Di CAROLA SIMONA GALUZZI 5^A erica - as 2012-2013

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Di
CAROLA SIMONA GALUZZI
5^A erica - a.s. 2012-2013
INDICE
Pag. 3
I DOCUMENTI
Pag. 27
GLI ARTICOLI
Pag. 56
TEMA ARGOMENTATIVO SULLA CRISI
DOCUMENTO 1: RAPPORTO CENSIS DICEMBRE 2012
«La società italiana al 2012» del 46° Rapporto Censis sulla situazione sociale
del Paese/2012 - da www.censis.it 07.12.2012
Segnali di reazione degli italiani: in moto processi di riposizionamento nel
sociale e nell’economia. Verso l’e-consumatore competente, nuove ambizioni
nelle scelte di studio e di lavoro, riorganizzazione all’estero del sistema
d’impresa, segmenti produttivi emergenti, industria digitale. I rischi:
smottamento del ceto medio, reazioni di rabbia, protesta senza rappresentanza
Roma, 7 dicembre 2012
– (L’ANNO DEL GRANDE RIPOSIZIONAMENTO)
Italiani oltre la sopravvivenza. 2,5 milioni di famiglie hanno venduto oro o altri
oggetti preziosi negli ultimi due anni, 300.000 famiglie mobili e opere d’arte,
l’85% ha eliminato sprechi ed eccessi nei consumi, il 73% va a caccia di offerte
e alimenti poco costosi. Sono alcune delle difese strenue degli italiani di fronte
alla persistenza della crisi. Non ultima, la messa in circuito del patrimonio
immobiliare posseduto, affittando alloggi non utilizzati o trasformando il
proprio in un piccolo bed & breakfast (nelle grandi città, con oltre 250.000
abitanti, il fenomeno riguarda il 2,5% delle famiglie). E sono 2,7 milioni gli
italiani che coltivano ortaggi e verdura da consumare ogni giorno, 11 milioni si
preparano regolarmente cibi in casa, come pane, conserve, gelati. Anche nei
consumi si registra una discontinuità rispetto al passato. Il 62,8% degli italiani
ha ridotto gli spostamenti in auto e scooter per risparmiare sulla benzina, nel
periodo gennaio-settembre 2012 il mercato dell’auto registra il 25% di
immatricolazioni in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, e
c’è un boom delle biciclette: più di 3,5 milioni di due ruote vendute in un
biennio.
Verso l’e-consumatore competente. Le funzioni del consumo si stanno
modificando anche grazie alla diffusione delle nuove tecnologie. Il 14,9% degli
italiani è iscritto a gruppi di acquisto online che offrono beni e servizi a basso
costo. E nelle decisioni di spesa alimentare il 42% considera molto importanti
le informazioni sulla provenienza dei prodotti, collocandole al primo posto tra i
fattori che orientano la decisione di acquisto. Il responsabile familiare degli
acquisti è soprattutto donna (66,5%), uomo nel 43,9% dei casi al Nord-Est. La
casa-patrimonio resta assolutamente maggioritaria nelle scelte degli italiani,
ma le necessità contingenti stanno rivalutando l’affitto. Nel 2011 la quota di
famiglie in locazione ha raggiunto il 21% e nelle aree metropolitane la
percentuale sfiora il 30%. Nel trasporto privato si sta diffondendo la logica del
noleggio e del car sharing. Diminuisce la quota di famiglie che hanno più di
un’automobile (dal 33,4% al 32,1% tra il 2010 e il 2011), il fatturato
dell’industria del noleggio si attesta sui 5 miliardi di euro (+2,2% tra il 2010 e
il 2011) e il numero degli addetti è in crescita (+3,2% nel periodo 2010-2011 e
+3,3% nel primo trimestre del 2012 rispetto al primo trimestre del 2011).
Nuove ambizioni nelle scelte di studio e di lavoro. Con il prolungarsi della crisi
e dei suoi effetti sull’occupazione e sul benessere delle famiglie, cominciano a
emergere segnali di riposizionamento dei giovani rispetto alle scelte di studio e
di lavoro. Nel corrente anno scolastico è aumentato dell’1,9% rispetto all’anno
precedente il peso delle preiscrizioni agli istituti tecnici e professionali. Le
immatricolazioni all’università sono diminuite del 6,3% e i dati provvisori
relativi al 2011-2012 segnano un’ulteriore contrazione del 3%. La crisi ha
evidenziato come la laurea non costituisca più un valido scudo contro la
disoccupazione giovanile, né garantisca migliori condizioni di occupabilità e
rimuneratività rispetto ai diplomati. I giovani si indirizzano allora verso percorsi
di inserimento lavorativo meno aleatori, dai contorni professionali più certi: tra
il 2007 e il 2010 i corsi di laurea di tipo umanistico-sociale (i gruppi letterario,
insegnamento, linguistico, politico-sociale, psicologico) subiscono nell’insieme
una riduzione del loro peso percentuale sul totale delle immatricolazione di più
del 3% (passano dal 33% al 29,9% del totale), mentre i percorsi a valenza
tecnico-scientifica (i gruppi agrario, chimico-farmaceutico, geobiologico,
ingegneria, scientifico) registrano un +2,7% (la loro quota passa dal 26% al
28,7%). I giovani che hanno deciso di completare la loro formazione superiore
all’estero sono aumentati del 42,6% tra il 2007 e il 2010. Con un significativo
sacrificio delle famiglie: nell’ultimo anno il 30,3% ha sostenuto costi aggiuntivi
scolastici, il 21,5% per un figlio senza lavoro, il 16,1% per un figlio che
frequenta una università italiana e il 5,6% per una università straniera.
La riorganizzazione all’estero del sistema d’impresa. Il manifatturiero ha subito
un restringimento della base produttiva: il 4,7% di imprese in meno tra il 2009
e oggi. Il saldo tra iscritte e cancellate è stato pari a -30.023. Emerge però un
processo di riposizionamento in corso. I flussi dell’export italiano sono
parzialmente cambiati, orientandosi verso le economie emergenti: tra il 2007 e
oggi la quota di esportazioni verso l’Unione europea si è ridotta dal 61% al
56%, mentre quella verso le principali aree emergenti è aumentata dal 21% al
27%. Attualmente la Cina assorbe il 2,7% delle nostre esportazioni, la Russia il
2,5% e i Paesi dell’Africa settentrionale il 2,9%. Negli scambi con l’estero è
diminuito il peso del made in Italy (tessile, abbigliamento-moda, alimentari,
mobile-arredo), ma è aumentata la penetrazione di altre specializzazioni
manifatturiere, come la metallurgia, la chimica e la farmaceutica. Si è
ridimensionato il numero delle imprese esportatrici (dal picco massimo di
206.800 unità nel 2006 si è passati a 205.302 nel 2011), ma aumentano gli
investimenti in partecipazioni all’estero, che superano oggi le 27.000 unità (nel
2005 si era a quota 21.740). Dal 2008 a oggi le strutture commerciali che
hanno chiuso sono state più di 446.000, a fronte di poco più di 319.000 nuove
aperture. Nella prima metà del 2012 il saldo resta negativo (-24.390 imprese).
Ma altri segmenti produttivi registrano segnali di crescita: prosegue
l’espansione delle strutture della distribuzione organizzata (dalle 17.804 del
2009 alle 18.978 del 2011) e degli operatori del commercio via web, tv e a
distanza (passati da 29.163 a 32.718).
Il dinamismo dell’economia collaborativa e dei segmenti emergenti. Ci sono
porzioni del sistema produttivo che non sono rimaste immobili di fronte alla
crisi. C’è il sistema delle imprese cooperative, cresciute del 14% tra il 2001 e il
2011, attestandosi a poco più di 79.900 unità, ancora in grado di generare
occupazione: +8% di addetti tra il 2007 e il 2011, a fronte del -1,2% degli
occupati in Italia, e +2,8% anche nei primi nove mesi del 2012 (+36.000
addetti rispetto all’anno precedente). Ci sono le imprese femminili, oggi pari a
1.435.000, il 23,4% del totale delle aziende italiane: a settembre 2012 si sono
ridotte appena di 593 unità rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, a
fronte di una diminuzione di oltre 29.000 imprese guidate da uomini. C’è il
sistema della media impresa, che conta 3.220 aziende, con un contributo del
15% alla produzione manifatturiera, che arriva al 21% se si considera
l’indotto: negli ultimi dieci anni l’aggregato dei bilanci è rimasto sempre in
utile, grazie anche al fatto che il 90% esporta, con una incidenza del 44% delle
vendite all’estero sul fatturato complessivo. C’è poi il settore delle Ict, in
particolare delle applicazioni Internet: nelle circa 800 startup del 2011 l’età
media degli imprenditori è 32 anni. E poi le green Technologies: si stima che il
27% delle imprese industriali abbia effettuato investimenti in questo comparto,
così come il 26,7% delle imprese di costruzioni, il 21% delle imprese di servizi,
fino a punte di quasi il 40% tra le public utilities.
La logica biomediatica spinge l’industria digitale. Siamo entrati nell’era
biomediatica, in cui la miniaturizzazione
dei dispositivi hardware e la
proliferazione delle connessioni mobili ampliano le funzioni, potenziano le
facoltà, facilitano l’espressione e le relazioni delle persone. L’utenza del web in
Italia è aumentata di 9 punti percentuali nell’ultimo anno, portando il tasso di
penetrazione al 62,1% della popolazione nel 2012 (era il 27,8% solo dieci anni
fa, nel 2002). Gli smartphone di ultima generazione sempre connessi in rete
arrivano al 27,7% di utenza (e la percentuale sale al 54,8% tra i giovani), con
un incremento del 10% in un anno. Quasi la metà della popolazione (il 47,4%,
percentuale che sale al 62,9% tra i diplomati e i laureati) utilizza almeno un
social network. E le applicazioni del web permeano ormai ogni aspetto della
nostra vita quotidiana: si usano per trovare una strada (lo fa con il pc o lo
smartphone il 37,6% delle persone con accesso alla rete, una quota che sale al
55,2% tra i più istruiti), l’home banking (rispettivamente, il 25,6% e il 41,2%),
fare acquisti (rispettivamente, il 19,3% e il 28,1%), prenotare viaggi (15,9% e
26,2%), cercare lavoro (11,8% e 18,4%), sbrigare pratiche con uffici (9,6% e
14,1%), prenotare una visita medica (6,6% e 8,5%). La spesa per il traffico
dati con telefoni cellulari continua a crescere, fino a poco meno di 5 miliardi di
euro nel 2011 (+8,9% rispetto all’anno precedente), superando così la soglia
del 50% rispetto agli introiti da servizi di fonia vocale (l’incidenza era del 25%
solo nel 2005). Nel primo trimestre del 2012 i terminali smartphone e tablet in
circolazione erano 39,4 milioni, a metà anno le schede sim utilizzate per il
traffico dati hanno sfiorato la cifra record di 21 milioni, con un volume di
traffico dati sulla banda larga mobile che ha compiuto un balzo del 36,5%
rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
L’immobiliare in crisi riparte dalla domanda abitativa. A fine anno le transazioni
immobiliari si attesteranno sulle 485.000 unità, tornando così ai valori
precedenti a quelli del ciclo espansivo, che arrivò nel 2006 a registrare il picco
di 870.000 compravendite. Nel periodo 2008-2011 il numero di mutui per
l’acquisto di abitazioni è diminuito di oltre il 20% rispetto al quadriennio 20042007. Nel primo semestre del 2012 la domanda di mutui ha fatto registrare
un’ulteriore contrazione del 44% rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono
però 907.000 le famiglie intenzionate a comprare casa nel 2012: erano 1,4
milioni nel 2001, sono poi scese a circa 1 milione nel 2007 e il consuntivo per il
2011 è stato di 925.000. Nel 2011 le famiglie che sono riuscite a realizzare
l’acquisto sono state il 65,2%, ma quest’anno scenderanno al 53,5% (il 45,7%
nei comuni capoluogo). Gli acquirenti sono in prevalenza già proprietari (8 su
10), per due terzi sono famiglie con due percettori di reddito, per il 61%
appartenenti al ceto medio, per il 26% collocati nella fascia di reddito alta, per
il 13% con reddito medio.
Il federalismo incompiuto genera «ricentralismo». La percezione del peso delle
politiche nazionali è aumentata nell’ultimo triennio, ma il livello regionale e
locale viene comunque individuato come quello più importante dal 38% dei
cittadini. Il forte legame degli italiani con il territorio è confermato dal fatto che
il 92,8% dei maggiorenni ritiene che la propria regione abbia elementi di
specificità che la distinguono dalle altre. La maggioranza (il 65,9%) dichiara di
seguire con attenzione la politica a livello comunale. E anche sullo spinosissimo
tema dei servizi sanitari la maggioranza dei cittadini si è espressa a favore
dell’attribuzione alle Regioni di maggiori responsabilità: il 57,3% lo considera
un fatto positivo, soprattutto per la vicinanza con i problemi locali, e solo il
30,5% è di parere contrario, soprattutto per il rischio che si accentuino le
disparità territoriali.
(I RISCHI DELLA SEPARAZIONE TRA ÉLITE E POPOLO) Lo smottamento del
ceto medio. Il reddito medio degli italiani si riduce a causa del difficile
passaggio dell’economia, ma anche per effetto dei profondi mutamenti della
nostra struttura sociale, che hanno affievolito la proverbiale capacità delle
famiglie di produrre reddito e accumulare ricchezza. Negli ultimi vent’anni la
ricchezza netta delle famiglie è aumentata del 65,4% grazie soprattutto
dall’aumento del valore degli immobili posseduti (+79,2%). I redditi, al
contrario, non hanno subito variazioni: negli anni ’90 il reddito medio procapite delle famiglie è aumentato, passando da circa 17.500 a 18.500 euro, si
è mantenuto stabile nella prima metà degli anni 2000, ma a partire dal 2007 è
sceso ai livelli del 1993: -0,6% in termini reali tra il 1993 e il 2011. Negli ultimi
dieci anni, la ricchezza finanziaria netta è passa da 26.000 a 15.600 euro a
famiglia, con una riduzione del 40,5%. La quota di famiglie con una ricchezza
netta superiore a 500.000 euro è praticamente raddoppiata, passando dal 6%
al 12,5%, mentre la ricchezza del ceto medio (cioè le famiglie con un
patrimonio, tra immobili e beni mobili, compreso tra 50.000 e 500.000 euro) è
diminuita dal 66,4% al 48,3%. E c’è stato uno slittamento della ricchezza verso
le componenti più anziane della popolazione. Se nel 1991 i nuclei con
capofamiglia di età inferiore a 35 anni detenevano il 17,1% della ricchezza
totale delle famiglie, nel 2010 la loro quota è scesa al 5,2%. Un ulteriore
elemento che determina la riduzione del reddito medio è la quota rilevante di
famiglie immigrate (il 6,6% del totale), per il 45,1% con un reddito inferiore a
15.000 euro annui.
Reazioni di rabbia alla crisi della politica. Il crollo morale della politica e la
corruzione sono ritenute le cause principali della crisi: lo pensa il 43,1% degli
italiani. Segue il debito pubblico legato a sprechi e clientele (26,6%) e
l’evasione fiscale (26,4%). La politica europea e l’euro vengono dopo (17,8%),
così come i problemi delle banche (13,7%). Il sentimento più diffuso tra gli
italiani in questo momento è la rabbia (52,3%), poi la paura (21,4%), la voglia
di reagire (20,1%), il senso di frustrazione (11,8%). Le paure per il futuro
sono innanzitutto la malattia (35,9%) e la non autosufficienza (27%), poi il
futuro dei figli (26,6%), la situazione economica generale (25,5%), la
disoccupazione e il rischio di perdere il lavoro (25,2%).
Lo slittamento etico. Il 74% dei cittadini europei è convinto che la corruzione
sia un problema grave nel proprio Paese, ma in Italia la percentuale sale
all’87%. Il 47% degli europei ritiene che negli ultimi tre anni la corruzione sia
aumentata, ma in Italia tale percezione sale al 56%. Il 46% degli italiani,
contro il 29% della media Ue, afferma di essere stato colpito personalmente
dalla corruzione nella propria vita quotidiana. Secondo un’indagine del Censis,
per la maggioranza degli italiani in futuro aumenteranno i comportamenti
scorretti per fare carriera (lo pensa il 64,1%), l’evasione fiscale (58,6%), le
tangenti negli appalti pubblici (55,1%) e la mercificazione del corpo (53,2%).
Una protesta senza rappresentanza. Il doppio tsunami della crisi economicofinanziaria e del crollo reputazionale di forze politiche e istituzioni ha investito i
politici della Seconda Repubblica. Nell’ultimo anno i partecipanti a iniziative di
protesta contro la politica sono stati il 4,1% della popolazione (fra i giovani la
quota sale al 13%). Questa forte disponibilità dell’opinione pubblica
all’indignazione e alla mobilitazione «contro» si iscrive nel contesto più
generale di crisi delle democrazie rappresentative che attraversa gran parte
delle società europee, ma assume in Italia caratteri più radicali e una diffusione
più consistente.
