovrano e, in alcuni casi, dalle perdite nel settore dei prestiti immobiliari. Il vuoto che si è creato potrebbe ridurre i flussi commerciali anche in presenza di una domanda consistente. Pertanto, riempire questo vuoto con dei meccanismi alternativi di finanziamento è diventata una delle principali priorità, soprattutto in Asia. In particolare, sebbene il settore dei beni tradable in Cina sia altamente esposto alle economie sviluppate, il governo opterà molto probabilmente per un rallentamento a breve termine piuttosto di adottare delle misure di incentivazione distorte. In generale, visto il rischio di nuove bolle finanziarie, non ci si dovrebbe quindi aspettare un’agevolazione del credito simile a quella che si è verificata dopo il crollo del 2008. Un programma accelerato di investimento pubblico che eviti progetti a basso rendimento non è del tutto fuori discussione. Ma le migliori, e più probabili, politiche di risposta saranno quelle in grado di accelerare la crescita del consumo interno aumentando il reddito familiare, di impiegare in modo efficace il profitto derivato dai beni pubblici e in grado di rafforzare i sistemi di previdenza sociale cinese al fine di ridurre il risparmio preventivo. E in effetti questi elementi fanno tutti parte del dodicesimo piano quinquennale recentemente adottato dalla Cina. E’ pur vero che le principali riforme sistemiche della Cina attendono la transizione della leadership del paese, prevista per novembre. L’ipotesi maggiormente sostenuta è che il passo della riforma mirata ad espandere il mercato dell’economia debba essere rapido al fine di ottenere gli ambiziosi obiettivi economici e sociali dei prossimi cinque anni. Alcuni paesi sono tuttavia andati contro la tendenza globale. L’Indonesia, ad esempio, ha registrato una crescita in rapida espansione con un aumento del business e della fiducia dei consumatori che hanno portato ad una crescita degli investimenti fino a circa il 33% del PIL: Allo stesso modo, nonostante una riduzione della crescita, il Brasile sembra già in fase di ripresa, mentre la sua prestazione economica complessiva ha registrato un dato importante, ovvero un tasso di crescita sostanzialmente più elevato tra i cittadini più poveri ed un calo della disoccupazione. Il tasso di crescita aggregata non riesce ad essere così esaustivo e tende pertanto a sottovalutare l’avanzamento del progresso economico e sociale. La sfida più grande per il Brasile è quella di avvicinare il suo tasso di investimento, attualmente pari al 18% del PIL, al 25% sostenendo una crescita rapida ed una diversificazione economica. La dipendenza dai beni rimane comunque alta nonostante la creazione di un notevole valore aggiunto a livello nazionale. Anche i tassi di crescita economica in altri paesi sistematicamente grandi, tra cui Turchia e Messico, sono cresciuti nonostante i trend contrari di Europa e Stati Uniti. E molti paesi africani stanno, da parte loro, registrando uno schema caratterizzato da basi macroeconomiche solide, un aumento della crescita durevole, una diversificazione economica e fiducia da parte degli investitori. Le prospettive dell’economia indiana rimangono invece incerte. Sebbene la crescita abbia subito recentemente un rallentamento dei tassi molto elevati (dovuto alla combinazione dell’esposizione alla debolezza dei paesi sviluppati, della perdita dello slancio per le riforme interne e di un calo della fiducia degli investitori), il trend di crescita sembra ora cambiare rotta a seguito di una serie di manovre correttive da parte del governo. La questione principale è tuttavia se il parlamento indiano riuscirà o meno ad approvare la legislazione necessaria o se rimarrà invece paralizzato da chi ha interessi di parte e dalle lotte interne alimentate dagli scandali. Mettendo assieme questo quadro con il trend generale dei paesi in via di sviluppo (redditi in aumento, crescita rapida delle classi medie, espansione del commercio e degli investimenti, accordi bilaterali e regionali sul commercio libero ed un aumento della quota del PIL globale (pari a circa il 50%)), lo slancio per la crescita di queste economie dovrebbe ripartire in termini relativamente rapidi nei prossimi 1 o 2 anni. Gran parte dei rischi che potrebbero vanificare questo scenario sono legati all’andamento delle importanti economie dell’Europa, degli Stati Uniti e della Cina. Per far deragliare lo slancio della crescita delle economie emergenti in questo momento si dovrebbe probabilmente verificare uno shock della domanda nelle economie avanzate, oppure un fallimento della transizione della leadership cinese che impedisca l’implementazione delle riforme necessarie con un effetto negativo sulla crescita del paese. Malgrado le previsioni di una crescita minima per tutto il mondo sviluppato, questi rischi sistemici, presi singolarmente e in parallelo ad altri scenari, sembrano essere in calo (anche se non a tal punto da non dover essere presi in considerazione). A conti fatti, sembra probabile che i modelli di crescita a varie velocità che si sono verificati negli ultimi decenni continueranno ad andare avanti. Quindi, anche nella fase prolungata di crescita inferiore ai trend da parte delle economie avanzate, le economie emergenti continueranno ad essere un importante motore di crescita. Traduzione di Marzia Pecorari È la crisi che ci fa cambiare IL SOLE 24 ORE - 17 GIUGNO 2012 Dall'Unità in poi tante sono state le crisi che hanno offuscato l'economia italiana, generate dalle cicliche congiunture negative del sistema capitalistico, da malanni patologici intrinseci di ordine strutturale, o dal concorso di entrambe queste cause. L'analisi dedicata da Paolo Frascani alle loro diverse matrici e connotazioni ma anche ai loro risvolti politici e sociali fornisce alcune chiavi di lettura per la comprensione, più in generale, della storia d'Italia. Infatti, anche nel nostro Paese le strategie attuate di volta in volta per evitare il peggio e riprendere il cammino hanno concorso a modificare l'assetto politico, la morfologia sociale e la sensibilità collettiva, nonché la gerarchia dei rapporti internazionali. Le pesanti misure fiscali, a cui si ricorse per affrontare la crisi economica del 1864-65, sovrappostasi a quella finanziaria dovuta al fardello dei debiti ereditati dagli Stati preunitari, ebbero una forte incidenza non solo sulle condizioni delle classi popolari ma anche sul patrimonio dei proprietari fondiari, il nerbo sociale della Destra storica, che non riuscì così a mantenere il potere, quantunque avesse raggiunto infine il pareggio del bilancio. D'altra parte, se il crescente volume di opere pubbliche e il protezionismo doganale a sostegno di un'incipiente industrializzazione, sotto i successivi governi della Sinistra costituzionale, assecondarono la crescita dell'economia italiana tra il 1878 e il 1887, l'indebolimento avvenuto nel frattempo dei redditi e quindi delle potenzialità dei produttori cerealicoli rese più gravi le conseguenze nel mondo rurale della crisi esplosa negli anni Ottanta allorché crollarono in Europa i prezzi agricoli. Per di più, il fallimento di importanti istituti bancari, avventuratisi in azzardate speculazioni immobiliari, accrebbe l'impatto della depressione economica, prolungatasi nel Vecchio continente sino al 1896. Tuttavia, da un lato, la formazione di un emergente ceto di fittavoli nelle campagne del Nord e, dall'altro, la creazione della Banca d'Italia per il risanamento finanziario e creditizio posero le premesse non solo di un graduale superamento della crisi ma anche della svolta politica di fine secolo, con l'epilogo dell'indirizzo conservator-autoritario. Successivamente, la robusta ripresa dell'economia europea d'inizio Novecento (trainata da un grappolo di innovazioni tecnologiche, dall'espansione dei traffici e dal drenaggio di risorse dai possedimenti coloniali) diede le ali anche al nostro decollo industriale e alla comparsa alla ribalta di un' imprenditoria più dinamica. Ma fu poi l'azione più incisiva dello Stato nella sfera economica,in età giolittiana, ad agevolare l'uscita dalla brusca crisi del 1906-1907. Che le misure adottate per venire a capo delle congiunture avverse, o per attutirne gli effetti, abbiano posto le basi ogni volta di un processo di interrelazione tra il versante economico e quello politico-sociale, è quanto emerge chiaramente dalle vicende della Grande Crisi degli anni Trenta. Se negli Stati Uniti il New Deal roosveltiano per riavviare il motore vide anche l'avvento di nuove forze sociali ed elite intellettuali, altrove, nel mondo occidentale, l'estensione dell'interventismo pubblico segnò il successo delle