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Il Diritto industriale
Anno XXIII
SOMMARIO
ANTITRUST
Effetti
restrittivi della
concorrenza
ASSETTO FINANZIARIO DEL CORPORATE DELLE SOCIETÀ PER AZIONI
E TUTELA DELLA CONCORRENZA
di Mario Cistaro
213
BREVETTI
Brevetto europeo L’UNIONE NON PUÒ ESSERE PRIVATA DEI SUOI POTERI DA PARTE DEGLI STATI MEMBRI:
IL PERICOLOSO PRECEDENTE DEL PACCHETTO BREVETTI
di Alain Strowel, Fernand de Visscher e Vincent Cassiers
Tutela
brevettuale
unitaria
GIURISDIZIONE UNIFICATA E REGIME LINGUISTICO NELLE SENTENZE DELLA CORTE UE
SUI RICORSI DEL REGNO DI SPAGNA
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 5 maggio 2015, nella causa C-146/13
Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Grande Sezione, 5 maggio 2015, nella causa C-147/13
commento di Iuri Maria Prado
221
223
CONCORRENZA SLEALE
Lesione di norme IL BLOCCO DELL’APP UBER POP: CONCORRENZA SLEALE NEI CONFRONTI
di diritto pubblico DEL SERVIZIO PUBBLICO DI TAXI
Trib. Milano 25 maggio 2015, ord., sez. specializzata in materia d’impresa
commento di Luca Giove e Andrea Comelli
245
DIRITTO D’AUTORE
Plagio e
contraffazione
PROFILI EVOLUTIVI DELLA TUTELA DEL SOFTWARE
Cassazione civile, sez. I, 13 giugno 2014, n. 13524
commento di Dario Mastrelia
Persona giuridica I DIRITTI MORALI D’AUTORE E DIRITTI DELLA PERSONALITÀ DELLE PERSONE GIURIDICHE
Tribunale di Genova, Sez. specializzata in materia d’impresa, 20 settembre 2014
commento di Francesca La Rocca
Diritto
all’immagine
Tutela
dell’immagine
259
269
IL DIRITTO ALL’IMMAGINE DEI PERSONAGGI FAMOSI
Tribunale di Roma, Sez. specializzata in materia di imprese, ord., 17 luglio 2014
Il diritto all’immagine, la necessità del consenso e le sue eccezioni
commento di Francesca Florio
276
Interesse pubblico ed eccezione culturale: le limitazioni al diritto all’immagine
dei personaggi famosi
commento di Massimo Maggiore e Laura Zoboli
281
TUTELA DELL’IMMAGINE: NOZIONE ESTENSIVA DEL TRIBUNALE DI MILANO
Tribunale di Milano, Sez. specializzata in materia di imprese, 21 gennaio 2014
commento di Claudia Del Re
292
MARCHI
Domain name
L’ULTIMO NATO TRA I SEGNI DISTINTIVI: IL NOME A DOMINIO
di Giovanni Gargiulo
Il Diritto industriale 3/2015
300
211
Il Diritto industriale
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Anno XXIII
RUBRICHE
RASSEGNA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
a cura di Iuri Maria Prado e Barbara Zamboni
306
INDICI
INDICE DEGLI AUTORI
INDICE CRONOLOGICO
313
INDICE ANALITICO
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Il Diritto industriale 3/2015
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Opinioni
Antitrust
Libera concorrenza e disciplina europea
Assetto finanziario del
corporate delle società per
azioni e tutela della concorrenza
di Mario Cistaro
Un’analisi empirica degli effetti restrittivi della concorrenza derivanti da legami strutturali ha evidenziato la necessità di intervenire in modo organico sulla disciplina europea a tutela della libera
concorrenza. Il gap emerso in occasione dell’esame della nota vicenda Ryanair/AerLingus, dove
la compagnia aerea low cost si è dimostrata capace, con una partecipazione di minoranza al capitale di AerLingus, di indebolirne l’azione concorrenziale attraverso il condizionamento delle
strategie di ridefinizione del corporate societario sul mercato dei capitali, pone esplicitamente
due temi: il primo relativo all’identificazione degli effetti restrittivi della concorrenza che derivano
direttamente dall’assetto finanziario del corporate societario, il secondo, di portata più ampia,
relativo alla dimostrazione dei benefici, in termini di generale innalzamento della concorrenzialità
dei mercati, connessi ad un andamento concorrenziale del mercato azionario con riferimento alla contesa per il controllo delle società per azioni. Quest’ultimo tema conduce ad una questione
fondamentale relativa alla definizione della struttura del mercato del controllo societario e degli
strumenti normativi di cui avvalersi. Questo breve elaborato anticipa una più amplia riflessione
su questo tema che sarà oggetto di un lavoro monografico di prossima pubblicazione.
Partecipazioni di minoranza ed effetti
restrittivi della concorrenza: il caso
Ryanair/AerLingus
L’acquisizione di partecipazioni di minoranza in altre imprese societarie generalmente può costituire
(1) In particolare, gli effetti restrittivi riconducibili ai legami
strutturali tra imprese ruotano intorno al concetto di committment device. Con tale espressione si intende far riferimento alla valutazione delle partecipazioni di minoranza come strumenti volti: a veicolare messaggi al mercato per favorire il coordinamento dell’azione concorrenziale; incentivare l’adozione di
politiche commerciali non aggressive e ispirate alla creazione
di un equilibrio collusivo, a scapito dell’autonoma definizione
dell’azione concorrenziale delle imprese sul mercato; favorire
strategie discriminatorie o comunque di foreclosing del mercato in caso di relazioni verticali tra imprese che si legano attraverso partecipazioni di minoranza. Guardando alle origini storiche della disciplina antitrust statunitense e all’introduzione delle Sherman Act, si può notare come la figura del “trust” costituisca il vero archetipo degli odierni commitment device, essendo il primo utilizzato dalle corporations per eliminare forme di
“destructive competition”, regolare e mantenere lo status quo
produttivo. Lo schema del trust consentiva, infatti, di preservare l’esistenza individuale di ciascuna corporation senza dover
procedere a forme di consolidamento, ma semplicemente assegnando ai medesimi soggetti un pacchetto azionario di con-
Il Diritto industriale 3/2015
uno strumento attraverso cui porre in essere operazioni aventi effetti restrittivi della concorrenza (1).
In particolare, i legami strutturali connessi alle partecipazioni in altre imprese, tanto attive quanto
passive (2), in base alle osservazioni della teoria
economica (3), possono dare luogo ad effetti retrollo in ciascuna compagnia da gestire in “trust” dietro assegnazione fiduciaria da parte di altri azionisti. Per un’analisi approfondita del tema v. M. Motta, “Competition policy: theory
and practice”, Cambridge University Press, 2004.
(2) Intendendosi per partecipazioni attive quelle che conferiscono un certo grado di incidenza sulla definizione dell’attività
d’impresa attraverso la struttura del corporate societario della
partecipata, passive quelle non seguite da alcun potere di voice, cfr. D. Pini - F. Ghezzi, Partecipazioni di minoranza e disciplina europea delle concentrazioni tra imprese (osservazioni sulle
proposte di ampliamento dell’ambito di applicazione del R.
139/2004), Milano, 2014.
(3) V. il documento della Commissione, Annex to the Commission staff working document: Towards more effective EU
merger control. Tra i tanti autori citati nel documento della
commissione, v. D. P. Obrien - S. C. Scalop, Competitive effects
of partial wonership: financial interestand corporate control, Antitrust Law Journal, 2000, D. Gilo - A. Ezrachi, EC Competition
Law and the Regulation of Passive Investments among competitors, Oxford Journal Legal Studies, 2006.
213
Opinioni
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Antitrust
strittivi della concorrenza (4), sia sotto forma di effetti unilaterali, di coordinamento dell’azione competitiva e verticali, legati quest’ultimi principalmente agli effetti di foreclosure del mercato (5), sia
integrando fattispecie di abuso di potere di mercato
attraverso una modifica della sua struttura, determinata dalla riduzione del numero dei soggetti indipendenti attivi sul mercato (6). La teoria economica considera il particolare assetto finanziario del
corporate societario come uno strumento capace di
favorire politiche commerciali non aggressive tra
concorrenti, per l’ovvia considerazione che l’indebolimento del concorrente si rivela dannoso per la
redditività finanziaria della partecipazione detenuta
nel capitale di quest’ultimo, con incentivo a ridurre la pressione concorrenziale (7); secondariamente, un assetto del corporate costruito su forme coalizionali che includono legami strutturali e interpersonali, quali diritti particolari nell’organizzazione societaria, patti parasociali ed interlocking directorates, può contribuire alla creazione di strutture
atte ad agevolare la collaborazione commerciale tra
imprese. Ad esempio, attraverso l’accesso ad informazioni idonee ad uniformare le condotte delle imprese coinvolte dai primi (8); ulteriori effetti restrittivi della concorrenza derivanti da legami finanziari tra imprese sono connessi alle restrizioni
all’accesso agli input e/o output produttivi con conseguente indebolimento dei concorrenti nei mercati interessati a monte o a valle (9).
La decisione Ryanair/AerLingus del Competition
Appeal Tribunal inglese, confermata anche dalla
Court of Appeal, evidenzia un peculiare effetto restrittivo della concorrenza dei minority shareholdings, che è quello connesso all’indebolimento del
concorrente nel caso in cui venga ridotta la capacità di quest’ultimo di far pieno ricorso al mercato
dei capitali per ottimizzare il corporate societario,
ad esempio attraverso un aumento di capitale che
consentirebbe l’ingresso di nuovi investitori nella
compagine societaria (10). La decisione costituisce
un prezioso punto di riferimento concettuale a sostegno delle riflessioni avanzate nel corso dell’elaborato. L’antitrust inglese ha sostenuto e dimostrato che la presenza di Ryanair nella struttura finanziaria del capitale di AerLingus ha prodotto una distorsione delle concorrenza a causa dell’effetto di
deterrenza esercitato su altri investitori interessati
all’ingresso nel corporate di AerLingus (11).
Nell’ordinamento italiano ed anche nella disciplina antitrust europea, gli effetti distorsivi della concorrenza originati dalla partecipazione al capitale
di altre imprese sono strettamente connessi alla
configurazione di un’operazione di concentrazione,
essendo l’integrazione delle altre fattispecie antitrust, ovvero intese restrittive ed abuso di posizione
dominante, di difficile configurazione (12). La prima, come noto, si basa sul concetto di controllo,
in quanto soltanto il mutamento duraturo del controllo di un’impresa costituisce presupposto per
(4) V. BAT/Commissione, T-142/86 e 156/84, in ECR, 1987,
4487 e Warner-Lambert/Gillette, GO 1993 L 116/21, in 5
CMLR, 1993, 559. In letteratura, v. R. Struijlaart, Minority share
acquisitions below the control threshold of the EC Merger Regulation: an economic and legal analysis, in 25 World Competition, 2002, 173. Anche A. Ezriachi - D. Gilo, EC competition
law and the regulation of passive investments among competitors, in 26(2) Oxford Journals of Legal Studies, 2006, 327.
(5) Per una cornice di riferimento in materia valutazione degli effetti verticali restrittivi della concorrenza, v. le Guidelines
della Commissione sulle concentrazioni non orizzontali. In particolare sugli effetti di foreclosure, v. par. 18.
(6) V. Irish Sugar/Commissione, T-228/97, Laurent-Piau/Commissione, T-193/2002. F. Russo, Abuse of a dominant position? Minority shareholdings and restrictions of markets’competitiveness in the European Union, in Amsterdam Centre for Law
and Economics, 2006, working paper n. 12.
(7) “La mera presenza di interscambi azionari, anche indiretti, tra imprese favorisce politiche di quiet life o comunque
non aggressive”, così F. Ghezzi, Il Caso Generali-INA, Intrecci
azionari e concorrenza, in Mercato Concorrenza Regole, 2000,
258.
(8) V. F. Ghezzi, op. cit., 269.
(9) Per una ricostruzione completa delle varie elaborazioni e
applicazioni della “theory of harm” in materia di concorrenza,
v. H. Zenger - M. Walker, Theories of harm in European Competition law, a progress report, 2012, consultabile sul sito del Social Science Research Network. Più in generale sugli aspetti
teorici in termini di funzionlità economica della concorrenza, v.
R.Wish - D.Bailey, Competition Law, Seventh edition, Oxford,
2012.
(10) Sulla quale mi permetto di rinviare alla mia analisi del
caso in M. Cistaro, The UK Competition Appeal Tribunal rules
on non-controlling minority shareholding and reduces share to a
maximum of 5% (Ryanair), e-Competitions, National Competition Laws Bulletin, October 2014.
(11) “The principal theory of harm elaborated by the CMA
according to which the mere shareholding of Ryanair distorts
competition by deterring other airline companies from entering
into Aer Lingus corporate ownership”, vedi la decisione del
Competition Appeal Tribunal, riportata in CAT 3, 2014. Decisione poi confermata anche da Court of Appeal (Civil Division)
nel febbraio 2015, EWCA Civ, 2015, 83.
(12) Si deve comunque sottolineare che in passato, in assenza di disciplina delle concentrazioni, la prima a livello europea fu introdotta nel 1989, Regolamento n. 4064/1989, la
Commissione ha fatto ricorso agli attuali artt. 101 e 102 TFUE
per bloccare l’acquisto di partecipazioni in altre imprese nel
caso Continetal Can, 1971, e soprattutto Phillip Morris, 1984.
Tuttavia, l’introduzione del primo regolamento concentrazioni,
nel preambolo (6), fa proprio riferimento a “whereas Articles
85 and 86 [now 101 and 102 TFEU], while applicable, according to the case-law of the Court of Justice, to certain concentrations, are not, however, sufficient to cover all operations
which may prove to be incompatible with the system of undistorted competition envisaged in the Treaty”, v. White Paper
from the Commission to the European Council, “Completing
the internal market”, COM (85) 310 final.
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Il Diritto industriale 3/2015
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Opinioni
Antitrust
l’avvio di un’indagine antitrust (13). Nel Regno
Unito una “relevant merger situation” che attrae il
controllo antitrust non è necessariamente subordinata ad una modifica soggettiva del controllo delle
imprese, essendo sufficiente l’esercizio di un’influenza materiale (14). Proprio la duttilità di quest’ultima nozione ha consentito di procedere con
un’analisi delle condizioni di concorrenzialità del
mercato a fronte di un duplice argomento: l’esame
delle condizioni di concorrenza effettiva sul mercato interessato e l’esame prospettico delle condizioni
di concorrenza in presenza di una diversa composizione (counter factual) del corporate societario di
AerLingus (15).
L’autorità inglese ha concluso sottolineando come l’influenza sul corporate societario di quest’ultima da parte di Ryanair (16), pur senza integrare gli estremi di una relazione di controllo, abbia compromesso la capacità di AerLingus di
operare liberamente sul mercato dei capitali per
finanziarsi e ottimizzare il proprio corporate societario. Ciò ha reso AerLingus un concorrente
più debole sul mercato del trasporto aereo, con
evidenti vantaggi per l’interesse di Ryanair ad un
acquisto meno oneroso di AerLingus. In termini
ancora più semplici, l’interesse del concorrente
Ryanair ad indebolire un suo diretto rivale ha
contribuito a deprimere il valore finanziario di
AerLingus sul mercato azionario, mercato in cui
la partecipazione di minoranza, presupposto dell’influenza materiale di Ryanair, ha allo stesso
tempo impedito l’attivarsi dell’azione concorrenziale di altri investitori interessati all’acquisto di
AerLingus.
Il caso palesa l’esistenza di un’intersezione tra assetto del corporate societario, effetti prodotti sulla
struttura del mercato azionario in relazione alla libera ridefinizione del controllo societario e riduzione del grado generale di concorrenzialità dei mercati interessati. Un mercato dei capitali non concorrenziale può costituire, ed infatti ha costituito
in questo caso, una barriera all’accesso, realizzando
l’effetto ultimo appena menzionato di ridurre la
concorrenza sui mercati.
Ora, anche se l’esame antitrust presuppone sempre un’analisi dettagliata delle condizioni dei mercati interessati che può essere condotta soltanto
caso per caso, è pur sempre possibile definire un
quadro concettuale di riferimento nell’enforcement
antitrust, grazie al quale apprezzare in ottica comparativa una potenziale estensione al nostro ordinamento delle conclusioni raggiunte, e gli effetti
che ciò produrrebbe. Infatti, partendo proprio dall’esigenza primaria di tutela delle condizioni di
concorrenza, che dovrebbe accomunare tutti gli
stati membri in un contesto di integrazione economica dei mercati (17), l’analisi antitrust dell’autorità inglese consentirebbe, se proiettata nell’ordinamento italiano, di valicare un limite rigoroso
per la riflessione giuridica, spostando il baricentro
dell’analisi dei rapporti tra diritto societario, regolazione finanziaria e tutela della libera concorren-
(13) Per alcune riflessioni sulla ratio delle previsioni in materia di concentrazione nella legislazione antitrust, mi permetto
di rinviare ad un mio contributo, “Potere pubblico e attuazione
della libera concorrenza nella disciplina antitrust italiana: il
controllo giurisdizionale”, in questa Rivista, 2, 2013, in cui, all’interno di una riflessione dai confini più ampi che fa riferimento alla tutela delle posizioni giuridiche soggettive nell’ordinamento italiano a seguito dell’introduzione della normativa
antitrust e alla funzione regolatrice del mercato del fenomeno
socioeconomico, sottolineo come la presenza di un potere
pubblicistico di controllo preventivo in materia di concentrazioni trovi giustificazione nell’esigenza di impedire la costituzione
di nuclei soggettivi di potere economico privato conseguiti eludendo il processo concorrenziale e le dinamiche selettive del
mercato, ovvero che ne ostacolino il funzionamento successivo. Quest’aspetto della legislazione antitrust, che consente al
mercato di esercitare una funzione di controllo dell’accumulo
di potere economico privato attraverso l’azione concorrenziale,
è sottolineata anche da T. Ascarelli, Teoria della concorrenza e
dei beni immateriali, III ed., 1960.
(14) V. S. 26 (3), Enterprise Act britannico. La nozione di influenza materiale si distingue nettamente da quella di influenza
determinante accolta dal legislatore antitrust italiano e comunitario, v. artt. 3, comma 1, b), Reg. n. 139/2004 e 7 L. n.
287/1990. Mentre quest’ultima si fonda sulla nozione di controllo, positivo o negativo e legale o di fatto, su di un’altra impresa, v. T.A.R. Lazio I, n. 16975/2014 e Astra Zeneca/Novartis GO, 2004, L110/1, Cendant/Galileo, 2001, GO C321/8, la pri-
ma ha un contenuto più ampio e comporta un analisi caso per
caso che include, senza pretese di esaustività, distribuzione
dell’azionariato, andamento delle delibere assembleari, composizione del consiglio di amministrazione e qualsiasi altro accordo che può intervenire tra azionisti. La materialità dell’influenza è subordinata, ad esempio, al potere di bloccare alcune risoluzioni speciali e più in generale, senza arrivare ad integrare una fattispecie di controllo, al potere di condizionare l’adozione di autonome strategie commerciali, V. R. Wish - D.
Bailey, Competition Law, cit.
(15) V. M. Cistaro, The Uk Competition ..., cit., “the assessment of effects on competition required to take into account
two conditions: whether competition could develop differently in
future and whether it could have been more intense absent Rynair’s minority shareholding ...”.
(16) “Ryanair shareholding was sufficient to block the passing of special resolutions related, such as Are Lingus issue of
share capital and Ryanair’s influence as to Aer Lingus strategy in
disposal of its portfolio of slots at Heathrow airport. As a result,
it conferred to Ryanair material influence on commercial policy
and strategy of Aer Lingus ...”, in M. Cistaro, The Uk Competition ..., cit.
(17) Per una riflessione sugli effetti prodotti dal riconoscimento del mercato e della concorrenza come fattore costituente del processo di integrazione europea, mi permetto di
rinviare a M. Cistaro, Potere pubblico e attuazione della libera
concorrenza nella disciplina antitrust italiana: il controllo giurisdizionale, cit., in questa Rivista, 2013, 2, 139.
Il Diritto industriale 3/2015
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Antitrust
Se anche la linea adottata dal legislatore finanziario italiano è stata quella di qualificare normativamente l’esistenza del mercato del controllo societario all’interno del mercato azionario (19), art. 91
T.U.F. (20), si deve, tuttavia, registrare la scarsa
operatività del primo (21). Le ragioni dell’immobilità di tale mercato sono certamente da ricondurre
alla concentrazione proprietaria variamente ottenuta (22). Questa ha ridotto lo spazio per la costi-
tuzione di un efficiente mercato del controllo societario e tradito i principi basilari sui quali si regge
un’economia di mercato aperta al libero scambio, i
quali come noto impongono il metodo concorrenziale al fine di ottimizzare i processi allocativi e
produttivi di ricchezza all’interno della società (23).
Ora, partecipazioni di minoranza, reciproche e incroci azionari costituiscono a vario titolo e con
modalità differenti un potenziale strumento di dilatazione e ingessamento del controllo societario, garantendo la riduzione della quota di capitale che
un investitore deve impiegare per conquistare,
mantenere e/o difendere, ovvero influenzare il controllo delle società (24). Sotto il profilo della disciplina finanziaria, le disposizioni rilevanti in materia di partecipazioni reciproche tra società sono
contenute nell’art. 121 T.U. (25). È fatto divieto
di acquisire partecipazioni reciproche tra società, al
di fuori delle ipotesi di controllo legale regolate dal
codice civile, oltre il limite del 2% del capitale (26), intendendo per tale quello rappresentato
(18) Più in generale sul tema della lentezza della scienza
giuridica privatistica italiana nell’assorbire gli effetti sull’ordinamento dell’affermazione del principio della libera concorrenza
e del suo dinamismo, v. V. Menesini, Dall’innovazione al mercato, edizione telematica consultabile sul sito dirittocommerciale.org, Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, 1975, anche
Guizzi, Mercato concorrenziale e teoria del contratto, in Riv. dir.
comm., 1999.
(19) L’ordinamento italiano in materia di takeover è ispirato
dal “City Code on Takeovers and Mergers” del Regno Unito.
(20) L’art. 91 del Testo Unico in materia di intermediazione
finanziaria qualifica e sancisce normativamente l’esistenza della fattispecie del mercato del controllo societario, il cui corretto
funzionamento e sviluppo sotto il profilo della trasparenza e
della sua efficienza è compito specifico che la legge attribuisce
all’autorità di vigilanza dei mercati finanziari.
(21) Come ricordato anche da F. Ghezzi, Il Caso GeneraliINA, Intrecci azionari e cit. in relazione all’esigenza di intervenire su tutti i fattori che favoriscono il coordinamento anticompetitivo sul mercato, il meccanismo esterno atto a garantire la
gestione efficiente dell’impresa, ovvero il mercato del controllo
societario, non può operare a causa dell’esistenza di barriere
formali che vincolano il ricambio del controllo delle società.
(22) Per una ricostruzione storica dell’approccio italiano al
capitalismo finanziario, v. A. Sapori, Dalla compagnia alla holding, in Riv. Società, 1956. Quella attuale pare essere la versione “moderna” delle primissime manifestazioni dell’azione imprenditoriale collettiva italiana in campo finanziario che si caratterizzavano per la presenza di forti legami interfamiliari, che
spesso vedevano i membri della stessa famiglia gestire società
operanti su diversi mercati.
(23) In termini di funzionalità economica del mercato nel
realizzare gli obiettivi del “society welfare”, v. R. Whish - D. Bailey, Competition Law, Seventh Edition, 2012, dove viene esaminata in dettaglio la teoria economica della concorrenza. Da un
punto di vista più strettamente giuridico e sociologico, si riportano le sempre attuali riflessioni di Tullio Ascarelli, il quale evidenziava come la libertà riconosciuta dall’ordinamento nella ricerca del profitto individuale deve necessariamente essere bilanciata dall’assenza di garanzie circa il suo ottenimento, po-
nendosi il mercato concorrenziale come strumento indispensabile al fine di realizzare obiettivi metaindividuali. Più in generale, l’Autore vedeva nel metodo concorrenziale l’asse portante
dell’organizzazione giuridica delle relazioni socioeconomiche a
discapito di altri principi normativi, quali quello proprietario, ritenuto funzionale alla iper protezione delle posizioni raggiunte
sul mercato.
(24) Le partecipazioni incrociate sono disegnate nella prassi
societaria per garantire il controllo della società senza un corrispondente impegno nella proprietà cfr. L. Spaventa, Struttura
proprietaria e corporate governante. Ai confini tra diritto ed economia, 2002.
(25) Nell’ordinamento italiano manca una disciplina generale dell’istituto in esame, atteso che le norme esistenti riguardano solamente ipotesi qualificate di incroci, ossia i casi in cui
tra le società interessate all’incrocio intercorre un rapporto di
controllo (art. 2359 bis ss. c.c.), e i casi in cui almeno una tra
quelle società sia quotata nei mercati finanziari (art. 121,
D.Lgs. n. 58/1998). Al di fuori delle ipotesi in questione, opera
ciò che in dottrina è stato definito “principio generale di liceità
delle partecipazioni reciproche”, secondo il quale tutti gli incroci che non rientrano negli specifici ambiti coperti dalla legge devono ritenersi assolutamente privi di vincoli.
(26) La norma in esame stabilisce che, se esiste un incrocio
tra due società (delle quali almeno una con azioni quotate),
quella che per seconda superi il limite indicato nell’art. 120,
comma 2 e 3, di volta in volta richiamabile, non possa esercitare il diritto di voto per le azioni o quote eccedenti il limite
stesso, che andranno alienate nei dodici mesi successivi. La
norma non impedisce che nel caso di incroci una delle due società aumenti via via la sua partecipazione nell’altra, anche sino ad averne il controllo (ed allora troveranno applicazione gli
artt. 2359 ss. c.c. e, se del caso, le norme sull’o.p.a.), così da
superare essa sola il limite che le sia riferibile. La norma opera
solo se e quando anche la seconda società, purché non controllata, incrementando a sua volta la propria partecipazione
nella prima, superi il limite di competenza, v. A. Bertolotti, Corporate Governance. La nuova disciplina delle società quotate in
mercati regolamentati - D.Lgs. 24-02-1998, n. 58, artt. 113-124,
in Giur. it., 1998.
za decisamente verso quest’ultima (18). Ciò finisce per introdurre il tema principale di queste brevi considerazioni, relativo alla definizione della
struttura del mercato del controllo societario e degli effetti connessi ad una sua subordinazione alle
dinamiche concorrenziali.
La concentrazione delle strutture
proprietarie e di controllo delle società
attraverso legami finanziari e la proposta
di modifica del regolamento
concentrazioni della Commissione
Europea
216
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Antitrust
da azioni aventi diritto di voto (27). Il limite percentuale previsto dal Testo Unico è particolarmente basso, anche al confronto con altri ordinamenti (28), e ciò permette di concludere nel senso che
si tratti di una scelta del legislatore italiano di
chiara inclinazione verso una maggiore contendibilità del controllo, piuttosto che verso una maggiore
stabilità degli assetti proprietari delle imprese (29).
Lo stesso, però, non può dirsi in tema di incroci e
partecipazioni di minoranza, per cui l’unico divieto
generale è contenuto nell’art. 2361 c.c. ed è ancorato all’effetto di un potenziale svisamento dell’oggetto sociale a causa della misura e dell’oggetto
della partecipazione assunta. La disciplina contenuta nel T.U.F. (30) si limita a prevedere solo un
obbligo di comunicazione alla Consob, in caso di
partecipazione in un’emittente azioni quotate
avente l’Italia come Stato membro d’origine e superiore al due per cento del capitale votante (31).
È evidente come nel complesso la normativa in
materia di partecipazioni reciproche, di minoranza
e sugli incroci azionari contenuta nel T.U.F. non
appaia in grado di arginare da un lato gli effetti generati da una loro possibile combinazione sulla
concentrazione delle strutture proprietarie e di
controllo (32) e, dall’altro, di neutralizzare gli effetti prodotti sull’ingessamento della struttura del
mercato del controllo societario. Anzi, si deve ritenere che la disciplina finanziaria non identifichi alcun strumento normativo utile per definire la struttura del primo. Ciò, nel contesto di una moderna
economia di mercato organizzata intorno alla funzionalità economica della concorrenza nel realizza-
re obiettivi di benessere collettivo, non dovrebbe
restare ignorato, imponendo, invece, il rinvio alla
disciplina antitrust.
Tale rinvio richiede ovviamente una precisazione
del suo contenuto. I temi principali evidenziati sinora sono legati all’acquisizione di partecipazioni
in altre imprese, che generalmente possono costituire uno strumento attraverso cui porre in essere
operazioni di concentrazione. Operazioni, queste,
che attengono esclusivamente agli effetti prodotti
sulla struttura del mercato dalla riduzione del numero dei soggetti indipendenti operanti sullo stesso
attraverso l’acquisto del controllo di altre imprese,
e la cui incompatibilità con le norme antitrust è
subordinata alla costituzione o rafforzamento di
una posizione dominante che elimini o riduca in
modo sostanziale e durevole la concorrenza sul
mercato (33). Le questioni da affrontare non riguardano, tuttavia, le ipotesi di acquisizione del
controllo, per le quali la riduzione complessiva del
grado di concorrenza dei mercati trova già adeguata risposta normativa nella disciplina sulle concentrazioni. Il tema discusso si innesta, invece, sugli
effetti che un intreccio di relazioni strutturali, caratterizzante gli assetti finanziari del corporate societario, determina sull’effettivo andamento concorrenziale del mercato del controllo e, tramite
questo, sugli altri mercati interessati. Il mancato
aggancio alla disciplina in materia di concentrazioni suggerirebbe, l’uso del condizionale è obbligatorio come si avrà modo di vedere nel prosieguo, di
limitare tale rinvio alle sole fattispecie antitrust
delle intese restrittive della concorrenza e all’abuso
(27) V. art. 120 T.U.F.
(28) In relazione ad altri ordinamenti europei, il valore percentuale assunto dal legislatore italiano risulta particolarmente
basso, ad esempio in Francia il limite è del 10%, in Germania
del 25%.
(29) Anche se lo scopo principale delle disposizioni è di limitare per quanto possibile gli effetti distorsivi di un annacquamento del capitale sociale e, soprattutto, di evitare che gli
incroci nelle partecipazioni si traducano in incroci nei processi
formativi delle volontà assembleari, se non addirittura nell’esautoramento delle assemblee ad opera degli amministratori,
v. A. Bertolotti, Corporate Governance. La nuova disciplina, cit.
(30) L’art. 120 ha ad oggetto gli obblighi di comunicazione
che sorgono in presenza di partecipazioni societarie rilevanti.
Essi sono a carico sia di coloro (persone fisiche, società, enti)
che partecipano in una società con azioni quotate in misura
superiore al due per cento del capitale (comma 2), sia delle società con azioni quotate che partecipano in misura superiore al
dieci per cento del capitale in una società per azioni non quotata, ovvero in una società a responsabilità limitata, anche
estere (comma 3); ed hanno, quali destinatari, la società partecipata e la Consob. Vedi A. Bertolotti, Corporate Governance.
La nuova disciplina, cit.
(31) Anche in questo caso la soglia è più elevata in altri stati europei (3% nel Regno Unito, 5% in Francia ed in Germania),
ma si è tuttavia affermato che le caratteristiche del mercato finanziario italiano e la connessa problematica degli incroci
azionari consigliano di mantenere il limite in esame a livelli definiti di particolare rigore, consentendo agli investitori di essere
tempestivamente informati, v. “Audizione parlamentare 10 dicembre 1997 del prof. Mario Draghi davanti alla Commissione
Finanza e Tesoro della Camera dei Deputati”, pubblicata in Giur.
comm., 1997, I, 771 ss.
(32) Si è parlato in tale caso di schema di proprietà circolare, v. M. Bianchi - S Fabrizio - G. Siciliano, La proprietà circolare, in IRS, Rapporto IRS sul mercato azionario, 1998.
(33) I presupposti per l’applicazione della disciplina in materia di concentrazioni, tanto italiana quanto europea, sono costruiti sul concetto di controllo, ovvero l’esercizio di un’influenza determinante (decisive influence) sulle attività di un’impresa.
V. art. 3 (2) del Reg. n. 139/2004, la Comunicazione Consolidata della Commissione sui criteri di competenza giurisdizionale,
par. 11-123, art. 7, L. n. 287/1990, e i leading case Chevron/Texas, GO 2001 C128/2, Astra Zeneca/Novartis, GO 2004 L110/1,
le decisioni Francia/Commissione, T-2/93 e Cementbouw/Commissione, CGUE C-202/06, riportato in [2006] ECR II-319. Per
quanto riguarda la giurisprudenza italiana, v. Aviapartner/Società Aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna, T.A.R. Lazio, I,
16975/2004, in Concorrenza e Mercato, 2008.
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di posizione dominante. Le partecipazioni di minoranza ricadono in un’area di difficile inquadramento nell’attuale armamentario normativo a tutela
della concorrenza. Tali legami, come non configurano ipotesi di acquisizione del controllo (34), ovvero casi di reductio omnium ad unum per mezzo
dell’esercizio di un’influenza determinante su un’altra impresa. Tuttavia, l’integrazione dei presupposti
per l’esistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza si presenta particolarmente problematica. Le
difficoltà maggiori si riscontrano in merito all’esistenza stessa di un accordo o pratica concordata,
posto che l’acquisizione di partecipazioni di minoranza può avvenire sul mercato azionario senza alcun contatto con l’impresa partecipata. In altri termini, affinché si abbia accordo è necessario che
l’acquisto di una partecipazione di minoranza avvenga con il consenso della società di cui si acquisisce la partecipazione, ovvero concordandolo con
i soggetti in posizione di controllo. Né pare persuasiva l’ipotesi che fa ricorso alla nozione di pratica
concordata (35). Si ritiene che il semplice acquisto
di una partecipazione di minoranza sul mercato
non trasmetterebbe quel nucleo minimo di informazioni rilevanti sotto il profilo concorrenziale affinché possano essere integrati i presupposti per la
configurazione di una pratica concordata. Deve ritenersi di scarsa utilità anche la fattispecie in materia di abuso di posizione dominante, dati i presupposti della norma: l’esistenza di una posizione
dominante e un abuso commesso proprio attraverso
l’acquisto di una partecipazione di minoranza. In
particolare, sarebbe proprio il primo dei citati fattori, ovvero l’esistenza di una posizione dominante
che preceda l’acquisto della partecipazione di minoranza a restringere notevolmente l’ambito applicativo della norma, restandone esclusi tutti quei legami aventi effetti restrittivi non riconducibili ad
una posizione dominante.
Sul tema degli effetti restrittivi della concorrenza
originati da partecipazioni di minoranza, attualmente, la Commissione Europea, proprio in occasione dell’esame della vicenda Ryanair/AerLingus in
sede europea (36), ha preso atto della sussistenza di
una lacuna nella normativa, che non consente di
affrontare sistematicamente e risolvere i problemi
legati agli effetti anticompetitivi generati da legami
strutturali non conferenti il controllo (37). È quindi seguita una proposta di modifica del regolamento n. 139/2004 in materia di concentrazioni che
ruota intorno al concetto di “competitively significant link” (38) e che prevederebbe, integrate le soglie di fatturato rilevanti già previste per le concentrazioni, un dovere di trasparenza informativo
per le imprese, tenute a comunicare alle autorità
antitrust, al fine di un possibile intervento, una serie di informazioni in relazione alla composizione
dell’azionariato, prima e dopo l’acquisizione di una
partecipazione di minoranza, i diritti sottostanti a
quest’ultima, ed altre informazioni sul mercato
azionario interessato. Come sottolineato all’inizio,
gli effetti restrittivi della concorrenza determinati
da partecipazioni di minoranza possono essere
strettamente connessi a quelli prodotti sul mercato
dei capitali (39). In tale prospettiva, la proposta di
modifica del regolamento concentrazioni, partendo
dalla necessità di assicurare condizioni di concorrenza effettiva sui mercati interessati, sarebbe cer-
(34) Ovviamente anche una partecipazione di minoranza
può costituire elemento fondante di una relazione di controllo.
Tale partecipazione deve essere qualificata, e generalmente
l’acquisto del controllo per effetto di una partecipazione di minoranza si profila soltanto in presenza di fattori di potenziamento della stessa, ossia di elementi che se aggiunti alla partecipazione attribuiscono al suo detentore il potere di esercitare un’influenza determinante sull’impresa. Tali fattori sono poi
ravvisabili sia in circostanze di fatto, quali un capitale sociale
frazionato e l’assenteismo degli altri soci, sia in elementi di diritto, quali, sempre a titolo esemplificativo, poteri conferiti da
clausole statutarie e patti parasociali.
(35) Per la casistica europea e la definizione della nozione
di pratica concordata, v. ICI v Commissione, CGUE 1972, ECR
619, Suiker Unie e altri v Commissione, CGUE, 1975 1 CMLR
295, Aalborg Portland A/S e altri v Commissione, cause riunite
CGUE C-204-205-211-213-219/00, 2005 4 CMLR 4.
(36) Ryanair Holdings Plc T-342/07 e Aer Lingus Group plc T411/07.
(37) Per una ricostruzione della vicenda e dei lavori di consultazione della Commissione Europea, v. G. D. Pini - F. Ghezzi, Partecipazioni di minoranza, cit.
(38) In sintesi, il documento prevede la sussistenza di un
rapporto di concorrenza tra le imprese interessate, delle soglie
di rilevanza della partecipazione tra il 5% e il 20% e il potere di
condizionare le strategie commerciali della partecipata risultante da una serie di fattori da valutare caso per caso. Gli ordinamenti da cui trae spunto la proposta sono quelli tedesco e
inglese, che prevedono entrambi il controllo dei legami strutturali a fini concorrenziali. In particolare, in quello tedesco, Section 37 (1) n. 3 litb GWB, “a notifiable concentration shall arise
in case of an acquisition of shares in another undertaking if
the shares, either separately or in combination with other shares already held by the undertaking, reach: (...) 25 percent of
the capital or the voting rights of the other undertaking […]
and any other combination of undertakings enabling one or
several undertakings to directly or indirectly exercise a competitively significant influence on another undertaking”, Section
37 (1) n. 4 GWB. In generale, l’influenza significativa sotto il
profilo concorrenziale dipende dalla partecipazione minoritaria
acquisita e deve materializzarsi attraverso il corporate societario.
(39) “The authorities had determined that Ryanair’s large stake gave it sufficient influence to block certain strategic decisions
by Aer Lingus management, including prospective mergers and
partnerships, and could reduce competition on routes between
Ireland and Britain”, Cort of Appeal, Civil Division, cit.
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tamente in grado di porsi come uno strumento efficace nella risoluzione dei problemi collegati alla
definizione della struttura del mercato del controllo societario, aprendo ai benefici che questa comporta in termini di innalzamento del grado genera-
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le di concorrenzialità dei mercati. L’intersezione
corporate-antitrust, sulla scia di altri ordinamenti
europei, quali quello tedesco e inglese, pur nella
sua complessità si spera sia salutata positivamente
anche nell’ordinamento italiano.
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Brevetti
Brevetto con effetto unitario
L’Unione non può essere
privata dei suoi poteri da parte
degli Stati membri:
il pericoloso precedente
del pacchetto brevetti
di Alain Strowel, Professeur, Fernand de Visscher et Vincent Cassiers, Maîtres
de conférences invités, Université Catholique de Louvain (Centre CRIDES Jean Renauld), Louvain-la-Neuve, Belgique (*)
È accettabile che l’Unione Europea abdichi i propri poteri a favore degli Stati membri? Certo che
no. Eppure, vi sono tutte le ragioni per temere che un abile meccanismo scritto nel pacchetto
brevetti adottato alla fine del 2012 sarà presto convalidato. Se non sarà censurato dalla Corte di
Giustizia, gli Stati membri saranno riusciti a privare l’Unione di uno dei suoi poteri. Un precedente increscioso per l’UE.
L’Unione ha l’obbligo di esercitare i compiti previsti dai trattati, e di farlo secondo la procedura da
essi stabilita. Ciò vale per la legislatura dell’Unione, formata dal Consiglio Europeo e dal Parlamento, che numerose disposizioni del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) richiedono espressamente per applicare la procedura legislativa ordinaria nell’adozione di norme di diritto
sostanziale nei settori più disparati, come l’accesso
ai documenti, dati personali, dogane, cooperazione
giudiziaria e poliziesca, politica economica e monetaria, armonizzazione delle legislazioni, sanità pubblica, diritto dei consumatori, e così via. L’Unione
non può semplicemente investire altre autorità di
poteri normativi e abdicare il proprio dovere di
mettere in atto la materia (o la procedura) in questione, senza rendere privi di senso i precisi poteri
devoluti alla legislatura UE.
Il Reg. n. 1257/2012, relativo alla protezione unitaria conferita dai brevetti costituisce un pericoloso
precedente. È stato adottato sulla base del primo
comma dell’art. 118 TFUE, il quale prevede che la
legislatura europea dovrebbe “stabilire misure volte
alla creazione di diritti di proprietà intellettuale
che forniscano una protezione uniforme dei diritti
di proprietà intellettuale in tutta l’Unione” “nel
contesto della creazione e del funzionamento del
mercato interno”. Tuttavia, il regolamento non
crea alcuna protezione a livello europeo, protezione che dovrà quindi essere essenzialmente soggetta
al diritto nazionale e internazionale.
Sotto la pressione di alcune lobby che hanno cercato di ottenere che il diritto sostanziale dei brevetti venisse rimosso dalla legislatura dell’Unione,
il regolamento (artt. 5, 7 e 18) si astiene in realtà
dalla regolazione del diritto sostanziale dei brevetti
con effetto unitario. Per mezzo di un riferimento al
diritto nazionale, ha disciplinato la questione tramite l’Accordo su un Tribunale unificato dei brevetti (Accordo UPC), un trattato internazionale
(*) La situazione è profondamente mutata a seguito delle
due sentenze della Corte di Giustizia del 5 maggio 2015 nei
procedimenti C-146/13 e C-147/13. Il presente scritto si può
leggere tranquillamente come critica alle suddette sentenze.
Sulla questione si veda inoltre l’articolo redatto dagli stessi
autori pubblicato su “Berichten Industriele Eigendom - mei
2015”.
Il Diritto industriale 3/2015
221
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firmato da alcuni Stati membri, i cui articoli da 25
a 27 stabiliscono le norme che definiscono il campo di applicazione dei brevetti europei (violazione
diretta e indiretta) e i limiti ad essi relativi.
Il reclamo presentato dalla Spagna nei propri procedimenti di annullamento contro il regolamento
evidenzia quanto ciò sia pernicioso per la prerogativa legislativa dell’UE, dal momento che, anche
se la “protezione uniforme” del brevetto unitario
rientrasse nel diritto dell’Unione, in questo modo
verrebbe regolata da un trattato internazionale
concluso al di fuori dell’Unione stessa. Questo riferimento agli standard internazionali implica che
nessuna disposizione del diritto dell’UE può o potrà
in futuro contenere le regole più essenziali e inerenti ai brevetti europei, come previsto dall’art.
118 TFUE.
Poiché questo schema delle cose lascia a un trattato internazionale concluso tra gli Stati Membri il
compito di determinare l’ambito e i limiti di un
brevetto, spetta agli Stati Membri, e ad essi soltanto, d’ora in avanti tenere la chiave di qualsiasi riforma della tutela brevettuale nella legislatura UE.
Se, in futuro, l’UE volesse modificare la protezione
accordata dai brevetti unitari, ad esempio, modificando o aggiungendo un’eccezione, il riferimento
della normativa al diritto nazionale (e, quindi, all’accordo UPC) lo impedirebbe. Inoltre, sarebbe
impossibile la supervisione sulla protezione brevettuale da parte della Corte di giustizia. Dal momento che l’oggetto principale dei brevetti europei e le
condizioni per la loro protezione sono disciplinati
da un altro trattato internazionale di cui l’Unione
non fa parte (la Convenzione sul brevetto europeo,
con i suoi 38 firmatari), il diritto dei brevetti sarà
quindi completamente al di fuori dell’ambito UE,
nonostante la sua importanza economica (impatto
sull’innovazione) e le sue questioni di interesse generale (ad esempio l’ambito dei brevetti per software e farmaci).
Sembra che il parere dell’Avvocato Generale Bot
nell’ambito del procedimento spagnolo non affronti in modo globale alcune importanti questioni riguardanti la conformità del regolamento con l’art.
118 TFUE.
Inoltre, se, a seguito di tale parere, ammettiamo
che gli Stati Membri abbiano l’obbligo (di leale
222
cooperazione) di ratificare l’accordo UPC, il presente Accordo, che contiene le regole principali
che definiscono la protezione dei brevetti e istituiscono una nuova corte e le rispettive norme di
competenza, non sarebbe stato oggetto di alcuna
forma di decisione né da parte del Parlamento europeo né dei parlamenti nazionali. Lo stesso vale
per la significativa e dettagliata raccolta di norme
procedurali che saranno stabilite da un comitato
intergovernativo esterno a ogni forma di controllo
parlamentare, così come esterno ad ogni controllo
giurisdizionale. Tale risultato è incompatibile sia
con il principio democratico (art. 10 TUE) che
con il principio di legalità (art. 2 TUE).
Questo stesso meccanismo di rinvio al diritto nazionale (e, se si vuole, ad un trattato internazionale) potrebbe essere ulteriormente utilizzato in futuro dal Parlamento e dal Consiglio europeo in qualsiasi area in cui il TFUE richiede tuttavia che essi
stessi pongano le norme appropriate, in conformità
con la procedura legislativa ordinaria, per rendere
effettivi i vari compiti assegnati loro dal trattato.
Un meccanismo di questo tipo priva l’Unione dei
propri poteri ed è inaccettabile. Acconsentire ad
esso in ambito brevettuale significherebbe aprire la
porta ad altri aggiramenti del diritto dell’UE.
Le questioni sollevate sopra, e, si spera, l’annullamento del Reg. n. 1257/2012 sono un segnale e un
promemoria urgente per i legislatori UE di spettanza esclusivamente loro nell’esercizio dei poteri legislativi di cui sono investiti, senza quindi spogliarsi
di essi in favore degli Stati membri. Così richiedono il potere legislativo dell’Unione e la democrazia
rappresentativa alla base del suo funzionamento.
Oltre a questo, per quanto riguarda lo sviluppo del
sistema europeo dei brevetti, l’annullamento del
regolamento non avrà le conseguenze negative
menzionate da alcuni. Si potrebbe almeno designare una tutela UE delle invenzioni ispirata ai regolamenti adottati per i marchi e i disegni e modelli.
Si potrebbe pensare, ad esempio, alla Proposta del
Consiglio n. 13708/2009 per un regolamento analogo relativo ai brevetti. E vi sono altri modi per
andare avanti. Per di più, sarebbe di gran lunga
complesso istituire una soluzione di quel tipo rispetto al sistema qui discusso.
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Giurisprudenza
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Giurisdizione unificata e regime
linguistico nelle sentenze della
Corte UE sui ricorsi del Regno
di Spagna
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 5 maggio 2015, nella causa C-146/13 - Regno di Spagna
c. Parlamento Europeo e Consiglio dell’Unione Europea
Non costituisce violazione dei principi di autonomia e di applicazione uniforme del diritto dell’Unione l’art.
18, paragrafo 2, comma 2, del Regolamento UE 1257/2012, poiché il legislatore dell’Unione ha affidato agli
Stati membri il compito di procedere all’istituzione del tribunale unificato dei brevetti il quale, come ricordato
ai considerando 24 e 25 di detto regolamento, è essenziale allo scopo di garantire il corretto funzionamento
dei brevetti con effetto unitario, la coerenza della giurisprudenza e, quindi, la certezza del diritto nonché l’efficienza dei costi per i titolari di brevetti.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Non sono stati rinvenuti precedenti.
La Corte (omissis).
Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti
19 Con atto introduttivo depositato presso la cancelleria della Corte il 22 marzo 2013, il Regno di Spagna ha
proposto il presente ricorso.
20 Con decisioni del presidente della Corte del 12 settembre 2013, il Regno del Belgio, la Repubblica ceca, il
Regno di Danimarca, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica francese, il Granducato di Lussemburgo, l’Ungheria, il Regno dei Paesi Bassi, il Regno di
Svezia, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del
Nord e la Commissione europea sono stati ammessi ad
intervenire a sostegno delle conclusioni del Parlamento
e del Consiglio, ai sensi dell’articolo 131, paragrafo 2,
del regolamento di procedura della Corte.
21 Il Regno di Spagna chiede che la Corte voglia:
- dichiarare giuridicamente inesistente il regolamento
impugnato o, in subordine, annullarlo integralmente;
- in subordine, dichiarare la nullità:
- dell’intero articolo 9, paragrafo 1, nonché dell’articolo
9, paragrafo 2, del regolamento impugnato, nei termini
indicati al quinto motivo del presente ricorso; e
- dell’articolo 18, paragrafo 2, di detto regolamento, in
toto, nonché di tutti i riferimenti contenuti nel regolamento impugnato relativi a un tribunale unificato dei
brevetti quale regime giurisdizionale del BEEU e fonte
del diritto di quest’ultimo; e
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- condannare il Parlamento e il Consiglio alle spese.
22 Il Parlamento e il Consiglio, sostenuti da tutte le
parti intervenienti, chiedono che la Corte voglia:
- respingere il ricorso, e
- condannare il Regno di Spagna alle spese.
Sul ricorso
23 A sostegno del suo ricorso, il Regno di Spagna deduce sette motivi, vertenti, rispettivamente, su una violazione dei valori dello Stato di diritto, su una mancanza
di base giuridica, su uno sviamento di potere, su una
violazione dell’articolo 291, paragrafo 2, TFUE e, in via
subordinata, dei principi enunciati nella sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7), sulla violazione
dei medesimi principi, per aver delegato all’UEB taluni
compiti amministrativi in materia di BEEU e, per quanto riguarda i motivi sesto e settimo, sulla violazione dei
principi dell’autonomia e dell’applicazione uniforme del
diritto dell’Unione.
Sul primo motivo, vertente su una violazione dei valori
dello Stato di diritto
Argomenti delle parti
24 Il Regno di Spagna sostiene che il regolamento impugnato debba essere annullato in quanto esso viola i
valori dello Stato di diritto richiamati dall’articolo 2
TUE. Detto regolamento appresterebbe una tutela basa-
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Giurisprudenza
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ta sul brevetto europeo, mentre il procedimento amministrativo preordinato alla concessione di tale brevetto
sarebbe sottratto a un controllo giurisdizionale che consenta di garantire la corretta e uniforme applicazione
del diritto dell’Unione e la tutela dei diritti fondamentali, il che lederebbe il principio della tutela giurisdizionale effettiva. Il Regno di Spagna aggiunge che non
può ammettersi che il suddetto regolamento “incorpori”
nell’ordinamento giuridico dell’Unione atti promananti
da un organismo internazionale che non è soggetto ai
citati principi e che la legislazione dell’Unione accorpi
nella propria normativa un sistema internazionale in
cui il rispetto dei principi costituzionali enunciati dal
Trattato FUE non sia garantito. Tale Stato membro
precisa, in tale contesto, da un lato, che le commissioni
di ricorso e la commissione ampliata di ricorso dell’UEB
sono organi istituiti all’interno di tale Ufficio, i quali
non godono di alcuna indipendenza rispetto a quest’ultimo. Dall’altro lato, le decisioni di tali commissioni di
ricorso e di tale commissione allargata di ricorso non sarebbero soggette ad alcun ricorso giurisdizionale, in
quanto l’Organizzazione europea dei brevetti gode dell’immunità di giurisdizione e di esecuzione.
25 Il Parlamento, dopo aver ricordato che il sistema del
BEEU si fonda su una scelta razionale del legislatore
dell’Unione, al quale è riconosciuto un ampio potere discrezionale, ritiene che il livello di tutela dei diritti dei
singoli offerto dal regolamento impugnato e garantito
parallelamente dalla CBE e dal tribunale unificato dei
brevetti sia compatibile con i principi dello Stato di diritto. Le decisioni amministrative dell’UEB relative alla
concessione di un BEEU potrebbero essere oggetto di ricorsi amministrativi dinanzi a diverse istanze, in seno a
detto Ufficio. Orbene, il livello di tutela riconosciuto ai
singoli nell’ambito della CBE sarebbe stato ritenuto accettabile dagli Stati membri, che sono tutti parti di detta convenzione.
26 Il Consiglio sostiene che tale primo motivo non è
chiaro. Quest’ultima istituzione ritiene, in via principale, che il trasferimento di competenze a un’organizzazione internazionale sia compatibile con la tutela dei diritti dell’uomo, a condizione che, in seno all’organizzazione interessata, i diritti fondamentali siano oggetto di
una tutela equivalente. Tale ipotesi ricorrerebbe nella
fattispecie. In via subordinata, secondo il Consiglio,
l’articolo 9, paragrafo 3, del regolamento impugnato obbliga gli Stati membri a garantire un protezione giuridica efficace.
27 Le parti intervenienti condividono, in sostanza, gli
argomenti del Parlamento e del Consiglio. Tuttavia, il
Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania,
la Repubblica francese e il Regno di Svezia, sottolineano in via preliminare che il motivo in esame è inconferente.
Giudizio della Corte
28 È pacifico che il regolamento impugnato costituisce,
ai sensi del suo articolo 1, un accordo particolare ai sensi dell’articolo 142 della CBE, intitolato “Brevetto uni-
224
tario”. Da tale disposizione risulta che gli Stati parti di
un accordo del genere convengono che i brevetti europei rilasciati per tali Stati avranno un carattere unitario
in tutti i loro territori e possono inoltre prevedere che i
brevetti europei potranno essere concessi soltanto congiuntamente per tutti questi Stati.
29 A tal fine, il regolamento impugnato crea le condizioni giuridiche che permettano di conferire, nel territorio di tutti gli Stati membri partecipanti, un siffatto carattere al brevetto europeo in precedenza concesso dall’UEB sul fondamento delle disposizioni della CBE. Il
considerando 7 del regolamento impugnato specifica, al
riguardo, che la tutela unitaria, avente natura meramente accessoria, dovrebbe essere conseguita “conferendo
un effetto unitario ai brevetti europei nella fase successiva alla concessione in virtù [di tale] regolamento e in
relazione a tutti gli Stati membri partecipanti”. Come
risulta espressamente dalle definizioni enunciate all’articolo 2, lettere b) e c), di detto regolamento, un BEEU è
un brevetto europeo, cioè un brevetto concesso dall’UEB secondo le norme e le procedure previste nella
CBE, al quale è conferito un effetto unitario negli Stati
membri partecipanti.
30 Da quanto precede consegue che il regolamento impugnato non ha affatto lo scopo di fissare, anche solo
parzialmente, le condizioni di concessione dei brevetti
europei, che sono disciplinate non già dal diritto dell’Unione, ma unicamente dalla CBE, ed altresì che esso
non “accorpa” il procedimento di concessione dei brevetti europei previsto dalla CBE nel diritto dell’Unione.
31 Dalla qualificazione del regolamento impugnato come “accordo particolare ai sensi dell’articolo 142 della
CBE”, non contestata dal Regno di Spagna, deriva invece necessariamente che detto regolamento si limita,
da un lato, a stabilire le condizioni alle quali un brevetto europeo precedentemente concesso dall’UEB ai sensi
delle disposizioni della CBE può, su richiesta del suo titolare, ottenere il conferimento di un effetto unitario e,
dall’altro, a definire tale effetto unitario.
32 Di conseguenza, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 61 delle sue conclusioni, il primo motivo, volto a contestare la legittimità, rispetto al diritto
dell’Unione, del procedimento amministrativo preordinato alla concessione di un brevetto europeo, è inconferente e, pertanto, deve essere respinto.
Sul secondo motivo, vertente sulla mancanza di base
giuridica del regolamento impugnato
Argomenti delle parti
33 Il Regno di Spagna sostiene che l’articolo 118, primo
comma, TFUE non costituiva la base giuridica appropriata per l’adozione del regolamento impugnato e che
quest’ultimo deve essere considerato giuridicamente
inesistente. Detto regolamento sarebbe privo di contenuto sostanziale e la sua adozione non sarebbe stata accompagnata da misure atte a garantire una protezione
uniforme dei diritti di proprietà intellettuale nell’Unione né attuerebbe un ravvicinamento delle legislazioni
degli Stati membri a tal fine.
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34 Tale regolamento si presenterebbe come un accordo
particolare ai sensi dell’articolo 142 della CBE, che, secondo il suo titolo, attuerebbe una cooperazione rafforzata nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale
unitaria. Tuttavia, l’oggetto e la finalità del medesimo
regolamento impugnato non corrisponderebbero alla base giuridica su cui esso si fonda.
35 Il regolamento impugnato non individuerebbe, infatti, gli atti avverso i quali il BEEU garantisce una protezione e farebbe illegittimamente rinvio alla normativa
nazionale applicabile, in quanto il BEEU è stato creato
dall’Unione e, secondo il Regno di Spagna, gli Stati
membri possono esercitare la loro competenza soltanto
allorché l’Unione non ha esercitato la propria. Inoltre,
per quanto riguarda gli effetti del BEEU, detto regolamento rinvierebbe all’accordo TUB, che costituirebbe
un accordo di diritto internazionale pubblico stipulato
dagli Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata, ad eccezione della Repubblica di Polonia, e dalla
Repubblica italiana. Orbene, siffatto rinvio violerebbe
il principio di autonomia dell’ordinamento giuridico
dell’Unione. Nel caso di specie, il suddetto regolamento
sarebbe stato svuotato del proprio contenuto, dato che
il “ravvicinamento delle legislazioni” sarebbe stato trasferito nelle disposizioni dell’accordo TUB.
36 Il Parlamento e il Consiglio sostengono che l’articolo 118 TFUE costituisce il fondamento normativo appropriato per l’adozione del regolamento impugnato.
Tale articolo non imporrebbe una completa armonizzazione delle legislazioni nazionali, sempre che sia creato
un titolo di proprietà intellettuale che offra una protezione uniforme negli Stati membri partecipanti.
37 Considerati il suo oggetto e il suo contenuto, detto
regolamento soddisfarebbe il citato requisito, poiché
istituirebbe il BEEU, che offre una protezione uniforme
nel territorio degli Stati membri partecipanti, e definirebbe le caratteristiche nonché la portata e gli effetti
del brevetto unitario.
38 Le parti intervenienti che hanno formulato osservazioni sul secondo motivo aderiscono alla posizione del
Parlamento e del Consiglio.
Giudizio della Corte
39 Secondo una costante giurisprudenza, la scelta della
base giuridica di un atto dell’Unione deve basarsi su
elementi oggettivi assoggettabili a sindacato giurisdizionale, tra i quali figurano, in particolare, lo scopo e il
contenuto dell’atto (sentenze Commissione/Consiglio,
C-377/12, EU:C:2014:1903, punto 34 e la giurisprudenza ivi citata, nonché Regno Unito/Consiglio, C-81/13,
EU:C:2014:2449, punto 35).
40 Si deve ricordare che l’articolo 118, primo comma,
TFUE conferisce al legislatore dell’Unione il potere di
stabilire le misure per la creazione di titoli europei al fine di garantire una protezione uniforme dei diritti di
proprietà intellettuale nell’Unione. Tale disposizione,
introdotta nel Trattato FUE dal Trattato di Lisbona, fa
specifico riferimento all’instaurazione e al funzionamento del mercato interno, il quale rientra in un settore di
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competenze concorrenti dell’Unione ai sensi dell’articolo 4 TFUE (v., in tal senso, sentenza Spagna e Italia/Consiglio, C-274/11 e C-295/11, EU:C:2013:240, punti
da 16 a 26).
41 La Corte ha altresì considerato, per quanto riguarda
l’espressione “nell’Unione” che appare in tale disposizione, che, essendo la competenza attribuita da detto articolo esercitata in forza della cooperazione rafforzata, il
titolo europeo di proprietà intellettuale in tal modo
creato e la protezione uniforme da esso conferita devono essere in vigore unicamente nel territorio degli Stati
membri partecipanti, e non in tutta l’Unione (v., in tal
senso, sentenza Spagna e Italia/Consiglio, C-274/11 e
C-295/11, EU:C:2013:240, punti 67 e 68).
42 Occorre pertanto stabilire, in considerazione dello
scopo e del contenuto del regolamento impugnato, se
esso preveda misure atte a garantire una protezione uniforme dei diritti di proprietà intellettuale nel territorio
degli Stati membri partecipanti e, pertanto, se esso possa essere validamente fondato, come sostengono il Parlamento, il Consiglio e le parti intervenienti, sull’articolo 118, primo comma, TFUE, menzionato come base
giuridica nel preambolo del suddetto regolamento.
43 Per quanto concerne lo scopo del regolamento impugnato, si deve rilevare che, a termini del suo articolo 1,
paragrafo 1, esso ha per obiettivo l’“istituzione di una
tutela brevettuale unitaria”, la quale, secondo il considerando 1 di tale regolamento, dovrebbe figurare tra gli
strumenti giuridici a disposizione delle imprese, in particolare allo scopo di permettere a queste ultime di adattare le loro attività nella produzione e nella distribuzione di prodotti attraverso i confini nazionali. Il considerando 4 di detto regolamento conferma tale obiettivo
sottolineando la necessità di migliorare il livello della
tutela brevettuale rendendo possibile alle imprese l’ottenimento di una protezione brevettuale uniforme negli
Stati membri partecipanti e l’eliminazione dei costi e
della complessità, a beneficio delle imprese di tutta l’Unione.
44 Per quanto riguarda il contenuto del regolamento
impugnato, è necessario constatare che le sue disposizioni rispecchiano, nella loro definizione delle caratteristiche del BEEU, la volontà del legislatore dell’Unione di
garantire una protezione uniforme nel territorio degli
Stati membri partecipanti.
45 Il regolamento impugnato dispone infatti, al suo articolo 3, paragrafo 1, che un brevetto europeo concesso
con la stessa serie di rivendicazioni riguardo a tutti gli
Stati membri partecipanti beneficia di un effetto unitario in detti Stati, a condizione che il suo effetto unitario
sia stato iscritto nel registro per la tutela brevettuale
unitaria. L’articolo 3, paragrafo 2, del medesimo regolamento dispone inoltre che un BEEU possiede un carattere unitario, fornisce una protezione uniforme e ha pari
efficacia in tutti gli Stati membri partecipanti, esso può
essere limitato, trasferito o revocato, o estinguersi unicamente in relazione a tutti gli Stati membri partecipanti.
46 A tal proposito, l’individuazione di un unico diritto
nazionale applicabile nel territorio di tutti gli Stati
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membri partecipanti - le cui disposizioni di diritto sostanziale definiscono gli atti contro i quali un BEEU
conferisce tutela nonché le caratteristiche di quest’ultimo in quanto oggetto di proprietà - permette di garantire il carattere uniforme della protezione così conferita.
47 Infatti, diversamente dai brevetti europei concessi ai
sensi delle norme stabilite dalla CBE, che garantiscono,
in ciascuno degli Stati parti di tale convenzione, una
tutela la cui portata è definita dal diritto nazionale di
ciascuno Stato, l’uniformità della tutela conferita dal
BEEU risulta dall’applicazione degli articoli 5, paragrafo
3, e 7 del regolamento impugnato, i quali garantiscono
che il diritto nazionale prescelto sarà applicato nel territorio di tutti gli Stati membri partecipanti nei quali tale
brevetto ha un effetto unitario.
48 Per quanto riguarda l’argomento del Regno di Spagna secondo cui il regolamento impugnato è “privo di
contenuto sostanziale”, occorre rilevare, come l’avvocato generale al paragrafo 89 delle sue conclusioni, che
l’articolo 118 TFUE, rientrante nel capo 3 del titolo
VII del Trattato FUE sul “ravvicinamento delle legislazioni”, nel menzionare l’istituzione di “misure per la
creazione di titoli europei al fine di garantire una protezione uniforme dei diritti di proprietà intellettuale nell’Unione” non esige necessariamente che il legislatore
dell’Unione proceda a un’armonizzazione completa ed
esaustiva di tutti gli aspetti del diritto di proprietà intellettuale.
49 Orbene, nonostante il regolamento impugnato non
indichi gli atti contro i quali il BEEU conferisce tutela,
una siffatta protezione resta nondimeno uniforme in
quanto, indipendentemente dalla portata esatta della
tutela sostanziale conferita da un BEEU ai sensi del diritto nazionale applicabile, in forza dell’articolo 7 del regolamento impugnato, quest’ultima si applicherà, per
detto BEEU, nel territorio di tutti gli Stati membri partecipanti nei quali tale brevetto ha un effetto unitario.
50 Per di più, il legislatore dell’Unione ha affermato, al
considerando 9 del regolamento impugnato, che la portata e le limitazioni del diritto, conferito al titolare del
BEEU, di impedire a qualsiasi terzo di commettere atti
avverso i quali detto brevetto fornisce tutela nel territorio di tutti gli Stati partecipanti nei quali esso ha un effetto unitario si dovrebbero applicare alle materie non
coperte dal medesimo regolamento o dal regolamento
n. 1260/2012.