Documento 2: Crisi intrecciate
di Joaquìn Navarro-Valls • Tratto da: La Repubblica 04.11.2012
La malattia del nostro tempo, dunque, non è economica e politica ma etica, un
male morale dagli effetti economici e politici devastanti. Se c’è una parola che
viene utilizzata come chiave di volta per spiegare il nostro tempo è certamente
la voce “crisi”. Frasi come queste si trovano scritte e si sentono dire ormai
ovunque: stiamo vivendo un periodo di crisi, stiamo attraversando una fase di
crisi, ormai non ci sono soluzioni a questa crisi, e così via. Le cose, d’altronde,
non avvengono mai a caso, soprattutto quando di mezzo c’è la lingua e i suoi
usi collettivi. Perciò, prima ancora di scandagliare le possibili applicazioni che
sono generalmente attribuite a questo magico concetto, è importante tener
presente l’origine del termine, anche a costo di imitare la peggiore pedanteria
dei linguisti. In questo caso, infatti, la mancanza di chiarezza è l’origine del
problema. E l’etimo può regalare una soluzione insospettata alla confusione in
cui siamo immersi. In greco significa scelta, rinviando ad una libertà che è
essenzialmente a disposizione della persona perché intrinseca a ogni uomo e
donna, ancorata alla sfera più profonda di ciascuno. Su ciò ritorneremo. Nel
nostro tempo, all’opposto, si parla di crisi indicando uno stato d’instabilità che
riguarda in prevalenza soltanto il nostro sistema economico globale, unito alla
difficoltà politica delle nostre democrazie di essere funzionanti e funzionali.
Forse non è che la circostanza in cui si è trovato il mondo dopo il crac bancario
statunitense del 2008 e la fine della Guerra Fredda. Ad apparire anacronistico,
al di là di tutto, è l’usuale modo di concepire la crisi, come un passaggio
momentaneo tra due periodi floridi e stabili dell’economia e della politica.
Abbiamo adesso, infatti, una perdurante situazione di recesso, la quale non
sembra finire mai in modo definitivo. Proviamo un momento a riflettere.
L’attuale situazione economica è annodata alla classica mancanza di crescita
della produzione e della ricchezza. Mentre, invero, le teorie economiche
tradizionali, in modo diverso tra loro, immaginavano soluzioni fattibili per una
piazza economica limitata a un numero circoscritto di operatori, oggi abbiamo
a che fare con un mercato unico globale dove non si trovano più modi concreti
per rendere il commercio in grado di produrre ricchezza, lavoro e benessere
per tutti. Anche dal lato politico ci troviamo innanzi ad una situazione
speculare. Thomas Paine, dopo la Rivoluzione francese, poteva ben dire che la
democrazia funziona solo se la sovranità appartiene a un popolo determinato e
circoscritto, ossia a una specifica nazione. Unicamente nell’ottica di una
sovranità limitata a un territorio chiuso e a una parte circoscritta di cittadini è
pensabile, in effetti, l’ordine democratico come lo conosciamo, per l’appunto
incentrato sulla solidità di singoli Stati sovrani. Oggi, viceversa, vi è un
contesto in cui tali confini non esistono più, ed ecco che la democrazia stenta
pertanto a produrre un ordine politico altrettanto adeguato, corrispondente alle
nuove sconfinate realtà sociali, costituite da multiformi comunità costrette a
convivere insieme. Queste banali osservazioni ci introducono nel cuore della
crisi contemporanea, la quale apparentemente non sembra più coincidere con
l’idea arcaica di una libertà che sbaglia, ma con l’irrisolvibile presenza di un
gap d’imponderabile entità, di una carenza conoscitiva degli eventi. Sia la crisi
economica e sia la crisi politica, in fondo, sembrano il frutto di un’incapacità di
gestire il mondo materiale, muovendo dai dati oggettivi e organizzativi che si
hanno a disposizione. E probabilmente è questa la ragione per cui la crisi
contemporanea appare irrisolvibile. Il vero problema è rimosso e messo da
parte a vantaggio di una valutazione inadeguata che, di fatto, spinge a
rincorrere il problema senza raggiungerlo mai, come fa un gatto cercando di
mordersi la coda. La presente depressione può essere curata, viceversa, se
viene ricondotta al suo contesto originario, legato a doppio filo con la natura
stessa dell’uomo. D’altra parte, senza sapere chi siamo e chi vogliamo essere,
come possiamo sperare di gestire le poche risorse e il poco lavoro che c’è? Un
cataclisma naturale non è una crisi, anche se può crearla. E la carenza di
materie prime non è in sé un fattore di debolezza, se non a causa dell’uso
smisurato che si vuol ricavare dalle risorse a disposizione. Una crisi, infatti, o è
crisi dell’uomo, e allora è risolvibile con un comportamento diverso, oppure
non è proprio nulla che paia sensato esaminare in qualche modo. La malattia
del nostro tempo, dunque, non è economica e politica ma etica, un male
morale dagli effetti economici e politici devastanti. Il nostro attuale modo di
vivere, originato dalla propensione personale a riporre la contentezza in
disvalori contingenti e in obiettivi radicalmente inconsistenti, non è in grado di
offrire in modo permanente il grado di perfezione e sicurezza desiderata. Come
poter spiegare in modo diverso l’ondata di corruzione che sta eloquentemente
lacerando la società italiana, giungendo a coinvolgere personalità di livello
locale e nazionale che hanno ricevuto ampio consenso elettorale? E come
l’implosione di un sistema bancario che, con tutta evidenza, ha trattato
sistematicamente i piccoli risparmiatori come strumenti al servizio di una
finanza dopata? Se, infatti, in futuro non sarà più possibile avere un
incremento della produzione di ricchezza come avveniva nel secolo scorso e se,
allo stesso modo, non sarà possibile avere nel nuovo contesto internazionale
una stabilità politica e un progresso come abbiamo avuto in precedenza, ciò
non significa automaticamente che la crisi presente non possa essere
affrontata e superata in nessun modo. Magari si può iniziare puntando su
quanto realmente dipende dalla libertà e dall’impegno di ciascuno. L’uscita
dallo stallo in cui siamo calati esige, certamente, il superamento
dell’atteggiamento tecnocratico che abbiamo deciso di adottare nella nostra
vita sociale, non dimenticandoci però che siamo noi gli unici veri responsabili
del nostro destino. Ogni persona può, infatti, se lo vuole, abbandonare
l’opzione al male minore, cercando una stabilità alta che non sia soltanto la
somma di prestazioni eccezionali a questo punto irraggiungibili. La realtà
economica e politica, infatti, resta sempre quella che è: un mezzo al servizio
della nostra felicità o della nostra infelicità. Dipende da noi stabilirlo.In sintesi,
la difficoltà che stiamo vivendo sembra sentenziare che non può esistere
alternativa al tracollo, trattando i mezzi politici ed economici come parametri
definitivi e assoluti. Ma può anche spingerci a recuperare il vero significato in
cui la nostra libertà e il nostro impegno trovano soddisfazione, alzando ed
incrementando il grado di umanità della società con un lavoro magari modesto
ma ben fatto e con una partecipazione politica autentica al servizio degli altri
senza bramosia di potere. Il risultato positivo deriverà unicamente da un
atteggiamento etico nuovo e giusto che investa su un modo di vivere più
solidale e meno egoista, nel quadro di una prospettiva etica misurata
socialmente e davvero aperta a quel desiderio di equilibrio che ogni persona
porta in se stessa. L’essere umano, difatti, non si lascia imprigionare mai in
una logica chiusa e immanente, senza entrare in crisi profonda, perdendo
appunto l’unica risorsa personale che ha realmente a disposizione: la felicità.
DOCUMENTO 3: Il futuro? Va riscritto
di Marc Augé • 01-11-12 – Tratto da: l’Unità 3.10.12
L’ideologia del presente ci porterà alla rovina
Oggi viviamo in un mondo governato in apparenza dall’istantaneità e
dall’ubiquità. un compito urgente per noi tutti sarebbe quello di imparare di
nuovo a pensare il tempo e, dunque, a riscoprire una precisa idea di futuro.
certo, senza cedere alle illusioni utopiche del xxi secolo, ma resistendo anche
agli effetti deleteri dell’attuale «ideologia del presente».L’illusione della «fine
della storia» (Francis Fukujama) costituisce senza dubbio l’ultima illusione,
l’ultima «grande narrazione», tipo quelle del XIX secolo. In effetti, questa
visione della democrazia planetaria come combinazione della democrazia
rappresentativa e del libero mercato non corrisponde né alla situazione attuale
né alle tendenze che vediamo svilupparsi. Ci incamminiamo, piuttosto, verso
un’oligarchia planetaria a tre classi: coloro che possiedono, coloro che
consumano e gli esclusi. L’accesso all’agiatezza economica e alla conoscenza è
confiscato da un élite planetaria. Tra l’altro anche le dittature politiche si
adattano bene al libero mercato.Cosa fare? Resistere tanto alle dottrine che ci
chiudono nel passato quanto a quelle che fantasticano sul futuro. Resistere alle
illusioni dell’istantaneità. Pensare sia il presente che il futuro ricordandosi che
la nostra azione quotidiana ha esito positivo solo se apre prospettive ad un
avvenire possibile. Ispirarsi in tutti i campi alla umiltà della scienza, che sposta
continuamente le frontiere dell’ignoto. Immaginare un esistenzialismo politico
capace di non cedere alla tentazione di applicare modelli preconcetti. E
conservare, con l’ideale di universalità, la capacità di non perdere di vista la
triplice dimensione dell’uomo: individuale, culturale, generico. Solo una
rivoluzione dell’educazione per tutti permetterebbe di realizzare pienamente un
tale progetto. È un’utopia, ma può aiutare a definire delle priorità e a lottare
per la loro realizzazione.Non si può dire né che i diritti dell’uomo siano
appannaggio di un solo paese o di una particolare cultura anche se la
Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino è datata, e storicamente
collegata alla Rivoluzione francese né che essi siano comunque riconosciuti e
rispettati da ciascuna cultura e da qualsiasi regime politico. Nessun regime
politico ne realizza completamente l’ideale. Ma, evidentemente, ci sono delle
notevoli differenze da questo punto di vista: tra i diversi regimi, tra
l’importanza che essi danno alle tradizioni religiose o culturali, tra queste
stesse tradizioni e, ancor di più, tra le interpretazioni e gli usi che di esse sono
stati fatti. Tutto questo diventa evidente nel momento in cui si considera la
libertà formalmente riconosciuta e concretamente garantita a tutti gli individui,
indipendentemente dal sesso, dalla loro origine e dalle loro opinioni.Tutto ciò
rimanda a un compito non facile, poiché vi sono potenti personalità gli oligarchi
della globalità che incarnano oggi il successo politico, economico o mediatico e
le forme di resistenza che ad essi si oppongono passano spesso attraverso dei
riferimenti culturali o adesioni religiose alienanti.Un circolo vizioso dunque,
imputabile al fatto che in entrambi i casi è l’uguaglianza tra individui ad essere
fondamentalmente negata, anche se è l’unica garanzia della loro sovranità e
l’unica spinta alla loro libertà. Traduzione di Anne-Marie Bruyas
DOCUMENTO 4: Più tempo, meno moneta
di Luigino Bruni • Tratto da: www.avvenire.it 28 ottobre 2012
Nuova normalità: la crisi spinge a rivalutare la condivisione di beni e servizi
I "new normal", i nuovi normali: così l’America chiama quella parte dell’ex ceto
medio che a causa della crisi sta cambiando stile di vita, facendo cose che
pochi anni fa sarebbero state considerate anormali otipiche della classe più
povera. Fra questi nuovi comportamenti 'normali' non ci sono solo riduzioni del
consumo di beni e servizi che fino o poco fa erano considerati ormai assodati e
di fatto indispensabili, ma ci sono anche nuove pratiche di condivisione, in
rapido aumento nella società americana e un po’ in tutto l’occidente in crisi.
Tra queste c’è anche il grande sviluppo delle Banche del tempo, quella
importante innovazione (che risale a ben prima della crisi), che consiste nel dar
vita a una rete di scambi nei quali la moneta, cioè l’unità di conto e di calcolo
delle equivalenze, non è il denaro ma il tempo: l’offerta, ad esempio, di un’ora
di giardinaggio diventa un credito di un’ora di un’altra attività della stessa
durata, sulla base di norme di reciprocità sia diretta che indiretta (dove il
credito o il debito di A verso B può essere ricambiato anche da C). Nelle vere
banche del tempo si riporta l’economia alla sua natura originaria di incontro fra
persone, dove lo scambio di merci e di servizi è sussidiario ai beni relazionali,
che oggi sono sempre più inquinati da mercati troppo anonimi e
spersonalizzati. Le banche del tempo sono presenti anche sul nostro territorio,
normalmente promosse da associazioni della società civile, quasi sempre
all’interno di tessuti con orditi molto articolati, che in certi casi stanno
prendendo la forma di veri e propri sistemi di scambio e di sviluppo locale, con
reti di gruppi di acquisto solidale (Gas), cooperative, pubbliche amministrazioni
lungimiranti, banche territoriali, molte associazioni, Caritas, ecc.
Così in molti territori, le antiche tradizioni di virtù civili e di mestieri oggi
vivono una nuova primavera, con in più un significativo protagonismo di donne
e di anziani. Sono questi segnali positivi della crisi, che se estesi su più larga
scala e sostenuti da buona politica, potrebbero far sì che diventino di nuovo
'normali' prassi comunitarie e solidali che hanno fondato la nostra cultura
occidentale e cristiana, e che nell’era dell’opulenza e dello spreco insostenibile
sono state in larga parte distrutte. Dietro questo crescente fenomeno delle
banche del tempo si deve allora intravedere un processo di portata più
generale e più strutturale, che potrebbe offrire elementi capaci di produrre
cambiamenti di vasta portata all’interno del nostro modello economico
capitalistico. Ma per comprendere la sfida che si nasconde dietro queste
apparentemente semplici e ancora poco conosciute esperienze, bisogna
guardare più in profondità. Anzitutto alla diseguaglianza crescente, che va
però anche vista da una prospettiva non abbastanza sottolineata, e quindi
molto sottovalutata. È la tendenza radicale in atto nel nostro sistema
capitalistico a un progressivo allargamento dell’area coperta dagli scambi
monetari. È ormai considerato 'normale', in America (ma non solo lì), pagare
un extra nei teatri e musei al fine di saltare la coda; oppure pagare (e qui per
fortuna solo in America) gli studenti al fine di incentivarne la performance
scolastica; per non parlare della ormai normale penetrazione della logica
monetaria nella sanità, nella cultura, e persino nella famiglia, dove sta
diventando normale incentivare i ragazzi pagandoli per i lavori di casa.
Senza entrare in questioni etiche fondamentali relative all’allargamento dell’uso
della moneta in questi ambiti del civile (siamo sicuri che evitare una coda in un
teatro, in un ospedale o in un aeroporto perché si è più ricchi sia compatibile
con la democrazia?), c’è una conseguenza diretta di tutto ciò nella vita
quotidiana delle persone, soprattutto dei nuovi e antichi poveri e dei nuovi
normali. Se la moneta copre sempre più bisogni, se cioè devo pagare per
ottenere beni e servizi che una volta erano offerti dalle comunità (cura,
educazione, scuola, sanità...), una tanto evidente quanto taciuta conseguenza
è l’aggravarsi delle condizioni di vita e dell’esclusione sociale di chi quella
moneta non ce l’ha o ne ha troppo poca. Per questo in un mondo che oltre ad
essere diseguale nel reddito aumenta il ricorso alla moneta per sempre nuove
attività, alcune delle quali essenziali per vivere, la vita dei più poveri diventa
tremendamente dura.
È qui allora che si capisce il significato civile ed economico di questi movimenti
di reciprocità non mercantile come le banche del tempo e dintorni. Un modo
efficace per combattere la mancanza di reddito è ridurre il ricorso alla moneta
per ottenere beni e servizi. Se fossimo capaci di organizzare la nostra vita
quotidiana sfruttando di più il principio di reciprocità, metterlo più a sistema,
potremmo gestire una parte significativa di servizi di cura, di assistenza ma
anche di mestieri e competenze, senza ricorrere allo strumento monetario.
Anche perché molti dei nuovi 'normali' sono nella condizione, perché giovani,
donne e anziani, di avere meno reddito ma più tempo e spesso competenze
non richieste oggi dal mercato del lavoro ma molto utili alla gente. Perché
allora non far ripartire in Italia una nuova stagione di sistemi locali di scambio
basati sul principio di reciprocità? Come cittadini ci riapproprieremo di pezzi
importanti di vita associata, di democrazia e quindi di libertà, e metteremmo in
moto creatività, innovazione, protagonismo, lavoro, nuova fiducia e capitali
civili la cui mancanza è la vera povertà dell’Italia di oggi.
Sarebbe una stagione simile alla nascita del movimento cooperativo di fine
ottocento, quando in tempo di profonda crisi industriale e rurale, l’Italia seppe
dar vita ad un vero miracolo economico-civile, creando decine di migliaia di
nuove imprese in tutto il
Paese. Occorrerebbe però anche una politica
lungimirante che, ad esempio, non veda queste transazioni come forme di
evasione fiscale ma come una espressione del principio di sussidiarietà, di cui
tanti parlano ma pochi concretizzano. Da questa crisi sicuramente uscirà una
nuova 'normalità': oggi ci troviamo di fronte ad un bivio epocale tra una nuova
normalità fatta di miseria per tanti e super privilegi per pochi, e una nuova
normalità con maggiore condivisione, democrazia e opportunità per tutti.