componenti riformiste progressiste, come nelle democrazie liberali, o, per contro il consolidamento di regimi autoritari, come in Italia e in Germania. Da noi, in particolare, ad allentare la morsa della crisi contribuirono non solo le cure dell'Iri per salvare banche e imprese decotte, ma anche l'uso efficace delle comunicazioni di massa a presidio della dittatura e la guerra d'Etiopia e le commesse che rafforzarono, rilanciandone le fortune, i principali Gruppi privati. Dal secondo dopoguerra, la confluenza per oltre vent'anni fra politiche keynesiane ed espansione del ciclo economico sospinse l'Italia come altri Paesi dell'Occidente lungo i tornanti del capitalismo industriale e del Welfare. Ma l'inconvertibilità aurea del dollaro nel 1971 e i due shock petroliferi del 197374 e del 1979-80 provocarono quella sorta di crisi economica inedita che fu la stagflazione. E le terapie adottate per esorcizzarla determinarono, a cominciare dagli Stati Uniti di Reagan e dalla Gran Bretagna della Thatcher, una riconversione politica e ideologica a tutti gli effetti. Col revival delle teorie neoliberiste e individualiste si è assistito infatti sia alla rivalsa della cultura "neocon" sia a un'inversione dei rapporti fra Stato e mercato, nonché a un mutamento degli equilibri sociali con un aggravamento delle diseguaglianze a vantaggio dei più facoltosi e a scapito soprattutto dei ceti medi. A sua volta, la globalizzazione di merci e capitali, assecondando l'ascesa dei Paesi emergenti, ha segnato l'avvento di un sistema geo-politico tendenzialmente multipolare. In questo contesto, contrassegnato in Occidente anche dalla rivoluzione tecnologica post-fordista, ha finito poi col prevalere il big business, il potere sempre più pervasivo dell'alta finanza. Oggi che, dopo la crisi provocata nel 2008 dal turbocapitalismo, perdura una fase recessiva densa di incognite, l'Italia si trova non solo a scontare anch'essa i costi del "Washington consensus" e della deregulation. Se il nostro Paese ha smesso da una decina d'anni di crescere e appare oggi come ingessato, lo si deve anche al fatto che negli ultimi trenta-quarant'anni è andato perdendo smalto e vigore quanto a produttività e competitività del suo sistema economico, a causa della mancanza di adeguate politiche di programmazione (nell'elettronica, nella chimica, nell'energia, nella ricerca) e si è dilatato nel frattempo il suo debito pubblico (a causa di un abnorme ingrossamento della spesa statale, dovuto a misure assistenzialiste e redistributive del reddito per fini politici strumentali). Crisi, aumentano i morosi: è boom di famiglie sfrattate aumentate del 64% in 5 anni Nel 2011 56mila famiglie italiane hanno avuto un provvedimento di sfratto per morosità: nel 2006 erano quasi 34mila. Roma e Torino al top IL GIORNALE – 24 GIUGNO 2012 Oltre a colpire i consumi, la crisi economica coinvolge anche il mattone: nel 2011 quasi 56mila famiglie italiane hanno avuto un provvedimento di sfratto per morosità. Il dato non è ancora quello definitivo, ma il ministero degli Interni fa sapere che l'emergenza è perfettamente in linea con la situazione fotografata nel 2010. Nel giro di cinque anni, cioè da prima della crisi a oggi, gli sfratti per morosità sono aumentati del 64%: nel 2006 erano quasi 34mila. Roma è la città che conta il maggior numero degli sfratti per morosità: nel 2011, secondo i dati del ministero degli Interni, sono stati emessi 4.678 provvedimenti. Gli sfratti eseguiti nella Capitale con l’intervento dell’ufficiale giudiziario sono stati 2.343. Tra le altre città spiccano i dati di Torino (2.523 sfratti per morosità), Napoli (1.557 in città e 1.255 nel resto della provincia) e Milano (1.115 nel capoluogo ma ben 3.244 nel resto della provincia). Sempre secondo i primi dati ufficiali, la difficoltà ad arrivare a fine mese e anche ad onorare il canone di affitto, riguarda l’87% dei casi di sfratto che nel 2011 sono stati complessivamente pari a 63.846. "Solo 832 i provvedimenti di sfratto emessi invece per necessità del locatore - si legge nel comunicato - per finita locazione sono stati 7.471". Le richieste di esecuzione presentate all’ufficiale giudiziario sono state 123.914, mentre gli sfratti eseguiti 28.641. La crisi spinge a «contaminare» i saperi d'impresa con la ricerca IL SOLE 24 ORE - 11 LUGLIO 2012 La dura consapevolezza di essere nel mezzo di una crisi di lungo periodo sembra ormai avere preso il posto dei sentimenti di panico e dei tentativi di rimozione della prima fase di ripiegamento. La crisi, a prescindere dalle valutazioni morali o politiche che si possono fare, ti dicono gli imprenditori, si configura come «momento di verità, quella che ti costringe a ripensare non solo al modo, ma anche al senso del tuo intraprendere». Un processo di modernizzazione imprenditoriale che ha trovato il suo limite principale nella tradizionale tendenza adattiva dei sistemi di Pmi, laddove le circostanze richiedevano di praticare una più pronunciata politica di discontinuità. La crisi, insomma, ha espresso una forza superiore all'elasticità del corpo dell'impresa, spingendola non di rado oltre il punto di rottura. Troppi, si dice, hanno prima assunto un «atteggiamento inerziale» poi, con il prolungarsi della crisi, hanno tentato di operare trasformazioni più profonde ma fuori tempo massimo rispetto al timing della crisi. Ed è sull'ampio segmento delle imprese che «ancora hanno forza e prospettiva» che occorre attivare politiche di accompagnamento finalizzate alla salvaguardia degli asset di competenze e di fondamentali economici che fanno di queste imprese dei "quasi adatti" alla complessità dello scenario. Le possibilità di superare la crisi sono perciò fatte risalire alla capacità di sviluppare un pensiero strategico in rapporto all'ambiente all'interno del quale si agisce. Comprendere le caratteristiche strutturali di questo ambiente in trasformazione non è solo affare degli imprenditori. Per questi è ormai quasi scontato investire intelligenza e risorse in circuiti che alimentino innovazione a 360°. costantemente la capacità di sperimentare Ad attivarsi per moltiplicare le chances di rigenerazione del tessuto imprenditoriale troviamo anche tanti attori locali: enti locali, associazioni di rappresentanza e Camere di commercio, pur essi sospinti al riposizionamento dal vento della crisi. Mai come in questa fase gli attori sono portati a nutrire speranze e a determinare aspettative in rapporto alle potenzialità derivanti dalla progressiva contaminazione tra saperi di impresa e mondo della ricerca. Innovazione e formazione sono due imperativi, intorno ai quali gli attori locali sono impegnati nella costruzione di dispositivi di accumulazione, investimento e disseminazione di quel fondamentale patrimonio di conoscenze scientifiche da innestare sull'albero della manifattura per rinnovarne le potenzialità di crescita. Non c'è Camera di commercio che non abbia investito in questo senso, ogni territorio ha il suo polo per il trasferimento tecnologico o parco scientifico sia esso di natura pubblica o privata. Analogamente non c'è città capoluogo di provincia nella quale non viga qualche accordo di programma incentrato su attività di ricerca universitaria orientata al tessuto manifatturiero sia essa decentrata da Milano o cresciuta localmente. Vedremo se queste iniziative, nate sulla scia del policentrismo spinto, costituiranno un atout importante per il rinnovamento del sistema produttivo in tempi di risorse pubbliche scarse, quelle che, direttamente o indirettamente, sostengono i costi di tali nodi della rete della conoscenza. Ma la competitività non è questione legata solo all'innovazione tecnologica di processo o di prodotto (ad esempio Robur, Feralpi, Guna, Novamont etc.). Innovare significa anche agire sulle competenze dei collaboratori a tutti i livelli come fanno alcune imprese edili (Meraviglia Spa) per migliorarne la produttività, investire in forme di partnership con altre imprese in modo strutturato (non necessariamente formalizzato) per aggredire nuovi segmenti di mercato furniture (Bellotti), darsi strumenti per comprendere l'evoluzione di mercati geograficamente lontani nella meccanica (3C Catene) o per delineare le tendenze degli utilizzatori di packaging (Ghelfi Ondulati), darsi strumenti per passare dalla comunicazione di un prodotto alla comunicazione di un mondo di valori e significati a esso connessi (B&B, Lifegate). CRISI GLOBALE IL GIORNALE – 21 LUGLIO 2012 Sos. Sos da una Spagna che rischia di diventare la nuova Grecia. La lotta per scongiurare il default nella penisola iberica, sembra essersi trasformata, drammaticamente, in queste