AGOSTINO NIFO E LA SUA INFLUENZA SULLE IDEE RELIGIOSE DI VITTORIA COLONNA, GIROLAMO SERIPANDO, GALEAZZO FLORIMONTE E DEI GRUPPI RIFORMATORI NAPOLETANI (1531-1536/7) (*) 1. La vera data della scomparsa di Agostino Nifo L’opera di Nifo, soprattutto dagli anni Novanta del secolo scorso, ha conosciuto una nuova stagione di studi che ne hanno illustrato la forza storico-filosofica, la situazione editoriale e i contrasti e/o le dipendenze dal pensiero scolastico e averroista. Sul versante bibliografico, la ricostruzione del catalogo integrale delle sue opere (edite e manoscritte), ha visto aggiornare, con l’edizione curata da Ennio De Bellis nel 2005, l’unico repertorio esistente in precedenza, all’epoca curato da C. H. Lohr, peraltro incompleto poiché si occupava solo di censire i commentari aristotelici (1). (*) Con Alessandro Pastore, in un freddo pomeriggio luganese, abbiamo trattato gran parte delle questioni qui esposte e dei loro ulteriori e non ancora del tutto indagati sviluppi. A lui va, dunque, il mio più sentito ringraziamento per la fiducia, la pazienza e l’amicizia mostratemi. (1) E. DE BELLIS, Bibliografia di Agostino Nifo, Firenze, Olschki, 2005, pp. 278-285; C. H. LHOR, Renaissance Latin Aristotle Commentaries: authors N-Ph, «Renaissance Quarterly», XXXII, 1979, pp. 532-539, che conta un numero minore di edizioni (trenta titoli e novantaquattro edizioni). Rispetto all’edizione De Bellis, G. Di Marco ha segnalato tre copie di edizioni di Nifo non censite da quello (G. DI MARCO, Incunaboli e cinquecentine nelle biblioteche di Sessa, Marina di Minturno, Caramanica Editore, 1997, pp. 118-120): Augustini Niphi Philosophi suessani dialectica ludrica, Florentiae per heredes Philippi Junctae, anno dni 1520 mense augusto Leone X Pontifice Maximo (Biblioteca del liceo «Agostino Nifo», Sessa); Augustini Niphi medici philosophi Suessani in Libros Aristotelis de generatione et Corruptione Interpretationes et Commentaria, Venetiis, apud Hieronimum Scotum, MDLVII (ID., Metaphysicarum Disputationes Dilucidarium, Venetiis, hered. q. dni Octaviani Scoti, ac sociorum, 1521(Biblioteca comunale di Sessa). Contrariamente ancora all’edizione De Bellis, non assegniamo a Nifo le due edizioni di I ragionamenti del Sessa [...] raccolti per Galeazzo Florimonte e nuovamente posti in luce da Girolamo 266 Questioni storiche Altro e più pressante problema, invece, è l’esatta determinazione della data di morte, mai definitivamente stabilita e densa di problematiche che investono, di volta in volta, la questione delle opere postume e della effettiva consistenza numerica delle edizioni a stampa. Da diversi studiosi posta al 1546-47 e da Ennio De Bellis anticipata al 1538, ma senza apportare prove né testimonianze documentali, la questione della data di morte di Nifo è fondamentale al fine della nostra ricerca perché ci permette di stabilire il vero assunto di base: la contiguità, cioè, del filosofo di Sessa a personaggi della Chiesa di Roma iscritti al partito della riforma interna della Chiesa e la vicinanza e influenza del suo pensiero filosofico sullo spiritualismo napoletano contemporaneo al magistero riformatore di Juan de Valdés. Su tali basi, anticipiamo subito che, i dati raccolti convergono tutti intorno alla fine degli anni Quaranta del Cinquecento e non oltre, perciò tutte le date segnalate dopo questo limite non sono valide, né hanno ragione di essere. Una tradizione, mai documentata efficacemente, attesta la morte di Agostino Nifo al 1538. Altre fonti, peraltro risalenti agli anni Settanta e Ottanta del Novecento, lo danno invece scomparso intorno al 1546-1547, anche qui, però, senza definire date e senza avallare documentazioni o altro. In particolare Nicola Badaloni ed Eugenio Garin attestano il biennio 1546-1547, mentre, sul fronte opposto, la bibliografia degli studi condotti di Edward P. Mahoney attesta e convalida (ma, anche qui, senza allegare documenti certi) la data del 1538. Anzi, in questo caso, lo studioso rovescia il problema, dando per certa la data di morte, ma non quella di nascita, fissata all’incirca intorno al 1470, così aggiungendo altri punti interrogativi (2). Anche la data di nascita (1470 o secondo altri 1473), non ha punti di riferimento solidi e duraturi. Però, ricorrendo all’analisi degli explicit delle opere, notiamo che la prima redazione del De intellectu e del De anima beatitudine Ruscelli, editi nel 1554, a Venezia, da Plinio Pietrasanta e a Parma, nel 1562, da Seth Viotti (che De Bellis considera postume di Nifo) poiché non sono sue, ma dell’allievo a Padova e concittadino Galeazzo Florimonte vescovo di Aquino e poi di Sessa. (2) N. BADALONI, Filosofi, utopisti, scienziati, in N. BADALONI, R. BARILLI, W. MORETTI, Cultura e vita civile tra riforma e Controriforma, Bari, Laterza, 1975, p. 11 (LIL, 24); E. GARIN, Storia della filosofia italiana, vol. I, Torino, Einaudi, 1966, p. 467. E. P. MAHONEY, Nifo Agostino, in Dictionary of Scientific Biography, X, New York, Ch. Scribner’s Sons, 1974, pp. 122-124; ID., Plato and Aristotle in the Thought of Agostino Nifo (ca. 1470-1538), in Platonismo e Aristotelismo nel Mezzogiorno d’Italia (secc. XIV-XVI), Palermo, Officina di Studi Medioevali, 1989, pp. 79102; E. DE BELLIS, Una pagina autobiografica di Agostino Nifo: la prefazione al De nostrarum calamitatum causis, «Bollettino di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Lecce», XI, 1993-1995, pp. 261-276. Questioni storiche 267 rimonta addirittura al 1492, il che già rende problematica la nascita al 1473: a diciannove anni comporre due commenti fondamentali per la filosofia del tempo, senza avere la necessaria esperienza (né i titoli accademici necessari), impone un arretramento cronologico e tre anni, al 1470, sono appena sufficienti per garantire un baccellierato (non dimentichiamo, infatti, che tale titolo accademico si conseguiva appunto intorno ai ventiquattro anni, teste il titolo conseguito, sempre a Padova, dal coetaneo e conterraneo de Vio, appunto a venticinque anni, nel 1494, «adstantium admirationem»). Tutto ciò è ulteriormente avvalorato dal fatto che, in data 8 settembre 1495, nell’atto in cui si concede a Nicoletto Vernia, nella stessa maniera in cui l’anno precedente era stato concesso a de Vio e Cristoforo da Recanati, di leggere le letture, si sottolinea anche che sono autorizzati a leggere filosofia, per anni sette e con uno stipendio annuale di cento fiorini, Pietro Pomponazzi e, per anni tre, Agostino da Sessa «etiam doctissimus» (3). Ogni fonte evidenziata, non solo non dà certezze, ma nemmeno si pone il problema della sua corretta definizione che, invece, è presente e urgente poiché, solo in base alla certezza di questo dato sarà possibile individuare l’esatta consistenza delle opere scritte in vita, di quelle pubblicate post mortem e certificare alcuni rapporti intercorsi tra Nifo e il circolo valdèsiano di Napoli e alcuni tra i personaggi in esso coinvolti. Tornando alla determinazione della corretta data di morte, incrociando i dati desumibili dagli explicit e dai colophon delle opere a stampa, possiamo desumerne il periodo, più vicina all’ipotesi De Bellis che non a quelle proposte da Badaloni e Garin. In particolare, attira la nostra attenzione il commento alla Fisica aristotelica («Physicarum auscultationum Aristotelis libri duo interprete atque espositore magno Augustino Nipho Philosopho suessano, quos in ultimo eius senio recognoverat, seuqe retractans iterum denuo exposuerat: reliquos vero sex morte praeventus intactos reliquit [...]»), il quale, completato «[...] in Aviano rure nostro xv Maij MDVI foelicibus astris» e stampato in prima edizione a Venezia da Ottaviano Scoto per Boneto Locatello nel 1508, è riedito da Ottaviano Amadeo Scoto nel 1540 solo nei primi due libri perché la morte ha impedito al filosofo, «interprete atque espositore magno» di Aristotele, di commentare gli ultimi sei. Per cui, nel 1540 (e la frase del colophon è ripetuta integralmente nella successiva edizione del 1543 per lo stesso editore), Nifo è già defunto con buona pace di Garin, Badaloni e tutti quelli che lo danno ancora vivo sei-otto anni più tardi. (3) ASVE, Senato terra, reg. 12, c. 108. 268 Questioni storiche Questo però non basta a determinare un dato certo: sicuramente siamo vicini al 1538, ma non ne abbiamo certezza. Oltretutto, tutte le edizioni curate da Ottaviano Amadeo Scoto intorno al periodo 1540-1550 riportano nel titolo l’avvenuta correzione di moltissimi errori che nella prima edizione di quelle stesse opere potevano riscontrarsi; e l’attenzione per tale cura, non sembra minimamente riportare, né a un controllo nifano, tanto meno sembra riferirsi a semplici errori di stampa. A maggior ragione, allora, Nifo, già all’aprirsi del 1540 è evidentemente scomparso. Le frasi in questione (varianti simili a quella che estrapoliamo, come esempio, dalla ristampa del commento al De substantia orbis di Averroé (1546): «[...] Quibus adiectus est locupletissimus index eorum quae tam in textu, quam in commentarijs pertractantur, serie alphabetica ordinatus. Omnia multo, quam antea emendatiora: ac restituta non pauca»), indicano un intervento di bottega, mirante, come lo stesso editore avverte nella ristampa del Dilucidarium metaphysicarum disputationum del 1552 (anche questo «nuperrime maxima diligentia recognitum»), solo a una diffusione «pro studiosis, ad quaeque scitu digna». È evidente, dunque, che Nifo non è assolutamente intervenuto in tali revisioni e che anzi, Scoto è dovuto ricorrere a poligrafi di fiducia in servizio nella sua bottega, in grado di rivedere le bozze di stampa precedenti, confrontarle con le edizioni a stampa definitive e con eventuali manoscritti usati per la princeps e poi stilarne gli indici per materia e per argomento, un lavoro questo, non certo agevole vista la materia trattata e non alla portata di tutti i collaboratori coinvolti. A determinare, allora, un dato più sicuro, che conforti almeno l’ipotesi De Bellis o che fissi indiscutibilmente l’anno di morte, subentra l’analisi degli explicit che il filosofo apponeva alla fine dei suoi manoscritti e che gli stampatori hanno sempre riportato fedelmente in coda alle edizioni a stampa da loro edite. Infatti, se si ricostruiscono le date di chiusura dei singoli testi a stampa editi tra il 1535 e il 1551, scopriamo, proprio grazie alla lettura attenta di essi, che le opere, sia pure edite nel corso di sedici anni, in effetti, sono state ideate, scritte e concluse tra il 1530 e il 1535. In questi sei anni Nifo ha scritto quattro opere a Salerno, tre a Sessa e due a Napoli; solo il De morbo Gallico e Il De re aulica sono state scritte e stampate