Dobbiamo allora operare e sperare affinché si imbocchi questa seconda
direzione.
DOCUMENTO 5: Manifesto per un capitalismo popolare
di Fausto Panunzi • Tratto da: www.lavoce.info 05.10.2012
La crisi di consenso dell’economia di mercato e le (presunte) ragioni di un suo
rilancio.
A poco più di venti anni dalla caduta del muro di Berlino, che certificava il
fallimento dell’esperimento delle economie del socialismo reale, l’economia di
mercato non se la passa bene, malgrado tutti ammettano che a essa non vi
siano reali alternative. La crisi economica che ha attanagliato gran parte dei
Paesi occidentali e che in alcuni non sembra avere fine, ha portato molti a
scendere in piazza proprio contro l’economia di mercato, come hanno fatto gli
indignados e il movimento di Occupy Wall Street. Ci vuole coraggio allora a
scrivere proprio oggi un libro che nell’edizione italiana ha il titolo di “Manifesto
Capitalista” e in quella inglese di “A Capitalism for the People”. E il coraggio
non manca certo a Luigi Zingales, economista dell’università di Chicago,
prossimo presidente della prestigiosissima American Finance Association,
editorialista del Sole-24 Ore, membro del consiglio di amministrazione di
Telecom e molte altre cose ancora.
LE RAGIONI DELL’AVVERSIONE AL CAPITALISMO.
Zingales non nega la crisi di consenso dell’economia di mercato e, anzi, nella
prima parte del libro propone un’approfondita analisi delle ragioni di tale
mancanza di popolarità del capitalismo attuale. L’economia di mercato, per
funzionare bene, deve fornire incentivi a chi esercita impegno nelle proprie
attività, a chi ha talento, a chi ha propensione a innovare e rischiare. La
conseguenza è che genera disuguaglianze: chi ha successo (o perché ha
talento o perché ha lavorato più e meglio di altri o perché ha visto opportunità
che altri non hanno visto) guadagna più di chi non ha successo. Le
disuguaglianze non sono di per sé popolari, dato che sono pochi i vincitori e
molti di più i perdenti. La globalizzazione e le nuove tecnologie, creando in
molti settori un unico mercato mondiale, hanno amplificato la tendenza alla
disuguaglianza. Nessuno si accontenta di avere un prodotto buono: tutti
vogliono avere il prodotto migliore o i prodotti migliori o semplicemente quelli
che sono alla moda. Quindi alcune imprese fanno profitti stellari, mentre altre
sono costrette a chiudere. Ma anche i lavoratori sono toccati da questa
apertura delle frontiere: le imprese possono scegliere di de-localizzare le
produzione o di dare in outsourcing una quantità sempre maggiore di servizi.
Questo riduce i salari dei lavoratori poco qualificati nei Paesi occidentali e crea
disoccupazione in alcuni segmenti del mercato del lavoro. La forbice crescente
tra l’andamento della produttività e i salari medi è lo specchio di questa
crescente disuguaglianza. Se questi fattori di per sé non rendono popolare
l’economia di mercato, scoprire che alcune imprese prosperano grazie a
concessioni che vengono dal potere politico o il fatto che alcune banche siano
state salvate con i soldi dei risparmiatori perché erano “too big to fail”, dopo
che i manager che le avevano portate sull’orlo del fallimento avevano intascato
bonus milionari, è stato il vero colpo di grazia al consenso per il mercato. E,
aggiunge Zingales, l’intervento pubblico spesso non risolve i problemi, ma li
aggrava. La capacità delle imprese, attraverso la loro attività di lobby, di
condizionare a proprio favore la regolamentazione o di ottenere monopoli va a
scapito dei contribuenti e dei consumatori. E lo Stato sta fallendo anche nella
sua funzione di ammortizzatore contro le disuguaglianze crescenti create dalla
globalizzazione. Un miglior livello di istruzione potrebbe portare a salari più
elevati e a una maggiore probabilità di impiego. Ma, ci ricorda Zingales, il
fattore che è maggiormente significativo nel determinare l’apprendimento degli
studenti è la qualità degli insegnanti, che dovrebbero essereselezionati in base
alle loro capacità. Questo, però, è impedito dalle potenti lobby degli insegnanti
anche in quella che dovrebbe essere la patria del libero mercato e della
meritocrazia, cioè gli Stati Uniti. Siamo in presenza di un doppio fallimento:
quello di un mercato sempre meno concorrenziale e sempre più preda delle
grandi imprese e quello di uno Stato che dovrebbe fare rispettare le regole e
invece le interpreta e le adatta alle esigenze del big business. Il Tea Party con
la sua avversione al crescente ruolo del governo e il movimento Occupy Wall
Street con la sua avversione al mercato hanno in realtà molto in comune:
avversano in realtà le deviazioni dalla concorrenza sul mercato e le
degenerazioni economiche e politiche che ne conseguono.La situazione italiana
è per molti aspetti ancora peggiore. Da noi l’intreccio tra politica e economia è
incarnato da Silvio Berlusconi, che ha dominato la scena pubblica italiana degli
ultimi venti anni. Il libro mette impietosamente in evidenza i fallimenti dei suoi
tanti anni di governo.
CHI GUIDERÀ IL CAMBIAMENTO
Zingales, però, non si rassegna a vedere sparire il modello di società che lui
sognava da ragazzo e che lo ha entusiasmato nella sua esperienza di studio e
lavoro americana e nella seconda parte del libro analizza alcuni fattori che
potrebbero rovesciare il trend. Inutile pensare di fermare la globalizzazione o il
progresso tecnico. Il protezionismo e il neoluddismo hanno poco da offrire.
Servono invece altre cose. Una rete di protezione sociale, con sussidi di
disoccupazione abbinati alla possibilità di riqualificazione personale dei
lavoratori. Un sistema di voucher scolastici per le famiglie, così da incentivare
la concorrenza tra le scuole e quindi la qualità della didattica. Norme sociali
“cooperative” che possano supplire all’assenza di regolamentazione. Un ruolo
importante per l’etica, che consenta di andare al di là degli incentivi dati dalla
legge e dalle sanzioni che essa può imporre. Regole semplici che possano
essere fatte rispettare senza manipolazioni e che generino trasparenza.
Limitare la forza del lobbismo, dando potere ai consumatori con strumenti
come le class action. Dati resi pubblici per una maggiore trasparenza e migliore
informazione dei cittadini. Una riforma della finanza che impedisca il “too big to
fail”. Tasse pigouviane che correggano le esternalità, fonti di fallimenti di
mercato. Come si vede, sono tanti i fattori che secondo Zingales potrebbero
tornare a darci un capitalismo popolare, cioè per la gente e non avversato dalla
gente. Ciascuno di essi è già stato proposto nel dibattito di politica economica
e nessuno sembra di per sé decisivo, anche se la lucidità e l’esaustività di
questo libro ce li fanno apprezzare meglio.Il libro colpisce per la qualità e la
ricchezza delle argomentazioni, in cui dati presi da studi accademici sono
intrecciati con episodi della vita dell’autore. Zingales ripete molte volte la sua
tesi principale, ma sempre da un punto di vista diverso. È una sintesi molto
riuscita di conoscenze che gli vengono dall’attività di ricerca e di una capacità
di farsi leggere acquisita come editorialista.La sensazione che mi è rimasta alla
fine del libro è quella di preoccupazione, forse perché ho trovato la prima parte
più convincente della seconda. La domanda che ci si pone inevitabilmente è:
ma perché stavolta il capitalismo dovrebbe essere capace di riformarsi? Cosa ci
può indurre a pensare che, passata l’emergenza, tutto non tornerà come
prima? A sorpresa, un ruolo positivo può essere giocato, secondo Zingales, dal
sentimento anti-establishment – non importa se politico o economico - che
nasce quando una fetta della popolazione si impoverisce. Gli attori del
cambiamento possono essere donne, giovani e immigrati, cioè gli esclusi dai
privilegi che il sistema economico odierno concede. La crisi li renderà consci
che non hanno da perdere nulla dal cambiamento all’infuori delle proprie
catene, come avrebbe detto un altro, più famoso - ad oggi - Manifesto. Ma non
è ovvio che il movimento populista che sta nascendo in quasi tutti i Paesi
occidentali si indirizzerà in una direzione che alla fine sarà promercato.
Zingales ricorda l’esperienza degli Stati Uniti della fine del 1800 e inizio del
1900, che portò all’adozione di misure come lo Sherman Act del 1890, cioè la
legge antitrust americana. Ma quanto è generalizzabile quell’esperienza?
Nessuno lo sa, temo. Da parte mia, più che nei movimenti populisti, cerco
motivi di speranza guardando i banchi dei miei studenti, pensando che trenta
anni fa su quegli stessi banchi sedeva proprio Luigi Zingales e sperando che
tanti tra di loro avranno la sua smisurata energia, il suo incredibile talento e la
sua passione civile. Luigi Zingales, Manifesto capitalista. Una rivoluzione
liberale contro un’economia corrotta. Rizzoli (collana saggi italiani), 2012, 407
pagine.
DOCUMENTO 6: Il disagio degli europei in cerca di futuro
di Claudio Magris • Tratto da: http://www.corriere.it
23 ottobre 2012
Questa crisi alimenta i particolarismi più ottusi
Un paio di settimane fa ero a Madrid, nei giorni delle manifestazioni contro il
governo e degli scontri con la polizia, di cui hanno ampia- mente riferito i
nostri giornali e le nostre televisioni, talora esagerandone - specialmente sullo
schermo - la portata e la violenza. Trovandomi per caso in una delle zone
calde, ho provato un sentimento non di paura - pensavo a dimostrazioni ben
più inquietanti, da quelle a Trieste nell'immediato dopoguerra a quelle degli
anni Settanta o alle battaglie per le strade a Genova nel 1960 o in occasione
del G8 - ma di sconforto, uno sconforto che sconfinava in un vago timore
sovrapersonale, in un vero malessere.
Proprio i comprensibili motivi all'origine della protesta - le condizioni di vita
sempre più dure per un numero sempre più vasto di persone, le crescenti
difficoltà di far fronte alle esigenze fondamentali della popolazione (sanità,
assistenza sociale, pensioni, lavoro) - incutevano una plumbea, smarrita
tristezza, facevano sentire fisicamente l'incombere di un futuro di grigiore e di
vita grama e umiliata. Davano un senso di insicurezza, evocato recentemente
da Bauman.
Questo sentimento di un futuro frustrante ed opaco non preoccupa
direttamente la mia generazione; come ai vecchi di Svevo, a noi non interessa
personalmente il futuro, il nostro universo è il presente, da afferrare e godere
o da scansare quando ci fa soffrire. La gente della mia età non è immalinconita
dalle incertezze e dal possibile squallore del futuro; abbiamo già, in generale,
estratto da tempo le carte al nostro tavolo da gioco, carte che ci danno una
buona probabilità di cavarcela abbastanza bene per il tempo che ci interessa.
Ma chi si apre oggi alla stagione della vita in cui si decidono l'esistenza, la sua
qualità e il suo significato, si sente impedito nelle sue esigenze di sbocciare, di
costruire il proprio mondo, di far valere il proprio diritto alla felicità proclamato
dalla Dichiarazione americana. E allora lo sgomento prende pure chi non teme
per se stesso e, se fosse per lui, continuerebbe a spassarsela vuotando la
dispensa per lui ancora più che sufficiente; lo sgomento lo afferra e non solo
perché teme per altri che gli stanno a cuore almeno come se stesso - figli,
nipoti - ma perché siamo tutti responsabili del destino di tutti e non si può
essere felici se si è circondati dalla tristezza, non si può essere veramente vivi
in un mondo spento.
Nelle stesse ore, i giornali a Madrid parlavano dei fermenti di separatismo
sempre più intensi in Catalogna e dell'involuzione e della paralisi che ne
derivano alla politica dell'intero Paese, di quel grande e vitale Paese che è la
Spagna, e dell'Europa in generale. C'è nell'aria la sensazione di un crepuscolo
dell'Europa. Quelle dimostrazioni - simili a quelle di tante altre regioni europee
- non apparivano l'espressione di una ribellione politica, di un progetto
alternativo, magari discutibile o inaccettabile, ma pur sempre progetto di
futuro; non evocavano l'immagine di un esercito all'attacco, ma piuttosto di
reparti che marciano per la cerimonia dell'ammainabandiera.
L'Unione Europea - con le sue commissioni, i suoi bizantinismi, le sue cautele,
le sue necessità di compromesso, il paralizzante incrociarsi dei veti dei suoi
Stati membri, le sue infinite mediazioni sempre più simili a situazioni di stallo sembrava, sembra lontana come l'imperatore della celebre parabola kafkiana,
il cui messaggio risolutivo è per strada ma non arriva mai. E intanto, alimentati
dalla crisi economica, si diffondono i miasmi dei nazionalismi, dei
particolarismi, dei localismi, delle ottuse e rancorose velleità separatiste,
nell'assurda smania che ogni nazionalità o etnia, che devono ovviamente
potersi sviluppare pienamente, debba o possa divenire uno Stato (la Svizzera
dovrebbe quindi spaccarsi in quattro Stati, cosa che gli svizzeri non sembrano
vogliosi di fare) e che la chiusura in un'astiosa separatezza possa risolvere la
crisi economica.
La nostra unica realtà possibile, l'unica che possa garantire sicurezza e
stabilità, è l'Europa. Uno Stato europeo, un vero Stato - federale, decentrato,
ma con una sua coesione e una sua cogente autorità, come gli Stati Uniti
d'America - un'Europa di cui gli attuali Stati nazionali diventino regioni, ognuna
con la sua autonomia ma nessuna delle quali abbia ad esempio diritto di veto
in merito alle decisioni politiche di un governo che realmente governi né diritto
di darsi leggi e tantomeno costituzioni in contrasto con i principi della
Costituzione europea. Uno Stato europeo la cui autorità si affidi non ad
avvertimenti o a moniti, ma all'effettività di un vero diritto.
Un reale Stato europeo è l'unica possibilità di un nostro futuro dignitoso. Oggi i
problemi non sono più nazionali, riguardano tutti; è ridicolo ad esempio avere
leggi diverse, nei diversi Paesi, riguardo all'immigrazione, come sarebbe
ridicolo avere a questo proposito leggi diverse a Bologna e a Genova. Un
autentico Stato europeo potrebbe inoltre ridurre molti costi, ad esempio le
spese per tutte le infinite commissioni, rappresentanze e istituzioni
parassitarie. L'Europa è, in sé, una grande potenza ed è penoso vederla spesso
ridotta a litigiosa o, peggio, cauta e impotente assemblea condominiale. Per
essere all'altezza di se stessa, per diventare veramente Europa, l'Unione
Europea dovrebbe essere governata con decisione e autorità, senza vaporosi
ecumenismi né paura di mettere in riga, a seconda dei casi, chi vuol tener
pulita casa propria gettando le immondizie in quella del vicino. Probabilmente
l'Unione Europea non è in grado di agire con robusta fermezza, ma se
continuerà a non esserlo sarà la sua fine, un progressivo spegnersi di luci in un
cinema che si vuota. Per la prima volta nella Storia, si cerca di costruire una
grande comunità politica senza lo strumento della guerra. Proprio il rifiuto della
guerra esige un'autorità che funzioni; la titubanza non è democrazia, ma la sua
morte.Se si ha la sensazione che l'Europa unita stia scricchiolando e
sfilacciandosi, è naturale, per chi crede in essa, provare quel senso di disagio e
depressione di quella sera a Madrid. Naturalmente ciò non significa arrendersi
alla malinconia; non siamo al mondo per indulgere ai nostri stati d'animo, alle
malinconie delle nostre animucce che talvolta derivano da una cattiva
digestione. Disagio o no, si continua a lavorare come si può per ciò che si
ritiene giusto o il meno peggio, nella testarda convinzione che «non
praevalebunt». Il malessere e la stanchezza pessimista sono un male da
combattere, tanto più quanto più essi sono, come oggi, sempre più diffusi.
Certo, a leggere i grandi documenti così pieni di fede, dei padri fondatori
dell'idea di un'Europa unita, come ad esempio il Manifesto di Ventotene di
Spinelli, Rossi e Colorni ci si accorge che, in quell'epoca orrenda - come diceva
Karl Valentin, geniale cabarettista e ispiratore di Brecht - il futuro era migliore.
DOCUMENTO 7: Il Nord contro il Sud. L'Europa sulle barricate
di Lucio Caracciolo • tratto da: la Repubblica
16 Ottobre 2012
Formiche e cicale
Un giorno usciremo dall’eurocrisi. Quando proveremo a trarne un bilancio,
non dovremo valutare solo i danni economici, sociali e politici prodotti in
questi anni di decrescita, di lacerazioni nel corpo delle nostre società, di
delegittimazione delle istituzioni e della stessa vita pubblica. Dovremo censire
anche gli effetti culturali della
disputa intorno ai “caratteri nazionali”,
presunta origine della crisi in corso. Come se un redivivo Luca Pacioli avesse
elaborato una partita doppia geoculturale, è di moda contrapporre i viziosi
meridionali ai virtuosi nordici, le cicale alle formiche, i fannulloni mediterranei
agli operosi baltici. Stampa da boulevard, blog da strapazzo? Anche. Non
mancano però gli intellettuali e i leader politici impegnati in questo sport.