ore, in una battaglia contro i mulini a vento di donchisciottesca memoria. Lo spread tra Bonos spagnoli decennali e Bund tedeschi equivalenti ha infatti sfondato, ieri, il proprio record toccando quota 601 punti. Una situazione perfettamente sintetizzata dalle parole il ministro del bilancio spagnolo, Cristobal Montoro, al parlamento di Madrid : «La Spagna non ha un soldo in cassa per pagare i servizi pubblici e se la Bce non avesse comprato i titoli di Stato, il Paese sarebbe fallito». Banche bocciate, richieste di finanziamento, titoli che crollano, spread che aumenta questo il quadro di un Paese che sprofonda nel caos dopo che Standard & Poor's ha tagliato il rating a cinque banche spagnole: Banca Civica, Bankia, Bankinter, Banco Popular e Bfa e che tutti i Bonos a scadenza sono stati acquistati dai nuovi acquirenti per una cifra che ha toccato i 2,98 miliardi di euro, davvero troppo poco per una nazione che tenta di salvarsi con una manovra che dovrebbe consentire di risparmiare 65 miliardi da qui al 2014. L'Iva che passerà dal 1° settembre dall'8 al 21% con un aumento di ben 13 punti, l'eliminazione della tredicesima per gli statali con l'aumento delle ore lavorative settimanali e la riduzione (da sei a tre) dei giorni liberi disponibili sta seminando un malcontento in crescita esponenziale che anche ieri si è tradotto nell'ennesima manifestazione di protesta alla Puerta del Sol con una folla che intonava un unico slogan: «Che il prossimo disoccupato sia un deputato». Una situazione appesantita dal taglio al sussidio di disoccupazione, che passerà, dal settimo mese, dal 60 al 50% del salario percepito in un Paese dove il salario minimo è congelato a 641 euro mensili. E poi ancora aumenti del 13% delle tasse per centri estetici, discoteche, teatri, concerti e pure per i servizi funerari. Con un ultima botta, ieri, che è arrivata da una delle più popolari compagnie low cost, che ha sempre portato in Spagna una quantità industriale di turisti. Il piano di austerity del governo di Madrid, che prevede anche l'aumento delle tasse aeroportuali, ha infatti spinto a una drastica decisione Ryanair che, bollando il rincaro come «folle», ha deciso che da novembre saranno soppresse le 15 rotte tra Madrid Barajas e Barcellona El Prat, cioè un terzo del totale. Anche gli altri 46 collegamenti interni alla penisola saranno eliminati, e altri 32 tagli saranno fatti nelle rotte per le isole Canarie. Ryanair prevede che resteranno «appiedati» 2,3 milioni di passeggeri mentre sono a rischio 2mila posti di lavoro. Nel frattempo molti per salvarsi dalla recessione hanno già scelto la fuga da un Paese nel quale la disoccupazione giovanile supera il 50%. Secondo i dati diffusi dall'istituto nazionale di statistica, nei primi sei mesi dell'anno ben 40.625 spagnoli si sono trasferiti all'estero, il che significa il 44,2 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono inoltre 228.890 i cittadini stranieri che hanno deciso di rientrare nei rispettivi Paesi. In compenso re Juan Carlos, ha tagliato il suo appannaggio del 7,1% tiene a puntualizzare la Real Casa, come altrettanto ha fatto il principe delle Asturie, Felipe. La riduzione dell'appannaggio sarà di 21mila euro l'anno per il monarca e di diecimila per l'erede al trono sui compensi lordi, che sono rispettivamente di 292.752 e di 141.376 euro l'anno. Meglio soprassedere sui commenti al riguardo comparsi in alcuni siti internet. Fmi: i costi della crisi di Eurolandia IL SOLE 24 ORE – 04 AGOSTO 2012 La via d'uscita è una sola, la cooperazione. Il Fondo monetario internazionale è sicuro: il mondo, per contrastare i rischi - alcuni più probabili, altri meno anche se "catastrofici" - derivanti dalle ricadute globali dei tanti focolai di crisi, può fare solo affidamento al coordinamento delle politiche. Anche per evitare «un patchwork globale di restrizioni ai flussi di merci e di capitali». La raccomandazione è contenuta alla fine di un studio - l'esito di una lunga stagione di ricerche empiriche - sui possibili "effetti diffusivi", o più semplicemente le ricadute, delle risposte politiche alle varie situazioni di crisi dei cinque maggiori Paesi, dalle turbolenze sui titoli di Stato in Eurolandia, alle incertezze fiscali negli Stati Uniti, alla riduzione degli investimenti in Cina. Un errore politico, nella gestione di queste situazioni, potrebbe rivelarsi particolarmente dannoso in questa fase. Il punto di partenza è infatti la maggiore correlazione tra i prezzi degli assets e tra i cicli economici dei vari Paesi, che rende particolarmente "diffusive" le conseguenze delle tensioni. Inevitabile che sia Eurolandia ad attirare le maggiori attenzioni: gli economisti del Fondo monetario hanno elaborato degli scenari - sulla base di diversi modelli economici che sono già, in parte, diventati realtà. La crisi, che all'inizio si pensava fosse confinata ad alcuni Paesi, si è già estesa a tutta l'area: i premi per il rischio (espressi dai rendimenti e quindi dagli spread) di molte economie «sono guidati in modo predominante - spiega l'Fmi - da un fattore comune e non dai rischi macro o di liquidità specifici di quel Paese». Quel fattore comune esprime a sua volta molte influenze - prezzi del petrolio, crescita globale, prospettive - ma anche dalla «valutazione del mercato della più ampia azione (o inazione) politica. Le simulazioni - che restano tali - mostrano che una perdita di produzione medio-alta o severa in Eurolandia «determina in un calo equivalente in Gran Bretagna e nell'Europa orientale, e uno più moderato ma ancora rilevante altrove». Per dare qualche numero, uno shock del 5% del Pil della Uem si tradurrebbe in una flessione superiore al 4,5% nel Regno Unito e vicina al 2% negli Usa. Una parte di queste ricadute si sono già dispiegate, o avrebbero dovuto: l'analisi ipotizza uno shock da tre punti percentuali negli spread della periferia, e di questi 1,5 si sono effettivamente aggiunti dopo la fine della ricerca. Gli effetti non sono stati così forti come previsto, spiega il Fondo, solo grazie alla residua fiducia nella capacità dei politici di affrontare la crisi. Ancora limitati anche gli effetti del deleveraging all'estero delle banche: dove le aziende di credito europee hanno ridimensionato la presenza, altri player sono intervenuti. Non è detto che questa "sostituzione" continui però. Anche in questo caso, il Paese più colpito sarebbe la Gran Bretagna. Pesanti sono pure le possibili ricadute del fiscal cliff americano, lo scattare automatico - in assenza di accordo politico - di tagli alle spese e aumenti di tasse nel 2013. Le previsioni variano da un "colpo" al Pil dell'1,2%, nel caso in cui la Fed corregga gli effetti, a uno del 4,8%, con ricadute forti in Messico e Canada, e un po' meno intense in Cina, Gran Bretagna e Germania. Analogamente, una crisi di lungo periodo nella sostenibilità fiscale creerebbe danni superiori, in proporzione, a quelli della crisi di Eurolandia, insieme a una "fuga verso la salvezza" dei capitali verso materie prime e liquidità. Limitati, invece, gli effetti della politica monetaria aggressiva della Fed, che resta quindi un'opzione valida (e consigliata dall'Fmi). Da non sottovalutare, infine, la flessione degli investimenti in Cina. Una frenata nella loro crescita di un punto percentuale (dalla media del 14% annuo) avrebbe effetti molto forti in Asia, e più piccoli ma non irrilevanti in Germania e Giappone. Con la crisi è boom di prestiti tra privati IL GIORNALE – 20 AGOSTO 2012 Privati cittadini che si prestano i soldi tra di loro. Partendo da questa idea è nata una delle società che anche in periodo di crisi riesce a veder crescere il suo giro d'affari. In sintesi funziona così: si entra in un sito internet e dopo essersi registrati si può chiedere o offrire del denaro. I richiedenti espongono il loro progetto ai gestori della piattaforma online e, se passa l'esame degli esperti, viene spiegata ai prestatori che decidono se finanziarla. Prestiamoci, questo il nome del sito che fa capo alla società Agata, ha visto salire i numeri della sua comunità negli anni della crisi: da meno di duemila nel 2010 a settemila di oggi. E parliamo di utenti attivi perché calcolando chi segue il blog o si informa sul sistema siamo a oltre diecimila. Tra i primi, Milano e la Lombardia fanno la parte del leone non solo per le oltre mille persone registrate: la maggioranza dei contatti al sito sono generati dalla regione e allo stesso tempo è la zona geografica dove risiedono un quarto dei prestatori attivi. Senza contare che il 17% dei prestiti erogati è stato accordato proprio a cittadini lombardi. L'idea di importare un sistema americano