nello stesso anno, probabilmente per la vicinanza tra luogo di scrittura e luogo di stampa, mentre tutte le altre presentano un lasso di tempo (tra scrittura e stampa) di almeno un anno, con un massimo di dodici anni per il De generatione animalium e di ventitre per il De ratione medendi, che dunque, dobbiamo necessariamente considerare semplici operazioni editoriali postume, messe in piedi per meri interessi economici (TABELLA 1). Questioni storiche TABELLA 269 1: ultime opere di Agostino Nifo (1530-1538) De vera vivendi lib. (19 settembre) 1530 NAPOLI VENEZIA De divitiis (6 agosto) In solitudine vivere lib. (8 settembre) De sanctitate (21 ottobre) De misericordia (5 luglio) De sophisticis elenchis Aristotelis De morbo gallico De re aulica 1531 1531 1531 1533 1533 [1534] 1534 [NAPOLI] [NAPOLI] [NAPOLI] VENEZIA SESSA VENEZIA SESSA VENEZIA SALERNO NAPOLI De historia animalium 1534 De generazione animalium (13 giugno) 1534 De partibus animalium 1534 Aristotelis topica [1535] De ratione medendi 1528 SALERNO VENEZIA SALERNO VENEZIA SALERNO VENEZIA [SALERNO] VENEZIA [SALERNO] SESSA VENEZIA VENEZIA NAPOLI NAPOLI 1535 1535 1535 1535 1535 1534 1534 1534 1546 1546 1546 1535 1551 Le date di TABELLA 1 ci dicono che sette titoli sono terminati in soli due anni, dal 1534 al 1535 e tutti tra Sessa e Salerno, testimonianza di un’attività fattasi frenetica, almeno rispetto al periodo precedente il 1530 e prova inconfutabile della residenza nella città natale («in rure nostro» come diffusamente è riportato dagli explicit), punto strategico per raggiungere Napoli o Salerno e mantenere i contatti con Sanseverino e l’università. Dunque, nel 1535 Nifo scrive la sua ultima opera, dal 1530 (almeno) risiede stabilmente in Campania mentre, dal 1534-1535, è invece a Salerno; è naturale perciò, arretrare di un decennio almeno, dal 1546-1547, la data del decesso che ora non può che essere posta all’incirca intorno al 1535: un salto indietro di una dozzina di anni che però non risolve la questione e anzi la complica ulteriormente. Dai testi a stampa non emergono altre segnalazioni e l’unico dato che resta in nostro possesso è l’interruzione, brusca e per nulla meditata, della produzione filosofica. Così, la sua morte non può che essere posta necessariamente al 1535-1537, ma senza poter compiere salti in avanti piuttosto ampi, vista la mancanza totale di dati evidenti, sostenibili e certi, né giustificare altre conclusioni. Oltretutto, Marcantonio Flaminio nel 1538 è proprio a Sessa ospite di Galeazzo Florimonte e se Nifo fosse morto in quell’anno o a ridosso di quella data, Flaminio non avrebbe certo taciuto nelle proprie lettere un avvenimento del genere. Anche per questo siamo convinti che la data di morte di Nifo cada prima di questa data, vicina a quella relativa alle ultime sue opere, troppo pre- 270 Questioni storiche sto per stringere rapporti duraturi con Valdès e il suo gruppo, ma abbastanza per influenzare lo spiritualismo di Vittoria Colonna e determinarne sotto traccia la lettura filosofica della riflessione religiosa. Un’ulteriore prova della corretta datazione della scomparsa di Nifo anteriormente al 1538, è rappresentata dalla seconda edizione dei Topica aristotelici (Parigi, 1540), ultimata il 10 agosto 1535; in essa, Giovanni Roigny si sente in dovere di sostituire l’explicit originale («finis Niphani die X augusti») con un altro che nulla ha che fare con quello («Nullisque Graecis expostoribus iter demonstrantibus») e, soprattutto, sente il bisogno di aggiungere al titolo la frase «[...] si nostram hanc editionem cum veneta sedulo conferet [...]», segno che, non avendo evidentemente la possibilità di contattare l’autore per correggere i molteplici errori, ha dovuto ricorrere a un confronto testuale con quella, naturalmente secondo lui migliorandola e rendendola più chiara della precedente. Se dunque, appena cinque anni dopo gli editori devono migliorare il testo nifano, questo non è solo indice della poca ortodossia aristotelica dello stesso filosofo, ma anche di una certa capacità degli stessi editori di circondarsi di poligrafi in grado di discutere ed eventualmente correggere le posizioni espresse. Lo stesso Scoto Amadeo, nel 1542, proponendo una nuova edizione della precedente princeps del 1535, pure è costretto a dichiarare che l’edizione è stata realizzata controllando l’archetipo («[...] Et nuc recens cum auctoris archetypo collata»), segno che, non solo Nifo non è più vivo, ma anche che neppure sono disponibili per motivi a noi oscuri, quei manoscritti originali che ne potessero permettere una fedele riproduzione. In ultimo, come inconfutabile prova della dipartita di Nifo almeno un anno prima della data ufficialmente fissata, citiamo quanto Vincenzo Martelli scrive a Piero Vettori il 26 gennaio 1537 (4) Dopo la partita vostra, io tardai in Roma pochi giorni, e venni in Napoli dove fui accolto amorevolissimamente: ne ai miei contenti manca altro, che l’oblio delle cose particolari di costi, e la conservatione vostra, la qual mi si sa tanto più desiderare quanto più la comparatione dell’altre la trovo da tener cara: [...] Il nostro M. Agostino da Sessa finalmente morì, ben che simulavasi da prima, che due volte venne nuove della morte, e della resurretione, il che mi fece credere fossi andato a chiarigli di qualche dubbio per tornare: pur dovette lassarvi tal pegno che non possette mancare [...]. È evidente che la morte non può che essere intercorsa entro la data citata e dopo un periodo di malattia che ha evidenziato, stando all’autore della mis- (4) Rime di M. Vincenzio Martelli. Lettere del medisimo allo illustriss. Et eccell. S. Ferrante Sanseverino, Principe di Salerno, lettera a Piero Vettori del 26 gennaio 1537, in Fiorenza, appresso i Giunti, 1563, p. 15 (ma p. 94). Questioni storiche 271 siva, almeno due momenti in cui, visto il suo stato, pure aveva avuto temporanei miglioramenti. Così, Nifo, ai primi del 1537 è scomparso da poco, al massimo tornando indietro nel tempo, alla fine del dicembre 1536 o, al più tardi, nei primi giorni di gennaio dell’anno successivo. La citata lettera di Vincenzo Martelli conferma un dato di fatto che nessuno si è curato di prendere in considerazione finora e che, in precedenza, è stato ignorato al pari delle lettere di Flaminio, testimone prezioso quanto Martelli perché parte integrante di quei rapporti tra Galeazzo Florimonte e il futuro gruppo valdèsiano e l’ancora di là da venire Ecclesia Viterbensis. 2. Nifo, il circolo dei Sanseverino, Vittoria Colonna Atto fondativo di questo rapporto di dipendenza dalla riflessione nifana sono i titoli delle sue opere, dal De vera vivendi libertate (dedicato a Vittoria Colonna) al De Sanctitate dedicato a Girolamo Seripando. Per tacere dei Ragionamenti del Sessa, scritti da Galeazzo Florimonte e curati da Girolamo Ruscelli, tramite non solo dei rapporti tra Sessa e i gruppi napoletani, ma anche di una vicinanza del viterbese con gli intellettuali dell’area Aurunca (Giovanni Tarcagnota, Tommaso de Vio, Giulia Gonzaga, Antonio Minturno, Giovanni Andrea Gesualdo. Ciò è anche avvalorato dalla cura che Girolamo Ruscelli compie dell’edizione degli scritti di Minturno e dalla polemica scoppiata tra lo stesso e Dolce sulla questione della lingua all’interno dell’accademia Venier dove nascono i primi antecedenti dell’Adone di Giovan Battista Marino. Lo stesso Galeazzo Florimonte, del resto, aveva continui rapporti con Tommaso de Vio e l’ambiente intellettuale aurunco. Altra prova della contiguità di rapporti sono proprio i Prioristica commentaria aristotelici, pubblicati da Nifo presso Sigismondo Mayr, a Napoli nel 1526 e dedicati a Tommaso de Vio. Il riferimento al Gaetano, è per Nifo il segno di un rinnovato legame con la curia romana, soprattutto dopo i trascorsi averroisti, non completamente cancellati dalla stesura e pubblicazione (1518) del libello sull’immortalità dell’anima contra Pomponacium. Oltretutto proprio il Gaetano aveva messo mano, un venticinquennio prima, a due commenti aristotelici: i Praedicamenta (stampati in tre edizioni: 1505, 1506, 1518) e i Posteriorum (1506-1518). Questo ci induce a pensare, preso atto della sottoscrizione apposta alla prima edizione nifana dei Prioristica («tandem Deo volente huic libro finem imposuimus. Salerni, 1524 die xxij martij: in quo per multos annos elaboravimus»), che la cura dell’opera aristotelica sia stata iniziata da Nifo, come per de Vio, all’incirca venticinque anni prima, come progetto comune di docenza e poi, più volte elaborata negli anni, edita con molto ritardo rispetto 272 Questioni storiche ai commenti stilati dal collega e conterraneo. Non a caso, nelle successive edizioni, il riferimento e la dedica a de Vio «cardinalem maximum» scompaiono per essere sostituite prima (edizioni del 1543 e del 1549), da un laconico quanto eloquente «[...] longe quam hactenus in lucem prodierint emendatiora» e poi da un deciso «commentaria castigatissima» (edizioni 1553, 1554, 1569), segno che la dedica a de Vio, non solo non aveva ottenuto l’effetto desiderato, ma che la stessa opera deviana così ortodossa non doveva poi essere (5). Ancora, affermando Nifo di aver completato l’opera nel 1524, la sua progettazione e stesura non può che essere prolungata nel tempo, a partire dalle lezioni padovane della fine secolo XV, poiché due manoscritti - Aphorismorum Hippocratis, iniziato il 5 novembre 1518 e Super universalia Scoti, exorditur invece il 26 maggio 1526 – collocandosi a monte e a valle dei Prioristica, dimostrano la contiguità di argomenti al momento studiati. È quindi con un interesse nuovo che ci volgiamo a interrogare la serie di lavori pubblicati da Agostino Nifo e per due motivi: da un lato, infatti, notiamo una vicinanza a quell’iniziale nucleo napoletano sorto intorno a Vittoria Colonna e poi rafforzatosi intorno a Juan de Valdés tra 1534 e 1541 e ai primi partecipanti al futuro nucleo dell’Ecclesia Viterbensis, a cominciare dal cardinale Pole, al centro delle questioni inglesi, argomento che aveva occupato de Vio nell’ultima parte della sua vita proprio in opposizione, e in accordo con lo stesso Pole, a Carlo VIII. Dall’altro, individuiamo una vicinanza alle teorie spiritualiste e di riforma interna della Chiesa romana. Infatti, già in odore di avveroismo all’inizio della carriera, nello stesso periodo in cui Valdès è libero di predicare a Napoli, si sposta, su chiamata di Ferrante Sanseverino, a Salerno ed è in questo periodo che pubblica il trattatello dedicato a Vittoria Colonna, De vera vivendi libertate (in Prima pars opusculorum [...], Venezia, Nicolini de Sabio, 1535), in effetti compiuto già cinque anni prima e dato alle stampe insieme ad altri libelli a carattere moralistico ed etico: il De divitijs libellus; De ijs, qui apte possunt in solitudine vivere liber; de Sanctitate, atque prophanitate libellus; De misericordia liber. (5) La questione della mancata ortodossia di Tommaso de Vio, nel merito delle sue posizioni de immortalitate animae, è ancora viva ai primi del Seicento, almeno stando a quanto Tommaso Campanella scrive, da Napoli, ai cardinali e al papa: «[...] scholares imbuti derident Evangelium, et Machiavellum dogmatizavit cum eo Averroe [...]