51 In considerazione di quanto precede, la tutela brevettuale unitaria, istituita dal regolamento impugnato, è
atta a prevenire divergenze in termini di tutela brevettuale negli Stati membri partecipanti e, pertanto, mira
a una protezione uniforme ai sensi dell’articolo 118, primo comma, TFUE.
52 Ne consegue che quest’ultima disposizione costituisce la base giuridica appropriata per l’adozione del regolamento impugnato.
53 Occorre pertanto respingere il secondo motivo.
226
Sul terzo motivo, vertente su uno sviamento di potere
Argomenti delle parti
54 Il Regno di Spagna sostiene che il Parlamento e il
Consiglio hanno commesso uno sviamento di potere.
Quest’ultimo risulterebbe dal fatto che il regolamento
impugnato, che sarebbe un “guscio vuoto”, non introdurrebbe alcun regime giuridico idoneo a garantire una
tutela uniforme dei diritti di proprietà intellettuale nell’Unione. Contrariamente a quanto affermato dal Parlamento, su tale questione non si sarebbe pronunciata la
Corte nella sentenza Spagna e Italia/Consiglio (C274/11 e C-295/11, EU:C:2013:240).
55 Il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dalle parti intervenienti, concludono per il rigetto del terzo motivo.
Il Parlamento sottolinea che la Corte, nella sentenza
Spagna e Italia/Consiglio (C-274/11 e C-295/11,
EU:C:2013:240), ha respinto l’argomento del Regno di
Spagna e della Repubblica italiana vertente su uno sviamento di potere. Il Consiglio aggiunge che il regolamento impugnato e la creazione del BEEU favoriscono
la realizzazione degli obiettivi dell’Unione, poiché, in
assenza dell’effetto unitario del BEEU, il titolare di un
brevetto europeo che intendesse conseguire una tutela
nei 25 Stati membri partecipanti alla cooperazione rafforzata sarebbe tenuto a convalidarlo separatamente in
ciascuno di tali Stati membri; detto brevetto dovrebbe
essere poi confermato e, in caso di controversia, difeso
separatamente in ciascuno degli Stati membri.
Giudizio della Corte
56 Secondo una costante giurisprudenza, un atto è viziato da sviamento di potere solo se, in base ad indizi
oggettivi, pertinenti e concordanti, risulta essere stato
adottato esclusivamente, o quanto meno in maniera determinante, per fini diversi da quelli per i quali il potere
di cui trattasi è stato conferito o allo scopo di eludere
una procedura appositamente prevista dal Trattato FUE
per far fronte alle circostanze del caso di specie (sentenze Fedesa e a., C-331/88, EU:C:1990:391, punto 24,
nonché Spagna e Italia/Consiglio, C-274/11 e C295/11, EU:C:2013:240, punto 33 e la giurisprudenza
ivi citata).
57 Orbene, nel presente caso, il Regno di Spagna non
fornisce la dimostrazione che il regolamento impugnato
sia stato adottato allo scopo esclusivo o determinante di
conseguire obiettivi diversi da quelli per i quali il potere
de quo è stato conferito e che sono enunciati all’articolo 1, paragrafo 1, di detto regolamento, oppure allo scopo di eludere una procedura specificamente prevista dal
Trattato FUE per fare fronte alle circostanze della fattispecie.
58 Infatti, nell’ambito del suo motivo vertente su uno
sviamento di potere, il Regno di Spagna si limita a ribadire il suo argomento secondo cui il regolamento impugnato non delinea alcun regime giuridico idoneo a garantire una protezione uniforme dei diritti di proprietà
intellettuale nell’Unione. Orbene, siffatto argomento è
stato respinto nell’analisi del secondo motivo.
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59 Ne consegue che neppure il terzo motivo è fondato e
che esso dev’essere respinto.
Sui motivi quarto e quinto, vertenti su una violazione
dell’articolo 291, paragrafo 2, TFUE e dei principi
enunciati nella sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56,
EU:C:1958:7)
Argomenti delle parti
60 Nell’ambito del quarto motivo, il Regno di Spagna
contesta l’attribuzione, nell’articolo 9, paragrafo 2, del
regolamento impugnato, agli Stati membri partecipanti
che agiscono nel quadro del comitato ristretto del consiglio d’amministrazione dell’Organizzazione europea dei
brevetti, della competenza a fissare il livello delle tasse
di rinnovo e a definire la loro quota di distribuzione.
L’attribuzione di una siffatta competenza di esecuzione
agli Stati membri partecipanti costituirebbe una violazione dell’articolo 291 TFUE e dei principi enunciati
nella sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56,
EU:C:1958:7).
61 In via principale, il Regno di Spagna fa valere che
l’articolo 291 TFUE non consente al legislatore di delegare agli Stati membri partecipanti la suddetta competenza. Il paragrafo 1 di detto articolo non sarebbe applicabile e il paragrafo 2 dello stesso disporrebbe che, qualora siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione
degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione, detti
atti conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione o al Consiglio. Tale condizione di applicazione
di detto paragrafo 2 sarebbe manifestamente soddisfatta
nel caso di specie, alla luce della formulazione dell’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento impugnato.
62 In subordine, per l’ipotesi in cui la Corte dovesse dichiarare che l’articolo 291, paragrafo 2, TFUE non è
stato violato, il Regno di Spagna deduce che la delega
di competenza in esame non soddisfa le condizioni fissate nella sentenza Meroni/A lta Autorità (9/56,
EU:C:1958:7), confermata dalle sentenze Romano
(98/80, EU:C:1981:104), Tralli/BCE (C-301/02 P,
EU:C:2005:306) nonché Regno Unito/Parlamento e
Consiglio (C-270/12, EU:C:2014:18).
63 Nell’ambito del quinto motivo, il Regno di Spagna
afferma che l’articolo 9, paragrafo 1, del regolamento
impugnato, che delega taluni compiti amministrativi all’UEB, viola i principi enunciati nella sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7). Contrariamente
a quanto sostengono varie parti intervenienti, non si
tratterebbe di competenze proprie degli Stati membri,
bensì di competenze dell’Unione. Sebbene la giustificazione obiettiva di tale delega possa, ad avviso di detto
Stato membro, risiedere nel grado di competenza tecnica dell’UEB nella materia di cui trattasi, una delega del
genere non potrebbe avere ad oggetto poteri che comportino un ampio margine di discrezionalità. Orbene, la
gestione del regime di compensazione per il rimborso
dei costi di traduzione disciplinato all’articolo 5 del regolamento n. 1260/2012, previsto all’articolo 9, paragrafo 1, lettera f), del regolamento impugnato, comporterebbe un ampio margine di discrezionalità. Inoltre,
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l’UEB godrebbe del privilegio dell’immunità di giurisdizione e di esecuzione e, di conseguenza, i suoi atti non
sarebbero soggetti a controllo giurisdizionale.
64 In risposta al quarto motivo, il Parlamento sostiene
che l’attribuzione di talune competenze ad agenzie ha
sempre costituito un’eccezione alle norme del Trattato
in materia di applicazione del diritto dell’Unione, la
quale sarebbe giuridicamente accettabile a talune condizioni. Esso si interroga, inoltre, sulla pertinenza della
sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7)
nell’ipotesi di attribuzione di competenze ad un organo
internazionale, quale il comitato ristretto del Consiglio
d’amministrazione dell’Organizzazione europea dei brevetti.
65 Il Consiglio osserva che, conformemente all’articolo
291, paragrafo 1, TFUE, allorché le istituzioni dell’Unione adottano atti giuridicamente vincolanti, la responsabilità dell’adozione di adeguate misure di esecuzione appartiene agli Stati membri. È solo nel caso in
cui l’applicazione di tali atti richieda condizioni uniformi che le misure di esecuzione sarebbero adottate dalla
Commissione o, ove necessario, dal Consiglio, ai sensi
dell’articolo 291, paragrafo 2, TFUE. A tal proposito, il
Regno di Spagna non dimostrerebbe la sua affermazione
secondo cui la fissazione delle tasse di rinnovo e della
loro quota di distribuzione dovrebbe essere eseguita in
modo uniforme a livello di Unione. Ne conseguirebbe
che la sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56,
EU:C:1958:7) non sarebbe pertinente nel caso di specie.
66 In ogni caso, il Parlamento e il Consiglio ritengono
che le condizioni imposte dalla sentenza Meroni/Alta
Autorità (9/56, EU:C:1958:7) siano soddisfatte.
67 In risposta al quinto motivo, il Parlamento e il Consiglio fanno valere che la giurisprudenza derivante dalla
sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7)
non è applicabile, per le ragioni esposte nella loro risposta al quarto motivo. Tali istituzioni aggiungono che il
compito previsto dall’articolo 9, paragrafo 1, lettera f),
del regolamento impugnato, contrariamente agli altri
compiti previsti dall’articolo 9, paragrafo 1, di detto regolamento, è soggetto a criteri stabiliti in modo indiretto, mediante un rinvio all’articolo 5 del regolamento n.
1260/2012. Contrariamente a quanto sostenuto dal Regno di Spagna, l’UEB non disporrebbe di un margine di
discrezionalità assoluto per quanto riguarda lo svolgimento del suddetto compito. In particolare, la valutazione che deve essere effettuata dall’UEB avrebbe natura più amministrativa o tecnica che non politica. Il Parlamento ricorda altresì che un rappresentante della
Commissione siede nel comitato ristretto del Consiglio
d’amministrazione dell’Organizzazione europea dei brevetti in qualità di osservatore. Per quanto concerne l’asserita mancanza di controllo giurisdizionale, il Parlamento e il Consiglio rinviano agli argomenti da loro già
esposti in merito a tale profilo.
68 Le parti intervenienti aderiscono alle osservazioni
del Parlamento e del Consiglio.
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Giudizio della Corte
69 Il primo argomento dedotto a sostegno del quarto
motivo verte su una violazione dell’articolo 291, paragrafo 2, TFUE. Il secondo argomento dedotto a sostegno di tale motivo nonché del quinto motivo verte su
una violazione dei principi enunciati nella sentenza
Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7).
70 In primo luogo, per quanto riguarda l’argomento vertente su una violazione dell’articolo 291, paragrafo 2,
TFUE, è pacifico che, come ricordato al punto 28 della
presente sentenza, il regolamento impugnato costituisce
un accordo particolare ai sensi dell’articolo 142 della
CBE, cosicché a siffatto accordo si applicano le disposizioni della parte nona di tale convenzione, relativa agli
accordi particolari, che include gli articoli da 142 a 149
di quest’ultima.
71 Ai sensi degli articoli 143 e 145 della CBE, un gruppo di Stati contraenti, avvalendosi delle disposizioni
della parte nona della CBE, può affidare compiti all’UEB e istituire un comitato ristretto del Consiglio
d’amministrazione dell’Organizzazione europea dei brevetti, come ricorda il considerando 16 del regolamento
impugnato. Inoltre, l’articolo 146 della CBE prevede
che, sempre che un gruppo di Stati contraenti abbia affidato compiti supplementari all’UEB ai sensi dell’articolo 143 di detta convenzione, tale gruppo si assume le
spese sostenute dall’Organizzazione europea dei brevetti
per l’esecuzione di tali compiti.
72 È al fine di attuare le disposizioni sopra menzionate
che l’articolo 9 del regolamento impugnato prevede, al
suo paragrafo 1, che gli Stati membri partecipanti conferiscono una serie di compiti da esso elencati all’UEB
e, al suo paragrafo 2, che, nella loro qualità di Stati
contraenti della CBE, gli Stati membri partecipanti garantiscono la governance e la sorveglianza delle attività
relative ai suddetti compiti e garantiscono la fissazione
del livello delle tasse di rinnovo in conformità alle disposizioni di tale regolamento. Il considerando 20 del
suddetto regolamento precisa, a tal riguardo, che il livello e la distribuzione adeguati delle tasse di rinnovo
dovrebbero essere determinati così da garantire che, relativamente alla tutela brevettuale unitaria, tutti i costi
dei compiti affidati all’UEB siano interamente coperti
dalle risorse generate dai BEEU.
73 Da quanto precede risulta che l’importo delle tasse
di rinnovo di cui all’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento impugnato deve necessariamente coprire le spese
sostenute dall’UEB per svolgere i compiti supplementari
che dovessero essergli conferiti, in forza dell’articolo143
della CBE, dagli Stati membri partecipanti.
74 Orbene, tali compiti sono intrinsecamente connessi
all’attuazione della tutela brevettuale unitaria istituita
dal regolamento impugnato.
75 Occorre quindi considerare che, contrariamente a
quanto sostenuto da talune parti intervenienti, la fissazione del livello delle tasse di rinnovo e della loro quota
di distribuzione, di cui all’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento impugnato, costituisce l’attuazione di un atto
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giuridicamente vincolante di diritto dell’Unione, ai sensi dell’articolo 291, paragrafo 1, TFUE.
76 Secondo la formulazione di quest’ultima disposizione, sono gli Stati membri che adottano tutte le misure
di diritto interno necessarie per l’attuazione degli atti
giuridicamente vincolanti dell’Unione.
77 È soltanto laddove siano necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti
dell’Unione che, ai sensi dell’articolo 291, paragrafo 2,
TFUE, tali atti conferiscono competenze di esecuzione
alla Commissione o, in casi specifici debitamente motivati e nelle ipotesi previste agli articoli 24 TUE e 26
TUE, al Consiglio.
78 Orbene, il Regno di Spagna, nell’ambito del quarto
motivo, non espone le ragioni per le quali condizioni
uniformi di questo tipo sarebbero necessarie ai fini dell’esecuzione dell’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento
impugnato.
79 Tale Stato membro si limita, in effetti, ad affermare
che la necessità di tali condizioni deriva dalle disposizioni del medesimo regolamento e dalla fissazione di
una tassa unica per il BEEU e non di una tassa per Stato membro.
80 Siffatto argomento non può tuttavia essere accolto.
81 Infatti, sebbene l’articolo 9, paragrafo 1, lettera e),
del regolamento impugnato disponga che gli Stati membri partecipanti conferiscono all’UEB il compito di “riscuotere e gestire le tasse di rinnovo dei [BEEU]”, non
risulta da alcuna disposizione di tale regolamento che
l’importo di tali tasse di rinnovo debba essere uniforme
per tutti gli Stati membri partecipanti.
82 Inoltre, dalla qualificazione del regolamento impugnato come accordo particolare ai sensi dell’articolo
142 della CBE e dalla circostanza, non più contestata
dal Regno di Spagna, che la fissazione del livello delle
tasse di rinnovo e della loro quota di distribuzione spetti
a un comitato ristretto del Consiglio d’amministrazione
dell’Organizzazione europea dei brevetti, risulta inevitabilmente che sono necessariamente gli Stati membri
partecipanti, e non la Commissione o il Consiglio, a
dover adottare tutte le misure necessarie ai fini dell’esecuzione dell’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento impugnato, dato che l’Unione, diversamente dagli Stati
membri, non è parte della CBE.
83 Ne consegue che a torto il Regno di Spagna sostiene
che l’articolo 291, paragrafo 2, TFUE è stato violato.
84 In secondo luogo, occorre esaminare l’argomento
vertente su una violazione dei principi enunciati nella
sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7),
avanzato a sostegno dei motivi quarto e quinto. Nell’ambito di tale giurisprudenza, la Corte ha dichiarato,
in particolare, che la delega, da parte di un’istituzione
dell’Unione a un’entità privata, di un potere discrezionale comportante un’ampia libertà di valutazione e atto
ad esprimere, con l’uso che ne viene fatto, una politica
economica vera e propria, fosse incompatibile con
quanto il Trattato FUE prescrive (v., in tal senso, sentenze Meroni/Alta Autorità, 9/56, EU:C:1958:7, punti
43, 44 e 47, nonché Regno Unito/Parlamento e Consiglio, C-270/12, EU:C:2014:18, punti 41 e 42).
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85 A tal riguardo, si deve ricordare che l’Unione, diversamente dai suoi Stati membri, non è parte della CBE.
Il legislatore dell’Unione ha dunque giustamente previsto, all’articolo 9, paragrafo 2, del regolamento impugnato, che è nella loro qualità di Stati contraenti della
CBE che gli Stati membri partecipanti garantiscono la
fissazione del livello delle tasse di rinnovo e la fissazione
della loro quota di distribuzione.
86 Quanto all’articolo 9, paragrafo 1, del regolamento
impugnato, dal tenore letterale di tale disposizione risulta che sono gli Stati membri partecipanti a conferire all’UEB, ai sensi dell’articolo 143 della CBE, i compiti
elencati da detta disposizione.
87 Dato che, contrariamente a quanto sostiene il Regno
di Spagna, il legislatore dell’Unione non ha delegato
agli Stati membri partecipanti o all’UEB competenze di
esecuzione che ai sensi del diritto dell’Unione spetterebbero propriamente ad esso, i principi enunciati dalla
Corte nella sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56,
EU:C:1958:7) non possono trovare applicazione.
88 Di conseguenza, occorre respingere i motivi quarto e
quinto.
Sui motivi sesto e settimo, vertenti sulla violazione dei
principi di autonomia e di uniformità del diritto
dell’Unione
Argomenti delle parti
89 Nell’ambito del suo sesto motivo, il Regno di Spagna
sostiene che la salvaguardia dell’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione presuppone che le competenze dell’Unione e delle sue istituzioni non siano snaturate da alcun trattato internazionale. Orbene, così
non avverrebbe nel caso di specie.
90 In una prima parte del sesto motivo, il Regno di
Spagna afferma che non esistono sostanziali differenze
tra l’accordo TUB e il progetto di accordo relativo alla
creazione di un organo giurisdizionale competente per
le controversie in materia di brevetto europeo e di brevetto comunitario, che la Corte ha dichiarato incompatibile con le disposizioni del Trattato UE e del Trattato
FUE (parere 1/09, EU:C:2011:123). Da un lato, il tribunale unificato dei brevetti non farebbe parte del sistema
istituzionale e giurisdizionale dell’Unione. D’altro lato,
l’accordo TUB non prevederebbe garanzie per la preservazione del diritto dell’Unione. L’imputazione diretta,
individuale e collettiva agli Stati membri contraenti
delle azioni del tribunale unificato dei brevetti, anche
ai fini degli articoli 258 TFUE, 259 TFUE e 260 TFUE,
prevista all’articolo 23 dell’accordo TUB, quand’anche
fosse compatibile con i Trattati, sarebbe insufficiente a
tal proposito.
91 In una seconda parte del suddetto motivo, il Regno
di Spagna sostiene che, aderendo all’accordo TUB, gli
Stati membri partecipanti esercitano una competenza
che spetterebbe ormai all’Unione, e ciò in violazione
dei principi di leale cooperazione e di autonomia del diritto dell’Unione. Dall’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona, l’Unione disporrebbe di una competenza esclusiva per la conclusione di accordi internazionali, ove ta-
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le conclusione possa incidere su norme comuni o modificarne la portata. Orbene, l’accordo TUB inciderebbe
sul regolamento n. 1215/2012 e sulla convenzione concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, firmata a Lugano il 30 ottobre 2007 (GU L
339, pag. 3), e ne modificherebbe la portata.
92 Infine, mediante la terza parte del sesto motivo, il
Regno di Spagna sostiene che dall’articolo 18, paragrafo
2, primo comma, del regolamento impugnato risulta
che l’applicazione di quest’ultimo dipende in modo assoluto dall’entrata in vigore dell’accordo TUB. L’articolo 89 di tale accordo subordinerebbe l’entrata in vigore
di quest’ultimo al deposito del tredicesimo strumento di
ratifica o di adesione, inclusi quelli da parte dei tre Stati
membri nei quali il maggior numero di brevetti europei
aveva effetto nell’anno precedente a quello in cui ha
avuto luogo la firma dell’accordo TUB. Ne conseguirebbe che l’effettività della competenza esercitata dall’Unione mediante il regolamento impugnato dipenderebbe
dalla volontà degli Stati membri parti dell’accordo
TUB.
93 Con il settimo motivo, il Regno di Spagna afferma
che l’articolo 18, paragrafo 2, secondo comma, del regolamento impugnato attribuisce agli Stati membri la capacità di decidere unilateralmente se quest’ultimo debba
essere applicato nei loro confronti. Così, se uno Stato
membro dovesse decidere di non ratificare l’accordo
TUB, detto regolamento non sarebbe applicabile nei
suoi confronti e il tribunale unificato dei brevetti non
acquisirebbe una giurisdizione esclusiva per pronunciarsi
sul BEEU nel suo territorio, cosicché i BEEU non
avrebbero effetto unitario per quanto concerne detto
Stato membro. Ne conseguirebbe una violazione dei
principi di autonomia e di applicazione uniforme del diritto dell’Unione.
94 Il Parlamento rileva, preliminarmente, che il collegamento esistente tra il regolamento impugnato e l’accordo TUB rappresenta una condizione essenziale per il
funzionamento del BEEU e non arreca pregiudizio al diritto dell’Unione. L’accordo TUB rispetterebbe le due
condizioni essenziali richieste ai fini del rispetto dell’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione, poiché, da un lato, la natura delle competenze dell’Unione
e delle sue istituzioni non sarebbe alterata e, dall’altro,
detto accordo non imporrebbe all’Unione e alle sue istituzioni, nell’esercizio delle loro competenze interne, alcuna particolare interpretazione delle disposizioni giuridiche dell’Unione che compaiono nell’accordo stesso.
95 Peraltro, la creazione del tribunale unificato dei brevetti non minerebbe nessuna competenza dell’Unione.
Innanzitutto, la competenza a creare un organo giurisdizionale comune in materia di brevetti e a definire la
portata delle competenze di quest’ultima continuerebbe
a spettare agli Stati membri e non sarebbe stata affidata
in via esclusiva all’Unione. Inoltre, il regolamento impugnato imporrebbe esplicitamente agli Stati membri di
concedere al tribunale unificato dei brevetti una giurisdizione esclusiva. Detto regolamento, fondato sull’articolo 118, primo comma, TFUE, consentirebbe esplicita-
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mente agli Stati membri di adottare, in materia di brevetti, disposizioni che prevedano deroghe al regolamento n. 1215/2012. Inoltre, il legislatore dell’Unione richiederebbe che l’entrata in vigore dell’accordo TUB
sia subordinata alle necessarie modifiche apportate dal
legislatore dell’Unione a quest’ultimo regolamento, per
quanto concerne il collegamento tra quest’ultimo e detto accordo. Infine, varie disposizioni del Trattato FUE
subordinerebbero l’entrata in vigore di un atto giuridico
derivato del diritto dell’Unione alla sua approvazione
da parte degli Stati membri.
96 Il Parlamento ritiene, inoltre, che il rifiuto da parte
di uno Stato membro di ratificare l’accordo TUB, che
comporterebbe l’inapplicabilità del regolamento impugnato sul suo territorio, costituirebbe una violazione
dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE. Ad avviso di detta
istituzione, anche ammesso che esista un rischio per
quanto riguarda l’applicazione uniforme del regolamento impugnato, un rischio del genere sarebbe giustificato,
considerata la necessità di garantire una tutela giurisdizionale effettiva e di rispettare il principio di certezza
del diritto.
97 Il Consiglio rileva che la scelta politica del legislatore è consistita nel collegare il BEEU al funzionamento
di un organo giurisdizionale distinto, il tribunale unificato dei brevetti, garante della coerenza della giurisprudenza e della certezza del diritto. Non esisterebbe alcun
ostacolo giuridico alla creazione di un nesso tra il BEEU
e il tribunale unificato dei brevetti, nesso che sarebbe
illustrato ai considerando 24 e 25 del regolamento impugnato. Peraltro, nella prassi legislativa esisterebbero
vari esempi di casi in cui l’applicabilità di un atto dell’Unione sarebbe stata subordinata al verificarsi di un
evento esterno a tale atto. Per quanto riguarda la questione del numero di ratifiche necessarie all’entrata in
vigore dell’accordo TUB, la fissazione del numero di
tredici ratifiche sarebbe dovuto alla volontà degli Stati
membri di garantire che il BEEU e il tribunale unificato
dei brevetti fossero istituiti rapidamente.
98 Il Consiglio ricorda, inoltre, che l’articolo 18, paragrafo 2, del regolamento impugnato si limita a prevedere una deroga all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, e all’articolo
4, paragrafo 1, del regolamento in discussione, cosicché
l’effetto unitario del BEEU è limitato agli Stati membri
che hanno ratificato l’accordo TUB, applicandosi le altre disposizioni del regolamento a tutti gli Stati membri
partecipanti. Tenuto conto dell’importanza del collegamento esistente tra il regolamento impugnato e l’accordo TUB, si sarebbe ritenuto che si trattasse di una garanzia aggiuntiva affinché tale collegamento potesse
produrre effetti in maniera ottimale.
99 Le parti intervenienti che hanno formulato osservazioni sui motivi sesto e settimo aderiscono alla posizione
del Parlamento e del Consiglio.
Giudizio della Corte
100 In via preliminare, occorre rilevare che le prime
due parti del sesto motivo mirano a dimostrare, da un
lato, che le disposizioni dell’accordo TUB non sono
230
compatibili con il diritto dell’Unione, e, dall’altro, che
gli Stati membri partecipanti non possono ratificare
l’accordo TUB senza venir meno ai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione.
101 Orbene, si deve ricordare che, nell’ambito di un ricorso ai sensi dell’articolo 263 TFUE, la Corte non è
competente a pronunciarsi sulla legittimità di un accordo internazionale stipulato da Stati membri.
102 Nell’ambito di un ricorso di questo tipo, il giudice
dell’Unione non è competente neppure a pronunciarsi
sulla legittimità di un atto adottato da un’autorità nazionale (v., in tal senso, sentenza Liivimaa Lihaveis, C562/12, EU:C:2014:2229, punto 48 e la giurisprudenza
ivi citata).
103 Ne consegue che le prime due parti del sesto motivo devono essere respinte in quanto irricevibili.
104 Per quanto riguarda la terza parte di detto motivo,
occorre sottolineare che l’articolo 18, paragrafo 2, primo
comma, del regolamento impugnato dispone che quest’ultimo si applica “a decorrere dal 1° gennaio 2014 o
dalla data di entrata in vigore dell’accordo [TUB], se
successiva”.
105 Secondo la giurisprudenza della Corte, la diretta
applicabilità di un regolamento, prevista all’articolo
288, secondo comma, TFUE, implica che la sua entrata
in vigore e la sua applicazione in favore o a carico dei
soggetti giuridici si realizzino senza alcun provvedimento di recepimento nel diritto nazionale, salvo che il regolamento di cui trattasi lasci agli Stati membri il compito di adottare essi stessi i provvedimenti legislativi, regolamentari, amministrativi e finanziari necessari affinché le disposizioni del regolamento stesso possano essere
applicate (v. sentenze Bussone, 31/78, EU:C:1978:217,
punto 32, nonché ANAFE, C-606/10, EU:C:2012:348,
punto 72 e la giurisprudenza ivi citata).
106 Così avviene nella fattispecie, dato che il legislatore dell’Unione stesso ha lasciato agli Stati membri, ai fini dell’attuazione delle disposizioni del regolamento impugnato, da un lato, il compito di adottare varie misure
nel quadro giuridico stabilito dalla CBE e, dall’altro, il
compito di procedere all’istituzione del tribunale unificato dei brevetti, il quale, come ricordato ai considerando 24 e 25 di detto regolamento, è essenziale allo scopo
di garantire il corretto funzionamento di tali brevetti, la
coerenza della giurisprudenza e, quindi, la certezza del
diritto nonché l’efficienza dei costi per i titolari di brevetti.
107 Per quanto riguarda l’argomento del Regno di Spagna dedotto nell’ambito del settimo motivo, secondo
cui l’articolo 18, paragrafo 2, secondo comma, del regolamento impugnato attribuirebbe agli Stati membri la
capacità di decidere unilateralmente se quest’ultimo
debba essere applicato nei loro confronti, esso è fondato
su una premessa erronea, dato che tale disposizione si limita a derogare all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, e all’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento impugnato, con l’esclusione delle altre disposizioni del suddetto regolamento. Siffatta deroga parziale e temporanea è, peraltro,
giustificata dai motivi ricordati al punto 106 della presente sentenza.
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108 Risulta da quanto precede che si devono respingere
i motivi sesto e settimo.
109 Alla luce di tutte le considerazioni che precedono,
si deve respingere integralmente il ricorso, nonché la
domanda di annullamento parziale del regolamento formulata in subordine dal Regno di Spagna.
Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 5 maggio 2015, nella causa C-147/13 - Regno di Spagna
c. Consiglio dell’Unione Europea
Il regolamento UE n. 1260/2012, relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria con riferimento al regime di traduzione applicabile, mira ad agevolare
l’accesso alla tutela brevettuale segnatamente per le piccole e medie imprese, preservando il necessario equilibrio tra i vari interessi in gioco e senza dar luogo a ingiustificate disposizioni discriminatorie per conseguire
il legittimo obiettivo perseguito.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Non sono stati rinvenuti precedenti.
La Corte (omissis).
Sul primo motivo, vertente sulla violazione del
principio di non discriminazione fondata sulla lingua
Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti
17 Con atto introduttivo depositato presso la cancelleria della Corte il 22 marzo 2013, il Regno di Spagna ha
proposto il presente ricorso.
18 Con decisioni del presidente della Corte del 12 settembre 2013, il Regno del Belgio, la Repubblica ceca, il
Regno di Danimarca, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica francese, il Granducato di Lussemburgo, l’Ungheria, il Regno dei Paesi Bassi, il Regno di
Svezia, il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del
Nord, il Parlamento europeo e la Commissione sono
stati ammessi ad intervenire a sostegno delle conclusioni del Consiglio, ai sensi dell’articolo 131, paragrafo 2,
del regolamento di procedura della Corte.
19 Il Regno di Spagna chiede che la Corte voglia:
- annullare il regolamento impugnato;
- in subordine, annullare gli articoli da 4 a 6, paragrafo
2, e 7, paragrafo 2, del suddetto regolamento, e
- condannare il Consiglio alle spese.
20 Il Consiglio, sostenuto da tutte le parti intervenienti, chiede che la Corte voglia:
- respingere il ricorso e
- condannare il Regno di Spagna alle spese.
Sul ricorso
21 A sostegno del suo ricorso, il Regno di Spagna deduce cinque motivi, vertenti, rispettivamente, sulla violazione del principio di non discriminazione fondata sulla
lingua, sulla violazione dei principi enunciati nella sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7), per
aver delegato all’UEB compiti amministrativi relativi al
BEEU, sulla mancanza di base giuridica, sulla violazione
del principio di certezza del diritto e sulla violazione del
principio di autonomia del diritto dell’Unione.
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Argomenti delle parti
22 Il Regno di Spagna sostiene che, adottando il regolamento impugnato, il Consiglio ha violato il principio di
non discriminazione sancito all’articolo 2 TUE, in
quanto ha istituito, per il BEEU, un regime linguistico
che lede i soggetti la cui lingua non rientra tra le lingue
ufficiali dell’UEB. Detto regime creerebbe una situazione di disparità di trattamento fra, da un lato, i cittadini
e le imprese dell’Unione che dispongono dei mezzi per
comprendere, con un certo grado di competenza, documenti redatti nelle suddette lingue e, dall’altro, quelli
che non ne dispongono e che dovranno provvedere a
effettuare le traduzioni a proprie spese. Ogni limitazione
all’impiego di tutte le lingue ufficiali dell’Unione dovrebbe essere debitamente giustificata nel rispetto del
principio di proporzionalità.
23 In primis, non sarebbe garantito l’accesso alle traduzioni dei documenti che conferiscono diritti alla collettività. Ciò deriverebbe dal fatto che il fascicolo di un
BEEU è pubblicato nella lingua della procedura e contiene la traduzione delle rivendicazioni nelle altre due
lingue ufficiali dell’UEB, senza possibilità di un’altra
traduzione, il che sarebbe discriminatorio e minerebbe
il principio della certezza del diritto. Il regolamento impugnato non preciserebbe neppure in quale lingua sarà
concesso il BEEU, né se tale elemento sarà oggetto di
pubblicazione. Il fatto che il Consiglio si sia fondato sul
regime dell’UEB per stabilire il regime linguistico del
BEEU non ne garantirebbe la compatibilità con il diritto dell’Unione.
24 In secundis, il regolamento impugnato sarebbe sproporzionato e non sarebbe giustificabile sulla base di ragioni di interesse generale. Anzitutto, non sarebbe prevista la messa a disposizione di una traduzione per lo
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meno delle rivendicazioni, il che comporterebbe una situazione di grave incertezza del diritto e potrebbe ripercuotersi negativamente sulla concorrenza. Il BEEU costituirebbe, inoltre, un titolo di proprietà intellettuale
essenziale per il mercato interno. Infine, il regolamento
di cui trattasi non prevederebbe un regime transitorio
atto a garantire un’adeguata conoscenza del brevetto.
Né lo sviluppo delle traduzioni automatiche né l’obbligo di presentare una traduzione completa in caso di
controversia costituirebbero misure sufficienti a tal proposito.
25 Da ciò conseguirebbe che l’introduzione di un’eccezione al principio dell’uguaglianza tra le lingue ufficiali
dell’Unione avrebbe dovuto essere giustificata da criteri
diversi da quelli, puramente economici, menzionati ai
considerando 5 e 6 del regolamento impugnato.
26 Il Consiglio replica, anzitutto, che dai Trattati non è
possibile desumere alcun principio in base al quale le
lingue ufficiali dell’Unione debbano essere trattate in
modo paritario in tutti i casi, circostanza, questa, che
troverebbe peraltro conferma nell’articolo 118, secondo
comma, TFUE, il quale sarebbe destituito di qualsiasi significato se esistesse un solo regime linguistico possibile
comprendente tutte le lingue ufficiali dell’Unione.
27 Inoltre, nel regime attuale, ogni persona fisica o giuridica potrebbe richiedere un brevetto europeo in qualsiasi lingua, a condizione tuttavia di produrre, entro il
termine di due mesi, una traduzione in una delle tre lingue ufficiali dell’UEB, che diverrebbe la lingua della
procedura, mentre le rivendicazioni sarebbero pubblicate poi nelle altre due lingue ufficiali dell’UEB. Pertanto,
una domanda sarebbe tradotta e pubblicata in lingua
spagnola soltanto qualora sia chiesta la convalida del
brevetto nel Regno di Spagna.
28 Peraltro, la mancata pubblicazione in lingua spagnola
produrrebbe soltanto effetti limitati. In primo luogo, il
regolamento impugnato prevederebbe un regime di compensazione dei costi. In secondo luogo, i brevetti sarebbero di norma gestiti da consulenti specializzati in materia
di proprietà intellettuale che conoscono altre lingue dell’Unione. In terzo luogo, l’impatto sull’accesso alle informazioni scientifiche in lingua spagnola sarebbe limitato.
In quarto luogo, solo una ridotta parte delle domande di
brevetti europei sarebbe tradotta attualmente in lingua
spagnola. In quinto luogo, il regolamento di cui trattasi
prevederebbe la messa a disposizione di un sistema di traduzione automatica di alta qualità in tutte le lingue ufficiali dell’Unione. In sesto e ultimo luogo, l’articolo 4 di
detto regolamento fisserebbe un limite all’eventuale responsabilità delle piccole e medie imprese, delle persone
fisiche, delle organizzazioni senza scopo di lucro, delle
università e degli enti pubblici di ricerca.
29 Infine, la limitazione del numero di lingue utilizzate
nell’ambito del BEEU perseguirebbe un obiettivo legittimo, attinente al costo ragionevole del medesimo.
30 Le parti intervenienti aderiscono alle argomentazioni formulate dal Consiglio. Esse sottolineano che la ricerca di un equilibrio tra i diversi operatori economici è
stata particolarmente difficile, dal momento che le differenti posizioni degli Stati membri sul regime linguisti-
232
co hanno fatto arenare tutti i precedenti progetti di brevetto unitario.
Giudizio della Corte
31 Dalla giurisprudenza della Corte risulta che i riferimenti, presenti nei Trattati, all’impiego delle lingue
nell’Unione non possono essere considerati come la
manifestazione di un principio generale del diritto dell’Unione in forza del quale ogni atto che possa incidere
sugli interessi di un cittadino dell’Unione debba essere
redatto in ogni caso nella sua lingua (sentenze Kik/UAMI, C-361/01 P, EU:C:2003:434, punto 82, e Polska
Telefonia Cyfrowa, C-410/09, EU:C:2011:294, punto
38).
32 Nel caso di specie, è innegabile che nel regolamento
impugnato si operi un trattamento differenziato delle
lingue ufficiali dell’Unione. Infatti, l’articolo 3, paragrafo 1, di tale regolamento, che definisce il regime di traduzione per il BEEU, si riferisce alla pubblicazione del
fascicolo del BEEU conformemente all’articolo 14, paragrafo 6, della CBE. In applicazione di tale disposizione
e dell’articolo 14, paragrafo 1, della CBE, i fascicoli del
brevetto europeo sono pubblicati nella lingua del procedimento, che deve essere una delle lingue ufficiali dell’UEB, segnatamente il tedesco, l’inglese o il francese, e
contengono una traduzione delle rivendicazioni nelle
altre due lingue ufficiali dell’UEB. Ove siano state rispettate le condizioni prescritte da tali disposizioni della
CBE, non è necessaria alcun’altra traduzione ai fini del
riconoscimento dell’effetto unitario del brevetto europeo interessato.
33 Nei limiti in cui sia possibile far valere un obiettivo
legittimo di interesse generale e dimostrarne l’effettiva
sussistenza, occorre ricordare che una differenza di trattamento a motivo della lingua deve altresì rispettare il
principio di proporzionalità, vale a dire essa deve essere
idonea a realizzare l’obiettivo perseguito e non deve andare oltre quanto è necessario per raggiungerlo (v. sentenza Italia/Commissione, C-566/10 P, EU:C:2012:752,
punto 93).
34 Per quanto riguarda, in primo luogo, lo scopo perseguito dal Consiglio, dal considerando 16 del regolamento impugnato risulta che l’obiettivo di quest’ultimo è la
creazione di un regime di traduzione uniforme e semplice per il BEEU istituito dal regolamento n. 1257/2012.
I considerando 4 e 5 del regolamento impugnato precisano che, conformemente alla decisione sulla cooperazione rafforzata, il regime di traduzione dei BEEU dovrebbe essere semplice ed efficiente in termini di costi.
Esso dovrebbe inoltre assicurare la certezza del diritto,
incentivare l’innovazione e favorire in modo particolare
le piccole e medie imprese, e rendere nel contempo più
facile, meno costoso e giuridicamente sicuro l’accesso al
BEEU e al sistema brevettuale in generale. Da quanto
precede risulta che il regolamento impugnato mira ad
agevolare l’accesso alla tutela brevettuale segnatamente
per le piccole e medie imprese.
35 La legittimità di un tale obiettivo è innegabile. Tra
le scelte che si presentano a un inventore, nel momento
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in cui intende ottenere la protezione della sua invenzione mediante il rilascio di un brevetto, figura quella dell’estensione territoriale della protezione voluta; tale
scelta avviene sulla base di una valutazione globale dei
vantaggi e degli inconvenienti di ciascuna opzione, che
comporta, in particolare, valutazioni economiche complesse relative all’interesse commerciale di una protezione nei diversi Stati rispetto all’importo totale delle spese collegate al rilascio di un brevetto in tali Stati, ivi
comprese le spese di traduzione (v., in tal senso, sentenza BASF, C_44/98, EU:C:1999:440, punto 18).
36 Orbene, il sistema di tutela del brevetto europeo risultante dalla CBE è caratterizzato da una complessità e
da costi particolarmente elevati per un richiedente che
intenda ottenere la tutela della sua invenzione mediante la concessione di un brevetto che copra il territorio
di tutti gli Stati membri. Tale complessità e tali costi,
che risultano in particolare dalla necessità che il titolare di un brevetto europeo concesso dall’UEB ne presenti, ai fini della convalida di tale brevetto sul territorio
di uno Stato membro, una traduzione nella lingua ufficiale dello Stato membro, costituiscono un ostacolo alla
tutela brevettuale nell’Unione.
37 Inoltre, è indubbio che le modalità dell’attuale regime di tutela brevettuale risultante dalla CBE producono
effetti negativi sulla capacità di innovazione e di competitività delle imprese dell’Unione, in particolare delle
piccole e medie imprese, le quali non possono sviluppare nuove tecnologie tutelate mediante brevetti estesi a
tutto il territorio dell’Unione senza dover seguire procedure complesse e costose, il regime linguistico istituito
dal regolamento impugnato è invece idoneo a rendere
più facile, meno costoso e giuridicamente più sicuro
l’accesso al BEEU ed al sistema brevettuale in generale.
38 In secondo luogo, occorre verificare se il regime istituito dal regolamento impugnato sia adeguato al fine di
conseguire il legittimo obiettivo di agevolare l’accesso
alla tutela brevettuale.
39 A tal riguardo, si deve ricordare che il regolamento
impugnato persegue l’obiettivo di istituire un regime di
traduzione dei brevetti europei ai quali è conferito un
effetto unitario ai sensi del regolamento n. 1257/2012.
Dato che l’UEB è responsabile per la concessione dei
brevetti europei, il regolamento impugnato si basa sul
regime di traduzione vigente presso l’UEB, il quale prescrive l’impiego delle lingue tedesca, inglese e francese,
tale regolamento non impone tuttavia la traduzione del
fascicolo del brevetto europeo, o almeno delle relative
rivendicazioni, nella lingua ufficiale di ciascuno degli
Stati in cui il BEEU produrrà i suoi effetti, come avviene per il brevetto europeo. Pertanto, il regime istituito
dal regolamento impugnato permette effettivamente di
agevolare l’accesso alla tutela brevettuale mediante la
riduzione dei costi collegati agli obblighi di traduzione.
40 In terzo luogo, occorre verificare se il regime istituito
dal regolamento impugnato non vada oltre quanto è necessario per raggiungere il legittimo obiettivo perseguito.
41 A tal proposito, la Corte ha sottolineato, al punto
92 della sentenza Kik/UAMI (C-361/01 P,
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EU:C:2003:434), che deve essere preservato il necessario equilibrio, da un lato, tra gli interessi degli operatori
economici e quelli della collettività per quanto riguarda
i costi dei procedimenti, e, dall’altro, tra gli interessi dei
soggetti richiedenti i titoli di proprietà intellettuale e
quelli degli altri operatori economici per quanto riguarda l’accesso alle traduzioni dei documenti che concedono diritti o i procedimenti che coinvolgono diversi operatori economici.
42 Innanzitutto, per quanto concerne la preservazione
dell’equilibrio tra gli interessi degli operatori economici
e quelli della collettività relativamente ai costi dei procedimenti di riconoscimento dell’effetto unitario del
brevetto europeo, si deve rilevare che, pur se l’Unione
attribuisce grande rilievo alla preservazione del multilinguismo, la cui importanza è richiamata all’articolo 3,
paragrafo 3, quarto comma, TUE e all’articolo 22 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, è
stato ricordato, al punto 36 della presente sentenza, che
i costi elevati relativi alla concessione di un brevetto
europeo esteso al territorio di tutti gli Stati membri costituiscono un ostacolo alla tutela brevettuale nell’Unione, cosicché era indispensabile che il regime di traduzione del BEEU fosse efficiente in termini di costi.
43 Inoltre, va sottolineato che il Consiglio ha previsto
l’istituzione di vari meccanismi al fine di garantire il necessario equilibrio tra gli interessi di coloro che richiedono i titoli di proprietà intellettuale e quelli degli altri
operatori economici relativamente all’accesso alle traduzioni dei documenti che concedono diritti o ai procedimenti che coinvolgono diversi operatori economici.
44 Così, per prima cosa, allo scopo di agevolare l’accesso al BEEU, ed in particolare di permettere ai richiedenti di presentare le proprie domande dinanzi all’UEB
in qualsiasi lingua dell’Unione, l’articolo 5 del regolamento impugnato prevede un regime di compensazione
per il rimborso dei costi di traduzione entro un determinato massimale per taluni richiedenti - in particolare le
piccole e medie imprese - che depositano le domande di
brevetto presso l’UEB in una delle lingue ufficiali dell’Unione che non sia una lingua ufficiale dell’UEB.
45 Inoltre, ai fini di limitare gli svantaggi per gli operatori economici che non dispongano dei mezzi per comprendere, con un certo grado di competenza, documenti
redatti in lingua tedesca, inglese o francese, il Consiglio
ha previsto, all’articolo 6 del regolamento impugnato,
un periodo transitorio, di una durata massima di dodici
anni, fino a quando sarà disponibile in tutte le lingue
ufficiali dell’Unione un sistema di traduzione automatica di alta qualità. Durante detto periodo transitorio,
ogni richiesta di effetto unitario deve essere accompagnata o da una traduzione integrale del fascicolo in inglese, se la lingua del procedimento è il francese o il tedesco, oppure da una traduzione integrale del fascicolo
in un’altra lingua ufficiale dell’Unione, se la lingua del
procedimento è l’inglese.
46 Infine, per tutelare gli operatori economici che non
dispongano dei mezzi per comprendere, con un certo
grado di competenza, una delle lingue ufficiali dell’UEB, il Consiglio ha previsto, all’articolo 4 del regola-
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mento impugnato, varie disposizioni applicabili in caso
di controversia, che mirano, da un lato, a permettere a
tali operatori, qualora siano sospettati di contraffazione,
di ottenere, alle condizioni previste da detto articolo,
una traduzione integrale del BEEU e, dall’altro, in caso
di controversia riguardante una domanda di risarcimento di danni, a far sì che l’organo giurisdizionale adito
esamini e prenda in considerazione la buona fede di un
presunto contraffattore.
47 Alla luce dei suddetti elementi, occorre constatare
che il regolamento impugnato preserva il necessario
equilibrio tra i vari interessi in gioco e, pertanto, non
va oltre quanto è necessario per conseguire il legittimo
obiettivo perseguito. Di conseguenza, come essenzialmente rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi da 61
a 74 delle sue conclusioni, la scelta del Consiglio, nell’ambito dell’istituzione di un regime di traduzione del
BEEU, di operare un trattamento differenziato delle lingue ufficiali dell’Unione, limitata alle lingue tedesca,
inglese e francese, è adeguata e proporzionata al legittimo obiettivo perseguito da detto regolamento.
48 Il primo motivo deve essere pertanto respinto.
Sul secondo motivo, vertente sulla violazione dei
principi enunciati nella sentenza Meroni/Alta
Autorità (9/56, EU:C:1958:7)
Argomenti delle parti
49 Il Regno di Spagna sostiene che, nel delegare all’UEB, agli articoli 5 e 6, paragrafo 2, del regolamento
impugnato, la gestione del regime di compensazione per
il rimborso dei costi di traduzione e la pubblicazione
delle traduzioni nell’ambito del regime transitorio, il
Consiglio ha violato i principi sanciti nella sentenza
Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7), confermata
dalle sentenze Romano (98/80, EU:C:1981:104) e Tralli/BCE (C_301/02 P, EU:C:2005:306).
50 In primo luogo, né i considerando del regolamento
n. 1257/2012 né quelli del regolamento impugnato conterrebbero giustificazioni oggettive di tale delega di poteri.
51 In secondo luogo, dalla sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7) risulterebbe che la delega può
avere ad oggetto unicamente poteri di esecuzione nettamente circoscritti, per i quali non sussista alcun margine di discrezionalità ed il cui esercizio, per tale ragione,
sia soggetto a un controllo rigoroso in base a criteri oggettivi stabiliti dall’autorità delegante. Orbene, ciò non
avverrebbe nel caso di specie.
52 Innanzitutto, l’articolo 5 del regolamento impugnato
affiderebbe la gestione del regime di compensazione all’UEB, che potrebbe decidere discrezionalmente circa
l’attuazione del diritto al rimborso dei costi di traduzione previsti da detto sistema. Inoltre, ad avviso del Regno di Spagna, se è vero che, l’articolo 9, paragrafo 3,
del regolamento n. 1257/2012 impone agli Stati membri
l’obbligo di garantire una protezione giuridica efficace
nei confronti delle decisioni adottate dall’UEB nello
svolgimento dei compiti di cui al paragrafo 1 di tale disposizione, e che tale competenza è stata conferita in
234
esclusiva al tribunale unificato dei brevetti dall’articolo
32, paragrafo 1, lettera i), dell’accordo TUB, tuttavia
l’Organizzazione europea dei brevetti godrebbe del privilegio dell’immunità di giurisdizione e di esecuzione e, di
conseguenza, gli atti dell’UEB non sarebbero assoggettabili ad alcun controllo giurisdizionale.
53 Inoltre, il compito di pubblicare le traduzioni, previsto all’articolo 6, paragrafo 2, del regolamento impugnato, costituirebbe un’attività rispetto alla quale non sussiste alcun potere discrezionale. Tuttavia, essa non sarebbe assoggettabile ad alcun controllo giurisdizionale.
54 Il Consiglio osserva, in via preliminare, che il Regno
di Spagna non contesta il fatto che la gestione del regime di compensazione e il compito di pubblicare le traduzioni spettino agli Stati membri partecipanti, per il
tramite dell’UEB. Orbene, l’attuazione del diritto dell’Unione spetterebbe, in primo luogo, agli Stati membri
e, per i compiti relativi al regime di compensazione e alla pubblicazione delle traduzioni, non sarebbe necessario avere condizioni uniformi di esecuzione ai sensi dell’articolo 291, paragrafo 2, TFUE. I principi sanciti nelle sentenze Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7),
Romano (98/80, EU:C:1981:104) e Tralli/BCE (C301/02 P, EU:C:2005:306) non sarebbero pertinenti. In
ogni caso, tali principi non sarebbero stati violati.
55 Le parti intervenienti aderiscono alle argomentazioni formulate dal Consiglio.
Giudizio della Corte
56 Occorre rilevare, in via preliminare, che dagli scritti
difensivi del Regno di Spagna risulta che detto Stato
membro sostiene che non sussisterebbero le condizioni
atte a permettere l’asserita delega di competenze operata
dal Consiglio agli articoli 5 e 6, paragrafo 2, del regolamento impugnato, ciò che costituirebbe una violazione
dei principi enunciati nella sentenza Meroni/Alta
Autorità (9/56, EU:C:1958:7).
57 A tal riguardo, occorre rilevare che gli articoli 5 e 6,
paragrafo 2, del regolamento impugnato invitano gli
Stati membri partecipanti ad assegnare all’UEB, conformemente all’articolo 9 del regolamento n. 1257/2012, i
compiti da essi determinati, ai sensi dell’articolo 143
della CBE.
58 Come risulta dall’articolo 1, paragrafo 2, del regolamento n. 1257/2012, detto regolamento costituisce un
accordo particolare ai sensi dell’articolo 142 della CBE,
cosicché a un accordo siffatto si applicano le disposizioni della parte nona di tale convenzione, relativa agli accordi particolari, che include gli articoli da 142 a 149 di
quest’ultima.
59 Ai sensi degli articoli 143 e 145 della CBE, un gruppo di Stati contraenti, avvalendosi delle disposizioni
della parte nona della CBE, può affidare compiti all’UEB.
60 È al fine di attuare le disposizioni sopra menzionate
che l’articolo 9, paragrafo 1, lettere d) ed f), del regolamento n. 1257/2012 prevede che gli Stati membri partecipanti conferiscono all’UEB i compiti, da un lato, di
pubblicare le traduzioni di cui all’articolo 6 del regola-
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mento impugnato durante il periodo transitorio di cui
al medesimo articolo e, dall’altro, di gestire il regime di
compensazione per il rimborso dei costi di traduzione di
cui all’articolo 5 di quest’ultimo regolamento.
61 Orbene, tali compiti sono intrinsecamente connessi
all’attuazione della tutela brevettuale unitaria, istituita
dal regolamento n. 1257/2012 ed il cui regime di traduzione è stabilito dal regolamento impugnato.
62 Si deve quindi considerare che il fatto di assegnare all’UEB taluni compiti supplementari deriva dalla conclusione, da parte degli Stati membri partecipanti, nella loro
qualità di parti contraenti della CBE, di un accordo particolare ai sensi dell’articolo 142 di tale convenzione.
63 Dato che, contrariamente a quanto sostiene il Regno
di Spagna, il Consiglio non ha delegato agli Stati membri partecipanti o all’UEB competenze di esecuzione
che spetterebbero propriamente ad esso ai sensi del diritto dell’Unione, i principi enunciati dalla Corte nella
sentenza Meroni/Alta Autorità (9/56, EU:C:1958:7)
non possono trovare applicazione.
64 Ne consegue che il secondo motivo dev’essere respinto.
Sul terzo motivo, vertente su una mancanza di base
giuridica dell’articolo 4 del regolamento impugnato
Argomenti delle parti
65 Il Regno di Spagna sostiene che la base giuridica cui
si è fatto ricorso per introdurre nel regolamento impugnato l’articolo 4 è errata, dal momento che tale disposizione non verte sul “regime linguistico” di un titolo europeo a norma dell’articolo 118, secondo comma, TFUE,
bensì incorpora talune garanzie procedurali nel quadro di
un procedimento giurisdizionale, le quali non possono essere fondate su tale disposizione del Trattato FUE.
66 Secondo il Consiglio, il regolamento impugnato stabilisce effettivamente un regime linguistico, in quanto determina quali traduzioni siano necessarie successivamente
alla concessione e alla registrazione dell’effetto unitario
di un BEEU. Così, l’articolo 3, paragrafo 1, di tale regolamento istituirebbe il regime linguistico del BEEU specificando, per quanto concerne la situazione successiva alla
registrazione dell’effetto unitario, che ove il fascicolo di
un brevetto europeo sia stato pubblicato conformemente
alla CBE, non sono necessarie ulteriori traduzioni. L’articolo 4 del suddetto regolamento colmerebbe una lacuna
giuridica, in quanto il regime linguistico previsto dalla
CBE non disciplinerebbe i requisiti linguistici in caso di
controversia. Inoltre, dato che le regole procedurali degli
Stati membri non sono state armonizzate dal diritto dell’Unione, occorrerebbe vigilare affinché il presunto contraffattore abbia sempre il diritto di ottenere la traduzione del BEEU interessato nella sua interezza.
67 Le parti intervenienti aderiscono agli argomenti del
Consiglio.
Giudizio della Corte
68 Secondo una giurisprudenza costante, la scelta della
base giuridica di un atto dell’Unione dev’essere basata
su circostanze obiettive, che possano essere sindacate in
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via giurisdizionale, tra le quali figurano, in particolare,
lo scopo e il contenuto dell’atto (sentenze Commissione/Consiglio, C-377/12, EU:C:2014:1903, punto 34
nonché la giurisprudenza ivi citata e Regno Unito/Consiglio, C-81/13, EU:C:2014:2449, punto 35).
69 Nel caso di specie, per quanto riguarda la finalità del
regolamento impugnato, occorre rilevare che, secondo
il titolo e l’articolo 1 di detto regolamento, quest’ultimo
attua la cooperazione rafforzata nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria in relazione al regime di traduzione applicabile. Come risulta dal considerando 16 del regolamento impugnato, l’obiettivo di quest’ultimo è la creazione di un regime di traduzione uniforme e semplice per i BEEU.
70 Per quanto riguarda il contenuto del regolamento
impugnato, si deve constatare che l’articolo 3, paragrafo
1, di detto regolamento prevede che, fatte salve le disposizioni relative alle traduzioni in caso di controversia
e alle misure transitorie, se il fascicolo di un brevetto
europeo che beneficia dell’effetto unitario è stato pubblicato conformemente all’articolo 14, paragrafo 6, della
CBE non sono necessarie ulteriori traduzioni. Ai sensi
di quest’ultima disposizione, i fascicoli di brevetto europeo sono pubblicati nella lingua della procedura e contengono una traduzione delle rivendicazioni nelle altre
due lingue ufficiali dell’UEB.
71 Dalle considerazioni che precedono emerge che il regolamento impugnato istituisce, conformemente all’articolo 118, secondo comma, TFUE, il regime linguistico
per il BEEU, definito mediante il rinvio all’articolo 14,
paragrafo 6, della CBE.
72 A tal riguardo, si deve constatare che l’articolo 118,
secondo comma, TFUE non esclude che, in sede di determinazione del regime linguistico di un titolo europeo, sia fatto riferimento al regime linguistico dell’organizzazione alla quale appartiene l’organo che sarà incaricato di concedere il titolo destinato ad avere effetto
unitario. Peraltro, è irrilevante il fatto che il regolamento impugnato non stabilisca una disciplina esaustiva del
regime linguistico applicabile al BEEU. L’articolo 118,
secondo comma, TFUE non impone, infatti, al Consiglio di armonizzare tutti gli aspetti del regime linguistico dei titoli di proprietà intellettuale creati sulla base
del primo comma di detto articolo.
73 Per quanto riguarda l’articolo 4 del regolamento impugnato, si deve constatare che quest’ultimo ricade direttamente nell’ambito del regime linguistico del BEEU,
in quanto definisce le norme speciali che disciplinano
la traduzione del BEEU nel contesto specifico di una
controversia. Infatti, dato che il regime linguistico del
BEEU è definito dall’insieme delle disposizioni del regolamento impugnato, e più precisamente da quelle contenute agli articoli 3, 4 e 6, intesi a regolare situazioni
differenti, l’articolo 4 del medesimo regolamento non
potrebbe essere distinto, per quanto riguarda la base giuridica, dal resto delle disposizioni di quest’ultimo.
74 In considerazione di quanto precede, l’argomento del
Regno di Spagna secondo cui l’articolo 118, secondo
comma, TFUE, non può costituire una base giuridica
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per l’articolo 4 del regolamento impugnato deve pertanto essere respinto.
75 Il terzo motivo non può dunque essere accolto.
Sul quarto motivo, vertente sulla violazione del
principio di certezza del diritto
Argomenti delle parti
76 Il Regno di Spagna sostiene che il Consiglio ha violato il principio di certezza del diritto. Innanzitutto, il
regolamento impugnato limiterebbe le possibilità per gli
operatori economici di accedere alle informazioni, dato
che il fascicolo del BEEU sarebbe pubblicato soltanto
nella lingua del procedimento, con esclusione delle altre lingue ufficiali dell’UEB. Inoltre, detto regolamento
non indicherebbe le modalità, in particolare linguistiche, della concessione del BEEU. Esso non indicherebbe, poi, nell’ambito della gestione del regime di compensazione, il massimale dei costi né le modalità della
sua fissazione. Peraltro, le disposizioni dell’articolo 4 di
tale regolamento non sarebbero sufficienti per ovviare
all’assenza di informazioni relative al BEEU. La traduzione del BEEU fornita in caso di controversia non
avrebbe, infatti, valore giuridico e tale disposizione non
prevederebbe le conseguenze concrete nel caso in cui
un contraffattore abbia agito in buona fede. Infine, il sistema di traduzione automatica non sarebbe esistito al
momento dell’adozione del regolamento impugnato e
non vi sarebbe alcuna garanzia che esso possa funzionare in un settore in cui il rigore della traduzione è di primaria importanza.
77 Il Consiglio ritiene che le affermazioni del Regno di
Spagna non tengano conto dei principi di amministrazione indiretta e di sussidiarietà su cui si fonda il diritto
dell’Unione. Il regolamento impugnato lascerebbe agli
Stati membri il compito di disciplinare in concreto
aspetti quali il regime di compensazione o le traduzioni
automatiche. Il principio di certezza del diritto non esigerebbe che tutte le regole siano fissate fin nei minimi
dettagli nel regolamento di base, potendo determinate
regole essere stabilite dagli Stati membri o definite in
atti delegati oppure in atti di esecuzione. Peraltro, l’articolo 4, paragrafo 4, del regolamento impugnato fisserebbe gli elementi essenziali e i criteri in vista della loro
applicazione da parte del giudice nazionale.
78 Le parti intervenienti aderiscono alla posizione del
Consiglio.
Giudizio della Corte
79 Secondo una giurisprudenza costante, il principio
della certezza del diritto esige che le norme di diritto
siano chiare, precise e prevedibili nei loro effetti, affinché gli interessati possano orientarsi nelle situazioni e
nei rapporti giuridici rientranti nell’ordinamento dell’Unione (v. sentenze France Télécom/Commissione,
C-81/10 P, EU:C:2011:811, punto 100 e la giurisprud e n z a i v i c i t a t a , no n c h é LV K - 5 6 , C- 6 4 3 / 1 1 ,
EU:C:2013:55, punto 51).
80 In primo luogo, l’argomento del Regno di Spagna secondo cui il regolamento impugnato limita le possibilità
236
per gli operatori economici di accedere alle informazioni equivale a contestare il regime linguistico istituito da
detto regolamento in quanto esso non prevede la traduzione del BEEU in tutte le lingue ufficiali dell’Unione.
Orbene, siffatto argomento è già stato respinto nell’ambito del primo motivo.
81 In secondo luogo, riguardo all’argomento secondo
cui il regolamento impugnato non indicherebbe le modalità, in particolare linguistiche, della concessione dell’effetto unitario, una lettura congiunta delle pertinenti
disposizioni di tale regolamento e del regolamento n.
1257/2012 consente di escludere qualsiasi violazione del
principio di certezza del diritto.
82 L’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento impugnato
dispone, infatti, che ogni richiesta di effetto unitario di
cui all’articolo 9 del regolamento n. 1257/2012 sia presentata nella lingua del procedimento. A tal riguardo,
la lingua del procedimento è definita all’articolo 2, lettera b), del regolamento impugnato come la lingua utilizzata nel procedimento dinanzi all’UEB, ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 3, della CBE.
83 Secondo l’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n.
1257/2012, l’effetto unitario deve essere iscritto nel registro per la tutela brevettuale unitaria, registro facente
parte, ai sensi dell’articolo 2, lettera e), del medesimo
regolamento, del registro europeo dei brevetti tenuto
dall’UEB. Orbene, le iscrizioni al registro europeo dei
brevetti sono effettuate nelle tre lingue ufficiali dell’UEB, conformemente all’articolo 14, paragrafo 8, della
CBE.
84 In terzo luogo, per quanto riguarda l’asserita assenza
di un massimale o di modalità di fissazione di quest’ultimo, è sufficiente constatare che - come in sostanza osservato dall’avvocato generale ai paragrafi 110 e 111
delle sue conclusioni - a tenore dell’articolo 9, paragrafo
2, del regolamento n. 1257/2012, gli Stati membri partecipanti, nella loro qualità di Stati contraenti della
CBE, garantiscono la governance e la sorveglianza delle
attività relative ai compiti di cui all’articolo 9, paragrafo
1, di detto regolamento e, a tal fine, istituiscono un comitato ristretto del Consiglio d’amministrazione dell’Organizzazione europea dei brevetti ai sensi dell’articolo 145 della CBE, cosicché una decisione relativa al
massimale o alle modalità di fissazione del sistema di
compensazione competerà agli Stati membri partecipanti nell’ambito di un siffatto comitato ristretto. Non può
dunque rilevarsi a tal riguardo nessuna violazione del
principio di certezza del diritto.
85 In quarto luogo, il fatto che a produrre effetti giuridici sia unicamente il brevetto nella lingua in cui è stato
concesso, e non la traduzione, la quale, in applicazione
dell’articolo 4 del regolamento impugnato, deve essere
fornita in caso di controversia, non determina alcuna
incertezza del diritto, dato che gli operatori interessati
sono in grado di conoscere con certezza la lingua facente fede ai fini di valutare la portata della tutela conferita dal BEEU.
86 In quinto luogo, non viola il principio di certezza del
diritto neppure l’assenza di indicazioni delle conseguenze concrete per l’ipotesi in cui un presunto contraffatto-
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re abbia agito in buona fede. Come risulta dal considerando 9 del regolamento impugnato, ciò consente invece al giudice competente di valutare le circostanze del
singolo caso e, in particolare, di considerare se il presunto contraffattore sia una piccola o media impresa
che opera solamente a livello locale, di tenere conto
della lingua del procedimento dinanzi all’UEB e, durante il periodo transitorio, della traduzione trasmessa unitamente alla richiesta di effetto unitario.
87 In sesto luogo, per quanto riguarda le argomentazioni
del Regno di Spagna sull’assenza di garanzia del buon
funzionamento del sistema di traduzione automatico,
che non sarebbe stato operativo al momento dell’adozione del regolamento impugnato, si deve constatare
che ciò che viene messa in discussione è, in realtà, la
scelta del legislatore dell’Unione di prevedere un periodo transitorio di dodici anni per la messa in opera della
parte del regime linguistico relativa alla traduzione
automatica delle domande di brevetti e dei fascicoli in
tutte le lingue ufficiali dell’Unione. Orbene, anche se è
vero che manca una garanzia del buon funzionamento
di detto sistema, che sarà operativo alla fine di un periodo transitorio, detta circostanza non è sufficiente a
giustificare l’annullamento del regolamento impugnato
per violazione del principio della certezza del diritto, in
quanto non è possibile fornire una garanzia di questo tipo. Pertanto, l’argomento del Regno di Spagna deve essere respinto in quanto inconferente.
