L`Infinito e l`infelicità: Schopenhauer e Leopardi I Mappa dell`Unità

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L'Infinito e l'infelicità: Schopenhauer e Leopardi I
Mappa dell'Unità
Kant e i giacobini sono legati da un filo comune: l’idea che la storia non abbia il compito di realizzare la felicità degli
individui, ma la virtù. D’altro canto, è significativo che sull’altro versante della Manica la ricerca della felicità continui, al
prezzo molto realistico di un suo ridimensionamento a benessere, quando non a interesse. Ma "bisogna essere Inglesi
per poter credere che l’uomo cerchi sempre il suo vantaggio; le nostre brame vogliono mettere le mani sulle cose con
una lunga passione – la loro forza accumulata cerca gli ostacoli". Malgrado la dura lezione della Storia e il monito
supremo della Filosofia, la Conversazione sul bene ritorna pervicacemente al tema della felicità un’ultima volta, quella
definitiva, e sul suolo tedesco. Ma per poter tornare a parlare di felicità, l’uomo post-rivoluzionario deve per forza di cose
non tener più conto dei limiti della realtà; non solo, deve infrangerli con un gesto sovraumano, nello stesso tempo
disperato e puro. Il passo non è difficile, primo, perché non c’è nulla da inventare: la via è già stata indicata da Kant e si
tratta solo di portarla alle sue estreme conseguenze; secondo, perché non si tratta di riflettere, ma di sognare: «Dio è
l’uomo quando sogna, un mendicante quando riflette».
Questa “via” è quella che conduce all’infinito. L’avevamo scorta nel pacato ragionare kantiano come una via a
dimensione umana: su di essa ci si poteva inoltrare a una condizione, quella di essere consapevoli fin dall’inizio di che
cos’è “bene”, di essere cioè conformi nei propri atti alla legge morale interiore. Per Kant il cammino verso la felicità ha
senso al suo inizio e non perché abbia una fine; ha senso perché è profondamente umano esserne degni, non per il suo
premio finale. Ora, nella stagione del romanticismo, il fulcro si sposta: la felicità è la via stessa, in quanto infinita, in
quanto continua tensione che si risolve in se stessa, in un desiderio del desiderio, in amore per l’amore. Ma questo
infinito non può essere lo stesso a cui pensava Kant. Esso non può ridursi a un razionalissimo punto di vista, proprio
perché da dimensione ideale si è fatto forza, impulso, energia. Hölderlin stesso ci spiega che cos’è questo nuovo
infinito, con la chiarezza con cui da sempre la poesia sa dire la verità: esso ha la natura del sogno, e come il sogno è
espressione di una forza sovraumana (divina), interiore all’uomo, come il sogno è l’espressione di una pura energia
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inconscia, che non sopporta nessuna forma definita, nessun ideale, nessun limite, ma vuole esclusivamente se stessa,
infinitamente se stessa.
Ma un sogno non perde la sua sostanza solo per essere fatto ad occhi aperti. L’infinito non è pane per l’esserci, direbbe
Heidegger, e i sogni più altezzosi sono anche quelli che meno sopportano il risveglio. Dall’apice stesso dell’infinito, dal
Colle che da Recanati domina la piana maceratese, il più grande filosofo italiano della modernità scrive: "L’infelicità
nostra è una prova della nostra immortalità, considerandola per questo verso che i bruti e incerto modo tutti gli esseri
della natura possono esser felici e sono, noi soli non siamo né possiamo". L’infinito anelito alla felicità è origine del
dolore supremo che caratterizza l’esistenza umana, e se il concetto stesso di felicità ha un senso, questo riposa solo
nella dimensione del nulla, di un’eternità che non è sperimentabile con quella ragione che sola può essere la misura di
ogni felicità. Il comune buon senso direbbe: chi troppo vuole nulla stringe, e probabilmente a questo si riduce
l’esaltazione romantica nelle pagine severe dell’infelice poeta marchigiano. Ogni sensazione si riduce ad essere un
passo ulteriore verso la noia e la disperazione, quando non verso il suicidio: "Io so bene che la natura ripugna con tutte
le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte le di lei leggi più gravemente che qualunque altra colpa umana; ma
dal che la natura è del tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la felicità che la natura ci
aveva destinata è fuggita per sempre, e noi siam fatti incurabilmente infelici, da che quel desiderio della morte, che non
dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura, e per forza della ragione; perché questa
stessa ragione c’impedisce di soddisfarlo, e di riparare nell’unico modo possibile ai danni ch’ella stessa e sola ci ha
fatti?".