. Ergo totus mundus est antichristianus, [...]. Nec divus Thomas potuit huic malo obviare [...]. Nam omnes scolares, quin et Cajetanus, illudunt divo Thomae, dicentes non intellexisse Aristotelem, et sequuntur Averroem et Alexandrum et alios qui atheismus docent [...]» (TOMMASO CAMPANELLA, Al papa ed a’ cardinali, XI, 12 aprile 1607, in Lettere, a cura di A. Spampanato, Bari, Laterza, 1927, p. 66). Questioni storiche 273 La figura della poetessa ricopre un ruolo fondamentale all’interno dei rapporti che stiamo documentando poiché proprio la sua produzione poetica, mediata con la personale convizione religiosa (innegabile fusione tra credo valdèsiano, spiritualismo e personali convinzioni cristologiche), individua una linea diretta tra la sua stessa produzione e il De libero arbitrio di Lorenzo Valla e il De partu virginis e la Lamentatio de morte Christi di Jacopo Sannazaro. Si registra così una particolare continuità tra la poesia e la teologia che integra in sé, come fonte teorica, i concetti di amore (Equicola) e bello (Nifo), li salda alla poetica sannazariana, li codifica come lingua e li trasforma in spiritualismo; né più né meno, lo stesso passaggio, possiamo osservarlo nella poetica di Michelangelo, non a caso strettamente legato proprio alla Colonna. Tornando a Nifo, tutti i suoi titoli nulla hanno a che fare con la produzione precedente e certamente non sono in linea con le scelte operate sino allora. Non solo, ma lo stesso tema trattato (la libertà del vivere umano, in condizioni filosofiche e teologiche insieme) sembra nascere all’interno di quei circoli che frequentava anche Tommaso de Vio tra Napoli, Fondi e Ischia; anzi, la vicinanza a Ferrante Sanseverino (dedicatario dei Moralia aristotelici proprio da Nifo curati e di cui sono note le posizioni antispagnole e contro l’instaurazione dell’inquisizione a Napoli) è stata sicuramente tramite tra Sessa, le teorie riformatrici e Isabella Villamarino, a sua volta probabile contatto con Valdès e parte in causa per aver sostenuto lo spagnolo, avendo posseduto «un certo librecto dela doctrina christiana» e per essere stata lettrice delle sue opere, almeno stando alla testimonianza del predicatore Ambrogio Salvio da Bagnoli durante il processo a Mario Galeota (1566). Altresì, si deve aggiungere che Sessa, come già detto, nel 1538 diviene residenza di Marcantonio Flaminio, perno centrale dei rapporti e degli equilibri interni ai rapporti tra i personaggi dell’ecclesia Viterbensis (6). (6) Riguardo alla data di composizione del De vera vivendi libertate, si veda l’explict («Neapoli, MDXXX, septembris XIX») e la data apposta sul manoscritto autografo conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana e segnalata da P. O. KRISTELLER, Iter Italicum. A finding list of uncatalogued or incompletely catalogued humanistic manscripts of the Renasissance in italian and other Libraries, 7 voll., London – Leiden – New York – Købhenaven - Köln, The Warburg Institute – E. J. Brill, 1963-1997, II, p. 474 (Augustinus Niphus de vera vivendi libertate ad Victoriam Columnam, BAV, Fondo Chigi, F IV 61, ff. 70). Sul movimento valdèsiano e le idee di riforma a Napoli, si vedano: P. LOPEZ, Il movimento valdèsiano a Napoli. Mario Galeota e le sue vicende col sant’Uffizio, Napoli, Fiorentino, 1976, p. 170; C. GINZBURG, A. PROSPERI, Juan de Valdès e la riforma in Italia: proposte di ricerca, in Doce consideraciones 274 Questioni storiche Ancora, Ferrante e la consorte sono tramite dei rapporti tra lo stesso Nifo e Girolamo Seripando, confessore e consigliere di Isabella e dedicatario dell’ultimo degli opuscoletti compresi nel Prima pars opusculorum e cioè quel De misericordia liber, terminato a Sessa nel 1533 e poi allegato, appunto, al volume citato. Seripando è fondamentale per essere stato interpellato, nell’estate del 1539, da Ferrante Sanseverino sulla inconciliabilità tra prescienza divina e libertà dell’uomo a seguito dei problemi scatenati dalla predicazione di Agostino Museo sul tema della predestinazione (1537) e dalle conseguenti discussioni avviate da Marcantonio Flaminio, nel 1538-1539, sulla grazia e sul libero arbitrio con Contarini e lo stesso Seripando, il quale, dopo aver tentato la conciliazione degli opposti, esortando il barone napoletano alle buone opere, altro non fece che rafforzarne la sicurezza nelle proprie posizioni, motivi questi, che spinsero Sanseverino a opporsi, otto anni più tardi, alla presenza dell’inquisizione a Napoli (7). sobre el mundo hispano-italiano en tempo de Alfonso y Juan de Valdès, actas de coloquio interdisciplinar (Bolonia, abril de 1976), Roma, publicaciones del Instituto español de lengua et literatura de Roma 1979, pp. 185-197; M. FIRPO, Tra alumbrados e «spirituali». Studi su Juan de Valdès e il valdèsianesimo nella crisi religiosa del ‘500 italiano, Firenze, Olschki, 1990, p. 21; ID., Dal sacco di Roma all’inquisizione. Studi su Juan de Valdès e la riforma italiana, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1998, p. 64. (7) La predicazione di Museo, che aveva provocato «tumulto e travaglio» a Siena, non bisogna dimenticarlo, ebbe origine dopo che nella città toscana erano già diffusi i contenuti dell’Alphabeto Christiano. Sulla questione, ancora M. FIRPO, Dal sacco di Roma all’inquisizione..., cit., pp. 64, 92, 104 e 204; MARCANTONIO FLAMINIO, Lettere, cit...; A. PASTORE, Marcantonio Flaminio. Fortune e sfortune di un chierico nell’Italia del Cinquecento, Milano, Franco Angeli, 1981. Su Gerolamo Seripando e la sua posizione e attività in limine, cfr. H. JEDIN, Girolamo Seripando. Sein leben in deken im Geisteskampf des 16. jahrunderts, 2 voll., Würzburg, Rita-Verlag, 1937 e Hieronymi Seripandi diarium de vita sua 1513-1562, a cura di D. Gutierrez, «Analecta Augustiniana», XXVI (1963), pp. 5-193; GIROLAMO SERIPANDO, Dialogo Lutero Seripando sulla giustizia e la libertà del cristiano, Brescia, Morcelliana, 1981. Sull’istituzione del tribunale della Inquisizione a Napoli, è utile, soprattutto per analizzare le posizioni pro e contro questa situazione e pro e contro la possibilità che Sanseverino fosse coinvolto attivamente in una situazione in cui, nella migliore delle ipotesi, era chiaro che avrebbe avuto tutto da perderci (il che la dice lunga anche sulla convinzione del barone, in merito alle questioni non solo valdèsiane, ma anche semplicemente politiche relative alla presenza dottrinale e politica del papa nel vicereame spagnolo), lo scambio epistolare tra lo stesso Bernardo Tasso e Vincenzo Martelli edito in Delle lettere di M. Bernardo Tasso accresciute, corrette e illustrate. Vol. I con la vita dell’autore scritta da Anton Federico Seghezzi [...], in Padova, presso Giuseppe Comino, 1733, pp. 568-584. Dello stesso episodio abbiamo anche altre due testimonianze, la prima in funzione dei soli sviluppi stilistici e teorico-letterari (TORQUATO TASSO, Il Nifo overo del piacere, in Dialoghi, 2 voll., a cura di G. Baffetti, introduzione di E. Raimondi, Milano, Rizzoli, 1998, pp. 238-254), la seconda, sempre a firma di Vincenzo Martelli, che invece entra nel merito della questione illustrando la propria posizione nei confronti del suo signore (Rime di M. Vincenzio Martelli. Lettere del medisimo allo illustriss. Et eccell. S. Ferrante Sanseverino, Principe di Salerno, in Fiorenza, appresso i Giunti, 1563, pp. 8-10 [ma pp. 87-88]). Questioni storiche 275 Altro personaggio chiave, non solo per la questione, ma per lo specifico aggancio alla marchesa di Pescara, è Vincenzo Martelli di cui, in un volume di Rime e Lettere curato dal fratello Baccio, inserisce alcune rime proprio a Vittoria Colonna, «donna immortal», la quale, da soggetto amoroso, diventa personificazione della vera religione e soggetto preferito delle lettere martelliane a giudicare dal tono amichevole con cui il fiorentino le scrive (8). Donna gentil, che con sì puro inchiostro Schernite il tempo, e con leggiadri inganni Schivate de la morte i fieri danni; Che vien seconda al viver nostro: altro pregio horamai, che gemme, ed ostro vi si convien per sì graditi affanni: poi ch’a noi tolta, à bei celesti scanni v’alzate ogn’hor con l’intelletto vostro: e quasi raggio fra le nubi chiaro ne scorgete la strada e aprite al vero; hoggi à molti nascoso; à pochi caro: ond’io rivolto à così bel sentero; per le vestigie vostre à gire imparo del mio peso terren scarco e leggero (9). Nella sezione delle Lettere invece, tra i destinatari, compaiono molti personaggi che fanno parte della cerchia e degli interessi di Nifo, dalla signora di Tagliacozzo (dedicataria del De Pulchro), al Duca di Somma, da Fulvio Rangone ad Alfonso Rota. Tra i tanti componimenti, a p. 3 compare un testo che rimanda a temi religiosi opportunamente mascherati. Per tempestoso mar questa mia barca Corre l’onde d’amor con fieri venti, a farla dar pur ne sirti intenti, (8) «Io voglio, che voi tegniate per fermo, illustrissima mia S. che, s’io havessi rispetto al desiderio mio, [...] haverei sempre la penna in mano per iscrivervi parendomi che quell’hora, ò ch’io vi scrivo, ò ch’io penso di voi, sai di quelle dispensate al servigio delle cose divine: ond’io con molta ragione ho da supplicarvi, che restiate contenta, ch’io vi molesti con la frequenza delle mie lettere [...]» (Rime di M. Vincenzio Martelli. Lettere del medisimo, cit..., pp. 1-2 [ma pp. 79-80]). (9) Rime di M. Vincenzio Martelli. Lettere del medisimo, cit., p. 2. Nello stesso testo si conservano rime per Benedetto Varchi (p. 6 e pp. 52-54, dove compaiono due sonetti in risposta a quello dedicatogli da Martelli), Tullia d’Aragona (p. 18; sul giudizio poetico emesso da Tullia d’Aragona nei confronti delle poesie di Vicenzo Martelli, cfr. sempre le Rime di M. Vincenzio Martelli. Lettere del medisimo, cit., pp. 2-3 (ma 81-82) e Pietro Bembo (pp. 5-7). 