Fioccano invettive incrociate fra nordici e meridionali all’insegna di un asserito
destino che imporrebbe comportamenti sociali ed economici prestabiliti a
seconda del clima o del parallelo di riferimento.
In tal modo è l’idea, anzi la storia stessa d’Europa, a essere violentata. Se
davvero ciascuno di noi fosse confitto nel determinismo geografico, che senso
avrebbe parlare di un progetto europeo? Se alcuni greci truccano i conti in
quanto greci e non in
quanto imbroglioni,
di quale orizzonte comune
discettiamo? E se un estone, un tedesco o un austriaco sono per definizione
rigorosi in virtù dei rigidi inverni, perché mai dovrebbero scendere a
compromessi con i pigri, goderecci abitatori del Belpaese o della penisola
iberica? In tempo di crisi la ragione va in soffitta. Si ricorre agli slogan. È il
festival degli estremismi: le questioni vengono poste e asseritamente risolte
a fil di spada – oggi una metafora, ieri meno e quanto al domani incrociamo
le dita. Senza nemmeno curarsi di darcene spiegazione, molti tra coloro che
fino a poco tempo fa inneggiavano al “mondo globale” e dipingevano i
rapporti fra i paesi europei in termini di perfetta interdipendenza inclinano
ormai al semplicismo bipolare. Nord contro Sud, Sud contro Nord. Bianco e
nero, nero e bianco. Di qui al razzismo, il passo è breve.Siamo nel campo
delle “verità eterne”. Indiscutibili perché indimostrabili. Ma se le nostre società
e le nostre economie sono rette da una regola inflessibile, se ciascuno di noi
appartiene per nascita a una casta semidivina o irredimibile, che senso ha
(avuto) tentare di allestire un’architettura comunitaria dal Mare del Nord
all’Egeo? Di recente, un diplomatico tedesco spiegava così il fallimento della
logica di Maastricht: «Abbiamo cercato di nordificare i mediterranei. Solo se
fossimo diventati omologhi anche nella cultura monetaria avremmo potuto
gestire una divisa comune. A quanto pare, è stata un’illusione». L’avventura
dell’euro sarà giudicata dagli storici. Ma qui è in gioco molto più di un mezzo
di scambio. Come avverte uno dei massimi storici dell’Europa contemporanea,
Mark Mazower: «L’economia ha guidato il dibattito sulla crisi dell’Eurozona,
ma è della politica che dovremmo preoccuparci. Dopotutto, il progetto
europeo del dopoguerra si fondava sull’uso dell’integrazione economica e dei
suoi benefici per emancipare il continente dal suo passato sanguinoso. Ma ora
nell’Europa meridionale la violenza sta tornando in seguito ai programmi di
austerità che vengono reclamizzati come prezzo per continuare a far parte
dell’Eurozona. Il punto non è solo l’essere membro
dell’Eurozona: in
questione sono la natura e il futuro della democrazia». Di tutte le democrazie,
meridionali e settentrionali.
DOCUMENTO 8: Tempo Di Bloccare La Spesa?
di Jean Pisani-Ferry • Tratto da:
www.project-syndicate.org 31.10.2012
E’ il momento per una fase di risanamento di bilancio o di stimoli fiscali?
E’ il momento per una fase di risanamento di bilancio o di stimoli fiscali? I
governi dovrebbero tagliare la spesa o incrementarla? Ancora una volta la
questione è oggetto di disputa tra politici ed economisti. I cittadini sono a
ragione confusi, visto che nel 2008-2009 si era detto loro che l’imperativo era
stimolare l’economia, e nel 2010-2011 che era giunto il momento di tagliare le
spese. Le priorità dovrebbero essere ancora una volta ribaltate?
In occasione dell’annuale riunione del Fondo Monetario Internazionale nel mese
di ottobre, l’economista responsabile del Fondo, Oliver Blanchard ha alimentato
la polemica sottolineando che negli ultimi tempi i governi hanno la tendenza a
sottovalutare le conseguenze negative dell’intensificazione di una politica di
consolidamento fiscale. Si è tipicamente assunto che il taglio della spesa
pubblica di un dollaro, nel breve periodo, comporterebbe una riduzione del PIL
di 50 centesimi; secondo Blanchard, nelle condizioni attuali l’esito reale è una
diminuzione di 0.90- 1.70 dollari. Una grande differenza, ma anche un risultato
sconcertante: come può esserci tanta incertezza?
Contrariamente a quanto tale disparità di previsione possa suggerire, gli
economisti in realtà conoscono molto circa gli effetti che una determinata
politica fiscale potrebbe avere, almeno molto più di prima. Fino agli anni
ottanta, si assumeva regolarmente che il cosiddetto “moltiplicatore”
–il
rapporto di variazione del PIL alla variazione della spesa pubblica- sia stabile e
maggiore di uno. E si pensava che il taglio della spesa di un dollaro comporti
una riduzione del PIL di più di un dollaro, cosicché il risanamento finanziario
risulta economicamente costoso (mentre, viceversa, una politica di incentivi
era efficace).
Poi c’è stata la contro-rivoluzione, che ha portato avanti una lunga lista di
motivi per cui è probabile che il moltiplicatore sia molto più basso. Si taglia la
spesa, si diceva, e l’inflazione diminuisce. La banca centrale abbassa i tassi di
interesse; le famiglie spendono in previsione della riduzione delle tasse; e la
fiducia delle imprese aumenta. Alla fine, vi è un impatto negativo sulla
produzione modesto, se non nullo.
Gli economisti sono molto suscettibili, ma sono anche investigatori testardi,
cosicché la disputa ha comportato nuove analisi sugli effetti dei tagli di
bilancio. Sono stati messi a punto nuovi metodi per misurarne l’impatto; si
sono introdotti nuovi approcci per tener conto della possibilità che il
moltiplicatore possa variare nel corso del tempo; e sono stati raccolti nuovi
dati per meglio incorporare le reali decisioni di bilancio.
Tutto questo impegno ha pagato. Oggi ci sono prove convincenti del fatto che
la stessa decisione di tagliare la spesa pubblica può avere conseguenze molto
diverse, a seconda delle condizioni economiche. Questo può sembrare il
Paradiso per i secchioni della politica, ma ha anche significative implicazioni per
le scelte del governo.
Gli effetti negativi di breve periodo per la crescita dovuti ad un taglio alla spesa
sono probabilmente maggiori quando l’economia è già in recessione, anche i
partner commerciali tagliano la spesa o rialzano delle tasse, il tasso di
interesse della banca centrale è vicino allo zero, e i mercati non hanno
particolare preoccupazioni circa la capacità dello stato di ripagare il proprio
debito. In tali condizioni, come quelle del 2009, il moltiplicatore può essere
vicino a due. Quindi sarebbe stato letale imbarcarsi allora in una politica di
controllo dei conti pubblici. Era corretta una politica di stimoli.
Ma quando l’economia è in piena espansione è improbabile che gli effetti di un
taglio della spesa siano dannosi. Dunque era giusto cominciare a programmare
un cambio di marcia quando la ripresa ha cominciato a materializzarsi.
Le cose sono più difficili quando le finanze pubbliche sono in uno stato di acuta
tensione ed i mercati sono preoccupati per la solvibilità statale, come nel caso
dell’Europa meridionale. Vi è scarsa evidenza empirica per questo insieme di
condizioni, perché casi di tal genere erano rari fino a poco tempo fa. Ma è
logico ritenere che il ripristino della sostenibilità delle finanze pubbliche possa
avere effetti fortemente positivi sulla fiducia dei mercati ed i tassi
obbligazionari. Al tempo stesso, se l’economia è già in forte contrazione, come
spesso accade in queste situazioni un taglio della spesa è destinato ad avere
gravi effetti negativi sulla domanda interna.
Il modo migliore per uscire dal dilemma è quello di adottare misure in grado di
migliorare le finanze pubbliche a lungo termine senza produrre effetti negativi
nel breve periodo, come la riforma del sistema pensionistico pubblico.
L’aumento dell’età pensionabile, per esempio, migliora le prospettive della
finanza pubblica, ma non pesa sulla domanda a breve termine.
Più in generale, sono auspicabili delle misure che credibilmente diano segnali di
una finanza pubblica più forte in futuro – assumendo, ovviamente, che i
governi abbiano ancora qualche credibilità. Nel caso in cui questa si sia
dissipata, come in Grecia, le promesse non hanno valore, ed ai governi non
resta altra scelta che il taglio immediato della spesa.
La comprensione di quali condizioni vengono soddisfatte, quando e come, può
aiutare a definire l’agenda odierna. L’economia globale attualmente è in una
fase di rallentamento; molti paesi europei – e l’Eurozona nel suo complessosono in recessione; i tassi di interesse delle banche centrali sono
eccezionalmente bassi, ed è improbabile un loro rialzo a breve; ed i paesi più
avanzati tagliano la spesa pubblica. Ciò comporta cautela nello sforzo di
risanamento. Allo stesso tempo, i rapporti debito-PIL aumentano ancora, e
molti paesi hanno perso l’accesso ai mercati o rischiano di perderlo, a causa
delle precarie condizioni delle loro finanze pubbliche. Ciò, invece, implica la
necessità di un ridimensionamento della spesa.
Sono dunque quattro le prescrizioni per i politici:
•
Ogni volta che è in gioco la sostenibilità della finanza pubblica (cosa che
accade più o meno in tutto il mondo avanzato, ad eccezione dell’Australia, del
Canada, e di pochi altri paesi dell’Europa settentrionale, inclusa la Germania) i
paesi dovrebbero continuare nelle politiche di risanamento, ma ad un ritmo
moderato.
• I governi non dovrebbero aumentare gli sforzi di risanamento solo perché il
rallentamento dell’economia riduce il gettito fiscale, e non dovrebbero mirare
ad obiettivi di disavanzo nominale nel prossimo anno.
• In condizioni di acuta pressione fiscale, i governi non possono permettersi di
frenare il risanamento di bilancio. Ma, per quanto possibile, dovrebbero dare
quanta più enfasi possibile alle riforme di spesa che migliorano le prospettive in
modo credibile, limitando nel frattempo gli effetti negativi nel breve periodo.
• Infine, i funzionari di tutto il mondo dovrebbero investire in quelle istituzioni
che aiutano a convincere i mercati del loro impegno verso la sostenibilità della
finanza pubblica. In condizioni di pericolo, i funzionari non dovrebbero fare
affidamento su scenari rosei e sperare di essere credibili. Piuttosto, dovrebbero
comunicare con chiarezza ai mercati ed ai cittadini come la pensano e cosa
intendono fare.
DOCUMENTO 9: La resilienza dei mercati emergenti
di Michael
12.10.2012
Spence
•
Tratto
da:
Http://www.project-syndicate.org
Anche nella fase prolungata di crescita inferiore ai trend da parte delle
economie avanzate, le economie emergenti continueranno ad essere un
importante motore di crescita.
In un contesto in cui gran parte del mondo è focalizzato sull’instabilità
economica e una crescita debole nelle economie avanzate, i paesi in via di
sviluppo (ad eccezione forse della Cina) hanno destato relativamente poco
interesse negli ultimi tempi. Tuttavia, come gruppo, anche le economie dei
mercati
emergenti sono state influenzate negativamente dalla recente flessione dei
paesi sviluppati. Saranno in grado di recuperare con le loro forze?
Le principali economie emergenti sono state il principale motore di crescita a
seguito dello scoppio della crisi finanziaria del 2008, e, fino a un certo punto, lo
sono ancora. Ma la loro capacità di ripresa è sempre stato un aspetto della loro
abilità di creare uno sviluppo cumulativo della domanda aggregata sufficiente a
sostenere la crescita senza dover compensare un eventuale calo consistente
della domanda nei paesi sviluppati.
Una combinazione di un tasso di crescita trascurabile (o addirittura negativo)
in Europa e di un importante rallentamento della crescita negli Stati Uniti ha
creato questa diminuzione della domanda, indebolendo in tal modo le
esportazioni delle economie emergenti. L’Europa è una delle destinazioni
principali delle esportazioni di molti paesi emergenti e rappresenta il mercato
più grande della Cina, che, a sua volta, è uno dei principali mercati dei prodotti
finiti, semifiniti (compresi quelli utilizzati per le esportazioni di prodotti finiti) e
dei beni. Gli effetti negativi derivanti dall’economia stagnante in Europa si sono
quindi diffusi rapidamente nel resto dell’Asia ed oltre.
Inoltre, il settore dei beni tradable dell’economia giapponese è altamente
vulnerabile nei confronti di un rallentamento dell’economia cinese, mentre il
recente conflitto sulle Isole Senkaku/Diaoyu ha aumentato il rischio del
cosiddetto sdoppiamento economico (decoupling). In ogni caso, la prestazione
economica giapponese è destinata a rimanere debole in quanto il settore dei
beni non-tradable non rappresenta un forte motore per la crescita.
Le domande chiave per l’economia mondiale di oggi sono pertanto legate
all’entità del rallentamento della crescita e alla sua durata. Con
l’implementazione di politiche lungimiranti in risposta a questo rallentamento,
l’impatto potrebbe tuttavia essere relativamente moderato e di breve durata.
Un aspetto chiave che getta un’ombra sul futuro è dato dalla trade finance. Le
banche europee, tradizionalmente una delle fonti principali di trade finance, si
sono tirate indietro radicalmente a causa dei problemi di adeguatezza di
capitale determinati dalle perdite legate al debito sovrano e, in alcuni casi,
dalle perdite nel settore dei prestiti immobiliari. Il vuoto che si è creato
potrebbe ridurre i flussi commerciali anche in presenza di una domanda
consistente. Pertanto, riempire questo vuoto con dei meccanismi alternativi di
finanziamento è diventata una delle principali priorità, soprattutto in Asia.
In particolare, sebbene il settore dei beni tradable in Cina sia altamente
esposto alle economie sviluppate, il governo opterà molto probabilmente per
un rallentamento a breve termine piuttosto di adottare delle misure di
incentivazione distorte. In generale, visto il rischio di nuove bolle finanziarie,
non ci si dovrebbe quindi aspettare un’agevolazione del credito simile a quella
che si è verificata dopo il crollo del 2008.
Un programma accelerato di investimento pubblico che eviti progetti a basso
rendimento non è del tutto fuori discussione. Ma le migliori, e più probabili,
politiche di risposta saranno quelle in grado di accelerare la crescita del
consumo interno aumentando il reddito familiare, di impiegare in modo efficace
il profitto derivato dai beni pubblici e in grado di rafforzare i sistemi di
previdenza sociale cinese al fine di ridurre il risparmio preventivo. E in effetti
questi elementi fanno tutti parte del dodicesimo piano quinquennale
recentemente adottato dalla Cina.
E’ pur vero che le principali riforme sistemiche della Cina attendono la
transizione della leadership del paese, prevista per novembre. L’ipotesi
maggiormente sostenuta è che il passo della riforma mirata ad espandere il
mercato dell’economia debba essere rapido al fine di ottenere gli ambiziosi
obiettivi economici e sociali dei prossimi cinque anni.
Alcuni paesi sono tuttavia andati contro la tendenza globale. L’Indonesia, ad
esempio, ha registrato una crescita in rapida espansione con un aumento del
business e della fiducia dei consumatori che hanno portato ad una crescita
degli investimenti fino a circa il 33% del PIL:
Allo stesso modo, nonostante una riduzione della crescita, il Brasile sembra già
in fase di ripresa, mentre la sua prestazione economica complessiva ha
registrato un dato importante, ovvero un tasso di crescita sostanzialmente più
elevato tra i cittadini più poveri ed un calo della disoccupazione. Il tasso di
crescita aggregata non riesce ad essere così esaustivo e tende pertanto a
sottovalutare l’avanzamento del progresso economico e sociale.
La sfida più grande per il Brasile è quella di avvicinare il suo tasso di
investimento, attualmente pari al 18% del PIL, al 25% sostenendo una crescita
rapida ed una diversificazione economica. La dipendenza dai beni rimane
comunque alta nonostante la creazione di un notevole valore aggiunto a livello
nazionale.
Anche i tassi di crescita economica in altri paesi sistematicamente grandi, tra
cui Turchia e Messico, sono cresciuti nonostante i trend contrari di Europa e
Stati Uniti. E molti paesi africani stanno, da parte loro, registrando uno schema
caratterizzato da basi macroeconomiche solide, un aumento della crescita
durevole, una diversificazione economica e fiducia da parte degli investitori.
Le prospettive dell’economia indiana rimangono invece incerte. Sebbene la
crescita abbia subito recentemente un rallentamento dei tassi molto elevati
(dovuto alla combinazione dell’esposizione alla debolezza dei paesi sviluppati,
della perdita dello slancio per le riforme interne e di un calo della fiducia degli
investitori), il trend di crescita sembra ora cambiare rotta a seguito di una
serie di manovre correttive da parte del governo. La questione principale è
tuttavia se il parlamento indiano riuscirà o meno ad approvare la legislazione
necessaria o se rimarrà invece paralizzato da chi ha interessi di parte e dalle
lotte interne alimentate dagli scandali.