88 In tali circostanze, non è constatabile alcuna violazione del principio di certezza del diritto.
89 Si deve dunque respingere il quarto motivo.
Sul quinto motivo, vertente sulla violazione del
principio di autonomia del diritto dell’Unione
Argomenti delle parti
90 Il Regno di Spagna sostiene che l’articolo 7 del regolamento impugnato lede il principio di autonomia del
diritto dell’Unione, dal momento che detto articolo distingue tra, da una parte, l’entrata in vigore del regolamento in parola e, dall’altra, l’applicazione di quest’ultimo, fissando tale data al 1° gennaio 2014, indicando
contestualmente che tale data sarà posticipata in caso
di mancata entrata in vigore dell’accordo TUB ai sensi
del suo articolo 89, paragrafo 1. Nel caso di specie, alle
parti contraenti dell’accordo TUB sarebbe stato attribuito il potere di stabilire la data di applicabilità di una
norma dell’Unione e, di conseguenza, l’esercizio di una
sua competenza. Il Regno di Spagna aggiunge che gli
esempi del Consiglio vertenti sulla prassi legislativa sono privi di pertinenza.
91 Ad avviso del Consiglio, da una lettura congiunta
dei considerando 9, 24 e 25 del regolamento n.
1257/2012 emerge che la scelta politica compiuta dal
legislatore dell’Unione per garantire il buon funziona-
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mento del BEEU, la coerenza della giurisprudenza e,
quindi, la certezza del diritto, nonché un’adeguata efficienza in termini di costi per i titolari dei brevetti, è
stata quella di legare il BEEU al funzionamento di un
organo giurisdizionale distinto, che dovrebbe essere istituito prima che sia concesso il primo BEEU. Non esisterebbe a questo riguardo alcun ostacolo giuridico alla
previsione di un collegamento tra il BEEU e il tribunale
unificato dei brevetti, che sarebbe sufficientemente motivato ai considerando 24 e 25 del regolamento n.
1257/2012. Esisterebbero peraltro, nella prassi normativa, molti esempi di collegamento tra l’applicabilità di
un atto dell’Unione e un avvenimento estraneo a tale
atto.
92 Le parti intervenienti aderiscono alle osservazioni
del Consiglio.
Giudizio della Corte
93 Occorre rilevare che l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento impugnato dispone che quest’ultimo “si applica a decorrere dal 1° gennaio 2014 o dalla data di entrata in vigore dell’accordo [TUB], se successiva”.
94 Secondo la giurisprudenza della Corte, la diretta applicabilità di un regolamento, prevista all’articolo 288,
secondo comma, TFUE, implica che la sua entrata in
vigore e la sua applicazione in favore o a carico dei soggetti giuridici si realizzino senza alcun provvedimento di
recepimento nel diritto nazionale, salvo che il regolamento di cui trattasi lasci agli Stati membri il compito
di adottare essi stessi i provvedimenti legislativi, regolamentari, amministrativi e finanziari necessari affinché
le disposizioni del regolamento stesso possano essere applicate (v. sentenze Bussone, 31/78, EU:C:1978:217,
punto 32, nonché ANAFE, C-606/10, EU:C:2012:348,
punto 72 e la giurisprudenza ivi citata).
95 Così avviene nella fattispecie, dato che il legislatore
dell’Unione stesso ha lasciato agli Stati membri, ai fini
dell’attuazione delle disposizioni del regolamento impugnato, da un lato, il compito di adottare varie misure
nel quadro giuridico stabilito dalla CBE e, dall’altro, il
compito di procedere all’istituzione del tribunale unificato dei brevetti, il quale, come ricordato ai considerando 24 e 25 del regolamento n. 1257/2012, è essenziale
allo scopo di garantire il corretto funzionamento di tali
brevetti, la coerenza della giurisprudenza e, quindi, la
certezza del diritto nonché l’efficienza dei costi per i titolari di brevetti.
96 Risulta da quanto precede che si deve respingere il
quinto motivo.
97 Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, si
deve respingere il ricorso nella sua interezza e altresì la
domanda di annullamento parziale del regolamento impugnato formulata in subordine dal Regno di Spagna.
(omissis).
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IL COMMENTO
di Iuri Maria Prado
Le sentenze della Corte di giustizia qui pubblicate respingono i ricorsi del Regno di Spagna contro gli strumenti attuativi della cooperazione rafforzata, con richiesta di annullamento dei regg.
n. 1257/2012 e n. 1260/2012, rispettivamente per l’istituzione di una tutela brevettuale unitaria e
per il relativo regime linguistico. L’Autore esamina i punti salienti e più discutibili delle due decisioni.
Premessa
Con le due sentenze della Corte di Giustizia qui
pubblicate si chiude, in modo poco glorioso, l’avventura della contestazione in sede diciamo così
giudiziaria degli strumenti di attuazione della cooperazione rafforzata in materia di tutela brevettuale
unitaria. Modo poco glorioso - occorre precisarlo che non riguarda chi, con solitaria pertinacia, ha
deciso di cominciare e continuare quell’avventura
(la Spagna), ma gli argomenti che le controparti e
la Corte di Giustizia (sempre che in questo caso si
trattasse di due realtà veramente funzionanti su livelli distinti) si sono ridotti ad adoperare a contrasto e liquidazione dei ricorsi spagnoli.
Queste sentenze rappresentano solo una tessera
del mosaico molto più ampio in cui si è disegnato
il dibattito, soprattutto politico e molto spesso maculato di pregiudizi e inconsistenze scientifiche, relativo all’istituzione di una tutela brevettuale unitaria e, soprattutto, al sistema giurisdizionale deputato a gestirla nella vivezza delle relazioni economiche e di controversia.
Ma una lettura di appena mediocre attenzione
rivela immediatamente e con forza che queste sentenze in realtà non partecipano soltanto a quel dibattito più vasto e perlopiù politico: piuttosto, lo
esprimono e appunto, malamente, lo chiudono o
pretendono di chiuderlo.
Con spensieratezza ineffabile, a giustificazione
del rigetto la Corte di Giustizia ritiene infatti di
adottare, come vedremo, motivazioni a dir poco discutibili, e forse solo per un ultimo trasalimento di
verecondia queste decisioni non condividono esplicitamente certi argomenti abbastanza fiacchi,
quando non impresentabili senz’altro, recuperati
dal magazzino della propaganda unitarista: come,
per esempio, l’argomento secondo cui la discriminazione linguistica impiantata dal legislatore dell’Unione non si profilerebbe con nessun rischio di
squilibrio concorrenziale perché “i brevetti sarebbero
di norma gestiti da consulenti specializzati in materia di
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proprietà intellettuale che conoscono altre lingue dell’Unione” (questa gemma deliziosa ha creduto senza
imbarazzo di confezionarla il Consiglio dell’Unione
Europea).
Quaggiù da noi, nel Paese che si appresta ad assoggettarsi al regime della tutela brevettuale unitaria e di giurisdizione unificata, il dibattito - e malauguratamente anche quello ammantato di lustro
scientifico - non ha rinunciato in più occasioni a
ridursi a livelli francamente inascoltabili.
Resterà malinconicamente indimenticata la deplorazione pressoché isterica che un laudatore del
nuovo sistema non riuscì a trattenere nel corso di
un partecipatissimo convegno milanese, quando
incontro al finire del suo discorso si registrarono,
più che applausi, mugugni e rumoreggiamenti insuscettibili di traduzione (il panel era internazionale): “Voi volete abolire la proprietà industriale!”, fu la
denuncia. Voi: e cioè i non pochi, non solo tra il
pubblico ma anche tra gli altri relatori, che proprio
non se la sentivano di fare da claque alla teoria improbabile, e anzi documentatamente contraria alla
ferma realtà delle cose, secondo cui l’impianto del
brevetto con effetto unitario così come realizzato,
con subordinazione di efficacia “a catenaccio” rispetto a quel certo sistema di giurisdizione unificata, costituirebbe un altrimenti inarrivabile possibilità di sviluppo.
Perché di questo dopotutto si è trattato e si tratta: di una quantità impressionante di inadeguatezze, di storture, di occasioni d’abuso, insomma di
problemi che meritavano quanto meno di essere
tenuti in conto e che invece erano semplicemente
negati nonostante l’evidenza per cui essi si segnalavano oppure - e non si sa cosa sia peggio - spacciati
come l’inevitabile e giusto prezzo da pagarsi in vista di quel risultato mirabile, glorificato nel pomposo Considerando del regolamento n. 1257/2012
secondo cui “La tutela brevettuale unitaria favorirà il
progresso scientifico e tecnologico e il funzionamento
del mercato interno rendendo l’accesso al sistema brevettuale più facile, meno costoso e giuridicamente sicu-
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È impossibile discutere delle sentenze rese dalla
Corte di Giustizia sui ricorsi del Regno di Spagna
senza ricordare su quali inconfessate premesse di
indirizzo politico e di sbrigliata gestione ordinamentale si siano potuti produrre gli strumenti attuativi della cooperazione rafforzata contro i quali
è insorto il Paese ricorrente.
Si tratta di una coppia di forzature ciclopiche, e
la prima ha investito uno dei nuclei vivi e sensibili
del diritto dell’Unione, cioè a dire il presidio di
giustificazione dell’operatività della cooperazione
rafforzata medesima. Si è infatti preteso di negare facendo appello a un formalismo neppure troppo
solido - che la regolamentazione “uniforme” della
materia brevettuale, pur risolvendosi operativamente nell’ambito dell’instaurazione o del funzionamento del mercato interno (art. 118 TFUE), si
sottrarrebbe verosimilmente alla possibilità di cooperazione rafforzata. E questo si è preteso di negare
non ostante l’indiscutibile impatto in campo di
concorrenza che una così notevole e pervasiva tutela monopolistica è perlomeno idonea a determinare: e accantonando il principio non meno importante secondo cui in ogni caso le cooperazioni
rafforzate non possono provocare distorsioni di
concorrenza (art. 326 TFUE).
Come correttamente è stato osservato in dottrina “Sebbene lo stretto collegamento con la disciplina
della concorrenza non significhi di per sé che una cooperazione rafforzata in materia di protezione unitaria
del brevetto provochi distorsioni della concorrenza fra
gli Stati membri vietate ai sensi dell’art. 326 TFUE, è
però doveroso porsi con speciale attenzione il problema
dell’eventuale incidenza negativa di una cooperazione
rafforzata sulle condizioni di concorrenza” (1). Ma l’esigenza di speciale attenzione si rivolge a un profilo
anche più prominente, e cioè al fatto dell’adozione
forzata - si scusi il bisticcio - della cooperazione rafforzata in un caso in cui il dissidio tra gli Stati
membri non riguardava l’opportunità o no di provvedere una tutela brevettuale unitaria, ma come attuarla: ed è questo un caso in cui dovrebbe ritenersi precluso o quanto meno problematico il ricorso
alla cooperazione rafforzata, poiché farvi ricorso
non significherebbe più procedere verso l’integrazione in vista di obiettivi suscettibili di condivisione ma, al contrario, imporre una regolamentazione
in un contesto di consenso disintegrato.
Che è poi il rapporto che ha contrassegnato il
dibattito, anche italiano, sul cosiddetto patent package: dove ai riluttanti, ai contrari, ai perplessi, si è
opposta e imposta la necessità di adesione facendo
credere al pubblico che non si trattasse di resistenze circa il modo in cui si pretendeva di raggiungere
il risultato di una protezione unitaria a giurisdizione unificata, ma di pregiudizi rivolti anche alla sola
ipotesi che in campo comunitario si potesse prevedere una qualsiasi normativa in argomento. Che
era una contraffazione di realtà bella e buona.
La seconda, maestosa forzatura di sistema si è
avuta con l’inoculazione diretta di una sostanza
estranea nello strumento attuativo della cooperazione rafforzata: il tribunale unificato dei brevetti.
Come vedremo immediatamente, è questo un punto - direi il punto fondamentale - su cui si articolava il ricorso spagnolo per l’annullamento del regolamento n. 1257/2012. E con buona ragione. Perché tramite la cooperazione rafforzata, già adottata
con improbabile legittimità per i motivi sopra accennati, il legislatore dell’Unione fa le viste di
autolimitare il proprio governo subordinando l’applicabilità del regolamento all’entrata in vigore
dell’accordo “su un tribunale unificato dei brevetti”, salvo promuoversi al ruolo di una specie di
agenzia di intimazione spiegando che siccome è
“essenziale istituire un tribunale unificato dei brevetti incaricato di giudicare le cause concernenti i
brevetti europei con effetto unitario”, allora sarebbe “di fondamentale importanza che gli Stati membri partecipanti ratifichino l’accordo su un tribunale unificato dei brevetti”.
Ed ecco dunque come la cooperazione rafforzata
per l’istituzione della tutela brevettuale con effetto
unitario è diventato il mezzo di questa duplice im-
(1) F. Pocar, La cooperazione rafforzata in materia di brevetti
e la Corte di giustizia dell’Unione europea, in Luci ed ombre del
nuovo sistema UE di tutela brevettuale, Quaderni di AIDA, n.
24, Torino, 2014, 3.
ro”. Perché sennò - pare - c’era soltanto questo: la
rinuncia capitale e definitiva a quella possibilità di
progresso: appunto sino all’abolizione della proprietà industriale! Una bubbola perfino insultante, visto che le ragioni di critica rivolte al sistema di tutela unitaria a giurisdizione unificata avevano fondamenta un po’ meno sgangherate, e davvero non
propugnavano l’erezione di bastioni difensivi contro l’effetto unitario in sé considerato né contro
l’impianto di “un” sistema a giurisdizione unificata:
ma contro questo, così inaccettabilmente squilibrato.
I presupposti del cosiddetto
Patent Package
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posizione perversa: con l’istituzione di una giurisdizione unificata che mai e poi mai potrebbe discendere direttamente dai lombi dell’Unione e che tuttavia, con un simile artificio, vi si impianta con la
giustificazione che gli Stati membri l’hanno voluta,
salvo il dettaglio che è il regolamento a dir loro:
“Dovete volerla”. L’Unione, dice il legislatore, non
funziona senza “un” tribunale unificato dei brevetti. Gli Stati membri, dunque, devono ratificare
l’accordo su “quel” tribunale unificato. E il cerchio
è chiuso.
Il ricorso spagnolo sul regolamento
n. 1257/2012
Il Regno di Spagna aveva articolato le proprie
censure con riferimento a una pluralità di profili di
assunta violazione. Ma il punto di maggiore interesse risiedeva nel denunciato collegamento operativo della tutela brevettuale a effetto unitario con
la ratifica dell’accordo sul tribunale unificato dei
brevetti, ciò che, secondo la prospettazione spagnola, avrebbe comportato una lesione dell’effettività della competenza esercitata dall’Unione mediante il regolamento impugnato, nonché una indebita interferenza rispetto alle normative dell’Unione e convenzionali in materia di competenza
giurisdizionale e di riconoscimento ed esecuzione
delle decisioni in materia civile e commerciale.
Su questo primo fronte di contestazioni, la Corte
di Giustizia argomenta che il ricorso spagnolo mirerebbe “a dimostrare, da un lato, che le disposizioni
dell’accordo TUB non sono compatibili con il diritto
dell’Unione, e, dall’altro, che gli Stati membri partecipanti non possono ratificare l’accordo TUB senza venir meno ai loro obblighi derivanti dal diritto dell’Unione”, e osserva a tal proposito che “nell’ambito di un
ricorso ai sensi dell’articolo 263 TFUE, la Corte non
è competente a pronunciarsi sulla legittimità di un accordo internazionale stipulato da Stati membri”. Il che
è vero, salva l’osservazione che le valutazioni alle
quali era in questo caso chiamata la Corte di Giustizia non riguardavano propriamente la legittimità
dell’accordo TUB, ma gli effetti della sua sussunzione. Non si denunciava cioè la legittimità dell’accordo, ma il modo in cui l’Unione in buona sostanza vi si affidava, “concedendo/imponendo” agli
Stati membri di ratificarlo, e i possibili effetti di
questa operazione appunto in relazione ai principi
di autonomia e applicazione uniforme del diritto
dell’Unione.
Su questo aspetto appariva significativo l’argomento usato dal Parlamento a contrasto del ricor-
240
so, argomento che la Corte di Giustizia riporta al
punto 95 della decisione: e cioè che la creazione
del tribunale unificato dei brevetti “non minerebbe
nessuna competenza dell’Unione” perché la competenza a creare il tribunale il tribunale unificato dei
brevetti “continuerebbe a spettare agli Stati membri”.
Ma proprio questo era l’addebito: si prospettava
che il regolamento impugnato, nella misura in cui
subordinava il suo funzionare alla ratifica dell’accordo sul tribunale unificato dei brevetti, e cioè a
una decisione degli Stati membri, potesse non garantire e anzi ledere le premesse di applicazione
uniforme del diritto dell’Unione. Un nodo che la
difesa del Parlamento ha preteso di far tagliare con
l’obiezione secondo cui il problema in realtà non si
porrebbe perché lo Stato membro il quale rifiutasse
di ratificare l’accordo si renderebbe responsabile
della violazione dell’art. 4, paragrafo 3, del TUE
(secondo cui, in virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e
si assistono reciprocamente nell’adempimento dei
compiti derivanti dai trattati). Che è forse la più
strepitosa descrizione del circuito perverso per cui
il tribunale unificato dei brevetti è a un capo indicato come una realtà di competenza degli Stati, e
dunque incapace di ledere l’autonomia dell’Unione, e all’altro capo come alcunché d’essenziale per
le garanzie di funzionamento della tutela brevettuale unitaria: e senza il pericolo denunciato dalla
Spagna - si spiega - poiché il diritto dell’Unione
comanderebbe in ogni caso agli Stati membri di ratificare quell’accordo.
La Corte di Giustizia non ha seguito questo percorso argomentativo, ma allo stesso risultato è pervenuta tramite un ragionamento anche più forzato.
A proposito dell’art. 18, paragrafo 2, comma 1, del
regolamento 1257/2012, che appunto subordina
l’applicazione del regolamento stesso all’entrata in
vigore dell’accordo sul tribunale unificato dei brevetti, la Corte di Giustizia argomenta che, per propria giurisprudenza, la diretta applicabilità di un regolamento “implica che la sua entrata in vigore e la
sua applicazione in favore o a carico dei soggetti giuridici si realizzino senza alcun provvedimento di recepimento nel diritto nazionale, salvo che il regolamento di
cui trattasi lasci agli Stati membri il compito di adottare
essi stessi i provvedimenti legislativi, regolamentari,
amministrativi e finanziari necessari affinché le disposizioni del regolamento stesso possano essere applicate”
(punto 105 della decisione). Con l’osservazione
successiva secondo cui “Così avviene nella fattispecie”, e cioè nel caso del regolamento n. 1257/2012,
poiché il legislatore dell’Unione ha lasciato agli
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Stati membri “il compito di procedere all’istituzione
del tribunale unificato dei brevetti”, il quale “è essenziale allo scopo di garantire il corretto funzionamento
di tali brevetti”. E che sia essenziale lo dice lo stesso
regolamento impugnato.
Questo dunque lo schema: la cooperazione rafforzata in materia di tutela brevettuale unitaria, assunta lesiva perché subordinata alla ratifica dell’accordo sul tribunale unificato dei brevetti, in realtà
lesiva non sarebbe perché quel tribunale garantisce
il funzionamento della tutela unitaria. Come dire
che si può costruire una casa su fondamenta di fango perché nel progetto si spiega che la casa ha bisogno di fondamenta. Che è poi l’argomento suggerito dal Parlamento, e implicitamente fatto proprio dalla Corte di Giustizia, secondo cui il rischio
di mancata applicazione uniforme del regolamento
(in ragione della possibilità che gli Stati membri
non ratifichino l’accordo sul tribunale unificato dei
brevetti), sarebbe in ogni caso giustificato “considerata la necessità di garantire una tutela giurisdizionale
effettiva e di rispettare il principio di certezza del diritto”.
E qui interviene il vero e proprio capolavoro
motivazionale della Corte di Giustizia sopra le censure svolte in argomento dal Regno di Spagna. Vale la pena di riportare il passo integro: “Per quanto
riguarda l’argomento del Regno di Spagna dedotto nell’ambito del settimo motivo, secondo cui l’articolo 18,
paragrafo 2, secondo comma, del regolamento impugnato attribuirebbe agli Stati membri la capacità di decidere unilateralmente se quest’ultimo debba essere applicato nei loro confronti, esso è fondato su una premessa erronea, dato che tale disposizione si limita a derogare all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, e all’articolo 4,
paragrafo 1, del regolamento impugnato, con l’esclusione delle altre disposizioni del suddetto regolamento.
Siffatta deroga parziale e temporanea è, peraltro, giustificata dai motivi ricordati al punto 106 della presente
sentenza”.
Ora, i paragrafi 1 e 2 dell’art. 3 del regolamento
n. 1257/2012 riguardano esattamente l’effetto unitario (“Un brevetto europeo concesso con la stessa serie di rivendicazioni con riguardo a tutti gli Stati membri partecipanti beneficia di un effetto unitario in detti
Stati membri, a condizione che il suo effetto unitario
sia stato registrato nel registro per la tutela brevettuale
unitaria”; “Un brevetto europeo con effetto unitario
possiede un carattere unitario. Esso fornisce una protezione uniforme e ha pari efficacia in tutti gli Stati membri partecipanti”).
Ma queste norme non rappresentano delle disposizioni di dettaglio all’interno di una architettura
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acquisita e stabile: queste norme “sono” l’architettura. Queste norme “sono” il brevetto europeo con
effetto unitario. Argomentare che la norma considerata del regolamento n. 1257/2012, cioè a dire
l’art. 18, paragrafo 2, comma 2, il quale subordina
l’applicazione del regolamento medesimo all’entrata in vigore dell’accordo sul tribunale unificato dei
brevetti, costituisce una “deroga parziale e temporanea”, significa puramente e semplicemente sostenere che senza nessun problema il brevetto europeo
con effetto unitario dovrebbe poter non esistere
finché il numero sufficiente di Stati membri decide
che esso non debba continuare a non esistere. E
questo - come capisce chiunque - non vuol dire
mettere in campo una deroga, ma un giochino. E
giustificarne l’introduzione perché sarebbe “parziale” (ma come parziale?: se si tratta dell’effetto unitario, cioè dello scopo unico della cooperazione
rafforzata?) e “temporanea” (che è un modo per dire che i problemi segnalati in punto dal ricorso
spagnolo potremmo non considerarli perché dopotutto durerebbero poco).
E aggiunge la Corte di Giustizia: nonché parziale
e temporanea, quella “deroga” sarebbe poi in ogni
caso giustificata “dai motivi ricordati al punto 106
della presente sentenza”. E abbiamo visto sopra quali
siano quei motivi di giustificazione: che il tribunale
unificato dei brevetti sarebbe essenziale allo scopo
“di garantire il corretto funzionamento di tali brevetti”.
Il Regno di Spagna sosteneva, tra l’altro, che proprio la facoltà degli Stati membri di ratificare o no
l’accordo induceva un motivo di censura rispetto
alla disposizione regolamentare che quella ratifica
supponeva, atteso il pericolo di non uniformità di
applicazione del diritto comunitario in caso di
mancata ratifica. Ma spiegare che quel pericolo è
attenuato se non escluso perché l’accordo TUB è
essenziale per il funzionamento della tutela con effetto unitario in realtà non spiega nulla, e in ogni
caso non convince. Nemmeno, e anzi tanto meno,
se si pretende di puntellare quella spiegazione con
l’assunto secondo cui lo Stato membro che mostrasse insubordinazione si renderebbe responsabile
della violazione dell’art. 4, paragrafo 3, TUE.
È una concezione purtroppo nota alla contabilità
di ogni legislatore inadeguato: l’idea sbagliatissima
che una norma funzioni e sia osservata dai consociati meno per la ragionata propensione ad uniformarvisi che per il timore di sottrarvisi. E non ne è
mai venuto nulla di buono.
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Il ricorso spagnolo sul regolamento
n. 1260/2012
Sono stati in dottrina denunciati i motivi per
cui il cosiddetto patent package si segnala per una
struttura notevolmente squilibrata in favore del titolare del brevetto in pregiudizio dell’assunto contraffattore (2).
L’intensità di questo squilibrio, e dell’atteggiamento noncurante e leggiadro con cui si è deciso
di discuterne, emerge in modo grave dalla lettura
della sentenza della Corte di Giustizia sul ricorso
spagnolo avverso il regolamento sul regime linguistico.
La Corte premette (punto 34 della decisione)
che l’obiettivo del regolamento impugnato dal Regno di Spagna consiste nella “creazione di un regime
di traduzione uniforme e semplice per il BEEU istituito
dal regolamento n. 1257/2012”, e che “il regolamento
impugnato mira ad agevolare l’accesso alla tutela brevettuale segnatamente per le piccole e medie imprese”,
con la conclusione che “La legittimità di un tale
obiettivo è innegabile”.
Si noti che in discussione non erano tanto i diritti e gli interessi dei soggetti richiedenti tutela,
cioè coloro i quali intendono ottenere la protezione brevettuale con effetto unitario, quanto i diritti
e gli interessi dei possibili destinatari dell’obbligo
di astensione derivante da quella protezione. E il
discorso vale anche, diremmo soprattutto, proprio
per la piccola e media impresa, alla quale solo in
virtù di una pura negazione di realtà si è attribuita
la veste di soggetto interessato primariamente alla
brevettazione, per così dire costi quel che costi,
mentre semmai rappresenta la materia passiva di
questa normativa potentemente squilibrata. E non
c’è nessun dubbio che per il brevettante, di qualsiasi lingua e sistema, l’ambizione di tutela possa
ben far trascurare gli eventuali svantaggi derivanti
dal regime linguistico discriminatorio; così come è
certo che il vero problema sotto il profilo concorrenziale non riguarda con grave impatto il rapporto
tra brevettanti appartenenti ai sistemi per così dire
egemoni, da un lato, e quelli dei sistemi estranei o
subordinati che dir si voglia, dall’altro lato, ma il
rapporto tra tutti quelli e gli attori di mercato che
fronteggiano la tutela con effetto unitario.
E in ordine a questo rapporto, nell’esame del primo motivo di ricorso del Regno di Spagna la Corte
argomenta che l’equilibrio di tutela tra gli operato-
ri economici “che non dispongano dei mezzi per comprendere, con un certo grado di competenza, una delle
lingue ufficiali dell’UEB”, da un lato, e i soggetti
con ambizioni di esclusiva brevettuale, dall’altro
lato, sarebbe garantito da una pluralità di correttivi, quale il regime di compensazione o il periodo
transitorio in vista del “sistema di traduzione automatica di alta qualità” o, ancora, da “varie disposizioni
applicabili in caso di controversia, che mirano, da un
lato, a permettere a tali operatori, qualora siano sospettati di contraffazione, di ottenere, alle condizioni
previste da detto articolo, una traduzione integrale del
BEEU e, dall’altro, in caso di controversia riguardante
una domanda di risarcimento di danni, a far sì che
l’organo giurisdizionale adito esamini e prenda in considerazione la buona fede di un presunto contraffattore”.
E se serviva una rappresentazione plastica della
posizione del contraffattore periferico davanti a un
tribunale remoto che lo giudica in lingua incompresa su richiesta di un titolare di brevetto con effetto unitario, eccola: può allegare il suo analfabetismo, e chiedere che il giudice si mostri buono.
Ma non basta. Il presunto presidio di tutela, costituito dalla norma (art. 4 reg. 1260/2012) che consente la fornitura della traduzione del brevetto europeo con effetto unitario, è infatti rivolto al caso
di “controversia”. Ma in tal modo non si tiene nel
conto dovuto la necessità sovraordinata che i titoli
di esclusiva, con l’obbligo di astensione che essi
comportano, siano conoscibili e comprensibili prima della controversia: così da consentire che il
corso imprenditoriale e le iniziative degli attori di
mercato siano programmabili alla luce di impedimenti con portata chiara e definita.
Una medesima motivazione è adoperata dalla
Corte di Giustizia a rigetto di un ulteriore motivo
di ricorso del Regno di Spagna, in particolare laddove, a sostegno dell’assunto secondo cui il principio della certezza del diritto non sarebbe leso nell’ipotesi in cui il presunto contraffattore fronteggi un
testo brevettuale per lui incomprensibile, la Corte
richiama il nono Considerando del regolamento
impugnato (“In caso di controversia concernente una
domanda di risarcimento, il tribunale adito dovrebbe
prendere in considerazione il fatto che, prima di poter
disporre di una traduzione nella sua lingua, il presunto
contraffattore può aver agito in buona fede, senza sapere o senza aver avuto motivi ragionevoli per sapere
che stava violando il brevetto. Il tribunale competente
(2) Tra gli altri, M. Ricolfi, La ‘biforcazione tra azioni di validità ed azioni di contraffazione: ragioni teoriche e problemi applicativi, in questa Rivista, 2014, 1, 10 ss.
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dovrebbe valutare le circostanze del singolo caso e, inter alia, considerare se il presunto contraffattore sia
una PMI che opera solamente a livello locale, la lingua
del procedimento dinanzi all’UEB e, durante il periodo
transitorio, la traduzione trasmessa unitamente alla richiesta di effetto unitario”). Ma francamente il richiamo non pare appagante, considerato l’argomento su cui si basa. Abbiamo infatti visto, e lo
capisce immediatamente chiunque, che un giudice
con il potere di tenere in conto la buona fede del
contraffattore non costituisce esattamente un presidio affidabile, e non esclude la lesione concorrenziale derivante dal regime discriminatorio ma a tutto concedere fornisce la speranza di riceverne un
pregiudizio attenuato. A tacere del fatto che ci si
riferisce alla sola fattispecie di richiesta risarcitoria,
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che dopotutto non è l’unica né forse la più importante tra le facoltà esercitabili dal titolare della privativa.
Il ricorso spagnolo riproponeva poi il problema
già sollevato con la contestazione dell’altro regolamento, e cioè il fatto che il principio di autonomia
del diritto dell’Unione appariva leso nella misura
in cui agli Stati membri sarebbe stato sostanzialmente attribuito il potere di stabilire la data di applicabilità di una norma dell’Unione medesima:
vale a dire per il tramite della ratifica, o no, dell’accordo sul tribunale unificato dei brevetti. E il
giudizio della Corte non poteva essere diverso rispetto a quello adottato a proposito del regolamento n. 1257/2012, di cui ci siamo occupati sopra.
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Giurisprudenza
Concorrenza sleale
Concorrenza sleale per norme pubblicistiche
Il blocco dell’app Uber Pop:
concorrenza sleale nei confronti
del servizio pubblico di taxi
Tribunale di Milano, Sez. specializzata in materia d’impresa, ord. 25 maggio 2015 - Giud. Marangoni - Taxiblu S.C. e altri c. UBER International B.V., UBER Italy S.r.l. e altri
I. Stante il fatto che il servizio fornito tramite UBER POP integra ai sensi dell’art. 82 C.d.S. un uso di terzi del
veicolo in quanto esso risulta prestato, dietro corrispettivo, nell’interesse di persone diverse dall’intestatario
della carta di circolazione e che un uso siffatto richiede necessariamente un titolo autorizzativo in capo al
soggetto che lo esercita (sia per taxi che per noleggio con conducente), la sussistenza di una community non
pare in sé, sulla base della legislazione vigente, poter consentire comunque l’esercizio in forma privata di tale
attività nemmeno in via occasionale.
II. In tema di concorrenza sleale, i comportamenti lesivi di norme di diritto pubblico non necessariamente integrano, di per se stessi, atti di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c., atteso che l’obiettivo anticoncorrenziale può essere raggiunto anche attraverso comportamenti che, benché non siano previsti dalla
legge, siano connotati dallo stesso disvalore di quelli espressamente regolati. In particolare, la violazione delle norme pubblicistiche è sufficiente ad integrare la fattispecie illecita quando essa è stata causa diretta della
diminuzione dell’altrui avviamento ovvero quando essa, di per se stessa, anche senza un comportamento di
mercato, abbia prodotto il vantaggio concorrenziale che non si sarebbe avuto se la norma fosse stata osservata. (In applicazione del principio il Tribunale ha ritenuto che il comportamento di una società, volto ad organizzare e stimolare la presenza di autisti abusivi sulla piazza ed a trarre da detta attività dei proventi, risulta
certamente indissolubilmente connesso all’attività dei singoli autisti che con il loro comportamento violano
la normativa di legge che regola il servizio di taxi e ne sfrutta, ampliandole in maniera esponenziale, le capacità di alterazione del mercato soggetto a regolamentazione amministrativa anche a livello tariffario).
III. La mancata soggezione degli autisti UBER POP ai costi inerenti al servizio taxi consente l’applicazione di
tariffe sensibilmente minori rispetto a quelle del servizio pubblico e non praticabili dal tassista. Si determina
così un illecito sviamento dovuto ad un’alterazione dell’adeguatezza del tariffario imposto ai tassisti che modifica anche il quadro complessivo dei fattori economici che concorrono a determinarlo in concreto (aumento
incontrollato dell’offerta) e determina altresì l’ulteriore profilo di scorrettezza concorrenziale consistente nella
sottrazione degli autisti UBER POP dagli altri oneri e limiti cui i tassisti sono vincolati (rispetto di turni prefissati anche in orari in cui la domanda è minore) e che incidono anch’essi sulla redditività dell’attività economica di questi ultimi.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Trib. Roma, 16 gennaio 2007 (ord.).
Il Tribunale (omissis).
Fatto e diritto
1. Con ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato in data
20.3.2015, le società che gestiscono i servizi di radio taxi in Milano, Torino e Genova (TAXIBLU s.e. - Taxiblu Consorzio Radiotaxi Satellitare soc. coop., SOCIETÀ COOPERATIVA PRONTO TAXI s.e. a r.I.,
COOPERATIVA RADIO TAXI TORINO s.e., COOPERATIVA RADIOTAXI GENOVA s.e., ITALTAXI
SERVICE s.r.l.), alcuni operatori del servizio taxi nelle
stesse città (E. L. B., C. S., A. BI., A. AI. C., D. A., V.
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CE.) alcune organizzazioni sindacali e associazioni di categoria del settore taxi a livello locale (ASSOCIAZIONE SINDACALE S.A.T.M./C.N.A. - Sindacato Artigiano Taxisti di Milano e provincia, ASSOCIAZIONE
UNICA MILANO E LOMBARDIA, T.A.M. - Tassisti
Artigiani Milanesi, UNIONE ARTIGIANI DELLA
PROVINCIA DI MILANO, FEDERAZIONE NAZIONALE UGL TAXI, ASSOCIAZIONE TUTELA LEGALE TAXI) hanno chiesto in via cautelare al Tribunale di inibire a UBER lNTERNATIONAL B.V.,
UBER INTERNATIONAL HOLDING B.V., UBER
B.V., RAlSER OPERATIONS B.V., UBER ITALY
245
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Concorrenza sleale
s.r.l. e alla persona fisica R. N. l’utilizzo del servizio
UBER POP, con conseguente blocco e/o oscuramento
del sito internet e dell’applicazione informatica, oltre
ulteriori domande connesse alla misura inibitoria e tese
a dare efficace attuazione alla stessa.
Le parti ricorrenti hanno esposto che le società resistenti avrebbero ideato l’app UBER POP, applicazione on
line facilmente fruibile dall’utente della rete mediante
installazione sullo smartphone e attraverso la quale verrebbe offerto un servizio del tutto equiparabile a quello
di un radio taxi. In particolare, una persona interessata
a spostarsi da un luogo ad un altro della città - allo stato
il servizio UBER POP sarebbe disponibile nelle città di
Milano, Torino, Genova e Padova - anziché chiamare
un tradizionale taxi - rectius centrale radio taxi -potrebbe mediante l’app messa a punto dalle resistenti servirsi
di un autista Uber, che sempre mediante l’app verrebbe
incaricato di volta in volta di fornire il trasporto. In
considerazione della prestazione dell’autista Uber di raggiungere l’utente in un determinato punto della città al
fine di condurlo in un altro, scelto unicamente dal passeggero mediante l’app, il servizio in questione risulterebbe identico a quello pubblico offerto dai taxi. Le resistenti, attraverso l’app, si occuperebbero di reclutare
gli autisti cui affidare di volta in volta la fornitura del
trasporto, gestirebbero la fase di messa in contatto delle
persone interessate a spostarsi in città con i guidatori e,
infine, riceverebbero il pagamento della prestazione di
trasporto resa, di cui solo una percentuale minima verrebbe destinata all’autista. Tali aspetti getterebbero pertanto luce sull’essenzialità del ruolo delle resistenti nel
funzionamento del metodo Uber, atteso che i singoli
guidatori se non esistesse l’app UBER POP non potrebbero svolgere il servizio di trasporto, a differenza invece
dei tassisti, per i quali il radio taxi costituirebbe una
mera modalità di acquisizione del servizio.
Le società resistenti avrebbero dunque ideato e organizzato un sistema m sostanza di radio taxi, attraverso il
quale i guidatori reclutati offrirebbero un servizio di taxi
abusivo, attesa la violazione di questi ultimi di tutte le
regole di natura pubblicistica che disciplinano il settore,
tanto quelle che individuerebbero i requisiti soggettivi
che devono possedere gli operatori di trasporto pubblico
non di linea, quanto quelle che disciplinerebbero le modalità di svolgimento del servizio stesso.
Secondo la tesi delle ricorrenti, dunque, sulla base della
violazione delle norme di natura pubblicistica, o, comunque, dell’utilizzo di mezzi - l’app UBER POP - non
conformi ai principi della correttezza professionale, le
attività dei resistenti andrebbero qualificate sul piano
giuridico alla stregua di condotte di concorrenza sleale
ex art. 2598 n. 3 c.c., posto che la violazione delle norme pubblicistiche consentirebbe alle società resistenti
di acquisire un vantaggio concorrenziale, consistente
nella possibilità per gli autisti aderenti al servizio di non
sostenere determinati costi - indispensabili per fornire
regolarmente il servizio dei taxi - e conseguentemente
di offrire, nel mercato in cui agiscono i ricorrenti, il medesimo servizio a prezzi, tuttavia, notevolmente inferiori
246
rispetto alle tariffe praticate dagli operatori del pubblico
servizio.
Poiché le società resistenti attraverso l’app gestirebbero
direttamente il servizio di trasporto a fini di lucro, la loro condotta - ancorché siano i singoli guidatori a violare materialmente le norme pubblicistiche di settore dovrebbe ritenersi sul piano giuridico più grave rispetto
a quella dei conducenti, con la conseguenza che sarebbero le società resistenti a doversi considerare i principali autori della concorrenza sleale verso le parti ricorrenti.
Sotto il profilo del periculum in mora, secondo le ricorrenti l’attività contestata avrebbe quale conseguenza
quella di un mancato guadagno per gli operatori dei taxi, a causa dell’idoneità dell’applicazione di UBER POP
a sviare la clientela, indotta a scegliere il servizio offerto
dai resistenti in ragione della sua maggiore economicità,
e ad arrecare un danno all’immagine agli operatori del
settore.
Inoltre nelle more della presentazione del ricorso la città di Milano si appresta ad ospitare la manifestazione di
Expo 2015, evento che per l’elevato numero di turisti
attesi costituisce una occasione di ottimi guadagni, che
in assenza di una inibitoria andrebbero tuttavia condivisi con soggetti concorrenti, che esercitano il servizio di
trasporto in maniera abusiva; il conflitto fra i tassisti in
possesso di regolare licenza e i conducenti aderenti al sistema UBER POP - che sarebbe peraltro in procinto di
essere reso disponibile anche in altre città italiane - starebbe acquisendo peraltro crescente rilievo, oltre che
sul piano concorrenziale, anche su quello sociale e di
ordine pubblico, sia per le tensioni acuitesi in seno alla
categoria dei tassisti che in ragione del pericolo per la
collettività di incorrere in autisti abusivi.
2. Con memoria congiunta si sono costituite in giudizio
tutte le società resistenti, le quali hanno chiesto il rigetto del ricorso e in via subordinata, in caso di accoglimento della domanda di inibitoria, di limitare il blocco
del funzionamento dell’applicazione UBER POP al solo
servizio che riguarda le richieste che provengono dall’Italia e di ordinare ex art. 669 undecies c.p.c. ai ricorrenti
di prestare congrua cauzione di Euro 500.000,00.
Non si è invece costituito il resistente R. N.
In via preliminare, le società resistenti hanno sollevato
un’eccezione di carenza di legittimazione attiva della società ricorrente ITALTAXI SERVICE s.r.l., in quanto
non si tratterebbe di una cooperativa di tassisti né di un
ente rappresentativo degli stessi, bensì di un mero fornitore di servizi contabili e amministrativi a favore di imprese che esercitano il servizio taxi.
Sempre in via preliminare, è stato eccepito un difetto
di legittimazione passiva delle società resistenti UBER
ITALY s.r.l., UBER INTERNATIONAL B.V. e UBER
INTERNATIONAL HOLDING B.V., in quanto dalla
prospettazione delle ricorrenti risulterebbero coinvolte
nel servizio oggetto della domanda inibitoria esclusivamente UBER B.V. e RASIER OPERATIONS B.V. Infatti UBER ITALY s.r.l. svolgerebbe unicamente attività di consulenza in favore delle altre società del gruppo,
mentre per quanto riguarda UBER INTERNATIONAL
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B.V. e UBER INTERNATIONAL HOLDING B.V.,
per esse non sarebbero ravvisabili condotte illecite a loro specificamente riconducibili.
Nel merito, le società resistenti hanno contestato che
UBER POP possa ritenersi un servizio di trasporto di taxi, in quanto si tratterebbe di una applicazione informatica che serve a favorire forme di trasporto condiviso,
realizzate direttamente dagli utenti. Sul piano sociale,
tale sistema sarebbe, infatti, espressione della nuova
concezione di utilizzazione dell’autovettura in maniera
condivisa, al fine di abbattere i costi di impiego dell’auto privata e di ridurre l’inquinamento. Attraverso il sistema elaborato dalle resistenti si sarebbe creata una
community, alla quale prendono parte solo coloro che
installano sullo smarthphone l’app UBER POP: tale peculiarità metterebbe in risalto il carattere privato del
trasporto, in quanto per usufruire del servizio sia come
guidatore che come passeggero è necessario aderire al
gruppo Uber. L’ideazione della piattaforma tecnologica
sarebbe pertanto volta esclusivamente a dotare di maggiore efficienza forme di condivisione di trasporto privato, allargandone la cerchia dei fruitori.
Ciò varrebbe ad escludere il carattere abusivo di tale
forma di trasporto. In particolare, infatti, i guidatori di
UBER POP condividerebbero volontariamente con gli
utenti il tragitto, potendo non accettare la richiesta in
arrivo, mentre i taxi offrirebbero un servizio pubblico e
senza possibilità di rifiutare la prestazione. Ancora, gli
autisti UBER POP e le persone che usano tale servizio
formerebbero un gruppo chiuso, che interagisce esclusivamente attraverso la app. mentre i tassisti svolgerebbero un servizio “di piazza”, che prevede lo stazionamento
sul luogo pubblico ed implica la destinazione dell’auto
all’uso pubblico, in quanto offerta alla collettività senza
necessità di pattuizioni. Infine, i guidatori UBER POP
otterrebbero un mero rimborso delle spese di viaggio e
dei costi relativi al veicolo, definito sempre attraverso
la piattaforma, mentre i tassisti verrebbero remunerati a
titolo di corrispettivo mediante tariffe amministrate.
Dunque il rapporto che si instaura fra i passeggeri e gli
autisti attraverso l’applicazione UBER POP sul piano
giuridico andrebbe qualificato come un contratto atipico, espressione del principio di autonomia negoziale di
cui all’art. 1322 c.c. e, di conseguenza, non trattandosi
di un servizio di trasporto pubblico, non si profilerebbe
alcuna violazione delle norme pubblicistiche.
In ogni caso, secondo le resistenti, la prospettata violazione da parte dei guidatori di UBER POP delle norme
pubblicistiche non sarebbe comunque di per sé sufficiente ad integrare un illecito anticoncorrenziale.
Infatti, la violazione di norme che impongono all’imprenditore semplici oneri - tra cui, appunto, le norme
che subordinano l’esercizio di determinate attività imprenditoriali all’ottenimento di licenze - non porrebbe
l’autore di tale violazione in una posizione di vantaggio
concorrenziale a meno che la stessa non sia accompagnata anche dalla violazione di norme che comportano
dei costi. A tale riguardo, si osserva come non vi sarebbe una stretta correlazione fra i costi sostenuti dai tassisti per la rivendita della licenza, atteso che essi riguar-
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derebbero un mercato secondario fra privati, e i corrispettivi del servizio di trasporto; inoltre le tariffe amministrate indicherebbero dei massimali che non corrisponderebbero a dei valori fissi e, quindi, consentirebbero l’applicazione di sconti ovvero di prezzi più bassi,
opzione che sarebbe contemplata anche dal regolamento tariffario del servizio taxi.
Peraltro non vi sarebbe in realtà alcuno sviamento di
clientela, in quanto UBER POP sarebbe destinata ad
un gruppo chiuso e definito di utenti formatosi sulla
piattaforma.
Infine, sempre sotto il profilo del fumus boni iuris, le società resistenti offrono una interpretazione dell’art.
2598 c.c. orientata al principio costituzionale di libertà
dell’iniziativa economica ex art. 41 Cost., che tenga
quindi in considerazione come il servizio UBER POP
miri a soddisfare l’interesse della collettività, da valutarsi anche secondo una lettura conforme ai principi antitrust, ostativi alla formazione di monopoli e pro concorrenziali. L’intento dei ricorrenti di fermare il servizio
UBER POP confliggerebbe con i principi fondamentali
previsti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) di libertà di stabilimento, di libera prestazione di servizi, e della concorrenza, che formando
dei vincoli per l’ordinamento interno imporrebbero una
ricostruzione evolutiva del quadro normativa nazionale,
e segnatamente della legge n. 21/1992 e dell’art. 86
C.d.S.
Per quanto riguarda il periculum in mora, hanno infine
contestato che vi sarebbe la prova dell’idoneità delle
condotte censurate a provocare in concreto un grave
danno e del presupposto dell’urgenza, in considerazione
del fatto che l’azione cautelare è stata esperita a distanza di un anno dall’inizio dell’attività di UBER POP.
Non vi sarebbe in realtà alcuna prova degli effetti dello
sviamento di clientela e delle conseguenze negative sull’immagine dei ricorrenti generate dall’attività delle resistenti; né tanto meno sarebbe possibile riscontrare un
collegamento eziologico fra il servizio UBER POP e la
prospettiva per i tassisti di vedersi erosa la propria quota
di mercato, prospettiva che in ogni caso non presenterebbe i connotati del pregiudizio imminente e irreparabile, i quali, invece, devono sussistere per la concessione della misura in via cautelare.
3. Appare necessario premettere all’analisi della concreta fattispecie in esame un sia pur sommario richiamo alla disciplina del particolare settore regolato in via generale dalla L. 21/92 e che attiene agli autoservizi pubblici
non di linea, cioè caratterizzati dalla loro complementarietà rispetto agli altri servizi di linea in quanto vengono effettuati, su richiesta del trasportato, in modo non
continuativo o periodico, su itinerari e secondo orari
stabiliti di volta in volta.
In particolare il servizio taxi si rivolge ad una utenza indifferenziata, prevede uno stazionamento in luogo pubblico, comporta tariffe e turnazioni di servizio predeterminate in via amministrativa e l’obbligatorietà della
prestazione del servizio in favore della richiesta dell’utente (v. art. 2 L. 21/92). Trattasi di soggetti operanti
in un settore imprenditoriale privato che svolge un ser-
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vizio pubblico in regime di licenza e il rilascio di tale
autorizzazione da parte del comune competente presuppone la preventiva iscrizione del richiedente in un apposito ruolo provinciale dei conducenti di veicoli adibiti ad autoservizi pubblici non di linea. Tale iscrizione è
condizionata dal possesso dello specifico certificato di
abilitazione professionale rilasciato dall’Ufficio Provinciale della Motorizzazione civile a seguito di esame.
Va altresì rammentato che l’art. 82 del C.d.S. nel differenziare i vari tipi di veicoli in base all’utilizzazione economica di essi, distingue l’uso privato del veicolo da
quello in favore di terzi, intendendosi in tale seconda
categoria il veicolo utilizzato, dietro corrispettivo, nell’interesse di persone diverse dall’intestatario della carta
di circolazione.
Tra gli usi in favore di terzi è espressamente incluso il
servizio di piazza (taxi) per trasporto di persone mentre
in via generale l’utilizzazione di un veicolo per un uso
diverso da quello indicato nella carta di circolazione è
vietato ed assoggettato, ove si verifichi, a sanzione amministrativa (art. 82, comma 8 C.d.S.).
In particolare l’art. 86 C.d.S. regola poi l’ipotesi in cui
venga adibito un veicolo a servizio di piazza (taxi) senza
il possesso della licenza prevista dall’art. 8 L. 21192 prevedendo per tale ipotesi l’applicazione di specifica sanzione amministrativa.
Il quadro così rapidamente tracciato - al quale devono
essere aggiunti i singoli regolamenti comunali che stabiliscono i requisiti e le condizioni per il rilascio delle licenze, il numero delle stesse, le modalità di svolgimento
del servizio e i criteri di determinazione delle tariffe consente di rilevare con evidenza la sostanziale impossibilità che un servizio analogo a quello svolto dai taxi
possa essere svolto da un soggetto privo di licenza.
Tale forma di controllo sull’accesso al mercato nonché
la previsione di un regime amministrato attinente principalmente alla regolazione dell’attività (turnazione obbligatoria) ed alla determinazione delle tariffe non pare
presentare in sé elementi di effettivo conflitto con principi di libera concorrenza anche a livello comunitario.
Per un verso va osservato che l’art. 41 Cost. prevede
che la libera iniziativa economica privata possa essere
oggetto di regolazione e di indirizzo, mentre sul piano
comunitario in forza dell’art. 58 TFUE, in materia di
trasporti la libera prestazione di servizi è disciplinata
non dall’art. 56 TFUE, bensì dal titolo VI della terza
parte del Trattato FUE, che concerne la politica comune dei trasporti (v. Corte Giustizia UE, sentenza 22 dicembre 2010, Yellow Cab Verkehrsbetrieb, causa C338/09). Tuttavia le attività di taxi e di noleggio con
conducente non rientrano nell’ambito di applicazione
delle disposizioni adottate, sul fondamento dell’articolo
91, paragrafo l, TFUE, ai fini della liberalizzazione dei
servizi di trasporto.
Infatti l’art. 3, comma II bis, L. 148/11 (legge di conversione del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138) ha previsto espressamente che i servizi di taxi e noleggio con
conducente non di linea, svolti esclusivamente con veicoli categoria Ml (veicoli destinati al trasporto di persone, aventi al massimo otto posti a sedere oltre al condu-
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cente) sono esclusi dall’abrogazione delle restrizioni in
materia di accesso ed esercizio delle attività economiche
previste dall’ordinamento in conformità alla direttiva
2006/123/CE.
Peraltro l’art. 6 D.Lgs. 59/10 (che ha proceduto al recepimento nell’ordinamento interno della direttiva
123/2006 in materia di libera circolazione dei servizi) rivolto specificamente ai “Servizi di trasporto” aveva già
escluso che le disposizioni contenute in tale decreto si
applicassero, tra l’altro, anche ai servizi di trasporto urbani di taxi.
Nessuna violazione del parametro comunitario potrebbe
dunque essere prospettata sotto il profilo della violazione della direttiva comunitaria n. 123/2006, né le parti
resistenti hanno peraltro affrontato in maniera compiuta tale specifico profilo.
Evidenti a parere di questo giudice sono invece i profili
di pubblico interesse che devono ritenersi a fondamento
dell’intervento regolatore pubblico, ove si consideri che
il servizio pubblico non di linea appare anch’esso rivolto a soddisfare - in via complementare e integrativa rispetto ai servizi di linea il pubblico interesse alla garanzia della mobilità, che impone la predisposizione di servizi resi in via indifferenziata alla comunità e con la necessaria continuità e regolarità in ogni luogo e momento della giornata. A ciò si aggiunga anche la necessità
di garantire altresì la sicurezza e l’integrità personale degli utenti di tali servizi attraverso il controllo dei requisiti personali - di buona condotta e tecnici - dei soggetti
privati ammessi alla licenza, della sicurezza tecnica dei
veicoli a tal fine utilizzati (visite meccaniche di controllo periodiche) nonché della predisposizione di adeguate
misure assicurative in caso di danni alla persona.
La piena autonomia del legislatore nazionale di applicare a tale settore una specifica regolamentazione implicante la concessione di un titolo autorizzatorio per l’esercizio della stessa appare dunque in sé certa, come
sembra potersi anche desumere dalla natura degli interventi svolti dall’AGCM in relazione a tale settore (v.
in particolare la segnalazione AS277 rivolta al Parlamento in data 3 marzo 2004, ma anche la più recente
AS1137 del 4.7.2014) che sono stati rivolti a segnalare
esigenze di più accentuata liberalizzazione del settore
non già rispetto alla presenza di una barriera all’accesso
costituita dalla licenza, bensì evidenziando i diversi profili critici attinenti alle modalità di regolamentazione
del servizio (contingentamento delle licenze, maggiore
flessibilità dei turni ecc.).
4. Il fondamento concorrenziale dell’azione intrapresa
dalle parti ricorrenti impone la verifica dell’effettiva
sussistenza di un rapporto di concorrenza, da valutarsi
in relazione alla concreta attività svolta dalle parti ed
alla effettiva capacità di esse di essere rivolta alla stessa
clientela, effettiva o potenziale.
Gli elementi rilevabili in atti ed evidenziati dalle argomentazioni dalle parti sono tali, a parere di questo giudice, da confermare che l’attività svolta dalle società resistenti sia effettivamente ed oggettivamente interferente con il servizio taxi organizzato dalle società, svolto
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dai titolari di licenze e assistiti dalle organizzazioni sindacali che figurano tra le parti ricorrenti.
Sebbene infatti non vi siano elementi per affermare che
gli autisti aderenti al sistema gestito mediante l’applicazione alla libera circolazione dei servizi contattino di loro iniziativa i potenziali clienti stazionando sulla pubblica via, tuttavia la richiesta di trasporto trasmessa dall’utente mediante l’app UBER POP oltre ad essere modalità tecnica già utilizzata dalle cooperative dei taxisti appare di fatto del tutto assimilabile al servizio di radio taxi da anni in uso diffuso in tutte le città.
Tramite tale applicazione l’utente richiede il servizio
dal luogo in cui si trova - senza doversi spostare sulle
aree di stazionamento predisposte - e l’autista più prossimo si reca a prelevare l’utente per iniziare il trasporto,
così di fatto realizzandosi la medesima specifica modalità operativa che compone il servizio “su piazza” e che
non può essere delimitato alla sola modalità di stazionamento su area pubblica ma esteso a tutte le forme di
contatto tra autista ed utente in cui il trasporto individuale non origina- come nel servizio di noleggio con
conducente- presso la sede del vettore.
Sussiste altresì l ‘ulteriore requisito della remunerazione
del servizio fornito dall’autista contattato tramite UBER
POP.
Se già le originarie asserzioni svolte dalle società resistenti quanto alla natura di mero rimborso spese di
quanto pagato dall’utente per il trasporto risultavano di
incerto fondamento - in quanto tali tariffe risultavano
genericamente giustificate come “orientativamente” stabilite in relazione alle tariffe ACI, senza ulteriori approfondimenti - la produzione documentale eseguita dalle
ricorrenti con la loro memoria di replica sembra dimostrare senza alcun dubbio la natura di vero e proprio
corrispettivo che deve essere riconosciuto a tale pagamento.
In effetti il meccanismo del “Surge” determina un aumento dei prezzi in connessione di un prevedibile aumento della domanda, sia in relazione a particolari
eventi (manifestazioni, scioperi ecc.) che rispetto al livello generale della domanda registrabile in aree diverse
della città (doc. 50 fase. ric.), così sganciandosi obbiettivamente quanto pagato dall’utente da qualsiasi parametrazione pertinente ad un presunto rimborso spese
che evidentemente non può essere influenzato da tali
eventi occasionali ed esterni.
A parere di questo giudice non possono essere ritenuti
rilevanti, al fine di escludere che un servizio svolto nelle condizioni innanzi menzionate possa essere equiparato a quello del servizio taxi, le circostanze che gli autisti
associati ad UBER POP non siano vincolati a turni obbligatori ed all’onere di accettare tutte le richieste di
trasporto ad essi rivolte dagli utenti.
In effetti la tesi sostenuta dalle resistenti appare paradossale, ove si osservi che detti obblighi cui sono soggetti i titolari di licenza per servizio taxi costituiscono
di fatto la contropartita del fatto che il settore sia ad accesso regolato (numero di licenze predeterminate) e sono funzionali proprio al soddisfacimento dell’interesse
pubblico a che l’utenza possa contare su di un servizio
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anche in periodi ed orari in cui la domanda è meno intensa.
Proprio il fatto di non essere titolari di licenza consente
Io svolgimento del servizio evitando di essere soggetti
agli oneri in questione, che tuttavia risultano di fatto
fondanti la scelta legislativa di assoggettare tale specifico settore di attività di trasporto ad una regolamentazione amministrativa.
Né appare idonea a determinare una effettiva separazione dell’ambito dei consumatori di riferimento l’affermazione svolta dalle società resistenti circa la destinazione
di UBER POP a soggetti che non utilizzerebbero in nessun caso il servizio taxi.
Tale affermazione è in sé priva di qualsiasi riscontro
reale, mentre assume rilevanza al contrario il fatto obbiettivo che l’intento e l’effetto del servizio prestato è
quello di offrire un’alternativa più economica al servizio
taxi, e cioè di esaudire ad un prezzo minore la medesima
esigenza di spostamento dell’utente da qualsiasi punto
di partenza fino ad una destinazione da esso prescelta.
Ciò consente di ritenere in tutta evidenza che sussiste
con certezza un’area di soggetti comunque interessati al
risparmio sul prezzo della corsa di un taxi - che dunque
possano essere sviati dall’utilizzazione del servizio pubblico - che consente anche in via potenziale di ritenere
integrato il presupposto proprio dell’illecito concorrenziale relativo alla sostanziale comunanza tra le parti della platea dei consumatori, comunque rilevante anche se
parziale.
5. Le società resistenti hanno argomentato che l’attività
in questione sarebbe in realtà riferibile ad una community, alla quale prendono parte solo coloro che installano sullo smarthphone l’app UBER POP, così evidenziandosi il carattere privato del trasporto in quanto per
usufruire del servizio sia come guidatore che come passeggero è necessario aderire al gruppo Uber.
Richiamato il fatto che - come innanzi sostenuto - il
servizio fornito tramite UBER POP integra ai sensi dell’art. 82 C.d.S un uso di terzi del veicolo in quanto esso
risulta prestato, dietro corrispettivo, nell’interesse di
persone diverse dall’intestatario della carta di circolazione e che un uso siffatto richiede necessariamente un titolo autorizzativo in capo al soggetto che lo esercita (sia
per taxi che per noleggio con conducente), la sussistenza di una community non pare in sé sulla base della legislazione vigente poter consentire comunque l’esercizio
in forma privata dell’attività innanzi descritta, nemmeno in via occasionale.
Peraltro l’offerta del servizio in questione agli utenti
viene svolta in maniera del tutto indifferenziata tramite
la proposta di scaricare l’app né tale offerta risulta contraddistinta da alcuna delimitazione o caratterizzazione
che ne circoscriva in partenza il pubblico di riferimento,
sicché sostanzialmente il servizio viene poi effettivamente svolto in favore di chiunque scelga di avvalersene, cosi come accade anche per chi decida di scaricare
app che organizzano in maniera del tutto analoga il servizio svolto da titolari di licenze taxi o di ricorrere alle
centrali telefoniche radiotaxi.
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In buona sostanza la richiesta di iscrizione al servizio
per gli utenti appare di fatto sostanzialmente finalizzata
a dare corso al sistema di pagamento del trasporto mediante carta di credito.
6. Le società resistenti hanno peraltro affermato che in
realtà UBER POP sarebbe una mera applicazione informatica che serve a favorire forme di trasporto condiviso,
realizzate direttamente dagli utenti. Sul piano sociale,
tale sistema sarebbe, infatti, espressione della nuova
concezione di utilizzazione dell’autovettura in maniera
condivisa, al fine di abbattere i costi di impiego dell’auto privata e di ridurre l’inquinamento.
Va qui richiamato quanto già detto rispetto all’impossibilità che soggetti privi di licenza possano svolgere in
forma privata un servizio corrispondente a quello di taxi, né peraltro il servizio UBER POP potrebbe legittimamente paragonarsi a forme di condivisione di trasporto su strada la cui liceità pare evidente.
Ci si riferisce in particolare alle forme di car sharing e di
ride sharing, già operative da tempo, che in realtà presuppongono che l’autista abbia un suo percorso personale da svolgere- sia in città per andare al lavoro che in
occasione di un viaggio verso una specifica destinazione
per motivi personali - e che chieda a terzi di condividere il medesimo percorso al fine di dividere le relative
spese. La differenza con il servizio UBER POP è palese,
ove si osservi che l’autista in tali circostanze esegue il
tragitto per un interesse proprio e che in genere le quote richieste ai partecipanti si riducono alla divisione del
prezzo della benzina e dei pedaggi autostradali con conseguente inapplicabilità delle sanzioni previste dall’art.
82 C.d.S., non trattandosi di uso del veicolo nell’interesse di terzi mentre nel servizio UBER POP l’autista
non ha un interesse personale a raggiungere il luogo indicato dall’utente e, in assenza di alcuna richiesta, non
darebbe luogo a tale spostamento.
Ciò sembra ingenerare per la verità anche un dubbio
sull’effettiva attitudine di tale servizio a generare vantaggi alla collettività in termini di riduzione di inquinamento atmosferico e consumo energetico, posto che esso sembra al contrario stimolare l’uso di mezzi privati
senza che rispetto a tale uso possano essere poste in essere misure di programmazione e regolazione generale
della mobilità che sembrano unanimemente considerate
come lo strumento principale di intervento nel settore
del trasporto urbano e non.
La circostanza che in concreto UBER POP sia un’applicazione informatica non costituisce motivo per escludere la rilevanza della predisposizione e dell’uso della stessa nell’ambito del sistema nel quale essa è inserita.
Invero se le considerazioni innanzi svolte portano a ritenere che l’attività di trasporto urbano non di linea a
richiesta di un utente non possano essere svolte che da
soggetti titolari di licenza taxi (o di licenza di noleggio
con conducente) e che l’autista che svolge tale servizio
senza licenza è colui che pone in essere la condotta materiale vietata dal Codice della Strada e dalla normativa
statale, regionale e comunale che regolano i servizi pubblici locali non di linea, tuttavia il ruolo delle società
resistenti che viene svolto tramite l’applicazione infor-
250
matica, nella piena consapevolezza che gli autisti aderenti sono privi di qualsiasi licenza appare essenziale per
l’esistenza del servizio stesso e di fatto incidente sulla
stessa organizzazione di esso, in misura tale da escludere
che ci si trovi in presenza di un mero intermediario.
In effetti appare certo in primo luogo che le società resistenti hanno determinato la sostanziale nascita di tale
fenomeno, nel senso che prima dell’introduzione di tale
app i soggetti privi di licenza avevano un circoscritto
perimetro di attività e di possibilità di contatto con gli
utenti sostanzialmente a livello di contatto personale
mentre UBER POP consente in tutta evidenza un incremento nemmeno lontanamente paragonabile al numero di soggetti privi di licenza che si dedicano all’attività analoga a quella di un taxi e parallelamente un’analoga maggiore possibilità di contatto con la potenziale utenza, così determinando un vero e proprio salto di
qualità nell’incrementare e sviluppare il fenomeno dell’abusivismo.
Se dunque l’apporto al settore di tale app appare di fatto decisiva rispetto alla stessa esistenza del fenomeno in
questione, deve altresì darsi rilievo allo stimolo che essa
fornisce alla diffusione di autisti privi di licenza promuovendone il reclutamento principalmente presso soggetti che mai avevano svolto tale attività, alla piena
consapevolezza delle resistenti della mancanza di titoli
autorizzativi in capo ad essi - desumibile dal fatto che
tra i requisiti richiesti agli aspiranti autisti non compare
la menzione di tale requisito e i dati rilevabili dalla carta di circolazione del veicolo mostrano la destinazione
di esso ad uso proprio o ad uso di terzi - nonché alla
complessiva attività di incasso e pagamento che si attua
tramite l’intervento attivo delle resistenti che predispongono anche le tariffe e - soprattutto - le variazioni
di tale tariffe (v. meccanismo del “Surge” citato, in doc.
50 fase. ric.).