276 Questioni storiche di fede sol, non più di speme carca: ben la potria guidar là ‘ve si carca fuor di periglio duo bei lumi ardenti ma l’empia stella, i lor raggi lucenti m’asconde, e vieta, al mio ben sempre parca: santi splendori un bel disio v’invogli scorgerla lunge da Cariddi, e Scilla; si che spieghi le vele a miglior volo solo al vostro apparir l’onda tranquilla tornerà tosto, e fuggiran gli scogli che voi ‘l mio porto sete, e voi ‘l mio polo. Infatti, i richiami all’esistenza dell’autore, all’onda dell’amore terreno e alla stella che nasconde la vera luce, evidentemente riconducono ai temi valdèsiani, laddove, i santi bagliori della vera luce diventano desiderio di una nuova condizione, una vera vivendi libertate per dirla nifanamente che, da Cariddi e Scilla, riconduce al porto salvo della esistenza cristiana. Nella raccolta non mancano altri richiami alle teorie di Nifo, soprattutto in merito ai due livelli della cogitatio e dell’intellectio uniti alla capacità (valdèsiana) di seguire la vera fede verso la verità cristiana (p. 23). Voi ch’aspirate a più sicuro fine scevri da la volgare, e cieca schiera che move il pié per così rio sentiero seguite seco l’orme sue divine ch’in questa notte tenebrosa e nera ne guideranno accortamente al vero [...] Spirto reale il cui bel nome chiaro Tutti i termini sprezza; Si ch’ogni primo honor li vien secondo: mentre divoto riverirvi imparo e per troppa vaghezza, cerco a gl’homeri miei soverchio pondo, farò più chiara al mondo (S’io scerno i pregi suoi) l’alta mia fede Che mi mostra un sentiero Non tocco ancor da così incauto piede; ma potrà dir per mia difesa il vero che i merti vostri, e ‘l dover mio infinito mi debbon far sovra le mie forze ardito (p. 25) Questioni storiche 277 Per quanto riguarda, invece, la figura di Girolamo Seripando, è necessario ricordare la sua partecipazione a uno dei momenti più tristi per la storia dell’ordine da lui diretto, in quanto coinvolto dapprima nella defezione luterana e poi interessato dal coinvolgimento di molti suoi membri nella diffusione delle idee ereticali (10). Del De misericordia (dalla sottoscrizione apposta alla editio princeps, terminato a Sessa il 5 luglio 1533), si conserva anche il relativo manoscritto autografo, datato nello stesso anno e segnalato da Kristeller (11). È evidente che la condizione morale ed etica del vir nobilis non è disgiunta dalla misericordia e dalla pietas religiosa, per cui, i trattati compresi in Prima pars opusculorum e quest’ultimo sono evidentemente parte di un progetto editoriale ben preciso e strutturato in più volumi, magari con l’aggiunta del De optimis principibus quae agenda sunt e quelli già pubblicati nel 1523: De senectute et iuventute (dedicato a Nicola Leonico), De morte vita (dedicato ad Alessandro Pazzi) e De longitudine et brevitate vitae (dedicato a Pietro Gravina) (12). (10) Non si dimentichi che erano agostiniani e con posti di responsabilità, Vermigli, Museo, Giulio della Rovere, Agostino Mainardi, Stefano da Milano, Agostino da Fivizzano e Alessio Casani da Fivizzano e altri, tanto che Ugo Rozzo ha ipotizzato una vera e propria strategia propagandistica che coinvolgeva, se non l’ordine tutto, sicuramente una sua gran parte e a diversi livelli. Tale condizione, basata sul triplice tema «sola fide, sola gratia, sola scriptura» e contrapposta al carnale giudizio, alla temeraria ragione e alle posizioni teologiche degli ipocriti temi alla base anche delle Prediche di Giulio da Milano (U. ROZZO, Le «prediche» veneziane di Giulio da Milano, «Bollettino di Studi Storici Valdesi», 152, 1983, pp. 3-30) – sono il fondamento dell’eterodossia degli agostiniani e di altri gruppi (piagnoni, antimedicei, erasmiani, repubblicani antipapali, umanisti anticlericali fiorentini, savonaroliani), per i quali Lutero è «un venerando religiosissimo» «per costumi, doctrina e religione prestantissimo». Alessio da Fivizzano, processato a Firenze nel 1529, interessa ancora la figura di G. Seripando per un lascito librario che il suo maestro Agostino gli aveva ceduto in mortem. Tale fondo (cinquanta libri «luterani», ereticali e proibiti), portato a Roma dal frate e consegnato proprio a Seripando fu, per ordine di questi, in parte distrutto (S. BONDI, Alessio Casani da Fivizzano OSA (1491-570) e le sue Memorie inedite, «Analectica Augustiniana», L, 1987, p. 5-44. (11) P. O. KRISTELLER, Iter Italicum, cit., I, p. 428: Augustinus Niphus, de misericordia, ad Hier[onimum] Seripandum, BNN, VIII, G 36, ff. 12. Nella Biblioteca Ambrosiana invece, è conservato un altro manoscritto, il De viro nobili, dedicato ad Antonio Seripando, corrispondente di Iacopo Sannazzaro, fratello di Girolamo e titolare di diversi codici manoscritti latini, dei quali, alcuni, già proprietà di Aulo Giano Parrasio, dallo stesso Antonio furono poi trasferiti per legato testamentario a Girolamo. Il ms. nifano è conservato in una miscellanea tuttora inedita, dal titolo Augustinus Niphus de viro nobili ad Ant[onium] Seripandum (BA, vol. XXVIII, S 100 sup.). (12) Il De optimis principibus, BNN, XIV, E 30, dedicato a Ludovico e Ferdinando di Cordova principi di Sessa ed edito il 3 aprile 1521 a Firenze dagli eredi di Filippo Giunta. Il De senectute et iuventute e De longitudine e brevitudine vitae saranno pubblicati in Parva naturalia, Venezia, Ottaviano Scoto, 1523. Di Pietro Gravina si conserva una lettera Ad Augustinum Niphum, poi Questioni storiche 278 3. Nifo e Vittoria Colonna Ad avvalorare l’ipotesi di cui sopra segnaliamo la coincidenza delle date di ultimazione, le quali, concentrandosi tra il 1531 e il 1535 indicano anche che l’ultima parte della vita di Agostino Nifo è stata contrassegnata da un preciso interesse per le tematiche attinenti il confine tra etica e religione, dalla ricchezza alla santità, dalla virtus alla solitudine ascetica, da tutte queste problematiche insieme alla possibilità del perdono e della fede misericordiosa. Ciò che colpisce è comunque la lettura averroistico-aristotelica della speculazione suessana, impostata secondo quei caratteri di felicitas che avevano contraddistinto la riflessione di Averroè e che ora, mediati da posizioni tomiste, conducono tutte a quel piano superiore dell’intellectio che di per sé, altro non è che la vera vivendi libertate dell’uomo felix (TABELLA 2). TABELLA 2: successione delle opere di I Pars opusculorum TITOLO DATA DEDICATARIO De divitiis In solitudine vivere De viro nobili De sanctitate De misericordia 15 agosto 1531 8 settembre 1531 Settembre/ottobre 1531 21 ottobre 1531 5 luglio 1533 Iacobo Nifo Agostino Pastineo Perifonense Antonio Seripando Gerolamo Seripando Gerolamo Seripando Seguendo la scansione degli argomenti del De vera vivendi libertate - in cui la trattazione della vera libertà del vivere è esposta in funzione prima della solitudine del vivere, poi della nobiltà dell’uomo che rinuncia alle ricchezze, quindi della santità dal vivere recte - e stando a quanto Nifo afferma nella dedicatoria del De sanctitate a Girolamo Seripando («[...] præcipua sita philosophiæ studium, post libellum de viro nobili Antonio fratri tui inscriptum [...]» (13)), è evidente che il libellus sulla nobiltà dell’uomo dedicato ad Antonio edita in P. Gravinæ Epistolæ denuo nunc æditatæ et argumentis sigillatim illustratæ. Cum indice argumentorum, rerum, et verborum, Neapoli, ex typographia Mutiana, 1748, pp. 81-82; il ms. è conservato alla BAV, Ottob. Lat. 2856, f. 13r. (13)Augustini Nihi Philosophi Suessani de Sactitate et de prophanitate libellus ad Hieronymus Seripandum Eremitani ordinis virum religiosissimum, in In prima pars opusculorum [...], Venezia, Pietro Nicolini de Sabio, 1535, cc. 97-124. Questioni storiche 279 Seripando è da collocarsi, come stesura, proprio nello stesso periodo degli altri Opuscula con questo avvalorando ulteriormente l’ipotesi di una vicinanza nifana a teorie e dottrine filosofiche e religiose, se non ancora illuminate, sicuramente spiritualiste e riformatrici. Infatti, se si leggono attentamente alcune sezioni del De vera vivendi libertate e in particolare i paragrafi relativi alla prudenza e alle modalità del vivere «honeste et per pacem» (Quod prudentia faciat veram vivendi libertatem e successivi, inerenti al libro I e poi la parte finale del libro II), si noterà come l’uso delle auctoritates, quoad primum Platone e poi Aristotele, non sia suggerito dalla expositio retoricamente intesa, ma dal fatto che Nifo le considera davvero voces clamantes, tali da essere convincenti non in forza della traditio, ma in forza di una veritas indiscutibile continuamente riutilizzabile. La vera libertà del vivere, intesa come vivere con prudenza e povertà, è considerata, nella lettura nifana, una forma vivendi soggetta (intendendola aristotelicamente secondo Eth, X) alla voluptas, quiete soddisfacente «[...] in re ipsa delectantes» (14) e «operationem sensualem» (15) che conduce al diletto dei sensi e perciò non spirituale. Per questo, tale condizione deve essere rigettata (e lo afferma proprio il teorico del sensismo rinascimentale, quello stesso filosofo che nel 1529 aveva scritto il De pulchro sulle fattezze di una delle più belle donne d’Italia) perché, vivere secondo virtù (cioè scegliere la vera libertà di vivere), non è vivere secondo desideri immediati, ma secondo virtus e contemplatio (nozioni riprese ancora dallo stesso topos aristotelico di Eth., X) (16). Solo così, la vera vivendi libertate diventa vita civilis, ordinata secondo uno scopo («ut in finem ordinatus») e «per pacem et ocium [...] et reliqua bona [...]» (17) dove l’ocium è naturalmente literarum. Ora ocium, contemplazione in vita virtutis e condotta per pacem, sono forme principali della vera libertà di vivere e della filosofia di vita degli stessi seguaci di Valdès a Napoli e soprattutto parte integrante della poesia di Vittoria Colonna; anche secondo lei, infatti, la felicità in Cristo, può essere raggiunta, proprio per usare la stessa terminologia nifana, solo attraverso il buon operare e la buona disposizione d’animo e il bonus vir può considerarsi al di sopra degli altri uomini solo perché vero credente (la categoria degli illuminati val- (14) (15) (16) (17) In prima pars opusculorum [...], Venezia, Pietro Nicolini de Sabio, 1535, p. 22. Ibidem. Ivi, pp. 23-24. Ivi, pp. 24-25. 