Mettendo assieme questo quadro con il trend generale dei paesi in via di
sviluppo (redditi in aumento, crescita rapida delle classi medie, espansione del
commercio e degli investimenti, accordi bilaterali e regionali sul commercio
libero ed un aumento della quota del PIL globale (pari a circa il 50%)), lo
slancio per la crescita di queste economie dovrebbe ripartire in termini
relativamente rapidi nei prossimi 1 o 2 anni.
Gran parte dei rischi che potrebbero vanificare questo scenario sono legati
all’andamento delle importanti economie dell’Europa, degli Stati Uniti e della
Cina. Per far deragliare lo slancio della crescita delle economie emergenti in
questo momento si dovrebbe probabilmente verificare uno shock della
domanda nelle economie avanzate, oppure un fallimento della transizione della
leadership cinese che impedisca l’implementazione delle riforme necessarie con
un effetto negativo sulla crescita del paese. Malgrado le previsioni di una
crescita minima per tutto il mondo sviluppato, questi rischi sistemici, presi
singolarmente e in parallelo ad altri scenari, sembrano essere in calo (anche se
non a tal punto da non dover essere presi in considerazione).
A conti fatti, sembra probabile che i modelli di crescita a varie velocità che si
sono verificati negli ultimi decenni continueranno ad andare avanti. Quindi,
anche nella fase prolungata di crescita inferiore ai trend da parte delle
economie avanzate, le economie emergenti continueranno ad essere un
importante motore di crescita. Traduzione di Marzia Pecorari
È la crisi che ci fa cambiare
IL SOLE 24 ORE - 17 GIUGNO 2012
Dall'Unità in poi tante sono state le crisi che hanno offuscato l'economia
italiana, generate dalle cicliche congiunture negative del sistema capitalistico,
da malanni patologici intrinseci di ordine strutturale, o dal concorso di
entrambe queste cause. L'analisi dedicata da Paolo Frascani alle loro diverse
matrici e connotazioni ma anche ai loro risvolti politici e sociali fornisce alcune
chiavi di lettura per la comprensione, più in generale, della storia d'Italia.
Infatti, anche nel nostro Paese le strategie attuate di volta in volta per evitare
il peggio e riprendere il cammino hanno concorso a modificare l'assetto
politico, la morfologia sociale e la sensibilità collettiva, nonché la gerarchia dei
rapporti
internazionali.
Le pesanti misure fiscali, a cui si ricorse per affrontare la crisi economica del
1864-65, sovrappostasi a quella finanziaria dovuta al fardello dei debiti
ereditati dagli Stati preunitari, ebbero una forte incidenza non solo sulle
condizioni delle classi popolari ma anche sul patrimonio dei proprietari fondiari,
il nerbo sociale della Destra storica, che non riuscì così a mantenere il potere,
quantunque avesse raggiunto infine il pareggio del bilancio. D'altra parte, se il
crescente volume di opere pubbliche e il protezionismo doganale a sostegno di
un'incipiente industrializzazione, sotto i successivi governi della Sinistra
costituzionale, assecondarono la crescita dell'economia italiana tra il 1878 e il
1887, l'indebolimento avvenuto nel frattempo dei redditi e quindi delle
potenzialità dei produttori cerealicoli rese più gravi le conseguenze nel mondo
rurale della crisi esplosa negli anni Ottanta allorché crollarono in Europa i
prezzi agricoli. Per di più, il fallimento di importanti istituti bancari,
avventuratisi in azzardate speculazioni immobiliari, accrebbe l'impatto della
depressione economica, prolungatasi nel Vecchio continente sino al 1896.
Tuttavia, da un lato, la formazione di un emergente ceto di fittavoli nelle
campagne del Nord e, dall'altro, la creazione della Banca d'Italia per il
risanamento finanziario e creditizio posero le premesse non solo di un graduale
superamento della crisi ma anche della svolta politica di fine secolo, con
l'epilogo
dell'indirizzo
conservator-autoritario.
Successivamente, la robusta ripresa dell'economia europea d'inizio Novecento
(trainata da un grappolo di innovazioni tecnologiche, dall'espansione dei traffici
e dal drenaggio di risorse dai possedimenti coloniali) diede le ali anche al
nostro decollo industriale e alla comparsa alla ribalta di un' imprenditoria più
dinamica. Ma fu poi l'azione più incisiva dello Stato nella sfera economica,in età
giolittiana, ad agevolare l'uscita dalla brusca crisi del 1906-1907.
Che le misure adottate per venire a capo delle congiunture avverse, o per
attutirne gli effetti, abbiano posto le basi ogni volta di un processo di
interrelazione tra il versante economico e quello politico-sociale, è quanto
emerge chiaramente dalle vicende della Grande Crisi degli anni Trenta. Se
negli Stati Uniti il New Deal roosveltiano per riavviare il motore vide anche
l'avvento di nuove forze sociali ed elite intellettuali, altrove, nel mondo
occidentale, l'estensione dell'interventismo pubblico segnò il successo delle
componenti riformiste progressiste, come nelle democrazie liberali, o, per
contro il consolidamento di regimi autoritari, come in Italia e in Germania. Da
noi, in particolare, ad allentare la morsa della crisi contribuirono non solo le
cure dell'Iri per salvare banche e imprese decotte, ma anche l'uso efficace delle
comunicazioni di massa a presidio della dittatura e la guerra d'Etiopia e le
commesse che rafforzarono, rilanciandone le fortune, i principali Gruppi privati.
Dal secondo dopoguerra, la confluenza per oltre vent'anni fra politiche
keynesiane ed espansione del ciclo economico sospinse l'Italia come altri Paesi
dell'Occidente lungo i tornanti del capitalismo industriale e del Welfare. Ma
l'inconvertibilità aurea del dollaro nel 1971 e i due shock petroliferi del 197374 e del 1979-80 provocarono quella sorta di crisi economica inedita che fu la
stagflazione. E le terapie adottate per esorcizzarla determinarono, a cominciare
dagli Stati Uniti di Reagan e dalla Gran Bretagna della Thatcher, una
riconversione politica e ideologica a tutti gli effetti. Col revival delle teorie neoliberiste e individualiste si è assistito infatti sia alla rivalsa della cultura "neocon" sia a un'inversione dei rapporti fra Stato e mercato, nonché a un
mutamento degli equilibri sociali con un aggravamento delle diseguaglianze a
vantaggio dei più facoltosi e a scapito soprattutto dei ceti medi. A sua volta, la
globalizzazione di merci e capitali, assecondando l'ascesa dei Paesi emergenti,
ha segnato l'avvento di un sistema geo-politico tendenzialmente multipolare.
In questo contesto, contrassegnato in Occidente anche dalla rivoluzione
tecnologica post-fordista, ha finito poi col prevalere il big business, il potere
sempre
più
pervasivo
dell'alta
finanza.
Oggi che, dopo la crisi provocata nel 2008 dal turbocapitalismo, perdura una
fase recessiva densa di incognite, l'Italia si trova non solo a scontare anch'essa
i costi del "Washington consensus" e della deregulation. Se il nostro Paese ha
smesso da una decina d'anni di crescere e appare oggi come ingessato, lo si
deve anche al fatto che negli ultimi trenta-quarant'anni è andato perdendo
smalto e vigore quanto a produttività e competitività del suo sistema
economico, a causa della mancanza di adeguate politiche di programmazione
(nell'elettronica, nella chimica, nell'energia, nella ricerca) e si è dilatato nel
frattempo il suo debito pubblico (a causa di un abnorme ingrossamento della
spesa statale, dovuto a misure assistenzialiste e redistributive del reddito per
fini politici strumentali).
Crisi, aumentano i morosi: è boom di famiglie sfrattate
aumentate del 64% in 5 anni
Nel 2011 56mila famiglie italiane hanno avuto un provvedimento di sfratto per
morosità: nel 2006 erano quasi 34mila. Roma e Torino al top
IL GIORNALE – 24 GIUGNO 2012
Oltre a colpire i consumi, la crisi economica coinvolge anche il mattone: nel
2011 quasi 56mila famiglie italiane hanno avuto un provvedimento
di sfratto per morosità.
Il dato non è ancora quello definitivo, ma il ministero degli Interni fa sapere
che l'emergenza è perfettamente in linea con la situazione fotografata nel
2010. Nel giro di cinque anni, cioè da prima della crisi a oggi, gli sfratti per
morosità sono aumentati del 64%: nel 2006 erano quasi 34mila.
Roma è la città che conta il maggior numero degli sfratti per morosità: nel
2011, secondo i dati del ministero degli Interni, sono stati emessi 4.678
provvedimenti. Gli sfratti eseguiti nella Capitale con l’intervento dell’ufficiale
giudiziario sono stati 2.343. Tra le altre città spiccano i dati di Torino (2.523
sfratti per morosità), Napoli (1.557 in città e 1.255 nel resto della provincia) e
Milano (1.115 nel capoluogo ma ben 3.244 nel resto della provincia). Sempre
secondo i primi dati ufficiali, la difficoltà ad arrivare a fine mese e anche ad
onorare il canone di affitto, riguarda l’87% dei casi di sfratto che nel 2011 sono
stati complessivamente pari a 63.846. "Solo 832 i provvedimenti di sfratto
emessi invece per necessità del locatore - si legge nel comunicato - per finita
locazione sono stati 7.471". Le richieste di esecuzione presentate all’ufficiale
giudiziario sono state 123.914, mentre gli sfratti eseguiti 28.641.
La crisi spinge a «contaminare» i saperi d'impresa con la
ricerca
IL SOLE 24 ORE - 11 LUGLIO 2012
La dura consapevolezza di essere nel mezzo di una crisi di lungo periodo
sembra ormai avere preso il posto dei sentimenti di panico e dei tentativi di
rimozione della prima fase di ripiegamento. La crisi, a prescindere dalle
valutazioni morali o politiche che si possono fare, ti dicono gli imprenditori, si
configura come «momento di verità, quella che ti costringe a ripensare non
solo al modo, ma anche al senso del tuo intraprendere».
Un processo di modernizzazione imprenditoriale che ha trovato il suo limite
principale nella tradizionale tendenza adattiva dei sistemi di Pmi, laddove le
circostanze richiedevano di praticare una più pronunciata politica di
discontinuità.
La crisi, insomma, ha espresso una forza superiore all'elasticità del corpo
dell'impresa, spingendola non di rado oltre il punto di rottura. Troppi, si dice,
hanno prima assunto un «atteggiamento inerziale» poi, con il prolungarsi della
crisi, hanno tentato di operare trasformazioni più profonde ma fuori tempo
massimo rispetto al timing della crisi. Ed è sull'ampio segmento delle imprese
che «ancora hanno forza e prospettiva» che occorre attivare politiche di
accompagnamento finalizzate alla salvaguardia degli asset di competenze e di
fondamentali economici che fanno di queste imprese dei "quasi adatti" alla
complessità dello scenario. Le possibilità di superare la crisi sono perciò fatte
risalire alla capacità di sviluppare un pensiero strategico in rapporto
all'ambiente all'interno del quale si agisce. Comprendere le caratteristiche
strutturali di questo ambiente in trasformazione non è solo affare degli
imprenditori. Per questi è ormai quasi scontato investire intelligenza e risorse
in circuiti che alimentino
innovazione a 360°.
costantemente
la
capacità
di
sperimentare
Ad attivarsi per moltiplicare le chances di rigenerazione del tessuto
imprenditoriale troviamo anche tanti attori locali: enti locali, associazioni di
rappresentanza e Camere di commercio, pur essi sospinti al riposizionamento
dal vento della crisi. Mai come in questa fase gli attori sono portati a nutrire
speranze e a determinare aspettative in rapporto alle potenzialità derivanti
dalla progressiva contaminazione tra saperi di impresa e mondo della ricerca.
Innovazione e formazione sono due imperativi, intorno ai quali gli attori locali
sono impegnati nella costruzione di dispositivi di accumulazione, investimento
e disseminazione di quel fondamentale patrimonio di conoscenze scientifiche
da innestare sull'albero della manifattura per rinnovarne le potenzialità di
crescita.
Non c'è Camera di commercio che non abbia investito in questo senso, ogni
territorio ha il suo polo per il trasferimento tecnologico o parco scientifico sia
esso di natura pubblica o privata. Analogamente non c'è città capoluogo di
provincia nella quale non viga qualche accordo di programma incentrato su
attività di ricerca universitaria orientata al tessuto manifatturiero sia essa
decentrata da Milano o cresciuta localmente. Vedremo se queste iniziative,
nate sulla scia del policentrismo spinto, costituiranno un atout importante per il
rinnovamento del sistema produttivo in tempi di risorse pubbliche scarse,
quelle che, direttamente o indirettamente, sostengono i costi di tali nodi della
rete della conoscenza. Ma la competitività non è questione legata solo
all'innovazione tecnologica di processo o di prodotto (ad esempio Robur,
Feralpi, Guna, Novamont etc.). Innovare significa anche agire sulle
competenze dei collaboratori a tutti i livelli come fanno alcune imprese edili
(Meraviglia Spa) per migliorarne la produttività, investire in forme di
partnership con altre imprese in modo strutturato (non necessariamente
formalizzato) per aggredire nuovi segmenti di mercato furniture (Bellotti),
darsi strumenti per comprendere l'evoluzione di mercati geograficamente
lontani nella meccanica (3C Catene) o per delineare le tendenze degli
utilizzatori di packaging (Ghelfi Ondulati), darsi strumenti per passare dalla
comunicazione di un prodotto alla comunicazione di un mondo di valori e
significati a esso connessi (B&B, Lifegate).
CRISI GLOBALE
IL GIORNALE – 21 LUGLIO 2012
Sos. Sos da una Spagna che rischia di diventare la nuova Grecia. La lotta per
scongiurare il default nella penisola iberica, sembra essersi trasformata,
drammaticamente, in queste ore, in una battaglia contro i mulini a vento di
donchisciottesca memoria. Lo spread tra Bonos spagnoli decennali e Bund
tedeschi equivalenti ha infatti sfondato, ieri, il proprio record toccando quota
601
punti.
Una situazione perfettamente sintetizzata dalle parole il ministro del bilancio
spagnolo, Cristobal Montoro, al parlamento di Madrid : «La Spagna non ha un
soldo in cassa per pagare i servizi pubblici e se la Bce non avesse comprato i
titoli
di
Stato,
il
Paese
sarebbe
fallito».
Banche bocciate, richieste di finanziamento, titoli che crollano, spread che
aumenta questo il quadro di un Paese che sprofonda nel caos dopo che
Standard & Poor's ha tagliato il rating a cinque banche spagnole: Banca Civica,
Bankia, Bankinter, Banco Popular e Bfa e che tutti i Bonos a scadenza sono
stati acquistati dai nuovi acquirenti per una cifra che ha toccato i 2,98 miliardi
di euro, davvero troppo poco per una nazione che tenta di salvarsi con una
manovra che dovrebbe consentire di risparmiare 65 miliardi da qui al 2014.
L'Iva che passerà dal 1° settembre dall'8 al 21% con un aumento di ben 13
punti, l'eliminazione della tredicesima per gli statali con l'aumento delle ore
lavorative settimanali e la riduzione (da sei a tre) dei giorni liberi disponibili sta
seminando un malcontento in crescita esponenziale che anche ieri si è tradotto
nell'ennesima manifestazione di protesta alla Puerta del Sol con una folla che
intonava un unico slogan: «Che il prossimo disoccupato sia un deputato».
Una situazione appesantita dal taglio al sussidio di disoccupazione, che
passerà, dal settimo mese, dal 60 al 50% del salario percepito in un Paese
dove il salario minimo è congelato a 641 euro mensili. E poi ancora aumenti
del 13% delle tasse per centri estetici, discoteche, teatri, concerti e pure per i
servizi
funerari.
Con un ultima botta, ieri, che è arrivata da una delle più popolari compagnie
low cost, che ha sempre portato in Spagna una quantità industriale di turisti. Il
piano di austerity del governo di Madrid, che prevede anche l'aumento delle
tasse aeroportuali, ha infatti spinto a una drastica decisione Ryanair che,
bollando il rincaro come «folle», ha deciso che da novembre saranno soppresse
le 15 rotte tra Madrid Barajas e Barcellona El Prat, cioè un terzo del totale.
Anche gli altri 46 collegamenti interni alla penisola saranno eliminati, e altri 32
tagli saranno fatti nelle rotte per le isole Canarie. Ryanair prevede che
resteranno «appiedati» 2,3 milioni di passeggeri mentre sono a rischio 2mila
posti di lavoro. Nel frattempo molti per salvarsi dalla recessione hanno già
scelto la fuga da un Paese nel quale la disoccupazione giovanile supera il 50%.
Secondo i dati diffusi dall'istituto nazionale di statistica, nei primi sei mesi
dell'anno ben 40.625 spagnoli si sono trasferiti all'estero, il che significa il 44,2
per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2011. Sono inoltre 228.890 i
cittadini stranieri che hanno deciso di rientrare nei rispettivi Paesi. In
compenso re Juan Carlos, ha tagliato il suo appannaggio del 7,1% tiene a
puntualizzare la Real Casa, come altrettanto ha fatto il principe delle Asturie,
Felipe.