è stata di Mariano Carozzi, milanese trapiantato a Ivrea, con alle spalle una famiglia brianzola: negli Stati Uniti il «social lending», cioè la raccolta di fondi tra privati cittadini è in uso da anni. Nel Belpaese invece è appena arrivata ed è stata italianizzata per le differenze normative: una società simile a Prestiamoci è stata chiusa dalla Banca d'Italia per un periodo perché le leggi per raccogliere soldi sono più stringenti che negli Usa. Nonostante ciò a questo settore non mancano i numeri: ad oggi attraverso il sito di Carozzi sono transitati 1,2 milioni di euro per 244 progetti che vanno dalle spese mediche a quelle generiche per la famiglia. Ma c'è anche chi chiede soldi per cambiare l'auto o per ristrutturare una parte della casa. Tutte persone che nella gran parte dei casi, esattamente l'84%, rientra dai prestiti senza alcun problema e che per un altro 9% lo fa senza troppe difficoltà. E comunque il rischio viene sempre ridotto dal sistema di frazionamento del capitale investito: chi mette a disposizione i liquidi sceglie il genere di investimento, ad esempio in base al tempo di rientro o a agli interessi che vuole recuperare, poi gli stessi gestori del sito provvederanno a suddividerlo in tante piccole quote. Nel complesso un sistema per ottenere o investire i propri risparmi a dei tassi che sono lievemente più bassi dei normali valori applicati dalle banche. Per capire quanto margine di sviluppo abbia ancora questa attività basta vedere le richieste avute ultimamente: solo a luglio sono arrivate domande di finanziamento per oltre un milione di euro. Un dato in crescita rispetto anche solo agli ultimi mesi e causato anche dalle contingenze del sistema economico. La selezione dei progetti però elimina molti dei richiedenti, non solo per motivi di soldi: «Oltre a controllare l'affidabilità economica di chi vuole il prestito – spiega Carozzi – controlliamo anche chi è la persona in relazione a ciò che ci chiede: se uno si dichiara ambientalista e ecologista e poi ci chiede denaro per un fucile da caccia, come minimo prima gli facciamo qualche altra domanda per capire fino a che punto sembri solo a noi una richiesta singolare». Una forma di tutela e accertamento che fa sì che i crediti a rischio sul capitale erogato sia inferiore al 7 per cento. Europa solidale con per evitare il pericoli populista giovani e poveri IL CORRIERE - 10 SETTEMBRE 2012 Qualche anno fa, agli albori della grande crisi, la Commissione europea organizzò un seminario a porte chiuse sulla dimensione sociale e la legittimità democratica dell'Ue. Vennero illustrati alcuni sondaggi che mostravano un'allarmante crescita dell'insicurezza economica e del disagio sociale dei cittadini e, quel che è peggio, una perdita generalizzata di fiducia sulla capacità dell'Ue di fornire soluzioni concrete. Segmenti importanti delle opinioni pubbliche nazionali anzi attribuivano a Bruxelles la responsabilità della crisi già iniziata. Nel mezzo della discussione, un esponente di primo piano della Commissione prese la parola e disse: conosciamo bene questi dati, siamo noi che finanziamo i sondaggi. Ma l'Ue sta facendo le cose giuste, «sono i cittadini che hanno torto». Questo episodio la dice lunga sulla scarsa sensibilità(ma forse si tratta di una impreparazione culturale) delle tecnocrazie europee a misurarsi con il tema del consenso. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la crisi dell'euro si è ormai trasformata in una crisi di legittimità dell'Unione Europea. Populismi di destra, massimalismi di sinistra, difficoltà crescenti dei partiti di governo a mantenere la rotta europea, sostegno popolare nei confronti della Ue ai minimi storici: l'ondata non ha investito solo la «viziosa» Grecia, ma anche la «virtuosa» Olanda ed è pronta a colpire nelle prime elezioni utili molti altri Paesi, compreso il nostro. I politici nazionali hanno anch'essi giocato un ruolo di primo piano nell'attizzare il fuoco populista. Per anni hanno scaricato il biasimo per le riforme impopolari (pensioni, mercato del lavoro, liberalizzazioni) su Bruxelles e Francoforte. Quante volte abbiamo sentito dire: dobbiamo farlo, ce lo chiede l'Europa? Per un po' il gioco è riuscito, ha effettivamente attutito l'opposizione di elettorati recalcitranti al cambiamento. Ma al prezzo di erodere, riforma dopo riforma, il sostegno verso un'Unione presentata sempre più come un «cane da guardia», quasi una maniaca del rigore per il rigore. Sfortunatamente, a causa di un complesso di ragioni non tutte europee, i vantaggi delle riforme già fatte tardano ad arrivare, ma il «cane da guardia» Ue continua a chiedere sacrifici ai «viziosi» e ora vorrebbe anche costringere i «virtuosi» a pagare di più. Come stupirci se in queste condizioni il mercato politico ha aperto nuovi spazi alla propaganda antieuropea, a Sud come a Nord? Se la tendenza continua, rischiano di venir meno le stesse condizioni di possibilità politico-sociale del progetto di integrazione. Che a Cernobbio Monti e Van Rompuy abbiamo riconosciuto il problema e la necessità di reagire è, finalmente, un segnale positivo, un primo atto di etica della responsabilità (politica) esercitato a favore dell'Ue in quanto tale. L'importante è che il sassolino lanciato produca una svolta non solo sincera e condivisa da tutti i leader, ma anche concreta nelle sue proposte d'azione. Il messaggio da elaborare e comunicare non è quello «contro» i populismi, ma «per» una Ue più amica e sensibile ai bisogni dei cittadini. Opportunità per i giovani, lotta alla povertà, nuovi investimenti in un «sociale» che porti insieme più inclusione e più crescita (istruzione, ricerca, servizi): queste le tematiche su cui insistere e formulare proposte puntuali. Moltissimi spunti sono già sui tavoli di Commissione, Parlamento e persino Bce. Pensiamo alla Youth Guarantee, ossia l'obbligo da parte di ogni governo di offrire formazione, lavoro o tirocini a tutti i giovani che finiscono la scuola. Oppure all'idea di vincolare i Paesi a dotarsi di uno schema di reddito minimo di inserimento, entro un quadro di regole definite a Bruxelles. Si potrebbe anche considerare la proposta di un vero e proprio Social Investment Pact: incentivi e penalità per Paesi che non rispettino obiettivi comuni in termini di povertà relativa, rendimento scolastico, politiche di conciliazione e di parità e così via. Difendere l'euro e far ripartire la crescita restano, beninteso, obiettivi imprescindibili. Ma il loro perseguimento non preclude certo l'impegno su fronti che hanno una visibilità e un impatto più diretto sulla vita quotidiana degli europei. L'iniziativa di Monti avrà successo nella misura in cui riuscirà a far emergere una Ue più impegnata a proteggere i più deboli, tramite un programma accattivante sul piano simbolico e davvero convincente sul piano pratico. PS. Anche su questo terreno, per essere credibili bisogna fare i compiti a casa. L'Italia ha un tasso di povertà (soprattutto fra i minori) molto elevato e il Programma nazionale di riforma 2012 non contiene nessuna misura seria per rispettare i target Ue. Sarebbe un vero peccato se il governo Monti non lasciasse in eredità un Piano per l'inclusione sociale degno del nome e articolato in base alle indicazioni europee, come hanno già fatto ventuno Paesi membri su ventisette. Edilizia, crisi choc: per l'Istat la produzione crolla del 14% su base annua IL SOLE 24 ORE - 19 settembre 2012 Accelera nel 2012 la crisi dell'edilizia (in corso dal 2008). A confermarlo è lstat, che oggi ha diffuso i dati di giugno-luglio della produzione nelle costruzioni. Il dato più significativo, quello tendenziale, segnala un calo del 14,2% tra il dato di luglio 2012 e quello di luglio 2011, e nei primi sette mesi dell'anno una contrazione del 13,9% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il dato sulla produzione, quello comunicato oggi dal'Istat, comprende gli investimenti in costruzioni (l'indicatore che viene utilizzato da Ance e Cresme per le loro analisi congiunturali sul settore) ma anche la manutenzione ordinaria (privata e pubblica) del patrimonio edilizio e infrastrutturale. A luglio 2012 l'indice destagionalizzato della produzione nelle costruzioni è diminuito, rispetto a giugno 2012, del 2,2%. Nella media del trimestre maggio-luglio l'indice ha registrato una flessione dell'1,4% rispetto al trimestre precedente. L'indice corretto per gli effetti di calendario a luglio 2012 è diminuito in termini tendenziali del 14,2% (i giorni lavorativi sono stati 22 contro i 21 di luglio 2011). Nella media dei primi sette mesi dell'anno la produzione si è ridotta del 13,9% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. A