280 Questioni storiche dèsiani?), in grado di riconoscere che Dio è unico al di sopra di tutti («supra [...] existens Deo») (18). Stupisce che ad appena un quinquennio dalla pubblicazione del De pulchro, Nifo corregga se stesso attraverso una virata argomentativa ad ampio raggio che va dal sensismo più acceso all’idea del bonus vir e alla corretta interpretazione del vivere e della santità, perché, come tutti i fatti misteriosi di cui la vita stessa si compenetra, anche il mysterium vitae può essere capito solo se si purifica l’anima dai vizi, attraverso le virtù morali, nozione che unisce il De Sanctitate al De auguris e soprattutto al De dæmonibus, finito quasi sicuramente nel 1492 e stampato insieme al De intellectu nel 1503. La posizione espressa da Nifo viene da lontano, rimonta direttamente alle posizioni averroiste e si ricollega, una volta di più, a istanze che nulla hanno a che fare con l’ortodossia romana e che, ancora nel 1560, sono non isolata convinzione se pensiamo che, all’interno del processo che il Sant’Uffizio pisano intenta al filoso aretino Gerolamo Borro, compaiono le stesse definizioni: dalla dichiarazione dell’errore tomista nell’attribuire ad Aristotele l’anima moltiplicata e immortale al purgare la propria anima dai vizi, unico mezzo per comprendere i fatti misteriosi (19). La felicità del vivere, nifanamente intesa, tornando a Vittoria Colonna, è allora un condursi verso quella «[...] cagion ch’al mio Sol conduce», (20) la quale, già nella mente umana (l’idea di bontà del vivere è in Nifo posizionata nella mente umana e sono solo le azioni e il vivere sine voluptate che ne permettono il ricongiungersi a Dio), ha solo bisogno di essere scoperta, proprio come Buonarroti afferma debba fare l’artista per la materia. Non ha l’ottimo artista alcun concetto C’un marmo solo in sé non circoscriva Col suo superchio, e solo a quello arriva La man che ubbidisce all’intelletto (21). Tali contatti smentiscono quanto affermato da Alan Bullock a proposito di una fase religiosa della poesia della Colonna inauguratasi dopo il 1538 e (18) Ivi, pp. 31-32. La formula, con lo stesso significato, compare più volte lungo il corso degli Opuscula, dal De vera vivendi libertate a quelli dedicati a G. Seripando, segno della continuità argomentativa e strutturale di tutti i trattati nel loro insieme. (19) AVPI, Acta S. Off., a. 1560-1580, pp. 7-9. (20) VITTORIA COLONNA, Quando ‘l gran lume appar ne l’Oriente, in Rime, a cura di A. Bullock, Bari, Laterza, 1982. (21) MICHELANGELO BUONARROTI, Non ha l’ottimo artista alcun concetto, in Rime, a cura di E. N. Girardi, Bari, Laterza, 1960. Questioni storiche 281 fanno arretrare almeno di tre anni la condizione spirituale addebitandone buona parte proprio all’influenza subita dal pensiero del Sessano (22). Lo studioso inglese, infatti, fissa in un terzo periodo, posteriore al biennio 1538-1540, la trasformazione contenutistica della sua poesia, ma non indaga, né indica, come cause per tale trasformazione, alcuna voce in merito se non coordinate bibliografiche relative alla pubblicazione sparsa e non autorizzata di gran parte di quelle rime, cosa che non può reggere poiché non abbiamo idea di quando, effettivamente, quegli stessi componimenti, potrebbero essere stati scritti. Anzi, conoscendo la ritrosia della marchesa di Pescara a render note le proprie poesie e sapendo che l’unico interlocutore esterno alla sua cerchia era Pietro Bembo (con la complicità di Giovio e Gualteruzzi), è evidente che non si possono dare che indicazioni non suffragate da certezze. Pertanto, allo stato dei fatti, la certezza che le Rime spirituali di Vittoria Colonna abbiano un antecedente teorico-filosofico così forte nel pensiero di Nifo, ci autorizza a pensare che esse siano nate proprio a contatto con quelle teorie e quindi ben prima del 1538-1540. Oltretutto, sullo stesso argomento anche Carlo Dionisotti, discutendo proprio del nutrito scambio epistolare intercorso tra Bembo e la marchesa tra il 1530 e il 1535, affermava che il passaggio a una vita «ostentatamente contemplativa» e nello stesso tempo attiva socialmente e culturalmente, doveva essere avvenuto intorno al 1534, precisamente dopo la morte di Clemente VII (23). È opportuno sottolineare anche che, l’idea nifana di una disposizione al bene dell’uomo e della sua diversa dipendenza dal lume divino, emergente in più punti del De sanctitate, è presente anche in una lettera di Flaminio a Contarini risalente al 1536 (ben prima del 1538), nel quale, il primo, lamentandosi della solitudine in cui versa a Verona dopo la partenza di Florimonte, afferma che la presenza di una grazia diversa negli uomini è teoria che non basta a consolarlo («[...] il lume divino, che sparge diversi raggi in diversi homini [...]» (24)). (22) VITTORIA COLONNA, Rime, a cura di A. Bullock, Bari, Laterza, 1982, p. 227 e pp. 326327. (23) C. DIONISOTTI, Scritti sul Bembo, a cura di C. Vela, Torino, Einaudi, 2002, pp. 126127. (24) MARCANTONIO FLAMINIO, Lettere, n. 3, da Verona, 16 gennaio 1536, a cura di A. Pastore, Roma, Edizioni dell’Ateneo & Bizzarri, 1978, p. 27. 282 Questioni storiche 4. Agostino Nifo e Girolamo Seripando Girolamo Seripando, che è il personaggio più direttamente implicato nelle questioni nifane e più vicino alla sua riflessione, dichiara nel proprio pensiero religioso e soprattutto in tema di riforma della Chiesa, posizioni che esprimono il pensiero filosofico di Nifo, soprattutto in tema di santità della vita e di ascetismo non fine a sé stesso. A tal proposito sono interessanti le parole indirizzate al vescovo di Fiesole il 9 maggio 1555 a proposito della morte di Marcello II, da Seripando individuato come persona adatta a costruire una vera riforma della Chiesa e morto dopo appena ventidue giorni di pontificato senza aver potuto neppure tentare un serio progetto attuativo (25). La presenza di Vittoria Colonna e Girolamo Seripando tra i dedicatari degli opuscoletti nifani e la particolare fisionomia (evidente già nei titoli) dei singoli trattatelli, dunque, se non fanno pensare a un’influenza valdèsiana sulle convinzioni morali ed etiche di stampo filosofico avanzate da Nifo, pure però, determinano un punto di appoggio consistente e solido con lo spiritualismo di Vittoria Colonna, condizione che già nel rapporto con Michelangelo era evidente e ben prima del 1534. Oppure, se non in questi termini, almeno rende evidente una vicinanza fisica a personaggi e gruppi aristocratici direttamente collegati a quelle idee. Infatti, già la fisionomia dei titoli rimanda a condizioni particolari della tranquillità della vita umana e dell’animo e cui Nifo non era nuovo, basti pensare che nello stesso periodo scrive il De re aulica ad Phausinam e che in precedenza aveva trattato temi di etica politica (25) «[...] Mi ricordai, non haver pregato Dio, che costui nominatamente fusse papa, ma solo che fusse uno, il quale segnatamente togliesse tanto opprobrio, & tanta derisione, quant’è quella, nella quale molti anni si truovano questi sancti nomi, Chiesa, Concilio, Riforma &. parevami che le speranze di questo nostro desiderio fussero cresciute fin’al sommo, anzi che non fussero più speranze, ma fatti [...]. La creatione di papa Marcello è stata [voluta] da Dio, perché tutte l’opere nostre opera Dio in noi, & per noi. La morte di papa Marcello è stata [voluta] da Dio, perché la morte, & la vita sono in mano del signore [...]. Non lascerò dire però un mio pensiero, anchorché basso, & molto lontano dalla infinita altezza della providenza di Dio. Ha voluto per aventura mostrarci avicinarsi tanto alla riforma, & in un tratto toglierci sì granda speranza, che la riforma non ha da essere opera umana, né ha da venire per le vie aspettate da noi, ma in modo, che noi non haveremmo saputo imaginarlo, & per mano valida, che parrà veramente suscitata da Dio, à vendetta da gl’empij, & laude di coloro, che saranno veramente buoni. Buoni dico, nel cospetto di Dio, & non ne gli occhi de gli homini. Della qual riforma ha voluto mostrarne, che non è ancora il tempo, non essendo ancor finite le nostre iniquità, sia pregato, che si degni sempre temperare i suoi giusti sdegni con la dolcezza della sua misericordia. [...] Da questo pontificato [Paolo IV Carafa] io non aspettava altro che fatiche [...]» (Lettere di principi [...] libro primo, nuovamente mandato in luce da Girolamo Ruscelli, in Venezia, appresso Giordano Zilletti al segno de la Stella, 1562, pp. 175-177). Questioni storiche 283 e d’inimicizia (26). Oltretutto, se si guarda alle semplici date della vita di Nifo e della Colonna, non si può non evidenziare la vicinanza intellettuale e fisica dei rapporti intercorsi. Tornando quindi alla questione originaria, la definizione d’intelletto è la vera e unica chiave per interpretare i rapporti tra Nifo, il circolo colonnese e Girolamo Seripando. Infatti, agendo in una lettura sigerista, egli considera separate l’anima intellettuale (intesa come un tutto che comprende la funzione intellettiva, sensitiva e vegetativa) e l’intelletto, a sua volta compreso come parte dell’animo intellettivo. Per questo, essendo solo una parte, è logico che la seconda metà si debba trasmettere solo attraverso il seme: solo da questo procedimento di unione di mezzi, può nascere l’anima intellettiva. Quest’ultima è individuale e permette di dar vita a quella copulatio con l’intelletto che permette la nascita di uno «[...] spiritus sive forma, sive potentia, sive virtus»; l’intelletto invece, riguarda la copulatio con i phantasmata, dei quali riceve le intentiones in forza dell’intelletto agente (27). Per Nifo vi sono condizioni oggettive valide universalmente e immutabili che ci vengono rivelate dall’intelletto come strutture complessive della realtà e che sono raccordate alla nostra capacità di percepire e comprendere; alcune di quelle possibilità alla nostra conoscenza offerte, sono collegate direttamente all’anima intellettiva, in base alla quale, esistiamo come individui in grado di modificare noi e le cose. Pertanto, la conoscenza, da un lato non si riduce alla sola manipolazione umana, dall’altro, l’anima stessa non dipende solo in parte dalle strutture dell’essere rivelate dall’intelletto, con ciò lasciando all’anima intellettiva un ampio margine d’intervento. Mentre il giusto vive per la fede, il buono vive per la virtù e per quella parte razionale dell’anima che gli è propria. Del resto, il bonus vir, corrisponde alla nozione di magnanimo che Galeazzo Florimonte esprime nei suoi Ragionamenti derivandola proprio dalla riflessione nifana. Infatti, in esso, l’uomo magnanimo «s’adopera nelle faccende della patria» avendone a cuore i destini, è «otioso» non perché indolente e negligente, ma perché vive con distacco le cose terrene («[...] non per negligenza, ma perché le faccende a lui appartenenti sarebbon rare» (28)), non nasconde (26) Il De re aulica ad Phausinam libri duo, terminato a Salerno «MDXXXIV, die XXIV, aprilis», è stato poi edito anche in volgare: Il cortigiano del Sessa, Genova, Antonio Belloni, 1560. Per le questioni legate all’inimicizia si veda, invece, il De inimicitiarum lucro, in Augustini Niphi medices [...] de armorum literarumque comparazione, unitamente ad un’Apologia Socratis et Aristotelis, tutti terminati nel 1525 a Sessa «rure nostro» e stampati a Napoli, per gli eredi di Sigismondo Mayr per Evangelista Papiense nel 1526. (27) AGOSTINO NIFO, De immortalitate animae libellus, Venezia, Ottaviano Scoto, 1521, p. 1-2. (28) GALEAZZO FLORIMONTE, I ragionamenti del Sessa [...], Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554, p. 113. 