Il "Colle dell'Infinito" ©
In un certo qual modo, la conversazione sulla felicità, che aveva preso la mano ai filosofi spingendoli sulla strada
rischiosa dell’assoluto, si trova a precipitare in un vuoto di senso radicale, facendo scoprire all’uomo dell’Occidente che
di assoluto non c’è che il male. Dimenticando la ragione per cui ci si era messi sulla strada della ricerca, il desiderio di
conoscere quel modo di essere (il bene) che rappresenti la realizzazione autentica della nostra natura umana, ci siamo
trovati, all’inizio della nostra epoca, davanti a uno specchio che ha la sgradevole proprietà di dis-velare l’Ombra che è in
noi. Perché la “nostra” epoca è questa: l’epoca del male. [Leopardi: testi]
La svolta è stata improvvisa e inaspettata. Prima un poeta solitario, da un angolo del tutto marginale del mondo delle
lettere, trova la lucidità per svelare l’Ombra che nessuno vuol vedere. Poi, nel cuore stesso della civiltà tedesca, il delirio
romantico viene interrotto da un controcanto che non ha ancora cessato di risuonare: è la voce di Schopenhauer. Una
voce che ha una storia: quella fragorosa dell’industrializzazione e del suo delirio. I fatti sono noti: la forza espansiva
della rivoluzione industriale è riuscita a piegare, nel giro di mezzo secolo, le ragioni del pensiero a quelle della tecnica. I
“fatti” hanno dato ragione al pragmatismo illuminato degli inglesi, e la filosofia ne esce sconfitta. Il moralismo
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rivoluzionario è ormai macchiato dalla colpa originaria dell’astrattezza, e la purezza speculativa del criticismo kantiano
non ha retto agli assalti dell’irrazionalità romantica. Là dove la filosofia aveva dato il meglio di sé, nella Storia e nel
pensiero, ha trovato anche il limite delle sue possibilità, almeno per il momento. E poiché la filosofia è fatta soprattutto di
filosofi, gente che per lo più sa stare al mondo, è inevitabile che anch’essa si inchini alle regole della realtà, cosa che
peraltro ha sempre fatto piuttosto bene in tutti i tempi. Il segno della sua resa non è infatti una bandiera bianca, ma è il
prendere saldamente possesso del vessillo dei vincitori, nella forma di un pensare positivo, o positivista, ovvero nel
calcolato tradimento delle proprie ragioni. Per decenni infatti la filosofia si arrende non tanto sul piano della storia,
poiché essa ha finito per contare ormai quasi nulla agli occhi del sapere, quanto su quello della verità. Abbagliata dalla
forza ineluttabile di chi l’ha umiliata, essa si fa portavoce delle ragioni altrui, o meglio: del ragionare altrui. Le “umane
ragioni e progressive” sostituiscono un infinito all’altro: l’infinito progredire della conoscenza calcolante, dello sviluppo
tecnico, prende il posto del cattivo infinito speculativo dello spirito. Piuttosto che cedere e morire, la filosofia si fa serva
del nuovo signore della Storia. La sociologia comtiana rende calcolabile anche l’universo pratico che era sempre stato il
terreno di coltura dell’etica, trasformando l’attore – il protagonista della scena della vita – in agito – semplice ingranaggio
di un meccanismo senza anima. Come si può notare, il delirio romantico contagia tutta Europa non nel proliferare dei
romanticismi nazionali, ma nel sapersi adattare alle diverse forme di irrazionalità: il sogno dell’infinito cambia aspetto,
ma rimane il vero padrone del destino occidentale.