Il complesso di tali attività sembra dunque oltrepassare
l’ambito di operatività di un mero intermediario e involge aspetti direttamente organizzativi e propulsivi del
servizio in questione - tanto da doversi approfondire, a
parere di questo giudice, anche se il ruolo ricoperto dai
responsabili di UBER POP possa in realtà inquadrarsi
in quello di vettore ai sensi degli artt. 1678 e 1681 c.c.
anche a prescindere dalle statuizioni contrattuali predisposte - e soprattutto esso appare rilevante sul piano
dell’illecito concorrenziale in quanto, proprio perché
l’applicazione informatica in questione ha di fatto consentito la nascita o comunque un improvviso ed esteso
ampliamento di comportamenti non consentiti dalla legislazione nazionale, la sua predisposizione ed utilizzazione apporta un contributo essenziale e insostituibile
allo sviluppo di condotte illecite, idonee ad incidere sul
mercato in danno dei soggetti ricorrenti, e dalle quale
le stesse resistenti traggono diretti benefici economici.
7. Sulla base delle considerazioni innanzi svolte, ritiene
dunque il giudicante che la predisposizione e l’utilizzazione dell’app UBER POP integri la fattispecie di illecito concorrenziale di cui all’art. 2598 n. 3 c.c.
Le società resistenti hanno contestato l’applicabilità di
tale ipotesi di illecito, connessa alla prospettata viola-
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zione da parte dei guidatori di UBER POP di norme
pubblicistiche, in quanto tale sola condotta non sarebbe
comunque di per sé sufficiente ad integrare un illecito
anticoncorrenziale.
A tale proposito vale osservare che la giurisprudenza
più recente ha precisato che in tema di concorrenza
sleale, i comportamenti lesivi di norme di diritto pubblico non necessariamente integrano, di per sé stessi, atti di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c.,
atteso che l’obbiettivo anticoncorrenziale può essere
raggiunto anche attraverso comportamenti che, benché
non siano previsti dalla legge, siano connotati dallo
stesso disvalore di quelli espressamente regolati. In particolare, la violazione delle norme pubblicistiche è sufficiente ad integrare la fattispecie illecita quando essa è
stata causa diretta della diminuzione dell’altrui avviamento ovvero quando essa, di per sé stessa, anche senza
un comportamento di mercato, abbia prodotto il vantaggio concorrenziale che non si sarebbe avuto se la
norma fosse stata osservata (così Cass. 8012/04).
Nel caso di specie il comportamento delle società resistenti - volto ad organizzare e stimolare la presenza di
autisti abusivi sulla piazza ed a trarre da detta attività
dei proventi - risulta certamente indissolubilmente connesso all’attività dei singoli autisti che con il loro comportamento violano la normativa di legge che regola il
servizio di taxi e ne sfrutta, ampliandole in maniera
esponenziale, le capacità di alterazione del mercato soggetto a regolamentazione amministrativa anche a livello
tariffario.
È indubbio che la predisposizione dei corrispettivi per i
trasporti degli autisti UBER POP - come si è visto
(meccanismo del “Surge”) sostanzialmente eseguita dalle società resistenti - rivela la fissazione di tariffe sensibilmente più basse di quelle proprie degli esercenti il
servizio taxi, consentita dall’evidente risparmio di costi
che gli operatori sprovvisti di licenza non devono sostenere.
Tali costi sono connessi all’acquisto di un veicolo univocamente dedicato all’uso di terzi (che in relazione al
più volte citato art. 82 C.d.S. non può essere destinato
ad uso proprio del tassista e quindi costituisce bene direttamente ed unicamente strumentale all’esercizio dell’azienda), all’installazione di apparecchi imposti dalla
normativa (tassametri), alla stipulazione di contratti assicurativi per usi professionali di importo e garanzie ben
superiori ad un contratto di assicurazione per veicolo
destinato ad uso proprio (le cui garanzie in favore di
terzi trasportati peraltro potrebbero essere negate dalla
compagnia di assicurazione ave connesse alla prestazione del servizio UBER POP), all’associazione a servizi
che garantiscano potenzialità di contatto con la clientela analoghe a quelle proprie dell’app UBER POP e all’installazione dei relativi apparati (centrale radiotaxi;
applicazioni informatiche gestite da cooperative di taxi;
impianti radiotrasmittenti e di localizzazione GPS ecc.).
Tali rilievi consentono dunque di confermare che la
mancanza di titoli autorizzatoti e l’operatività degli autisti di UBER POP al di fuori degli oneri imposti dal regime amministrato dell’attività comportano un effettivo
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vantaggio concorrenziale in capo alle società resistenti
che concorrono nel loro insieme a definire un comportamento non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a determinare uno sviamento di
clientela indebito.
La mancata soggezione degli autisti UBER POP ai costi
inerenti al servizio taxi innanzi menzionati consente
pertanto l’applicazione di tariffe sensibilmente minori
rispetto a quelle del servizio pubblico e non praticabili
dal tassista. L’illecito sviamento così determinato di fatto comporta dunque un’alterazione dell’adeguatezza del
tariffario imposto ai tassisti in quanto modifica anche il
quadro complessivo dei fattori economici che concorrono a determinarlo in concreto (aumento incontrollato
dell’offerta) e determina altresì l’ulteriore profili di scorrettezza concorrenziale consistente nella sottrazione degli autisti UBER POP dagli altri oneri e limiti cui i tassisti sono vincolati (rispetto di turni prefissati anche in
orari in cui la domanda è minore) e che incidono anch’essi sulla redditività dell’attività economica di questi
ultimi.
8. Sussiste altresì anche l’ulteriore presupposto necessario per l’adozione di misure cautelari ed urgenti, consistente nel periculum in mora.
Appare evidente che la prestazione del servizio contestato sia legata ad un fenomeno in rapida evoluzione e
rispetto al quale le società resistenti hanno programmato un’imminente ulteriore estensione ad altre città italiane.
Tale contesto rivela l’esistenza di un progressivo ma intenso ampliamento della diffusione del servizio stesso,
che rende di fatto irrilevante il fatto che esso sia stato
lanciato da circa un anno posto che il suo crescente
successo e la eccezionale capacità di diffusione che consente la rete telematica in un quadro di intensa promozione del servizio rende attuale e sussistente la necessità
di provvedere in via d’urgenza in quanto gli effetti pregiudizievoli nel settore - ove si attendesse l’esito di una
causa di merito - risulterebbero non compiutamente risarcibili in termini esclusivamente pecuniari.
Inoltre risulta altresì evidente che tale pregiudizio ha
una sua peculiare e stringente attualità in quanto esso
appare certamente oggi accentuato per effetto del previsto consistente numero di visitatori della manifestazione
Expo 2015, che pur interessando direttamente la città
di Milano appare suscettibile di ampliare anche l’afflusso turistico in altre città italiane tra le quali anche quelle ove operano parte degli odierni ricorrenti.
9. Quanto agli aspetti soggettivi propri della presente
controversia, appare fondata l’eccezione svolta dalle resistenti quanto alla rilevanza nella fattispecie di concorrenza sleale di interessi propri della ITALTAXI SERVICE s.r.l.
Invero appare pacifico che detta società svolga l’attività
di fornitura di servizi amministrativi e contabili in favore di imprese che esercitano il servizio taxi. In effetti rispetto all’ipotesi di concorrenza sleale contestata non vi
è comunanza di mercato, risultando l’attività contestata
svolta invece sul mercato dell’utenza dei servizi di trasporto urbani non di linea.
251
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Concorrenza sleale
Lo stato sommario della controversia non consente invece - salvo maggiori approfondimenti in una eventuale
sede di merito - di verificare le relazioni intercorrenti
tra i vari soggetti giuridici che nel loro complesso risultano comunque coinvolti a vario titolo nell’organizzazione, promozione e diffusione del servizio UBER POP.
Se i rapporti intragruppo tra le varie società olandesi
potranno essere adeguatamente affrontati in sede di merito, può peraltro rilevarsi che la società UBER ITALY
s.r.l. per ciò che emerge dagli atti e documenti di causa
appare invece attivamente partecipe dello sviluppo e
della promozione del servizio UBER POP nei territorio
nazionale, come rilevabile sia dall’assistenza svolta nei
confronti degli autisti che dall’attività svolta dall’amministratore della stessa in occasioni di pubblico confronto.
Le misure cautelari di seguito disposte non possono invece essere rivolte anche nei confronti del resistente
non costituito R. N., il quale risulta essere uno degli autisti operanti all’interno del sistema UBER POP.
In effetti egli - pur dando luogo personalmente ai trasporti in forma non autorizzata, e dunque di fatto compartecipe della complessiva attività di concorrenza sleale - appare del tutto estraneo alla predisposizione ed organizzazione del sistema UBER POP e della relativa
app, sicché i comandi cautelari richiesti dalle ricorrenti
ed incentrati su detta applicazione e sui suoi usi non
possono ritenersi effettivamente pertinenti alla posizione del medesimo e dunque privi di effettiva strumentalità rispetto alle domande ipotizzabili nei suoi confronti
in sede di merito.
l0. In conclusione devono dunque essere emessi provvedimenti di inibitoria che investono sin l’utilizzazione sul
territorio nazionale dell’app denominata UBER POP sia
del servizio - comunque denominato e con qualsiasi
mezzo promosso e diffuso - che organizzi, diffonda e promuova un servizio di trasporto terzi dietro corrispettivo
su richiesta del trasportato, in modo non continuativo
o periodico, su itinerari e secondo orari stabiliti di volta
in volta.
(omissis).
IL COMMENTO
di Luca Giove e Andrea Comelli
Il recentissimo provvedimento reso dal Tribunale di Milano offre il destro agli autori per commentare una vicenda giudiziaria che continua ad occupare le cronache dei quotidiani, e per esaminare gli indirizzi della giurisprudenza sull’illecito anticoncorrenziale commesso in violazione di
norme pubblicistiche.
La vicenda
Nello scontro a livello globale che vede contrapposti le associazioni di categoria dei taxi e la società californiana Uber, giunge finalmente anche il
provvedimento di un Tribunale italiano, il quale si
è pronunciato, seppure solo in via cautelare, sulla
legittimità dell’erogazione di servizi di trasporto
pubblico in assenza della normale licenza di radio
taxi.
Come è noto, Uber è un’applicazione mobile mediante la quale una persona interessata a spostarsi
in città (1) può inviare una richiesta ad un autista
del servizio Uber, che sempre mediante l’applicazione - tramite il tracciamento GPS - riceve una
notifica con l’incarico di fornire il trasporto, raggiungendo e prelevando l’utente in un punto della
città per condurlo a destinazione.
(1) Alla data in cui è stata resa l’ordinanza in commento, il
servizio denominato Uber Pop era disponibile in Italia nelle città di Milano, Torino, Genova e Padova.
252
Uber, azienda statunitense con sede in San Francisco, offre due principali tipi di servizio: il primo,
è un servizio di noleggio con conducente (NCC),
una forma di trasporto pubblico non di linea che
in buona sostanza si differenzia dal servizio tradizionale per il solo fatto di servirsi di una piattaforma
tecnologica mobile per mettere più rapidamente in
contatto gli autisti (o drivers) e gli utenti. Il servizio NCC richiede che ciascun autista sia titolare di
un’apposita autorizzazione all’erogazione, ottenibile
mediante bando di concorso pubblico (2). Il secondo tipo di servizio è denominato Uber Pop, e prevede che gli autisti incaricati del trasporto degli
utenti non siano dei soggetti muniti di licenza, ma
dei guidatori reclutati dalla società che mettono a
disposizione il proprio mezzo privato, in cambio del
pagamento di una percentuale sul corrispettivo pa(2) L. 15 gennaio 1992, n. 21. “Legge quadro per il trasporto di persone mediante autoservizi pubblici non di linea”.
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Concorrenza sleale
gato dall’utente dell’applicazione per la prestazione
di trasporto resa.
Il servizio Uber Pop, sin dal suo lancio in Italia
(avvenuto nel maggio del 2014), ha generato grandi contrasti tra le organizzazioni sindacali, le associazioni di taxisti e l’azienda statunitense, tra scioperi, proteste e persino scontri fisici tra guidatori di
taxi e autisti di Uber Pop.
Proprio nei confronti di tale servizio, nel marzo
scorso le principali società di gestione dei servizi di
radio taxi nelle città di Milano, Torino e Genova,
insieme ad associazioni di categoria, hanno formulato innanzi al Tribunale di Milano ricorso ex art.
700 c.p.c. nei confronti delle resistenti società del
gruppo Uber, chiedendo l’inibitoria all’utilizzo dell’applicazione Uber Pop, con relativo blocco ed
oscuramento dell’applicazione (e del sito internet
ad essa collegato).
Il rapporto di concorrenza
La cruciale valutazione di merito, che l’ordinanza in commento affronta, riguarda la forma strutturale del servizio offerto da Uber Pop, ai fini dell’accertamento del rapporto di concorrenza tra il normale servizio di radio taxi o di noleggio con conducente e la forma di trasporto alternativa messa in
atto dalla società californiana.
La questione è solo apparentemente nuova, in
ragione delle peculiarità del servizio in parola.
A ben vedere, si tratta della declinazione nel caso specifico di principi ormai consolidati e applicati con esiti tutto sommato coerenti in giurisprudenza, conformemente alla tendenza “espansiva” della
nozione di concorrenza che considera sul piano
soggettivo “impresa” ogni entità che produce beni
e servizi (3), e, sul piano oggettivo, valuta, al di là
dell’affinità dei beni e servizi (4), la comunanza di
clientela, sulla base del possibile “mercato di sbocco”, dell’aspetto cronologico (5) e dell’estensione
territoriale dell’attività d’impresa (6).
Il giudice milanese non ha accolto la ricostruzione delle resistenti, secondo cui Uber Pop sarebbe
semplicemente un’applicazione informatica, destinata a realizzare forme di trasporto condiviso (ormai noto come car sharing) tramite la messa in
contatto di utenti e autisti, finalizzato a ridurre le
(3) Cfr. A. Musso, Del diritto della concorrenza, in Commentario del Codice Civile e Codici collegati, Bologna, 2012, 1112.
(4) Trib. Catania 31 gennaio 2008 in Giur. ann. dir. ind.,
2009, 5364.
(5) Cass. 22 luglio 2009, n. 17144, in questa Rivista, 2009,
448, con nota di Cavallaro, Concorrenza sleale e comunanza di
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spese e le emissioni inquinanti. Non si tratterebbe
cioè di una forma di trasporto destinata al pubblico
generale, ma una forma alternativa di trasporto privato, poiché il requisito essenziale per poter partecipare ad Uber Pop è quello di avere precedentemente installato nel proprio smartphone l’applicazione: talché Uber Pop sarebbe un servizio destinato ai soli membri di una community.
In quanto mera community, Uber Pop si distinguerebbe dal servizio di radio taxi anche per la possibilità per gli autisti Uber di non accettare le chiamate di altri utenti, quando un guidatore di radio
taxi non ha la possibilità di rifiutare la prestazione.
Sempre secondo le resistenti, gli autisti Uber riceverebbero poi non un vero corrispettivo, ma un
mero rimborso di spese di viaggio e costi di trasporto.
Secondo invece la ricostruzione delle ricorrenti,
fatta propria dall’ordinanza in commento, l’attività
posta in essere da Uber Pop costituirebbe un servizio pienamente interferente con il servizio di radio
taxi svolto da società, organizzazioni sindacali di
categoria e singoli titolari di licenze taxi.
L’ordinanza ha a tal proposito valorizzato una serie di elementi, tra i quali in primo luogo la modalità di stazionamento degli automezzi destinati al
trasporto pubblico, ritenuta sostanzialmente equivalente alla ricezione di chiamate da parte degli
autisti Uber. Se da un lato i taxi stazionano in aree
predisposte, le auto Uber si trovano comunque già
“in servizio” sulla pubblica piazza (a differenza della
modalità di trasporto NCC), e ricevono una semplice segnalazione in prossimità di utenti che richiedano di essere prelevati.
Peraltro, il giudice osserva come la modalità telematica di invio di richiesta di trasporto mediante
applicativo per smartphone sia già utilizzata anche
dagli operatori del servizio di radio taxi (7), rendendo ulteriormente avvicinabile l’attività di Uber
Pop a quella dei taxi pubblici.
Inoltre, il giudice meneghino ha ritenuto che
ciò che Uber qualifica come mero “rimborso spese”
sia invece un vero e proprio corrispettivo.
Il giudice della cautela ha inoltre tenuto in considerazione il fatto che il sistema Uber prevede un
particolare meccanismo, denominato Surge Pricing,
che comporta una fluttuazione dei prezzi applicati
clientela.
(6) Trib. Trento 15 gennaio 2003, in Giur. ann. dir. ind.,
2003, 4542.
(7) Tra le tante, le applicazioni AppTaxi, it Taxi, myTaxi,
Chiama Taxi.
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a seconda del verificarsi di circostanze eccezionali
quali blocchi del traffico, incidenti, scioperi generali. Da ciò consegue che le tariffe applicate da
Uber costituiscono una forma di pagamento per la
prestazione di trasporto erogata liberamente stabilita dalla società californiana, diversamente dalle tariffe fisse a cui sono vincolati gli operatori del servizio di radio taxi. Peraltro, il pagamento può essere effettuato solo mediante carta di credito, per cui
è Uber che trattiene il corrispettivo della corsa,
versandone successivamente una percentuale al driver
Né d’altro canto il giudice milanese ha ritenuto
che l’argomentazione secondo cui Uber si rivolge
ad una community “chiusa” valga ad escludere il
rapporto concorrenziale: è sufficiente infatti che
chiunque installi l’applicazione per fruire del servizio.
Pertanto, l’unico criterio che correttamente il
giudice della cautela ha valutato è quello della sussistenza di un potenziale sviamento di clientela
dalla parte ricorrente alla parte resistente, elemento costitutivo della fattispecie di concorrenza sleale. Detto elemento è determinato dall’affinità delle
attività esercitata dalle imprese nel rapporto orizzontale tra gli imprenditori (8).
In linea con la giurisprudenza maggioritaria sul
punto (9), il giudice della cautela ha ritenuto che,
anche prescindendo dalla valutazione dell’affinità
dei beni e dei servizi offerti al mercato, la vera
“spia” del rapporto di concorrenzialità sia da individuare nella comunanza di clientela. Nel caso di
specie, oltre alla identità dei servizi resi, il giudice
ha accertato l’assoluta comunanza della clientela
tra Uber e il servizio pubblico di trasporto (10).
Lo sviamento della clientela risulterebbe poi integrato dal fatto che detta potenziale clientela comune sarebbe certamente allettata dalla possibilità
di risparmiare utilizzando un servizio privato, i cui
costi sono per lo più inferiori alle tariffe imposte
applicati dagli operatori del servizio di radio taxi.
L’altro aspetto preso in considerazione dal giudice dell’ordinanza in commento in relazione al fumus boni iuris è la violazione di norme di diritto
pubblico ai fini dell’integrazione dell’illecito anticoncorrenziale ex art. 2598, n. 3, c.c.
(8) Cfr. Cass. 20 maggio 1997, n. 4558, in Giur. ann. dir.
ind., 1997, 3571.
(9) Sul punto v. Cass 11 aprile 2001, n. 5375, in Giur. ann.
dir. ind., 2001, 4206; Cass. 22 luglio 2009, n. 17144, cit.; in
dottrina, v. Musso, op. cit., 1115.
(10) Di identico tenore l’ordinanza del Trib. Roma, 16 gennaio 2007, in darts.ip. In quel caso, il giudice aveva addirittura
ritenuto che l’esercizio del servizio di trasporto pubblico (in assenza delle prescritte autorizzazioni e licenze) fa presumere in
via di prova presuntiva e indiretta la sussistenza dell’illecito anticoncorrenziale per il rischio di sviamento di clientela.
(11) Sul punto v. Trib. Venezia 12 dicembre 2005, in Giur.
ann. dir. ind., 2005, 4904.
(12) Almeno 21 anni d’età, almeno dieci punti residui nella
patente, veicolo di proprietà immatricolato da meno di dieci
anni in buono stato di manutenzione, nessun carico pendente.
(13) Quali le principali piattaforme di car sharing in mobilità
come Blabla Car, Carsh, ecc. In relazione a questo tipo di servizi, il giudice dell’ordinanza in commento ha rilevato come essi presuppongano che l’autista abbia già un suo percorso da
svolgere, e che gli altri utenti compartecipino alle spese di
viaggio, a differenza di Uber Pop, in cui il driver segue le istruzioni di percorso fornitegli dal trasportato, in cambio di un corrispettivo.
254
Vale la pena di notare, peraltro, che il rapporto
di concorrenzialità sussisterebbe anche nel caso in
cui l’offerta del servizi di trasporto fosse posta in essere direttamente dai driver Uber: come osservato
dalla giurisprudenza di merito (11), il rapporto di
concorrenza sleale opera anche tra soggetti che si
collocano in diversi stadi della catena produttiva e
distributiva, in considerazione dell’incidenza della
loro attività sui medesimi consumatori finali.
Nel caso di specie, comunque, il giudice della
cautela ha rilevato come Uber si occupi direttamente della selezione dei drivers del programma
Uber Pop - i quali devono possedere alcuni requisiti (12) e sono sottoposti a dei colloqui preliminari
di valutazione - e riceva direttamente i pagamenti
da parte degli utenti. Non si tratta quindi di una
mera predisposizione di una piattaforma tecnologica che consenta a diversi utenti di mettersi in contatto (13), ma di una vera e propria attività di impresa (“essenziale per l’esistenza del servizio stesso
e di fatto incidente sulla stessa organizzazione di esso, in misura tale da escludere che ci si trovi in
presenza di un mero intermediario”).
Un’attività d’impresa che, in quanto non soggetta ai costi ed alle tariffe previste dal servizio pubblico, determina un aumento incontrollato dell’offerta di mercato di sistemi di trasporto, senza che
gli autisti di taxi possano liberamente adeguarvisi
sia in termini economici (riducendo le tariffe), sia
in termini di orari di turno, atteso che spesso gli
autisti di taxi sono assegnatari di orari in cui la richiesta è minore. Vincoli e pastoie alle quali un
driver Uber non è soggetto, visto che è libero di
mettersi alla guida del proprio mezzo in qualsiasi
orario, restando in attesa di possibili chiamate.
La violazione di norme pubblicistiche
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Concorrenza sleale
Secondo un’opinione minoritaria e ormai risalente (14), la violazione di norme di diritto pubblico costituirebbe automaticamente violazione dei
principi di correttezza professionale.
Diversamente, secondo l’opinione dominante cui
aderisce anche il giudice del provvedimento in commento, la violazione di norme pubblicistiche non
costituisce di per se stessa concorrenza sleale (15).
Il giudizio di illiceità concorrenziale sarebbe legittimato nel caso in cui la violazione di una norma di
diritto pubblico rappresenti un singolo elemento nel
quadro di una più complessa attività di concorrenza,
che sia in grado - per le modalità e gli scopi con cui
essa sia messa in atto - di costituire una sostanziale
e maliziosa turbativa delle condizioni di mercato,
con danneggiamento delle aziende altrui (16).
In merito alle norme di diritto pubblico, in dottrina (17) si è opportunamente distinto tra norme
che impongono limiti all’esercizio dell’attività
d’impresa, norme che impongono dei costi e norme
che impongono degli oneri. Con riferimento alle
prime, la loro violazione implica ex se l’integrazione dell’illecito anticoncorrenziale.
Con riferimento alle seconde, la loro violazione
può costituire concorrenza sleale quando essa si inserisca in una condotta idonea a danneggiare il
concorrente, ad esempio applicando un ribasso dei
prezzi.
La violazione di norme che impongono oneri,
invece, difficilmente può essere ricondotta a un atto di concorrenza sleale (18), poiché non consiste
in sé in un atto di concorrenza, né avvantaggia
l’autore rispetto ai suoi concorrenti.
Nel caso di specie, il giudice della cautela ha
ravvisato la violazione di norme che impongono limiti all’attività di impresa. Come è noto, lo svolgimento del servizio di taxi per trasporto di persone
è soggetto, ai sensi della L. n. 21/1992, al possesso
di regolare licenza mediante rilascio di autorizzazione da parte del comune competente (il quale si occupa anche della determinazione delle tariffe).
Non solo: l’utilizzo di un autoveicolo per il servizio di piazza (taxi) per il trasporto di terzi in assenza di detta specifica autorizzazione comporta l’applicazione di apposita sanzione amministrativa prevista dal Codice della strada (19).
A tal proposito, va precisato che le attività di taxi e di noleggio con conducente non rientrano nell’ambito del complessivo piano di liberalizzazioni a
livello comunitario messo in atto con la Dir. n.
123/2006 (c.d. direttiva Bolkenstein), che ha previsto l’obbligo per gli Stati membri di consentire
un accesso al mercato il più libero e deregolamentato possibile in materia di circolazione dei servizi.
Le norme di recepimento interno (20) della direttiva Bolkenstein già avevano escluso dall’ambito
di abrogazione delle restrizioni in materia di accesso ed esercizio delle attività economiche previste
dall’ordinamento i servizi di trasporto urbani e i
servizi di taxi.
Del resto, anche il giudice comunitario (21) ha
confermato come la libera circolazione dei servizi
nel settore dei trasporti non sia disciplinata dalla
disposizione dell’art. 56 TFUE, che riguarda in generale la libera prestazione di servizi, bensì dalla
specifica disposizione dell’art. 58, n. 1, TFUE, ai
sensi del quale “la libera circolazione dei servizi, in
materia di trasporti, è regolata dalle disposizioni
del titolo relativo ai trasporti (22)”.
Pertanto, i trasporti urbani e i servizi di taxi non
rientrano nell’ambito applicativo delle disposizioni
adottate dal Consiglio, sulla base dell’art. 71, n. 1,
CE, ai fini della liberalizzazione dei servizi di trasporto.
Il giudice della cautela ha comunque considerato
come l’esercizio del servizio di piazza in assenza della prescritta autorizzazione possa configurare una
violazione dell’art. 2598, n. 3, c.c., ma non sia sufficiente di per sé solo a costituire illecito.
È al proposito il caso di notare che la giurisprudenza nazionale, in caso di esercizio dell’attività di
impresa in difetto delle prescritte autorizzazioni ha
espresso negli anni posizioni contrastanti (23).
(14) Cfr. Cass. 21 aprile 1983, n. 2743, in Giur. ann. dir. ind.,
1983, 1593.
(15) Sul punto v. Trib. Roma 16 gennaio 2007 (ord.), cit.;
Trib. Palermo 4 gennaio 2010, in Riv. dir. ind., 2010, 171, con
nota di Ziino e Avellone.
(16) Sul punto, cfr. Cass., SS.UU., 22 maggio 1991, n.
5787, in Giur. ann. dir. ind., 1991, 2601; Cass. n. 10684/2000,
in Giur. ann. dir. ind., 2000, 4064.
(17) Si veda L. Mansani, Slealtà concorrenziale degli atti di
vendita al minuto nel commercio all’ingrosso a libero servizio, in
Riv. dir. ind., 85, I, 281 ss. Cfr. anche Trib. Roma 20 novembre
2005 (ord.), in Riv. dir. ind., 2006, II, 285 con nota di Salom,
Concorrenza sleale e violazione di norme pubblicistiche.
(18) Sul punto v. A. Vanzetti-V. Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, Milano, 2012, 114.
(19) Cfr. art. 86 C.d.s.
(20) Art. 6, D.Lgs. n. 59/2010; art. 3, comma 11 bis, L. n.
148/2011 di conversione del D.L. 13 agosto 2011, n. 138.
(21) Cfr. sentenza 22 dicembre 2010, C-338/09, Yellow Cab
Verkehrsbetriebs GmbH, in curia.europa.eu.
(22) V., in tal senso, sentenza 13 luglio 1989, C-4/88, Lambregts Transportbedrijf, in curia.europa.eu.
(23) A titolo d’esempio, Trib. Vicenza 23 maggio 1987, in
Giur. ann. dir. ind., 1987, 2177 ha escluso la concorrenza sleale
ex art. 2598, n. 3, c.c. in caso di esercizio abusivo dell’attività
di pompe funebri, considerando necessario l’ulteriore elemen-
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Concorrenza sleale
Nel caso in esame, tuttavia, oltre alla violazione
di norme che prevedono limiti all’attività d’impresa, il giudice ha ravvisato anche violazioni di norme che prevedono costi (24): la fissazione da parte
di Uber di tariffe sensibilmente più basse rispetto a
quelle cui sono soggetti gli esercenti il servizio di
taxi è consentita dal risparmio dei costi imposti
dalle norme amministrative che gli operatori senza
licenza non devono sostenere.
Tra essi, il giudice ricorda l’acquisto del veicolo
(che è univocamente destinato al servizio pubblico), del tassametro, la stipula di onerosi contratti
assicurativi, l’adesione a enti associativi.
Talché la mancata soggezione degli autisti Uber
a tali costi e la conseguente applicazione di tariffe
ridotte è destinata a falsare il mercato, determinando la scorrettezza concorrenziale della condotta
delle resistenti.
Il periculum in mora
Nell’accertare la sussistenza dell’ulteriore requisito per la concessione delle misure urgenti, il giudice ha ravvisato la sussistenza del rischio di pregiudizio - nonostante il servizio sia attivo da circa un
anno in Italia - nella esponenziale crescita di popolarità e diffusione di Uber Pop, nell’attualità dell’illecito accertato e nello sviamento di clientela, con
conseguente impossibilità di risarcire il danno tendenzialmente irreversibile e difficilmente quantificabile - in maniera esclusivamente pecuniaria (25).
Il giudice della cautela non si è infatti limitato a
rilevare il periculum riferendosi alla nota - e oggetto
di revisione da parte della giurisprudenza più recente - dottrina del periculum in re ipsa, ma ha ritenuto sussistente il requisito in ragione di ulteriori
fattori già valorizzati dalla giurisprudenza in tema
to dell’idoneità della condotta a danneggiare l’altrui azienda:
elemento che sussiste in caso di squilibrio delle condizioni di
mercato, con diretto riflesso sulla sfera patrimoniale del concorrente. Come osserva l’estensore della nota, il provvedimento appare semplicistico nel ritenere che la violazione di una
norma amministrativa non possa dare luogo ad un atto di concorrenza sleale ove la condotta illegittima non sia realizzata attraverso l’impiego di modalità scorrette anche in sé considerate. Cfr. anche Cass. 27 febbraio 1985, n. 1712, ivi, 1985, 1837.
Diversamente, Trib. Palermo 21 aprile 2006, ivi, 2006, 5087, ha
ritenuto illecita l’installazione di impianti di pubblicità affissionistica in difetto delle prescritte autorizzazioni perché l’operato
antigiuridico del concorrente gli aveva consentito di ridurre i
propri costi e di ampliare la propria sfera di mercato. In dottrina si veda G. Ghidini, La concorrenza sleale, Torino, 2001, 316.
(24) Nel valutare il risparmio di costi quale elemento rilevante ai fini anticoncorrenziali, il giudice segue l’indirizzo di
Trib. Roma 31 marzo 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2001, 4220.
(25) Cfr. Trib. Torino 18 luglio 2013, in darts.ip; Trib. Milano
256
di concorrenza e violazione di diritti di proprietà
intellettuale.
Fra gli ulteriori elementi che avrebbero potuto
essere considerati dal giudice della cautela si possono enumerare, la difficile quantificazione del danno - trattandosi di un una forma di illecito per sua
natura capillare (26), “pulviscolare” - e la sottrazione di quote di mercato (27).
Un ulteriore elemento richiamato dalla giurisprudenza (28) che avrebbe potuto essere tenuto in
conto nella fattispecie in esame, è il pregiudizio,
difficilmente quantificabile, derivante dal discredito commerciale patito dal servizio di radio taxi: dal
momento che le tariffe applicate da Uber sono per
lo più inferiori a quelle applicate dai taxisti, è ragionevole ritenere che nell’opinione di chi abbia
fruito del servizio Uber Pop (ma anche del pubblico generale) il servizio pubblico sia percepito come
eccessivamente costoso.
Quanto alla questione del decorso del tempo, la
decisione si pone nel solco dell’orientamento prevalente, che, anche in caso di ritardo di diversi
mesi tra la scoperta dell’illecito e l’instaurazione
del procedimento cautelare, ha accertato il ricorso
del presupposto del periculum in mora quando vi sia
una intensificazione (29) nel numero degli illeciti
commessi (30), specie se tali illeciti siano commessi via internet, di per sé uno strumento largamente
pervasivo e di difficile controllo (31).
Uno scontro globale
Quello italiano, come si diceva, è solo uno degli
innumerevoli scenari in cui si sta consumando lo
scontro tra gli operatori e i gestori dei servizi di trasporto pubblico e Uber.
In Francia, dal 1° gennaio 2015 è entrata in vigore la c.d. loi Thévenoud, che regola il settore dei
17 gennaio 2012, ibidem; Trib. Roma 18 febbraio 2008, in Sez.
Spec. prop. ind. 7 agosto 2011, 401.
(26) Così in tema di violazione di diritti di proprietà intellettuale Trib. Napoli 7 luglio 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2005,
4886; Trib. Venezia 5 maggio 2007, Sez. Spec. prop. ind. 7
agosto 2011, 590.
(27) Trib. Firenze 15 febbraio 2007 (ord.), ivi, 108.
(28) Trib. Napoli 25 maggio 2004 (ord.), in darts-ip.
(29) Trib. Milano 8 ottobre 2007, ivi, 162.
(30) Cfr. Trib. Milano 2 luglio 2007 (ord.), ivi, 147.
(31) Sul punto v. Trib. Bologna 19 ottobre 2008, ibidem, 76.
Peraltro, anche in caso di decorso di un lungo lasso di tempo,
la concessione dell’inibitoria non richiede che la violazione sia
in atto, essendo sufficiente che appaia probabile la reiterazione dell’illecito. Contra Trib. Bologna 28 ottobre 2008, ivi, 82;
Trib. Milano 17 aprile 2007, ibidem, 132. Sul pericolo di reiterazione v. M. Scuffi, Diritto processuale della proprietà industriale
e intellettuale, Milano, 2009, 362; Vanzetti - Di Cataldo, op. cit.,
132.
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Concorrenza sleale
taxi, disciplinando le modalità di esercizio del servizio di noleggio con conducente (voitures de transport avec chaffeurs) e vietando con particolare severità l’esercizio dell’attività di trasporto taxi e di
noleggio con conducente in assenza di regolare licenza (32) (come Uber Pop). Il 31 marzo scorso, a
fronte del ricorso di Uber, la Corte d’appello di Parigi ha ritenuto opportuno rinviare al Conseil constitutionnel il giudizio di costituzionalità circa la
nuova normativa. Il 22 maggio il Conseil si è pronunciato, rendendo la propria decisione in ordine
a tre punti della legge Thévenoud contestati da
Uber, ma non affrontando la questione relativa al
servizio Uber Pop. Si attende una pronuncia della
Cour de Cassation sul punto, mentre nel frattempo
numerose prefetture (33) hanno messo al bando il
servizio - considerato concurrence déloyale - e tribunali penali (34) hanno già condannato la società
titolare del servizio contestato.
Di rimando, Uber ha presentato ricorso contro
la Francia innanzi alla Commissione Europea.
In Spagna, come avvenuto in Italia, il Tribunale
di Madrid ha disposto con ordinanza cautelare
emessa il 9 dicembre 2014 il blocco di tutti i servizi di Uber. Secondo il giudice madrileno i driver ingaggiati da Uber non hanno le autorizzazioni amministrative necessarie a svolgere il servizio di trasporto pubblico, e la loro attività si traduce in concorrenza sleale. Il provvedimento spagnolo ha imposto ai principali operatori di telecomunicazione
di sospendere la trasmissione, hosting di dati, accesso alle reti o la fornitura di qualsiasi altro equivalente relativo a Uber, e ai gestori dei pagamenti
elettronici la sospensione di ogni transazione economica avviata tramite l’applicazione della società
statunitense. Anche in Catalogna, il governo della
Generalitat di Barcellona ha implementato severe
sanzioni pecuniarie e il sequestro del mezzo per i
driver Uber che eroghino i servizi di trasporto in assenza delle prescritte autorizzazioni.
In Germania, lo scorso 18 marzo la Corte regionale di Francoforte ha imposto il blocco - con previsione di una penale per ogni violazione pari ad €
250.000, ben superiore a quella comminata dal Tri-
bunale di Milano - a livello nazionale dell’applicazione, poiché i driver operano in assenza delle necessarie licenze e assicurazioni e, in linea con il
giudice nostrano, poiché gli autisti Uber possono
autoregolarsi rispetto all’accettazione delle chiamate degli utenti, mentre i taxisti sono obbligati ad
accettare le richieste di trasporto. La decisione (la
quale adotta in tema di concorrenza sleale dei principi che paiono sovrapponibili a quelli dell’ordinanza in commento) è già stata appellata dalla società di San Francisco.
In Belgio, già lo scorso anno il Tribunale di Bruxelles ha disposto il blocco dell’applicazione, poiché Uber opera senza le necessarie autorizzazioni
per l’erogazione dei servizi di trasporto pubblico.
A partire dallo scorso maggio invece le corti belghe hanno iniziato a disporre la confisca dei mezzi
dei drivers che hanno continuato ad operare in violazione del predetto provvedimento.
Nei Paesi Bassi, il 9 dicembre una sentenza del
Tribunale de L’Aja ha inibito l’applicazione nel
territorio olandese, prevedendo penali sia per la società Uber, sia per i singoli autisti che avessero
continuato ad esercitare il servizio in assenza della
licenza.
Il servizio è stato inoltre interdetto in Thailandia, Brasile (35), Singapore e India (36), nonché in
alcuni Stati federali degli Stati Uniti d’America (37).
(32) La violazione della normativa entrata recentemente in
vigore prevede una pena fino a due anni di carcere e una sanzione amministrativa fino a 300.000 euro.
(33) Tra le altre, le prefetture di Lione e Parigi - département
du Nord.
(34) Nell’ottobre 2014 un Tribunale penale di Parigi ha condannato Uber ad un’ammenda pari a 100.000 €.
(35) Una recentissima pronuncia del giudice del grado
d’appello ha peraltro revocato il provvedimento del 28 aprile
2015 del Tribunale di Rio de Janeiro che disponeva il blocco
dell’applicazione poiché gli autisti Uber operavano in assenza
di adeguata licenza, sul presupposto del difetto di legittimazione attiva del sindacato dei tassisti che aveva presentato il ricorso.
(36) Il blocco tout-court dell’applicazione per la verità è stato disposto dal governo di Nuova Delhi al verificarsi di un episodio di stupro commesso da un autista Uber.
(37) Al momento, Oregon e Nevada.
(38) Come preannunciato dalle resistenti, l’ordinanza del
Tribunale di Milano è già oggetto di reclamo.
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Conclusioni
Il provvedimento cautelare in commento (38) è,
almeno dal punto di vista giuridico, ineccepibile.
L’attività svolta da Uber mediante il servizio
Uber Pop appare allo stato attuale in violazione
dell’ordinamento interno, e appare costituire concorrenza sleale nei confronti degli operatori del servizio di taxi. Oltre alla violazione delle norme pubblicistiche e delle previsioni amministrative che regolano il settore del servizio pubblico, ulteriori perplessità destano i profili fiscali dello svolgimento
dell’attività svolta da Uber.
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Concorrenza sleale
Del resto, anche in altri settori si è registrata la
stessa ostilità e le stesse perplessità circa la compatibilità di questi nuovi servizi gestiti mediante piattaforme telematiche: basti pensare ad un servizio
come Airbnb - anch’esso oggetto di contenzioso all’estero - che consente ai proprietari privati di affittare i propri immobili o porzioni di essi a utenti interessati, in assenza di qualsiasi autorizzazione, soggezione a regole e oneri fiscali ai quali sono invece
soggetti gli operatori del settore alberghiero.
È pur vero però che il quadro normativo di molti
paesi non risulta essere aggiornato all’irruzione nel
mercato di queste nuove tipologie di servizi, e non
sembra ad avviso di chi scrive che la loro irresistibile crescita possa essere arginata a colpi di provvedimenti.
Un approccio più liberista lo ha già dimostrato
l’Autorità dei Trasporti, che ha trasmesso - con
258
notevole solerzia - una propria segnalazione al Ministero dei Trasporti proprio pochi giorni dopo il
deposito del provvedimento in commento, formulando una serie di proposte di modifica della L. n.
21/1992 per rendere servizi come Uber compatibili
con il servizio di trasporto pubblico.
Sarà probabilmente il parere che verrà reso dalla
Commissione Europea (la quale ha già dimostrato
un atteggiamento di appoggio all’attività svolta da
Uber) ad avanzare una più concreta proposta di integrazione di queste forme alternative di offerta dei
servizi tradizionalmente erogati in regime di licenza.
Resta il fatto che, allo stato attuale, l’illegittimità del servizio Uber Pop in ragione della violazione
di norme pubblicistiche e dei principi di correttezza
professionale ex art. 2598, n. 3, c.c. appare incontestabile.
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Giurisprudenza
Diritto d’autore
Plagio e contraffazione
Profili evolutivi della tutela
del software
Cassazione civile, Sez. I, 13 giugno 2014, n. 13524 - Pres. Vitrone - Rel. Genovese - P.M. Fimiani (conf.) - B.P. c. Data Bridge S.a.s. di P. F. & C.
La protezione del diritto d’autore riguardante programmi per elaboratori (il “software”, che rappresenta la sostanza creativa dei programmi informatici), al pari di quella riguardante qualsiasi altra opera, postula il requisito dell’originalità, occorrendo pertanto stabilire se il programma sia o meno frutto di un’elaborazione creativa originale rispetto ad opere precedenti, fermo restando che la creatività e l’originalità sussistono anche
quando l’opera sia composta da idee e nozioni semplici, comprese nel patrimonio intellettuale di persone
aventi esperienza nella materia propria dell’opera stessa, purché formulate ed organizzate in modo personale
ed autonomo rispetto alle precedenti. La consistenza in concreto di tale autonomo apporto forma oggetto di
una valutazione destinata a risolversi in un giudizio di fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità soltanto per eventuali vizi di motivazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che ha ritenuto meritevole di tutela il programma “Giava”, predisposto per le agenzie di viaggio e composto da una sezione contabile e da una sezione per la vendita dei biglietti, valutandolo originale sia sotto il profilo della funzionalità, sia sotto quello strutturale e algoritmico del “software”).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., Sez. I, 13 giugno 2014, n. 13524; Cass. Pen., Sez. III, 27 febbraio 2002, n. 15509; Cass., Sez. I, 13 dicembre
1999, n. 13937.
Difforme
Cass., Sez. I, 27 ottobre 2005, n. 20925; Trib. Bari, Sez. IV, 14 marzo 2007, n. 706; Trib. Milano 20 dicembre 1993.
La Corte (omissis).
1.1. Con il primo motivo di ricorso (motivazione contraddittoria e insufficiente sul punto decisivo della controversia circa la ritenuta irrilevanza, ai fini della titolarità del
diritto di autore, della partecipazione del sig. B.P. all’elaborazione del programma “Giava”) le ricorrenti lamentano la mancata ammissione delle prove, tese a dimostrare
il ruolo svolto dal B. nella creazione del software, ai sensi
dell’art. 10 L.A., escluse, invece, dal giudice di merito
perché irrilevanti ai sensi dell’art. 12-bis L.A. e, in considerazione del processo di produzione del software e delle
sue cinque fasi (analisi, progettazione delle funzioni, codifica, debugging e testing), sostengono che il B. avrebbe
espletato un’attività inventiva, esorbitante dalle proprie
mansioni, onde egli avrebbe acquisito il diritto di vedersi
riconosciuto il titolo di coautore del software “Giava”.
(omissis)
1.4. Con il quarto mezzo (violazione e falsa applicazione
degli artt. 1, 2 e 4 L. n. 633 del 1941, motivazione insufficiente e contraddittoria su un punto controverso e decisivo per il giudizio: i requisiti di originalità del software
dei ricorrenti) le ricorrenti pongono il seguente quesito
di diritto: “Se la corretta applicazione degli artt. 1, 2 e 4,
L. n. 633 del 1941, non comporti che, dati due programmi per elaborare, uno dei due debba considerarsi originale rispetto all’altro quando, pur avendo la medesima do-
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cumentazione operativa, differisca per essere stato adattato ad uno specifico ambiente tecnologico o perché presenta soluzioni applicative ulteriori e che denotano un
apporto creativo da parte del suo autore”. La sentenza
impugnata, infatti, puntando sulla protezione del “nocciolo” del software (ovvero sulla sua architettura di base)
non avrebbe tenuto conto della corretta interpretazione
delle disposizioni richiamate (introdotte nell’ordinamento dal D.Lgs. n. 518 del 1992) e correttamente esplicitate
da Cass. n. 581 del 2007 la quale avrebbe affermato che
l’innovazione potrebbe consistere anche nella capacità di
adattare l’architettura applicativa al caso ed all’ambiente
specifico senza che abbia rilevanza l’identità della documentazione operativa annessa al programma.
Sul piano motivazionale, essa sarebbe insufficiente (perché l’accertata esistenza di sviluppi e migliorie avrebbe
dovuto indurre il giudice a negare la contraffazione) e
contraddittoria (perché vi sarebbe discrasia tra l’esistenza di tali sviluppi e miglioramenti e la conclusione circa
la contraffazione).
1.5. Con il quinto (violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.) le ricorrenti pongono il seguente quesito di diritto: “Se l’art. 345 c.p.c., non precluda al convenuto appellante di sostenere che la corretta salutazione delle medesime prove considerate dal giudice di 1
grado avrebbe dovuto condurlo ad escludere l’esistenza
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del danno lamentato dall’attore appellato; e se, in ogni
caso, l’eccezione di difetto di legittimazione passiva non
incorra nel divieto di nuove eccezioni di cui all’art. 345
c.p.c., essendo questione rilevabile anche d’ufficio in
ogni stato e grado del giudizio”.
Premettono i ricorrenti che la stessa società resistente
ha precisato di essere un’azienda prettamente industriale
e di non svolgere attività commerciale, comportante la
vendita al pubblico, avendo affidato la vendita delle licenze d’uso dei propri software alla Data Bridge Informatica srl, a far data dal 1 luglio 1993, nonché la loro
installazione e manutenzione. Pertanto, a loro avviso
non vi sarebbe stata concorrenza con le ditte ricorrenti
e, non essendo chiarito il rapporto tra la società proprietaria e la società operativa sul terreno commerciale,
potrebbe essere escluso un qualsivoglia danno per la società resistente.
Più che un’eccezione di carenza di legittimazione in
senso tecnico (incorrente nel divieto di cui all’art. 345
c.p.c., ove proposta perla prima volta in appello) la doglianza sarebbe consistita in una mera difesa con la quale era stata contestata la pretesa avversaria e la sua causa petendi.
1.6. Con il sesto (motivazione insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia relativo
alla prova della sussistenza di un danno a Data Bridge
s.a.s.). le ricorrenti contestano l’applicazione fatta dal
giudice di appello del principio dallo stesso enunciato e
condiviso secondo cui un rapporto concorrenziale può
instaurarsi tra imprenditori che agiscono ad diverso livello della catena distributiva quando il risultato ultimo
incida sulla stessa categoria di consumatori.
Secondo le ricorrenti, infatti, difetterebbe la motivazione idonea a ritenere sussistente tale danno nel caso
concreto, atteso che non si capirebbe quali siano i
clienti persi dalla Data Bridge s.a.s. atteso che essa non
si occupava della commercializzazione del software
“Giava” e, quindi, non avrebbe avuto clienti da acquisire o da perdere e che non erano stati chiariti i rapporti
tra la società proprietaria e quella operativa.
1.7. Con il settimo (violazione e falsa applicazione degli
artt. 2056 e 1226 c.c.) le ricorrenti pongono il seguente
quesito di diritto:
“Se il combinato disposto degli artt. 2056 e 1226 c.c.,
osti a che si proceda alla liquidazione equitativa del
danno nel caso non si sia raggiunta la prova della sua
esistenza”. Secondo le ricorrenti, nella specie, sarebbe
mancata la prova dell’esistenza del danno in capo alla
società proprietaria del software e dunque, sarebbe stato
inapplicabile il principio di diritto invocato dal giudice
del gravame.
1.8. Con l’ottavo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e artt. 115, 116 e 210 c.p.c.) le ricorrenti
pongono il seguente quesito di diritto: “Se l’art. 2697
c.c., imponga all’attore di provare l’an ed il quantum
del danno subito per effetto della condotta del convenuto e, in assenza, di detta prova, non possa il Giudice
ordinare l’esibizione al convenuto di documenti che
possano sopperire al mancato assolvimento dell’onere
della prova da parte dell’attore; se, ancora, il Giudice
260
non possa assegnare una conseguenza negativa al destinatario dell’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., che
ha correttamente adempiuto all’ordine impartitogli dal
Giudice”.
Le ricorrenti lamentano che il Giudice abbia preteso di
ancorare la liquidazione equitativa del danno subito da
Data Bridge sas al fatturato complessivo di esse due imprese e quale sanzione alla mancata specificazione della
parte di esso riguardante la commercializzazione dei programmi contraffatti.
1.9. Con il nono ed ultimo motivo (motivazione insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia relativo alla prova della misura del danno “asseritamente” subito da Data Bridge s.a.s.). le ricorrenti
lamentano che la quantificazione del danno sia avvenuta, senza alcun riferimento ulteriore, facendo riferimento al 30% del fatturato globale di esse e senza imputazione alla parte che aveva l’onere di provare tali circostanze di fatto.
(omissis)
4.4. Il quarto motivo non merita sorte migliore dei precedenti.
Infatti, il giudice di appello ha ampiamente motivato in
ordine alla natura della contraffazione e tale ragionamento è sufficiente a fondare l’affermata responsabilità
del contraffattore, alla luce dei principi già espressi da
questa Corte, proprio con la sentenza richiamata (Sez.
1, Sentenza n. 581 del 2007), ove (in parte motiva) si è
affermato che: “la protezione del diritto d’autore riguardante programmi per elaboratori (il c.d. software, che
rappresenta la sostanza creativa dei programmi informatici), al pari di quello riguardante qualsiasi altra opera,
postula il requisito dell’originalità. Si pone dunque anche per essi la necessità di stabilire se l’opera (ossia il
programma) sia o meno frutto di un’elaborazione creativa originale rispetto ad opere precedenti, ma con due
importanti precisazioni: che la creatività e l’originalità
sussistono anche qualora l’opera sia composta da idee e
nozioni semplici, comprese nel patrimonio intellettuale
di persone aventi esperienza nella materia propria dell’opera stessa, purché formulate ed organizzate in modo
personale ed autonomo rispetto alle precedenti; e che la
consistenza in concreto di tale autonomo apporto forma
oggetto di una valutazione destinata a risolversi in un
giudizio di fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità soltanto per eventuali vizi di motivazione (si vedano tra le altre, in argomento, Cass. 27-10-2005, n.
20925, e Cass. 2-12-1993, n. 11953).” Nel caso esaminato, la Corte territoriale, ha individuato, sulla scorta
di diverse Ctu, l’ubi consistam del programma “Giava”,
predisposto per le agenzie di viaggio e composto da una
sezione contabile (per la registrazione e la gestione della
contabilità) e da una sezione operativa (per la registrazione e vendita della biglietteria), valutandolo come
originale e suscettivo di tutela, sia con riferimento alla
funzionalità sia con riguardo al punto strutturale ed algoritmico del software.
Infatti, un programma di software, consistente nell’insieme di istruzioni impartite all’elaboratore perché esegua le operazioni che permettono di conseguire deter-
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Diritto d’autore
minati risultati, quand’anche si limiti alla organizzazione e gestioni di qualsiasi attività di carattere tecnico,
amministrativo o contabile, comporta il conseguimento
delle relative utilità per il suo acquirente ed utilizzatore
che possono essere valutate come originali, in quanto
mai prima ottenute da altri. Esso, quindi, consta di un
ambito essenziale di funzioni che trovano tutela, finanche penale, quando del prodotto originale sia replicata
una parte funzionalmente autonoma e costituente, comunque, “il nucleo centrale dell’opera protetta” (Cass.
penale, Sez. III, Sentenza n. 8011 del 2012).
Il giudizio dato dalla Corte territoriale, in conformità
dei menzionati principi, forma oggetto di una valutazione che si risolve in un giudizio di fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità soltanto per eventuali vizi
di motivazione e non certo per i pretesi vizi di legittimità. Vizi che, come già detto, non sussistono perché la
valutazione è stata espressa dal giudice del merito, sulla
scorta di una Ctu che ha permesso l’accertamento della
intercambiabilità dei programmi comparati (nonostante
le modifiche e le migliorie, valutate come marginali dai
giudici di appello) proprio in riferimento al nocciolo o
cuore o struttura di base del prodotto, elaborato dalla
società resistente. Nessuna contraddittorietà in tale giudizio e nessuna insufficienza nella relativa motivazione,
atteso che le modifiche o le migliorie sono state valutate (e non già ignorate) ma ritenute compatibili pienamente con la contraffazione, ove si faccia riferimento
alla struttura essenziale del software “ Giava”.
(omissis).
IL COMMENTO
di Dario Mastrelia
La Suprema Corte ha introdotto di recente importanti novità nell’alveo della tutela autorale del software. In particolare, per valutare l’intercambiabilità e la contraffazione di un programma per elaboratore, è stato utilizzato il criterio del cuore (o della struttura di base) del software. Alla luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali si può notare che l’ordinamento si è mostrato molto sensibile
verso i titolari di un software originario e poco indulgente verso gli sviluppatori di software derivati
“poco originali”. Il corollario di quanto precede è un nuovo scenario giuridico: il criterio del cuore
del software sembra aver introdotto una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito della
tutela autorale dei programmi per elaboratore. D’ora in poi, per sviluppare un software derivato sarà necessario modificare e migliorare la struttura di base di un software già esistente in maniera significativa (e originale) e non minima o marginale. Viceversa, la commercializzazione o la produzione (non autorizzata) di un programma per elaboratore con modifiche minime o marginali rispetto
ad un software originario può, con molta probabilità, essere ritenuta contraffazione e/o plagio di
un software già esistente. Inoltre, vi è da notare che l’adozione del nuovo criterio del cuore del
software avrà dei risvolti anche nel mercato. La relazione osmotica diritto/mercato (o mercato/diritto) implica che alle novità giuridiche (positive o negative) seguono effetti (positivi o negativi) anche
nel settore economico. Prevedere l’andamento del mercato nel settore del software (a seguito delle dinamiche evolutive giurisprudenziali) è molto difficile. Tuttavia è possibile sostenere che un
orientamento giurisprudenziale “protettivo” non sempre si traduce in una dinamica di mercato negativa ed anzi nel settore di cui trattasi, paradossalmente, è possibile sostenere il contrario. È possibile infatti che l’ampia tutela accordata ai titolari di un software generi esternalità positive (e si
traduca in uno stimolo per l’innovazione) e benefici per il mercato.
La tutela del software: dal software “in
cerca (di diritti) d’autore” alla brevettabilità
del software
Agli inizi degli anni ’80, i giudici di merito,
chiamati a dirimere le prime controversie sul plagio/contraffazione del software, non ritennero applicabile la normativa del diritto d’autore ai pro-
grammi per elaboratore e scelsero di tutelare i titolari di software ricorrendo alla fattispecie codicistica degli atti di concorrenza sleale (in particolare si
fece ricorso all’ipotesi di imitazione servile descritta al numero 1 dell’art. 2598 c.c.) (1).
Dal canto suo la dottrina, al contrario di quanto
accadeva nelle sedi di giustizia, aveva già previsto,
(1) La Pretura di Torino nel 1982 non accolse un’istanza di
tutela autorale del software e ritenne non applicabile al software la normativa del diritto d’autore. Tuttavia in tale pronun-
cia il giudice di merito ravvisò che la riproduzione dei videogiochi prodotti da un concorrente con immagini cosi simili da poter essere confuse da altri utenti, integrasse gli estremi della
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con approccio lungimirante, che il software potesse
(e dovesse) essere tutelato con la normativa autorale ed anche con la normativa brevettuale (2).
Oggi, com’è noto, il (titolare del) software è tutelato dalla normativa civilistica (in particolare
dall’art. 2598 c.c.), dalla normativa autorale (3) e
dalla normativa brevettuale (4) (tuttavia è necessario evidenziare che sono brevettabili solo i software
che producono un effetto tecnico (5) e quelli preposti al funzionamento di apparati industriali).
Inoltre, alla disciplina civilistica è stata aggiunta
anche quella penale (6).
Per valutare a più ampio raggio i profili evolutivi
della tutela del software nel nostro ordinamento, è
interessante una breve parentesi alle differenze di
tutela fra software protetto dal diritto d’autore e
software brevettato (7). Il distinguo fra i due istituti non si limita alla (diversa) durata temporale del
diritto concesso (8) ma si estende anche al grado
di protezione accordato.
concorrenza sleale per imitazione servile. Cfr. Pret. Torino
1982, 25 maggio 1982, in Giur. dir. ind. 1982, 539 ss. La vexata
quaestio sull’applicabilità della normativa sul diritto d’autore ai
programmi per elaboratore è stata superata definitivamente
con il D.Lgs. 29 dicembre 1992, n. 518 che ha modificato la
legge sul diritto d’autore.
(2) Cfr. Ghidini, I programmi per computer fra brevetto e diritti d’autore, in Giur. comm., 1984, fasc. 2, 25; Ristuccia - Zeno
Zenchovic, Il software nella dottrina, nella giurisprudenza e nel
D.lgs. 518/92, Padova, 1993; De Sanctis, I soggetti del diritto
d’autore, Milano, 2000.
(3) Il diritto d’autore si acquista a titolo originario per il solo
fatto della creazione dell’opera dell’ingegno senza che siano richieste ulteriori atti o formalità (quali ad esempio la pubblicazione o la registrazione). Il software può essere diviso in due
categorie: il software di base (ossia quei software che hanno
lo scopo di rendere operativo il computer - come iOS, Windows, Linux -) e il software applicativo (è un programma che
si occupa di svolgere specifiche funzioni - ad esempio i programmi audio, grafica e scrittura -). Il diritto d’autore, quindi,
protegge i programmi per elaboratore in qualsiasi forma
espressi, purché originali (e quindi frutto del lavoro intellettuale
dell’autore). La protezione autorale è relativa sia al programma
espresso in forma sorgente sia alle interfacce con l’utente (insieme di immagini) e ai relativi output (suoni, parole o immagini: ad esempio nei videogiochi).
(4) Fino a qualche tempo fa la giurisprudenza riteneva che i
programmi per elaboratore non potevano essere considerati
invenzioni poiché ritenuti privi di alcuni requisiti di brevettabilità. In particolare, il software era valutato alla stregua di un prodotto di pura attività mentale, configurabile pertanto come un
algoritmo matematico (e quindi un’attività astratta) privo di applicabilità concreta ed era ritenuto non brevettabile in quanto
carente del requisito della materialità (invero un requisito di
brevettabilità improprio) e dell’industrialità. Tale interpretazione
(elaborata nel caso americano Gottshalk-Benson) fu modificata in seguito all’elaborazione di nuove teorie (proposte dalla
dottrina e accolte anche dalla giurisprudenza) in cui fu dimostrato che qualora il software fosse capace di realizzare determinate funzioni (ovvero realizzare un effetto tecnico) o qualora
un software fosse capace di realizzare un processo industriale
allora non vi era ragione alcuna di escluderlo dalla brevettabilità. Si riuscì, quindi, a cambiare orientamento rispetto all’interpretazione del caso Brenson e fra le tante ragioni a sostegno
della brevettabilità del software quella di maggiore evidenza
fece leva, in particolare, sul fatto che l’algoritmo che sta alla
base del software non è soltanto funzionale a risolvere un problema matematico, ma spesso (il software) risolve anche un
problema d’altro tipo (es. una funzione del pc o un effetto interattivo con il pc). Anche autorevoli opinioni della dottrina italiana (su tutti Floridia e Ghidini) hanno sostenuto da molto tempo
la brevettabilità del software. Cfr. ex plurimis, Floridia, La brevettabilità del software in Italia e in Europa, in questa Rivista,
2004, 421 ss.; Borruso La tutela giuridica del software. Diritto
d’autore e brevettabilità, Milano 1999, 11 ss. Per ulteriori dettagli sul caso Benson cfr. Fumagalli, La tutela del software nell’unione europea, Nyberg, Milano, 2005, 92; Russo-Scavizzi, Ma-
nuale di diritto comunitario dell’informatica, Milano, 2010, 104
ss.;
(5) Il software può essere brevettato solo nel caso in cui vi
sia un effetto tecnico. Allo stato attuale, quindi, mentre tutti i
programmi per elaboratore risultano tutelabili dal diritto d’autore, non tutti i programmi risultano brevettabili. La definizione
di “effetto tecnico” non è facile né univoca. In linea di massima si ritiene che sussiste un effetto tecnico quando il programma consente di svolgere una funzione ulteriore rispetto
alla normale interazione con la macchina. In particolare quindi
risulta brevettabile un programma per elaboratore, superando
l’obiezione della (tradizionale) non brevettabilità del software in
quanto tale, quando l’effetto tecnico dell’interazione del software con la macchina amplia e innova le funzionalità di quest’ultima. In altre parole, l’effetto tecnico necessario per ottenere un brevetto sul software deve andare oltre gli usuali effetti risultanti dall’esecuzione di un programma per computer:
ad. esempio una funzione particolare e innovativa dell’interazione hardware/software, un effetto interattivo del pc, ecc.
(6) La contraffazione del software, cosi come l’utilizzo di un
software senza licenza, può costituire specifico reato penalmente rilevante. La tutela penale è stata aggiunta a quella civile soprattutto per contrastare il fenomeno della dilagante pirateria informatica. Fra le sentenze penali merita particolare attenzione un precedente caso in cui la suprema Corte ha utilizzato il criterio del nucleo centrale del software (invero molto simile al criterio del cuore del software della massima in rassegna) per sanzionare l’abusiva duplicazione di parte di un software. In tale pronuncia gli Ermellini hanno sostenuto che “è
configurabile il reato di cui all’art. 171 bis l. n. 633 del 1941 in
materia di diritto d’autore, anche nell’ipotesi di abusiva duplicazione di parte di un programma, purché dotata di una propria
autonomia funzionale e, comunque, costituente il nucleo centrale e caratterizzante del programma originale. L’identità delle “code - line” ed il fatto che possano essere lette da due programmi
distinti dimostra che il secondo software” è, almeno in parte, copia del primo” (Cass. Pen., Sez. III, 27 febbraio 2002, n.
15509).
(7) Gli uffici preposti al rilascio delle privative (il riferimento
in larga parte è all’USPTO) hanno avuto un atteggiamento ondivago nel rilascio di brevetti sul software. Nei primi anni di
creazione dei software gli uffici erano restii a concedere i brevetti (anni 1960-1980). In un secondo momento, invece, gli uffici brevettuali sono stati più indulgenti nel rilascio di brevetti
(1980-2000). Più di recente (dal 2000 in poi) si è assistito ad
un approccio molto più draconiano rispetto al ventennio precedente. Pertanto, probabilmente (e in via generale), i brevetti
sul software rilasciati negli ultimi anni sono caratterizzati da un
inventive step maggiore rispetto ai brevetti sul software rilasciati qualche tempo addietro. Sul tema della tutela civilistica
dei software, cfr. anche Dragotti, Software, Brevetti e Copyright: le recenti esperienze statunitensi, in Riv. dir. ind., 1994, I,
539-561.
(8) Una prima differenza fra i due tipi di tutela attiene al
contemperamento tra la pubblica utilità a conoscere il bene
oggetto di tutela (al fine di favorire il progresso tecnico) e l’esclusiva in capo al suo inventore: nel sistema del copyright
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Giurisprudenza
Diritto d’autore
Fino a qualche tempo fa si riteneva che sotto l’egida del diritto d’autore fosse tutelata essenzialmente la forma espressiva del programma per elaboratore, tuttavia, con l’adozione del criterio del
cuore del software, la tutela autorale è stata ampliata fino a proteggere (anche) la struttura di base
del programma per elaboratore.
La normativa brevettuale, invece, tutela a trecentosessanta gradi il (titolare del) software e la
sua protezione si estende anche nei confronti di
chi sviluppa programmi “simili” (e non corrisponde
le dovute royalties)facendo uso di un software brevettato (9). In particolare, il diritto dei brevetti tutela il (titolare del) software da qualsiasi modifica,
miglioria e implementazione del software brevettato (10). Infatti il brevetto (sul software) garantisce
tutela al contenuto dell’idea inventiva complessivamente considerata e ciò implica che protegge sia
la forma espressiva, sia il software inteso come
nuova idea, sia la sequenza logica delle fasi eseguite
da un software (siano esse espresse in forma logica
o come algoritmo). Pertanto produrre e commercializzare (senza il consenso del titolare) un software che copia in qualsiasi modo ed anche solo in
parte una o più rivendicazioni del software brevettato costituisce contraffazione del brevetto.