284 Questioni storiche i propri sentimenti perché né è timido né «persona di poco cuore», si contenta della sola virtù e grazie ad essa si diletta di dire e fare ciò che più si conviene all’onestà e all’etica civile. Contro la plebe usa l’ironia («la lodevole simulatione»), sceglie il vero («è bene il vero»), ed è pronto, di fronte all’adulazione smodata, a sminuire le proprie prerogative (p. 113). Predilige vivere con i propri amici in un rapporto tanto equilibrato e giusto che gli sembrerà di «viver seco istesso», al punto che tale condizione, essendo isolata dall’esterno e ridotta alla sola cerchia di fidati amici, rimanda, gioco forza, ai concetti predominanti del De vera vivendi libertate (quando parla dell’amicizia) e al De sanctitate (quando espone il concetto di ascetismo, preso nella sua dizione “laica” e non religiosa, secondo cui l’uomo nifano riconosce la propria felicitas nella esistenza morigerata e nell’essere solo, non per dimensione esistenziale, ma per condizione etica). Per Nifo, nessuna cosa è grande tanto quanto la virtù e proprio per questo l’uomo felice di questa condizione non può essere nemico di ogni adulatore, vero nemico delle virtù (p. 132). È evidente che nozioni ontologiche così intese, permangono nel quadro di un averroismo mai cancellato, in cui la felicità si esprime sul solo piano dell’intellectio e non su quello della cogitatio, proprio invece, dell’adulatore «che non intende mai, che a fare dimenticare et sconfessar l’huomo se stesso, dandoli ad intendere, quello che è, et quello che non è» (p. 132). È interessante notare anche che, all’interno di questo quadro di concordanze e scelte filosofiche, la filosofia del Sessa ritorni in questi stessi termini, nella questione del De regnandi peritia, laddove rivendica, rispetto e diversamente al tema della fortuna trattato nel Principe di Machiavelli, una vita contemplativa dei Sapientes e una loro superiorità come gruppi dominanti (rispetto alla massa) che rispecchia la traditio politica averroista. Ancora una volta è la cogitatio che occupa un campo operativo di primo piano in quanto strumento operativo umano diverso dall’intelletto. In questo modo, volendo ricorrere all’aspetto politico e sociale delle idee nifane, è proprio delle classi dominanti l’intelligere, mentre delle classi inferiori la semianimale cogitatio. La scrittura nifana, allora, soprattutto richiamandoci alla distinzione su esposta e ricollegandola a quanto scritto nel De divitiis dedicato al figlio Iacobo e posto in apertura degli Opuscula, propone la teorizzazione del rapporto tra proprietà e produttore in una chiave di necessarietà reciproca, tale che tutti i valori siano appannaggio di tutti coloro che presiedono alla distribuzione della ricchezza (nobili e proprietari terrieri), mentre la produzione resta confinata a livello di pensiero pratico e di cogitatio, prospetto teorico che anticipa il pensiero di Bernardino Telesio. La morale che ne discende, e arriviamo alla vicinanza con gli Opuscula e Vittoria Colonna e Girolamo Seripando, stabilisce regole di distribuzione della Questioni storiche 285 ricchezza (come liberalità) che escludono arricchimenti tirannici e comportano il raccordo tra le esigenze del governo nobiliare e quelle della produzione e della tecnica. L’uomo può e deve reggere il governo secondo gli equilibri propri della politica e delle convenzioni del tempo, ma senza intervenire in maniera ferrea (e non con la forza della propria posizione dominante come nel Principe) e soprattutto rispettando quei principi di liberalità e conformità alle buone regole sociali e politiche che portano anche a una maggiore e più equa capacità di redistribuzione delle ricchezze prodotte. Si riassume qui, con modalità e scelte naturalmente diverse in quanto a costruzione, ma simili in quanto a scopi perseguibili, quello che Jacopo Sadoleto scriveva a Erasmo a proposito della necessità della propria azione e responsabilità in seno a una riforma della Chiesa imminente e necessaria (29). La stessa santità è colta in aspetti esclusivamente di merito e di rapporto tra gli stessi meriti e le opere e la fede; in questo senso, la giustificazione per fede diventa anche per merito, permettendo che, l’uomo, dal piano della cogitatio (sola fede), passi all’intellectio dei meriti del credente che si confonde con Cristo. Come confermato al figlio Iacobo, la ricchezza è un bene che va amministrato con liberalità e scelte oculate, al fine di aumetarne certamente la quantità, ma anche con lo scopo di arricchire un territorio, non solo produttivamente, ma anche socialmente, essendo dovere del nobile esercitare la carità, promuovere le arti e sollecitare il progresso delle classi subalterne, un discorso questo, molto vicino alle discussioni simili che alla corte di Ferrante Sanseverino si svolgevano nello stesso periodo e che spingeranno Caracciolo ad abbracciare la riforma. In ogni caso, la posizione nifana è certamente più spregiudicata di quella di Seripando, il quale, su questi stessi temi, nell’intervento al Concilio di Trento sulla giustificazione, si limita a una difesa labile, poco dotta e tutta basata sulla scusa che si vorrebbe parlare di divini misteri con il vocabolario della filosofia (30). (29) «[...] Noi, caro Erasmo, per quanto possiamo, l’uno e l’altro secondo le proprie forze, veniamo in soccorso della decadente fede cristiana [...]» (lettera a Erasmo, s.d., ma 1530, in Jacobi Sadoleti Opera, vol. I, Verona, 1737, p. 75). (30) «[...] È certamente ardua questione stabilire qualcosa sulla giustificazione secondo i generi e delle cause e mostrare quale genere sia da porre la fede, oppure, se non può aver luogo in alcun genere, come debba farsi menzione per la dignità di essa, di cui Paolo ebbe tanta considerazione quanta si può vedere in tutte le sue epistole. Sulle cose che concorrono 286 Questioni storiche La santità e la vera libertà del vivere poggiano entrambe sulle stesse scelte di vita che l’uomo deve compiere: da un lato, infatti, vivere la propria ricchezza in maniera liberale e consona alle regole degli antichi filosofi (e di Platone e Socrate in particolare, di cui lo ricordiamo, Sessa aveva anche composto nel 1525 un’Apologia) equivale al vivere la propria religiosità secundum Scripturas di Vittoria Colonna e soprattutto di Valdès e del suo gruppo. La stessa concezione del battesimo, che Nifo enuncia nel De Sanctitate e che Florimonte ripete addebitandola allo stesso filosofo nei Ragionamenti del Sessa, risponde a un’idea di Baptisma in Christo che è accettazione della fede e implicitamente atto contritivo che Dio compie verso l’uomo. È interessante notare, che qui, in termini di perdono, le teorie espresse sono molto distanti da quanto de Vio negli Opuscula adversos Lutheranos espone a proposito della contrizione e dell’attrizione, qui intesi come fenomeni propri del peccato e in Nifo considerati, invece, aspetti di un rapporto amicizia/inimicizia che sfocia nella negazione dell’amicizia disinteressata e della delazione contro il felice e il suo stato di grazia etico e morale (31). Anche per Valdès il battesimo è fede in Cristo e perdono che in quanto tale, è portatore di Grazia che cura il male e allontana l’uomo da esso. Come tale, per l’eretico spagnolo, il battesimo in Cristo, quando è vera fede, è implicitamente accettazione stessa di quella. Per Nifo, non dissimilmente, vivere per veram libertatem è già vivere in vitam venturi; unica differenza con lo spagnolo è che l’arma con cui si rafforza il perdono, cioè la Grazia, illumina tutti senza differenze, posizione cui tendevano anche, e senza tentennamenti, Grimani e Seripando. Lo conferma una lettera di Flaminio indirizzata proprio a Seripando in cui, rivendicando la propria posizione (l’uomo accetta volontariamente la grazia che Dio gli offre e tale atto non può avvenire senza lo speciale aiuto di Dio stesso), contesta quella espressa «de gratia et libero arbi- alla giustificazione possiamo essere edotti dalle sacre lettere e anche dagli antichi dottori della Chiesa cattolica. Delle quattro classi di cause non si trova là alcuna menzione, alcuna parola. Bisogna dunque ricorrere ai teologi recenti e particolarmente a San Tommaso, il quale sembra che abbia parlato più chiaramente di quest’argomento [...] inoltre, se si dice che la fede in tanto giustifica in quanto dispone, si direbbe male che le opere non giustificano; giacché anche le opere dispongono come è dichiarato nel decreto. Ma queste angustie ci vengono dalla filosofia quando vogliamo parlare dei divini misteri secondo i suoi schemi» (Concilium Tridentinum, vol. V, Ed. Soc. Gorresiana, p. 743) (31) Sulla questione, cfr. CH. MOREROD, Cajetan et Luther en 1518. Edition, traduction et commentaire des opuscles d’Augsburg de Cajetan, tt. I/II, Fribourg (CH), Editions Universitaires, 1994; per le posizioni nifane, invece cfr. GALEAZZO FLORIMONTE, I ragionamenti del Sessa [...], Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554, p. 52-53. Questioni storiche 287 trio», basata, appunto, sulla definizione nifana di una grazia che illumina in maniera indifferenziata (32). È un peccato che Flaminio non si addentri nella questione, anche citando i filosofi e teologi che hanno in precedenza appoggiato la propria teoria della grazia e del libero arbitrio perché non avrebbe potuto fare a meno di citare proprio Agostino Nifo, Cajetanus e Pomponazzi, i tre che fino a quel momento (loro malgrado) avevano dato un impulso non indifferente alla questione dell’immortalità dell’anima e dei riflessi di questa teoria sulla grazia, la predestinazione e il libero arbitrio. In particolare l’Alter Thomas, proprio nel 1528 (In Matheum) e poi nel 1534, ammettendo che Aristotele non aveva potuto dimostrare l’immortalità dell’anima (con ciò confermando quanto aveva scritto a proposito già nel 1514, cioè due anni prima del De immortalitate animae di Pomponazzi), scrisse che i motivi per cui essa era immortale erano solo probabili e che le stesse Trinità e Incarnazione erano da associarsi alla stessa definizione. Così, se l’immortalità dell’anima era tutta da dimostrare, meno che mai si sarebbe potuto dimostrare che grazia e libero arbitrio agiscono davvero, a meno che non si accetti la sola verità di fede per dimostrarne la positività (33). (32) «[...] Sono due positioni, una delle quali dice che gratia del Signore Dio è