luglio 2012 l'indice grezzo ha segnato un calo tendenziale dell'11,2% rispetto allo stesso mese del 2011. Nella media dei primi sette mesi dell'anno la produzione è diminuita del 13,2% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. «Il dato sulla produzione - commenta Antonio Gennari, direttore Ufficio studi Ance - è più fluttuante di quello sui soli investimenti, e risente molto di fattori stagionali o imprevedibili. Tuttavia non può non essere preoccupante quel che emerge dai dati Istat, e cioè il consolidarsi di una pesante tendenza al ribasso della produzione, anche nei mesi estivi. In effetti anche noi come Ance abbiamo la percezione che i cantieri si stiano fermando, in primis nel privato, nell'immobiliare, ma anche nel pubblico come conseguenza del ritardo nei pagamenti, fenomeno che ormai non riguarda più solo le piccole stazioni appaltanti, ma anche i grandi enti, come dimostra il caso Anas». «È ancora presto, comunque - conclude Gennari - per dire se il dato Istat di oggi porterà a un peggioramento della nostra previsione congiunturale per il 2012, attualmente al -6,0%. D'altra parte lo stesso Istat ha di recente pubblicato la nota sul Pil, con previsione del -6,3% per gli investimenti fissi lordi in edilizia nel 2012» (si veda l'articolo correlato). «E poi - aggiunge speriamo che l'aumento degli incentivi al recupero (decreto Sviluppo) possa avere un effetto sugli investimenti in recupero e sulla manutenzione a partire da questa parte finale del 2012». «Il crollo della produzione nel settore delle costruzioni - dichiara Domenico Pesenti, segretario generale della Filca-Cisl - sembra inarrestabile. L'ultimo dato diffuso dall'Istat dimostra che siamo di fronte ad una crisi senza precedenti, per la quale sono indispensabili interventi urgenti e radicali. L'esecutivo non può più perdere tempo, i lavoratori edili espulsi dal mercato sono centinaia di migliaia e rappresentano un problema sociale di non poco conto, aggravato dalle norme sull'età pensionabile». «Il tempo degli annunci è finito - aggiunge Pesenti - e il governo deve ascoltare quanto il sindacato ripete con forza da anni insieme all'associazione dei costruttori, e mettere in atto misure utili a risalire la china. Un primo provvedimento è l'allentamento del Patto di stabilità per i comuni virtuosi, per metterli nelle condizioni di investire per la qualità delle città e la messa in sicurezza del territorio. Inoltre continuano ad essere numerosissime le aziende in difficoltà che vantano però crediti nei confronti della Pubblica amministrazione per lavori già compiuti. Si tratta di ritardi inaccettabili, ed è per questo che chiediamo il recepimento nei tempi più brevi possibili della direttiva Ue sui pagamenti della PA». «Così possiamo sconfiggere la crisi» IL GIORNALE – 13 OTTOBRE 2012 L'evidente crisi del comparto nautico chiede alle fiere di settore nuove risposte capaci di promuoverne la qualità e di rilanciarne l'immagine internazionale. «È da tempo - ha sottolineato Vincenzo Zottola, organizzatore dello Yacht Med Festival di Gaeta - che sosteniamo la necessità di una riorganizzazione del sistema fieristico intorno a una differenziazione dell'offerta, che deve però essere sempre e comunque rappresentativa di un'area interregionale, nazionale o mondiale». Mentre da un lato il Salone di Genova prosegue, pur nelle difficoltà, il suo percorso di valorizzazione della nautica, dall'altro lo Yacht Med Festival di Gaeta potenzia il suo modello multidisciplinare legato all'Economia del Mare. I due eventi lasciano in dote alle istituzioni due punti di forza su cui costruire il progetto di sviluppo del Paese. «Non semplifichiamo le difficoltà di quest'anno del Salone nautico di Genova aggiunge Zottola - riducendole alla crisi economica. Il messaggio che ci arriva è chiaro: dobbiamo richiamare le istituzioni nazionali a un senso di responsabilità, che si stringano intorno ai punti di forza del Paese. È questo che noi stiamo cercando di fare con lo Yacht Med Festival, vero e proprio progetto di promozione e valorizzazione della cultura e dell'Economia del Mare attraverso una rete più ampia di istituzioni, associazioni e imprese». Per Zottola, dunque, la risposta alla crisi sta già da tempo nella formula stessa della manifestazione. Un modello innovativo e vincente che unisce in un unico format espositivo la nautica e gli altri settori tradizionalmente legati al mare come il turismo, la pesca, la formazione, la portualità, la logistica e i trasporti alla promozione delle produzioni tipiche, dell'artigianato artistico e del patrimonio storico e culturale. La strada scelta è quella della valorizzazione della nautica italiana attraverso la creazione di un grande evento capace di catalizzare l'attenzione dell'intero Mediterraneo. Enogastronomia, laboratori artigiani, musica e animazione, sono solo alcuni degli ingredienti che fanno dello Yacht Med Festival un appuntamento da non perdere per visitatori, appassionati ed esperti. I numeri registrati nel 2012 collocano la Fiera Internazionale dell'Economia del Mare tra gli eventi più importanti del nostro Paese, con oltre 186mila visitatori, 8 milioni di euro di indotto stimato e 27mila operatori coinvolti. Al centro dell'edizione 2013, in programma a Gaeta dal 20 al 28 aprile prossimi, il turismo nautico. «In questo momento - conclude il presidente della Camera di Commercio di Latina e vicepresidente Unioncamere Lazio, Vincenzo Zottola - dobbiamo sostenere l'unico settore già pronto per rilanciare l'intero comparto legato al mare, attraverso azioni di sistema integrate, a partire dalla messa in rete dei porti turistici italiani, dalla valorizzazione del charter nautico e da un grande lavoro di tutela e promozione dell'immagine. Non possiamo prescindere, inoltre, da un rafforzamento del legame con la formazione specializzata, che deve rispondere sempre più alle esigenze del mercato in ogni settore». Proseguono, intanto, i lavori per la complessa organizzazione della sesta edizione. Edizione che si preannuncia ricca di novità. Eccone alcune: Secondo Forum Nazionale sull'Economia del Mare (lunedi 22 aprile 2013). I principali attori dei settori legati al mare si confronteranno con l'obiettivo di rafforzare il peso dell'Economia del Mare nel sistema nazionale e di individuare le principali strategie di sviluppo affinché l'Italia affermi la propria leadership nel sistema Euro-Mediterraneo. Stati generali delle Camere di Commercio: le Cciaa italiane si incontreranno per la prima volta con l'obiettivo di affermare il proprio ruolo nella definizione delle politiche di sviluppo dell'Economia del Mare, mettendo a confronto sistemi già adottati, buone pratiche e progetti da intraprendere anche in forma associata. Convegno nazionale istituti nautici: si tratta del terzo appuntamento con gli Istituti nautici italiani, ora rinnovato. Dopo la firma nel 2012 di una importante e partecipata convenzione, l'obiettivo 2013 è il rafforzamento del legame essenziale tra mondo formativo e imprenditoriale. Primo workshop nazionale dell'Assonautica Italiana: sarà un importante momento di confronto per direttori e presidenti delle Assonautiche italiane, che hanno scelto lo Yacht Med Festival per approfondire le modalità di integrazione e azione tra le diverse realtà territoriali. Salone della portualità turistica italiana: per la prima volta in Italia, un salone dedicato esclusivamente ai porti turistici italiani. Buy Med: incontri mirati tra domanda e offerta legate ad alcuni settori dell'Economia del Mare, come nautica, turismo, agroalimentare, artigianato. Eat Med: confermata l'area dedicata all'enogastronomia del Mediterraneo, con degustazioni, esposizioni, seminari e incontri che coinvolgeranno importanti chef e le produzioni tipiche più famose. Festival internazionale editoria del mare: secondo appuntamento con il Festival che si articola intorno a una mostra mercato, incontri letterari e una biblioteca sul mare. Art Med: l'arte e l'artigianato del Mediterraneo si racconteranno attraverso esposizioni, mostre, dimostrazione e incontri. Novità di quest'anno, un'area dedicata esclusivamente a un laboratorio dimostrativo. Baratto2.0 alternativa anti-crisi IL SOLE 24 ORE - 21 OTTOBRE 2012 Milton Friedman, il grande monetarista e premio Nobel dell'economia, era ossessionato dalla creazione di moneta: qualcosa da sottrarre alle prepotenze dei satrapi, alle dissipazioni dei monarchi assoluti, e, più recentemente, alle tentazioni elettorali dei governi. Voleva un meccanismo automatico, che avrebbe innalzato ogni anno la quantità di moneta a un ritmo prefissato, calibrato sulle necessità di