Ma l’infinito pragmatico e sferragliante della civiltà industriale non ha la leggerezza, per quanto devastante, del sogno;
esso è materia, è l’opposto oscuro e denso del suo principio originario, luminoso e divino. La ricerca della felicità si
trasfigura, come una specie di processo alchemico all’incontrario: invece che progredire dall’opera al nero, quella del
piombo, all’opera al bianco, quella dell’oro filosofale, materializza l’oro della poesia nel piombo della volontà di potenza.
Ed è qui che si alza, fuori dal coro, la voce di Schopenhauer. Coniugando la teoria leopardiana dell’infelicità con il
disincanto meccanicistico del positivismo evoluzionista, egli riduce la “beatitudine” estetico-pratica dei Romantici a
fisiologia meccanica, in una rappresentazione dell’interiorità umana ridotta a processi fisici di carattere animale. Non c’è
spirito nel desiderio, non c’è anima nell’uomo, ma un abisso insondabile (infinito, si potrebbe dire) di energia pura – la
volontà - volta alla semplice estrinsecazione di se stessa. Come si può notare, è la faccia oscura del romanticismo, il
suo lato d’ombra, che emerge sulla scia di una nuova consapevolezza ammantata di scientismo. L’infelicità diventa la
condizione umana. La stessa di cui aveva parlato Leopardi, un’infelicità sorgente dalle illusioni e dalla noia. È la “
rinascita del pessimismo” che in Germania trova il suo grande cantore in Wagner: un pessimismo “à rebours”, tuttavia,
poiché esso si esprime come esaltazione della vita. I pensatori che definiscono i confini di questo sentimento hanno in
comune una sincera esaltazione del dolore di vivere, inteso come risorsa e nutrimento per la propria sensibilità. Da
Wagner a Schopenhauer e a Nietzsche il passo è dunque breve.
De Luise – Farinetti, cit. pag. 498.
F. Nietzsche, Frammenti postumi, 1887-88 11 [89].
Hölderlin, Iperione.
Inteso come l’essere umano concreto, che esiste nella quotidianità del mondo.
G. Leopardi, Zibaldone, gennaio 1820.
Ibidem, marzo 1821.
A. G. Sabatini, Leopardi e il pensiero moderno, pag. 175.
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positivismo Dal fr. positivisme, der. di positif «positivo». Corrente di pensiero affermatasi in Europa nella seconda metà
del 19° sec., la quale riteneva che la filosofia dovesse limitarsi a organizzare i risultati delle scienze sperimentali, senza
trascendere la realtà direttamente sperimentabile, cioè i «fatti», nel tentativo di cogliere quelle ipotetiche entità di cui
parla la metafisica. Iniziatore di tale indirizzo è considerato il francese Comte; tra gli altri suoi esponenti vanno
annoverati gli inglesi J. Stuart Mill e Spencer e l’italiano Ardigò. Questo atteggiamento – che ebbe larga diffusione nella
seconda metà dell’Ottocento, non solo tra gli scienziati, ma anche tra gli storici e i letterati – fu alimentato anche dallo
sviluppo della società industriale e dagli straordinari progressi della scienza e della tecnica. I filosofi positivisti erano
pienamente consapevoli di essere i filosofi del loro tempo e tracciarono anche il disegno di una società industriale
razionale, ossia regolata secondo criteri scientifici. [Treccani.it]
Nota di copyright: fotografia dell'autore
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In questa unità
Testo: Storia delle idee
Autore: Maurizio Châtel
Curatore: Maurizio Châtel
Metaredazione: Erica Pellizzoni
Editore: BBN
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