La riduzione dell'appannaggio sarà di 21mila euro l'anno per il monarca e di
diecimila per l'erede al trono sui compensi lordi, che sono rispettivamente di
292.752 e di 141.376 euro l'anno. Meglio soprassedere sui commenti al
riguardo comparsi in alcuni siti internet.
Fmi: i costi della crisi di Eurolandia
IL SOLE 24 ORE – 04 AGOSTO 2012
La via d'uscita è una sola, la cooperazione. Il Fondo monetario internazionale è
sicuro: il mondo, per contrastare i rischi - alcuni più probabili, altri meno anche
se "catastrofici" - derivanti dalle ricadute globali dei tanti focolai di crisi, può
fare solo affidamento al coordinamento delle politiche. Anche per evitare «un
patchwork globale di restrizioni ai flussi di merci e di capitali».
La raccomandazione è contenuta alla fine di un studio - l'esito di una lunga
stagione di ricerche empiriche - sui possibili "effetti diffusivi", o più
semplicemente le ricadute, delle risposte politiche alle varie situazioni di crisi
dei cinque maggiori Paesi, dalle turbolenze sui titoli di Stato in Eurolandia, alle
incertezze fiscali negli Stati Uniti, alla riduzione degli investimenti in Cina. Un
errore politico, nella gestione di queste situazioni, potrebbe rivelarsi
particolarmente dannoso in questa fase. Il punto di partenza è infatti la
maggiore correlazione tra i prezzi degli assets e tra i cicli economici dei vari
Paesi, che rende particolarmente "diffusive" le conseguenze delle tensioni.
Inevitabile che sia Eurolandia ad attirare le maggiori attenzioni: gli economisti
del Fondo monetario hanno elaborato degli scenari - sulla base di diversi
modelli
economici
che
sono
già,
in
parte,
diventati
realtà.
La crisi, che all'inizio si pensava fosse confinata ad alcuni Paesi, si è già estesa
a tutta l'area: i premi per il rischio (espressi dai rendimenti e quindi dagli
spread) di molte economie «sono guidati in modo predominante - spiega l'Fmi
- da un fattore comune e non dai rischi macro o di liquidità specifici di quel
Paese». Quel fattore comune esprime a sua volta molte influenze - prezzi del
petrolio, crescita globale, prospettive - ma anche dalla «valutazione del
mercato della più ampia azione (o inazione) politica. Le simulazioni - che
restano tali - mostrano che una perdita di produzione medio-alta o severa in
Eurolandia «determina in un calo equivalente in Gran Bretagna e nell'Europa
orientale, e uno più moderato ma ancora rilevante altrove». Per dare qualche
numero, uno shock del 5% del Pil della Uem si tradurrebbe in una flessione
superiore al 4,5% nel Regno Unito e vicina al 2% negli Usa.
Una parte di queste ricadute si sono già dispiegate, o avrebbero dovuto:
l'analisi ipotizza uno shock da tre punti percentuali negli spread della periferia,
e di questi 1,5 si sono effettivamente aggiunti dopo la fine della ricerca. Gli
effetti non sono stati così forti come previsto, spiega il Fondo, solo grazie alla
residua fiducia nella capacità dei politici di affrontare la crisi. Ancora limitati
anche gli effetti del deleveraging all'estero delle banche: dove le aziende di
credito europee hanno ridimensionato la presenza, altri player sono
intervenuti. Non è detto che questa "sostituzione" continui però. Anche in
questo
caso,
il
Paese
più
colpito
sarebbe
la
Gran
Bretagna.
Pesanti sono pure le possibili ricadute del fiscal cliff americano, lo scattare
automatico - in assenza di accordo politico - di tagli alle spese e aumenti di
tasse nel 2013. Le previsioni variano da un "colpo" al Pil dell'1,2%, nel caso in
cui la Fed corregga gli effetti, a uno del 4,8%, con ricadute forti in Messico e
Canada, e un po' meno intense in Cina, Gran Bretagna e Germania.
Analogamente, una crisi di lungo periodo nella sostenibilità fiscale creerebbe
danni superiori, in proporzione, a quelli della crisi di Eurolandia, insieme a una
"fuga verso la salvezza" dei capitali verso materie prime e liquidità. Limitati,
invece, gli effetti della politica monetaria aggressiva della Fed, che resta quindi
un'opzione
valida
(e
consigliata
dall'Fmi).
Da non sottovalutare, infine, la flessione degli investimenti in Cina. Una frenata
nella loro crescita di un punto percentuale (dalla media del 14% annuo)
avrebbe effetti molto forti in Asia, e più piccoli ma non irrilevanti in Germania e
Giappone.
Con la crisi è boom di prestiti tra privati
IL GIORNALE – 20 AGOSTO 2012
Privati cittadini che si prestano i soldi tra di loro. Partendo da questa idea è
nata una delle società che anche in periodo di crisi riesce a veder crescere il
suo giro d'affari. In sintesi funziona così: si entra in un sito internet e dopo
essersi registrati si può chiedere o offrire del denaro. I richiedenti espongono il
loro progetto ai gestori della piattaforma online e, se passa l'esame degli
esperti, viene spiegata ai prestatori che decidono se finanziarla. Prestiamoci,
questo il nome del sito che fa capo alla società Agata, ha visto salire i numeri
della sua comunità negli anni della crisi: da meno di duemila nel 2010 a
settemila di oggi. E parliamo di utenti attivi perché calcolando chi segue il blog
o si informa sul sistema siamo a oltre diecimila. Tra i primi, Milano e la
Lombardia fanno la parte del leone non solo per le oltre mille persone
registrate: la maggioranza dei contatti al sito sono generati dalla regione e allo
stesso tempo è la zona geografica dove risiedono un quarto dei prestatori
attivi. Senza contare che il 17% dei prestiti erogati è stato accordato proprio a
cittadini
lombardi.
L'idea di importare un sistema americano è stata di Mariano Carozzi, milanese
trapiantato a Ivrea, con alle spalle una famiglia brianzola: negli Stati Uniti il
«social lending», cioè la raccolta di fondi tra privati cittadini è in uso da anni.
Nel Belpaese invece è appena arrivata ed è stata italianizzata per le differenze
normative: una società simile a Prestiamoci è stata chiusa dalla Banca d'Italia
per un periodo perché le leggi per raccogliere soldi sono più stringenti che negli
Usa. Nonostante ciò a questo settore non mancano i numeri: ad oggi
attraverso il sito di Carozzi sono transitati 1,2 milioni di euro per 244 progetti
che vanno dalle spese mediche a quelle generiche per la famiglia. Ma c'è anche
chi chiede soldi per cambiare l'auto o per ristrutturare una parte della casa.
Tutte persone che nella gran parte dei casi, esattamente l'84%, rientra dai
prestiti senza alcun problema e che per un altro 9% lo fa senza troppe
difficoltà. E comunque il rischio viene sempre ridotto dal sistema di
frazionamento del capitale investito: chi mette a disposizione i liquidi sceglie il
genere di investimento, ad esempio in base al tempo di rientro o a agli
interessi che vuole recuperare, poi gli stessi gestori del sito provvederanno a
suddividerlo in tante piccole quote. Nel complesso un sistema per ottenere o
investire i propri risparmi a dei tassi che sono lievemente più bassi dei normali
valori applicati dalle banche. Per capire quanto margine di sviluppo abbia
ancora questa attività basta vedere le richieste avute ultimamente: solo a
luglio sono arrivate domande di finanziamento per oltre un milione di euro. Un
dato in crescita rispetto anche solo agli ultimi mesi e causato anche dalle
contingenze
del
sistema
economico.
La selezione dei progetti però elimina molti dei richiedenti, non solo per motivi
di soldi: «Oltre a controllare l'affidabilità economica di chi vuole il prestito –
spiega Carozzi – controlliamo anche chi è la persona in relazione a ciò che ci
chiede: se uno si dichiara ambientalista e ecologista e poi ci chiede denaro per
un fucile da caccia, come minimo prima gli facciamo qualche altra domanda
per capire fino a che punto sembri solo a noi una richiesta singolare». Una
forma di tutela e accertamento che fa sì che i crediti a rischio sul capitale
erogato sia inferiore al 7 per cento.
Europa
solidale
con
per evitare il pericoli populista
giovani
e
poveri
IL CORRIERE - 10 SETTEMBRE 2012
Qualche anno fa, agli albori della grande crisi, la Commissione europea
organizzò un seminario a porte chiuse sulla dimensione sociale e la legittimità
democratica dell'Ue. Vennero illustrati alcuni sondaggi che mostravano
un'allarmante crescita dell'insicurezza economica e del disagio sociale dei
cittadini e, quel che è peggio, una perdita generalizzata di fiducia sulla capacità
dell'Ue di fornire soluzioni concrete. Segmenti importanti delle opinioni
pubbliche nazionali anzi attribuivano a Bruxelles la responsabilità della crisi già
iniziata. Nel mezzo della discussione, un esponente di primo piano della
Commissione prese la parola e disse: conosciamo bene questi dati, siamo noi
che finanziamo i sondaggi. Ma l'Ue sta facendo le cose giuste, «sono i cittadini
che hanno torto».
Questo episodio la dice lunga sulla scarsa sensibilità(ma forse si tratta di
una impreparazione culturale) delle tecnocrazie europee a misurarsi con il
tema del consenso. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la crisi dell'euro si è
ormai trasformata in una crisi di legittimità dell'Unione Europea. Populismi di
destra, massimalismi di sinistra, difficoltà crescenti dei partiti di governo a
mantenere la rotta europea, sostegno popolare nei confronti della Ue ai minimi
storici: l'ondata non ha investito solo la «viziosa» Grecia, ma anche la
«virtuosa» Olanda ed è pronta a colpire nelle prime
elezioni utili molti altri Paesi, compreso il nostro.
I politici nazionali hanno anch'essi giocato un
ruolo di primo piano nell'attizzare il fuoco
populista. Per anni hanno scaricato il biasimo per le
riforme impopolari (pensioni, mercato del lavoro,
liberalizzazioni) su Bruxelles e Francoforte. Quante volte
abbiamo sentito dire: dobbiamo farlo, ce lo chiede l'Europa? Per un po' il gioco
è riuscito, ha effettivamente attutito l'opposizione di elettorati recalcitranti al
cambiamento. Ma al prezzo di erodere, riforma dopo riforma, il sostegno verso
un'Unione presentata sempre più come un «cane da guardia», quasi una
maniaca del rigore per il rigore. Sfortunatamente, a causa di un complesso di
ragioni non tutte europee, i vantaggi delle riforme già fatte tardano ad
arrivare, ma il «cane da guardia» Ue continua a chiedere sacrifici ai «viziosi» e
ora vorrebbe anche costringere i «virtuosi» a pagare di più. Come stupirci se in
queste condizioni il mercato politico ha aperto nuovi spazi alla propaganda
antieuropea, a Sud come a Nord? Se la tendenza continua, rischiano di venir
meno le stesse condizioni di possibilità politico-sociale del progetto di
integrazione.
Che a Cernobbio Monti e Van Rompuy abbiamo riconosciuto il problema
e la necessità di reagire è, finalmente, un segnale positivo, un primo atto di
etica della responsabilità (politica) esercitato a favore dell'Ue in quanto tale.
L'importante è che il sassolino lanciato produca una svolta non solo sincera e
condivisa da tutti i leader, ma anche concreta nelle sue proposte d'azione. Il
messaggio da elaborare e comunicare non è quello «contro» i populismi, ma
«per» una Ue più amica e sensibile ai bisogni dei cittadini.
Opportunità per i giovani, lotta alla povertà, nuovi investimenti in un
«sociale» che porti insieme più inclusione e più crescita (istruzione, ricerca,
servizi): queste le tematiche su cui insistere e formulare proposte puntuali.
Moltissimi spunti sono già sui tavoli di Commissione, Parlamento e persino Bce.
Pensiamo alla Youth Guarantee, ossia l'obbligo da parte di ogni governo di
offrire formazione, lavoro o tirocini a tutti i giovani che finiscono la scuola.
Oppure all'idea di vincolare i Paesi a dotarsi di uno schema di reddito minimo di
inserimento, entro un quadro di regole definite a Bruxelles. Si potrebbe anche
considerare la proposta di un vero e proprio Social Investment Pact: incentivi e
penalità per Paesi che non rispettino obiettivi comuni in termini di povertà
relativa, rendimento scolastico, politiche di conciliazione e di parità e così via.
Difendere l'euro e far ripartire la crescita restano, beninteso, obiettivi
imprescindibili. Ma il loro perseguimento non preclude certo l'impegno su fronti
che hanno una visibilità e un impatto più diretto sulla vita quotidiana degli
europei. L'iniziativa di Monti avrà successo nella misura in cui riuscirà a far
emergere una Ue più impegnata a proteggere i più deboli, tramite un
programma accattivante sul piano simbolico e davvero convincente sul piano
pratico.
PS. Anche su questo terreno, per essere credibili bisogna fare i compiti a casa.
L'Italia ha un tasso di povertà (soprattutto fra i minori) molto elevato e il
Programma nazionale di riforma 2012 non contiene nessuna misura seria per
rispettare i target Ue. Sarebbe un vero peccato se il governo Monti non
lasciasse in eredità un Piano per l'inclusione sociale degno del nome e
articolato in base alle indicazioni europee, come hanno già fatto ventuno Paesi
membri su ventisette.
Edilizia, crisi choc: per l'Istat la produzione crolla del 14% su base
annua
IL SOLE 24 ORE - 19 settembre 2012
Accelera nel 2012 la crisi dell'edilizia (in corso dal 2008). A confermarlo è lstat,
che oggi ha diffuso i dati di giugno-luglio della produzione nelle costruzioni.
Il dato più significativo, quello tendenziale, segnala un calo del 14,2% tra il
dato di luglio 2012 e quello di luglio 2011, e nei primi sette mesi dell'anno una
contrazione del 13,9% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il dato
sulla produzione, quello comunicato oggi dal'Istat, comprende gli investimenti
in costruzioni (l'indicatore che viene utilizzato da Ance e Cresme per le loro
analisi congiunturali sul settore) ma anche la manutenzione ordinaria (privata
e
pubblica)
del
patrimonio
edilizio
e
infrastrutturale.
A luglio 2012 l'indice destagionalizzato della produzione nelle
costruzioni è diminuito, rispetto a giugno 2012, del 2,2%. Nella media del
trimestre maggio-luglio l'indice ha registrato una flessione dell'1,4% rispetto al
trimestre
precedente.
L'indice corretto per gli effetti di calendario a luglio 2012 è diminuito in
termini tendenziali del 14,2% (i giorni lavorativi sono stati 22 contro i 21 di
luglio 2011). Nella media dei primi sette mesi dell'anno la produzione si è
ridotta del 13,9% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
A luglio 2012 l'indice grezzo ha segnato un calo tendenziale dell'11,2%
rispetto allo stesso mese del 2011. Nella media dei primi sette mesi dell'anno
la produzione è diminuita del 13,2% rispetto allo stesso periodo dell'anno
precedente.
«Il dato sulla produzione - commenta Antonio Gennari, direttore Ufficio
studi Ance - è più fluttuante di quello sui soli investimenti, e risente molto di
fattori stagionali o imprevedibili. Tuttavia non può non essere preoccupante
quel che emerge dai dati Istat, e cioè il consolidarsi di una pesante tendenza al
ribasso della produzione, anche nei mesi estivi. In effetti anche noi come Ance
abbiamo la percezione che i cantieri si stiano fermando, in primis nel privato,
nell'immobiliare, ma anche nel pubblico come conseguenza del ritardo nei
pagamenti, fenomeno che ormai non riguarda più solo le piccole stazioni
appaltanti, ma anche i grandi enti, come dimostra il caso Anas».
«È ancora presto, comunque - conclude Gennari - per dire se il dato Istat di
oggi porterà a un peggioramento della nostra previsione congiunturale per il
2012, attualmente al -6,0%. D'altra parte lo stesso Istat ha di recente
pubblicato la nota sul Pil, con previsione del -6,3% per gli investimenti fissi
lordi in edilizia nel 2012» (si veda l'articolo correlato). «E poi - aggiunge speriamo che l'aumento degli incentivi al recupero (decreto Sviluppo) possa
avere un effetto sugli investimenti in recupero e sulla manutenzione a partire
da
questa
parte
finale
del
2012».
«Il crollo della produzione nel settore delle costruzioni - dichiara Domenico
Pesenti, segretario generale della Filca-Cisl - sembra inarrestabile.
L'ultimo dato diffuso dall'Istat dimostra che siamo di fronte ad una crisi senza
precedenti, per la quale sono indispensabili interventi urgenti e radicali.
L'esecutivo non può più perdere tempo, i lavoratori edili espulsi dal mercato
sono centinaia di migliaia e rappresentano un problema sociale di non poco
conto,
aggravato
dalle
norme
sull'età
pensionabile».