simile alla luce del Sole, la quale sempre illumina ciascuno che non vi mette impedimento, la quale illuminatione è tanto eguale in tutti gli homini che non è differentia alcuna fra quella gratia che offerisce ordinariamente il Signor Dio alli reprobi et quella che egli dona alli predestinati. Dice anchora che l’accettatione di questa luce è mera operatione del nostro libero arbitrio, onde si conclude per mio giudicio chiaramente che ogniuno egualmente si può salvare. L’altra opinione, che piace a Ms. Tullio [Crispoldi] et a me dice che è vero che l’homo accetta volontariamente la gratia che gli offerisce Dio, nella quale consiste la salute nostra, ma che questa accettazione non si fa senza spetiale aiuto di esso Dio, il quale soavemente a ciò dispone la nostra volontà. Questa opinione non piace a V. S., perché le pare ch’ella nieghi il libero arbitrio et faccia essere i reprobi scusabili, et finalmente faccia esser Dio causa del peccato, le quali cose senza dubio sono abominabili et lontanissime dal vero. A queste oppositioni rispondo brevemente che molti theologi non meno illustri per santità che per ingegno et per dottrina hanno tenuta la predetta positione et insieme confutate le ingiuste querele delli reprobi et difeso il libero arbitrio et essaltata la infinita bontà di Dio benedetto, mostrando che da lei non può nascere male alcuno, né mancano hoggidì degli homini grandi che fanno il medesimo. Sì che non bisogna ch’io entri in questo pelago di dispute, massimamente ché la mia barchetta appena mi conduce securamente per li fiumi» (MARCANTONIO FLAMINIO, Lettere, n. 23 del 15 luglio 1539 da Caserta, pp. 75-82). (33) «[...] Che la grazia e il libero arbitrio abbiano a concordarsi è certamente vero, perché una verità non può contraddire un’altra verità, ma non so come si concordino, come non so in qual modo siano verità il mistero della Trinità, l’immortalità dell’anima, l’incarnazione del verbo, e altre verità simili che ammetto per fede» (THOMAE DE VIO CAJETANUS, In Matheum [...], XXII, 32, Parigi, Ambrosium Girault, 1540, f. 119v. È quanto meno interessante che, tali affermazioni, vengano fatte in un commento al Vangelo di Matteo, medesimo luogo su cui, più 288 Questioni storiche 5. Nifo, Florimonte e l’immortalità dell’anima Fondamentale a questo punto, è la figura di Galeazzo Florimonte, autore de I ragionamenti di m. Agostino da Sessa all’illustrissimo principe di Salerno sopra la filosofia d’Aristotele e soprattutto primo confutatore al Concilio di Trento, nel 1546, del Beneficio di Cristo, opera eretica per antonomasia composta dal monaco Benedetto Fontanini da Mantova e rivista da Marcantonio Flaminio non solo per la successiva edizione a stampa, ma anche in vista di una defensio attraverso l’Apologia (34). I rapporti tra il vescovo di Aquino e Sessa e Nifo riconducono, ancora, al clima napoletano del periodo 1534-1535 e sono alquanto singolari, poiché le due figure si pongono a margine di circoli ermeneutici e personaggi i quali, all’interno della chiesa romana, o avevano tentato di progettare una riforma della chiesa o, in virtù di posizioni sociali e aristocratiche di primissimo piano nella vita politica dei propri stati, non avevano fatto mistero di convinzioni religiose eterodosse e di spiritualismo riformatore. In particolare, Nifo ritiene l’uomo obbediente non alla rivelazione (cioè alla parola rivelata attraverso la Scrittura, con ciò intendendo una visione eterodossa della questione), ma alla presenza immanente di Dio stesso, considerata all’interno di quel Deus est che non passa per la scrittura, ma averroisticamente per la natura. L’unicus spiritus ubique diffusus è allora il tema centrale di tutta la riflessione filosofica e teologica del cinquecento, a partire proprio da Nifo e a giun- avanti nel tempo, opererà lo stesso Valdés (JUAN DE VALDÉS, Lo evangelio di san Matteo, a cura e introduzione di C. Ossola, testo critico di A. M. Cavallarin, Roma, Bulzoni, 1985). «[...] Benché i filosofi non siano persuasi dell’immortalità delle anime, i credenti nella parola di Dio, aspettando la perfetta beatitudine della patria celeste, ammettono con assoluta convinzione la resurrezione della carne» (THOMAE DE VIO CAJETANUS, In epistula S. Pauli [...], Parigi, Ioannem Foucher, 1542, f. 67v.). Si sottolinea, però, che Cajetanus è coerente con se stesso dato che, come maestro generale dei Predicatori, non aveva approvato quella parte della bolla Apostolici regiminis (17 dicembre 1513) che, in base al dettato del Concilio Lateranense V, obbligava tutti i professori degli Studia che si trovassero a discutere di immortalità dell’anima a convincere con ogni mezzo l’uditorio, soprattutto se di essi era «[...] noto il distacco dalla vera fede [...]» (GIOVANNI DI NAPOLI, Religione e filosofia nel rinascimento, in Grande Antologia Filosofica. Volume IX..., cit., pp. 1855-2038 e particolarmente le pp. 1981-1985). Su tutta la questione, è ancora valido l’intervento in materia di C. GIACON, La seconda Scolastica, in Grande Antologia Filosofica. Volume IX: il pensiero della rinascenza e della controriforma (protestantesimo e riforma cattolica), diretta da M. F. Sciacca coordinata da A. M. Moschetti e M. Schiavone, Milano, Marzorati, 1964, pp. 2039-2135. (34) BENEDETTO DA MANTOVA, Il Beneficio di Cristo. Con le versioni del secolo XVI documenti e testimonianze, a cura di S. Caponnetto, Firenze – Chicago, Sansoni, The Newberry Library, 1972. Questioni storiche 289 gere a Bruno, Telesio e Campanella. Esso trova ampi agganci nella riflessione filosofica aristotelica e averroista del secolo precedente, intercorsa soprattutto nell’ambiente padovano e fiorisce, in seguito, negli ambienti dell’accademia napoletana tra il 1535 e il 1540, prima della reazione di Pedro de Toledo. Chi è dotato d’intellectio è, per citare ancora Pietro Carnesecchi e gli atti del processo a suo carico, «eletto del signore» poiché dimostra di possedere tale dono, non solo con le parole «ma con la vita e con le opere» (35). L’eletto deve avere massima cura nel salvaguardare il proprio corpo, la propria moralità, la propria salute fisica e morale e deve rinnegare ogni forma di ascetismo. La stessa Giulia Gonzaga attribuiva, del resto, al cardinale Pole il merito della salute «dell’anima e di quella del corpo [...] che l’uno per superstizione, l’altra per malgoverno era in periculo» (36). Nifo, parimenti, e ben un quinquennio prima di Valdès a questo punto, espone le stesse idee negli Opuscula e le dedica agli stessi personaggi che di lì a un lustro saranno parte del circolo di illuminati creatosi intorno al pensiero dello spagnolo. Infatti, il rifiuto dell’ascetismo condannato nel De solitudine, è tratteggiato proprio in funzione di una temperanza dell’essere il quale non ha bisogno di rifugiarsi egoisticamente in se stesso, ma di cercare attraverso la riflessione il rapporto con Dio. Il controllo degli affetti proposto da Nifo, che torna in Valdès come risultato di un’illuminazione, sfocia in una nuova moralità che si dota di parole d’ordine tutte intrise di averroismo latente: dalla felicità e la vera felicità del vivere al contentarsi del poco che si possiede, dal godere le proprie ricchezze con liberalità avendole conquistate con le proprie capacità (visione quasi calvinista) al condannare l’avarizia, dalla temperanza alla castità dei comportamenti. Mentre i riformatori cercano una dimensione comunitaria mediata dalla cristologia, Nifo ne introduce una mediata dalla filosofia. Attenzione però, perché l’idea nifana, non è una riedizione della teoria platonica (da cui pure negli Opuscola parte), ma l’espressione di una visione in cui, alla filosofia e alla religione competono due campi diversi, l’uno dall’altro separati, ma entrambi capaci di esprimere la propria verità (37). (35) G. MANZONI, Estratto del processo Carnesecchi, «Miscellanea di Storia Patria per cura della Regia Deputazione di Storia Patria», t. X, 1870, p. 196. (36) Ivi, p. 497. (37) Nell’inconciliabilità (nifana e pomponazziana) tra verità di fede e filosofia (ragione), ancora una volta, non si è molto lontani dall’averroismo professato e difeso in quel di Padova (fino all’editto Barozzi) e Bologna tra Quattrocento e Cinquecento. Basta, infatti, rileggere 290 Questioni storiche Le soluzioni sono entrambe false: il filosofo, essendo tale, non sceglie quella meno offensiva, ma quella più conforme alla comprensione e più aderente alla traditio e alla sua interpretazione. In questo modo, l’intelletto, non è forza (virtus) insita negli elementi, né è materiale perché potenza, né è moltiplicato (anche se Aristotele l’ha creduto) ed è invece coscienza di sé e pura astrazione, opinione che non può essere vera («[...] utrum intellectum possibilem habeat omnis homo, opinio Philosphi est quod sic. Illa opinio non est vera» dirà nei Quodlibetalia de intelligentiis pubblicati a Bologna nel 1494). Né può essere vera se non si vuole ridurre l’intelletto possibile a funzione corporea, risoluzione che proprio Pomponazzi sceglie per sottrarsi all’inesplicabile trascendenza dell’intendere rispetto al soggetto che intende. Il dilemma averroista tra intrinsecità e estrinsecità dell’intelletto (che comporta, di conseguenza, rispettivamente, la presenza di un solo uomo o l’impossibilità per lui di comprendere), è da Nifo ripresa a partire dal De anima di Nicoletto Vernia che aveva dichiarato inutili e incomprensibili la molteplicità di intelletti e forme umane, considerate moltiplicazione altrettanto inutile della stessa specie umana. Anche Sessa, rinunciando all’estrinsecità dell’intelletto, stabilisce che la possibilità del comprendere è un atto umano, al di là dell’azione stessa del comprendere, in questo apparentandosi con Pomponazzi e Gasparo Contarini, allievo del modenese e suo primo oppositore al momento della pubblicazione del De immortalite animae. Anzi, quest’ultimo, non potendo attaccare il maestro, non trova altra soluzione che rifugiarsi nel tomismo, campo in cui, però, non esistevano certezze sull’argomento, vista la posizione di de Vio, ad esempio, e le accuse di alessandrinismo che gli rivolgerà, in un impeto di platonismo, Crisostomo Javelli, il quale, peraltro, riconosce a de Vio e Peretto, in quanto commentatori aristotelici, almeno sul piano filosofico, la legittimità delle loro posizioni e il diritto di precisare, al di fuori di ogni preoccupazione di fede, la posizione della ragione naturale. Tale accusa, in effetti, non era lontana dalla verità poiché, per Cajetanus l’anima non poteva dimostrarsi immor- quanto Alessandro Achillini, averroista, docente a Padova e Bologna e secondo Giovio, maestro di Pomponazzi (che gli