Il diritto d’autore, come accennato, garantisce
una protezione del software diversa rispetto a
quella brevettuale, non si tratta di una protezione
“piena” ed è quindi possibile che il titolare di un
software debba tollerare una “copiatura parziale” (11) della sua opera. Tuttavia le recenti (ed
importanti) novità introdotte dalla giurisprudenza
nell’alveo della tutela autorale del software, in
particolare l’adozione del criterio del cuore del
software, attribuiscono una maggiore protezione al
titolare di un software già esistente. Infatti, alla
luce dei recenti orientamenti giurisprudenziali,
non è più sufficiente apportare minime modifiche
alla forma espressiva (12) di un software già esistente (e quindi apportare minime modifiche al
codice sorgente) per evitare di incorrere in contraffazione. D’ora in poi, per sviluppare un software derivato sarà necessario modificare e migliorare la struttura di base di un software già esistente in maniera significativa (e originale) e non minima o marginale. In caso contrario la probabilità
di incorrere in contraffazione di un software originario sarà molto alta.
A corollario di quanto precede si può sostenere
che il criterio del cuore del software sembra aver
introdotto una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito della tutela (autorale) del software. Oggi, superata la tradizionale concezione della tutela autorale collegata solo alla forma espressiva del software, anche il diritto d’autore garantisce
una protezione efficace al titolare del software.
questo rapporto è più favorevole all’autore, in quanto il software è generalmente distribuito sotto forma di codice non decifrabile dall’utilizzatore; nel sistema brevettuale, tale rapporto
si dimostra maggiormente contemperato dato che per la concessione del brevetto è necessaria una descrizione chiara ed
esaustiva dell’invenzione che, essendo pubblicamente consultabile, entrerà a far parte del patrimonio scientifico della collettività. Difatti la disciplina del diritto d’autore richiede che il programma sia dotato di originalità (nel senso che possa essere
considerato come creazione intellettuale dell’autore), tuttavia
tale requisito di originalità, previsto dalla Legge sul diritto d’autore, si differenzia notevolmente da quello prescritto dalla disciplina brevettuale (ex art. 46, D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30,
c.p.i.). Nella Legge sul diritto d’autore, infatti, non è richiesto
che l’opera superi uno step inventivo, e nemmeno che l’oggetto della tutela sia nuovo in senso assoluto. In alcune precedenti pronunce di legittimità - in parziale contrasto con la sentenza
in commento - è stato sostenuto che un opera si può ritenere
nuova qualora sussista “un atto creativo, seppur minimo, suscettibile di estrinsecazione nel mondo esteriore; con la conseguenza che la creatività non può essere esclusa soltanto perché l’opera consista in idee e nozioni semplici, comprese nel
patrimonio intellettuale di persone aventi esperienza nella materia” (Cass., Sez. I, 12 marzo 2004).
(9) Di recente la Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso
Alice Corp - Vs - CLS Bank International si è pronunciata a sfavore dell’ammissibilità dei brevetti software quando concernono idee astratte. Nella fattispecie, la Suprema Corte americana
ha giudicato non validi per mancanza di requisiti dei brevettabilità una serie di brevetti sul software che rivendicavano un
metodo di gestione finanziaria del rischio.
(10) In caso di modifica, miglioria o implementazione create
da un secondo sviluppatore, costui non potrà sottrarsi dal corrispondere le (dovute) royalties al titolare del brevetto del software sulla cui base lo sviluppatore ha creato il suo software
derivato. Inoltre per non incorrere in plagio/contraffazione di
un software brevettato bisognerà utilizzare una tecnologia
(davvero) molto diversa rispetto all’idea già brevettata. Il c.d.
step inventivo, necessario per ottenere un brevetto, rappresenta quindi un “gradino abbastanza alto” per l’uso della tecnologia. In altre parole, un brevetto sul software protegge in maniera molto ampia il titolare del software dall’uso non autorizzato del software o da contraffazioni.
(11) Cfr. Trib. Bologna 17 gennaio 2006, in Dir. autore,
2007, 2, 238, con nota di Mari: “La creatività nel settore del
software va intesa come autonomo sforzo creativo posto in essere da parte dell’autore, in modo tale che si possa distinguere
la detta opera da ogni altra precedente. Più l’apporto creativo
si riduce rispetto alle opere precedenti, meno la sua funzione
coincide con la forma espressiva e di più con quella della semplice divulgazione, non proteggibile nel campo del diritto di
autore”.
(12) Fino a qualche tempo fa invece, si riteneva che la tutela del software fosse basata sulla forma espressiva di un programma e che pertanto il (titolare del) software fosse tutelato
alla stregua di un’opera letteraria. Nel precedente scenario
non era rilevante il fatto che un software derivato fosse in grado di eseguire le stesse funzioni e di seguire le stesse fasi di
un precedente software.
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263
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Diritto d’autore
Il criterio del cuore del software: una
maggior protezione al titolare del software
originale e una minore indulgenza nei
confronti degli sviluppatori di “software
poco originali”
da originalità - seppur minima -) sarà necessario
che esso sia originale, personale e autonomo rispetto alla struttura di base di un software già esistente. In particolare, per non incorrere in contraffazione sarà necessario che il cuore di un software derivato sia diverso rispetto al cuore del software originario e più nel dettaglio che il software
derivato si limiti ad usare elementi secondari e
non essenziali alla struttura di base di un software
originario.
I recenti orientamenti della Suprema Corte sulla tutela autorale del software hanno attribuito
una protezione più ampia ai titolari di un software
originario e conseguenzialmente hanno ristretto il
diritto di elaborazione dei software contraddistinti
da scarsa originalità. Nel bilanciamento dei contrapposti diritti, diritto di elaborazione (da un lato) e diritto di tutela del software originario (dall’altro), prevale quest’ultimo. Con molta probabilità, nell’effettuare tale valutazione, è stato tenuto
conto del fatto che lo sviluppo di un software
nuovo ed originale (sviluppato partendo da zero)
è frutto di ingenti investimenti - anche in termini
di tempo e lavoro - mentre la copia, la riproduzione o la modifica “poco originale e scarsamente innovativa” di un software si può realizzare anche
con pochi minuti di lavoro e con pochi investimenti.
L’adozione del criterio del cuore del software ha
introdotto quindi importanti novità nel nostro ordinamento. In particolare, ha segnato il definitivo
superamento sia del criterio basato sulle percentuali di copiatura del software (13) (che a dire il vero
risultava anacronistico e poco funzionale alle esigenze di reale protezione del titolare di un software
originario) sia del precedente orientamento giurisprudenziale (di legittimità) che identificava l’adattamento e la trasformazione di un programma alla
stregua di plagio parziale (14).
La creazione di software derivati con varianti
minime o marginali rispetto al cuore di un software originario non è più interpretata come elaborazione ma come contraffazione. Affinché un
software derivato possa qualificarsi opera creativa (15) (e quindi opera autonoma contraddistinta
Nella fattispecie in rassegna i Giudici del Supremo Collegio sono stati interpellati per risolvere
una controversia attinente alla valutazione della
contraffazione di un programma per elaboratore. In
particolare, la contraffazione di un software già esistente è stata valutata comparando il livello di intercambiabilità con altri software e confrontando
la loro struttura di base.
La questione è iniziata con l’azione di contraffazione richiesta da una società titolare di un programma denominato “Giava” nei confronti di un
suo ex dipendente che aveva commercializzato due
software (Avto e Vacanze) molto simili al software
Giava (16).
La società titolare del software “Giava” ritenne
che i programmi per elaboratore commercializzati
dal suo ex dipendente fossero talmente simili al
proprio software da costituirne contraffazione. Per
tali ragioni citò il suo ex dipendente innanzi al
Tribunale di Milano in qualità di ditta individuale
(per la commercializzazione del programma “Avto”) e in qualità di titolare di una S.r.l. (per la
commercializzazione del programma denominato
“Vacanze”). In particolare, l’attrice chiese al Tribunale ambrosiano l’accertamento della contraffazione del programma “Giava”, l’accertamento dell’attività di concorrenza sleale svolta ai suoi danni e la
(13) Trib. Milano 20 dicembre 1993: “Sussiste plagio di
software nel caso in cui le uguaglianze dei ‘files’ giungano sino alla percentuale del 95%, i titoli di libreria sino al 33% e le
procedure di comando sino al 27%. Anche uguaglianze nella
misura del 70%, pur mostrando maggiori differenziazioni rispetto all’ipotesi precedente, non elidono l’evidenza dell’originaria parziale sovrapponibilità dei programmi”.
(14) Cass., Sez. I, 13 dicembre 1999, n. 13937: “Configura
l’ipotesi di plagio parziale di software, di cui all’art. 64 bis l.d.a.
l’adattamento e la trasformazione di un programma al fine della sua utilizzazione nella versione più aggiornata di un elaboratore”.
(15) La protezione del diritto d’autore postula il requisito
dell’originalità ed è pertanto necessario stabilire se l’opera (e
quindi anche un software) sia frutto di un elaborazione creati-
va originale rispetto alle opere precedenti. In una precedente
decisione la Cassazione ha precisato che “la creatività e l’originalità sussistono anche qualora l’opera sia composta da idee e
nozioni semplici comprese nel patrimonio intellettuale delle
persone esperte della materia a patto che tali idee o nozioni
siano formulate in modo personale ed autonomo (condizione
queste imprescindibili per la sussistenza del requisito della novità e originalità del software)”, Cass., Sez. I, sentenza 12 gennaio 2007, n. 581, in Foro it., 11, I, 2007.
(16) Il software Giava consente al titolare dell’agenzia di
viaggio di gestire con più facilità le attività professionali di
agenzia. In particolare, tale software predisposto per agenzie
di viaggio, è strutturato in due sezioni, una contabile e una
funzionale alla vendita e alla registrazione di biglietti da viaggio.
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Il caso in rassegna
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Diritto d’autore
condanna del contraffattore al risarcimento dei
danni.
Il convenuto si costituì in giudizio e chiese il rigetto di tutte le domande attoree sostenendo che i
propri software (Avto e Vacanze) fossero contraddistinti da uno sviluppo migliorativo rispetto al
software della società attrice (Giava) e che quindi
fosse lecito commercializzare software derivati migliorativi (17).
Il Tribunale di Milano, nel giudizio di merito,
basandosi sulle analisi tecniche delle CTU, ha ritenuto che i software commercializzati dal convenuto
costituissero contraffazione del software Giava e
che la condotta dell’ex dipendente integrasse gli
estremi della concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3,
c.c.
La sentenza fu impugnata innanzi la Corte
d’Appello di Milano, ma l’esito fu pressoché identico (vi fu invero una riduzione dell’entità del
danno riconosciuto dal giudice di prime cure e il
risarcimento fu ridotto da € 75.000 a € 40.000).
Anche in sede d’appello è stato rilevato che “le
modifiche e le migliorie” dei software Avto e Vacanze fossero soltanto marginali e non sostanziali
e che pertanto le censure mosse dall’appellante
(eccetto l’entità del risarcimento del danno) fossero infondate.
Successivamente il convenuto propose ricorso
per cassazione. La Suprema Corte, sulla scia di
quanto emerso dalle perizie tecniche esperite nella
fase istruttoria del giudizio di merito della controversia, ha confermato il giudizio espresso nei due
precedenti gradi di giudizio ed ha elaborato il principio di diritto secondo il quale sussiste contraffazione del software anche nel caso in cui un programma per elaboratore non presenti modifiche o
migliorie sostanziali rispetto al cuore di un software
originario.
Nelle more del giudizio di merito, il convenuto
sollevò l’eccezione della presunta contitolarità del
software ex art. 10 l.d.a. e sostenne (probabilmente
per mero tuziorismo difensivo) che la sua prestazione professionale/lavorativa, svolta in costanza di
un rapporto di lavoro subordinato presso la società
attrice, avesse contribuito notevolmente alla realizzazione del software Giava.
Il giudice di merito ha ritenuto irrilevante l’eccezione di cui all’art. 10 l.d.a. ed ha (correttamente) evidenziato che la normativa applicabile ai diritti di utilizzazione economica del software creato
dal lavoratore dipendente è l’art. 12 bis l.d.a. (18).
L’eccezione della (presunta) contitolarità del software è stata sollevata anche in sede di legittimità.
In particolare innanzi la Suprema Corte il ricorrente ha ritenuto che la negata ammissione delle prove (nel giudizio di merito) tese a dimostrare il ruolo del convenuto nella creazione del software fosse
un fondato motivo di ricorso.
Invero, la norma di cui all’art. 12 bis l.d.a. prevede che, salvo diverso accordo fra le parti, il datore
di lavoro è titolare del diritto esclusivo di utilizzazione economica del programma per elaboratore
creato dal lavoratore dipendente nell’esecuzione
delle sue mansioni o su istruzioni impartite dallo
stesso datore di lavoro. L’ex dipendente, convenuto in primo grado, appellante in secondo grado e
ricorrente in cassazione, non ha mai fornito prova
di un accordo fra le parti che potesse attribuirgli la
contitolarità dei diritti del software e per tale ragione l’eccezione sollevata è stata ritenuta infondata in tutti i gradi di giudizio.
(17) Una pronuncia (invero isolata) che fa eco alla tesi sostenuta dalla convenuta fu emanata dal Tribunale di Bari non
molto tempo fa. In tale pronuncia, il Giudice del Tribunale di
Bari ha sostenuto che: “L’autore del software e, quindi, dei codici sorgenti, avendo il legittimo possesso e la disponibilità (di
fatto e giuridica) di quest’ultimi, può riutilizzarli nella maniera
ritenuta più opportuna, senza che in tale riutilizzo possa ravvisarsi alcuna indebita duplicazione, ove difetti la cessione di
ogni diritto di utilizzazione esclusiva non solo del programma
realizzato, ma anche dei suoi codici sorgenti, che normalmente restano nel patrimonio del programmatore che li crea, il
quale, allora, ben può, secondo la normativa di cui al D.lgs.
518/1992, riutilizzarli per creare altri programmi, da ciò deducendosi che il diritto d’autore, in ordine ai programmi per com-
puters non preclude a colui che carpisce l’idea posta alla base
di un software, di scrivere programmi simili, variando le procedure di sviluppo dello stesso programma” (Trib. Bari, Sez. IV,
14 marzo 2007, n. 706).
(18) Art. 12 bis l.d.a. “Salvo patto contrario, il datore di lavoro è titolare del diritto esclusivo di utilizzazione economica
del programma per elaboratore o della banca di dati creati dal
lavoratore dipendente nell’esecuzione delle sue mansioni o su
istruzioni impartite dallo stesso datore di lavoro”. La norma di
cui all’art. 12 bis l.d.a. tutela colui che ha predisposto gli investimenti necessari per la realizzazione del programma ed assume un tenore differente rispetto a quanto predisposto dall’art.
64 c.p.i. per le invenzioni dei dipendenti. A questi ultimi, in alcuni casi, è riconosciuto il diritto all’equo premio.
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Il riferimento ai diritti di utilizzazione
economica del software creato dal
lavoratore dipendente
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L’uso di un software altrui fra atti
di concorrenza sleale e diritto
alla concorrenza
Il caso in rassegna merita particolare attenzione
anche in riferimento agli atti di concorrenza sleale
(richiesti e) ritenuti sussistenti. Nel caso di specie,
il Tribunale di Milano, adito in primo grado, ha ritenuto sussistente sia la contraffazione del software
Giava, sia la concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3,
c.c., sia il risarcimento del danno.
In una delle prime pronunce sulla tutela del software (risalente agli anni ’80), invece, la Pretura di
Torino, non accordò la tutela autorale al software
ma scelse di tutelare il programma per elaboratore
applicando (solo) la norma che tutela l’imprenditore dagli atti di concorrenza sleale. In particolare,
fu ritenuta sussistente la fattispecie dell’imitazione
servile di cui al n. 1 dell’art. 2598 c.c. (19).
Dalla comparazione fra il caso deciso dalla Pretura di Torino e quello in rassegna si può notare
che sono state invocate e ritenute sussistenti diverse tipologie di atti di concorrenza sleale. In particolare, si può notare che quando era ancora dubbia
l’applicazione della tutela autorale al software si fece ricorso agli atti di concorrenza sleale per imitazione servile, invece, dal momento in cui la protezione del software è stata ricondotta nell’alveo della tutela autorale (20), la tutela ex art. 2598 c.c. è
passata dal più specifico atto di imitazione servile
(di cui al n. 1 dell’art. 2598 c.c.), al più generico
“atto non conforme alla correttezza professionale
idoneo a danneggiare l’altrui azienda” (indicato al
n. 3 dell’art. 2598 c.c) a cui però si è aggiunta la
tutela autorale. Quindi nel caso di specie il “passaggio” dall’atto di imitazione servile all’atto non
conforme alla correttezza professionale idoneo a
danneggiare l’altrui azienda non indica un affievolimento della tutela accordata al titolare del software ma, al contrario, indica una maggiore tutela
del titolare del software (è stata riconosciuta infatti
sia la tutela civile sia la tutela autorale).
Un ulteriore riflessione può essere fatta sotto il
profilo della concorrenza nel mercato e sulla libertà
di iniziativa economica privata di cui all’art. 41
Cost. Se da un lato il diritto d’accesso al mercato è
un diritto costituzionalmente garantito, dall’altro
(19) Cfr. sub, nt. 1.
(20) In particolare a seguito della novella alla legge sul diritto d’autore che ricomprese il software nelle opere protette dal
diritto d’autore.
(21) Tuttavia il bilanciamento dei contrapposti interessi in
gioco, implicano di volta in volta un’analisi specifica. Nel caso
266
va notato che l’esercizio del diritto d’accesso al
mercato (e quindi la concorrenza) deve svolgersi
secondo lealtà e correttezza (21). In altre parole, il
diritto alla libertà di iniziativa economica privata,
che nel caso di specie attiene alla libertà di accedere al mercato del software, non deve ledere l’altrui
(libertà di svolgimento dell’) attività economica
privata già esistente.
Il criterio del cuore del software, ha attribuito una
più ampia tutela al titolare di un software già esistente e ristretto il diritto di elaborazione del software, ma a ben vedere, sotto il profilo concorrenziale, l’adozione di tale criterio non è affatto configurabile come restrizione del diritto d’accesso al mercato.
Le novità introdotte dal criterio del cuore
del software
Il criterio del “cuore del software” è il frutto delle
dinamiche evolutive della tutela giurisprudenziale
del software. La Suprema Corte, sempre più sensibile alle esigenze di protezione dei titolari del software
originario e sempre meno indulgente verso gli sviluppatori di software derivati “poco originali”, ha
introdotto tale criterio per correggere i (troppo permissivi) precedenti orientamenti. Tuttavia tale criterio non è nuovo nel nostro panorama giuridico.
In passato, infatti, fu utilizzato un criterio di valutazione della contraffazione del software molto simile
al criterio del cuore del software. In particolare, per
sanzionare l’uso illecito di un software altrui fu adottato dalla sezione penale della Suprema Corte, il
criterio del nucleo centrale del software (22).
Con l’adozione del criterio del cuore del software la tutela autorale non è più limitata alla forma espressiva di un software e pertanto per creare
un software derivato non sarà più sufficiente cambiare una stringa al codice sorgente. Va da sé che
d’ora in poi i software derivati, per non essere qualificati contraffazione di un software originario, dovranno contraddistinguersi per uno step di originalità maggiore rispetto al passato.
Se fino a qualche tempo fa i requisiti di creatività e originalità del software erano difficili da individuare, oggi, utilizzando il criterio del cuore del
software è molto più facile per un tecnico del settore stabilire se un software “derivato” possa qualidi specie non è possibile invocare interessi “superiori” come il
diritto alla salute, che nel caso dei farmaci, possono giustificare la compressione (e anche l’annullamento) dei diritti di privativa di un bene immateriale.
(22) V. sub, nt. 6.
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Diritto d’autore
ficarsi come contraffazione di un primo software
(ossia riproduzione del cuore di un programma per
elaboratore già esistente) (23).
Alla luce degli ultimi orientamenti giurisprudenziali, è possibile tracciare una linea di confine, senza
pretese di esaustività, per chiarire quale sia il limite
dell’uso/non uso di un software proprietario già esistente (24): si possono ritenere lecite le attività di
analisi, studio, “decompilazione” (o reverse engeneering) di un software già esistente purché finalizzate a
creare interoperabilità con altri programmi (25) e
tutte le attività finalizzate allo studio o alla diffusione delle conoscenze informatiche con finalità non
commerciali. Al contrario, può essere sanzionata, in
quanto contraffazione di un software già esistente,
la commercializzazione di un software “derivato” poco originale o contraddistinto da modifiche marginali rispetto al cuore (o alla struttura di base) di un
software già presente nel mercato.
I profili evolutivi della tutela del software sono
giunti (progressivamente) ad accordare un’ampia tutela al titolare di un software già esistente. Fino a
qualche tempo la tutela riconosciuta ai titolari di un
software originario era molto debole e bastava apportare minime modifiche alla forma espressiva di un
software già esistente per creare un software derivato.
Nonostante i recenti orientamenti della Suprema Corte abbiano modificato gli equilibri fra dirit-
to di tutela (dei titolari) di software originari e diritto di elaborazione di software, sarebbe sbagliato
sostenere che sia “morto” il diritto di elaborazione
del software. Al contrario, invece, sembra corretto
sostenere che sia “nato” un diritto (autorale) di tutela del software più ampio ed efficace.
Una riflessione a più ampio raggio attiene agli effetti economici che possono derivare dal nuovo
orientamento giurisprudenziale. La relazione osmotica diritto/mercato (o mercato/diritto) implica che le
novità introdotte nel settore giuridico generano effetti immediati (positivi o negativi) anche in quello
economico. Ne consegue che l’ampia tutela accordata ai titolari del software rappresenta uno stimolo all’innovazione e una condizione favorevole alle nuove
iniziative economiche private connesse a idee imprenditoriali basate sullo sviluppo di nuovi software.
Nell’attuale scenario giuridico, infatti, gli imprenditori con nuove idee di “business digitale” saranno incentivati a immettere nel mercato nuovi
software proprio perché il sistema giudiziario italiano, sotto l’egida del criterio del cuore del software,
gli garantisce una protezione efficace. La garanzia
di una tutela efficace, nel settore di cui trattasi,
può essere considerato un fattore importante tanto
quanto gli altri fattori produttivi ed anzi, con molta probabilità, si può qualificare come fattore indiretto di importanza maggiore rispetto ad alcuni fattori produttivi classici (26).
Un ulteriore valutazione attiene agli effetti di
mercato a monte (ossia nel rapporto concorrenziale
(23) In altre parole, utilizzando il criterio del cuore del software un tecnico medio del settore, paragonando il cuore di un
software originario al cuore del “secondo” software, potrà valutare con molta facilità se sussiste (o meno) contraffazione di
un software originario già creato da terzi.
(24) Dal punto di vista giuridico è possibile suddividere le categorie di software in software proprietario e software libero. I
software proprietari in genere vengono offerti in licenza con delle
restrizioni, garantite dal copyright, che limitano l’uso, le modifiche, e la distribuzione del software. Quando si distribuisce al
pubblico un software proprietario, in genere si trasferisce solo il
codice binario (ossia il codice necessario per far funzionare il
software in una macchina) ma si custodisce gelosamente il codice sorgente che l’ha generato. Risalire dal codice sorgente al codice binario è praticamente impossibile. Al contrario i software liberi (definiti da Stalman copyleft) possono essere redistribuiti illimitatamente, analizzati e migliorati anche nel codice sorgente.
Cfr. F. Pisciotta, Informatica in pillole, Roma, 2014, 134.
(25) Lo sviluppo del software si compone di cinque fasi: analisi, progettazione delle funzioni, codifica, debugging, testing. Una
volta che un software è stato creato, sul software già esistente
sono ammesse le attività di studio, analisi e creazione di interoperabilità. Tuttavia vi è da notare che un isolata pronuncia di merito
ha ritenuto illecito anche lo studio e l’analisi del software già esistente. In particolare la (datata) pronuncia del Tribunale di Modena ha sostenuto che: “Ai fini dell’applicazione delle norme penali
previste dalla l. n. 633 del 1941 a tutela del ‘software’, la condotta rilevante è limitata alla duplicazione, vale a dire alla realizzazio-
ne di una copia identica (pur comprendendosi in tale identità anche eventuali variazioni introdotte al solo fine di nascondere il plagio); duplicare è infatti un termine più rigoroso che copiare o effettuare un ‘reverse engineering’ fuori dai casi e dai modi consentiti. Così come congegnata, la norma dell’art. 171 bis della l. n.
633 del 1941, trattandosi di norma penale di stretta interpretazione, esclude quindi che la copia delle specifiche funzionali concretizzi la fattispecie astratta di reato quando il programmatore sviluppi in modo diverso ed autonomo dette specifiche funzionali
creando un ‘software’ diverso per codifica e concezione, ed un’estensione interpretativa che arrivasse a comprendere nella tutela
penale anche la copia delle specifiche contrasterebbe, allo stato
della legislazione, con il principio di legalità. Pertanto, anche la
copia delle specifiche funzionali, e financo dell’osservazione, studio, analisi, prova di un programma da altri realizzati, costituisce
un illecito di natura civilistica” (Pret. Modena 15 giugno 1999).
(26) Si può sostenere che nel settore dei beni immateriali e
in particolare, nel settore del software, i tre fattori produttivi
classici (terra, capitale, lavoro) possono essere ripensati e ridiscussi. Infatti l’imprenditore di “business digitali” (qualificabile
come quarto fattore produttivo), ossia colui che dirige i primi
tre fattori, per poter “coltivare” la sua idea imprenditoriale,
non ha tanto bisogno di terra in senso fisico, quanto piuttosto
di un “terreno giuridico fertile”. Ecco quindi che il fattore giuridico è molto più importante della “terra” (fattore produttivo
classico). Pertanto il “fattore giuridico”, se non può essere
identificato come fattore di produzione, può con molta probabilità essere identificato come un input di produzione indiretto
Conclusioni
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fra imprenditori) e a valle (ossia nell’ottica dei consumatori). Come ipotizzato precedentemente, l’ampia tutela accordata al titolare del software genera,
con molta probabilità, esternalità positive a monte
e, in particolare, rappresenta uno stimolo all’innovazione. Va considerato, però, che l’attribuzione di un
ampia tutela al titolare di un software potrebbe generare anche effetti negativi a valle. Mi riferisco alla
circostanza in cui il titolare di un software, facendo
leva sulla riduzione della concorrenza a monte, adotti una politica di pricing (elevato) che limiti la diffusione dell’innovazione a valle (e cioè nel mercato).
Se l’innovazione resta ad appannaggio di una ristretta cerchia di utenti, non si crea l’effetto network (ossia la diffusione delle nuove tecnologie nel mercato)
e in tal caso la scarsa diffusione dell’innovazione rappresenterebbe un limite intrinseco all’uso stesso dell’innovazione. Tuttavia va evidenziato che l’ipotesi
appena descritta si può considerare meramente teorica in quanto è molto più probabile che, nella prassi,
un’impresa adotti una strategia di pricing idonea a far
circolare ampiamente l’innovazione nel mercato in
maniera tale da poter ricavare un maggiore profitto (27) dalla diffusione dell’innovazione (e quindi ricavare un maggior profitto da un elevato numero di
vendite di un determinato bene ad un prezzo
“equo”).
Vi è da notare infine che nel settore del software,
esistono importanti organizzazioni no-profit (come
la Free software Foundation fondata da Stallman) e
movimenti culturali di esperti informatici che sono
molto favorevoli alla creazione di software liberi (i
c.d. software open source). L’attribuzione di un’ampia tutela del software si colloca in una dimensione
diametralmente opposta rispetto alla libera circolazione delle conoscenze informatiche.
È possibile pertanto, che l’atteggiamento ondivago della giurisprudenza possa subire in futuro le influenze dei movimenti open source e adottare differenti posizioni. A tal fine è interessante notare che
nell’alveo dei beni protetti da privative la dottrina
ha già ripensato e ridiscusso l’adozione di modelli
che possano alleviare le possibili tensioni fra i titolari dei diritti di esclusiva e i terzi che chiedono di
utilizzare una privativa altrui. In particolare, in una
posizione intermedia fra libero uso e ius excludendi
alios, la dottrina americana ha proposto il modello
del “Compensatory liability regime” (28) (elaborato
sulla base dell’art. 99 della l.d.a. (29) e delle licenze
di diritto di cui all’art. 80 c.p.i.). Il modello “compensativo” prevede che qualsiasi soggetto possa utilizzare liberamente un bene altrui purché corrisponda una percentuale dei ricavi al titolare dei suoi diritti. Quindi, se (in futuro) si vorrà seguire il trend
dello sharing (30) anche nel settore della proprietà
intellettuale e del diritto d’autore, non sarà troppo
complicato trovare una soluzione ai nuovi scenari
poiché basterà “usare una lente di ingrandimento”
sul de iure condito (e in particolare osservare l’art. 99
della L. n. 633/1941 o l’art. 80 c.p.i. del D.Lgs. n.
30/2005) per elaborare, de iure condendo, nuove norme dirette in tale direzione.
Tuttavia, oggi, in campo informatico i fenomeni
di pirateria e contraffazione di software hanno raggiunto vastissime proporzioni ed è importante evidenziare che tali fenomeni soffocano le iniziative
di immettere nel mercato nuovi software. Pertanto,
l’obiettivo urgente dell’ordinamento giuridico era
quello di contrastare tali fenomeni e di creare condizioni favorevoli all’innovazione. A tal fine l’approccio draconiano nei giudizi di contraffazione e
il criterio del cuore del software rappresentano
un’isola di protezione in un mare di contraffazione.
più importante rispetto al fattore “terra”. Tant’è che uno scenario giuridico sfavorevole può frenare l’impulso imprenditoriale,
mentre, al contrario, uno scenario giuridico favorevole alla tutela dell’imprenditore può essere un incentivo a nuove iniziative imprenditoriali. Insomma, a ben vedere, sembra proprio
che un contesto giuridico che garantisca una giusta protezione
ad un imprenditore può essere indicato come un fattore di produzione indiretto, ma di grande importanza.
(27) A tal fine è interessante notare che per contrastare il fenomeno dei costi elevati di alcuni beni e servizi le attuali tendenze di mercato sono orientate alla condivisione di beni privati in
molteplici settori. Basti pensare, ai fenomeni di sharing nel settore dei trasporti (car sharing per la condivisione di beni, uber e blablacar per i servizi di noleggio con conducente) quelli nel settore
residenziale/alberghiero (frazionamento di unità immobiliare per
quanto attiene ai beni; airbnb e scambi culturali “alla pari” per
quanto attiene ai servizi) ed a quelli nel settore finanziario (i servizi di crowdfunding e prestiti fra privati). Va da sé che sarebbe logico, con un po’ di lungimiranza nelle strategie di pricing, non
orientarsi su costi elevati per la commercializzazione di un bene.
(28) Tale modello è stato proposto da J. Reichman, in “Of
Green Tulips and the legal Kudzu: Repackaging rights in subpatentable innovation”, 53 vanderbilt L. Review 1743-98
(2000). Altri autori, hanno “ribattezzato” il compensatory liability regime in modello “take and pay” (cfr. Tobias Kiene, The legal protection of Traditional knowledge in the pharmaceutical
field, Waxmann Verlag Gmbh, Munster, 2011, 182).
(29) Art. 99 l.d.a.: “All'autore di progetti di lavori di ingegneria, o di altri lavori analoghi, che costituiscano soluzioni originali di problemi tecnici, compete, oltre al diritto esclusivo di riproduzione dei piani e disegni dei progetti medesimi, il diritto
ad un equo compenso a carico di coloro che realizzino il progetto tecnico a scopo di lucro senza il suo consenso. Per esercitare il diritto al compenso l'autore deve inserire sopra il piano
o disegno una dichiarazione di riserva ed eseguire il deposito
del piano o disegno presso la Presidenza del consiglio dei ministri, secondo le norme stabilite dal regolamento. Il diritto a
compenso previsto in questo articolo dura venti anni dal giorno del deposito prescritto nel secondo comma”.
(30) V. sub, nt. 27.
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Giurisprudenza
Diritto d’autore
Titolarità del diritto all’immagine
I diritti morali d’autore
e diritti della personalità
delle persone giuridiche
Tribunale di Genova, Sez. specializzata in materia d’impresa, 20 settembre 2014 - Pres. Casanova - Rel. Veglia - Excel Photo a Tradition of Excellence S.r.l. c. Costa Crociere S.p.a.
Il diritto morale che spetta all’autore di un’opera dell’ingegno è inscindibilmente connesso alla tutela della
personalità dello stesso, essendo l’impianto della Legge del diritto d’autore incentrato sulla persona fisica
dell’autore. Pertanto deve negarsi che la persona giuridica possa essere titolare di un diritto morale d’autore.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
App. Bologna 28 febbraio 2006, in AIDA, 2007, 1152; Trib. Milano 17 marzo 1994, ivi 1994, 268.
Difforme
Non si rinvengono precedenti in termini.
Il Tribunale (omissis).
(omissis)
Occorre dunque domandarsi se la persona giuridica possa essere titolare di un diritto morale d’Autore e possa
quindi legittimamente rivendicare il risarcimento del
danno derivante dalla sua violazione essendo indiscusso
che alle società possa essere riconosciuto più in generale
il risarcimento del danno morale conseguenza di un fatto illecito altrui (in questo senso vedi Cass. civ. sez. I,
n. 25730 del 1 dicembre 2011; Cass. civ. sez. III, n.
4542 del 22 marzo 2012; Trib. Genova 17 maggio
2012).
Il diritto morale che spetta all’Autore di un’opera dell’ingegno è invece inscindibilmente connesso alla tutela
della personalità dello stesso tanto è vero che nell’ipotesi di opera collettiva, contemplata dall’art. 10 L.d.A.,
si distingue tra diritti patrimoniali e diritto morale nel
senso che i primi sono in comunione mentre il secondo
spetta individualmente a ciascun coautore che può agire
in modo autonomo per la sua difesa.
L’impianto della legge, incentrato sulla persona fisica
dell’Autore, è confermato dalle disposizioni degli artt.
23 e 24 che prevedono, in caso di morte, la possibilità
di fare valere il diritto di cui all’art. 20, senza limite di
tempo, dagli eredi, con un’unica eccezione, prevista dall’art. 142, comma 2 L.d.A. che contempla il c.d. “diritto
di pentimento” che non è trasmissibile, proprio a sottolinearne la diretta correlazione con la persona che ha
creato l’opera e che, unica, potrà decidere di ritirarla
dal commercio.
Con riferimento a quanto argomentato da parte attrice
nella propria memoria autorizzata, sinteticamente si os-
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serva che la disciplina relativa all’opera cinematografica
di cui agli artt. 44 ss. L.d.A., la cui applicazione appare
dubbia al caso di specie, ove si controverte su un contratto di appalto di servizi avente ad oggetto attività di
ripresa video - fotografica dei passeggeri imbarcati sulle
navi della flotta “Costa”, ancora una volta distingue tra
gli autori dell’opera cinematografica - autore del soggetto, della sceneggiatura, della musica ed il direttore artistico - soggetti ai quali è riconosciuta la titolarità esclusiva dell’attività creativa ed il produttore della stessa,
soggetto quest’ultimo che ben potrebbe essere una società, di persone o di capitali, alla quale, secondo il
combinato disposto degli artt. 78 ter L.d.A., 53 e 57 dell’all. 1 alla L. n. 650/1996 e 17 della L. n. 52/1996 possono essere trasferiti e/o ceduti solo i diritti di utilizzazione economica dell’opera (in questo senso si veda
Cass. Sez. I n. 16771 del 2 ottobre 2012; Cass. civ. sez.
I, n. 12086 del 17 maggio 2013).
Tale concetto è ribadito anche nell’art. 107 L.d.A. ove
è espressamente stabilito che i diritti di utilizzazione
spettanti agli autori delle opere dell’ingegno nonché i
diritti connessi aventi carattere patrimoniale possono
essere acquistati, alienati o trasmessi in tutti i modi e le
forme consentite dalla legge.
Il diritto inerente la paternità dell’opera è invece insuscettibile di trasferimento, tanto è vero che l’autore, anche dopo la cessione dei vantaggi di carattere patrimoniale, potrà opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione dell’opera creata (in questo
senso si vedano Cass. civ. sez. III, 1 marzo 1967 n. 459
e Cass. civ. sez. I 23 dicembre 1982 n. 7109).
Infine la citata Convenzione di Berna per la protezione
delle opere letterarie ed artistiche adottata originaria-
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Diritto d’autore
mente il 9 settembre 1886, successivamente completata
e quindi recepita nel diritto italiano con L. 20 giugno
1978 n. 399, revisionata il 28 settembre 1979, ha ad oggetto la tutela reciproca del copyright negli stati membri che è questione diversa rispetto a quella trattata nella presente controversia.
In particolare il richiamato art. 15, comma 2, non contempla l’attribuzione del diritto d’Autore ad una persona giuridica, ma si limita a stabilire che si ritiene pro-
duttore di un’opera cinematografica, in assenza di prova
contraria, la persona fisica o giuridica il cui nome è indicato su detta opera nei modi d’uso.
Il primo comma della norma attribuisce invece espressamente agli autori di opere letterarie ed artistiche, intesi
evidentemente come persone fisiche, la facoltà di agire
contro i contraffattori davanti ai Tribunali dei Paesi
dell’Unione.
(omissis).
IL COMMENTO
di Francesca La Rocca
La sentenza in rassegna offre all’Autore lo spunto per riflettere sulla riconoscibilità del diritto
morale d’autore in capo alle persone giuridiche, ed in particolare alle società commerciali, esaminando le disposizioni della legge e interrogandosi sulla loro ratio.
Con la sentenza, qui annotata, il Tribunale di
Genova si è interrogato sulla ammissibilità della titolarità del diritto morale d’autore in capo alle persone giuridiche, ed in particolare alle società commerciali.
I giudici hanno concluso che il diritto morale
spetta all’autore in quanto persona fisica “essendo
inscindibilmente connesso alla tutela della personalità dello stesso”, negando in tal modo che tale
diritto possa far capo a una società, alla quale possono essere attribuiti e/o ceduti solo i diritti di utilizzazione economica dell’opera.
Il principio, già affermato in giurisprudenza (1),
non è espressamente previsto da alcuna norma della
legge sul diritto d’autore (L. 22 aprile 1941, n. 633):
il capo secondo del titolo primo, dedicato ai soggetti
del diritto, parrebbe disporre all’art. 11 in senso
contrario, ma unicamente con riguardo ad opere
create e pubblicate “sotto il nome” di enti pubblici
e privati che non perseguono scopi di lucro.
Anche con riferimento a tale norma, come si dirà successivamente, è peraltro discusso se attribuisca agli enti il diritto morale sull’opera o solo quello patrimoniale.
Nella motivazione della sentenza in esame si nega che una società commerciale possa essere titola-
re di diritti morali d’autore, richiamando in primis
la norma di cui all’art. 10 l.a. la quale, in tema di
opere collettive, distingue tra i diritti patrimoniali
e i diritti morali i quali ultimi spettano individualmente a ciascun coautore dell’opera, e dunque a
persone fisiche.
La sentenza fa poi riferimento agli artt. 23 e 24
l.a. che prevedono, in caso di morte dell’autore, la
successione del suo diritto morale in capo agli eredi (2), disposizioni che non possono riferirsi alle
persone giuridiche, alle quali non si applica la disciplina successoria.
Il Tribunale da tali disposizioni deduce dunque
che l’impianto della legge è incentrato sulla persona fisica dell’autore e che pertanto il diritto morale
spetta all’autore persona fisica “essendo inscindibilmente connesso alla tutela della personalità dello
stesso”.
Da ultimo la sentenza sottolinea che, ai sensi dell’art. 107 l.a., solo i diritti di utilizzazione delle opere e i diritti connessi aventi carattere patrimoniale
possono essere acquistati, alienati o trasmessi, mentre i diritti morali sono insuscettibili di trasferimento e permangono in capo all’autore, il quale potrà
opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra
modificazione dell’opera creata, anche dopo la cessione delle facoltà di carattere patrimoniale (3).
(1) App. Bologna 28 febbraio 2006, in AIDA, 2007, 1152;
Trib. Milano 17 marzo 1994, ivi, 1994, 268.
(2) Si precisa che l’art. 23 l.a. dispone che i diritti morali dell’autore, alla morte di quest’ultimo, possono essere fatti valere
dal “coniuge, dai figli, e in loro mancanza, dai genitori, dagli
altri ascendenti, discendenti diretti, dai fratelli, sorelle e dai lo-
ro discendenti” e dunque da “stretti congiunti”, mentre l’art.
24 l.a. riconosce unicamente il diritto di pubblicare le opere
inedite agli eredi o legatari, i quali posso anche non essere
“stretti congiunti”.
(3) Dunque, anche dopo la cessione del diritto di elaborazione di cui all’art. 18 l.a.
Introduzione
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Giurisprudenza
Diritto d’autore
La negazione del diritto d’autore in capo
alle persone giuridiche
A parere di chi scrive, sebbene siano condivisibili le conclusioni del Tribunale genovese, non
sembrano del tutto convincenti le motivazioni che
hanno portato ad esse.
Dalla lettura della sentenza sembrerebbe che i giudici abbiano negato la tutela del diritto morale alla
società, in quanto diritto della personalità, di cui
non potrebbe essere titolare una persona giuridica.
Tale argomento non appare condivisibile.
Le persone giuridiche possono essere titolari di
diritti della personalità: più volte infatti è stato riconosciuto a società il diritto all’onore, alla reputazione e all’immagine. Infatti, come ha recentemente statuito la Corte di Cassazione, “la tutela civilistica del nome e dell’immagine, ai sensi degli art.
6, 7 e 10 c.c., è invocabile non solo dalle persone
fisiche, ma anche da quelle giuridiche e dai soggetti diversi dalle persone fisiche” (4).
La negazione alle persone giuridiche del diritto
morale d’autore non deve ricercarsi nella sua natura di diritto della personalità, ma più correttamente nel fatto che l’attribuzione del diritto d’autore è
correlata al concetto di creazione quale titolo di
acquisto del diritto (5).
L’atto creativo rappresenta, di regola, l’unico
modo per acquisire in via originaria il diritto morale d’autore (6).
In virtù di tale principio, espresso dall’art. 6 l.a.,
la qualità di autore si acquista con la creazione dell’opera, e pertanto deve ritenersi che titolare originario del diritto è la persona che materialmente ha
svolto l’attività intellettuale, l’attività creativa che
ha dato origine all’opera dell’ingegno.
Questo atto creativo non può, in natura, che attribuirsi alla persona fisica.
L’acquisto del diritto da parte dell’autore è sempre originario (lo dicono espressamente l’art. 2576
c.c. e l’art. 6 l.a.), mentre è sempre derivativo quello di persona diversa dall’autore, quali il datore di
lavoro, il committente e pertanto l’acquisto da parte delle persone giuridiche (salvo, volendosi, quanto disposto dall’art. 11 l.a.). Infatti, in tali casi,
(4) Cass. 11 agosto 2009, n. 18218, in Rep. Giust. civ.
Mass., 2009, 7-8; nel medesimo senso Cass. 22 giugno 1985,
n. 3769, in Resp. civ. prev., 1985, 578; Cass. 26 febbraio 1981,
n. 1185, in Giur. it., 1981, 1025.
(5) M. De Sanctis, I soggetti del diritto d’autore, Milano,
2000, 66 rileva che “l’interesse tutelato dal diritto d’autore è
quello della personalità espressa nell’opera e che questi diritti
possono essere attribuiti anche alle persone giuridiche pubbliche e private ogniqualvolta le opere rispecchino la personalità
Il Diritto industriale 3/2015
l’acquisto del diritto dipende dall’atto creativo dell’autore e suppone la sussistenza di un titolo derivativo nei suoi confronti (7).
Non potendosi dunque riconoscere ab origine il
diritto morale d’autore in capo a una persona giuridica, deve escludersi che quest’ultima possa essere
titolare di tale diritto, anche a titolo derivativo, essendo pacifico che esso è intrasmissibile e inalienabile (ex art. 107 l.a.).
Tale conclusione deve essere riferita in particolare alle persone giuridiche quali le società commerciali (oggetto della sentenza in esame), che
perseguono uno scopo di lucro.
Un’eccezione
Appare interessante, a questo punto, considerare
l’art. 11 l.a. che contiene una norma specifica che
pone delicati problemi di interpretazione.
Tale articolo detta una disciplina che, anche se
estesa al diritto morale d’autore, opera, per espressa
previsione legislativa, nei soli confronti degli enti
pubblici e degli enti privati senza scopo di lucro; e
che, in quanto eccezione alla regola generale di cui
all’art. 6 l.a. non può essere oggetto di applicazione
analogica.
Tale disposizione prevede che spetta alle amministrazioni dello Stato, province, comuni ed altri
enti pubblici il diritto d’autore sulle opere “create
e pubblicate sotto il loro nome ed a loro conto e
spese”. Il medesimo diritto è riconosciuto agli enti
privati che non perseguono scopi di lucro, alle accademie e agli enti pubblici e culturali.
Discusso, sia in giurisprudenza che in dottrina, è
se la norma debba essere letta nel senso che gli enti menzionati acquistano non solo i diritti patrimoniali, ma anche i diritti morali.
Gli autori che affermano la sussistenza del diritto
morale di tali enti ritengono che, essendo l’opera
creata e pubblicata per l’ente, è logico che quest’ultimo possa decidere, con assoluta prevalenza sulla
volontà dell’autore o degli autori, sul contenuto del
testo, sul momento opportuno per la pubblicazione,
su eventuali successive mutilazioni, anche sulla necessità di ritirare le copie dalla pubblicazione (8).
di queste e non la personalità del soggetto che materialmente
le ha redatte”.
(6) L.C. Ubertazzi - M. Ammendola, Il diritto d’autore, Torino, 1993, 13; M. De Sanctis, I soggetti del diritto d’autore, cit.,
2000, 62.
(7) G. Oppo, Creazione intellettuale, creazione industriale e
diritti di utilizzazione economica, in Riv. dir. civ., 1969, 8 ss.
(8) In senso positivo Trib. Milano 17 ottobre 1994, in AIDA,
1994, 281; M. De Sanctis, Gli enti collettivi come autori, ivi,
271
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Diritto d’autore
Altra dottrina, invece, nega l’attribuzione del diritto morale in capo a tali persone giuridiche, richiamando la regola di cui all’art. 11 l.a. del 1865
(R.D. 25 giugno 1865, n. 2358), la quale garantiva
allo Stato, alle province, ai comuni (accademie e
altre simili società scientifiche e letterarie) “il diritto esclusivo di riproduzione sulle opere pubblicate a loro spese e per loro conto”; la norma dunque
attribuiva agli enti espressamente il solo diritto patrimoniale. Pertanto, sebbene con la riforma successiva (R.D.L. 7 novembre 1925, n. 1950), così
come oggi, non si parli più di “diritto di riproduzione”, ma di “diritto d’autore”, questa corrente dottrinale afferma che non può desumersi dalla nuova
formulazione dell’articolo che i diritti di natura
morale vengano attribuiti agli enti, ritenendosi che
con l’uso del termine “diritti d’autore” il legislatore
abbia voluto indicare tutte le facoltà di carattere
patrimoniale degli autori, ma non quelle morali (9).
Un’ulteriore questione oggetto di dibattito, ma
strettamente connessa con la prima, è se i diritti di
cui all’art. 11 l.a. spettino agli enti a titolo originario o derivato.
Secondo la tesi maggiormente diffusa in dottrina
e in giurisprudenza l’art. 11 l.a. farebbe sorgere il
diritto originariamente in capo all’ente, il quale
(sebbene certamente non è creatore fisico dell’opera) ne sarebbe creatore in senso giuridico, poiché
l’opera dovrebbe considerarsi come direttamente
creata dall’ente, attraverso l’attività delle persone
fisiche in esso operanti (10). Tale argomento troverebbe fondamento nella lettera della legge, in
quanto il richiamo alla parola “creazione” significherebbe la necessità che sia l’ente a promuovere
l’opera, ossia che l’ente sia presente, tramite i suoi
organi, proprio nel momento creativo, determinandolo, dirigendolo e controllandolo, e non solo al
momento della pubblicazione (11).
Proprio per questo motivo l’ente acquisterebbe
tutti i diritti inerenti al diritto d’autore, ivi compresi quelli morali.
Diversamente, altra parte della dottrina più recente ritiene che la fattispecie di cui all’art. 11 l.a.
riguarderebbe le opere dell’ingegno create in adempimento di una prestazione di lavoro subordinato,
o un contratto di lavoro autonomo, a beneficio degli enti pubblici o privati che non perseguono scopi di lucro, ai quali il legislatore ha ritenuto opportuno assicurare, esplicitamente, l’esclusiva di sfruttamento economico delle opere.
In tale prospettiva, l’acquisto del diritto d’autore
da parte di tali enti non sarebbe originario, ma
bensì derivato e circoscritto solo ai diritti patrimoniali (essendo i diritti morali intrasmissibili) e pertanto la norma in esame non sarebbe norma eccezionale (12).
1998, 387 ss.; E. Piola Caselli, Codice del diritto d’autore: commentario della nuova Legge 22 aprile 1941-XIX n. 633: corredato dei lavori preparatori e di un indice analitico delle leggi interessanti la materia, Torino, 1943, 270 ss.; G.G. Auletta - V.
Mangini, Del Marchio. Del diritto d’autore sulle opere dell’ingegno letterarie e artistiche, Bologna, 1977; P. Greco - P. Vercellone, I diritti sulle opere dell’ingegno, 1974, Torino, 207.
(9) M. Ammendola, Il diritto acquisito dagli enti indicati dall’art. 11 l.a. sulle opere create e pubblicate sotto il loro nome e a
loro conto, in AIDA 1994, 281.
(10) E. Piola Caselli, Trattato del diritto di autore e del contratto di edizione, Torino, 1927, 251.
(11) P. Greco - P. Vercellone, I diritti sulle opere dell’ingegno,
cit., 205.
(12) M. Ammendola, Il diritto acquisito dagli enti indicati dall’art. 11 l.a. sulle opere create e pubblicate sotto il loro nome e a
loro conto, cit., 28; L.C. Ubertazzi, La legge sul diritto d’autore,
Milano, 2004, 41; L.C. Ubertazzi - M. Ammendola, Il diritto
d’autore, cit., 25.
272
Conclusione
In conclusione, dal sistema normativo appare
pacifica l’attribuzione dei diritti esclusivi di utilizzo economico dell’opera al datore di lavoro, committente e quindi anche alle persone giuridiche,
[restando però aperto il problema se il soggetto
giuridico acquista tali diritti a titolo originario o
derivativo ex art. 107 l.a.], mentre deve escludersi
la attribuzione ad essi del diritto morale, non tanto per la sua natura di diritto della personalità,
che può far capo anche ad essi, ma per l’assenza di
attività creativa quale espressione del lavoro intellettuale (art. 6 l.a.) e quindi per l’impossibilità
di qualificare l’ente come autore dell’opera (art.
20 l.a.) e titolare a titolo originario, e dovendosi
escludere inoltre (art. 107 l.a.) un acquisto a titolo derivativo.
Quanto all’art. 11 l.a., se si ritiene che tale norma comporti anche l’attribuzione all’ente del diritto morale, se ne dovrà ritenere il carattere eccezionale; se al contrario si interpreta la norma come riferita al solo diritto di pubblicazione ed utilizzazione, essa rientrerebbe nel sistema e se ne manifesterebbe la sostanziale inutilità.
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Diritto d’autore
Tutela del diritto all’immagine
Il diritto all’immagine dei
personaggi famosi
Tribunale di Roma, Sez. specializzata in materia di imprese, 17 luglio 2014, ord. - Giud. Catallozzi - Guarnaccia Francesca ed altri c. Ibla Film S.R.L. ed altri
I. La tutela del diritto all’immagine di cui all’art. 10 c.c. ed all’art. 96, L. n. 633/1941, ha per oggetto non già
unicamente l’immagine intesa nel suo mero aspetto fisico, ma anche quella intesa quale complesso di attributi e caratteri che contraddistinguono un certo soggetto, quali peculiarità, prerogative o caratteristiche evocative dello stesso, come la voce e il timbro vocale, la firma, l’utilizzazione dell’immagine di un sosia o di una
“maschera scenica” (cioè, attraverso l’interpretazione di un attore), l’impiego del disegno caricaturale, nonché la riproduzione di accessori tipici del look caratterizzanti il personaggio celebre.
II. L’interesse alla conoscenza della vita e dell’attività artistica di un personaggio celebre permette alla notorietà del personaggio cui è connesso di esplicare i suoi effetti scriminanti sulla riproduzione non autorizzata
dell’immagine della persona nota, con conseguente compressione del diritto alla propria immagine in virtù
del (ritenuto) superiore interesse pubblico all’informazione e delimitazione del c.d. “right of publicity” ossia
del diritto della persona celebre allo sfruttamento economico dei simboli significativi (in primis, nome e immagine) della propria notorietà in relazione al notevole richiamo per il pubblico dei consumatori che gli stessi
presentano e al conseguente loro valore pubblicitario. (In applicazione del principio espresso dalla massima il
Tribunale ha ritenuto che la divulgazione dell’immagine del maestro Modugno, laddove non arrechi pregiudizio all’onore o al decoro della persona ritratta, non vìola il diritto all’immagine di cui agli artt. 10 c.c. e 96, L.
n. 633/1941).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Pret. Roma 18 aprile 1984, in Giur. it., 1985, I, 2; Pret. Roma 15 novembre1986, in Giur mer., 1986, 587; Cass. 12
marzo 1997, n. 2223; Trib. Roma 12 maggio 1993; Cass. 27 maggio 1975, n. 2129; Trib. Roma 4 gennaio 2010.
Difforme
Pret. Roma 6 luglio 1987, in Dir. informaz., 1987, 1039; Pret. Milano 19 dicembre 1989, in Foro it., 1991, I, 2863;
Trib. Milano 17 novembre 1994, in Dir. ind., 1995, 813; Cass., Sez. I, 25 marzo 2003, n. 4366; Trib. Roma 27 aprile
2012, n. 8521, in Giur mer., 2013, 2085.
Il Tribunale (omissis)
- Guarnaccia Francesca, in proprio e quale procuratrice
di Modugno Marco e Modugno Massimo, e Modugno
Marcello hanno chiesto inibirsi alla Ibla Film s.r.l., la
Nuova Teatro s.r.l., Fiorello Giuseppe e Moroni Vittorio ogni futura rappresentazione dell’opera teatrale
“Penso che un sogno così”, utilizzazione del nome, dell’immagine e del marchio e degli altri segni distintivi e
dei fatti attinenti alla sfera personale di D.M. e della
sua famiglia, utilizzazione, comunicazione e/o diffusione
del materiale pubblicitario dell’opera, con ordine di distruzione del materiale già utilizzato, e ogni forma di riproduzione e/o registrazione dell’opera, con fissazione di
una penale per ogni violazione o ritardo nell’esecuzione
del provvedimento e pubblicazione dei medesimo, nonché la loro condanna al risarcimento del danni, patrimoniali e non, da liquidarsi in separato giudizio;
- con il medesimo atto hanno domandato l’emissione in
via d’urgenza dei provvedimenti richiesti, con la sola
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eccezione di quello avente ad oggetto la condanna al risarcimento dei danni;
- a sostegno della domanda hanno allegato che: a) erano eredi di Domenico Modugno, celebre in tutto il
mondo per molte delle sue opere, e titolari dei diritti di
sfruttamento economico del noto repertorio, del nome
e dell’immagine dell’artista, nonché, limitatamente alla
persona dell’attrice Guarnaccia, anche del marchio “lo
Domenico Modugno”; b) la Ibla Film s.r.l. e la Nuovo
teatro s.r.l. avevano, di recente, prodotto la realizzazione dello spettacolo teatrale dal titolo “Penso che sia così”, sceneggiato da Moroni Vittorio e interpretato da
Fiorello Giuseppe, in cui veniva utilizzata, senza toro
autorizzazione, il nome e l’immagine di Domenico Modugno e il menzionato marchio “Io Domenico Modugno”, nonché una serie di segni identificativi e distintivi dei personaggio; c) l’opera conteneva anche fatti attinenti alla vita privata e intima di Domenico Modugno
e dei suoi familiari, non attinenti, né strettamente connessi alla vita pubblica e artistica del personaggio; d)
l’uso non autorizzato dei nome e dell’immagine dell’arti-
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sta e del marchio era effettuato anche in occasione delle attività di promozione dell’opera, incluso il rilascio di
interviste da parte del convenuto Fiorello; e) le modalità di sfruttamento del nome, dell’immagine e dei segni
distintivi di Domenico Modugno, il titolo dell’opera, il
contenuto delle richiamate interviste presentavano carattere confusorio, in quanto idonee a generare nel pubblico la convinzione che l’opera riguardasse la vita dell’artista e che l’interprete Fiorello fosse l’artista medesimo; f) inoltre, l’opera, in quanto conteneva citazioni dirette, recitazione dei testi delle composizioni musicali
del maestro, nomi, titoli di brani e segni distintivi che,
trasferiti tout court nella sua trama, risultavano essere
priva dei caratteri richiesti dall’art. 1, L. n. 633 del
1941, per la sua tutelabilità quale opera dell’ingegno; g)
nel corso della rappresentazione venivano raffigurate
immagini e fotografie di Domenico Modugno e veniva
utilizzata la giacca che quest’ultimo indossò durante l’esibizione ai festival di Sanremo del 1958 e che caratterizzò da allora la figura dell’artista nella memoria collettiva; h) la condotta osservata dai convenuti presentava
carattere illecito, ai sensi degli artt. 2043 e 10 c.c. e 93
e 96, L. n. 633 del 1941, non ricorrendo la scriminante
di cui all’art. 97 di tale legge in considerazione dello
scopo commerciale dell’iniziativa, e degli artt. 2598 c.c.
e 100 e 102, L. n. 633 del 1941 per concorrenza sleale
realizzata mediante riproduzione su altre opere del titolo
di un brano o di una parte chiaramente evocativa dello
stesso; i) sussisteva, infine, il periculum in mora, in relazione al pericolo della definitiva compromissione dei diritti vantati e del compimento da parte di terzi di atti
emulativi, oltre che all’attualità del fatto lesivo, avuto
riguardo alla non interrotta messa in scena dell’opera;
- con provvedimento reso in data 24 aprile 2014 inaudita altera parte, questo giudice ha inibito ai resistenti
ogni futura rappresentazione dell’opera e ogni forma di
utilizzazione economica della stessa, nonché ogni forma
di utilizzazione del nome, dell’immagine e del marchio
indicati nell’atto di citazione;
- si è costituita nel procedimento cautelare la Ibla Film
s.r.l. chiedendo la revoca di tale provvedimento per insussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 669-sexies
c.p.c. e il rigetto del ricorso, riportandosi, sotto quest’ultimo profilo, alle difese spiegate dai convenuti Fiorello
e Moroni;
- si è costituita la Nuovo Teatro s.r.l. chiedendo anch’essa la revoca del provvedimento per insussistenza del presupposti richiesti dall’art. 669-sexies c.p.c. e il rigetto del
ricorso ed evidenziando la sua estraneità alla realizzazione
dell’opera, atteso che si era limitata esclusivamente alla
produzione e commercializzazione della stessa senza alcun
contributo alla formazione del suo contenuto;
- si è costituito Fiorello Giuseppe il quale ha svolto difese sostanzialmente identiche a quella della Ibla Film
s.r.l., quanto alle eccezioni di rito, e ha concluso per il
rigetto del ricorso, contestando i profili di illiceità allegati dagli attori;
- infine, si è costituito anche Moroni Vittorio eccependo
il difetto di integrità del contraddittorio, per mancato
coinvolgimento del regista, sig. Giampiero Solari, il pro-
274
prio difetto di legittimazione passiva, in quanto estraneo
alla produzione dell’opera e alla sua commercializzazione,
la carenza di legittimazione attiva degli eredi di Modugno
in ordine ai diritti relativi al patrimonio musicale dell’artista, gestito dalla SIAE, e, nel merito, concludendo per
il rigetto delle istanze cautelari in quanto infondate;
ritenuto che;
- a seguito della proposizione dell’istanza cautelare in
esame (contestualmente alla costituzione in giudizio)
questo giudice ha, dapprima, con decreto del 27 marzo
2014, fissato l’udienza di comparizione delle parti, non
ravvisando nella convocazione della controparte un pericolo di pregiudizio per l’attuazione del provvedimento,
quindi, all’esito dell’udienza, fissata per il 17 aprile
2014, in cui ha preso atto del non perfezionamento della notifica dell’istanza e del decreto nei confronti dei
convenuti, ha concesso la misura cautelare richiesta,
sulla base di una diversa valutazione in ordine a siffatto
pregiudizio;
- tale provvedimento appare rispettoso del dettato dell’art. 669-sexies c.p.c., che non esclude la possibilità di
una diversa valutazione del presupposto per la concessione della misura cautelare inaudita altera parte rispetto ad una valutazione effettuata in precedenza nei casi
in cui non è possibile pervenire ad una celere e regolare
instaurazione del contraddittorio;
- una siffatta evenienza risulta essersi verificata nel caso
in esame, in relazione alla difficoltà nel perfezionamento del procedimento notificatorio (per cause sostanzialmente non imputabili agli attori) e alla conseguente necessità di differire la trattazione dell’istanza cautelare di
un lasso temporale nel corso del quale potevano intervenire nuovi fatti, già allegati nell’atto di citazione, tali
da pregiudicare l’attuazione della misura richiesta;
- pertanto, sotto il profilo esaminato, il provvedimento
contestato appare immune da vizi;
- nel merito, dalle risultanze acquisite al giudizio e, in
particolare dall’esame della sceneggiatura, emerge che
l’opera coprodotta dalle società resistenti, dal titolo
“Penso che un sogno così”, ha per oggetto una narrazione autobiografica del protagonista, in cui questi racconta della propria esistenza (e, soprattutto, la propria infanzia), nel contesto storico e sociale in cui la stessa si è
svolta, mediante costanti riferimenti alla vita e alle opere del defunto Modugno, che vengono cantate dal protagonista medesimo, evidenziando, in tal modo, l’intreccio tra la sua vita e quella del Modugno medesimo;
- la trama narrativa si snoda attraverso continui sdoppiamenti del ruolo assunto dal protagonista, che muta
dall’interpretazione della propria persona a quella del
maestro e viceversa;
- l’accostamento tra i due ruoli risulta accentuato dalla
ricercata somiglianza, anche sotto il profilo gestuale e
vocale, tra il protagonista dell’opera e il Modugno, manifestata anche dall’uso di una giacca che richiama, nelle sue fattezze, quella che quest’ultimo era solito indossare in importanti occasioni pubbliche (tra cui il Festival di Sanremo del 1958);
- non è oggetto di contestazione tra le parti che la rappresentazione dell’opera sia avvenuta in assenza di un
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previo assenso degli eredi del maestro e si sia protratta
nonostante l’opposizione di questi ultimi;
- con riferimento alla tutela all’immagine, l’art. 10 c.c., da
coordinarsi con l’art. 96, L. n. 633 del 1941, attribuisce
carattere illecito alla divulgazione dell’immagine di una
persona in difetto del consenso della persona ritratta;
- per effetto di quanto disposto dall’art. 93, comma 2, L.
n. 633 del 1941, richiamata dal predetto art. 96, dopo
la morte della persona ritratta, occorre, ai fini della
pubblicazione dell’immagine, “il consenso del coniuge o
dei figli, o, in loro mancanza, dei genitori; mancando il
coniuge, i figli e i genitori, dei fratelli e delle sorelle, e,
in loro mancanza, degli ascendenti e dei discendenti fino al quarto grado”;
- secondo la più recente impostazione, cui questo giudice presta adesione, la tutela in esame ha per oggetto
non già unicamente l’immagine, intesa nel suo mero
aspetto fisico, ma anche quella intesa quale complesso
di attributi e caratteri che contraddistinguono un certo
soggetto, quali peculiarità, prerogative o caratteristiche
evocative dello stesso, come la voce e il timbro vocale,
la firma, l’utilizzazione dell’immagine di un sosia o di
una “maschera scenica” (cioè, attraverso l’interpretazione di un attore), l’impiego del disegno caricaturale,
nonché la riproduzione di accessori tipici del look caratterizzanti il personaggio celebre (cfr. Cass. 12 marzo
1997, n. 2223; Trib. Roma 12 maggio 1993; Pret. Roma
6 luglio 1987; Pret. Roma 18 aprile 1984; Pret. Roma
24 dicembre 1981);
- ai sensi dell’art. 97, L. n. 633 del 1941, la pubblicazione dell’immagine altrui non autorizzata dalla persona ritratta è consentita nei casi in cui la sua riproduzione è
giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico;
- tali ipotesi, avendo carattere derogatorio del diritto all’immagine, quale diritto inviolabile della persona tutelato dalia Costituzione, sono di stretta interpretazione
(così Cass. 11 maggio 2010, n. 11353; Cass. 28 marzo
1990, n. 2527);
- nel caso in esame, non appare in discussione la notorietà del personaggio, particolarmente avvertita soprattutto nei luoghi in cui viene rappresentata l’opera e ravvivata dalla trasmissione sulla rete televisiva di Stato di
un film avente per oggetto la ricostruzione sceneggiata,
ma storicamente fedele, della vita e dell’attività artistica
di Modugno;
- la contestata riproduzione delle immagini del maestro
risulta essere supportata da un interesse socialmente apprezzabile connesso alla notorietà - interesse alla conoscenza della vita e all’attività artistica di uno dei più celebri personaggi che hanno caratterizzato la scena musicale italiana nel secolo scorso;
- Un siffatto interesse pubblico permette alla notorietà
del personaggio cui è connesso di esplicare i suoi effetti
scriminanti sulla riproduzione non autorizzata dell’immagine della persona nota, con conseguente compressione dei diritto alla propria immagine in virtù del (rite-
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nuto) superiore interesse pubblico all’informazione e delimitazione del cd. “right of publicity”, ossia del diritto
della persona celebre allo sfruttamento economico dei
simboli significativi (in primis, nome e immagine) della
propria notorietà in relazione al notevole richiamo per
il pubblico dei consumatori che gli stessi presentano e
al conseguente loro valore pubblicitario;
- sotto altro profilo, la pubblicazione dell’immagine del
defunto Maestro Modugno appare dettata (anche) da esigenze culturali, non potendosi negare la riconducibilità
dell’opera teatrale al concetto di cultura, di cui all’art.