«Il tempo degli annunci è finito - aggiunge Pesenti - e il governo deve
ascoltare quanto il sindacato ripete con forza da anni insieme all'associazione
dei costruttori, e mettere in atto misure utili a risalire la china. Un primo
provvedimento è l'allentamento del Patto di stabilità per i comuni virtuosi, per
metterli nelle condizioni di investire per la qualità delle città e la messa in
sicurezza del territorio. Inoltre continuano ad essere numerosissime le aziende
in difficoltà che vantano però crediti nei confronti della Pubblica
amministrazione per lavori già compiuti. Si tratta di ritardi inaccettabili, ed è
per questo che chiediamo il recepimento nei tempi più brevi possibili della
direttiva Ue sui pagamenti della PA».
«Così possiamo sconfiggere la crisi»
IL GIORNALE – 13 OTTOBRE 2012
L'evidente crisi del comparto nautico chiede alle fiere di settore nuove risposte
capaci di promuoverne la qualità e di rilanciarne l'immagine internazionale.
«È da tempo - ha sottolineato Vincenzo Zottola, organizzatore dello Yacht Med
Festival di Gaeta - che sosteniamo la necessità di una riorganizzazione del
sistema fieristico intorno a una differenziazione dell'offerta, che deve però
essere sempre e comunque rappresentativa di un'area interregionale,
nazionale o mondiale».
Mentre da un lato il Salone di Genova prosegue, pur nelle difficoltà, il suo
percorso di valorizzazione della nautica, dall'altro lo Yacht Med Festival di
Gaeta potenzia il suo modello multidisciplinare legato all'Economia del Mare. I
due eventi lasciano in dote alle istituzioni due punti di forza su cui costruire il
progetto
di
sviluppo
del
Paese.
«Non semplifichiamo le difficoltà di quest'anno del Salone nautico di Genova aggiunge Zottola - riducendole alla crisi economica. Il messaggio che ci arriva
è chiaro: dobbiamo richiamare le istituzioni nazionali a un senso di
responsabilità, che si stringano intorno ai punti di forza del Paese. È questo che
noi stiamo cercando di fare con lo Yacht Med Festival, vero e proprio progetto
di promozione e valorizzazione della cultura e dell'Economia del Mare
attraverso una rete più ampia di istituzioni, associazioni e imprese».
Per Zottola, dunque, la risposta alla crisi sta già da tempo nella formula stessa
della manifestazione. Un modello innovativo e vincente che unisce in un unico
format espositivo la nautica e gli altri settori tradizionalmente legati al mare
come il turismo, la pesca, la formazione, la portualità, la logistica e i trasporti
alla promozione delle produzioni tipiche, dell'artigianato artistico e del
patrimonio storico e culturale. La strada scelta è quella della valorizzazione
della nautica italiana attraverso la creazione di un grande evento capace di
catalizzare l'attenzione dell'intero Mediterraneo. Enogastronomia, laboratori
artigiani, musica e animazione, sono solo alcuni degli ingredienti che fanno
dello Yacht Med Festival un appuntamento da non perdere per visitatori,
appassionati
ed
esperti.
I numeri registrati nel 2012 collocano la Fiera Internazionale dell'Economia del
Mare tra gli eventi più importanti del nostro Paese, con oltre 186mila visitatori,
8 milioni di euro di indotto stimato e 27mila operatori coinvolti. Al centro
dell'edizione 2013, in programma a Gaeta dal 20 al 28 aprile prossimi, il
turismo
nautico.
«In questo momento - conclude il presidente della Camera di Commercio di
Latina e vicepresidente Unioncamere Lazio, Vincenzo Zottola - dobbiamo
sostenere l'unico settore già pronto per rilanciare l'intero comparto legato al
mare, attraverso azioni di sistema integrate, a partire dalla messa in rete dei
porti turistici italiani, dalla valorizzazione del charter nautico e da un grande
lavoro di tutela e promozione dell'immagine. Non possiamo prescindere,
inoltre, da un rafforzamento del legame con la formazione specializzata, che
deve rispondere sempre più alle esigenze del mercato in ogni settore».
Proseguono, intanto, i lavori per la complessa organizzazione della sesta
edizione.
Edizione
che
si
preannuncia
ricca
di
novità.
Eccone
alcune:
Secondo Forum Nazionale sull'Economia del Mare (lunedi 22 aprile 2013). I
principali attori dei settori legati al mare si confronteranno con l'obiettivo di
rafforzare il peso dell'Economia del Mare nel sistema nazionale e di individuare
le principali strategie di sviluppo affinché l'Italia affermi la propria leadership
nel
sistema
Euro-Mediterraneo.
Stati generali delle Camere di Commercio: le Cciaa italiane si incontreranno per
la prima volta con l'obiettivo di affermare il proprio ruolo nella definizione delle
politiche di sviluppo dell'Economia del Mare, mettendo a confronto sistemi già
adottati, buone pratiche e progetti da intraprendere anche in forma associata.
Convegno nazionale istituti nautici: si tratta del terzo appuntamento con gli
Istituti nautici italiani, ora rinnovato. Dopo la firma nel 2012 di una importante
e partecipata convenzione, l'obiettivo 2013 è il rafforzamento del legame
essenziale
tra
mondo
formativo
e
imprenditoriale.
Primo workshop nazionale dell'Assonautica Italiana: sarà un importante
momento di confronto per direttori e presidenti delle Assonautiche italiane, che
hanno scelto lo Yacht Med Festival per approfondire le modalità di integrazione
e
azione
tra
le
diverse
realtà
territoriali.
Salone della portualità turistica italiana: per la prima volta in Italia, un salone
dedicato
esclusivamente
ai
porti
turistici
italiani.
Buy Med: incontri mirati tra domanda e offerta legate ad alcuni settori
dell'Economia del Mare, come nautica, turismo, agroalimentare, artigianato.
Eat Med: confermata l'area dedicata all'enogastronomia del Mediterraneo, con
degustazioni, esposizioni, seminari e incontri che coinvolgeranno importanti
chef
e
le
produzioni
tipiche
più
famose.
Festival internazionale editoria del mare: secondo appuntamento con il Festival
che si articola intorno a una mostra mercato, incontri letterari e una biblioteca
sul
mare.
Art Med: l'arte e l'artigianato del Mediterraneo si racconteranno attraverso
esposizioni, mostre, dimostrazione e incontri. Novità di quest'anno, un'area
dedicata esclusivamente a un laboratorio dimostrativo.
Baratto2.0 alternativa anti-crisi
IL SOLE 24 ORE - 21 OTTOBRE 2012
Milton Friedman, il grande monetarista e premio Nobel dell'economia, era
ossessionato dalla creazione di moneta: qualcosa da sottrarre alle prepotenze
dei satrapi, alle dissipazioni dei monarchi assoluti, e, più recentemente, alle
tentazioni elettorali dei governi.
Voleva un meccanismo automatico, che avrebbe innalzato ogni anno la
quantità di moneta a un ritmo prefissato, calibrato sulle necessità di
un'economia (sperabilmente) in crescita. Questi desiderata non si sono mai
tradotti in realtà, ma non sono mancati altri tentativi di trovare modi diversi di
creare moneta. La tecnologia offre oggi un ventaglio di possibilità: una delle
più ingegnose monete virtuali è il bitcoin. A differenza di quelle create nel
mondo dei videogiochi, che hanno una circolazione limitata ai patiti dei
Mmorpg (Massively Multiplayer Online Role-Playing Games), i bitcoin hanno
l'ambizione di essere una vera moneta.
Il sogno degli alchimisti medioevali - trasmutare in oro il vile metallo - è stato
realizzato da moderni stregoni. E il riferimento non è al sapiente magistero
alchemico della "nuova finanza", che trasformava mutui di serie B in titoli
cartolarizzati a tripla A, ma ad altre trasmutazioni che si situano al confine fra
il virtuale e il reale e trasformano le fiches dorate dei giochi elettronici in oro
vero, i soldi finti in soldi sonanti. Ci sono, dietro i Mmorg (il più conosciuto è il
"World of Warcraft"), almeno 50 milioni di giocatori. I loro avatar si muovono,
combattono, vincono e perdono... Ma, superando certe prove in quel mondo
virtuale denso di mirabolanti avventure possono accumulare un "tesoretto" e
con queste valute acquistare nuove armi e crescere, se non in sapienza e in
grazia, in possanza e forza letale. Il bitcoin è invece una valuta virtuale la cui
creazione è affidata a un ingegnoso meccanismo: viene creata, a piccole dosi,
attraverso la forza bruta di computi matematici nei computer degli utenti, e la
quantità che può essere creata è delimitata sia presso i "creatori" (attraverso
complessi ma automatici processi di validazione da parte degli altri "creatori")
sia nel tempo. Arrivati a un certo limite di creazione di bitcoin - attualmente
fissato a 21 milioni per il 2030 - la creazione cesserà e, ammesso e non
concesso che il bitcoin diventi la moneta mondiale, per accomodare una massa
crescente di transazioni bisognerà che i prezzi scendano, anno dopo anno.
Naturalmente, perché il bitcoin sia realmente utile, bisogna che sia largamente
accettato. Bisogna convincere chi compra e chi vende a pescare nel
"portafoglio elettronico" per riscuotere e pagare. Come tutte le "grandi" (?)
invenzioni, il bitcoin ha avuto esordi difficili: il suo valore in termini di dollari (ci
sono dei siti dove si possono cambiare i bitcoin in soldi veri e viceversa) è
schizzato da 30 centesimi a 30 dollari e poi è ridisceso a 2 dollari e ora oscilla
sui 12. Chi non teme le montagne russe può cavalcare questa moneta virtuale,
e i suoi propugnatori sostengono che ci sono sempre più esercizi che accettano
i bitcoin in pagamento: sembra sia in arrivo anche una Mastercard denominata
in questa nuova moneta. Sarà. Ma non è chiaro se i vantaggi dei bitcoin
compensino gli svantaggi, primo fra tutti le opportunità che offre a chi voglia
riciclare fondi (c'è un oscuro angolo del web, Silk Road, dove si commercia la
droga usando i bitcoin). L'attrattiva principale, secondo gli estimatori, è il fatto
che la creazione dei bitcoin viene sottratta al capriccio delle autorità monetarie.
Ma la mancanza di controlli - il decentramento caratteristico di internet, una
ragnatela che non ha centri direzionali - è anche la sua grande debolezza:
lascia spazio ad abusi. Non arriverà mai ad avere la massa critica necessaria
per essere una vera moneta, perché l'utente medio avrà sempre paura che, nei
meandri della cibernetica, si creino raggiri e rapine elettroniche.
Tentativi più utili di creazione di monete virtuali sono quelli che si risolvono in
forme sofisticate di baratto. Una moneta creata in Italia con un nome islandese
("dropis", che vuol dire gocce) ambisce a masse critiche più modeste
consentendo a chi voglia mettere a disposizione i propri servizi a favore di altri
membri della comunità dropis di scambiarli con altri servizi o altri beni. Si
tratta di iniziative oggi favorite dalla disoccupazione: chi non trova lavoro, ma
ha braccia e cervello, può offrire i propri prodotti o i propri servizi online, e
pagare il conto al macellaio (membro dropis anche lui) usando dei crediti
accumulati con il proprio lavoro in favore del macellaio stesso o di altri membri
del gruppo.
Scuola,
doppio
corteo
Blitz alla Sapienza e al Colosseo
degli
studenti
IL CORRIERE - 8 NOVEMBRE 2012
Migliaia in piazza contro la legge ex-Aprea: da Cinecittà a Ponte Milvio. Flash
mob al Colosseo. Annullata manifestazione venerdì
ROMA - Studenti in corteo giovedì mattina per le vie di
Roma, nel municipio X e non solo, per protestare contro
la legge ex-Aprea. E un' altra manifestazione, promossa
dagli studenti del blocco studentesco, si svolgerà venerdì
dalle ore 9 alle ore 13 in piazza Pier Carlo Talenti altezza
via
Ettore
Romagnoli.
Giovedì, come racconta Ateneinrivolta, sono partiti in
circa 500 per la manifestazione principale (da piazza Cinecittà) «toccando» le
scuole della zona, con inevitabili ripercussioni sul traffico. Altri ragazzi si sono
uniti man mano, raggiungendo, secondo gli organizzatori, i circa 1.000
partecipanti. Il corteo doveva concludersi in largo Appio Claudio, ma ha
imboccato via Tuscolana, cambiando così il percorso inizialmente concordato e
«paralizzando» la strada per una mezz'ora.
Scuola,
corteo
degli
studenti
alla
Sapienza
e
al
Colosseo
«OCCUPAZIONE SIMBOLICA» - Al grido di «Noi la crisi non la paghiamo»,
«Tutti insieme facciamo paura», e «Se ci bloccano il futuro, noi blocchiamo la
citta’», i ragazzi e le ragazze si sono fermati sulla via e come hanno detto dal
megafono gli organizzatori della protesta, «stiamo occupando la Tuscolana
simbolicamente».
Lo striscione di Lotta Studentesca davanti alla Rai di
Viale Mazzini
PONTE MILVIO - Proteste in piazza anche a Ponte
Milvio, con un'altra «marcia» organizzata dagli studenti
di Roma Nord e da Blocco Studentesco. Si tratta di
alcune centinaia di ragazzi. (3mila, secondo Blocco
Studentesco) che hanno sfilato in corteo fino in corso Francia bloccando parte
della strada. E Alcuni ragazzi di Lotta Studentesca hanno srotolato striscioni
davanti alla sedi Rai di viale Mazzini e piazzale Clodio e alla sede di La 7 per
protestare contro «la cattiva informazione operata dai media sulla Legge Aprea
e le seguenti contestazioni studentesche».
Il flash mob al Colosseo (Jpeg)
FLASHMOB AL COLOSSEO - Intanto, studenti e docenti
del liceo Cavour di Roma hanno organizzato un flashmob e bloccato il traffico in via dei Fori Imperiali con una
lezione alternativa e calando uno striscione con scritto
«Basta ai tagli, studenti e docenti» per dimostrare il loro
dissenso nei confronti della ex legge Aprea che riforma gli organi collegiali e,
secondo chi protesta, «colpisce la democrazia interna agli istituti: con esso
infatti il consiglio di istituto diventa consiglio di autonomia, potranno esserci
due esterni con diritto al voto per le decisioni interne alla scuola, ed un terzo
che si occuperà dell'economia».
BLITZ ALLA SAPIENZA - Sempre giovedì mattina, un centinaio di studenti
della Sapienza, secondo quanto spiega una loro nota, ha provato ad entrare
nell'aula magna del rettorato, dove era in corso la conferenza «Armi
cibernetiche e processo decisionale». «Siamo stati bloccati dalla Polizia sulle
scale del rettorato e allontanati a manganellate», dicono. Gli studenti quindi
hanno dato vita ad un sit-in di protesta sotto al rettorato chiedendo: «Quando
si smetterà di finanziare armi e guerra e si investirà invece sull'università e sui
saperi?».
CORTEO DI VENERDì - Contrariamente a quanto era stato annunciato la
manifestazione promossa dagli studenti del «Blocco studentesco», che avrebbe
dovuto svolgersi venerdì dalle ore 9 alle ore 13 in piazza Pier Carlo Talenti
altezza via Ettore Romagnoli, è stata annullata. Lo comunica Agenzia per la
mobilitá.
Crisi, crolla il lavoro. Anche quello nero
28 NOVEMBRE 2012 – IL CORRIERE
Emerge
dalle
indagini
dell'Inps
Aumentano anche le malattie professionali
della
Campania
nel
2012
NAPOLI - La crisi in Campania morde anche il lavoro
nero. È quanto emerge dalle indagini dell'Inps della
Campania nel 2012. «Registriamo un minore numero di
lavoratori al nero rispetto ai due anni precedenti, periodi
in cui c'era già la crisi», spiega Maria Grazia Sampietro,
direttore dell'Inps Campania a margine di un convegno a
Napoli sulla riforma del mercato del lavoro. «Le aziende
campane - spiega la Sampietro - sono in crisi e non solo non assumono
lavoratori regolari, ma non prendono più neanche dipendenti a nero».
INAIL, PIU' MALATI - Crescono i casi di malattie professionali in Campania.
È quanto emerge dall'annuale rapporto Inail presentato oggi in Camera di
commercio. Se, infatti, diminuiscono gli infortuni sul lavoro e le morti bianche,
le malattie professionali sono in netto aumento e fanno registrare un +12,78%
rispetto al 2010. «Questo dato - dice il direttore generale di Inail Campania,
Emidio Silenzi - è comunque positivo perchè significa che stiamo riuscendo a
far emergere questi casi fino a ora poco censiti. C'è infatti una difficoltà
oggettiva - dice Silenzi - mentre per gli incidenti sul lavoro si ha un riscontro
immediato, per le malattie abbiamo un'insorgenza negli anni e quindi diventa
difficile monitorarle». Secondo il rapporto Inail, le denunce sono state 1.641
concentrate soprattutto nel settore dell'industria e dei servizi con 1.327 casi.
Seguono i 295 casi in agricoltura e i 19 di dipendenti statali. Resta però il dato
positivo, rispetto al 2010, degli infortuni e delle morti bianche che fanno
posizionare la Campania al secondo posto nella classifica del maggior ribasso.