un'economia (sperabilmente) in crescita. Questi desiderata non si sono mai tradotti in realtà, ma non sono mancati altri tentativi di trovare modi diversi di creare moneta. La tecnologia offre oggi un ventaglio di possibilità: una delle più ingegnose monete virtuali è il bitcoin. A differenza di quelle create nel mondo dei videogiochi, che hanno una circolazione limitata ai patiti dei Mmorpg (Massively Multiplayer Online Role-Playing Games), i bitcoin hanno l'ambizione di essere una vera moneta. Il sogno degli alchimisti medioevali - trasmutare in oro il vile metallo - è stato realizzato da moderni stregoni. E il riferimento non è al sapiente magistero alchemico della "nuova finanza", che trasformava mutui di serie B in titoli cartolarizzati a tripla A, ma ad altre trasmutazioni che si situano al confine fra il virtuale e il reale e trasformano le fiches dorate dei giochi elettronici in oro vero, i soldi finti in soldi sonanti. Ci sono, dietro i Mmorg (il più conosciuto è il "World of Warcraft"), almeno 50 milioni di giocatori. I loro avatar si muovono, combattono, vincono e perdono... Ma, superando certe prove in quel mondo virtuale denso di mirabolanti avventure possono accumulare un "tesoretto" e con queste valute acquistare nuove armi e crescere, se non in sapienza e in grazia, in possanza e forza letale. Il bitcoin è invece una valuta virtuale la cui creazione è affidata a un ingegnoso meccanismo: viene creata, a piccole dosi, attraverso la forza bruta di computi matematici nei computer degli utenti, e la quantità che può essere creata è delimitata sia presso i "creatori" (attraverso complessi ma automatici processi di validazione da parte degli altri "creatori") sia nel tempo. Arrivati a un certo limite di creazione di bitcoin - attualmente fissato a 21 milioni per il 2030 - la creazione cesserà e, ammesso e non concesso che il bitcoin diventi la moneta mondiale, per accomodare una massa crescente di transazioni bisognerà che i prezzi scendano, anno dopo anno. Naturalmente, perché il bitcoin sia realmente utile, bisogna che sia largamente accettato. Bisogna convincere chi compra e chi vende a pescare nel "portafoglio elettronico" per riscuotere e pagare. Come tutte le "grandi" (?) invenzioni, il bitcoin ha avuto esordi difficili: il suo valore in termini di dollari (ci sono dei siti dove si possono cambiare i bitcoin in soldi veri e viceversa) è schizzato da 30 centesimi a 30 dollari e poi è ridisceso a 2 dollari e ora oscilla sui 12. Chi non teme le montagne russe può cavalcare questa moneta virtuale, e i suoi propugnatori sostengono che ci sono sempre più esercizi che accettano i bitcoin in pagamento: sembra sia in arrivo anche una Mastercard denominata in questa nuova moneta. Sarà. Ma non è chiaro se i vantaggi dei bitcoin compensino gli svantaggi, primo fra tutti le opportunità che offre a chi voglia riciclare fondi (c'è un oscuro angolo del web, Silk Road, dove si commercia la droga usando i bitcoin). L'attrattiva principale, secondo gli estimatori, è il fatto che la creazione dei bitcoin viene sottratta al capriccio delle autorità monetarie. Ma la mancanza di controlli - il decentramento caratteristico di internet, una ragnatela che non ha centri direzionali - è anche la sua grande debolezza: lascia spazio ad abusi. Non arriverà mai ad avere la massa critica necessaria per essere una vera moneta, perché l'utente medio avrà sempre paura che, nei meandri della cibernetica, si creino raggiri e rapine elettroniche. Tentativi più utili di creazione di monete virtuali sono quelli che si risolvono in forme sofisticate di baratto. Una moneta creata in Italia con un nome islandese ("dropis", che vuol dire gocce) ambisce a masse critiche più modeste consentendo a chi voglia mettere a disposizione i propri servizi a favore di altri membri della comunità dropis di scambiarli con altri servizi o altri beni. Si tratta di iniziative oggi favorite dalla disoccupazione: chi non trova lavoro, ma ha braccia e cervello, può offrire i propri prodotti o i propri servizi online, e pagare il conto al macellaio (membro dropis anche lui) usando dei crediti accumulati con il proprio lavoro in favore del macellaio stesso o di altri membri del gruppo. Scuola, doppio corteo Blitz alla Sapienza e al Colosseo degli studenti IL CORRIERE - 8 NOVEMBRE 2012 Migliaia in piazza contro la legge ex-Aprea: da Cinecittà a Ponte Milvio. Flash mob al Colosseo. Annullata manifestazione venerdì ROMA - Studenti in corteo giovedì mattina per le vie di Roma, nel municipio X e non solo, per protestare contro la legge ex-Aprea. E un' altra manifestazione, promossa dagli studenti del blocco studentesco, si svolgerà venerdì dalle ore 9 alle ore 13 in piazza Pier Carlo Talenti altezza via Ettore Romagnoli. Giovedì, come racconta Ateneinrivolta, sono partiti in circa 500 per la manifestazione principale (da piazza Cinecittà) «toccando» le scuole della zona, con inevitabili ripercussioni sul traffico. Altri ragazzi si sono uniti man mano, raggiungendo, secondo gli organizzatori, i circa 1.000 partecipanti. Il corteo doveva concludersi in largo Appio Claudio, ma ha imboccato via Tuscolana, cambiando così il percorso inizialmente concordato e «paralizzando» la strada per una mezz'ora. Scuola, corteo degli studenti alla Sapienza e al Colosseo «OCCUPAZIONE SIMBOLICA» - Al grido di «Noi la crisi non la paghiamo», «Tutti insieme facciamo paura», e «Se ci bloccano il futuro, noi blocchiamo la citta’», i ragazzi e le ragazze si sono fermati sulla via e come hanno detto dal megafono gli organizzatori della protesta, «stiamo occupando la Tuscolana simbolicamente». Lo striscione di Lotta Studentesca davanti alla Rai di Viale Mazzini PONTE MILVIO - Proteste in piazza anche a Ponte Milvio, con un'altra «marcia» organizzata dagli studenti di Roma Nord e da Blocco Studentesco. Si tratta di alcune centinaia di ragazzi. (3mila, secondo Blocco Studentesco) che hanno sfilato in corteo fino in corso Francia bloccando parte della strada. E Alcuni ragazzi di Lotta Studentesca hanno srotolato striscioni davanti alla sedi Rai di viale Mazzini e piazzale Clodio e alla sede di La 7 per protestare contro «la cattiva informazione operata dai media sulla Legge Aprea e le seguenti contestazioni studentesche». Il flash mob al Colosseo (Jpeg) FLASHMOB AL COLOSSEO - Intanto, studenti e docenti del liceo Cavour di Roma hanno organizzato un flashmob e bloccato il traffico in via dei Fori Imperiali con una lezione alternativa e calando uno striscione con scritto «Basta ai tagli, studenti e docenti» per dimostrare il loro dissenso nei confronti della ex legge Aprea che riforma gli organi collegiali e, secondo chi protesta, «colpisce la democrazia interna agli istituti: con esso infatti il consiglio di istituto diventa consiglio di autonomia, potranno esserci due esterni con diritto al voto per le decisioni interne alla scuola, ed un terzo che si occuperà dell'economia». BLITZ ALLA SAPIENZA - Sempre giovedì mattina, un centinaio di studenti della Sapienza, secondo quanto spiega una loro nota, ha provato ad entrare nell'aula magna del rettorato, dove era in corso la conferenza «Armi cibernetiche e processo decisionale». «Siamo stati bloccati dalla Polizia sulle scale del rettorato e allontanati a manganellate», dicono. Gli studenti quindi hanno dato vita ad un sit-in di protesta sotto al rettorato chiedendo: «Quando si smetterà di finanziare armi e guerra e si investirà invece sull'università e sui saperi?». CORTEO DI VENERDì - Contrariamente a quanto era stato annunciato la manifestazione promossa dagli studenti del «Blocco studentesco», che avrebbe dovuto svolgersi venerdì dalle ore 9 alle ore 13 in piazza Pier Carlo Talenti altezza via Ettore Romagnoli, è stata annullata. Lo comunica Agenzia per la mobilitá. Crisi, crolla il lavoro. Anche quello nero 28 NOVEMBRE 2012 – IL CORRIERE Emerge dalle indagini dell'Inps Aumentano anche le malattie professionali della Campania nel 2012 NAPOLI - La crisi in Campania morde anche il lavoro nero. È quanto emerge dalle indagini dell'Inps della Campania nel 2012. «Registriamo un minore numero di lavoratori al nero rispetto ai due anni precedenti, periodi in cui c'era già la crisi», spiega Maria Grazia Sampietro, direttore dell'Inps Campania a margine di un convegno a Napoli sulla riforma del mercato del lavoro. «Le aziende campane - spiega la Sampietro - sono in crisi e non solo non assumono lavoratori regolari, ma non prendono più neanche dipendenti a nero». INAIL, PIU' MALATI - Crescono i casi di malattie professionali in Campania. È quanto emerge dall'annuale rapporto Inail presentato oggi in Camera di commercio. Se, infatti, diminuiscono