97, L. n. 633 del 1941, anche in considerazione della genericità del termine utilizzato dal legislatore che consente di includere in questo anche le espressioni artistiche;
- la riproduzione delle immagini del maestro e il ricorso
agli altri simboli evocativi del personaggio appaiono
strumentali rispetto all’oggetto dell’opera rappresentata,
in quanto funzionali rispetto alla finalità divulgativa
sottostante l’opera medesima e non esulanti dal percorso ideativo dell’autore, e, dunque, tali da “giustificare”,
così come richiesto dall’art. 97, tale riproduzione;
- infatti, l’immagine divulgata costituisce il fatto su cui
cade l’interesse pubblico a ricevere la notizia ovvero
rappresenta il naturale corollario della descrizione del
fatto, venendo in considerazione come testimonianza di
un fatto e non già come un autonomo “bene” capace di
produrre un’utilità economica;
- parte ricorrente contesta l’applicabilità delle scriminanti previste dall’art. 97, L. n. 633 del 1941, in quanto
la condotta osservata dai resistenti sarebbe chiaramente
connotata dalla finalità di conseguire vantaggi di natura
economica;
- in proposito, la giurisprudenza è solito affermare che i
casi in cui l’immagine della persona ritrattata può essere
riprodotta senza il consenso della persona stessa trovano
la loro giustificazione nell’esigenza di salvaguardare l’interesse pubblico all’informazione e che, pertanto, quando la divulgazione dell’immagine avviene per altri fini
e, in particolare, per fini di lucro, ivi inclusi i fini pubblicitari, fa mancanza di consenso, da parte dell’interessato, rende illecito tale comportamento (cfr. Cass. n.
11353/10; Cass. 13 aprile 2007, n. 8838; Cass. 16 febbraio 1993, n. 1503; Cass. 2 maggio 1991, n. 4785);
- nel caso in esame, ricorre una situazione di compresenza di finalità informative e culturali e di finalità di
lucro, in relazione all’innegabile scopo della messa in
scena della rappresentazione;
- siffatta situazione non appare potersi risolvere nel senso dell’irrilevanza delle menzionate finalità informative
e culturali, atteso l’espresso riferimento a queste ultime
operato da parte dell’art. 97, in chiave scriminante dell’illiceità della riproduzione non autorizzata dell’immagine, e in considerazione del fatto che, opinando diversamente, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione,
contrarla allo spirito del legislatore, di una sostanziale
compressione del diritto di informazione, che verrebbe
riservato solo ad iniziative prive di scopo di lucro e,
dunque, ad iniziative pose in essere da enti pubblici o
da soggetti privati che intendano dare vita ad attività
benefiche;
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- secondo altra tesi interpretativa, maggiormente seguita
in giurisprudenza e in dottrina, occorrerebbe fare ricorso
ad un giudizio di bilanciamento tra le due finalità (informativa e commerciale) e pervenire all’accertamento
della liceità della divulgazione non autorizzata dell’immagine solo in caso di prevalenza della finalità informative su quella commerciale;
- una siffatta valutazione comparativa condotta sul caso
in esame consente di giungere alla conclusione della
prevalenza della finalità informativa genericamente intesa (ossia, comprensiva anche della finalità culturale)
rispetto a quella lucrativa;
- d’altra parte, l’ambito di operatività delle società resistenti, interessante il settore dell’ideazione, produzione
e commercializzazione di spettacoli nel settore cinematografico, televisivo, discografico e teatrale, è sintomatico della funzione informativa dei prodotti dalle stesse
realizzati, destinati e a soddisfare il bisogno della società
di conoscere fatti e personaggi, e della prevalenza dell’interesse pubblico ad un’informazione completa e corretta, differenziando la situazione in esame, in cui le immagini fungono da elemento del prodotto informativo,
dalle operazioni puramente commerciali;
- poiché non è oggetto di contestazione tra le parti che
la divulgazione dell’immagine del maestro Modugno
non ha arrecato pregiudizio all’onore o al decoro della
persona ritratta, non è dato ravvisare l’allegata violazione del diritto all’immagine di cui agli artt. 10 c.c. e 96,
L. n. 633 del 1941;
- non sembra venire in rilievo neanche l’allegata violazione dell’art. 93, L. n. 633 del 1941, destinata alla tutela dei diritti relativi agli scritti che contengono informazioni di carattere confidenziale e personale, inerenti
all’intimità della vita privata, che, per tal motivo, subiscono delle limitazioni in fase di pubblicazione e divulgazione;
- infatti, nel caso in esame, non si è in presenza della
divulgazione di fatti desunti da siffatti scritti, bensì della
divulgazione di fatti attinenti la vita (anche) privata
dell’artista, in quanto tali non oggetto della tutela invocata;
- in relazione a tali circostanze non appare ricorrere, per
le ragioni suindicate, neanche la violazione del diritto
alla riservatezza - la cui tutela, peraltro, non risulta
espressamente richiesta dai ricorrenti -, attesa la preminenza dell’interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze del personaggio pubblico, che si estendono anche
ad aspetti della vita privata, laddove, come nel caso in
esame, appaiono funzionali alla descrizione del personaggio e non lesive del suo onore e della sua reputazione;
- del pari, non appare venire in rilievo la (non prospettata) violazione del diritto all’identità personale, non
emergendo manipolazioni delle vicende del Maestro
Modugno mediante l’attribuzione di fatti non rispondenti al vero ed essendosi in presenza di n. costante interesse pubblico alla conoscenza della vita personale e
artistica dell’autore;
- dalla documentazione prodotta in giudizio non sembra
evincersi l’utilizzo da parte dei resistenti di segni identici o confondibili con quello registrato, quale marchio,
dall’attrice né nelle sceneggiatura dell’opera ovvero nei
corso della sua rappresentazione, né nel relativo materiale promozionale;
- non appare, infine, ricorrere la fattispecie di cui all’art.
2598 c.c., la quale richiede, quale presupposto indefettibile, la sussistenza di una situazione di concorrenzialità
tra due o più imprenditori, derivante dai contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o
commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, e quindi la comunanza di clientela (cfr. Cass. 22 luglio 2009, n. 17144; Cass. 14 febbraio
2000, n. 1617; Cass. 15 febbraio 1999, n. 1259);
- pertanto, pur non potendosi negare la sussistenza il requisito del periculum in mora, in relazione alla persistenza della condotta allegata, che non viene meno per la
sospensione delle rappresentazioni sino al prossimo mese di settembre, e alla potenzialità espansiva del danno,
in quanto suscettibile di provocare effetti pregiudizievoli
irreparabili, il ricorso non può essere accolto
(omissis).
Il diritto all’immagine, la necessità del consenso
e le sue eccezioni
di Francesca Florio
Il commento offre un’analisi critica dell’esercizio e tutela del diritto all’immagine, con particolare
attenzione al consenso della persona ritrattata, quale elemento che esime da responsabilità il
soggetto che espone, riproduce o mette in commercio l’immagine altrui. Per l’acquisizione di tale consenso, la normativa vigente non impone la forma scritta ma prevede esclusivamente una
autorizzazione, anche verbale o tacita, generando un’evidente condizione di precarietà per l’utilizzatore. In tal senso, è sempre consigliabile l’ottenimento di un consenso scritto, il quale avrebbe, da un lato, il vantaggio di prevedere e quantificare un compenso come corrispettivo in favore dell’utilizzatore e in mancanza del quale l’atto stesso sarebbe nullo, dall’altro, il pregio di delineare maggiormente i limiti di utilizzazione dell’immagine, con la determinazione di tempi, luoghi e finalità di sfruttamento della stessa. Inoltre, tali limiti diventano ancor più cogenti nel caso
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in cui la persona ritrattata sia nota. Infatti, in tale ipotesi, la normativa vigente prevede come obbligatoria l’acquisizione del consenso solo nel caso in cui l’utilizzazione dell’immagine avvenga
per fini lucrativi e/o promozionali e/o commerciali. Alla luce di ciò, appare ancor più evidente
quanto sia difficoltoso, senza un atto scritto, compiere una valutazione comparativa delle finalità
in gioco, in quanto, sempre più spesso, l’utilizzo di immagini di persone note si nasconde dietro
inesistenti esigenze di diritto all’informazione.
I fatti di causa e la peculiarità
della decisione del Tribunale di Roma
Con l’ordinanza in commento, il Tribunale di
Roma ha deciso sull’utilizzazione degli elementi
identificativi del famoso cantautore italiano, Domenico Modugno, nell’ambito dello spettacolo teatrale dal titolo “Penso che un sogno così”.
Il procedimento ha preso le mosse dal ricorso
d’urgenza presentato dagli eredi del Sig. Modugno e
dal provvedimento inaudita altera parte con il quale
il Tribunale capitolino ha inibito alla società organizzatrice qualsiasi ulteriore rappresentazione o utilizzazione della predetta opera teatrale, nonché del
nome, dell’immagine, del marchio “Io Domenico
Modugno”, degli episodi appartenenti alla vita privata ed artistica e di qualsiasi altro elemento evocativo della personalità del Maestro Modugno. Tale
provvedimento è stato, però, totalmente ribaltato
dalla decisione in esame: il Tribunale di Roma ha,
invero, ritenuto prevalente l’interesse all’informazione ed alla cultura sulla finalità commerciale - propria dello spettacolo - dello sfruttamento dell’immagine del Maestro Modugno, decidendo per la legittimità delle utilizzazioni poste in essere dai resistenti
e revocando il provvedimento inibitorio.
Il Tribunale di Roma ha, quindi, abbandonato la
tesi secondo la quale è sempre necessario il preventivo consenso della persona ritrattata in caso di
utilizzo della sua immagine per finalità lucrative ed
ha abbracciato il principio in base al quale, in ipotesi di compresenza tra finalità informative e culturali, da un lato, e commerciali, dall’altro, occorre
far ricorso ad un giudizio di bilanciamento tra i
predetti fini e considerare lecita l’utilizzazione dell’immagine solo quando le prime finalità sopra indicate prevalgono sulla seconda.
Sulla base di questo assunto, il Tribunale non ha
ritenuto violati né il diritto alla riservatezza, attesa
la preminenza dell’interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze del personaggio e di fatti attinenti alla sua vita privata ed artistica (sempre e solo se quest’ultimi siano propedeutici ad una più
(1) Pret. Napoli 19 maggio 1989, in Dir. aut., 1989, 382.
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adatta descrizione dello stesso), né il diritto alla
personalità individuale, dal momento che non sono state manipolate le vicende del Maestro Modugno attraverso la rappresentazione di eventi non
accaduti o non veritieri o lesivi dell’onore e della
reputazione dello stesso.
L’interesse della decisione in commento risiede,
altresì, nella descrizione che il Tribunale capitolino fa del diritto all’immagine, ritenendo che tale
diritto non faccia riferimento soltanto alla immagine fisica del soggetto ritrattato, ma si estenda a
qualsiasi attributo o carattere propri del personaggio, quali la voce, la firma, l’immagine di un sosia
o della maschera scenica, le fattezze e gli elementi
propri del suo look.
Nozione di immagine e di diritto
all’immagine
La decisione in commento offre, pertanto, lo
spunto per approfondire la tematica del diritto all’immagine, al fine di individuare i suoi limiti e le
conseguenze derivanti dall’ottenimento o meno del
preventivo consenso della persona ritrattata.
In primo luogo, è opportuno identificare cosa si
intende per diritto all’immagine e quale ne sia l’oggetto. A tal proposito, interessante è notare come
l’art. 10 c.c. anziché disciplinare e definire il concetto di immagine o di diritto all’immagine, faccia
riferimento esclusivamente all’abuso che terzi soggetti possano fare dell’immagine altrui, demandando alla normativa specifica i casi e le circostanze in
cui è ammesso l’utilizzo a fini espositivi o di pubblicazione dell’immagine. Ad ogni modo, quanto al
diritto all’immagine, si può affermare che quest’ultimo appartenga al novero dei diritti della personalità e “pur non essendo specificamente indicato
dalla Costituzione, deve ricondursi a quei diritti
fondamentali dell’uomo, in quanto esso protegge
un aspetto di quella intimità (privacy) che è ormai
reputata un valore primario della persona” (1). Tale diritto viene, altresì, considerato come una manifestazione del diritto alla riservatezza (2), tanto
(2) A. De Cupis, I diritti della personalità, Milano, 1982. In
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da essere definito come “diritto alla non-conoscenza altrui dell’immagine del soggetto”. Il diritto alla
riservatezza - il cui fondamento normativo va ravvisato, al di là della sussistenza di altre e più specifiche previsione, nell’art. 2 Cost. - consiste, infatti,
nella tutela di situazioni e vicende di natura personale e familiare dalla conoscenza e curiosità pubblica, situazioni e vicende che soltanto il relativo
protagonista può decidere di pubblicizzare ovvero
di difendere da ogni ingerenza, sia pure realizzata
con mezzi leciti e non implicante danno all’onore
o alla reputazione o al decoro, che non trovi giustificazione nell’interesse pubblico alla divulgazione (3).
Alla luce di quanto sopra, è evidente che la ratio
della tutela di tale diritto si ritrova, quindi, nella
necessità di proteggere l’individuo che deve essere
arbitro assoluto circa l’utilizzo o meno della sua immagine, intesa in senso fisico, e di tutti gli elementi identificativi.
In merito, invece, alla nozione di “immagine”,
l’orientamento attuale prevalente tende a dilatare
il più possibile tale concetto. Come sopra rilevato,
invero, la decisione in commento estende tale nozione non solo all’immagine fisica, ma anche ad
una serie di elementi e caratteri evocativi della
personalità di un determinato soggetto, sino a ricomprendere nel novero anche l’immagine del sosia (4) o della maschera scenica, nonché dell’abbigliamento che il soggetto è solito sfoggiare in determinate occasioni. Abbracciando il predetto
orientamento, come detto, il Tribunale di Roma,
con l’ordinanza in esame, ad esempio, ha, invero,
considerato la giacca indossata dall’attore nel corso
dello spettacolo ispirato alla vita del Maestro Modugno come elemento evocativo della persona e
della personalità di quest’ultimo. Sia la dottrina,
sia la giurisprudenza maggioritaria hanno fatto proprio questo principio, stabilendo che il diritto all’immagine ha per oggetto ciò che è stato definito
come il segno distintivo essenziale, volto a rappresentare le sembianze, l’aspetto fisico del soggetto
nonché l’espressione, il modo di essere della personalità nel suo complesso (5). Un’importante decisione in tal senso è stata emessa dalla Pretura di
senso contrario, G. Pugliese, Il preteso diritto alla riservatezza e
le indiscrezioni cinematografiche, in Foro it., 1954, I, 118, secondo il quale “esponendo o pubblicando l’immagine di un’altra persona, non si viola soltanto la sua sfera di riservatezza,
ma si incide immediatamente sulla sua personalità”.
(3) Cass. Civ., Sez. I, 25 marzo 2003, n. 4366.
(4) In questo senso, Pret. Roma 6 luglio 1987, in Dir. inf.,
1987, 1039, secondo la quale l’utilizzo nell’ambito di una campagna pubblicitaria, dell’immagine di un sosia di un personag-
278
Roma, la quale con sentenza del 18 aprile 1984, ha
riconosciuto come evocativo della personalità del
cantautore italiano Lucio Dalla l’utilizzo degli occhialini, del clarinetto e del cappello, in quanto
oggetti tipicizzanti il predetto personaggio (6).
Il consenso della persona ritrattata e
l’opportunità di ottenere un consenso
scritto
L’art. 96 l.d.a. individua nel consenso dell’interessato, l’elemento che esime da responsabilità il
soggetto che espone, riproduce o mette in commercio l’immagine altrui. Come è noto, tale consenso
costituisce un negozio avente ad oggetto non il diritto stesso all’immagine, il quale resta personalissimo ed inalienabile, ma soltanto il suo esercizio.
La normativa vigente non impone la forma scritta per l’acquisizione del consenso della persona ritrattata, prevedendo, invece, soltanto l’obbligo, a
carico del soggetto che intende utilizzare l’immagine, di ottenere una preventiva autorizzazione
(quindi, anche verbale o tacita) in tal senso.
Ad avviso della scrivente, deve procedersi, però,
con molta cautela nell’ammettere un consenso tacito per la diffusione dell’immagine altrui.
Il problema derivante, infatti, da una manifestazione di consenso implicita, è certamente quello
dell’individuazione dei limiti del consenso stesso,
con riferimento sia ai limiti soggettivi (soggetto a
favore del quale il consenso viene prestato) sia a
quelli oggettivi (efficacia limitata ai fini per i quali
il consenso è stato prestato, modalità di divulgazione, estensione temporale). A tal proposito, è interessate rilevare come il Tribunale Roma, con sentenza del 27 aprile 2012, n. 8521, abbia ritenuto
che “il consenso prestato da una persona ai fini
dell’utilizzo della propria immagine mediante apposizione sugli imballaggi e sulle confezioni dei prodotti destinati al commercio (cd. packaging) non
include anche quello allo sfruttamento della stessa
immagine a fini pubblicitari su giornali e riviste,
pur se la pubblicità riguarda i medesimi prodotti.
Ne consegue che, in assenza di uno specifico consenso, la riproduzione del ritratto della persona ai
gio famoso, è stato ritenuto illecito, in quanto l’attrice famosa,
subirebbe una lesione del proprio diritto all’immagine in conseguenza della pubblicazione di fotografie di suoi sosia, qualora queste siano realizzate con modalità tali da ingenerare nel
lettore di media avvedutezza l’erroneo convincimento che la
persona effigiata sia l’attrice e non il sosia.
(5) Pret. Roma 15 novembre 1986, in Giur. mer., 1986, 587.
(6) Pret. Roma 18 aprile 1984, in Giur. it., 1985, I, 2.
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predetti fini pubblicitari è abusiva ed illegittima” (7).
Al riguardo, aggiungo, inoltro, che, in mancanza
di un atto scritto, l’autorizzazione (il consenso) a
diffondere riproduzioni della propria immagine pone in essere un atto unilaterale sempre revocabile
da parte del soggetto ritrattato, a seconda del cambiamento di vita, delle condizioni sociali ed economiche del soggetto ritrattato medesimo o quando,
ad esempio, quest’ultimo consideri superate le ragioni e le condizioni in presenza delle quali era stato dato a suo tempo il consenso a tale utilizzo (8).
Tale natura del consenso tacito comporta, pertanto, per l’utilizzatore una condizione di precarietà, che deriva, come detto, dal diritto del soggetto
ritrattato di revocare in qualsiasi momento la propria autorizzazione all’utilizzo della propria immagine che lo ritrae.
Il consenso scritto, invece, non può essere revocato e da questo deriva l’opportunità di ottenere
sempre tale forma di consenso. L’atto scritto, infatti, blinda il consenso prestato anche sotto altri due
punti di vista:
(i) quale prova del corrispettivo pagato per l’utilizzo dell’immagine e
(ii) con riferimento alle forme e modalità di utilizzo dell’immagine stessa.
Un atto scritto, invero, dà prova della previsione e della entità di un compenso quale corrispettivo del consenso, in favore dell’utilizzatore, da
parte del soggetto ritratto, compenso in mancanza
del quale l’atto stesso sarebbe nullo. Inoltre,
un’autorizzazione scritta individua - e per questo
rende chiari - i limiti dell’utilizzazione, attraverso
la determinazione delle condizioni di tempo e di
luogo, delle finalità e delle forme proprie dell’uso
che l’utilizzatore di un’immagine intende porre in
essere.
(7) Trib. Roma 27 aprile 2012, n. 8521, in Giur. mer., 2013,
2085.
(8) A. De Cupis, I diritti della personalità, Milano, 1982. Secondo il quale “l’efficacia del consenso deve essere, peraltro,
contenuta negli stretti limiti in cui il consenso medesimo venne
dato. Anzitutto, il consenso è efficace nell’esclusivo riguardo
del soggetto o dei soggetti di fronte a cui fu dato: di fronte a
tutti gli altri resta inalterato lo jus imaginis, col potere di consentire o meno all’esposizione ecc. Può darsi, inoltre, che un
soggetto si lasci ritrattare per lasciare un ricordo di sé a determinata persona cara, ma non intenda che il suo ritratto vada
in giro per il mondo, diventando un oggetto visibile a tutti, ovvero che un soggetto, pur consentendo alla pubblicazione della sua immagine, lo faccia per un fine determinato … e può
darsi, altresì, che si acconsenta a determinati modi di diffusio-
Il Diritto industriale 3/2015
La persona notoria, il suo consenso
e le relative eccezioni
Fermo quanto precisato nel precedente paragrafo, è appena il caso di rilevare che il principio sopra esposto incontra delle eccezioni, che escludono
la necessità di tale consenso, nel caso in cui sussistano determinate circostanze.
L’art. 97 l.d.a., infatti, prevede la possibilità di
riprodurre l’immagine altrui senza il consenso della
persona ritratta, qualora la riproduzione dell’immagine stessa sia giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico ricoperto, da necessità di giustizia o di
polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali o
quando tale utilizzazione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in
pubblico.
È in questo contesto che si colloca l’eccezione
costituita dalla notorietà della persona ritrattata:
tale libera utilizzazione trova la sua ratio nell’interesse pubblico all’informazione, per il quale viene
sacrificato il diritto del singolo alla propria immagine. Nel caso in cui, pertanto, la pubblicazione
del ritratto o l’utilizzazione di altri elementi evocativi della personalità di un determinato soggetto
siano strumentali alla finalità di interesse all’informazione, il consenso della persona famosa ritratta
non è richiesto.
Sul punto, al fine di una più corretta comprensione della questione, è utile citare una decisione
del Tribunale di Milano, del 17 novembre 1994,
che ha stabilito che “l’art. 97 l.a. (legge sul diritto
d’autore) liberalizza pertanto l’utilizzazione dell’immagine altrui soltanto quando la persona ritrattata
sia nota e al contempo si soddisfi un’esigenza di
pubblico interesse all’informazione e non invece
quando ricorra soltanto l’interesse economico di
chi violando l’altrui privacy, soddisfa curiosità più o
meno morbose sulle fattezze di personaggi famosi” (9).
ne della propria immagine e non ad altri …ed, infine, il consenso non comporta che la persona debba eternamente sopportare la pubblicità della propria immagine: se il limite del consenso non risulta esplicitamente, esso può ricavarsi con riferimento alla situazione di fatto esistente al momento del consenso”.
(9) Trib. Milano 17 novembre 1994, in questa Rivista, 1995,
813. Nello stesso senso, Pret. Milano 19 dicembre 1989, in Foro it., 1991, I, 2863, secondo la quale solo la presenza di prioritarie esigenze di pubblica informazione, rende lecita la divulgazione dell’immagine della celebrità anche in mancanza del suo
consenso e tale esigenza non sussiste certamente nel caso di
pubblicazione dell’immagine in periodici che non perseguono
fini di informazione, bensì sono diretti a soddisfare a fini di lucro, la morbosa curiosità dei lettori.
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Giurisprudenza
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Diritto d’autore
Anche l’eccezione di cui al predetto art. 97 subisce, però, alcune limitazioni nel caso in cui l’utilizzo dell’immagine avvenga per scopi di lucro o finalità promozionali e/o pubblicitarie e/o commerciali.
È ormai consolidato, invero, in giurisprudenza il
principio secondo cui è illecita, a norma degli artt.
96 l.d.a. e 10 del codice civile italiano e non può
essere giustificata ex art. 97 della predetta legge,
l’utilizzazione, ai fini sopra indicati, dell’immagine
di un persona, nota o no, senza il preventivo consenso di quest’ultima.
Qualora, pertanto, si intenda utilizzare l’immagine di una persona a scopo di lucro o con finalità
promozionali e/o pubblicitarie e/o commerciali, è
sempre necessario il preventivo consenso del soggetto ritratto, ai fine di un uso lecito dell’immagine
stessa.
Sul punto, la Suprema Corte è chiara nello stabilire che chiunque pubblichi abusivamente il ritratto di una persona notoria, per finalità commerciali, è tenuto al risarcimento del danno, la cui liquidazione deve essere effettuata tenendo conto
anzitutto delle ragioni della notorietà, specialmente se questa è connessa all’attività artistica del soggetto leso, alla quale si collega normalmente lo
sfruttamento esclusivo dell’immagine stessa; pertanto l’abusiva pubblicazione, quando comporta la
perdita, da parte del titolare del diritto, della facoltà di offrire al mercato l’uso del proprio ritratto, dà
luogo al corrispondente pregiudizio (10).
Ciò detto, si verificano, però, casi, come quello
oggetto della decisione in commento, in cui sussistono sia il fine lucrativo, sia le finalità culturali e
di informazione dell’utilizzo dell’immagine altrui.
In tali ipotesi, non vi è un’esclusione a priori della
possibilità di porre in essere l’utilizzazione dell’immagine altrui senza ottenere il preventivo consenso
del soggetto ritrattato, ma è necessario effettuare,
come operato dal Tribunale di Roma, una valutazione comparativa delle diverse finalità e considerare lecita soltanto l’ipotesi in cui prevale lo scopo
informativo. È solo in questo modo, smascherando
ogni astuto accorgimento che viene utilizzato al fine di alterare il significato dell’art. 97, L. n.
633/1941, che si riuscirà in futuro ad evitare la
sempre più crescente tendenza ad utilizzare a fini
commerciali e pubblicitari l’immagine di personaggi famosi, facendosi scudo con inesistenti esigenze
di diritto all’informazione.
A tal proposito, è appena il caso di aggiungere
che tale valutazione dovrà tenere in considerazione
anche il peso del c.d. “right of publicity” attribuito
al singolo, inteso come diritto del personaggio noto
a godere dei vantaggi di carattere patrimoniale derivante da un impiego commerciale dei connotati
della persona (11). La finalità informativa e culturale, pertanto, dovrà essere prevaricare anche su tale diritto.
Ad ogni modo, ad avviso della scrivente, si tratta di una valutazione davvero difficile da operare.
Sarebbe opportuno utilizzare elementi obiettivi
nello svolgimento dell’attività comparativa o identificare situazioni concrete in presenza delle quali,
convivendo sia lo scopo di lucro, sia il fine di informazione, quest’ultimo non sia sufficientemente
forte da sorpassare la finalità commerciale e sia necessario ottenere il preventivo consenso della persona ritrattata.
Di certo, questo ragionamento non vale nell’ipotesi in cui l’utilizzo, ad esempio, del ritratto sia utilizzato a fini promozionali o pubblicitari: in tali casi, invero, la giurisprudenza è unanime nel ritenere
illecito qualsiasi utilizzo effettuato a tali fini senza
la preventiva autorizzazione del soggetto ritrattato (12).
(10) Cass. Civ., Sez. I, 1° dicembre 2004, n. 22513. Nello
stesso senso, il Tribunale Roma, con sentenza del 23 maggio
2001, in Dir. inf., 2001, 881, ha disposto l’illiceità della pubblicazione della foto di un personaggio famoso senza il suo consenso sulla copertina di un libro, che affronta un argomento
inerente all’attività svolta dal personaggio stesso, in quanto lede il diritto all’identità personale ed allo sfruttamento commerciale della propria immagine. Pertanto, deve essere inibita l’ulteriore commercializzazione del libro con l’immagine in copertina e condannata la società che ha pubblicato il libro a corrispondere al personaggio, illecitamente ritratto, la metà del
prezzo di copertina per ogni copia commercializzata in violazione del divieto oltre al risarcimento dei danni da determinarsi
anche in via equitativa.
(11) A. Sirotti Gaudenzi, Proprietà intellettuale e diritto della
concorrenza, Torino, 2010, secondo il quale l’elaborazione di
un diritto assoluto (connotato da un mancato elemento patrimoniale) è la risposta alla crisi del diritto alla privacy, che affermatosi negli Stati Uniti sin dalla fine del secolo XIX, non consentiva di fornire risposte adeguate laddove fosse stata invocata la notorietà del personaggio noto, il quale difficilmente
poteva godere di un pieno rispetto della riservatezza, per via
della celebrità acquisita. Fu necessario, pertanto, teorizzare
uno strumento per ottenere protezione nei confronti di chi si
fosse appropriato del valore del nome e dell’immagine per fini
commerciali. Nel nostro ordinamento è possibile rinvenire il
fondamento giuridico del right of publicity all’interno delle disposizioni espresse dall’art. 97 l.d.a.
(12) App. Roma 4 giugno 2001, in Aida, 2002, 846/1, secondo la quale quando avvenga a scopo pubblicitario la pubblicazione del ritratto di una persona defunta senza il consenso
degli stretti congiunti non può essere liceizzata ex art. 97 l.d.a.
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Giurisprudenza
Diritto d’autore
Interesse pubblico ed eccezione culturale:
le limitazioni al diritto all’immagine
dei personaggi famosi
di Massimo Maggiore e Laura Zoboli
L’ordinanza in commento merita particolare attenzione nel panorama della giurisprudenza italiana attinente alla tutela del diritto all’immagine dei personaggi che godono di fama e prestigio
presso il grande pubblico. In particolare, essa delinea la distinzione tra sfruttamento per fini puramente commerciali dell’immagine altrui (in quanto tale illecito se attuato senza il consenso degli aventi diritto) e utilizzazione dell’immagine del personaggio famoso per fini di ordine culturale, artistico e divulgativo che, pur se volti anche al perseguimento del profitto, non si risolvono
in quest’ultimo fine e giustificano la compressione del diritto di ciascuno ad opporsi all’uso della
propria immagine. Detta ordinanza è dunque spunto per analizzare i confini del diritto esclusivo
alla propria immagine oltreché per vagliare la sussistenza in capo ai personaggi famosi di un diritto assoluto anche sulla propria biografia.
Il caso concreto
La controversia in argomento prende le mosse
dall’iniziativa di due case di produzione e di un famoso attore italiano che hanno dato vita ad uno
spettacolo teatrale caratterizzato da un alternarsi di
recitazione e canto. Lo spettacolo appartiene alla
tipologia del recital con un solo interprete, che occupa da solo il proscenio per tutte le due ore circa
di durata dello spettacolo.
Il filo conduttore dello spettacolo è il parallelismo
tra la biografia personale e familiare dell’interprete
nella Sicilia degli anni 60/70 e quella di uno dei più
celebri cantautori della musica leggera italiana. È di
rilievo nella controversia la circostanza che lo stesso
interprete del recital avesse impersonato il cantautore nello sceneggiato che la televisione di Stato ha
di recente dedicato alla sua figura.
A fare da sfondo della costruzione drammaturgica
del recital immaginata dagli autori è il contesto storico, sociale e culturale dell’Italia del secondo dopoguerra e del boom economico, nei quali il famoso
cantautore, su cui lo spettacolo è imperniato, aveva
incominciato la propria carriera artistica e raggiunto
l’apice del successo. Nello specifico, il personaggio,
la cui vita e le cui vicende artistiche sono state riprese nello spettacolo teatrale, è stato incontestabilmente un punto di riferimento per la cultura popolare dell’Italia dell’epoca ed è considerato il padre
della musica leggera moderna in Italia. La canzone
che lo rese universamente famoso nel lontano 1958
è forse a tutt’oggi uno dei simboli del nostro paese e
della nostra cultura nel mondo. Chi scrive ha avuto
modo di assistere alla rappresentazione teatrale oggetto di controversia. In essa, la biografia dell’attore
Il Diritto industriale 3/2015
interprete e della sua famiglia si intreccia in un gioco di specchi e di rimandi con quella del noto maestro, le cui canzoni e le cui vicende umane sono
usate per il loro indubbio potere evocativo, in quanto capaci di produrre un’immediata identificazione
in un humus culturale ed emotivo condiviso tra gli
spettatori e lo stesso interprete.
L’intero spettacolo, nelle sue parti recitate, è
pertanto inframmezzato e accompagnato dalle canzoni del maestro, rappresentate ed eseguite dal vivo
dallo stesso attore. Si deve precisare che tra le parti
in causa non v’è contestazione sul fatto che fossero
stati regolarmente acquisiti, attraverso la SIAE, i
diritti di licenza per la rappresentazione in pubblico delle opere musicali.
Dopo la prima stagione teatrale di rappresentazione dello spettacolo, gli eredi del cantautore hanno citato in giudizio tanto l’attore interprete, anche nella sua qualità di coautore dello spettacolo,
quanto le due società che si sono occupate della
produzione e della realizzazione dello spettacolo,
oltre che l’altro coautore.
Secondo la ricostruzione operata dagli eredi, nello
spettacolo sarebbero stati abusivamente utilizzati, in
carenza della loro necessaria autorizzazione, il nome
e l’immagine del cantautore, oltre ad una serie di segni identificativi e distintivi del personaggio.
Inoltre, sempre secondo le tesi degli eredi, anche
gli atteggiamenti tenuti sul palco dall’attore, il suo
trucco, i gesti e le pose richiamerebbero abusivamente l’immagine del defunto cantautore, tanto da
configurare un’ipotesi di piena sovrapposizione e
identificazione tra l’immagine dell’attore e quella
del cantautore, che il primo avrebbe sfruttato a
proprio beneficio in ogni occasione, anche sulla
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Giurisprudenza
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Diritto d’autore
scia dell’enorme successo conosciuto dallo sceneggiato sulla vita dello stesso cantautore di cui si è
detto.
L’ordinanza in commento merita particolare attenzione nel panorama della giurisprudenza italiana
attinente alla tutela del diritto all’immagine dei
personaggi che godono di fama e prestigio presso il
grande pubblico (1). Il giudice di Roma compie infatti un excursus di ampio respiro sui temi giuridici
che vengono in rilievo ogni qualvolta si discuta
del diritto di terzi ad utilizzare liberamente l’immagine dei personaggi famosi.
A questo riguardo, il giudice afferma che il caso
sottoposto al suo esame esula da quelli in cui le immagini del personaggio sono utilizzate nell’ambito
di “operazioni puramente commerciali”. L’ordinanza, letta nel suo insieme, sembra invero dare corpo
e delineare la distinzione tra sfruttamento per fini
puramente commerciali dell’immagine altrui (in
quanto tale illecito se attuato senza il consenso degli aventi diritto) e utilizzazione dell’immagine del
personaggio famoso per fini di ordine culturale, artistico e divulgativo che, pur se volti anche al perseguimento del profitto, non si risolvono in quest’ultimo fine e giustificano la compressione del diritto di ciascuno ad opporsi all’uso della propria
immagine. Non appare così casuale che, a maggior
chiarimento del ragionamento sotteso all’ordinanza, l’estensore esplicitamente si riferisca al “right of
publicity”. Questo istituto è stato elaborato dalla
giurisprudenza degli Stati Uniti sin dagli anni quaranta del secolo scorso, quale specificazione del di-
ritto alla riservatezza (“right of privacy”) che, secondo le corti statunitensi, veniva impropriamente
invocato dai personaggi famosi, laddove questi intendessero non tanto negare l’interesse pubblico alla diffusione della loro immagine in contesti commerciali e neppure l’uso commerciale in quanto tale, quanto più semplicemente pretendere di ricevere un compenso per tale uso commerciale. L’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale prodotta oltreoceano con largo anticipo rispetto all’Italia, in
parallelo con l’affermazione ben più risalente nel
tempo di un capitalismo e di uno show-business
avanzati, appaiono quanto mai utili, per la nettezza
con cui in America - sia pur tra le inevitabili fluttuazioni della giurisprudenza - si è tracciata la demarcazione tra uso dell’immagine per fini puramente commerciali (in relazione ai quali sussiste il
“right of publicity”) e uso per fini diversi, consentiti dall’ordinamento (2).
La questione decisa con l’ordinanza chiama in
gioco, in primo luogo, il bilanciamento tra diritti
di pari rango, quale quello alla tutela della propria
immagine e allo sfruttamento esclusivo della propria notorietà, da un lato, e quello alla libertà di
espressione artistica e culturale, quale forma specifica di esercizio del diritto alla libera manifestazione del pensiero (3). Peraltro, anche il diritto all’immagine trova una base di tutela nell’art. 2 Cost.
che tutela l’identità dell’individuo, tra i “diritti inviolabili dell’uomo” che la Repubblica riconosce e
garantisce “sia come singolo sia nelle formazioni
sociali ove si svolge la sua personalità” (4).
Nel caso che ci occupa, inoltre, la finalità culturale e divulgativa, da una parte, e l’interesse pubblico informativo, dettato dalla notorietà del per-
(1) Giurisprudenza invero non copiosa, se si guarda esclusivamente a quella che tratta del tema oggetto del presente intervento, dell’eccezione culturale al diritto di immagine e, quindi, del bilanciamento del diritto di immagine, cui la giurisprudenza riconosce fondamento costituzionale (cfr. infra nt. 4) e
diritti di pari rango, quale il diritto alla libera manifestazione del
pensiero e la tutela della cultura.
(2) Come si legge nei massimari statunitensi, il fine commerciale sotteso al right of publicity “normalmente non si riscontra laddove l’identità di una persona sia utilizzata nell’ambito di servizi giornalistici, commentari, intrattenimento, opere
di finzione o non finzione o nella pubblicità incidentale rispetto
a tali usi” [cfr. American Law Institute, Restatement, Third, of
Unfair Competition, sec. 47 (1995) - traduzione dell’autore].
D’altronde, come osservato da altri “senza questa limitazione,
nessuno potrebbe scrivere una biografia non autorizzata o un
romanzo storico riguardante un personaggio famoso o un politico senza prima averne ottenuto il consenso” [cfr. Amy D. Hogie, ImageConsulting, Intellectual Property Supplement to National Law Journal, Feb. 12, 1998, 20 - traduzione dell’autore].
(3) In una propria pronuncia, la Corte Costituzionale ha
chiarito che il diritto di manifestare il proprio pensiero con ogni
mezzo richiede realisticamente che la legge debba garantire a
tutti l’esercizio del diritto “con le modalità ed entro i limiti resi
eventualmente necessari (…) dall’esigenza di assicurare l’armonica coesistenza del pari diritto di ciascuno o dalla tutela di
altri interessi costituzionalmente apprezzabili” (Corte cost.,
sentenza 9 giugno 1972, n. 105, in Raccolta Ufficiale, vol.
XXXV, 1972, 713). La Corte di cassazione poi, in motivazione
alla sentenza n. 23366 del 15 dicembre 2004, afferma che alla
scriminante del diritto di cronaca non può attribuirsi natura
statica e immutabile bensì “una struttura dinamica e flessibile,
adattabile di volta in volta a realtà diverse”.
(4) In tal senso Corte cost. 12 aprile 1973, n. 38, in Dir. aut.,
1973, 311, ove si afferma: “Fra i diritti inviolabili dell’uomo, affermati, oltre che nell’art. 2, nell’art. 3, secondo comma, e nell’art. 13, primo comma, rientrano quelli del proprio decoro,
onore, rispettabilità, riservatezza, intimità e reputazione, sanciti
espressamente nell’art. 8 e nell’art. 10 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Anche la tutela del diritto all’immagine, propria e degli stretti congiunti, è perciò riconducibile ai fini dell’art. 2 Cost.”. Cfr. Car. Perlingieri, Art. 10 c.c., in G. Perlingieri (a cura di), Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, Napoli, 2010, 293.
‘Questioni’ di diritto
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Giurisprudenza
Diritto d’autore
sonaggio, dall’altra, si intersecano inevitabilmente.
Il personaggio noto di cui si tratta, infatti, non è
semplicemente famoso ma è considerato, come
detto, uno dei massimi esponenti della canzone
leggera italiana. Si può in proposito affermare che
la sua opera si identifichi con un periodo storico
preciso e con atmosfere e ambienti socio-culturali
evocativi del vissuto di gran parte degli italiani. In
tal senso il giudice romano arriva ad affermare che
la riproduzione delle immagini del maestro e il ricorso agli altri simboli evocativi del personaggio
appaiono strumentali rispetto all’oggetto dell’opera
rappresentata, in quanto funzionali rispetto alla finalità divulgativa sottostante l’opera medesima e
non esulanti dal percorso ideativo dell’autore.
È appena il caso di precisare come esuli dall’ambito di questo scritto la discussione dei presupposti
e dei limiti della tutela dell’immagine intesa come
“dato personale”. In altri termini, il fulcro di questo contributo non è il diritto alla riservatezza (o
privacy) che ciascuno può invocare per controllare
l’uso e la diffusione della propria immagine, anche
ad esso si farà cenno per meglio tratteggiare il diritto all’immagine delle persone note. La riflessione
qui proposta si incentra essenzialmente sul solo risvolto “economico” del diritto all’immagine, inteso
come diritto a monetizzare la notorietà acquisita, e
sui limiti che tale diritto incontra. Ciò pur essendo
consapevoli della indubbia contiguità e, anzi, almeno secondo l’orientamento maggioritario, della derivazione del diritto all’immagine nelle sue varie
articolazioni dal diritto alla riservatezza (5).
Accanto alla questione dei confini del diritto
esclusivo alla propria immagine, certamente centrale nel caso sottoposto alla cognizione del giudice
romano, l’ordinanza in commento offre lo spunto
per affrontare un’altra questione di notevole rilievo
pratico: ossia se il personaggio famoso disponga di
un diritto assoluto anche sulla propria biografia,
cioè a dire sui fatti della vita che lo riguardano, in
quanto a sua volta ricompresa nell’immagine dell’individuo, su cui l’ordinamento riconosce il diritto all’esclusivo sfruttamento commerciale.
Questo intervento nei paragrafi che seguono si
soffermerà sulle principali questioni di diritto così
riepilogate, al fine di ulteriormente delineare lo
stato dell’arte giurisprudenziale e dottrinale e di
fornire spunti di discussione aggiuntivi sul tema attraverso il continuo rimando alle vicende del caso
concreto deciso dal Tribunale di Roma con l’ordinanza in commento.
(5) Già risalente dottrina ha inteso configurare il diritto all’immagine come un diritto a contenuto negativo alla “non conoscenza”, da parte di terzi, dell’immagine di colui che è il
soggetto del diritto. In quanto tale, il diritto all’immagine è stato qualificato come diritto alla riservatezza dell’immagine stessa (cfr. M. Mazziotti di Celso, Diritto all’immagine e Costituzione, in Giur. cost., II, 1970, 1530-1522). La stessa giurisprudenza di legittimità ha espressamente riconosciuto come il diritto
all’immagine si inquadri nel più ampio diritto alla riservatezza
(Cass. 5 aprile 1978, n. 1557, in Giust. civ., 1978, 1256). Occorre anche dare conto di una posizione dottrinale diversa, che ritiene che al diritto all’immagine debba essere riconosciuto un
rilievo autonomo, rivelandosi insufficiente quella prospettiva
che ne ricolleghi il fondamento esclusivamente alla tutela della
reputazione e della riservatezza come ascendenti normativi diretti e dovendosi invece riconoscere che il diritto in questione
rappresenti espressione del diritto all’identità personale (cfr.
M. Dogliotti, Le persone fisiche, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, vol. 2 Persone e Famiglia - I, II ed., Torino, 178 ss.).
(6) Oltreché, come detto, nell’art. 2 Cost.; cfr. supra nt. 4.
(7) Cfr. Vercellone, Il diritto sul proprio ritratto, Torino, 1959,
7 e Ubertazzi (a cura di), Diritto d’autore, Padova, 2007, 308.
(8) Cfr. G. Alpa - G. Resta, Le persone fisiche e i diritti della
personalità, Torino, 2006, 96.
(9) Cfr. A. De Vita, Delle persone fisiche, in Comm. Scialoja,
Branca, Bologna-Roma, 1988, 529. L’utilizzo di un sosia di un
personaggio famoso nell’ambito di una campagna pubblicitaria (o in generale per fini di promozione commerciale) è stato
infatti ritenuto censurabile dalla giurisprudenza. Uno dei casi
più celebri è quello della fotografia di una sosia di una nota attrice (Monica Vitti) che era stata pubblicata su alcuni settimanali nel contesto di una pubblicità di oggetti di arredamento, rispetto al quale il giudice ha ritenuto che: “l’utilizzazione a fini
Il Diritto industriale 3/2015
L’oggetto della tutela dell’immagine: dal ritratto
in senso stretto alle varie sembianze fisiche ed
emblematiche della persona
Il ritratto di una persona trova tutela tanto nell’art. 10 c.c., quanto negli artt. 96 e 97 della L. n.
633/1941 (c.d. legge sul diritto d’autore, in seguito
“l.a.”) (6).
Mentre il codice civile fa riferimento al concetto
di “immagine” e la legge speciale a quello di “ritratto”, la dottrina è concorde nel ritenere che il
legislatore, in questo contesto, usi i due termini come sinonimi (7). Pertanto il ritratto o immagine di
una persona ai sensi della normativa in vigore non
può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso della stessa.
L’immagine della persona può essere rappresentata da un disegno, una fotografia o una riproduzione in altre forme, che permettano la riconoscibilità
della persona raffigurata (8). Si considerano come
rientranti nel concetto di ritratto, ovvero di “immagine” oggetto di tutela normativa, anche la caricatura e la cosiddetta maschera scenica, ossia la
rappresentazione delle sembianze di un soggetto attraverso l’interpretazione di un attore. Ipotesi distinta ma anch’essa equiparata è quella dell’uso
dell’immagine di un sosia di persona nota (9). In
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altri termini, l’esperienza applicativa nazionale anche in questo caso sulla scia di quanto riconosciuto in altri ordinamenti - ha definito i confini
dell’immagine protetta, facendovi rientrare non solo il nome e il ritratto della persona interessata,
ma anche tutto ciò che sia capace di richiamare il
personaggio famoso alla mente del grande pubblico
e ciò anche indirettamente, attraverso l’uso di tratti emblematici e distintivi della personalità, come
la voce (10) e fino ad includere accessori di abbigliamento caratterizzati da forte e immediata associazione con la persona nota (11). Nel caso in
commento, gli stessi eredi del defunto maestro
hanno lamentato lo sfruttamento indebito dell’immagine intesa in senso lato, consumato, nelle prospettazioni dei ricorrenti, attraverso l’assunzione da
parte dell’interprete del recital di sembianze, movenze e di una timbrica vocale chiaramente evocative del personaggio, nonché l’utilizzo di una giacca di scena identica a quella (molto nota) utilizzata
in una edizione del festival di Sanremo, oltre che
attraverso l’uso esplicito del nome. Il giudice nell’ordinanza ha fatto propria questa impostazione,
riconoscendo in astratto, ma negandone tuttavia
ogni ricaduta sul caso concreto, la tutela dei tratti
emblematici esteriori del personaggio famoso e richiamando così l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale che - come si è accennato - individua
l’oggetto della tutela del diritto all’immagine nell’insieme di attributi ed elementi caratteristici che
concorrono a identificare e a rendere riconoscibile
il personaggio.
pubblicitari dell’immagine di un sosia di persona nota senza il
consenso di quest’ultima costituisce illecito qualora il pubblico
destinatario del messaggio possa essere indotto a considerare
la stessa come riproduttiva delle sembianze della persona nota
e non del sosia” e ancora “a nulla rilevando che indugiando innanzi alla pagina pubblicitaria il lettore possa mettere a fuoco
le differenze somatiche tra la persona ritratta ed il personaggio
noto” (cfr. Pret. Roma 6 luglio 1987, in Dir. inf., 1987, 1039;
Trib. Milano 26 ottobre 1992, in AIDA, II-1993, 539).
(10) Menzione specifica merita la questione se in relazione
alla “voce” il soggetto interessato possa invocare il diritto all’immagine, sub specie di diritto esclusivo allo sfruttamento
per fini commerciali. In Italia è noto almeno un caso in cui la riproduzione del timbro vocale di un noto cantante nell’ambito
di una pubblicità radiofonica e televisiva senza il consenso del
cantante medesimo è stato ritenuto lesivo del diritto esclusivo
dell’artista allo sfruttamento commerciale della sua notorietà e
quindi della sua “immagine”, tenuto conto dell’unicità delle
caratteristiche vocali che lo rendevano senz’altro riconoscibile
(sia pur ingannevolmente) al pubblico (Trib. Roma sentenza 12
maggio 1993, in Foro it., 1994, II, 2258).
(11) Cfr. Cass. 12 febbraio 1997, n. 2223, in Giust. civ.,
1997, I, 2823, con nota di L. Albertini, Lo sfruttamento commerciale abusivo della notorietà altrui e la riconoscibilità dell’interessato; Dir. inf., 1997, 542, con nota di G. Resta “Così è (se
vi ap-pare)”: identificabilità della persona celebre e sfruttamento
economico della notorietà. Nel caso considerato dalla Cassazione, la violazione del diritto all’immagine si era realizzata attraverso l’utilizzo non autorizzato nella pubblicità di caratteristi-
che (quali il suo mento storto e gli occhi grandi) che, sia pur
stilizzate, erano immediatamente riconducibili al famoso attore
comico Totò. Similarmente cfr. anche Pret. Roma 18 aprile
1984, in Giur. it., 1985, I, 2, 544, ove è stato sanzionato l’utilizzo non autorizzato su manifesti pubblicitari di uno zuccotto e
di un paio di occhiali a binocolo, simili a quelli che utilizzava il
celebre cantautore Lucio Dalla, ritenuti distintivi della sua immagine.
(12) Si veda supra nt. 4.
(13) Ossia, secondo la terminologia degli artt. 10 c.c. e 96
l.a., di “esporre”, “pubblicare”, “riprodurre” o “mettere in
commercio” l’immagine.
(14) Come insegna l’esperienza applicativa, soprattutto derivante dall’ambito sportivo, la persona può al più attribuire a
terzi un mandato alla gestione della propria immagine, non
realizzare una vera e propria cessione, ossia compiere un atto
di alienazione piena, come avverrebbe per diritti a contenuto
esclusivamente patrimoniale.
(15) Si veda A. Scalisi, Il diritto alla riservatezza, Milano,
2002, 53, per un’esaustiva rassegna delle posizioni in dottrina
e giurisprudenza in merito al tema della revoca del consenso
all’utilizzo dell’immagine; ove si dà in particolare atto che, a
fronte di posizioni dottrinali discordanti, in giurisprudenza appare decisamente prevalere l’orientamento favorevole alla revocabilità del consenso prestato, salvo il risarcimento del danno cagionato dalla revoca al soggetto precedentemente autorizzato.
(16) Cass. 1° settembre 2008, n. 21995, in Foro it., 2008, I,
c. 3104, ove si legge che “come ogni altra forma di consenso,
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Natura, disponibilità e limiti del diritto
d’immagine
Il consenso
Come già ricordato, il diritto all’immagine è ancorato nella Costituzione e segnatamente nel suo
art. 2, che tutela il pieno dispiegarsi della personalità dell’uomo, inteso sia come singolo sia in contesti sociali (12). Il diritto in parola viene pertanto
collocato nell’ambito dei diritti personalissimi, in
quanto tale inalienabile, irrinunciabile e imprescrittibile. Così connotata, la sanzione ordinamentale del diritto all’immagine rivela la sua originaria
ratio ispiratrice nella tutela del diritto all’onore e
alla reputazione personale, nonché - come si è già
osservato - alla riservatezza e all’identità personale.
L’ordinamento riconosce quindi in capo al soggetto interessato la disponibilità, anche economica,
della sua immagine. A tal fine, l’attribuzione ai terzi delle facoltà di disporre dell’immagine personale (13) passa primariamente attraverso una valida
manifestazione del consenso, che peraltro, attesa la
richiamata inalienabilità del diritto (14), si qualifica tendenzialmente sempre come atto autorizzativo
precario, in quanto revocabile (15), agli atti di disposizione specificamente consentiti e solo a questi (16).
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Diritto d’autore
Il consenso dunque, per previsione esplicita (art.
96 l.a.) ed implicita (art. 10 c.c.) delle norme dedicate al diritto all’immagine, rappresenta la modalità ordinaria attraverso la quale i terzi possono disporre dell’immagine altrui. Esso non deve essere
necessariamente prestato in forma scritta. Anzi, in
giurisprudenza si è affermato che il consenso della
persona interessata alla diffusione della sua immagine può essere anche tacito purché sia inequivocabilmente interpretabile come tale (17).
D’altro canto è necessario distinguere il consenso a farsi ritrarre da quello alla divulgazione e all’uso del ritratto. I limiti di utilizzazione dell’immagine debbono essere ricavati anzitutto dal contesto
nel quale lo stesso consenso è stato prestato (18).
L’immagine non può essere in nessun caso divulgata con modalità o per fini differenti da quelli oggetto dell’autorizzazione da parte del titolare del diritto (19) ed il consenso dell’avente diritto è valido
solo a favore di coloro a cui è stato prestato (20).
In giurisprudenza è stato anche precisato che la circostanza che i dati personali siano stati resi noti ad
un’agenzia di stampa, direttamente dagli interessati, in una pregressa occasione, non ha valore di
consenso tacito al trattamento in riferimento anche a contesti differenti e ulteriori dalla loro originaria pubblicazione, poiché l’interessato può essere
contrario all’ulteriore e più ampia diffusione dell’informazione che sia già stata resa nota (21).
L’ordinanza di cui ci occupiamo si limita, in
punto di consenso, a registrare come non sia in
contestazione tra le parti in causa che nessun consenso in nessuna forma sia stato prestato da chi
tutt’ora - essendo defunto il titolare originario del
diritto all’immagine - può esercitare il diritto, ossia
i soggetti indicati al comma 2 dell’art. 93 l.a. Il diritto all’immagine dopo la morte del soggetto interessato, può essere esercitato dagli eredi testamentari ovvero dai congiunti prossimi dell’interessato,
anche quello all’utilizzazione del ritratto può contenere limiti,
soggettivi, in relazione ai soggetti in favore dei quali è prestato, o oggettivi, in relazione alle modalità di divulgazione…”. In
analogia con quanto previsto per il caso di violazione delle restrizioni all’uso previste nei contratti di licenza dei diritti di proprietà intellettuale (cfr. ad es. art. 23, comma 3, D.Lgs. n.
30/2005 con riferimento alle licenze di marchio), si deve quindi
ritenere che atti di disposizione dell’immagine eccedenti i limiti
dell’autorizzazione legittimino il titolare all’esperimento di rimedi anche di natura reale-extracontrattuale (quali l’inibitoria, il
sequestro, il ritiro dal commercio) e non solo di quelli obbligatori tipici della responsabilità contrattuale.
(17) In tal senso, Cass. 16 maggio 2006, n. 11491; Cass. 17
febbraio 2004, n. 3014; Trib. Roma 24 gennaio 2002 (Califano
c. Soc. Rusconi ed.).
(18) Cfr. G. Alpa - A. Ansaldo, Le persone fisiche, in Comm.
Schlesinger, sub artt. 1-10, Milano, 1996, 313.
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individuati nel comma 2 del medesimo art. 93 l.a.
La legittimazione ex lege dei congiunti individuati
ai sensi dell’art. 93 l.a. è d’altro canto stata fatta
oggetto di dibattito tanto in dottrina quanto in
giurisprudenza, facendosi per lo più risalire la medesima non ad una “trasmissione” mortis causa del
diritto, quanto piuttosto al riconoscimento normativo in capo a determinati soggetti di un diritto
nuovo e proprio degli stessi congiunti alla difesa
del sentimento di pietà familiare e dell’onore dei
congiunti superstiti (22). I medesimi soggetti designati possono anche agire al fine di vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni di natura patrimoniale e non che siano conseguiti alla violazione del
diritto all’immagine del proprio parente defunto.
Ciò anche laddove non vi sia stata lesione del diritto all’onore, al decoro o alla reputazione del soggetto ritratto (23).
Il giudice romano passa quindi a considerare il
vero oggetto del contendere ossia se, pur mancando il consenso, non sia comunque riscontrabile nel
caso sottoposto al suo esame una delle situazioni
che legittimano comunque i terzi alla diffusione e
all’uso dell’altrui immagine.
Le eccezioni al consenso
La notorietà della persona ritratta e l’interesse generale all’informazione
Il combinato disposto degli artt. 96 e 97 l.a. delinea un diritto all’immagine che certamente non è
privo di limiti: non solo infatti la previa prestazione del consenso, ma esigenze di natura pubblica e
sociale giustificano e rendono legittimo l’uso dell’immagine altrui da parte di terzi.
In particolare, secondo l’art. 97 l.a., non occorre
il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine sia giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di
giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o
(19) Cit. Cass. 17 febbraio 2004, n. 3014. Un esempio di applicazione di questo principio si rinviene nel caso di un’attrice,
il cui consenso all’uso delle foto di scena si deve considerare
limitato ad un utilizzo diretto alla pubblicizzazione del film; la
Cassazione ha dunque ritenuto illecita in quanto non autorizzata la diffusione dei medesimi fotogrammi su riviste pornografiche o scandalistiche (in tal senso, Cass. civ. 28 marzo 1990, n.
2527).
(20) Nel caso il cui il consenso sia diretto alla realizzazione
di una specifica operazione, si intende prestato anche a favore
degli aventi causa del primo destinatario (App. Milano 25 luglio2003).
(21) Cass. 6 dicembre 2013, n. 27381.
(22) Cfr. A. Scalisi, Il diritto alla riservatezza, cit., 67.
(23) In tal senso, App. Roma 4 giugno 2001 (Cesaroni e altri
c. Soc. GI.VA. Hotels).
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culturali, nonché quando la riproduzione sia collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse
pubblico o svoltisi in pubblico. Tali eccezioni trovano giustificazione nel fatto che sussistono esigenze di pubblica informazione talmente rilevanti da
prevalere sul diritto del singolo al controllo pieno
sulla propria immagine. Qualche cenno merita il
caso in cui la compressione del diritto all’immagine
trovi fondamento nella notorietà della persona ritratta. Quest’ultima comporta che l’immagine di
un individuo possa essere diffusa senza il suo consenso (o dei suoi aventi causa) ove vi sia un concreto interesse pubblico ad una maggiore conoscenza di tale soggetto e a un’informazione più
completa (24). In carenza del requisito delle esigenze di pubblica informazione, pertanto, il consenso è sempre necessario ed imprescindibile (25).
Restano in ogni caso esclusi da detta eccezione gli
aspetti della vita privata e personale delle persone
che abbiano incontestata notorietà, ove la loro divulgazione sia estranea al soddisfacimento di un
autentico interesse generale di conoscenza e la
pubblicazione dell’immagine del personaggio noto
miri invece unicamente ad appagare morbose curiosità e si trasformi in una pura invasione della
privacy (26). È evidente come qui si eserciti il bilanciamento tra il diritto di cronaca, di rango costituzionale ai sensi dell’art. 21 Cost., che si specifica anche nella forma passiva di “diritto ad essere
informati”, ed il diritto alla riservatezza, nonché all’onore e alla reputazione personale, al quale pure
si riconosce rilievo costituzionale.
Il comma 2 del già citato art. 97 l.a. precisa poi
alcuni casi in cui è in ogni caso illecito l’uso dell’immagine altrui senza il consenso dell’interessato.
La divulgazione di un ritratto dunque è senz’altro
illecita quando sia lesiva dell’onore, del decoro o
della reputazione della persona ritratta. Naturalmente in tal caso non operano le esimenti previste
dal comma 1 dell’art. 97 l.a. Ove invece, pur in assenza di consenso, l’utilizzo dell’immagine sia
espressione di un legittimo e riconosciuto diritto di
cronaca, allora non vi sarà illecita divulgazione del
ritratto, anche se la medesima possa dirsi lesiva
dell’onore, decoro o reputazione di chi sia protagonista dell’immagine (27). Occorre pertanto procedere ad un bilanciamento tra diritto di cronaca e
diritto alla riservatezza che assume significato nei
singoli casi concreti, non potendo essere effettuato
astrattamente a priori, tenendo conto, come detto,
che i due diritti assumono la medesima posizione
all’interno della gerarchia delle fonti (28).
Similarmente, anche al fine di verificare se sia
configurabile un pregiudizio all’onore, al decoro o
alle reputazione, occorre procedere ad una valutazione in concreto, facendo costante riferimento al
soggetto ritratto, alle attività che svolge, all’ambiente nonché al contesto in cui vive (29). L’ordinanza del Tribunale di Roma in epigrafe considera
in prima battuta proprio se la divulgazione dell’immagine del famoso musicista non possa essere giustificata già solo sotto il profilo del collegamento
tra notorietà acquisita e interesse della generalità
dei consociati a conoscere (o conoscere meglio) il
(24) Cass. 27 maggio 1975, n. 2129.
(25) In primis ove l’uso dell’immagine di una persona nota
sia a fini commerciali o pubblicitari; si veda Cass. 13 aprile
2007, n. 8838.
(26) In tal senso: Pret. Roma 15 luglio 1986 (Cardinale c.
Soc. ed. Rizzoli); Pret. Roma, 3 luglio 1987 (Marzotto c. Soc.
Rizzoli periodici). Merita qui una citazione il passaggio di una
sia pur risalente sentenza del Tribunale di Milano che ha ben
delineato il limite che il diritto alla riservatezza, di cui le persone famose indubbiamente godono, sia pur in forma attenuata,
pone alla diffusione del loro ritratto: “Il solo fatto della notorietà non può invero legittimare il sacrificio integrale dell’interesse della persona alla riservatezza: interesse che permane ed è
meritevole di tutela allorché si tratti di comportamenti, di manifestazioni esteriori del soggetto che rientrano nella propria
intima sfera di privatezza e per i quali appaia evidente la volontà di escluderne ogni divulgazione” (Trib. Milano 2 ottobre
1969, in Foro pad., 1970, I, 208. A questo riguardo si può anche ricordare il celeberrimo caso della pubblicazione sulla rivista francese “Closer” delle fotografie di Kate Middleton, consorte del principe William, ritratta in topless all’interno di una
residenza privata e adeguatamente protetta dagli sguardi indiscreti del pubblico. Il Tribunale di Nanterre, nel concedere l’inibitoria a favore della casa reale britannica, ha osservato che:
“Questi scatti, nel mostrare l’intimità di una coppia, parzialmente nuda sulla terrazza di una residenza privata, circondata
da un parco a diverse centinaia di metri dalla pubblica via, sì
da poter legittimamente presumere di essere al riparo dalla curiosità del pubblico, sono di per sé particolarmente invadenti.
(Gli scatti) pertanto sono stati oggetto di una brutale esibizione
nel momento stesso in cui la copertina è stata pubblicata”.
(27) Si è affermato in giurisprudenza che l’uso dell’immagine altrui, financo se lesiva dell’onore, è lecito ove sia consentita dall’interessato oppure ove sia espressione del legittimo
esercizio dei diritti di cronaca e di critica giornalistica. Cfr.
Cass. 29 settembre 2006, n. 21172; Cass. 5 settembre 2006,
n. 19069, fermo restando che il legittimo esercizio di questi diritti presuppone - come si è accennato - la sussistenza di un
genuino interesse della generalità dei consociati alla conoscenza.
(28) Cfr. A. Scalisi, Il diritto alla riservatezza, cit., 34, ove afferma: “Non vi è dubbio peraltro, che è logicamente necessario considerare il diritto all’immagine - come tutti i diritti della
personalità - anche in chiave costituzionale per quanto il suo
potenziale conflitto con valori alternativi di rango costituzionale
- si pensi alla libertà di manifestazione del pensiero - renderebbe praticamente insignificante una tutela affidata esclusivamente a norme di rango ordinario”.
(29) In un caso, è stata ritenuta non lesiva la pubblicazione
della fotografia di una cubista scattata durante una serata in
discoteca (Trib. Napoli 26 giugno 2001, Di Nardo c. Soc. Edi.Me).
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personaggio. I passaggi che il provvedimento dedica alla questione si pongono coerentemente nel
solco - di cui si è dato qui conto - del bilanciamento tra interesse pubblico all’informazione e interesse privato alla tutela dell’immagine (30).
L’ordinanza in commento si segnala in particolare per l’importanza che il giudice sembra attribuire,
nella risoluzione del caso, ad un’altra eccezione al
consenso che, al pari di quella che fa leva sulla notorietà, è riconducibile ad un prevalente interesse
generale alla conoscenza e a garanzie di ordine costituzionale. Si tratta dello scopo “culturale” che,
sempre a mente del comma 1 dell’art. 97 l.a., se riscontrabile nel caso specifico, elide la necessità del
consenso alla divulgazione dell’immagine.