succederà proprio alla cattedra bolognese) - scrive dopo aver dichiarato l’inconciliabilità della filosofia con la fede: «[...] Sed dicis: quomodo stat opinio Aristotelis cum fide? Quia secundum rationem naturalem aut intellectus est unus – ut intellexit Averroys Aristotelem – aut intellectus est purificatus incipiens esse – ut Aphrodisieus Alexander. Istorum autem nulla est conformitas fidei. Responsio: haec est circumstantia propter quam dixi oportere relinquere Philosophum, inter duas illas opiniones falsas probabiliorem eligendo: illa est opinio Averroys» (ALESSANDRO ACHILLINI, De elementis, II, 5). Questioni storiche 291 tale con i mezzi forniti da Aristotele, mentre, appoggiandosi all’interpretazione di Alessandro d’Afrodisia, diventava più facile, attraverso l’intelletto agente, per l’uomo avvicinarsi alla conoscenza di Dio. Tutto ciò, naturalmente, aumenta la confusione tra alessandrinisti, averroisti e tomisti riducendoli in un crogiuolo d’idee, riflessioni e commenti che scambiano le posizioni e le correnti e fanno apparire, in alcuni casi, Pomponazzi alessandrinista e Nifo tomista. Il problema, appunto, è proprio questo: Quanto, su queste basi, è tomista la riflessione operata dal de Vio, quanto alessandrinista quella di Pomponazzi e averroista quella nifana? Si guardi alla posizione averroista assunta da Pomponazzi in merito al De incantationibus, nel quale richiama evidenti posizioni espresse nella Destructio destructionis (secondo cui si deve evitare la contaminazione tra religione e filosofia e fra quello che utile al volgo e quello che utile al dotto) e si capirà quale uso sia fatto delle teorie dei maestri e quale rapporto s’instaura tra le proprie riflessioni e l’interpretazione del pensiero delle auctoritates prese in considerazione (38). È nota, rimanendo a Florimonte, la posizione filo-riformatrice e, anzi, come giustamente osservato da Massimo Firpo, proprio l’intervento contro il Beneficio di Cristo (di cui si dà per scontata la conoscenza da parte dei colleghi conciliari), sembra più un attacco scaturito dalla necessità di autodifendersi dopo che si era schierato a favore delle posizioni espresse da Girolamo Seripando in un precedente intervento, che non una vera e propria confutatio (39). Ma è la data d’ideazione dei Ragionamenti curati da Florimonte che meritano maggiore attenzione, proprio perché determinandone la data esatta, si possono ancor di più individuare altri contatti, non ultimi anche quelli con Aonio Paleario (il quale, proprio nel 1536 pubblica il De animorum immortalite) e ancora con i gruppi riformatori interni alla chiesa romana poiché, ancora nello stesso anno, esce il Consilium de emendanda ecclesia, importantissimo rapporto per capire la vera volontà riformatrice che animava diversi personaggi della curia, non ultimi anche quelli che, in casa Pole, nel biennio 1541-1542 daranno vita al vero e proprio nucleo della Ecclesia viterbensis. A prescindere dalla volontà di voler illustrare la riflessione del maestro, I ragionamenti di m. Agostino da Sessa scritti da Florimonte non possono che risalire al periodo 1530-1535, epoca in cui Nifo è ormai stabilmente a Sessa e, al massimo, si muove tra il paese natale, Napoli e Salerno. In particolare, il 1535 potrebbe essere l’anno in cui Florimonte fissa il ricordo della discus- (38) PIETRO POMPONAZZI, De incantationibus, Basilea, 1556, pp. 201-242. (39) M. FIRPO, Dal sacco di Roma all’inquisizione, cit., p. 120. 292 Questioni storiche sione, vista la presenza a Salerno di Nifo e dello stesso Florimonte, per il quale peraltro, dalle lettere di Marcantonio Flaminio, proprio in quell’anno il vescovo di Sessa si era allontanato da Verona per tornare in Campania (40). Per individuare i contatti esistiti tra i gruppi riformatori napoletani e Nifo, la corretta attribuzione del dialogo, pur essendo importante ai fini del catalogo nifano, pure rimane problema secondario, poiché, a nostro avviso, la presenza di convincimenti morali filo-spirituali (mascherati di platonismo e averroismo aristotelico) sono evidenti in due situazioni: la questione degli atti corretti (o errati) dell’uomo (che investe anche la questione dell’anima e dell’intelletto agente secondo Averroè, problema che nel 1535 da Nifo dovrebbe essere già stata superato in favore dell’aristotelismo ortodosso e che, invece, allo stato dei fatti, non sembra neppure preso in considerazione), la giustezza morale degli atti computi in fede e la forza che il battesimo in Cristo infonde all’uomo che crede. Come si vede, a prescindere dalla vera attribuzione, il trattato morale è parte del pensiero filosofico e delle riflessioni teologiche napoletane e salernitane prodotte all’interno del gruppo valdèsiano ed è ancora legato indissolubilmente alla questione dell’immortalità dell’anima. Che sia Nifo o Florimonte, siamo davanti a un evidente caso di nicodemismo filosofico. Infatti, se il trattato è davvero opera di Nifo, allora il suo averroismo iniziale non è mai stato abbandonato e la trattazione aristotelica è solo una facciata costruita ad arte per mitigare le proprie posizioni. Se invece è opera di Florimonte, allora siamo in un clima completamente immerso nelle discussioni valdèsiane e riformatrici e la presenza di due personaggi come Minadois e Brancaccio (entrambi vicini sia a Juan de Valdès che a Sanseverino e Isabella) avvalla la necessità di rileggere attentamente quanto messo in bocca a Sessa. Anche perché la presenza di Agostino Nifo, qualora il dialogo sia stato progettato dopo il 1538 e anticipato nel tempo per motivi letterari e censori insieme, potrebbe essere un espediente ideato proprio per evitare una censura inquisitoria. Girolamo Ruscelli, del resto, nell’introduzione all’edizione del 1554 dichiara apertamente che il libro in questione, l’ha veduto due volte, una prima senza titolo, né frontespizio, né indicazioni e una seconda, invece, in cui il nome di Florimonte appariva evidente; di Florimonte, appunto (e non di Agostino Nifo), di cui Ruscelli dichiara anche di aver confrontato il testo del Ragionamento con uno di Omelie edito l’anno precedente, il quale, potrebbe essere quel libro di Prediche che Bernardo Tasso loda nelle proprie Lettere (41). (40) MARCANTONIO FLAMINIO, Lettere, cit. n. 3, da Verona il 16 febbraio 1536, p. 27. (41) Delle lettere di M. Bernardo Tasso, cit., p. 521. Questioni storiche 293 Non solo, ma sempre rispetto a Florimonte, Tasso padre cita anche un Dialogo che il vescovo d’Aquino gli ha mandato perché possa presentarlo a Sanseverino ed è evidente che il dialogo di cui si parla è il Ragionamento con ciò dichiarandone involontariamente la vera attribuzione (42). Altro punto di contatto fra lo studio padovano, le visioni aristotelico-averroiste e le idee ai limiti dell’ortodossia è costituito da Nicolò Leonico – dedicatario del De iuventute et senectute, terminato a Pisa il 25 aprile del 1521 e inserito nei Parva naturalia del 1523 – e autore anch’egli di una traduzione della stessa opera aristotelica edita nello stesso anno. Il professore padovano è importante ai fini della nostra ricerca anche perché l’anno successivo, a Venezia e con la cura di Giovanni Montesdoch, sono pubblicati i Dialogi sull’immortalità dell’anima, tutti insieme dedicati a Reginald Pole e ognuno intestato a Bembo, Sadoleto, Sanudo e altri, i quali, senza incorrere in evidenti contraddizioni, pure presentano alcune formule come innatismo e preesistenza della anima che sembrano avere più un orientamento platonico (come le scelte nifane) che non aristotelico. La questione dei rapporti di Nifo con riformatori e personaggi gravitanti intorno all’area valdèsiana - in un quadro per niente esaustivo e su cui si sta ancora lavorando sulla base delle lettere di Flaminio e di ricerche archivistiche in corso presso l’archivio del Centro Storico Culturale di Gaeta per quanto concerne i rapporti tra Flaminio, Nifo, Coriolano Martirano e Silvio da Gaeta, nell’ottica di una determinazione di un circolo riformatore piuttosto attivo tra Sessa e Gaeta almeno tra 1530 e il 1555 - emerge anche da un raffronto tra dedicatari delle opere nifane e i corrispondenti di Marcantonio Flaminio (TABELLA 3). TABELLA NOME A. CARAFA 3: dedicatari delle opere di Nifo e interlocutori di Flaminio OPERA DI NIFO Met. disput., 1511 MARCANTONIO FLAMINIO G. A. Carafa, conte di S. Severina è probabile debba identificarsi con il dedicatario della Oratio [...] in funere Ferdinandi Hispaniarum regis catholici calendis martii MDXVI di M. Magno, volgarizzatore dell’Alfabeto cristiano. (42) Delle lettere di M. Bernardo Tasso, cit., pp. 142-144. Questioni storiche 294 L. CANOSA De arm. lit. comparat., 1526 V. COLONNA De vera viv. liber., 1535 G. SERIPANDO De mis. Lib. 1535 Successore di Giberti al vescovato di Verona e poi vescovo di Bayeux, amico di Bembo e Castiglione, è citato da Flaminio in una lettera inviata a Florimonte e risalente al 16 giugno 1546 (Let., p. 205-211). Flaminio conobbe Canosa a Verona quando collaborava con Giberti ai progetti di riforma interni alla sua diocesi. I riferimenti a V. Colonna, nelle lettere flaminiane sono diffusi e diversi (Let., pp. 127128, 143, 157-158, 175). I riferimenti a G. Seripando sono molteplici; tra i tanti citiamo solo la lettera del 15 luglio 1539 da Caserta, in cui si controbattono le posizioni de gratia et libero arbitrio (Let., pp.75-82). Altri contatti sono riscontrabili nelle opere a stampa di Nifo con Simone Porzio, Alessandro Pucci – cui dedica il De morte vita pubblicato nei Parva naturalia del 1523, Bernardo Tasso e soprattutto Filippo Strozza – parente di quel Ludovico Strozza intestatario di un’altra lettera di Marcantonio Flaminio – a cui dedica il De respiratione, anch’esso inserito nella edizione degli stessi Parva naturalia. GENNARO TALLINI Istituto di Studi Italiani, Università della Svizzera Italiana In this study we analize the complete printing production of Agostino Nifo (1470-1536/7) and establish a new date of death, fixed not beyond january 26, 1537 (as Vincenzo Martelli writes in a letter to Piero Vettori) and not in the 1538 as all scholars have fixed by mistake. We use this date, also, to detect all contacts that the averroistic philosopher had with Vittoria Colonna, Girolamo Seripando, Gaelazzo Florimonte, Ferrante and Isabella Sanseverino and others persons of the Spiritualist groups in Naples during the life of Juan de Valdés. If the Nifo’s philosophic reflexion don’t was influenced by the hispanic reformer, also, we notice as, his opinions, surely interested and formed the religious thought of Vittoria Colonna and many others persons of her circle and the future Ecclesia Viterbensi.