gli infortuni sul lavoro e le morti bianche, le malattie professionali sono in netto aumento e fanno registrare un +12,78% rispetto al 2010. «Questo dato - dice il direttore generale di Inail Campania, Emidio Silenzi - è comunque positivo perchè significa che stiamo riuscendo a far emergere questi casi fino a ora poco censiti. C'è infatti una difficoltà oggettiva - dice Silenzi - mentre per gli incidenti sul lavoro si ha un riscontro immediato, per le malattie abbiamo un'insorgenza negli anni e quindi diventa difficile monitorarle». Secondo il rapporto Inail, le denunce sono state 1.641 concentrate soprattutto nel settore dell'industria e dei servizi con 1.327 casi. Seguono i 295 casi in agricoltura e i 19 di dipendenti statali. Resta però il dato positivo, rispetto al 2010, degli infortuni e delle morti bianche che fanno posizionare la Campania al secondo posto nella classifica del maggior ribasso. Gli infortuni denunciati sono 21.921, l'11,09% in meno rispetto al 2010. I morti sono stati 58, 14 in meno rispetto all'anno precedente. Anche per gli infortuni il settore più colpito è quello dell'industria e dei servizi con 18.179 casi. Seguono i dipendenti statali con 2.047 e gli agricoltori con 1.695 casi. NAPOLI MAGLIA NERA - Nella ripartizione provinciale Napoli ha la maglia nera con 9.785 casi, ma con il 12,70% in meno rispetto al 2010. Seguono il Salernitano e il Casertano, rispettivamente con 9.785 casi (il 12,70% in meno) e 3.159 (-8,63%) e in coda la provincia di Avellino con 1.927 casi (-13,8%) e quella di Benevento con 1.472 casi (-12,64%). Anche per quanto riguarda gli incidenti mortali sono quasi a completo appannaggio dell'industria e dei servizi con 52 dei 58 casi di decessi. Seguono l'agricoltura con 4 casi e i dipendenti statali con 2. In 22 casi il decesso è dovuto alla circolazione stradale, in 7 nel percorso casa-lavoro-casa. Diminuiscono le morti bianche tra cittadini stranieri passate dalle 8 del 2010 alle 2 del 2011. Per quanto riguarda la ripartizione territoriale, ancora una volta Napoli è maglia nera con 21 casi, soli 2 in meno rispetto al 2010. Seguono Salerno con 11 casi, 10 in meno rispetto all'anno precedente, Caserta con 10 morti, 8 in meno, e Avellino con 8 episodi come nel 2010. Anche nel Beneventano le morti bianche sono state 8, ma in questo caso sono state notevolmente superiori rispetto al 2010 in cui ci furono 2 episodi. «In periodi di crisi economica - dice Silenzi - dobbiamo fare particolare attenzione perchè in molte aziende la prima cosa che si taglia è la sicurezza. Come Inail - aggiunge -puntiamo molto sulla prevenzione a partire dalle scuole elementari fino ad arrivare all'università. Cerchiamo di insegnare il rispetto delle regole di sicurezza sul lavoro che poi sono anche delle utili regole di convivenza civile». La crisi cambia le banche centrali IL SOLE 24 ORE – 16 DICEMBRE 2012 È un mondo che cambia. La Fed punta ora a ridurre la disoccupazione e si spinge a dichiarare il livello da raggiungere, la Bce inonda Eurolandia di liquidità e porta il suo bilancio oltre i 3mila miliardi di euro, e il nuovo governatore della Bank of England fa l'ultimo passo e inizia a discutere se abbia ancora senso avere un obiettivo di inflazione. È il segno che la crisi ha travolto anche la politica monetaria, dunque. Nel senso, evidente da tempo, che le banche centrali hanno dovuto adottare misure straordinarie e non convenzionali, ma anche nel senso, più ampio e più nuovo, che le autorità monetarie stanno ripensando il loro ruolo nell'economia. Si prospetta un cambio di paradigma quindi, in preparazione di una nuova normalità. Quanto sta accadendo in Gran Bretagna dà la misura delle cose. Il governatore designato, l'attuale presidente della Bank of Canada Mark Carney, in un discorso a Toronto sulla guidance - il modo di plasmare le aspettative degli operatori economici - ha di fatto argomentato a favore di un superamento dell'attuale sistema dell'inflation targeting, adottato esplicitamente in Canada e in Gran Bretagna (e in molti altri Paesi), sui generis in Eurolandia e di fatto negli Stati Uniti. Nel suo intervento, molto utile per far il punto del dibattito sulla politica monetaria, Carney ha ammesso che può essere necessario mantenere un orientamento espansivo anche se l'inflazione sale sopra l'obiettivo; e l'esperienza recente gli dà ragione. Si pensi, per ricordare solo un episodio, agli effetti del caro petrolio nel 2008, che spinse la Bce ad alzare i tassi proprio mentre l'economia frenava anche a causa di quei rialzi del greggio. Analogamente, e in senso inverso, le banche centrali hanno tenuto tassi bassi molto a lungo, prima della crisi, probabilmente perché non hanno tenuto conto di quanto abbia inciso l'aumento della produttività sui prezzi, abbassandoli. In piccole economie aperte - ma in parte anche in Eurolandia l'inflation targeting ha spesso spinto le banche centrali a muovere i tassi in linea con i prezzi dei beni importati. Non è stata esattamente una scelta felice... L'inflazione, insomma, è un fenomeno molto più complesso del semplice aumento dell'indice dei prezzi. Per aprire strade nuove, secondo Carney, una prima possibilità è allora dichiarare insieme un obiettivo di inflazione e uno di disoccupazione. È qualcosa di molto simile a quanto ha fatto la Fed mercoledì, sulla base di una proposta avanzata nel 2011 dal presidente della Fed di Chicago Charles Evans. Ben Bernanke ha in realtà ricordato che l'obiettivo della banca centrale di Washington resta quello di mantenere l'inflazione al 2% nel lungo periodo e di perseguire la «massima occupazione». Per i prossimi mesi, però, ha fissato due «indicatori stradali» (guidepost): i tassi bassi verranno mantenuti fino a quando l'occupazione resterà sopra il 6,5% e i prezzi previsti «a uno o due anni» non supereranno il 2,5 per cento. Non sono obiettivi, anche perché sono temporanei, ma gli somigliano molto. Carney è però andato oltre. Si è spinto alle frontiere della politica monetaria così come viene discussa in accademia dagli economisti. Ha auspicato di adottare come obiettivo un livello (crescente) di pil nominale (Ngdp, in inglese), calcolato cioè a prezzi di mercato (e non depurato dall'inflazione come si fa di solito quando si parla di prodotto interno lordo). Cosa significa? Significa che quando, a causa di una recessione il pil (nominale) cala, la banca centrale può tollerare più inflazione - e qui sta il nodo della questione... - per compensare la minore crescita, e per fare in modo che l'economia recuperi tutto, ma proprio tutto quel che ha perduto. Si pensi a Eurolandia. Il suo pil nominale è cresciuto per anni a un ritmo stabile del 4,5% annuo. Questo era del resto l'obiettivo implicito, dichiarato solo in modo criptico, della Bce (lo schema proposto da Carney non è infatti puramente teorico). Aveva così raggiunto i 9,16 miliardi annui a settembre 2008, per poi scivolare fino a 8,9 miliardi con la crisi e tornare a 9,5 a settembre 2012. Se avesse proseguito lungo il "vecchio" sentiero - se la crisi, insomma, non ci fosse stata - il pil nominale avrebbe raggiunto a fine estate quota 11 miliardi. Bene: questo sarebbe stato, in un regime di Ngdp-level targeting, l'obiettivo della Bce per settembre 2012. Non sarebbe bastato quindi far tornare l'economia a una crescita del 4,5% (2% di inflazione, 2,5% di crescita reale, in media), ma sarebbe stato necessario anche "azzerare" gli effetti della crisi. Schemi astratti? Per ora sì, anche se in fondo si tratterebbe di correggere ed esplicitare orientamenti già seguiti: lo strumento da adottare è il "diluvio" di liquidità, sostenuto però da un obiettivo esplicito che plasmi le aspettative degli operatori economici e sia rinforzato quindi dai loro comportamento. Il primo passo è stato compiuto: il Cancelliere dello Scacchiere di Londra, George Osborne, ha dato il benvenuto al dibattito aperto da Carney (che invece ha lasciato fredda la Bank of England, timorosa dei costi di questa politica in termini di maggior inflazione). È il primo "parliamone" del mondo politico. Di sicuro la proposta di Carney non cade nel vuoto. Tra gli economisti il dibattito sulle regole della politica monetaria è aperto da tempo, sia a causa delle decisioni pragmaticamente prese dalle banche centrali sia per la necessità di costruire un "dopo crisi" che tenga conto degli errori compiuti. Proprio il tema del pil nominale, non nuovo, è stato ripescato e messo al centro di ampie discussioni portate avanti dal gruppo dei monetaristi di mercato - un po' diversi dai "monetaristi" rigidi a cui normalmente si pensa, ma altrettanto ortodossi guidati da Scott Sumner e Lars