Chi scrive, come detto, ha avuto modo di assistere allo spettacolo teatrale contestato, sotto il
profilo della violazione dei diritti di immagine, dagli eredi del defunto cantautore. Non può certo essere negato che il nome e la stessa immagine (intesa non solo come ritratto, ma come insieme di segni ed elementi volti a richiamare nella mente
l’immagine di una persona nota) del cantautore in
questione, nonché il riferimento a episodi della sua
vita - peraltro perlopiù di pubblico dominio - siano
parte rilevante della trama narrativa dello spettacolo teatrale.
Tuttavia, occorre chiedersi se ciò sia sufficiente
per stabilire che lo spettacolo abbia determinato la
violazione del diritto di immagine del defunto musicista. La lettura dell’ordinanza permette di apprezzare come il giudicante abbia, ad avviso di chi
scrive del tutto correttamente, assunto una prospettiva per così dire “funzionalista”: egli infatti,
onde cogliere la valenza artistica autonoma della
rappresentazione teatrale in argomento, ha inteso
verificare più nel dettaglio se le modalità di rappresentazione dell’immagine e di momenti della vita
del celebre cantautore all’interno dello spettacolo
fossero esclusivamente volti a far sì che gli autori e
i produttori si appropriassero parassitariamente del-
l’indubbio valore commerciale connesso alla notorietà del personaggio, o se invece quei momenti
non si innestassero in una composizione drammaturgica originale e di autonomo valore artisticocreativo, quali elementi di un affresco narrativo
più complesso, che contribuiscono, insieme a tutti
gli altri, a comunicare al pubblico il senso e il significato artistico ultimo che gli autori hanno inteso attribuire all’opera. In questo secondo caso, infatti, sembra ritenere l’estensore dell’ordinanza,
che, anche a voler considerare che si sia consumato nel caso di specie un utilizzo dell’immagine altrui, si può al contempo invocare l’eccezione dello
“scopo culturale” di cui all’art. 97 l.a., declinato
nella libera espressione artistica, a sua volta espressione del principio costituzionale di libera manifestazione del pensiero.
Come detto nelle premesse in fatto, il nome e
l’immagine del cantautore vengono sovente utilizzati e menzionati all’interno del recital per creare
un parallelismo tra la vita del “protagonista” dello
spettacolo, ossia l’attore, e quella dello stesso cantautore: tanto al fine di costruire una sorta di sintassi emotiva comune con gli spettatori. Nell’intreccio dello spettacolo, nella sua forma mista di
prosa e canto, la narrazione e l’illustrazione della
vita del cantautore e del suo personaggio può dirsi
funzionale alla illustrazione e contestualizzazione
storico-sociale delle canzoni del medesimo - che
pure sono legittimamente rappresentate ed eseguite
in pubblico (31) - oltre che dell’arco della vita dell’attore protagonista. Quest’ultima abbraccia un
periodo che, partendo dalla sua infanzia e giovinezza di ragazzo del Sud - esattamente come il cantautore - culmina nella realizzazione di un sogno ovvero di un destino: quello di interpretare lo stesso
maestro in una fiction che ha conosciuto un incredibile successo di pubblico.
Ecco dunque che i fatti della vita del cantautore
possono essere visti come strumenti della narrazione dello spettacolo, che assurge ad opera artistica
autonoma rispetto alla “mera” figura del cantauto-
(30) Di seguito il passaggio dell’ordinanza dedicato alla
questione: “…la contestata riproduzione delle immagini del
maestro risulta essere supportata da un interesse socialmente
apprezzabile connesso alla notorietà - interesse alla conoscenza della vita e dell’attività artistica di uno dei più celebri personaggi che hanno caratterizzato la scena musicale italiana nel
secolo scorso, che si differenzia dalla semplice curiosità del
pubblico ad aspetti privati di persone famose; un siffatto interesse pubblico permette alla notorietà del personaggio cui è
connesso di esplicare i suoi effetti scriminanti sulla riproduzione non autorizzata dell’immagine della persona nota, con con-
seguente compressione del diritto alla propria immagine in virtù del (ritenuto) superiore interesse pubblico all’informazione e
delimitazione del c.d. “right of publicity”, ossia del diritto della
persona celebre allo sfruttamento economico dei simboli significativi (in primis, nome e immagine) della propria notorietà in
relazione al notevole richiamo per il pubblico dei consumatori
che gli stessi presentano e al conseguente loro valore pubblicitario”.
(31) Non è come detto in contestazione tra le parti che per
lo spettacolo fossero stati regolarmente acquisiti tutti i diritti
per la rappresentazione in pubblico dei brani.
La finalità culturale
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re, lungi dal configurare semplici strumenti per la
promozione commerciale dell’opera.
Lo spettacolo, quindi, in una sorta di doppio binario tra le due vite, fa sì che le canzoni e la stessa
icona e aura di mito del celebre cantautore facciano da leitmotiv agli avvenimenti vissuti dall’attore
protagonista e siano spunto per riflessioni critiche
sulla storia d’Italia e degli italiani. Funzionali a
questo disegno scenico sono le canzoni e le “storie”
cantate dal personaggio evocato, che fungono da
amplificatore emotivo, con i loro rimandi a un icona popolare dell’italianità, notissima a tutti (come
le canzoni e gli episodi della vita narrati). D’altro
canto, i componimenti del maestro sono a loro
volta basati su avvenimenti di vita vissuta comune
alla stragrande maggioranza degli italiani del dopoguerra, soprattutto emigranti del sud. Questo ragionamento - come detto basato anche sulla visione
dello spettacolo - sembra essere alla base anche
della motivazione dell’ordinanza. Come anche affermato dal giudice, infatti, non si ritiene che possa
rinvenirsi nello spettacolo uno sfruttamento commerciale dell’immagine del cantautore né del suo
nome in quanto tali, ma gli stessi vengono inseriti
nell’ambito di una rappresentazione teatrale di
autonoma valenza artistica.
Queste notazioni sul merito dello spettacolo si
sono rese necessarie al fine di procedere ad una ricostruzione delle pretese avanzate dagli eredi in relazione al diritto all’immagine dell’artista defunto.
Il giudice ha nella propria ordinanza riconosciuto
che nel caso dello spettacolo oggetto di analisi,
trova applicazione l’eccezione prevista dall’art. 97
l.a., in virtù del quale: “non occorre il consenso
della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata … da scopi scientifici, didattici o culturali, …”.
Il Tribunale capitolino nel caso che interessa ha
dunque seguito una traiettoria argomentativa
quanto mai chiara che, dando conto di orientamenti dottrinali e giurisprudenziali anche contrastanti, corrobora l’accertamento di liceità dell’uso
dell’immagine nel caso concreto, in quanto scriminata dallo “scopo culturale”.
In primo luogo, il giudice affronta la questione,
invero lungamente dibattuta soprattutto in dottrina, se tra gli scopi culturali rientrino anche quelli
artistici. Alla questione l’ordinanza risponde positi-
vamente, sulla base dell’osservazione, assolutamente condivisibile e conforme all’opinione giuridica
consolidata, per cui l’art. 97 l.a. parla di scopi culturali in senso generico, non potendosi quindi
aprioristicamente escludere che nell’ambito di tali
scopi rientrino anche quelli artistici (32).
Importante è altresì la precisazione fornita dall’ordinanza, secondo la quale la scriminante della
finalità informativa e culturale, di cui è riscontrata
la presenza nello spettacolo, non venga meno per
il solo fatto che sussista (anche) una finalità di lucro. A tale riguardo, non sfugga che nell’art. 97 l.a.
non si rinviene, neppure se si interpretasse la norma secondo le intenzioni del legislatore (del
1941), un principio di incompatibilità tra scopo di
lucro e finalità culturale. Coglie dunque nel segno
l’ordinanza in commento allorquando osserva che,
ove si ragionasse diversamente, si riserverebbe l’applicazione dell’eccezione in questione solo ad iniziative benefiche o di natura dilettantistica.
Lì dove, a parere di chi scrive, la motivazione
del giudice non convince interamente è quando si
richiama al giudizio comparativo di prevalenza tra
le due finalità, che necessariamente occorrerebbe
compiere, riconoscendo l’operatività dell’eccezione
in parola, solo dove tale valutazione si concluda
nel senso della prevalenza della finalità culturale/informativa. È vero che a tal fine il giudice si richiama ad indici oggettivi, quali in particolare la
circostanza che le società resistenti siano attive nei
settori della produzione e commercializzazione di
spettacoli nel settore cinematografico. Tuttavia, rimane ancora il fatto che tale giudizio comparativo
si espone di per sé ad un eccesso di oscillazioni interpretative. A nostro avviso sarebbe invece preferibile limitarsi alla valutazione dell’opera nella quale si esponga l’immagine altrui, chiedendosi in particolare se essa non abbia in sé un genuino contenuto seriamente e concretamente apprezzabile,
quale strumento di accrescimento delle conoscenze
del pubblico, ovvero di informazione o di discussione. È pur vero che la dottrina e la giurisprudenza
maggioritarie fanno ricorso al citato giudizio comparativo di prevalenza tra finalità lucrativa e finalità culturale. Ciò nondimeno, come accennato,
questa soluzione non soddisfa, per gli esiti paradossali cui potrebbe condurre (33); d’altro canto, se si
adotta il criterio “monistico” qui proposto, che
(32) Per un resoconto del dibattitto dottrinale sul punto cfr.
A. Scalisi, Il diritto alla riservatezza, cit., 99 ss.
(33) In primo luogo, non è chiaro se il giudizio di prevalenza
debba essere condotto ex ante o ex post. Nel primo caso, ci si
chiede ancora se si debbano valorizzare le intenzioni di coloro
che utilizzino l’immagine e, nel secondo, se si debba guardare
ai risultati concreti dello sfruttamento commerciale dell’opera
(ossia ai ricavi) e, quindi, quale sia la soglia di ricavi oltre la
quale la finalità lucrativa possa dirsi certamente prevalente.
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guarda esclusivamente al valore del messaggio intrinseco dell’opera, è possibile disconoscere la finalità culturale, ogni qual volta non sia riscontrabile
una (sia pur minima) autonomia del messaggio veicolato dall’opera al cui interno si innesta l’uso dell’immagine del personaggio famoso.
Come già brevemente accennato in premessa, in
merito all’uso dell’immagine di personaggi famosi,
la giurisprudenza e la dottrina italiana si sono spesso pronunciate (34), di volta in volta, dovendo bilanciare due diritti fondamentali, garantiti dalla
Costituzione, tra loro sovente in conflitto: da un
lato il diritto all’immagine e alla riservatezza dell’individuo (riconosciuto dall’art. 2 Cost.) e, dall’altro lato, il diritto alla libera espressione del pensiero, all’informazione e alla cronaca (riconosciuto
dall’art. 21 Cost.).
Si è anche già ricordato che il bilanciamento tra
questi due interessi e la compressione dell’uno a favore dell’altro vanno valutati caso per caso, in base
alle circostanze di fatto del caso specifico. Così,
ove il valore artistico e lo scopo culturale dell’opera in cui viene menzionata o utilizzata l’immagine
altrui siano prevalenti, allora prevarrà il diritto di
libera espressione del pensiero a discapito del diritto all’immagine (in altri termini troverà applicazione l’art. 97 l.a.), mentre, ove la finalità culturale
dell’opera non si esprima con forza ed evidenza rispetto all’uso dell’immagine altrui che in essa viene
fatto, allora prevarrà il diritto di immagine e, quindi, non troverà applicazione l’eccezione di cui all’art. 97 l.a. e sarà necessario ottenere il consenso
da parte degli aventi diritto.
Certo la giurisprudenza ha messo in evidenza la
complessità del bilanciamento degli interessi sopra
richiamati. Si possono a riprova di ciò ricordare
due casi decisi in modo diverso dal Tribunale di
Milano, in relazione, tuttavia, a due fattispecie
concrete molto simili tra loro. Nel primo caso, non
è stato riconosciuto il valore artistico e la finalità
“culturale” dell’uso dell’immagine altrui, mentre,
nel secondo caso, il valore artistico e la “finalità
culturale” dell’opera in cui è stata utilizzata l’immagine altrui è stato qualificato come prevalente. In
particolare, nel caso c.d. “Raz Degan” (35), l’attore
israeliano contestava a due case editrici di aver utilizzato abusivamente la propria immagine per commercializzare due poster che lo ritraevano: il Tribu-
nale ha riconosciuto che l’uso dell’immagine dell’attore fosse abusivo, in quanto perpetrato per finalità di mero sfruttamento commerciale, senza alcuna autorizzazione. Si segnala che in tal caso non
era stato rintracciato nei due poster alcun valore
artistico o comunque tale da poter giustificare l’uso
dell’immagine altrui senza la necessaria autorizzazione. In un altro caso di poco successivo (c.d.
“Claudia Schiffer) (36), la nota modella tedesca
Claudia Schiffer contestava alla casa editrice RCS
di aver sfruttato abusivamente la sua immagine dal
momento che, all’interno del mensile “Max”, erano stati pubblicati alcuni disegni, a firma di un
professore d’arte della California State University,
che la ritraevano, nuda, assieme ad alcuni oggetti
tipici della social imaginary consumistica, come una
merendina Nestlé ed un hot dog. La RCS si è difesa sostenendo che la natura artistica delle riproduzioni fosse di per sé atta a giustificare la libera utilizzazione dell’immagine della modella. I giudici, riconoscendo la natura artistica delle fotografie,
hanno applicato l’art. 97 l.a. e mandato esente da
responsabilità RCS. Questi due casi, al di là del riferimento tralatizio - che pure si riscontra - al bilanciamento tra finalità lucrativa e culturale/informativa, sembrano dimostrare come invece possa
essere sufficiente il ricorso al “criterio monistico”
della valutazione dell’opera in sé, cui più sopra si è
fatto cenno.
Altrettanto rilevante, per i tratti comuni con il
caso discusso dal Tribunale di Roma nell’ordinanza
in commento, è la pronuncia del Tribunale di Roma del 4 gennaio 2010 relativa al caso Ilona Staller/Polivideo/Sky Italia. In particolare, l’attrice di
film hard nota come “Cicciolina” aveva citato in
giudizio le due case di produzione, dal momento
che il suo nome, la sua figura e fatti relativi alla
sua vita erano stati inseriti e utilizzati, senza il suo
consenso, nell’ambito della fiction dedicata a Moana Pozzi, altra attrice del cinema hard scomparsa
nel 1994. Il Tribunale capitolino in tal caso ha ritenuto applicabile l’eccezione culturale di cui all’art. 97 l.a., così non accogliendo le domande della Staller, ed evidenziando, tra l’altro, quanto segue: “l’opera contestata descrive episodi della carriera politica e artistica della Staller condivisi con
la protagonista dell’opera Moana Pozzi; la figura di
Cicciolina Staller appare presenza giustificata e le-
(34) Tra tutti si cita: Trib. Milano 3 novembre 1997, caso
Antonio Di Pietro; Trib. Milano 22 marzo 1999, caso Barbara
D’Urso; Trib. Modena 1° luglio 1998 e Trib. La Spezia 30 giugno 1994, caso figurine Panini; Trib. Tortona 24 novembre
2003, caso Van Basten; Cass. Civ. 6 febbraio 1993, caso Bartali; Cass. Civ. 28 marzo 1990, caso Sandrelli.
(35) Trib. Milano 25 giugno 1998.
(36) Trib. Milano 23 dicembre 1999.
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Diritto d’autore
cita al fine di narrare l’epoca, il personaggio Moana e l’attività, in una sorta di biografia che non poteva prescindere dei luoghi, delle situazioni e delle
persone” (…) “nell’ambito dell’opera artistica può
liberamente essere citata ed illustrata una vicenda
reale con le connotazioni contestuali utili a renderla riconoscibile al pubblico e che l’opera cinematografica è tutelata quale forma di comunicazione sociale” (…) “la denominazione “Cicciolina” sia stata evocata unicamente in ragione e nei limiti della
partecipazione ad una vicenda nota, narrata in forma di biografia di altra persona”.
Si ritiene pertanto che i principi ben enucleati
in giurisprudenza e sopra brevemente richiamati,
in particolare nelle decisioni dei casi Claudia
Schiffer e Cicciolina e, dunque, l’eccezione prevista dall’art. 97 l.a., possano trovare piena applicazione anche nel caso dello spettacolo oggetto dell’ordinanza analizzata. Nel caso qui commentato,
infatti, ci troviamo al cospetto di un’opera teatrale
in cui il cantautore defunto (il suo nome e la sua
immagine) è richiamato e inserito in un intreccio
narrativo del tutto originale, connotato da evidente ed autonomo valore artistico, che descrive vicende che realmente hanno interessato la vita del
protagonista dello spettacolo (l’attore) e che si intrecciano con e richiamano quelle della vita vissuta dal cantautore, oltretutto in gran parte di dominio pubblico: Quest’ultime a loro volta, insieme alle canzoni, sono strumenti di riflessione più ampia
- anche critica - sull’Italia e la sua storia popolare
recente. In altri termini, alla luce della natura dello spettacolo, se si ritenesse sufficiente, al fine di
riconoscere la tutela sub specie di diritto all’immagine, l’inserimento, all’interno di un contesto narrativo dotato di autonoma dignità creativa e portatore di un messaggio culturale proprio, di riferimenti alla biografia di personaggi di indubbio rilievo storico, sociale e di innegabile notorietà, si dovrebbe allora concludere che esiste un diritto di
esclusiva sui “fatti” e sulla “biografia” delle persone
in quanto tali.
Il “ritratto morale”: la (libera)
rappresentazione della biografia
degli individui
Quanto da ultimo osservato sollecita a sua volta
una riflessione conclusiva sulla questione se, nell’ambito protetto del diritto all’immagine, rientri
anche la narrazione delle vicende della vita delle
persone identificate o identificabili e, in particolare, di quelle famose, intese quali fatti storici. Questa riflessione è suggerita dalle stesse tesi difensive
dei ricorrenti nel caso qui discusso, che hanno richiesto l’inibitoria in danno dei resistenti, invocando anche la necessità per qualunque terzo di
dover comunque ottenere il loro consenso, quali
eredi del maestro, anche indipendentemente dall’esposizione del ritratto, ogni qualvolta si narrassero le vicende della vita del loro congiunto. A questo fine, gli eredi hanno esibito, a sostegno delle
proprie tesi, il contratto che la televisione di Stato
aveva con loro concluso onde poter realizzare lo
sceneggiato relativo alla vita del maestro.
Ci si chiede, in altri termini, se - ove pure sia assodata l’esistenza di un fine culturale o dell’interesse pubblico alla conoscenza - non possa invece riconoscersi in capo all’interessato un diritto a negare a terzi la facoltà di realizzare opere (teatrali, letterarie, audiovisive) di taglio e contenuto puramente “biografico”.
È opinione di chi scrive che, al di là del limite
rappresentato dall’interesse pubblico e quindi (correlativamente) dal diritto alla riservatezza e dal diritto alla tutela della reputazione personale che trova la sua sanzione nell’illecito della diffamazione,
non esista un diritto a negare la divulgazione e la
rappresentazione dei fatti della vita. Essi rilevano appunto - quali puri fatti storici. È appena il caso
di ricordare che, come qualunque altro fatto, essi
non sono idonei di per sé a dare luogo ad un’opera
suscettibile di tutela d’autore, se considerati in sé e
al di fuori dell’eventuale loro trasposizione in una
forma originale e creativa, come potrebbe essere il
caso di un romanzo o di un film biografico.
A prescindere dall’insussistenza di questa forma
di tutela risalente al diritto d’autore propriamente
inteso, rimane da esplorare se il diritto di ciascuno
a negare la libera rappresentazione dei fatti della
propria vita non rientri nell’ambito diritto all’immagine. Una prima e convincente risposta negativa in tal senso è stata fornita da chi ha osservato
come non sia oggetto del diritto all’immagine il cosiddetto “ritratto morale”, ossia l’insieme delle raffigurazioni letterarie dell’intera vita di un soggetto
o di singoli episodi di essa (37). Semmai la questione della legittimazione a narrare della vita altrui si
gioca tutta intorno ai principi di verità e continenza, che presiedono alla tutela dell’onore altrui, e alla protezione della riservatezza degli individui, sia
pur nella forma attenuata che riguarda i personaggi
(37) Cfr. M. Dogliotti, Le persone fisiche, cit., 217-218.
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Diritto d’autore
noti al grande pubblico. La giurisprudenza dal canto suo ha riconosciuto - e l’orientamento sia pur risalente nel tempo non risulta abbia trovato smentita - come non siano oggetto di tutela le vicende
della persona legate a fatti di interesse pubblico (38). Qui si aggiunga che il rilievo di interesse
pubblico di determinati fatti della vita prescinde
dalle fonti da cui quei determinati fatti sono stati
attinti, siano esse notizie di pubblico dominio, racconti del soggetto interessato o fatti di cui chi narra abbia avuto cognizione diretta. Il limite sarà rappresentato unicamente - come detto - dalla tutela
dell’onore e dalla tutela della riservatezza. A quest’ultimo riguardo, un interessante spunto di argomentazione analogica è offerto dall’eventuale applicazione (ostativa) alla libera narrazione della
biografia altrui del cosiddetto “diritto all’oblio”.
Come è noto, questo diritto è stato di recente specificato nei suoi elementi costitutivi dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, quale manifestazione specifica del diritto alla riservatezza (39). Certamente esso ha trovato la
propria sanzione giurisprudenziale in relazione al
fenomeno (tanto vasto quanto molto specifico e
diverso da quello che ci occupa) della indicizzazione dei risultati delle ricerche effettuate tramite i
motori di ricerca in Internet. Tuttavia, le motivazioni che la Corte ha posto alla base del riconoscimento del diritto, in quanto ricollegate ai più generali principi in materia di tutela della riservatezza, appaiano a nostro parere passibili di declinazione in altri campi, quale appunto quello dell’esposizione delle vicende biografiche. Di interesse ai nostri fini è anche l’espresso riconoscimento della necessità di bilanciare il diritto all’oblio con altri diritti fondamentali, effettuato dalla Corte secondo
un ragionamento che appare senz’altro applicabile
anche ad un eventuale “diritto sulla biografia”. La
Corte ha infatti espressamente escluso la supremazia del diritto all’oblio su altri diritti fondamentali,
quali la libertà di espressione del pensiero e il diritto di cronaca, ai quali invero il diritto all’oblio deve cedere il passo, posto che, come efficacemente
osservato dalla Commissione UE in commento alla
sentenza (40), il bilanciamento tra questi diritti
“dipende dalla natura dell’informazione in questione, dal suo carattere sensibile per la vita privata di
una persona e dall’interesse pubblico ad avere quell’informazione” dal momento che, la Commissione
prosegue, “il diritto all’oblio non intende certo
rendere le persone famose meno famose né i criminali meno criminali”.
(38) Cfr. L. Mezzasoma, Il diritto all’immagine fra Codice Civile e Costituzione, in Revista Internacional de Doctrina y Jurisprudentia, 2012, 11 ss.
(39) Cfr. Commissione europea, Factsheet on the Right to
be Forgotten Ruling (C-131/12), disponibile all’indirizzo http://e-
c.europa.eu/justice/data-protection/files/factsheets/factsheet_data_protection_en.pdf.
(40) Cfr. Commissione europea, Factsheet on the Right to
be Forgotten Ruling, cit.
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Diritto d’autore
Tutela dell’immagine
Tutela dell’immagine:
nozione estensiva del Tribunale
di Milano
Tribunale di Milano, Sez. specializzata in materia di imprese, 21 gennaio 2014 - Giud. un. Marangoni - X c. Caleffi S.p.a.
I. La tutela dell’immagine ex art. 10 c.c. ricomprende anche elementi non immediatamente riferibili alla persona, come abbigliamento, ornamenti, trucco ed altri che, proprio per le loro caratteristiche, sono tali da richiamare allo spettatore il personaggio al quale questi elementi sono strettamente connessi.
II. La sezione specializzata in materia di impresa (D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, in
L. 24 marzo 2012, n. 27) deve considerarsi quale articolazione interna al Tribunale presso il quale la stessa è,
per legge, istituita.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Pret. Roma 18 aprile 1984; Trib. Milano 26 ottobre 1992; Cass. n. 2223/1997.
Difforme
Non sono stati rinvenuti precedenti difformi.
Il Tribunale (omissis).
FATTO E DIRITTO
1. Gli attori (...) in quanto figli legittimi ed unici eredi
della nota attrice Audrey Hepburn, hanno rivendicato
di essere gli unici soggetti legittimati a prestare il consenso all’uso del nome e dell’immagine della loro madre
ai sensi degli artt. 93 e 96 L.A. ed hanno perciò contestato alla convenuta Caleffi s.p.a. di aver utilizzato nell’ambito di una sua iniziativa promozionale (concorso a
premi denominato “Il Diamante dei Sogni”) l’immagine
dell’attrice senza avere richiesto ed ottenuto preventivamente l’autorizzazione dagli odierni attori.
Sul presupposto dell’illegittimità di tale utilizzazione
hanno dunque richiesto la condanna della società convenuta al risarcimento di tutti i conseguenti danni.
La convenuta Caleffi s.p.a. ha precisato che le inserzioni pubblicitarie che promuovevano l’iniziativa in questione mostravano una donna elegante, con gioielli, intenta ad osservare la vetrina di una gioielleria, foto eseguita utilizzando una modella.
Ha contestato in via preliminare la competenza della
Sezione specializzata in materia di impresa, vertendosi
in tema di diritto all’immagine, e nel merito di aver effettivamente utilizzato l’immagine di Audrey Hepburn
in quanto la persona ritratta era una modella.
Ha poi contestato i criteri utilizzati dagli attori per la
determinazione di un eventuale danno risarcibile. Ha
concluso infine per il rigetto delle domande svolte nei
suoi confronti.
292
2. In via preliminare deve condividersi la tesi di parte
convenuta, secondo la quale la presente controversia in
effetti non rientra nell’ambito della competenza funzionale della Sezione specializzata in materia di impresa.
Se, invero, parte attrice ha richiamato a sostegno della
tesi contraria il tenore degli artt. 93, 96 e 97 L.A., tuttavia deve rilevarsi che il tema della controversia è la
tutela del diritto all’immagine prevista in via principale
e sostanziale dall’art. 10 c.c., rispetto al quale l’art. 97
L.A. pare funzionale al fine di stabilire i soli casi in cui
l’utilizzazione del ritratto altrui è invece consentita senza preventiva autorizzazione ed in via eccezionale.
In sostanza il diritto all’immagine appartiene al novero
dei diritti della personalità ed è specificamente oggetto
di tutela sulla base della normativa civilistica e dei relativi fondamenti costituzionali (art. 2 Cost.), mentre
nella normativa propria del diritto d’autore si rinvengono solo le possibili ipotesi che scriminano la diffusione
non autorizzata del ritratto.
Se ciò è vero in via generale, deve altresì rilevarsi che
nel caso di specie le parti attrici non hanno lamentato
nei confronti della società convenuta l’utilizzazione di un
ritratto - nel senso di una specifica immagine fotografica
che comprendeva la reale riproduzione dell’immagine e
delle fattezze della loro madre - bensì la ricostruzione fotografica di un contesto e di un personaggio - interpretato da una modella - che riprendeva caratteristiche e ambientazione in tesi idonei a richiamare nella mente dello
spettatore l’immagine dell’attrice Audrey Hepburn.
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Diritto d’autore
Il fatto che l’immagine fotografica contestata non riprenda l’immagine reale della madre degli attori evidenzia in particolare come la controversia risulti estranea
sia alle ipotesi scriminanti previste dall’art. 97 L.A. che evidentemente implicano l’esistenza di un effettivo
ritratto, cioè la ripresa fotografica delle fattezze del soggetto e che comunque in ogni caso non consentono utilizzazioni in campo pubblicitario - che ad ulteriori eventuali profili che potrebbero in astratto implicare la competenza di questa Sezione specializzata in materia di impresa, e cioè attinenti - in ipotesi - ai diritti esistenti in
materia di diritto d’autore sulle immagini ove considerate alla stregua delle opere fotografiche protette in via
primaria (art. 2, comma 7, L.A.) o quale oggetto di soli
diritti connessi (artt. 88 e ss. L.A.).
In tale prospettiva, dunque, la presente controversia attiene in via esclusiva all’ambito del diritto all’immagine
tutelato dall’art. 10 c.c., senza alcuna implicazione della
normativa a tutela del diritto d’autore o a diritti da esso
derivanti.
3. Ciò posto, non ritiene tuttavia il giudicante che possa ritenersi fondata anche l’eccezione di incompetenza
territoriale come formulata dalla convenuta.
Essa ha invero svolto le sue contestazioni in maniera incompleta ed inidonea a consentire l’individuazione di
tutti i tribunali che - sulla base delle tesi da essa sostenute - potrebbero ritenersi in astratto competenti.
Invero nell’analizzare le ipotesi di foro alternativo stabilite dall’art. 20 c.p.c., parte convenuta ha affrontato il
tema del luogo di pubblicazione del periodico ove la
campagna pubblicitaria contestata si è sviluppata (Milano) ma nel contestarne la rilevanza - in quanto esso individuerebbe in realtà una molteplicità di luoghi alternativi e non un solo luogo in cui potrebbe ritenersi individuabile il primo contatto tra periodico e lettore - ha
tuttavia omesso di indicare specificamente sulla base di
tale argomentazione quale sarebbe in realtà il tribunale
effettivamente competente.
È orientamento costante della giurisprudenza di legittimità che eventuali contestazioni circa la competenza
territoriale del giudice adito debbano necessariamente
essere svolte con riferimento a ciascuno dei concorrenti
criteri di collegamento previsti dagli artt. 18, 19 e 20
c.p.c. restando in caso contrario la competenza del giudice adito radicata in base al profilo non (o non efficacemente) contestato (v. da ultimo Cass. ord. 23328/14;
v. anche Cass. ord. 27 ottobre 2003 n. 16136).
Di fatto la mancata specificazione del giudice ritenuto
competente sulla base di uno dei profili prospettabili rende incompleta e dunque inammissibile la contestazione.
Va infine specificato che la competenza tabellare interna di questo Tribunale comporta l’assegnazione alla Sezione specializzata in materia di impresa anche di controversie non appartenenti alla competenza funzionale
prevista dall’art. 3 D.Lgs. n. 168 del 2003 e che pertanto la presente causa è decisa da questo giudice - pur assegnato alla Sezione specializzata in materia di impresa
del Tribunale di Milano - sulla base degli ordinari criteri e disposizioni processuali comuni, e cioè in funzione
monocratica.
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Secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, infatti, la ripartizione delle funzioni tra le sezioni specializzate e le sezioni ordinarie del medesimo tribunale non
implica l’insorgenza di una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all’interno dello stesso ufficio (così Cass.
21668/13).
4. Quanto al merito delle contestazioni svolte dalle parti attrici, ritiene questo giudice che esse debbano ritenersi fondate.
È opinione ormai da tempo consolidata nella giurisprudenza che la tutela dell’immagine della persona fisica
possa estendersi fino a ricomprendere anche elementi
non direttamente riferibili alla persona stessa, come abbigliamento, ornamenti, trucco ed altro che per la loro peculiarità richiamino in via immediata nella percezione
dello spettatore proprio quel personaggio al quale tali elementi siano ormai indissolubilmente collegati (v. Pretura
di Roma 18 aprile 1984; v. anche Cass. 2223/97).
Il chiaro intento evocativo del soggetto noto al fine di
utilizzarne l’immagine attraverso il palese richiamo ad
essa - sia esso eseguito mediante il ricorso a degli oggetti
o ad un contesto direttamente ed univocamente ad esso
riferibile o anche attraverso l’utilizzazione di sosia (v.
Tribunale Milano 26 ottobre 1992) - si atteggia in casi
simili come elusivo della necessità di acquisire l’autorizzazione dello stesso all’uso della sua immagine e alla remunerazione generalmente connessa ad una modalità di
sfruttamento di essa di natura commerciale.
Nel caso di specie non vi è dubbio che la costruzione
dell’immagine fotografica oggetto di contestazione
(docc. 4, 5 e 6 fasc. attori) sia direttamente e palesemente evocativa dell’immagine dell’attrice Audrey
Hepburn, come fortemente caratterizzata nella sua interpretazione del celebre film Colazione da Tiffany (v.
docc. 1214 fasc. attori).
Appare del tutto evidente l’intento del fotografo di richiamare direttamente proprio l’immagine dell’artista
così come esposta e caratterizzata in tale opera cinematografica, di estrema eleganza e raffinatezza sia per le naturali doti personali della stessa che per le scelte di abbigliamento, dei gioielli, dell’acconciatura che ne hanno consolidato in maniera indelebile proprio attraverso
tale immagine le peculiarità del personaggio.
E proprio tale specifico contesto risulta identicamente
riprodotto nella fotografia contestata, ove la modella
che appare parzialmente di spalle presenta esattamente
la stessa particolare acconciatura, l’abito nero, i lunghi
guanti neri, i gioielli e gli occhiali da sole che nel loro
insieme hanno caratterizzato l’immagine dell’attrice.
La stessa immagine contestata riprende inoltre esattamente anche l’ambientazione e la posa di Audrey Hepburn nella famosa scena in cui essa guarda la vetrina
della gioielleria ed è raffigurata appunto parzialmente di
spalle (v. doc. 12 fasc. attori).
Deve dunque concludersi che sussiste nel caso di specie
un’utilizzazione indebita dell’immagine di Audrey Hepburn sia pure mediata dalla ricostruzione artificiosa eseguita nell’interesse della convenuta ma del tutto idonea
a consentire ai lettori l’immedesimazione tra detta scena
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e la persona di Audrey Hepburn e dunque a consentire
l’associazione non autorizzata della stessa alla campagna
pubblicitaria in questione.
Ciò consente dunque di ritenere pienamente integrata
la responsabilità della convenuta per l’indebita utilizzazione dell’immagine in questione in relazione all’ipotesi
di cui all’art. 10 c.c. che fonda l’obbligo risarcitorio di
cui all’art. 2047 c.c.
5. Non pare dubitabile che gli odierni attori siano gli effettivi titolari del diritto ad esprimere il consenso per
l’utilizzazione da parte di terzi dell’immagine della persona defunta, posto che la documentazione in atti dimostra che essi sono i figli legittimi di Audrey Hepburn
(v. docc. da 1 a 3 fasc. attori).
In tale veste essi risultano titolari di tale diritto sia ai
sensi dell’art. 93, comma secondo, L.A. (in quanto richiamato dall’art. 96 L.A.) per ciò che attiene alla tutela dei diritti morali e comunque quali eredi della stessa
per ciò che attiene alla sfera dei diritti patrimoniali.
(omissis).
IL COMMENTO
di Claudia Del Re
La tutela dell’immagine della persona fisica si estende a ricomprendere anche elementi non direttamente riconducibili alla persona stessa, come abbigliamento, ornamenti, trucco, anche indossati da una modella-sosia che ne riproduce gli elementi essenziali. Questo perché nella mente del consumatore essi richiamano immediatamente e direttamente quel personaggio cui essi
sono legati. Pertanto, l’utilizzo non autorizzato di una sosia che impieghi gli elementi caratterizzanti il personaggio della Audrey Hepburn impersonificato in “Colazione da Tiffany” senza il
consenso degli eredi costituisce violazione del diritto all’immagine ex art. 10 c.c. in quanto oggetto di tutela sulla base della normativa civilistica e dei relativi fondamenti costituzionali (art. 2
Cost.). Non pare rinvenirsi, invece, lesione della normativa propria del diritto d’autore (artt. 9697, L. n. 633/1941) poiché entro siffatta fattispecie si rinvengono solo le possibili ipotesi che
scriminano la diffusione non autorizzata del ritratto e non la ripresa dell’immagine altrui.
Ecco allora che se gli eredi della Hepburn spiegavano azione davanti alla Sezione specializzata
in materia di impresa del Tribunale di Milano qualificando erroneamente l’illecita ripresa dell’immagine dell’attrice a mezzo sosia come una violazione rilevante anche sotto il profilo autorale
tecnicamente la suddetta Sezione non sarebbe stata competente a decidere la controversia. Senonché, anche secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, la ripartizione delle funzioni
tra sezioni specializzate e sezioni ordinarie del medesimo Tribunale non implica l’insorgenza di
una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all’interno dello stesso ufficio e pertanto la causa rimaneva in decisione presso la Sezione specializzata del tribunale meneghino.
Con sentenza in esame il Tribunale di Milano si
è pronunciato sull’art. 10 (1) c.c. (di seguito, c.c.)
relativo al diritto all’immagine, in un causa promossa dai figli di Audrey Hepburn, in qualità di
unici suoi eredi, nei confronti della Caleffi S.p.a.,
società che produce e vende biancheria per la casa.
I ricorrenti lamentavano la violazione dell’art.
96 (2) della L. 22 aprile 1941, n. 633 (Legge sul diritto d’autore, di seguito L.A.) e dell’art. 10 c.c. da
parte della Caleffi S.p.a. per aver utilizzato a fini
commerciali, senza il consenso dei ricorrenti, l’immagine dell’attrice per la campagna pubblicitaria
di promozione del concorso a premi denominato
“Il Diamante dei Sogni”. Il concorso veniva pubblicizzato su riviste dedicate al pubblico femminile
e sul sito internet della società. Prima di instaurare
il giudizio, gli eredi dell’attrice avevano comunque
già diffidato la Caleffi dal continuare a sfruttare
economicamente l’immagine della Hepburn. La so-
(1) Art. 10 c.c.: “Qualora l’immagine di una persona o dei
genitori, del coniuge o dei figli sia stata esposta o pubblicata
fuori dei casi in cui l’esposizione o la pubblicazione è dalla legge consentita, ovvero con pregiudizio al decoro o alla reputazione della persona stessa o dei detti congiunti, l’autorità giudiziaria, su richiesta dell’interessato, può disporre che cessi l’a-
buso, salvo il risarcimento dei danni”.
(2) Art. 96 Legge diritto d’Autore: “Il ritratto di una persona
non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio
senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell’articolo
seguente. Dopo la morte della persona ritrattata si applicano
le disposizioni del 2/a, 3/a e 4/a comma dell’art. 93”.
Il caso
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Diritto d’autore
cietà, pur ritenendosi estranea ad ogni responsabilità, al fine di evitare l’insorgere di controversie,
decideva di interrompere la campagna pubblicitaria
e sostituiva il relativo materiale cartaceo distribuito nei punti vendita. I ricorrenti chiedevano in
giudizio il risarcimento del danno a titolo di prezzo
del consenso, annacquamento dell’immagine, danni morali da liquidarsi per intero, o in via subordinata, in caso di mancato accoglimento della domanda, in modalità equitativa.
La società convenuta rilevava che le immagini
pubblicitarie volte a promuovere il concorso mostravano una donna elegante con gioielli che osservava la vetrina di una gioielleria. A loro avviso, infatti, si trattava di immagini scattate su un set fotografico, con protagonista una modella ripresa davanti ad un negozio di Reggio Emilia. La società
voleva cioè solo avanzare la possibilità di ricevere
un anello di valore, gioiello che è tradizionalmente
oggetto di piacere per ogni donna, con l’acquisto
di un loro prodotto. L’elemento fondamentale della scena sarebbe cioè stato la coperta trapuntata a
righe multicolori retta dal braccio destro della modella.
Il Tribunale, in primo luogo, accoglieva la tesi
sostenuta dalla Caleffi dell’assenza di competenza
funzionale della sezione specializzata in materia
d’impresa (cd. Tribunale delle Imprese, dal 2012
sostitutivo delle sezioni specializzate in materia di
proprietà industriale e intellettuale istituite con il
D.Lgs. n. 168/2003) rilevando che l’oggetto della
controversia verteva sull’art. 10 c.c. ma non su diritti connessi alla tutela del diritto d’autore. Inoltre, per il Tribunale i ricorrenti non avevano contestato alla Caleffi l’utilizzazione di un ritratto, ma
la ricostruzione fotografica di un contesto e di un
personaggio.
Proprio alla luce di questo motivo, per il Tribunale, la vicenda esulava dalle ipotesi previste dall’art. 96 L.A. o da altre norme della L.A. che in
astratto avrebbe giustificato la competenza funzionale della sezione specializzata in materia di impresa. Tuttavia, poiché la ripartizione delle funzioni
tra sezioni specializzate e sezioni ordinarie non attiene alla questione di competenza territoriale, il
Giudice adito riteneva di poter decidere la controversia, dato che la competenza tabellare interna
del Tribunale comporta l’assegnazione alla sezione
specializzata in materia d’impresa anche di controversie non ricomprese nella competenza funzionale
di essa così come previsto dall’art. 3 del D.Lgs. n.
168/2003.
Per quanto riguarda la competenza territoriale, il
Giudice riteneva inammissibile l’eccezione di incompetenza dedotta dalla convenuta poiché questa
aveva presentato indicazioni generiche senza indicare sulla base di quale criterio si sarebbe potuto
stabilire l’organo giudicante astrattamente competente.
Il Tribunale dichiarava la responsabilità della
Caleffi per indebita utilizzazione d’immagine ex art.
10 c.c., a cui conseguiva direttamente l’insorgenza
della responsabilità risarcitoria ex art. 2059 c.c. per
lesione di diritti non patrimoniali della persona, e
risarciva l’illecito basandosi su un criterio equitativo.
Nozione di diritto all’immagine
La decisione del Tribunale meneghino sembra
accogliere una nozione piuttosto estensiva del diritto all’immagine inibendo l’uso non autorizzato di
qualsiasi riproduzione dell’immagine altrui che, pur
non raffigurando l’effige esatta del soggetto, ne riproduca elementi, accessori, contesti riconducibili
al soggetto ritratto.
D’altra parte, si può dire essersi creato un vero e
proprio mercato della pubblicità legato alla cessione del diritto all’immagine di persona nota. Gli
imprenditori, talvolta per non essere sottoposti alle
richieste economiche delle celebrità, provano a
sfruttare indirettamente la notorietà del personaggio celebre per fini pubblicitari. L’abusiva e non
autorizzata pubblicazione dell’immagine altrui determina un danno di natura anche patrimoniale,
causando il venir meno per l’interessato della possibilità di offrire l’uso del proprio ritratto per pubblicità di prodotti o servizi analoghi e determinando, altresì, la difficoltà a commercializzare al meglio la propria immagine anche con riferimento a
servizi o prodotti diversi.
Una tale impostazione era già stata sostenuta
dalla Pretura di Roma nella sentenza “Dalla”
(1984) (3). Nel caso di specie, il cantante Lucio
Dalla lamentava che una società produttrice di apparecchi musicali (Autovox) utilizzasse in manifesti e pagine pubblicitarie immagini di un copricapo
a zucchetto di lana a maglie grosse e di un paio di
occhialetti a binocolo. Il noto cantante sosteneva
che questi due oggetti fossero due elementi caratteristici e distintivi della sua attività che lo identifi-
(3) Pret. Roma 18 aprile 1984.
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cavano precisamente e pertanto era da ritenersi illecito il loro uso in una campagna pubblicitaria in
assenza di esplicita autorizzazione. Anche in questo
caso si poneva la necessità di capire se nel concetto d’immagine rientrassero non solo le fattezze della persona, ma anche elementi accessori che, usati
frequentemente, consentono l’identificazione della
persona stessa.
Il Pretore affermava che Dalla era un personaggio di elevata popolarità (anche conosciuto all’estero) e, con una valutazione del tutto soggettiva,
ne rilevava l’ingente numero di fan. Essendosi il
cantante contraddistinto per portare con sé zucchetto ed occhialini, di fatto questi accessori avevano finito per contraddistinguerlo per il grande
pubblico. E pertanto, siccome siffatti accessori avevano occupato una buona parte dello spazio degli
annunci Autovox, si desumeva che la campagna
pubblicitaria avesse tutta l’intenzione di dare
un’importanza centrale a tali elementi, sottolineando il legame tra i prodotti della società e il
cantante che ne sostiene l’uso. A sostegno di questo, il Pretore affermava altresì che la riproduzione
minuziosa di questi due elementi che, di regola, sarebbero irrilevanti, non poteva essere giustificata
altrimenti. Già verso la metà degli anni ’80, cioè,
il Tribunale affermava che la tutela dell’immagine
ex art. 10 c.c. si deve estendere a ricomprendere
anche elementi non immediatamente riferibili alla
persona, come abbigliamento, ornamenti, trucco
ed altri che, proprio per le loro caratteristiche, sono tali da richiamare allo spettatore il personaggio
al quale questi elementi sono strettamente connessi (si veda anche Cass. n. 2223/1997). Di tutta evidenza, comunque, è la mancata ascrivibilità nel caso di specie dell’illecito a fattispecie inquadrabili
entro la legge sul diritto d’autore. Nel caso “Dalla”,
infatti, la mera ripresa di elementi distintivi non
poteva rivestire un carattere “autorialmente” protetto o proteggibile, tale per cui non si lamentava
la violazione degli artt. 96 e 97 (4) L.A., ovvero la
violazione della rielaborazione personale ed artistica di un’opera protetta ai sensi della Legge sul diritto d’autore (cfr. “ritratto”).
Un caso analogo, di poco successivo (5), aveva
visto la pubblicizzazione su varie riviste della S.p.a.
Periodici Rizzoli (Anna, Brava Casa) e della S.p.a.
Rusconi Editore (Gioia, Gioia Casa) di inserti pubblicitari reclamizzanti i prodotti della Ditta Doimo
Salotti basati sulla riproduzione dell’immagine di
una sosia dell’attrice Monica Vitti. Poiché la dichiarazione attestante trattarsi della fotografia di
una sosia dell’attrice era solo posta a lato dell’articolo e redatta in caratteri minuscoli, a parere della
Vitti si trattava di un uso scorretto del suo ritratto
e lesivo della sua personalità artistica non avendo
mai prestato la propria immagine a fine pubblicitari. D’altra parte, il diritto all’immagine rientra nel
novero dei diritti della personalità la cui violazione
fa sorgere l’obbligo di risarcire i danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c. Infatti, si tratta di un diritto costituzionalmente protetto dall’art. 2 Cost.
In questo caso, dunque, risultando evidente la somiglianza tra la donna raffigurata nella pubblicità e
Monica Vitti, e non rilevando a tale proposito che
l’osservatore potesse distinguere le differenze somatiche tra la sosia e l’attrice, si doveva ravvisare la
violazione dell’art. 10 c.c. nonché quella degli artt.
96 e 97 L.A. Somiglianza che, a parere dell’organo
giudicante, doveva considerarsi immediata a causa
del trucco, della pettinatura, del modello di occhiali e di altri dettagli. La prospettiva presa in
considerazione dal Tribunale doveva essere quella
del consumatore medio che, poco attento ai dettagli, avrebbe potuto essere tratto in inganno da
un’analisi a prima vista. Di notevole interesse, in
questo caso, fu non solo il mancato rilievo del profilo attinente alla responsabilità extra-contrattuale
dei soggetti coinvolti nella pubblicazione (la sosia,
la casa di produzione di mobili, gli editori) (6) ma
anche il fatto che l’impiego di una sosia fosse stato
equiparato, in fatto ed in diritto, a quello dell’illecita riproduzione del ritratto altrui. Viene pertanto
lecito domandarsi, a questo punto, cosa la giurisprudenza italiana di fine anni ’80 - inizio anni ’90
abbia iniziato ad intendere con la dicitura “ritratto”. Il ritratto parrebbe, infatti, estendersi non solo
alla esatta riproduzione della fisionomia della persona ma anche ad una qualsivoglia similare raffigu-
(4) Art. 97: “Non occorre il consenso della persona ritrattata
quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o
di polizia, da scopi scientifici, didattici o colturali, o quando la
riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.
Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pre-
giudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della
persona ritrattata”.
(5) Pret. Roma, ord. 6 luglio 1987 (e poi Trib. Milano, 26 ottobre 1992).
(6) In particolare, fu statuito dal Tribunale che non fossero
civilmente responsabili la casa editrice, la concessionaria della
pubblicità e il sosia ma che lo fossero solo i realizzatori e i diretti utilizzatori della campagna pubblicitaria.
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Diritto d’autore
razione morfologica astrattamente capace di riprodurne i caratteri esterni essenziali, come avviene
nel caso di un sosia. A ciò aggiungasi, inoltre, che
nel caso di specie la lesione all’immagine in senso
costituzionalmente tutelato come diritto assoluto
della persona veniva a sommarsi anche ai profili
autoriali ex L.A., quasi come a dire che la lesione
dell’immagine a mezzo di sosia dovesse essere inquadrata anche come illecita riproduzione di materiale “protetto” quale un ritratto.
Analoghe considerazioni, per quanto all’interno
di una fattispecie del tutto diversa (poiché avente
come fulcro la registrazione come marchio d’impresa dell’immagine altrui), furono svolte nel caso
“Totò” (1997) (7), ove la società Sperlari, nel
1988, aveva in messo in vendita dei cioccolatini
contrassegnati dal un marchio costituito da un disegno a forma di cuore con all’interno la scritta
“Totò” ed alcuni elementi figurativi stilizzati riprendenti le sembianze di Totò (naso storto, occhi
a mandorla). La Cassazione giudicava che si sarebbe dovuto esaminare la combinazione tra l’effetto
complessivo di quei ritratti stilizzati e il nome di
Totò. In sostanza, anche nel caso dei cioccolatini,
la mera ripresa di elementi individualizzanti dell’attore, per quanto non riproducendone esattamente
il volto, poteva assurgere a lesione dell’immagine
altrui se considerata dal punto di vista del consumatore destinatario del marchio che conduce un
esame rapido e non approfondito dei segni. A tal
proposito la Cassazione riteneva (8) che assume rilievo anche valutare il motivo per cui un imprenditore usa dei segni distintivi tra loro combinati:
ipotizzando che lo faccia esclusivamente al fine di
approfittare della notorietà della persona richiamata, l’indebito sfruttamento dell’immagine altrui è
ex se realizzato.
Nella sentenza del Tribunale meneghino di cui
qui si discute, il fine di richiamare la persona nota
viene ravvisato a mezzo dell’utilizzazione di una sosia (9) nonché attraverso oggetti o contesti a questa riconducibili. A differenza del caso “Vitti” (dove comunque veniva impiegata una sosia), però,
qui il Tribunale non ravvisa alcuna applicabilità
degli artt. 96 o 97 L.A. ma ribadisce solo che la ri-
presa di caratteri distintivi dell’immagine della persona nota si pone come elusione dell’acquisizione
del consenso all’uso dell’immagine medesima e del
corrispettivo generalmente versato per uso a fine
commerciale. Il Tribunale meneghino pare cioè
collocarsi precisamente in quella consolidata giurisprudenza sopra richiamata che interpreta la nozione di “immagine” ex art. 10 c.c. non solo come la
mera ripresa delle fattezze della persona quanto come la riproduzione materiale di qualsivoglia elemento connotante quella persona nella memoria
del consumatore medio. L’utilizzo di accessori che
ricordano, nella mente del consumatore medio, la
nota attrice, o meglio la posa della nota attrice,
dunque, configura un illecito ai sensi dell’art. 10
c.c., ledendo il diritto di quest’ultima alla propria
immagine e alla propria identità personale (10). Il
diritto all’immagine di un soggetto sorgerebbe,
dunque, non tanto nel momento in cui sono riprese le sue fattezze quanto la loro riproduzione materiale, in qualsivoglia modo realizzata. La violazione
del diritto all’immagine starebbe, insomma, secondo il Tribunale di Milano, nella riproduzione dell’immagine altrui su un supporto stabile e non nella mera esecuzione del ritratto (11). Pertanto, anche la mera stilizzazione di una fisionomia che presuppone un’identità di riferimento precisa e riconoscibile viene considerata come tesa ad un’unica
finalità: quella di voler ricondurre la memoria storica del consumatore a quel personaggio noto senza
chiedere il consenso di utilizzo della sua immagine.
In questo modo viene dunque ricondotto l’uso pubblicitario del sosia alle ipotesi di riproduzione dell’immagine altrui attraverso la fotografia o il disegno. La violazione già sussistente si aggraverebbe
non di poco se, poi, l’utilizzazione dell’immagine
del sosia avvenisse in un contesto che causa anche
la lesione del diritto all’onore della persona nota,
come nel caso di sosia ritratto in atteggiamenti
provocanti (12). In questo caso il danno non patrimoniale dovrebbe valutarsi in relazione alla diffusione della pubblicazione, al rilievo dello stesso e
della gravità della lesione (13).
Per il giudice milanese, nel caso concreto, era
palese che la costruzione dell’immagine fotografica
(7) Cass. 12 marzo 1997, n. 2223.
(8) Per Albertini (in Giust. civ., 11, 1997, 2823 ss.), invece, la
Cassazione si dovrebbe astenere da tale valutazione e soltanto
verificare se c’è nel marchio un riferimento all’immagine del
personaggio noto.
(9) Una questione problematica che si pone è quella della
meritevolezza della tutela per il sosia. Il sosia potrebbe sostenere il proprio diritto all’identità personale e al lavoro. Ma tali
diritti, qualora fossero anche ritenuti sussistenti, soccombereb-
bero di fronte alla tutela che l’ordinamento fornisce alla persona nota.
(10) Cfr. Testa, in Dir. inf., 1987, 1046; Trib. Roma 29 gennaio 1992, in Giur. it., 93, I, 2, 26; Pret. Roma 6 luglio 1987, AIDA 89, 468.
(11) Cfr. Albertini, in Giust. civ., 11, 1997, 479.
(12) Trib. Roma 28 gennaio 1992, in Giur. it., 93, I, 2, 26.
(13) Secondo alcuni autori, poi, l’uso dell’immagine di persona nota per un contesto pubblicitario ravviserebbe, oltre che
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oggetto di contestazione evocasse la figura dell’attrice e in particolare la sua interpretazione nel film
“Colazione da Tiffany”. L’aspetto evocativo si sarebbe desunto dall’intento del fotografo di richiamare l’immagine dell’attrice da sempre associata a
un’idea di eleganza per portamento e abbigliamento. La modella che appare nella compagnia pubblicitaria della Caleffi, proprio per la posizione di
spalle, in cui è raffigurata, nonché per l’abbigliamento, presentava dettagli direttamente riconducibili alla Hepburn e in particolare a una scena del
film “Colazione da Tiffany” dove l’attrice è ripresa
mentre guarda la vetrina di una gioielleria ed è inquadrata di spalle. Un altro profilo meritevole d’interesse è, a nostro avviso, la mancata considerazione della Legge sul diritto d’autore da parte del Tribunale milanese: normativa che, invece, è stata
inovocata in altre fattispecie. Ad opinione del Tribunale giudicante, infatti, nel caso che qui si analizza non si è trattato della violazione delle norme
del diritto d’autore (nel caso, dei diritti su un’opera
cinematografica o fotografica), ma del fatto che la
tutela dell’immagine della persona fisica potesse
estendersi fino a ricomprendere anche elementi
non direttamente riferibili alla persona stessa, come l’abbigliamento, gli ornamenti, il trucco ed altro che per la loro peculiarità - spesso legate alla
notorietà della persona - richiamano in via immediata nella percezione dello spettatore quel personaggio al quale tali elementi sono ormai indissolubilmente legati. Tanto è vero che, come correttamente evidenzia il Tribunale, i ricorrenti non avevano contestato alla Caleffi l’utilizzazione di un ritratto, cioè “di un’immagine fotografica che comprendeva la reale riproduzione dell’immagine e delle fattezze della loro madre” (14), ma la ricostruzione fotografica di un contesto e di un personaggio,
impersonato da una modella-sosia che è tale da farvi associare nella mente dell’osservatore l’immagine della Hepburn. Se l’osservatore, in questo caso
il consumatore di coperte, è attratto da una pubblicità poiché in essa vi appare la figura che individua
il ritratto di un personaggio noto, è evidente che
matura un danno del diritto all’immagine altrui e
non un’altra forma di illecito. Si potrebbe cioè rilevare che la giurisprudenza più recente tenda a qua-
lificare la lesione del diritto all’immagine attraverso l’uso di un sosia come lesione di un diritto assoluto della personalità costituzionalmente tutelato e
non in quanto “ritratto”, di per sé connotato da
profili creativi e/o artistici, come avvenuto nel passato.
La mancata riconducibilità dell’illecito anche alla Legge sul diritto d’autore ha avuto come diretta
conseguenza una riduzione notevole della soddisfazione economica dei ricorrenti che non hanno potuto basare la loro pretesa sui profitti di norma ricavabili da una licenza di diritto d’autore. Nello
stimare l’ammontare del risarcimento del danno
(valutato in termini equitativi) il Tribunale ha, infatti, misurato il quantum sulla base del criterio per
cui il soggetto non potrà più offrire l’uso del proprio ritratto per fini pubblicitari su prodotti o servizi analoghi o nella maggiore difficoltà alla promozione della sua immagine in relazione a prodotti o
servizi diversi (15).
L’assenza di profili autoriali riconducibili alla
Legge sul diritto di Autore avrebbe determinato
anche l’assenza di competenza funzionale della sezione specializzata in materia d’impresa (c.d. Tribunale delle Imprese, dal 2012 (16) sostitutivo delle
sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale istituite con il D.Lgs. n.
168/2003), stante il fatto che l’oggetto della controversia verte sull’art. 10 c.c. Come è ben noto,
l’art. 4 del D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168 si limita
a stabilire che le controversie, indicate nell’art.
3 (17), che, secondo gli ordinari criteri di ripartizione della competenza territoriale, dovrebbero essere trattate dagli uffici giudiziari compresi nel territorio della regione, sono assegnate alla sezione
specializzata avente sede nel capoluogo di regione
individuato ai sensi dell’art. 1, mentre alle sezioni
specializzate istituite presso i Tribunali e le Corti
d’Appello non aventi sede nei capoluoghi di regione sono assegnate le controversie che dovrebbero
essere trattate dagli uffici giudiziari compresi nei rispettivi distretti di Corte d’Appello. Pertanto, interpretando formalmente la norma, l’esito sarebbe
quello di vedersi profilare una vera e propria questione di competenza, tale per cui il Tribunale ove
non è istituita sezione specializzata erroneamente
naturalmente una lesione del diritto all’immagine, anche un’ipotesi di pubblicità ingannevole e concorrenza sleale: cfr. Carosone Oscar, Prospettive del diritto all’immagine, in Dir. aut.,
1989, vol. 60, fasc. 4, 469-495, Nota a ordinanza Pret. Roma 6
luglio 1987 e ordinanza Pret. Roma 3 luglio 1987.
(14) Trib. Milano 21 gennaio 2015 in commento.
(15) Cass. 2 maggio 1991, n. 4785.
(16) D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, in L. 24 marzo 2012, n. 27.
(17) Controversie afferenti a marchi nazionali, internazionali
e comunitari, brevetti d’invenzione e per nuove varietà vegetali, modelli di utilità, disegni e modelli e diritto d’autore, nonché’
di fattispecie di concorrenza sleale interferenti con la tutela
della proprietà industriale ed intellettuale.
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Diritto d’autore
investito di causa avente per oggetto una delle materie sopra indicate dovrebbe certamente declinare
la propria competenza in favore del Tribunale ove
la sezione specializzata è invece istituita; inversamente, che il Tribunale ove la sezione è istituita,
erroneamente investito di controversia esulante
dalle materie in questione, dovrebbe adottare provvedimento di segno analogo in favore del Tribunale competente secondo le regole ordinarie. Siffatta
rigida interpretazione (18) sembrerebbe del tutto
sconfessata dal Tribunale meneghino che aderisce
a quella interpretazione (19) più funzionale della
norma secondo cui la ripartizione delle funzioni tra
le sezioni specializzate e le sezioni ordinarie del medesimo Tribunale - non involgendo un errore nel-
l’individuazione dell’ufficio giudiziario e, quindi, la
necessità di una ricollocazione territoriale della
controversia - non implica l’insorgenza di una questione di competenza, attenendo piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all’interno
dello stesso ufficio. Così facendo, dunque, sarebbe
inammissibile la proposizione di un regolamento di
competenza in senso tecnico che altro non farebbe
se non aggravare i costi e rallentare i tempi della
giustizia. In tal modo le parti non potrebbero sollevare una questione di competenza ma solo pretendere il rispetto delle previsioni tabellari e, dunque,
appunto di quella distribuzione degli affari che si
assume violata.
(18) Trib. Napoli, ord. 10 marzo 2014, inedita, e App. Napoli, sent. 20 febbraio 2014, n. 763, in www.ilcaso.it. Ma si vedano, altresì, Trib. Venezia 30 aprile 2008, in Foro it., 2008, 1733;
Cass., Sez. I, ord. 14 giugno 2010, n. 14251; Cass., Sez. I, ord.
25 settembre 2009, n. 20690.
(19) Cass., Sez. VI, 22 novembre 2011, n. 24656; Cass., 7
ottobre 2004, n. 19984, nonché, da ultimo, Cass., Sez. VI, 20
settembre 2013, n. 21668.
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Domain name
L’ultimo nato tra i segni
distintivi: il nome a dominio
di Giovanni Gargiulo
La rapida espansione su scala mondiale della rete internet e la possibilità per le singole imprese
di mettere in rete i propri prodotti e servizi ha fatto si che il domain name acquisisse una sempre
più marcata funzione distintiva ed identificativa dell’impresa, assumendo una rilevanza giuridica
ed economica assimilabile a quella del marchio.
Internet: evoluzione di un fenomeno
Internet nasce negli Stati Uniti, con l’acronimo
ARPANet, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli
anni ’70, grazie agli studi dell’ARPA (Advanced
Research Project Agency), finanziati dal ministero
della difesa americano nell’ambito di un progetto
che puntava al mantenimento della rete di comunicazione militare in caso di guerra nucleare.
La nuova rete, che nell’intenzione dei ricercatori
non avrebbe dovuto avere applicazioni commerciali, in pochi anni è divenuta lo strumento di comunicazione per eccellenza.
La rapida ed imprevista evoluzione del sistema costrinse, infatti, il governo statunitense a separare la
sezione militare dal resto della rete, che venne appunto ribattezzata “internet”.
L’architettura di internet è costituita da un’infrastruttura di telecomunicazioni basata su una miriade di reti interconnesse che utilizzano lo stesso linguaggio di comunicazione: il protocollo TCP/IP
(Transmission Control Protocol/Internet Protocol).
Quest’ultimo consente ai diversi computer interconnessi nel complesso sistema “a ragnatela” (c.d.
host) di interagire anche se dislocati a notevole distanza l’uno dall’altro.
Per essere raggiungibile ed individuabile da ogni altro utente, ogni host deve essere dotato di un proprio codice di identificazione; invero, condizione
necessaria per il funzionamento di una rete di co(1) In effetti, il sistema descritto corrisponde al protocollo
IPv4 ormai abbandonato. La saturazione della spazio ha infatti
costretto l’autorità preposta alla gestione degli indirizzi internet
all’adozione del nuovo protocollo IPv6 basato su indirizzi a 16
300
municazione è la precisa ed univoca identificabilità
delle macchine ad essa collegate.
Il meccanismo tecnico attraverso il quale ogni interfaccia connessa alla rete viene identificata è
quello dell’assegnazione di un numero di IP (Internet Protocol) costituito da quattro bytes, suddiviso
in quattro gruppi da un byte, convertiti in formato
decimale. Si tratta, quindi, di un identificativo costituito da quattro numeri - ciascuno composto di
tre cifre, compreso tra 0 e 255 - separati da un
punto (ad esempio: 235.178.42.66) (1).
Il concetto tecnico di domain name
Ad ogni computer collegato alla rete può corrispondere un solo IP, che sarà pertanto diverso da
ogni altro IP.
Per agevolare l’accesso alle risorse internet da parte
degli utenti, è stato creato un sistema per tradurre
gli indirizzi numerici in stringhe di caratteri alfanumerici combinati tra loro in modo da risultare facilmente memorizzabili (il c.d. DNS, ovvero Domain Name System).
Il nome di dominio, quindi, è costituito da un Top
Level Domain (TLD) e da un Second Level Domain
(SLD).
Il Top Level Domain può essere rappresentato da un
suffisso generico (generic Top Level Domain gTLD), come, ad esempio: .com che identifica siti
di tipo commerciale, .edu che caratterizza enti di
ricerca ed università, .net relativo ad organizzazioni
bytes, che, dopo un periodo di sperimentazione (il protocollo
IPv6 risale al 1999), ha avuto definitiva applicazione il 6 giugno
2012.
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impegnate nella gestione della rete, ecc. (2); oppure da un suffisso relativo al singolo stato sovrano
(country code Top Level Domain - ccTLD), si possono citare a tal proposito: .uk per il Regno Unito,
fr. per la Francia, ecc.
Il Second Level Domain, posto a sinistra del TLD, è
sempre costituito da una parola scelta dall’utilizzatore.
Questo sistema ha reso più efficace, e soprattutto
più rapida, la ricerca di siti web. È noto, infatti,
che per identificare un sito web occorre un indirizzo URL (Uniform Resource Locator) composto da
più parole alternate da punti o da barre oblique, ad
esempio: http://www.giustizia.it.