Gli infortuni denunciati sono 21.921, l'11,09% in meno rispetto al 2010. I
morti sono stati 58, 14 in meno rispetto all'anno precedente. Anche per gli
infortuni il settore più colpito è quello dell'industria e dei servizi con 18.179
casi. Seguono i dipendenti statali con 2.047 e gli agricoltori con 1.695 casi.
NAPOLI MAGLIA NERA - Nella ripartizione provinciale Napoli ha la maglia
nera con 9.785 casi, ma con il 12,70% in meno rispetto al 2010. Seguono il
Salernitano e il Casertano, rispettivamente con 9.785 casi (il 12,70% in meno)
e 3.159 (-8,63%) e in coda la provincia di Avellino con 1.927 casi (-13,8%) e
quella di Benevento con 1.472 casi (-12,64%). Anche per quanto riguarda gli
incidenti mortali sono quasi a completo appannaggio dell'industria e dei servizi
con 52 dei 58 casi di decessi. Seguono l'agricoltura con 4 casi e i dipendenti
statali con 2. In 22 casi il decesso è dovuto alla circolazione stradale, in 7 nel
percorso casa-lavoro-casa. Diminuiscono le morti bianche tra cittadini stranieri
passate dalle 8 del 2010 alle 2 del 2011. Per quanto riguarda la ripartizione
territoriale, ancora una volta Napoli è maglia nera con 21 casi, soli 2 in meno
rispetto al 2010. Seguono Salerno con 11 casi, 10 in meno rispetto all'anno
precedente, Caserta con 10 morti, 8 in meno, e Avellino con 8 episodi come nel
2010. Anche nel Beneventano le morti bianche sono state 8, ma in questo caso
sono state notevolmente superiori rispetto al 2010 in cui ci furono 2 episodi.
«In periodi di crisi economica - dice Silenzi - dobbiamo fare particolare
attenzione perchè in molte aziende la prima cosa che si taglia è la sicurezza.
Come Inail - aggiunge -puntiamo molto sulla prevenzione a partire dalle scuole
elementari fino ad arrivare all'università. Cerchiamo di insegnare il rispetto
delle regole di sicurezza sul lavoro che poi sono anche delle utili regole di
convivenza civile».
La crisi cambia le banche centrali
IL SOLE 24 ORE – 16 DICEMBRE 2012
È un mondo che cambia. La Fed punta ora a ridurre la disoccupazione e si
spinge a dichiarare il livello da raggiungere, la Bce inonda Eurolandia di
liquidità e porta il suo bilancio oltre i 3mila miliardi di euro, e il nuovo
governatore della Bank of England fa l'ultimo passo e inizia a discutere se
abbia
ancora
senso
avere
un
obiettivo
di
inflazione.
È il segno che la crisi ha travolto anche la politica monetaria, dunque. Nel
senso, evidente da tempo, che le banche centrali hanno dovuto adottare
misure straordinarie e non convenzionali, ma anche nel senso, più ampio e più
nuovo, che le autorità monetarie stanno ripensando il loro ruolo nell'economia.
Si prospetta un cambio di paradigma quindi, in preparazione di una nuova
normalità.
Quanto sta accadendo in Gran Bretagna dà la misura delle cose. Il governatore
designato, l'attuale presidente della Bank of Canada Mark Carney, in un
discorso a Toronto sulla guidance - il modo di plasmare le aspettative degli
operatori economici - ha di fatto argomentato a favore di un superamento
dell'attuale sistema dell'inflation targeting, adottato esplicitamente in Canada e
in Gran Bretagna (e in molti altri Paesi), sui generis in Eurolandia e di fatto
negli Stati Uniti. Nel suo intervento, molto utile per far il punto del dibattito
sulla politica monetaria, Carney ha ammesso che può essere necessario
mantenere un orientamento espansivo anche se l'inflazione sale sopra
l'obiettivo; e l'esperienza recente gli dà ragione. Si pensi, per ricordare solo un
episodio, agli effetti del caro petrolio nel 2008, che spinse la Bce ad alzare i
tassi proprio mentre l'economia frenava anche a causa di quei rialzi del
greggio. Analogamente, e in senso inverso, le banche centrali hanno tenuto
tassi bassi molto a lungo, prima della crisi, probabilmente perché non hanno
tenuto conto di quanto abbia inciso l'aumento della produttività sui prezzi,
abbassandoli. In piccole economie aperte - ma in parte anche in Eurolandia l'inflation targeting ha spesso spinto le banche centrali a muovere i tassi in
linea con i prezzi dei beni importati. Non è stata esattamente una scelta
felice...
L'inflazione, insomma, è un fenomeno molto più complesso del semplice
aumento dell'indice dei prezzi. Per aprire strade nuove, secondo Carney, una
prima possibilità è allora dichiarare insieme un obiettivo di inflazione e uno di
disoccupazione. È qualcosa di molto simile a quanto ha fatto la Fed mercoledì,
sulla base di una proposta avanzata nel 2011 dal presidente della Fed di
Chicago Charles Evans. Ben Bernanke ha in realtà ricordato che l'obiettivo della
banca centrale di Washington resta quello di mantenere l'inflazione al 2% nel
lungo periodo e di perseguire la «massima occupazione». Per i prossimi mesi,
però, ha fissato due «indicatori stradali» (guidepost): i tassi bassi verranno
mantenuti fino a quando l'occupazione resterà sopra il 6,5% e i prezzi previsti
«a uno o due anni» non supereranno il 2,5 per cento. Non sono obiettivi, anche
perché
sono
temporanei,
ma
gli
somigliano
molto.
Carney è però andato oltre. Si è spinto alle frontiere della politica monetaria
così come viene discussa in accademia dagli economisti. Ha auspicato di
adottare come obiettivo un livello (crescente) di pil nominale (Ngdp, in
inglese), calcolato cioè a prezzi di mercato (e non depurato dall'inflazione come
si
fa
di
solito
quando
si
parla
di
prodotto
interno
lordo).
Cosa significa? Significa che quando, a causa di una recessione il pil (nominale)
cala, la banca centrale può tollerare più inflazione - e qui sta il nodo della
questione... - per compensare la minore crescita, e per fare in modo che
l'economia recuperi tutto, ma proprio tutto quel che ha perduto. Si pensi a
Eurolandia. Il suo pil nominale è cresciuto per anni a un ritmo stabile del 4,5%
annuo. Questo era del resto l'obiettivo implicito, dichiarato solo in modo
criptico, della Bce (lo schema proposto da Carney non è infatti puramente
teorico). Aveva così raggiunto i 9,16 miliardi annui a settembre 2008, per poi
scivolare fino a 8,9 miliardi con la crisi e tornare a 9,5 a settembre 2012. Se
avesse proseguito lungo il "vecchio" sentiero - se la crisi, insomma, non ci
fosse stata - il pil nominale avrebbe raggiunto a fine estate quota 11 miliardi.
Bene: questo sarebbe stato, in un regime di Ngdp-level targeting, l'obiettivo
della Bce per settembre 2012. Non sarebbe bastato quindi far tornare
l'economia a una crescita del 4,5% (2% di inflazione, 2,5% di crescita reale, in
media), ma sarebbe stato necessario anche "azzerare" gli effetti della crisi.
Schemi astratti? Per ora sì, anche se in fondo si tratterebbe di correggere ed
esplicitare orientamenti già seguiti: lo strumento da adottare è il "diluvio" di
liquidità, sostenuto però da un obiettivo esplicito che plasmi le aspettative degli
operatori economici e sia rinforzato quindi dai loro comportamento. Il primo
passo è stato compiuto: il Cancelliere dello Scacchiere di Londra, George
Osborne, ha dato il benvenuto al dibattito aperto da Carney (che invece ha
lasciato fredda la Bank of England, timorosa dei costi di questa politica in
termini di maggior inflazione). È il primo "parliamone" del mondo politico.
Di sicuro la proposta di Carney non cade nel vuoto. Tra gli economisti il
dibattito sulle regole della politica monetaria è aperto da tempo, sia a causa
delle decisioni pragmaticamente prese dalle banche centrali sia per la necessità
di costruire un "dopo crisi" che tenga conto degli errori compiuti. Proprio il
tema del pil nominale, non nuovo, è stato ripescato e messo al centro di ampie
discussioni portate avanti dal gruppo dei monetaristi di mercato - un po' diversi
dai "monetaristi" rigidi a cui normalmente si pensa, ma altrettanto ortodossi guidati da Scott Sumner e Lars Christensen - ed è poi rimbalzato tra
economisti di impostazione un po' diversa come Christina Romer (o anche Paul
Krugman). Ad agosto, al simposio annuale della Fed di Kansas City a Jackson
Hole Michael Woodford della Columbia University, uno dei maggiori esperti di
politica monetaria, ha proposto sia lo schema adottato giovedì dalla Fed
(«Sarebbe un importante miglioramento dell'attuale politica di comunicazione»,
ha detto) sia il Ngdp level targeting.
In crisi due settori su tre, resiste la farmaceutica
27 DICEMBRE 2012 – IL SOLE 24 ORE
Costruzioni, metallurgico e distribuzione sono i settori più penalizzati dalla
frenata dell'economia globale. Seguiti a ruota, nella graduatoria del rischio, da
agroalimentare, auto ed elettronica. Mentre la farmaceutica, e in minor misura
l'energia e i trasporti, mostrano ancora capacità di resistenza. Questa la
classifica stilata da Coface, il colosso francese dell'assicurazione dei crediti
commerciali, che ha appena pubblicato il suo primo «Panorama dei settori».
I comparti presi in considerazione sono 14, in tre macro-regioni: l'Asia
emergente, il Nord America e l'Unione europea. Lo studio si basa su ricavi,
solidità finanziaria e abitudini di pagamento di 6mila imprese. Due terzi dei
settori presentano fattori di rischio.
Le costruzioni sono considerate da Coface particolarmente a rischio nell'Europa
meridionale, dove, per esempio, la bolla immobiliare che ha messo in ginocchio
la Spagna non si è ancora risolta. Investimenti e progetti continuano a
diminuire e una ripresa a breve non è ipotizzabile. Le imprese del settore sono
fortemente indebitate e i mancati pagamenti non sono «così insoliti,
soprattutto in Italia». Negli Stati Uniti stanno arrivando i primi segnali di
inversione di rotta, dopo che i prezzi hanno perso il 30% rispetto al picco
raggiunto a luglio del 2006. Insomma, qui il fondo potrebbe essere stato
toccato.
Altro settore in grave crisi in Europa è il metallurgico: il comparto soffre di
sovraccapacità produttiva in un momento di profonda difficoltà dei suoi
principali clienti, le industrie dell'auto e delle costruzioni. Il calo della domanda
aumenta le pressioni al ribasso dei prezzi in un ramo d'attività che ha costi fissi
molto alti e margini ridotti e che quest'anno sono precipitati di più del 40 per
cento. La situazione è appena poco migliore negli Stati Uniti, mentre in Cina il
rallentamento della crescita economica e le iniziative prese dal Governo per
sgonfiare la bolla immobiliare hanno costretto molte imprese del settore a
chiudere l'anno in perdita, con indici di profitto in calo del 38 per cento.
Bilanci in rosso anche per le aziende dell'agroalimentare: le difficoltà a onorare
i
pagamenti
aumentano
soprattutto
in
Spagna
e
Italia.
Passando ai settori che si "difendono", si distingue soprattutto la farmaceutica.
L'aumento della spesa per la salute gonfia le vele dei produttori in Europa e
negli Stati Uniti. E tuttavia, gli sforzi intrapresi dai Governi per abbassare la
spesa farmaceutica potrebbero avere un impatto negativo sui rimborsi e
aumentare la concorrenza sui farmaci generici. Grandi potenzialità si possono
aprire in Cina, dove è cominciato il processo di costruzione di un sistema
sanitario universale, in linea con l'obiettivo del Governo di spostare il modello
di sviluppo sul versante della domanda interna. Bene anche l'India, dove
l'industria farmaceutica è in salute e può contare su personale altamente
qualificato.
Il comparto del futuro, quello che prometteva di creare milioni di posti di
lavoro, l'energia rinnovabile, sta a sua volta segnando il passo. Il taglio dei
sussidi in Europa e Stati Uniti si è fatto sentire pesantemente. Mentre i
finanziamenti pubblici nei Paesi asiatici a rapida crescita hanno generato
sovracapacità produttiva. Con i mercati locali incapaci di assorbire la
produzione, l'offerta di pannelli solari a basso costo si è riversata su Nord
America ed Europa, mettendo ancora più in difficoltà i produttori locali (e
originando
anche
contenziosi
commerciali
nella
Wto).
Discorso completamente diverso per per i big del petrolio, che grazie alla loro
capacità di generare cash flow sono relativamente al riparo dal rischio credito.
Il settore dei trasporti, aereo e marittimo, è a sua volta attraversato da
tensioni e pressioni sui margini e la solidità finanziaria degli operatori comincia
a risentirne. Tuttavia, il rischio di credito migliora, grazie alle politiche di
gestione avviate dalle aziende.
TEMA ARGOMENTATIVO SULLA LA CRISI
La crisi economica, ha avvertito i primi segnali nei primi mesi del 2008, negli
Stati Uniti, in seguito ad una bolla immobiliare. Alle famiglie in difficoltà ad
aprire un mutuo, veniva concessa la possibilità di accedere a prestiti (detti
prestiti sub-prime) pur non avendo i requisiti per potervi accedere. Questi
prestiti, infatti, prevedevano un alto tasso di interesse a carico dei
debitori/famiglie con scarse capacità finanziarie. Tutto funzionò fino a quando il
valore delle abitazioni, sulle quali veniva costituita una ipoteca a garanzia dei
mutui, continuava a crescere. In caso di insoluti infatti le banche potevano
rivalersi sui valori crescenti delle case che risultava inizialmente facile collocare
sul mercato. Tutti i nodi vennero però al pettine quando il valore degli
immobili, eccessivamente gonfiato da questa corsa agli acquisti, cominciò a
crollare: i debitori non pagavano le rate dei mutui, le banche sequestravano le
case che però non riuscivano a rivendere a valori adeguati, i debiti contratti
dalle banche emettendo titoli derivati per ottenere liquidità non vennero
rimborsati e… tutto quel mondo di carte costruito sul nulla arrivò
inevitabilmente a crollare.
<< Quando gli Stati Uniti starnutiscono, il mondo prende il raffreddore. >>
dice un blogger di cefababel.com. Ed è esattamente così che è successo.
Le banche e le società finanziarie americane, avevano infatti venduto i debiti
emettendo titoli derivati che erano stati sottoscritti anche da banche e
investitori stranieri. La crisi così si diffuse in tutto il mondo, in longitudine e
latitudine.
Fallimenti di società finanziarie e di banche, credit crunch (mancanza di
liquidità) portano i governi degli Stati ad intervenire per scongiurare un
collasso dell’economia dalle conseguenze disastrose. Aumenta il debito
pubblico, poi arriva la crisi dei consumi, che porta con sé inflazione e poi
recessione.
Albert Einstein vede la crisi come << Benedizione per le persone e le nazioni,
perché la crisi porta progressi.>>. È con essa che nasce la creatività.
Il Governo si sta muovendo per superare questo periodo aumentando tasse e
attuando una spending review generale.
In Italia e non solo, sono molti i settori coinvolti. Dal metallurgico, all’edilizia,
ai trasporti. E con questa crisi economico finanziaria, arriva anche una crisi
delle forze politiche e le istituzioni.
Negli italiani si ha in questo momento un mix di sentimenti tra cui rabbia,
paura, voglia di reagire, e frustrazione. La paura soprattutto, si manifesta nella
paura del futuro, in particolare il futuro dei figli, il rischio di disoccupazione, il
rischio della non sostenibilità del sistema sanitario e pensionistico.
Con la crisi di oggi molte persone hanno perso il lavoro, molti italiani, non
riescono ad arrivare alla fine del mese.
E come fanno a vivere?, ci chiediamo.
Una soluzione temporanea, alcuni di loro, l’hanno trovata. Tramite internet.
Ossia, questi, non avendo lavoro, e avendo braccia e cervello, approfittano del
boom del web per trovare lavoretti da improvvisare, oppure semplicemente
offrendo lavori a coloro che non riescono a ripagare, in modo da pagare i loro
debiti e riuscire a sopravvivere.
Ma cos’è davvero la crisi? È questo?
Derivata da greco, la parola “crisi”, significa “scelta”. Questa scelta, è intesa
come libertà di arbitrio della persona. Momenti di crisi sono inevitabili nella vita
dell’uomo, anzi sono anche utili se e nella misura in cui portano a cambiamenti
positivi.
Ciò ci riporta all’affermazione di A. Einstein. È possibile che la crisi sia un
momento, una possibilità, che viene offerta all’uomo, di cambiare le proprie
carte in tavola e dimostrare le sue potenzialità e creatività?
Se l’affermazione è vera, sta a noi singoli, noi popolo del mondo, dare il nostro
contributo per cambiare le cose e costruirci un futuro migliore, per noi e per i
discendenti che verranno.
Le elezioni che si terranno nel mese di febbraio sono una buona opportunità.
Facciamo valere i nostri diritti, e i nostri pensieri, sollecitiamo risposte che
aiutino, con il contributo di tutti a superare questo davvero difficile ed
angosciante momento di “crisi”.
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