Christensen - ed è poi rimbalzato tra economisti di impostazione un po' diversa come Christina Romer (o anche Paul Krugman). Ad agosto, al simposio annuale della Fed di Kansas City a Jackson Hole Michael Woodford della Columbia University, uno dei maggiori esperti di politica monetaria, ha proposto sia lo schema adottato giovedì dalla Fed («Sarebbe un importante miglioramento dell'attuale politica di comunicazione», ha detto) sia il Ngdp level targeting. In crisi due settori su tre, resiste la farmaceutica 27 DICEMBRE 2012 – IL SOLE 24 ORE Costruzioni, metallurgico e distribuzione sono i settori più penalizzati dalla frenata dell'economia globale. Seguiti a ruota, nella graduatoria del rischio, da agroalimentare, auto ed elettronica. Mentre la farmaceutica, e in minor misura l'energia e i trasporti, mostrano ancora capacità di resistenza. Questa la classifica stilata da Coface, il colosso francese dell'assicurazione dei crediti commerciali, che ha appena pubblicato il suo primo «Panorama dei settori». I comparti presi in considerazione sono 14, in tre macro-regioni: l'Asia emergente, il Nord America e l'Unione europea. Lo studio si basa su ricavi, solidità finanziaria e abitudini di pagamento di 6mila imprese. Due terzi dei settori presentano fattori di rischio. Le costruzioni sono considerate da Coface particolarmente a rischio nell'Europa meridionale, dove, per esempio, la bolla immobiliare che ha messo in ginocchio la Spagna non si è ancora risolta. Investimenti e progetti continuano a diminuire e una ripresa a breve non è ipotizzabile. Le imprese del settore sono fortemente indebitate e i mancati pagamenti non sono «così insoliti, soprattutto in Italia». Negli Stati Uniti stanno arrivando i primi segnali di inversione di rotta, dopo che i prezzi hanno perso il 30% rispetto al picco raggiunto a luglio del 2006. Insomma, qui il fondo potrebbe essere stato toccato. Altro settore in grave crisi in Europa è il metallurgico: il comparto soffre di sovraccapacità produttiva in un momento di profonda difficoltà dei suoi principali clienti, le industrie dell'auto e delle costruzioni. Il calo della domanda aumenta le pressioni al ribasso dei prezzi in un ramo d'attività che ha costi fissi molto alti e margini ridotti e che quest'anno sono precipitati di più del 40 per cento. La situazione è appena poco migliore negli Stati Uniti, mentre in Cina il rallentamento della crescita economica e le iniziative prese dal Governo per sgonfiare la bolla immobiliare hanno costretto molte imprese del settore a chiudere l'anno in perdita, con indici di profitto in calo del 38 per cento. Bilanci in rosso anche per le aziende dell'agroalimentare: le difficoltà a onorare i pagamenti aumentano soprattutto in Spagna e Italia. Passando ai settori che si "difendono", si distingue soprattutto la farmaceutica. L'aumento della spesa per la salute gonfia le vele dei produttori in Europa e negli Stati Uniti. E tuttavia, gli sforzi intrapresi dai Governi per abbassare la spesa farmaceutica potrebbero avere un impatto negativo sui rimborsi e aumentare la concorrenza sui farmaci generici. Grandi potenzialità si possono aprire in Cina, dove è cominciato il processo di costruzione di un sistema sanitario universale, in linea con l'obiettivo del Governo di spostare il modello di sviluppo sul versante della domanda interna. Bene anche l'India, dove l'industria farmaceutica è in salute e può contare su personale altamente qualificato. Il comparto del futuro, quello che prometteva di creare milioni di posti di lavoro, l'energia rinnovabile, sta a sua volta segnando il passo. Il taglio dei sussidi in Europa e Stati Uniti si è fatto sentire pesantemente. Mentre i finanziamenti pubblici nei Paesi asiatici a rapida crescita hanno generato sovracapacità produttiva. Con i mercati locali incapaci di assorbire la produzione, l'offerta di pannelli solari a basso costo si è riversata su Nord America ed Europa, mettendo ancora più in difficoltà i produttori locali (e originando anche contenziosi commerciali nella Wto). Discorso completamente diverso per per i big del petrolio, che grazie alla loro capacità di generare cash flow sono relativamente al riparo dal rischio credito. Il settore dei trasporti, aereo e marittimo, è a sua volta attraversato da tensioni e pressioni sui margini e la solidità finanziaria degli operatori comincia a risentirne. Tuttavia, il rischio di credito migliora, grazie alle politiche di gestione avviate dalle aziende. TEMA ARGOMENTATIVO SULLA LA CRISI La crisi economica, ha avvertito i primi segnali nei primi mesi del 2008, negli Stati Uniti, in seguito ad una bolla immobiliare. Alle famiglie in difficoltà ad aprire un mutuo, veniva concessa la possibilità di accedere a prestiti (detti prestiti sub-prime) pur non avendo i requisiti per potervi accedere. Questi prestiti, infatti, prevedevano un alto tasso di interesse a carico dei debitori/famiglie con scarse capacità finanziarie. Tutto funzionò fino a quando il valore delle abitazioni, sulle quali veniva costituita una ipoteca a garanzia dei mutui, continuava a crescere. In caso di insoluti infatti le banche potevano rivalersi sui valori crescenti delle case che risultava inizialmente facile collocare sul mercato. Tutti i nodi vennero però al pettine quando il valore degli immobili, eccessivamente gonfiato da questa corsa agli acquisti, cominciò a crollare: i debitori non pagavano le rate dei mutui, le banche sequestravano le case che però non riuscivano a rivendere a valori adeguati, i debiti contratti dalle banche emettendo titoli derivati per ottenere liquidità non vennero rimborsati e… tutto quel mondo di carte costruito sul nulla arrivò inevitabilmente a crollare. << Quando gli Stati Uniti starnutiscono, il mondo prende il raffreddore. >> dice un blogger di cefababel.com. Ed è esattamente così che è successo. Le banche e le società finanziarie americane, avevano infatti venduto i debiti emettendo titoli derivati che erano stati sottoscritti anche da banche e investitori stranieri. La crisi così si diffuse in tutto il mondo, in longitudine e latitudine. Fallimenti di società finanziarie e di banche, credit crunch (mancanza di liquidità) portano i governi degli Stati ad intervenire per scongiurare un collasso dell’economia dalle conseguenze disastrose. Aumenta il debito pubblico, poi arriva la crisi dei consumi, che porta con sé inflazione e poi recessione. Albert Einstein vede la crisi come << Benedizione per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi.>>. È con essa che nasce la creatività. Il Governo si sta muovendo per superare questo periodo aumentando tasse e attuando una spending review generale. In Italia e non solo, sono molti i settori coinvolti. Dal metallurgico, all’edilizia, ai trasporti. E con questa crisi economico finanziaria, arriva anche una crisi delle forze politiche e le istituzioni. Negli italiani si ha in questo momento un mix di sentimenti tra cui rabbia, paura, voglia di reagire, e frustrazione. La paura soprattutto, si manifesta nella paura del futuro, in particolare il futuro dei figli, il rischio di disoccupazione, il rischio della non sostenibilità del sistema sanitario e pensionistico. Con la crisi di oggi molte persone hanno perso il lavoro, molti italiani, non riescono ad arrivare alla fine del mese. E come fanno a vivere?, ci chiediamo. Una soluzione temporanea, alcuni di loro, l’hanno trovata. Tramite internet. Ossia, questi, non avendo lavoro, e avendo braccia e cervello, approfittano del boom del web per trovare lavoretti da improvvisare, oppure semplicemente offrendo lavori a coloro che non riescono a ripagare, in modo da pagare i loro debiti e riuscire a sopravvivere. Ma cos’è davvero la crisi? È questo? Derivata da greco, la parola “crisi”, significa “scelta”. Questa scelta, è intesa come libertà di arbitrio della persona. Momenti di crisi sono inevitabili nella vita dell’uomo, anzi sono anche utili se e nella misura in cui portano a cambiamenti positivi. Ciò ci riporta all’affermazione di A. Einstein. È possibile che la crisi sia un momento, una possibilità, che viene offerta all’uomo, di cambiare le proprie carte in tavola e dimostrare le sue potenzialità e creatività? Se l’affermazione è vera, sta a noi singoli, noi popolo del mondo, dare il nostro contributo per cambiare le cose e costruirci un futuro migliore, per noi e per i discendenti che verranno. Le elezioni che si terranno nel mese di febbraio sono una buona opportunità. Facciamo valere i nostri diritti, e i nostri pensieri, sollecitiamo risposte che aiutino, con il contributo di tutti a superare questo davvero difficile ed angosciante momento di “crisi”.