Ora, mentre HTTP (Hyper Text Transfer Protocol)
identifica il tipo di risorsa internet usata per la trasmissione di dati nella rete (oltre ad essa ve ne sono infatti altre: FTP - File Transfer Protocol -, ad
esempio, identifica i server usati per scambiare file)
e WWW rappresenta l’acronimo di world wide web,
termine con il quale si designa il servizio offerto
dalla rete che consente agli utenti di navigare e comunicare usufruendo di una vasta gamma di contenuti multimediali (3), il domain name rappresenta il
vero e proprio indirizzo fisico del server in cui risiede la risorsa.
All’assegnazione di indirizzi IP e nomi di dominio
(ovvero all’esercizio delle funzioni di Internet Assigned Numbers Authority - IANA) sovraintende dal
1998 l’ICANN (Internet Corporation for Assigned
Names and Numbers), società senza fine di lucro
che, in forza di un legame contrattuale con il governo degli Stati Uniti d’America, attribuisce blocchi di indirizzi IP ad organizzatori macroregionali
(Europa, Asia-Pacifico, America e resto del mondo), i quali, a loro volta, li allocano alle rispettive
autorità nazionali o locali (LIR). Queste ultime,
infine, provvedono concretamente all’assegnazione
agli utenti finali.
In Italia le attività di Registration Authority, cioè le
attività di assegnazione di domini registrati nell’ambito del ccTLD.it (attribuito all’Italia), nonché
di gestione delle vicende successive alla prima regi(2) Esistono ben 22 TLD generici, anche se il numero è destinato a salire vertiginosamente nei prossimi anni. Infatti, l’ICANN, nella consueta riunione annuale tenutasi a Singapore
nel giugno 2011, ha dato il via libera alla registrazione di
estensioni personalizzate, permettendo l’uso di qualsiasi linguaggio di script, come il cirillico, l’arabo ed il cinese. Con
questa decisione, che segna una vera e propria rivoluzione nel
mondo di internet dopo ventisette anni dal debutto dell’estensione .com (il primo sito venne registrato da un’azienda di
computer del Massachussetes nel marzo del 1985: www.symbolics.com) è facile prevedere che le grandi multinazionali sa-
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strazione (trasferimento, modifica, cancellazione)
sono svolte dall’Istituto di Informatica e Telematica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IITCNR), attraverso un organismo ad hoc: registro.it,
che opera in stretto collegamento con il Ministero
dello Sviluppo Economico; dicastero, quest’ultimo,
chiamato ad esercitare un compito di vigilanza sull’attività di registrazione dei nomi a dominio, come
previsto dall’art. 15, comma 1, del Codice delle
Comunicazioni elettroniche (4).
L’assegnazione dei nomi di dominio - per inciso:
dei Second Level Domains - è basato su due principi
fondamentali e tra loro conseguenziali:
- il principio tecnico di unicità del nome di dominio, nel senso che non possono esistere due indirizzi internet identici (ovvero con lo stesso SLD);
- il principio convenzionale del first come, first served, in forza del quale l’assegnazione viene effettuata seguendo l’ordine cronologico delle richieste.
Il domain name nella realtà giuridica
L’espansione del fenomeno internet (solo in Italia,
nel periodo compreso tra il 2001 ed il 2010, si è registrato un aumento del numero di utenti di internet passato dal 27,0% del 2001 al 48,9% del
2010 (5)) ha attirato l’attenzione delle imprese,
che in esso hanno intravisto un’opportunità di
business.
In effetti, la rete oltre ad offrire alle aziende un
nuovo canale per la pubblicizzazione dei prodotti e
servizi, nonché per la diffusione dei segni distintivi,
ha agevolato lo sviluppo di un mercato telematico
che favorisce gli scambi commerciali, tant’è che la
quantità di compravendite effettuate direttamente
in internet è in costante aumento (sintomatiche
sono a tal uopo la nascita e l’enorme diffusione di
quelli che sono divenuti in tempi rapidi colossi
dell’e-commerce quali: amazon.com; ebay.com;
ecc.).
Tuttavia, le imprese pioniere nel sistema internet
hanno dovuto fare i conti con un problema piuttosto significativo derivante proprio dalle modalità di
assegnazione dei domini come innanzi descritta: ci
ranno tra le prime ad accaparrarsi i nuovi domini (anche in
considerazione dell’elevato costo previsto: 185.000 dollari per
la registrazione e 25.000 dollari per ogni anno di mantenimento).
(3) Spesso viene erroneamente confuso con internet, mentre in realtà il world wide web è solo uno dei tanti servizi che
la rete globale mette a disposizione degli utenti.
(4) Approvato con D.Lgs. 1° agosto 2003, n. 259, pubblicato sulla G.U. n. 214 del 15 settembre 2003.
(5) Fonti ISTAT 2011: http://noi-italia.istat.it.
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Il domain name come segno distintivo
riferiamo alla pratica del domain grabbing, consistente nell’accaparramento (to grab = arraffare) di
domini corrispondenti a marchi o nomi famosi altrui da parte di terzi, che poi proponevano il trasferimento del dominio a favore del soggetto (rectius:
dell’impresa) che ne aveva concreto interesse, richiedendo come corrispettivo il versamento di cospicue somme di denaro.
In Italia, il problema è stato acuito dalla mancanza
di una specifica disciplina normativa in materia di
domain name; lacuna, quest’ultima, che ha favorito
la tendenza dei giudici nazionali, investiti di questioni relative all’uso proprio od improprio di un
nome a dominio, a risolvere le singole diatribe con
provvedimenti contraddittori ed, in certe occasioni, caratterizzati dal fatto di essere in completa antitesi con i principi generali in materia di diritto
industriale e di tutela dei segni distintivi.
In effetti, in un primo momento, la giurisprudenza,
attenendosi alla regole tecniche di naming allora
vigenti (ovvero alle regole convenzionalmente pattuite dai gestori della rete), aveva qualificato il domain name come mero indirizzo telematico (6), paragonabile ad un numero telefonico (7), escludendo di fatto che lo stesso fosse configurabile alla
stregua di un segno distintivo, come pure parte della dottrina sosteneva (8).
Tuttavia, come anzidetto, il ruolo fondamentale di
internet nel mondo degli affari ha fatto si che il
domain name acquisisse una sempre più marcata
funzione distintiva ed identificativa dell’impresa
utilizzatrice.
Quindi, sul presupposto che il principio del first come, first served e quello di univocità della registrazione che regolano l’attribuzione dei domain name
sulla rete internet costituissero regole convenzionali, dirette unicamente a disciplinare il funzionamento della rete, senza quindi assumere alcun rilievo giuridico in merito ad un apprezzamento inerente la liceità dell’utilizzo di un nome a dominio, che
deve essere condotto alla luce delle norme dell’ordinamento a tutela dei segni distintivi (9), ha finito con il prevalere quell’orientamento giurisprudenziale che, pur riconoscendo al nome a dominio
una funzione di indirizzo dal punto di vista squisitamente tecnico, ha messo in evidenza come nell’uso commerciale il domain name, specie nella prospettiva della pubblicità e del commercio elettronico, abbia in concreto le stesse funzioni dei segni distintivi tipici dell’imprenditore ed, in quanto tale,
suscettibile di entrare in conflitto con questi ultimi (10).
In particolare, in taluni provvedimenti giurisdizionali, facendo leva sul principio di unità dei segni
distintivi di cui all’art. 22 c.p.i., i giudici hanno ritenuto che il domain name fosse equiparabile al
marchio utilizzato per contraddistinguere prodotti
o servizi e come tale astrattamente idoneo a creare
un rischio di confusione o di associazione sul mercato (11).
In altri arresti giurisprudenziali il nome a dominio
è stato ritenuto assimilabile all’insegna, poiché si è
(6) Trib. Bari 24 luglio 1996, in Foro it., 1997, I, 2316, stabiliva che “il nome a dominio costituisce un semplice codice di
accesso ai servizi telematici che ha soltanto la funzione di
identificare un gruppo di oggetti e non anche l’entità che utilizza il dominio, sicché nessuna confusione è possibile tra i due
soggetti potendo eventualmente la confusione essere determinata dal contenuto delle pagine pubblicitarie dei due soggetti
ove ne sussistano i presupposti; un nome a dominio è un nome a dominio e null’altro.”.
(7) Trib. Firenze 29 giugno 2000, in Corr. giur., 2001, 1902,
precisava che “il domain name, altro non è se non la traduzione in qualche modo testuale dell’IP number, ossia l’indirizzo Internet di un computer collegato alla rete” che consente di raggiungere un determinato sito; ed ancora “non diversamente, si
potrebbe opinare, da quanto avviene raggiungendo un certo
numero civico di una certa via per andare a trovare qualcuno
o comporre un numero di telefono per parlare con una data
persona … Finché Internet in Italia non è regolata, normata ed
in qualche modo inclusa nell’ordinamento giuridico generale
… gli aspetti operativi, tecnici e logici propri del Domain Name
System prevalgono sull’utilità che la singola impresa può ricavare dalla corrispondenza nome-dominio; in quanto mezzo
operativo e tecnico-logico, non può porsi per il domain name
un problema di violazione del marchio di impresa, della sua
denominazione o dei suoi segni distintivi.”. Nello stesso senso:
Trib. Firenze, Sez. dist. Empoli, 23 novembre 2000, in Giur. it.,
2001, 1902; Trib. Firenze 8 luglio 2000, in questa Rivista, 2000,
331 (peraltro riformata in sede di reclamo: Trib. Firenze 28
maggio 2001, in Foro toscano, 2002, 109).
(8) Sul tema hanno scritto: Mayr, I Domain Name ed i diritti
sui segni distintivi: coesistenza problematica, in AIDA, 1996,
223 ss.; De Martini, Telematica e diritti della persona, in Dir. inf.
e inform., 1996, 847 ss.; Cerina, Internet: nuova frontiera per il
diritto dei marchi, in questa Rivista, 1996, 552 ss.; Peyron, Nomi a dominio - domain name - e proprietà industriale: un tentativo di conciliazione, in Giur. it., 1997, I, 1857.
(9) Trib. Vicenza 6 luglio 1998, in Giur. it., 1998, 2342; Trib.
Roma 2 agosto 1997, in Giur. ann. dir. ind., 1998, 3770, 381. In
dottrina: Mayr, op. cit., in AIDA, 1996, 227; Frassi, Internet e
segni distintivi, in Riv. dir. ind., 1997, II, 178.
(10) Praticamente isolata è rimasta, invece, la tesi secondo
cui la qualifica del domain name come indirizzo telematico o
come segno distintivo andasse fatta in concreto, caso per caso, in relazione al contenuto ed alla configurazione del sito
(Trib. Modena 29 luglio 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000,
4174, 1102; Trib. Modena 23 agosto 2000, ivi, 2000, 4178,
1125).
(11) In tal senso: Trib. Roma 27 febbraio 2002, in Giur. ann.
dir. ind., 2002, 4412, 715; Trib. Catanzaro 12 febbraio 2002,
ivi, 2002, 4409, 640; Trib. Pistoia 15 ottobre 2001, ivi, 2002,
4371, 347; Trib. Roma 9 marzo 2000, in Riv. dir. ind., 2001, II,
132; Trib. Milano 29 ottobre 1999, in Giur. ann. dir. ind., 2000,
4104, 482; Pret. Valdagno 27 maggio 1998, in Arch. civ., 1999,
608.
302
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stimato che lo stesso svolga l’identica funzione di
contraddistinguere il luogo (virtuale) in cui l’imprenditore offre i propri prodotti o servizi al pubblico, consentendone al contempo il reperimento e
l’individuazione rispetto ai concorrenti (12).
L’assimilazione del domain name all’insegna presuppone, quindi, una specie di estensione metaforica
del sito web, che viene visto come un luogo virtuale di incontro fra l’imprenditore ed i suoi clienti,
dove il primo può esibire la sua merce ed offrire i
propri servizi, agevolando in tal guisa la conclusione di affari.
Tuttavia, pur apprezzando le teorie da ultimo evidenziate, questo autore ritiene di aderire a quell’insegnamento che ravvisa nel nome a dominio un
autonomo segno distintivo dell’impresa, che presenta insieme i caratteri di contrassegno di un prodotto o di un servizio, analoghi a quelli di un marchio, e di identificazione della impresa stessa, analoghi a quelli della ditta e dell’insegna (13).
Mentre non appare del tutto condivisibile quella
giurisprudenza (comunque minoritaria) che ha assimilato il domain name alla testata o al titolo di una
rivista (14), assumendo che l’utilizzazione di una
testata altrui come nome a dominio di un sito internet possa generare un rischio di confusione nel
pubblico sull’origine dei prodotti e possa, dunque,
violare l’art. 100 della legge sul diritto di autore,
oltre che l’art. 1 della legge marchi (15).
In verità, anche in questi casi, ciò che rileva precipuamente è la confondibilità tra autonomi segni
distintivi, senza che assuma rilevanza - perlomeno
in termini di tutela dei segni distintivi - il diritto
d’autore.
(12) Trib. Modena 27 settembre 2004, in Dir. inf., 2005,
281; Trib. Milano 6 giugno 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002,
4442, 949; Trib. Parma 26 febbraio 2001, in Riv. dir. ind., 2002,
II, 350; Trib. Pistoia 10 novembre 2000, in Giur. ann. dir. ind.,
2001, 4250, 474; Trib. Prato 19 agosto 2000, in questa Rivista,
2002, 51; Trib. Reggio Emilia 30 maggio 2000, in AIDA, 2000,
733; Trib. Milano 13 aprile 2000, ivi, 2000, 728; Trib. Roma 22
dicembre 1999, ivi, 2000, 711; Trib. Napoli 24 marzo 1999, in
Giur. ann. dir. ind., 1999, 3992, 1040; Trib. Milano 10 giugno
1997, in Riv. dir. ind., 1998, II, 430.
(13) Trib. Roma 10 febbraio 2004, in Giur. ann. dir. ind.,
2005, 4800, 225; Trib. Modena 25 gennaio 2001, ivi, 2001,
4260, 563.
(14) Trib. Viterbo 24 gennaio 2000, in Foro it., 2000, I, 2334.
(15) Trib. Roma 23 dicembre 1999, in Giur. ann. dir. ind.,
1999, 4032, 1407.
(16) Trib. Arezzo 7 novembre 2006, in Giur. ann. dir. ind.,
2006, 5113, 476. Nello stesso senso: Trib. Bari 1° luglio 2002,
in Giur. ann. dir. ind., 2003, 4506, 355; Trib. Pistoia 15 ottobre
2001, ivi, 2002, 4371, 347; Trib. Milano 10 giugno 1997, in Foro it., 1998, I, 923.
(17) Trib. Trento 15 gennaio 2003, in Giur. ann. dir. ind.,
2003, 4542, 712.
(18) Nel testo previgente l’art. 22 c.p.i. prescriveva il divieto
di adottare come ditta, denominazione sociale, ragione sociale
e insegna un segno uguale o simile all’altrui marchio onde evitare un rischio di confusione per il pubblico, che avrebbe potuto consistere anche in un rischio di associazione tra i due segni, estendendo siffatto divieto anche al “nome a dominio
aziendale”. Il riferimento al nome a dominio aziendale subordinava l’esistenza della confondibilità tra i segni, al fatto che il
nome a dominio fosse riferibile ad un’azienda o, comunque,
ad una persona fisica che ne facesse uso a vantaggio di un’azienda. Con la modifica apportata dal D.Lgs. 13 agosto 2010,
n. 131, la dizione “nome a dominio aziendale” è stata sostituita con quella di “nome a dominio usato nell’attività economica”. Siffatta modifica consente di far confluire nell’ambito di
tutela cui all’art. 22 c.p.i. un numero maggior di ipotesi, giacché la nozione di attività economica risulta essere molto più
ampia di quella di azienda. Quindi, ai fini dell’applicazione della
regola giuridica novellata è sufficiente provare che il nome a
dominio sia usato in una qualunque attività che possa essere
definita, appunto, economica.
(19) Trib. Torino 20 dicembre 2002, in Giur. ann. dir. ind.,
2003, 4537, 676; Trib. Modena 25 gennaio 2001, ivi, 2001,
4260, 563; Trib. Verona 10 gennaio 2001, ivi, 2001, 4258, 544;
Trib. Pistoia 10 novembre 2000, ivi, 2001, 4250, 474; Trib. Brescia 10 ottobre 2000, in Riv. dir. ind., 2001, II, 491; Trib. Roma
9 marzo 2000, in Foro it., 2000, I, 2333.
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Utilizzo del marchio altrui come
domain name
Nella prassi è accaduto che un segno distintivo di
un’impresa, segnatamente un marchio, venisse utilizzato - e registrato - come nome a dominio da
parte di terzi.
A tal proposito giova immediatamente precisare
che il Top Level Domain è privo di carattere distintivo (16), difatti il vero e proprio cuore del domain
name è rappresentato dal Second Level Domain (17).
In forza del riferito principio di unità dei segni distintivi (18), si ritiene giustamente che l’utilizzazione del nome a dominio costituisce violazione del
diritto di privativa industriale se riproduce un marchio registrato e identifica un sito commerciale relativo a prodotti o servizi identici o affini, creando
confusione tra i navigatori-consumatori che, cliccando su quel nome per avere informazioni o acquisire un prodotto o un servizio riferibile ad una
determinata impresa, sono tratti in inganno con
l’apertura di un sito relativo a prodotti o servizi
(identici o affini) ma provenienti da un’impresa diversa (19).
Secondo l’orientamento prevalente, il giudizio di
confondibilità deve essere condotto alla stregua di
criteri piuttosto ampi: per stabilire se sussista un’affinità merceologica tra i servizi offerti al pubblico
dal titolare di un marchio e dal soggetto che abbia
registrato un nome a dominio ad esso simile, si deve far riferimento al complesso dei servizi dei quali
303
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il navigatore in internet può di fatto fruire tramite
il sito contraddistinto dal domain name in questione, servizi che possono essere offerti anche attraverso il mero collegamento ad altri siti (20).
Anche la mera registrazione di un domain name
coincidente con il segno distintivo altrui è stata ritenuta idonea a trarre in inganno gli utenti.
In effetti, a differenza delle ipotesi in cui la contraffazione del marchio avviene con un segno distintivo tradizionale - fattispecie, quest’ultima, che
assume rilevanza giuridica in termini di contraffazione solo se il segno oltre ad essere registrato, sia
stato effettivamente utilizzato (21) -, in internet, la
registrazione, anche senza l’attivazione del sito, costituisce attività di per sé idonea ad impedire in
modo assoluto al titolare del marchio di usarlo anche in rete come nuovo ed ulteriore segno distintivo (22).
Ovviamente discorso diverso vale per l’ipotesi di
contraffazione tra il nome a dominio ed il marchio
dotato di rinomanza, al quale il legislatore riconosce una tutela ultramerceologica che prescinde dalla possibilità di confusione per i consumatori, trovando la propria giustificazione nel tentativo di
evitare un indebito vantaggio a beneficio del terzo
o, alternativamente, di evitare al titolare del mar-
chio un pregiudizio derivante dall’utilizzo di un segno eguale o simile idoneo, in concreto, a pregiudicarne la capacità attrattiva. In queste ipotesi l’uso
di un marchio che gode di rinomanza come domain
name, anche in relazione a prodotti non affini a
quelli per cui il marchio è stato registrato, viola i
diritti del titolare del marchio se ed in quanto
comporta un indebito vantaggio per il titolare del
nome a dominio, rappresentato, ad esempio, dalla
possibilità di ricollegare l’attività svolta o pubblicizzata nel sito internet a quella del titolare del
marchio la cui notorietà viene sfruttata (23) ovvero arreca un pregiudizio al titolare del marchio rinomato consistente in uno sviamento di clientela,
offuscamento di immagine, volgarizzazione del
marchio (24).
(20) Trib. Brescia 6 dicembre 2000, in Giur. ann. dir. ind.,
2001, 4255, 523. Nello stesso senso: Trib. Milano 10 giugno
1997, in Dir. inf., 1997, 955. In dottrina favorevoli alla soluzione
riportata: Palazzolo-Tripodi, Privative industriali, nomi di dominio, concorrenza, pubblicità on line, in Tripodi-Santoro-Messineo, Manuale di commercio elettronico, Milano, 2000, 335 ss.,
secondo i quali “Il link può … rappresentare uno strumento di
estensione della gamma di prodotti offerti dal sito di partenza,
che finisce con il comprendere mediatamente anche prodotti
pubblicizzati in siti diversi”; Spada, Damain name e dominio
dei nomi, in Riv. dir. civ., 2000, I, 713 ss. In senso contrario:
Peyron, Marchio ed Internet: link e affinità di prodotti e servizi,
in questa Rivista, 1998, 144 ss.; Fazzini, Il diritto di marchio nell’universo di Internet, in AIDA, 1998, 589 ss. Per alcuni casi
concreti si segnalano: Trib. Monza 26 maggio 2001, in Giur.
ann. dir. ind., 2002, 4350, 169, che non ha considerato tra loro
affini servizi di intermediazione nella ricerca e nell’offerta di lavoro e un servizio di ricerca su Internet di titoli letterari inerenti
al settore della fantascienza; Trib. Verona 10 gennaio 2001, in
Giur. ann. dir. ind., 2001, 4258, 544, secondo cui “L’utilizzazione come domain name da parte di un’impresa operante nel
settore delle attrezzature elettriche e dei servizi informatici di
un segno simile all’altrui marchio registrato per articoli di abbigliamento non ne costituisce contraffazione, data la totale
mancanza di affinità tra i rispettivi ambiti merceologici”.
(21) In tal senso: Trib. Milano 8 febbraio 1979, in Riv. dir.
ind., 1983, II, 250; Trib. Milano, 24 maggio, 1976, in Giur. ann.
dir. ind., 2006, 835, 809. Contra: Trib. Milano, 24 febbraio
1994, in Riv. dir. ind., 1995, II, 31.
(22) Trib. Firenze, 16 maggio 2006, in Giur. ann. dir. ind.,
2006, 5023, 809. Nello stesso senso: Trib. Bari 1° luglio 2002,
in Giur. ann. dir. ind., 2003, 4506, 355; Trib. Parma 26 febbraio
2001, in Riv. dir. ind., 2002, II, 350; Trib. Modena 1° agosto
2000, in Giur. mer., 2001, 328 (che ha però poi negato la tutela
richiesta, per difetto di periculum in mora); Trib. Cagliari 30
marzo 2000, in Riv. giur. sarda, 2001, 99; Trib. Genova 17 luglio 1999, in Dir. inf., 2000, 341; Trib. Parma 11 gennaio 1999,
in Dir. scambi internaz., 1999, 348; Trib. Reggio Emilia 30 maggio 2000, cit.
(23) Trib. Bologna 31 gennaio 2007, in Giur. ann. dir. ind.,
2008, 5237, 429.
(24) Trib. Torino 26 ottobre 2007, in Giur. ann. dir. ind.,
2007, 5174, 1068, ha ritenuto che il domain name “maxmaradiscount.uk” utilizzato da un sito internet inglese per la vendita
al pubblico di vecchie collezioni di diverse linee di abbigliamento “Max Mara” violasse il relativo marchio “Max Mara”;
Trib. Bologna, 29 agosto 2007, in Giur. ann. dir. ind., 2007,
5166, 978, ha giudicato contraffattorio l’uso del nome a dominio “Unipolassicurazioni.it”, in quanto avvenuto in violazione
del diritto di marchio detenuto dalla nota impresa di assicurazioni; Trib. Roma 20 agosto 2007, in Giur. ann. dir. ind., 2007,
5165, 970, ha riscontrato una contraffazione del marchio
“Freddy” nell’ipotesi di utilizzo del nome di dominio “freddystile.it” da parte di terzi; Trib. Milano 30 maggio 2005, in Giur.
ann. dir. ind., 2005, 4879, 924, ha inibito l’utilizzazione del domain name “Ferrariworld” anche se per prodotti non affini ai
prodotti della nota casa automobilistica, in considerazione della notorietà del marchio Ferrari; Trib. Napoli, 26 febbraio 2002,
in Giur. ann. dir. ind., 2002, 4411, 652, ha ritenuto contraffattorio l’utilizzo del marchio denominativo dotato di rinomanza
“Playboy” come nome a dominio da parte di terzi; Trib. Milano, 6 giugno 2002, cit., ha rinvenuto una contraffazione nell’utilizzo da parte di terzi del marchio rinomato “Artemide” di cui
è titolare un nota azienda di design come domain name; Trib.
Parma 26 febbraio 2001, in Giur. ann. dir. ind., 2001, 4265,
636, ha considerato contraffattorio l’utilizzo come nome a dominio del marchio rinomato “Fila”; Trib. Salerno 30 giugno
2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 4165, 1019, ha inibito l’uso
come domain name del marchio “Duracel”.
304
Considerazioni conclusive
Il domain name nato come semplice indirizzo telematico in sostituzione del più complesso indirizzo
IP, col passare degli anni ha acquisito un’importanza crescente.
La globalizzazione economica e le nuove modalità
di comunicazione tra le persone, attraverso l’ausilio
delle moderne tecnologie, hanno costituito i pre-
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supposti intorno ai quali si è sviluppata una diversa
concezione del nome a dominio.
In effetti, accanto alla tradizionale funzione di indirizzo del nome a dominio (ovvero del codice numerico binario ad esso associato), che lo rende
equiparabile ad una sorta di codice postale o numero telefonico, si è aggiunta una funzione nuova e
ben più rilevante sotto il profilo squisitamente giuridico. La possibilità di configurare il domain name mediante l’utilizzazione di nomi o parole di uso
comune, acronimi, numeri o combinazioni, ha fatto sì che quest’ultimo, lungi dallo svolgere una mera funzione di localizzazione, assumesse, di fatto, un
valore suggestivo ed un’efficacia distintiva equiparabile a quello di un segno distintivo comune.
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Il riconoscimento di questa funzione distintiva per
il nome a dominio ha avuto ovvie (ed inevitabili)
ripercussioni nel mondo giuridico ed, in particolare, nel ramo dell’intellectual property.
Le legittime aspettative di protezione giuridica da
parte dei titolari dei nomi a dominio hanno trovato una risposta (tardiva) da parte del legislatore nazionale che, sotto l’incessante spinta della dottrina
e della moderna giurisprudenza, ha agevolato un’evoluzione normativa lungo la direttrice del riconoscimento di una tutela giuridica al segno distintivo
utilizzato dall’imprenditore nella rete telematica: il
nome a dominio è stato finalmente elevato al rango di segno distintivo.
305
Giurisprudenza
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Sintesi
Rassegna della Corte
di Cassazione
a cura di Iuri Maria Prado e Barbara Zamboni
MARCHI
CAPACITÀ DISTINTIVA DI PAROLE STRANIERE
Cassazione civile, Sez. I, 9 febbraio 2015, n. 2405 Pres. Ceccherini - Est. Lamorgese - P.M. Corasaniti
(diff.) - Mec S.a.s. medicinali e cosmetici di Maurizio
Maestri c. Baif Internazional Products New York di Aurelio Iurilli e c. S.n.c.
La ratio degli impedimenti alla registrazione per mancanza di capacità distintiva risiede nella preoccupazione
che si crei un diritto di esclusiva su parole, figure o segni che nel linguaggio comune sono collegate o collegabili al tipo merceologico e devono pertanto rimanere
patrimonio comune, onde evitare che l’esclusiva sul segno si trasformi in monopolio indebito.
Con riferimento ai marchi costituiti da parole in lingua
straniera, non è vietata la registrazione come marchio
nazionale di un vocabolo mutuato da una lingua straniera nella quale esso sia privo di carattere distintivo,
salvo che gli ambienti interessati dello Stato di registrazione siano in grado di individuare il significato del detto vocabolo.
Il fatto
L’attrice soc. Baif, titolare del marchio registrato “slimmer”
utilizzato per contraddistinguere un integratore alimentare
con funzione dimagrante, ha convenuto in giudizio, avanti
il Tribunale di Milano, la soc. Mec (già distributrice dei prodotti dell’attrice), la quale aveva immesso nel mercato un
integratore alimentare ad uso dimagrante contraddistinto
dal marchio “slimmix”. L’attrice svolgeva domande di contraffazione e consequenziali.
Costituendosi in giudizio, la convenuta ha chiesto il rigetto
delle domande attoree, deducendo in via di eccezione la
nullità del marchio “slimmer” in quanto relativo a una parola comune in lingua inglese, priva di capacità distintiva e
meramente descrittiva di una caratteristica o di una funzione del prodotto, e comunque volgarizzata.
Il Tribunale di Milano, con sentenza del 5 settembre 2005,
ha accolto le domande dell’attrice e rigettato l’eccezione
della convenuta.
La sentenza di primo grado è stata poi confermata dalla
Corte d’Appello di Milano che, con sentenza del 7 maggio
2007, ha respinto, pressoché integralmente, il gravame
proposto dalla società Mec. Secondo la Corte territoriale il
segno in questione, sebbene composto con la radice inglese “slim” (magro), non identificherebbe immediatamente
tra i consumatori il prodotto appartenente al genere merceologico “integratore alimentare con funzione dimagrante”, a prescindere dalla provenienza da un determinato
produttore, e non vi sarebbe stata una successiva volgarizzazione dello stesso. Si tratterebbe di un segno meramente
evocativo o suggestivo, in quanto destinato a consumatori
306
che vogliono dimagrire e diventare “slim”, anche considerando l’aggiunta di ulteriori sillabe che ne muterebbero il significato, facendo assumere alla parola un significato diverso, immediatamente percepibile dai consumatori.
La decisione
La prima massima della decisione in rassegna vuole esprimere in modo piano il principio di impedimento all’acquisizione in esclusiva monopolistica dei segni che l’ordinamento intende riservare alla pubblica disponibilità.
La decisione si segnala tuttavia per qualche imprecisione
classificatoria laddove pare accomunare categorie in realtà
meritevoli di distinzione, cioè a dire i segni cosiddetti “di
uso comune”, da un lato, e quelli con portata descrittiva,
che la decisione della Cassazione qualifica come “espressioni che, sostanzialmente, nel loro complesso, si limitano
a richiamare la qualità merceologica o la funzione produttiva, oppure ancora una caratteristica tecnica del prodotto”.
È noto infatti che i segni cosiddetti di uso comune sono
per definizione altri rispetto a quelli con portata espressivo/descrittiva.
Con la seconda massima la sentenza della Corte di Cassazione afferma il principio che per la valutazione della portata descrittiva di un segno in lingua straniera si deve accertare il grado di diffusione e comprensione del significato
della parola nel territorio dello Stato in cui è chiesta la registrazione del marchio “anche con riferimento alla destinazione e ad ogni altra caratteristica del prodotto”.
I precedenti
Nel senso che parole generiche straniere possono essere
usate come marchio quando gli ambienti interessati nello
Stato di registrazione non sono in grado di individuare il significato del vocabolo: Corte di Giustizia CE 9 marzo 2006,
C-421/04, in Raccolta della Giurisprudenza della Corte e del
Tribunale di primo grado, 2006 I-02303; Trib. Roma 26 marzo 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, n. 4420; App. Torino
21 marzo 2001, in Giur. ann. dir. ind., 2001, n. 4276; Trib.
Udine 31 maggio 1993, in Riv. dir. ind., 1995, II, 3 e in Giur.
ann. dir. ind., 1994, n. 3059; Trib. Bergamo 12 dicembre
1991, in Giur. ann. dir. ind., 1993, n. 2895; App. Bologna 20
novembre 1984, in Giur. ann. dir. ind., 1984, n. 1815; Trib.
Milano 3 maggio 1984, in Giur. ann. dir. ind., 1984, n.
1770.
Per il principio secondo il quale non sono suscettibili di appropriazione in via esclusiva le parole straniere generiche e
descrittive e comprensibili dalla generalità dei consumatori:
Trib. Roma 27 marzo 2002 (ord.), in Giur. ann. dir. ind.,
2003, n. 4497; App. Milano 17 luglio 2001, in Giur. ann. dir.
ind., 2002, n. 4357; Trib. Torino 25 luglio 2000 (ord.), in
Giur. ann. dir. ind., 2001, n. 4232; Trib. Torino 19 novembre
1998 (ord.), in Giur. ann. dir. ind., 2001, 1323; Cass. 12
maggio 1979, n. 2731, in Giur. ann. dir. ind., 1979, n. 1137.
Trib. Torino 28 gennaio 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, n.
3793 ha affermato, in particolare, che il termine inglese “li-
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Giurisprudenza
Sintesi
ne” è usato in modo talmente diffuso da essere privo di capacità distintiva.
In alcuni casi relativi a marchi costituiti da parole straniere
sono state invece valorizzate la similitudine e l’assonanza
della parola straniera rispetto alla corrispondente parola in
lingua italiana: Trib. Milano 21 ottobre 1991, in Giur. ann.
dir. ind., 1991, n. 2711.
Si riportano alcune tra le numerose pronunce relative all’accertamento di capacità distintiva di marchi costituiti da
parole straniere.
Sono stati ad esempio ritenuti validi i marchi contenenti le
parole: “Virya” per prodotti farmaceutici: Trib. Bologna 1°
settembre 2011, in Giur. ann. dir. ind., 2011, n. 5753; “Multiutility” per servizi di vario genere: Trib. Napoli 3 gennaio
2008, in Giur. ann. dir. ind., 2008, n. 5257; “Book” per librerie: Trib. Venezia 5 luglio 2007 (ord.), in Giur. ann. dir. ind.,
2008, n. 5247; “ICE” per generi d’abbigliamento: Trib. Milano 29 maggio 2004 (ord.), in Giur. ann. dir. ind., 2005,
1491; “Keltia” per pubblicazioni sulla lingua gaelica: Trib.
Torino 5 dicembre 2001, in Giur. ann. dir. ind., 2001, n.
4316; “Kickers” per è stato perfino ritenuto forte: Trib. Prato 21 febbraio 1994, in Giur. ann. dir. ind., 1994, n. 3110;
“Master” per apparecchi telefonici: App. Milano 5 novembre 1993, in Dir. ind., 1994, 967 e in Giur. ann. dir. ind.,
1994, n. 3079; “Special Pizza” per la polpa di pomodoro:
Trib. Piacenza 12 agosto 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000,
n. 4177; “Vogue” per prodotti editoriali: App. Milano 28 novembre 1997, in Giur. ann. dir. ind., 1997, n. 3681; “Stark”
per componenti di macchine per la lavorazione del legno e
del metallo: Trib. Reggio Emilia (ord.), 29 gennaio 1996, in
Giur. ann. dir. ind., n. 3586; “Ginger” per bevanda a base di
zenzero: Trib. Roma 25 febbraio 1988 (ord.), in Giur. ann.
dir. ind., 1988, n. 2299; “Milde Sorte” per miscela di tabacco di tipo dolce: Trib. Milano 18 aprile 1983, in Riv. dir.
ind., 1983, II, 329, e App. Milano 20 maggio 1986, in Giur.
ann. dir. ind., 1987, n. 2124; “Clogs” per contraddistinguere zoccoli: Trib. Milano 24 gennaio 1985, in Giur. ann. dir.
ind., 1985, n. 1890; “Milde Sorte” per sigarette: Trib. Milano 18 aprile 1983, in Riv. dir. ind., 1983, II, 329; “Watch”
per orologi: Cass. 16 febbraio 1979, n. 1038, in Giur. ann.
dir. ind., n. 1132; “Play-boy” per pubblicazioni periodiche
indirizzate ad un pubblico maschile: App. Milano 12 ottobre 1972, in Rep. Giur. ann. dir. ind., 1972-1987, n. 183, 24;
“National Burner”: Trib. Milano 21 febbraio 1971, in Rep.
Giur. ann. dir. ind., 1972-1987, n. 76, 24; “Cow-milk” per
alimenti per animali: App. Milano 17 dicembre 1971, in
Rep. Giur. ann. dir. ind., 1972-1987, n. 52, 24.
Inoltre, sono stati ritenuti validi, anche se (molto) deboli, i
marchi: “Carbon free” per tubi per uso termosanitario, Trib.
Milano 27 gennaio 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, n.
4712; “Nail Studio Italia” rispetto a “Nails & Nails” per attività commerciali incentrate sulla cosmesi delle mani e delle
unghie: Trib. Verona 10 marzo 2003, in Giur. ann. dir. ind.,
2003, n. 4553; “Bruciakal” per prodotti dimagranti (per la
precisione è stato ritenuto “estremamente debole” e non
confondibile con il marchio “Slimmy Brucia Kcal”): Trib.
Milano 15 luglio 2002, in Riv. dir. ind., 2003, II, 135; “Mariage” per abiti da sposa e cerimonia: App. Bari 24 aprile
2001, in Giur. ann. dir. ind., 2001, n. 4283 e Trib. Trani 19
luglio 1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, n. 4020; è stata
esclusa la confondibilità fra i marchi “Shield” e “Goldsield”,
entrambi registrati per i prodotti in classe 3: Comm. ricorso, 12 settembre 2000, nel procedimento R 415/1999-1, in
www.ohim.eu.int; “Swatch” per orologi: Trib. Torino 15 novembre 1999, in Giur. ann. dir. ind., 2000, n. 4109; “Ölflex”
Il Diritto industriale 3/2015
per cavi flessibili resistenti all’olio: Trib. Milano 18 aprile
1996, in Giur. ann. dir. ind., 1996, n. 3591 confermata in
Appello, 18 novembre 1997, in questa Rivista, 1999, 2,
131; “Play-boy” per pubblicazioni periodiche: Cass. 28 aprile 1977, n. 1604, in Giur. ann. dir. ind., 1977, n. 896.
Viceversa sono state ritenute prive di capacità distintiva le
parole straniere: “Nurseryroom” per prodotti destinati ai
bebè ed ai bambini (es. borse per pannolini, tazze, peluche,
indumenti, corredini, giocatoli, scarpe, cartoleria, ecc..):
Trib. CE 30 novembre 2004, causa T-173/03, 2005, in Giur.
ann. dir. ind., n. 4918; “Nails” per un linea di prodotti per
unghie, “Nails Studio” e “Punto Nails” per negozi specializzati in ricostruzione di unghie, e “Nails Shop” per negozi
specializzati nella vendita di prodotti per unghie: Trib. Verona 10 marzo 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4553;
“Doublemint” per prodotti in classe 3, 5 e 30 di Nizza: Corte di Giustizia CE 23 ottobre 2003, causa C-191/01P, in
Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4607; “Junior Drink” per alimenti e latte per neonati: Trib. Milano 27 aprile 2002, in
Riv. dir. ind., 2003, II, 135; “Stock House” per la denominazione di un’impresa: Trib. Catania 4 marzo 2003, in Dejure; “Cannabis” per alimenti contenenti canapa: Trib. UE 19
novembre 2009, nel procedimento T-234/06, in Raccolta
della Giurisprudenza della Corte e del Tribunale di primo grado, 2009, II-04185; “Ehinacin” per prodotti derivati dalla
echinacea: Trib. UE 5 aprile 2006, n. 202, Raccolta della
Giurisprudenza della Corte e del Tribunale di primo grado,
2006 II-01115; “Telepharmacy Solutions” per sistemi informatici applicati alla distribuzione e informazione farmaceutica a distanza Trib. UE 8 luglio 2004, n. 289, Raccolta della
Giurisprudenza della Corte e del Tribunale di primo grado,
2004 II-02851; “Strass” per pezzi e pendagli di lampadari
in cristallo: Cass. 23 febbraio 1998, n. 1929, in Giur. it.,
1999, 1237; “Semiflex” per prodotti abrasivi: Trib. Milano
21 ottobre 1991, in Giur. ann. dir. ind., 1991, n. 2711, successivamente App. Milano 3 febbraio 1995, in Giur. ann.
dir. ind., 1995, n. 3290 e Cass. 26 gennaio 1999, n. 697, in
Giur. ann. dir. ind., 1999, n. 3848; “Marriage” per abbigliamento attinente a cerimonie matrimoniali: Trib. Trapani 19
luglio 1999, in Giur. mer., 2001, 386; “Brocantage” per manifestazioni fieristiche: Trib. Torino 22 aprile 1999, in Giur.
ann. dir. ind., 1999, 1612; Trib. Tortona 29 agosto 1996
(ord.), in Giur. ann. dir. ind., 1997, n. 3608; “Grill” per
snacks salati: Trib. Genova 3 maggio 1995, in Giur. ann. dir.
ind., 1995, n. 3309; “Watch” per orologi: Trib. Milano 4
marzo 1993, in Giur. ann. dir. ind., 1993, n. 2950; “Cashemire” e “Cotton” per capi di abbigliamento: Trib. Milano 21
settembre 1989, in Giur. ann. dir. ind., 1989, n. 2447; “Plia”
per sedie pieghevoli: App. Bologna 15 settembre 1988, in
Giur. ann. dir. ind., 1989, n. 2383; “Party Service” per un’attività di impresa che offre servizi a domicilio di rinfreschi,
pranzi, e ricevimenti: Trib. Milano 24 gennaio 1985, in Giur.
ann. dir. ind., 1985, n. 1890; “O’ cafezinho” per caffè: Trib.
Torino 2 aprile 1977, in Giur. ann. dir. ind., 1977, n. 935;
“Scotchdrink” per vini spiriti e liquori: Trib. Busto Arsizio
17 luglio 1972, in Rep. Giur. ann. dir. ind., 1972-1987, n.
163, 24.
Relativamente al marchio “Baby-dry” per pannolini per
bambini, la Corte CE, dopo aver riconosciuto che il sintagma richiama la funzione assolta dal prodotto, ha ritenuto
che esso non costituisse un’espressione nota nella lingua
inglese per distinguere tali prodotti: Corte Giust. CE 2 settembre 2001, causa C-393/99P, in Giur. ann. dir. ind., n.
4325.
307
Giurisprudenza
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Sintesi
La dottrina
Ascarelli, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali,
1960, 448; Auletta-Mangini, Marchio - Diritto d’autore sulle
opere dell’ingegno, in Commentario al codice civile, a cura
di Scialoja - Branca, Libro V, Del Lavoro, artt. 2569-2583,
1997, 22; Auteri, Territorialità del diritto di marchio e circolazione di prodotti “originali”, 1973, 121, nt. 39 bis; Fazzini,
Marchio costituito da parola straniera e referente del giudizio
di distintività, in Riv. dir. ind., 1994, II, 279; Franceschelli,
Osservazioni a sentenza 15 dicembre 1956 del Tribunale di
Bergamo sul marchio Warm Morning, in Riv. dir. ind., 1957,
II, 384; Guglielmetti, Parole di lingua straniera usate come
marchi in Italia e… conoscenze linguistiche del consumatore
italiano, in Riv. dir. ind., 1970, II, 253; Ricolfi, I segni distintivi - Diritto interno e comunitario, 1999, 50; Santonocito Adami, Marchi costituiti da termini di uso comune, in Riv.
dir. ind., 2003, II, 138; Sena, Il nuovo diritto dei marchi Marchio nazionale e marchio comunitario, 3a ed., 2001, 41;
Sena, Termini tecnici e scientifici e valore relativo dei nomi,
in Riv. dir. ind., 1953, II, 76; Stella Richter, Denominazioni
generiche, indicazioni descrittive e parole “non italiane”, in
Commento tematico alla legge marchi, 1998, 179: Vanzetti Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, 3a ed., 2000, 139;
Vanzetti - Galli, La nuova legge marchi, 2001, 133.
SECONDARY MEANING DI MARCHIO ORIGINARIAMENTE
DEBOLE
Cassazione civile, Sez. I, 2 febbraio 2015, n. 1861 Pres. Forte - Est. Lamorgese - P.M. Corasaniti (conf.) Natuzzi S.p.a. c. Divini & Divani S.r.l.
È viziata la decisione di merito che, con riferimento all’acquisizione di capacità distintiva di un marchio, ritenga, con motivazione inadeguata, che gli sforzi pubblicitari per la promozione del marchio medesimo siano inidonei al rafforzamento della capacità distintiva del marchio in origine debole.
Il fatto
La società Natuzzi, titolare del marchio nazionale e comunitario “Divani & Divani”, ha convenuto in giudizio, davanti
al Tribunale di Bari, la soc. Divini & Divani S.r.l., svolgendo
domande di contraffazione e concorrenza sleale, e chiedendo che fosse inibito alla convenuta l’uso ulteriore della
dicitura “Divini & Divani” quale denominazione sociale e
segno identificativo di divani e poltrone, con ulteriori pronunce consequenziali.
L’attrice, a supporto della domanda, sottolineava come il
proprio marchio fosse dotato di grande capacità distintiva
per effetto della sua prolungata utilizzazione nel tempo nel
mercato considerato di arredamento per salotti e simili.
Il Tribunale di Bari ha accolto le domande di contraffazione
e risarcimento del danno, per l’indebito vantaggio che la
convenuta tratto. È stata invece rigettata la domanda di
concorrenza sleale.
La sentenza di primo grado è stata impugnata dalla convenuta soccombente Divini & Divani S.r.l., la quale, a sostegno del gravame, negava la confondibilità dei marchi in
confronto e deduceva la debolezza di quello dell’attrice.
Con sentenza in data 21 aprile 2008 la Corte di appello di
Bari ha accolto l’impugnazione proposta dalle convenuta,
rigettando tutte le domande proposte dalla società Natuzzi.
In particolare, la Corte territoriale ha qualificato il marchio
dell’attrice, “Divani & Divani”, come debole poiché composto con parola di uso comune, senza che potesse attribuirsi
308
alcuna valenza originale alla ripetizione della parola e all’inserimento della “e” commerciale, di tal che la tutela relativa sarebbe limitata alla imitazione integrale, non ravvisabile
nel caso di specie.
La corte barese ha considerato in proposito irrilevante, al fine di accertare la natura debole o forte del marchio, la sua
elevata diffusione commerciale e pubblicitaria, in ragione
dell’uso prolungato e delle caratteristiche stilistiche del segno adottato, argomentando che “non è comunque lo sforzo pubblicitario conseguente alla registrazione del marchio,
ovvero l’ambito e i tempi di commercializzazione del prodotto che possono determinare il mutamento ... del marchio, originariamente debole, in ... marchio forte”.
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione
la soc. Natuzzi.
La decisione
La sentenza del Supremo Collegio qui in rassegna ha cassato la decisione della Corte territoriale sotto almeno due
profili, e cioè, in primo luogo, poiché i giudici del merito
hanno omesso di effettuare, con riguardo alla valutazione
della capacità distintiva del segno, il necessario “giudizio finale in via globale e sintetica”, conducendo al contrario, in
modo giudicato incongruo, un “esame particolareggiato dei
singoli elementi costituitivi del segno”. Ancora, e soprattutto, la Corte di Cassazione, in accoglimento di un ulteriore
motivo di ricorso, ha cassato la decisione del giudice del
merito laddove lo stesso ha escluso la possibilità che un
marchio, originariamente debole, “diventi forte per effetto
della elevata diffusione commerciale e pubblicitaria”.
Dalla lettura di ciò che la Corte di Cassazione riporta della
decisione di merito, emergerebbe una intrinseca inappropriatezza della decisione cassata laddove essa argomenta
che lo sforzo pubblicitario conseguente alla registrazione
sarebbe stato inidoneo a determinare il mutamento “del
marchio originariamente debole in marchio forte”.
Ovviamente la delibazione del fatto che sia intervenuto o
no un effetto di secondarizzazione non riguarda la circostanza che tale effetto abbia dato luogo a un marchio “forte”; diversamente, ciò che conta è che si sia registrata una
acquisizione di capacità distintiva, a prescindere dal fatto
che il segno, per conseguenza, possa ritenersi forte o debole.
Verosimilmente l’inappropriatezza, in punto, della decisione nella sua parte definitoria deriva dal fatto che si trattava
di valutare la sussistenza della somiglianza tra i segni a
confronto, con la Corte territoriale spinta a sottolineare l’assenza di “forza” del segno onde decidere circa la somiglianza del segno a confronto (giudicato provvisto di elementi di differenziazione tali da escludere l’interferenza a
petto di un marchio giudicato “debole”).
I precedenti
Sul c.d. secondary meaning relativamente a un marchio ritenuto “debole”: Cass. 21 settembre 2004, n. 18920, in
Giur. ann. dir. ind., 2005, n. 4784; Trib. Milano 9 dicembre
2004, in Giur. ann. dir. ind., n. 4846; App. Milano 6 luglio
2001, in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4490: App. Torino 27
novembre 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4532; Trib.
Catania 23 dicembre 2002, (ord.), in Giur. ann. dir. ind.,
2002, 4459; Trib. Roma 27 marzo 2002 (ord.), in Giur. ann.
dir. ind., n. 4497; Trib. Roma 18 aprile 2001 (ord.), in Giur.
ann. dir. ind., 2001, n. 4346; Cass. 19 aprile 2000, in Giur.
ann. dir. ind., 2000, n. 5091; Trib. Torino 15 novembre
1999, in Giur. ann. dir. ind., 2000, n. 4109; Trib. Milano 9
marzo 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000, n. 4144; Trib. Tori-
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Giurisprudenza
Sintesi
no 22 aprile, 1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, n. 3998;
Cass. 25 settembre 1998, n. 9617, in Giur. ann. dir. ind.,
1998, n. 3736; App. Roma 24 novembre 1997, in Giur. ann.
dir. ind., 1998, n. 3783.
Sull’ampiezza della diffusione dei prodotti contrassegnati
dal marchio oggetto di valutazione: Trib. Catania 1° giugno
2009, in Giur. ann. dir. ind., 2010, n. 5505; Trib. Trieste 24
luglio 1999 (ord.), in Giur. ann. dir. ind., 2000, n. 4093.
Proprio in virtù del c.d. secondary meaning è stato ad
esempio riconosciuto quale marchio forte il monogramma
costituito dalle doppie C incrociate di Chanel: Trib. Milano
8 febbraio 2007, in Giur. ann. dir. ind., 2007, n. 5132.
Cfr. anche Trib. Torino 26 novembre 2007, in Giur. ann. dir.
ind., 2008, n. 5253; Cass. 25 giugno 2007, n. 14684, in
Giur. ann. dir. ind., 2008, n. 5207; Cass. 19 aprile 2000, n.
5091, in Giur. ann. dir. ind., 2000, n. 4062; Trib. Milano 31
marzo 2010, in Giur. ann. dir. ind., 2010, n. 5544 (relativo
alla sigla “GTI” quale marchio nel settore delle autovetture:
in quel caso il rafforzamento in virtù di secondary meaning
è stato riconosciuto in ragione di un prolungato uso con riferimento a modello che ha avuto particolare fortuna presso il pubblico di riferimento e in anche considerazione dell’abbandono, da parte dei concorrenti, dell’uso in funzione
descrittiva della sigla considerata).
In altre pronunce si è giunti, invece, ad escludere l’avvenuta riabilitazione, ad esempio in presenza di scarsa attività
promozionale (in particolare è stata valutata l’assenza di
campagne pubblicitarie e promozionali rivolte al grande
pubblico) e uno scarso ventaglio di prodotti associati al
marchio. Cfr. ad esempio Trib. Bologna 27 maggio 2009, in
Giur. ann. dir. ind., 2009, 5430 (sul marchio “Finitalia” per
servizi finanziari); Trib. Cagliari 25 febbraio 2005, in Giur.
ann. dir. ind., 2005, n. 4858; Trib. Bari 9 novembre 2004
(ord.), in Giur. ann. dir. ind., 2005, n. 4841; Trib. Como 16
febbraio 1999, in Giur. ann. dir. ind., 1999, n. 3981.
App. Milano 5 dicembre 1997, in Giur. ann. dir. ind., 1304,
ha rilevato come non possa ritenersi rafforzato per l’effetto
del secondary meaning un marchio originariamente debole
quando, oltre a non aver acquisito un significato specifico
presso i consumatori, sia stato impiegato per designare
prodotti con le caratteristiche espresse dal marchio stesso
(nella fattispecie Ölflex per cavi flessibili resistenti agli oli
minerali).
La dottrina
Prado, Marchio di insieme, secondary meaning e prova di
acquisizione della capacità distintiva, in questa Rivista,
1/2012, 46; Battirolo, Marchio registrato e secondary meaning, in questa Rivista, 2011, 468; Peron, “Il Gambero Rosso”: la forza di un marchio tra secondary meaning e sfruttamento parassitario, in Riv. dir. ind., 2010, II, 203; Vanzetti,
Note in tema di volgarizzazione del marchio (una riesumazione?), in Riv. dir. ind., 2009, I, 279; Delle Vedove, Sistemi
modulari e crepuscolo della teoria delle “varianti innocue”, in
Riv. dir. ind., 2009, II, 61; Vanzetti - Di Cataldo, Manuale di
diritto industriale, 6a ed., 2009, 176; Caruso, Il marchio sonoro, in Riv. dir. ind., 2008, I, 238; Caruso, A proposito di
confondibilità tra marchi, secondary meaning e sigari “Toscani”, in Riv. dir. ind., 2008, II, 323; Mansani, La capacità distintiva come concetto dinamico, in questa Rivista, 2007,
19; Sironi, La “percezione” del pubblico interessato, in questa Rivista, 2007, 121; Spolidoro, La capacità distintiva dei
marchi c.d. “deboli”, in questa Rivista, 2007, 39; Bionetti, Il
secondary meaning nella disciplina italiana dei marchi d’impresa, in questa Rivista, 2005, 329; Delle Vedove, Marchio:
profili sostanziali e processuali del secondary meaning, in
Il Diritto industriale 3/2015
Riv. dir. ind., 2005, II, 21; Ferretti - Rizzo, Secondary meaning e componente di marchio complesso, in questa Rivista,
2005, 558; Palombella, Secondary meaning ed esame della
Commissione dei ricorsi, in questa Rivista, 2004, 323; Bellomunno, Addio al Ciao, in questa Rivista, 2003, 138; Santonocito - Adami, Marchi costituiti da termini di uso comune,
in Riv. dir. ind., 2003, II, 138; Vanzetti, Marchi di numeri e
di lettere dell’alfabeto, in Riv. dir. ind., 2002, I, 640; Abriani,
I segni distintivi, in Trattato di diritto commerciale diretto da
Cottino, Vol. II, 2001, 48; Bionetti, Il “secondary meaning”
nella disciplina italiana dei marchi d’impresa, in questa Rivista, 2001, 329; Frassi, Due attuali questioni in tema di marchi, in Riv. dir. ind., 2001, II, 270; Sena, Il nuovo diritto dei
marchi - Marchio nazionale e marchio comunitario, 3a ed.,
2001, 29; Vanzetti - Galli, La nuova legge marchi, 2001, 147
e 236; Albertini, Notarelle su marchi descrittivi, secondary
meaning e marchi di forma, in Giust. civ., 1999, I, 1668; Bellomunno, Quale prova per il secondary meaning?, in Notiziario dell’Ordine dei Consulenti in Proprietà Intellettuale, 1999,
2, 131; Bonelli, Riabilitazione e rafforzamento del marchio:
spunti di riflessione, in questa Rivista, 1999, 131; Ricolfi, I
segni distintivi - Diritto interno e comunitario, Torino, 1999,
56; Olivieri, Secondary meaning, in Commento Tematico
della legge marchi, 1998, 201; Barbuto, Caso “Chanel”: la
“guerra dei bottoni” rende attuali i problemi del marchio debole, del marchio forte e del secondary meaning, in Impresa,
1997, 425; Liuzzo, Alla scoperta dei nuovi marchi, in Riv. dir.
ind., 1997, I, 130; Bichi, Art. 47 bis della legge marchi e l’uso riabilitante del marchio, in Riv. dir. ind., 1995, I, 106; Galli, sub artt. 47 e 47 ter, in Nuove leggi civ., 1995, 201; Galli,
Attuazione della direttiva n. 89/104 CEE - Commentario, in
Le nuove leggi civ. comm., 1995, 1200; Mansani, Marchi
Olfattivi, in Riv. dir. ind., 1995, I, 262; Galli, Il diritto transitorio dei marchi, 1994, 16; Grasso, Marchio forte marchio debole, secondary meaning e volgarizzazione, riflessi della novella n. 480 del 1992, in Giust. civ., 1994, I, 3231; Amendola, La tutelabilità come marchio del titolo delle opere dell’ingegno, in AIDA, 1993, 39; Galli, Problemi attuali in materia
di marchi farmaceutici, in Riv. dir. ind., 1992, 14; Franceschelli, Richiami in tema di marchi forti, marchi deboli e “secondary meaning”, in Riv. dir. ind., 1986, II, 3; Sordelli, Titolo dell’opera o periodico e secondary meaning, in Dir. aut.,
1979, 796; Sordelli, Marchi e secondary meaning, 1979,
264; Ammendola, Originalità del marchio, denominazione di
luogo e “secondary meaning”, in Riv. dir. ind., 1978, II, 246;
Guglielmetti, Il secondary meaning e l’opportunità di una
sua (limitata) tutela in sede di riforma della legge italiana sui
marchi, in Riv. dir. ind., 1973, 39; Franceschelli, Marchi descrittivi e secondary meaning, in Riv. dir. ind., 1972, II, 56.
AFFINITÀ TRA PRODOTTI: DIFFERENZA DEL PUBBLICO
DI RIFERIMENTO E DEI BISOGNI DA SODDISFARE
Cassazione civile, Sez. I, 4 marzo 2015, n. 4386 - Pres.
Ceccherini - Est. Ragnonesi - P.M. Salvato (conf.) - Tidnings AB Metro c. Metro Italia Cash & Carry S.p.a. e
Metro Cash & Carry Services Ltd.
È inadeguato e dunque censurabile in sede di legittimità l’argomento del giudice del merito relativo alla sussistenza di affinità tra i prodotti, laddove, trattandosi di
prodotti editoriali, il giudice non abbia valutato la differenza del pubblico di riferimento delle pubblicazioni a
confronto nonché la differenza del bisogno che esse
tendono a soddisfare, segnatamente un’informazione
309
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Sintesi
specializzata, da un lato, e un’informazione generalista,
dall’altro lato.
Il fatto
Il giudizio di cui si tratta è stata instaurato dalle socc. Metro International DL AG e Metro Italia Cash and Carry
S.p.a., entrambe facenti parte del gruppo Metro, operante
nel settore della distribuzione mediante grandi magazzini di
vendita self-service all’ingrosso sotto l’insegna “M.E.T.R.O. -”, la prima titolare e la seconda licenziataria del
relativo marchio denominativo, registrato in Italia con rivendicazione estesa, ex multis, alla classe merceologica
16, includente periodici e giornali quotidiani. Invocando i
diritti di marchio relativi, le attrici hanno convenuto in giudizio, avanti il Tribunale di Torino, la soc. svedese Tidnings
AB Metro, svolgendo domande di nullità di alcuni marchi
della società convenuta e domande di contraffazione e
consequenziali.
In particolare, le attrici hanno chiesto che venisse dichiarata la nullità, per difetto del requisito di novità ai sensi degli
artt. 1, 17, lett. c) e d) e 47, lett. a), R.D. 21 giugno 1942, n.
929, di due marchi relativi alla dicitura “METRO”, di titolarità della soc. convenuta, l’uno denominativo, l’altro anche
figurativo, registrati con rivendicazione della stessa classe
16.
A sostegno delle domande, le attrici hanno dedotto di produrre, fra l’altro, anche periodici pubblicitari relativi ai prodotti messi in vendita nei propri magazzini all’ingrosso.
Costituitasi in giudizio, la convenuta Tidnings AB Metro,
premesso di pubblicare, sotto la testata “Metro” (la lettera
“o” espressa graficamente mediante la raffigurazione di un
globo), un giornale quotidiano di informazione, attualità ed
altro, distribuito gratuitamente nelle grandi città all’interno
delle reti di trasporto pubblico, ha chiesto il rigetto delle
domande avversarie contestando sia l’identità del marchio,
sia l’affinità tra i prodotti, con esclusione dunque della confondibilità tra i marchi in questione, e negando, infine, la
possibilità di riconoscere una tutela ultramerceologica del
segno dalle soc. attrici.
La convenuta ha dunque chiesto il rigetto delle domande
attoree svolgendo, in via riconvenzionale, ex art. 42, legge
marchi, domanda di decadenza parziale per non uso quinquennale del marchio “- M.E.T.R.O. -” limitatamente ai prodotti per l’informazione, quali i quotidiani.
In corso di causa è intervenuta la Metro Cash & Service
Ldt, con sede in Dublino, quale cessionaria del marchio “M.E.T.R.O. -”, facendo proprie le domande proposte dalle
società attrici.
Con sentenza depositata il 27 gennaio 2004, il Tribunale di
Torino ha accolto le domande delle attrici, dichiarando la
contraffazione del marchio “Metro” ad opera della Tidnings
AB Metro, la nullità dei marchi di quest’ultima, con pronunce accessorie consequenziali. Sono state invece rigettate la
domande di risarcimento dei danni e di accertamento della
concorrenza sleale.
Il giudice di prime cure ha ritenuto evidente l’identità dei
marchi in oggetto sotto il profilo denominativo, fonetico e
concettuale. Ciò posto, ha sottolineato come i marchi in
questione non solo contraddistinguessero prodotti appartenenti alla medesima classe merceologica, ma venissero altresì impiegati su prodotti rientranti nel genere degli stampati, poiché anche le soc. attrici realizzavano, stampavano
e diffondevano un periodico denominato “Metro”, dal contenuto pubblicitario (irrilevante la sua distribuzione in
omaggio), e dal 2001 anche un giornale, avente ad oggetto
temi di attualità e interesse generale, notizie e cronaca, di
310
talché non era neppure necessario dedurre o provare il rischio di confusione.
Il Tribunale ha quindi osservato che “l’uso del marchio da
parte del titolare per (classi di) prodotti registrati precludeva la dichiarazione di decadenza parziale con riferimento ai
prodotti legati al primo da una relazione di affinità”. Secondo il Tribunale, il fatto che il marchio “- M.E.T.R.O. -” non
fosse stato utilizzato per contraddistinguere dei quotidiani
non era decisivo, poiché a tale ultimo prodotto non poteva
essere attribuita una reale autonomia merceologica all’interno della categoria degli “stampati”, di tal che non poteva aversi decadenza parziale essendo stato il marchio adoperato per altro tipo di stampato.
Avverso tale pronuncia la Tidnings AB Metro ha proposto
appello, al quale ha resistito la sola Metro Italia Cash and
Carry S.p.a., nelle more divenuta (da licenziataria a) cessionaria del marchio, proponendo impugnazione incidentale
in ordine al rigetto della domanda sui danni.
Dichiarata la contumacia della Metro Cash and Carry Services Ldt., con sentenza 8 novembre-6 dicembre 2005 la
Corte d’Appello di Torino ha respinto l’appello principale e,
in accoglimento dell’appello incidentale e in parziale riforma della sentenza impugnata, ha condannato la Tidnings
al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio.
Contro tale sentenza la Tidnings AB Metro ha proposto il ricorso per cassazione.
La decisione
La Corte di Cassazione, con la decisione in rassegna, cassa
la sentenza di merito argomentando che il giudice non
avrebbe adeguatamente svolto il giudizio sulla sussistenza
di somiglianza dei prodotti a confronto. In particolare, come emerge dalla massima, si sarebbe trattato di un giudizio censurabile poiché la Corte territoriale avrebbe trascurato di considerare il pubblico di riferimento dei prodotti
(pubblicazioni editoriali e simili) e l’intrinseca differenza
contenutistica dell’informazione veicolata per il tramite degli stessi.
Al di là della fondatezza, o no, dell’assunto nel merito, può
osservarsi come una tal valutazione supponga l’esercizio di
un giudizio di somiglianza tra i prodotti condotto, come si
dice, in concreto, anziché, come generalmente si ritiene
dovuto, in astratto e cioè con riferimento all’oggetto della
rivendicazione.
I precedenti
Relativamente a fatti analoghi, cfr: Trib. Roma 8 febbraio
2001 (ord.), in Giur. ann. dir. ind., 2002, n. 4342, che ha
escluso l’affinità fra il quotidiano edito da Ed. Metro S.r.l. e
l’opuscolo della soc. Metro anche in ragione del criterio
dell’origine imprenditoriale (secondo il Tribunale il consumatore medio non poteva ragionevolmente essere indotto
a credere che le due pubblicazioni provenissero da una
medesima fonte imprenditoriale).
In giurisprudenza, ai fini della valutazione dell’affinità fra
prodotti, si fa ricorso a criteri quali la natura dei prodotto,
la loro destinazione e il loro impiego, ossia il bisogno che
sono chiamati a soddisfare: Trib. UE nel procedimento T505/12, 12 febbraio 2015, http://curia.europa.eu; Trib. Milano 23 ottobre 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2009, n. 5463;
Cass. 4 maggio 2009, n. 10218, in Riv. dir. ind., 2009, II,
577; Trib. Bologna 2 maggio 2008, in Giur. ann. dir. ind.,
2008, n. 5292; Comm. Ricorsi, 8 settembre 2008, causa R188/2006-4, in questa Rivista, 2009, 146; Trib. Firenze 14
dicembre 2006 (ord.), in Sez. Spec. PII, 2006, I-II, 45.II; Trib.
Milano 18 luglio 2006, in Sez. Spec. PII, 2006, I-II, 123;
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Giurisprudenza
Sintesi
Trib. CE 8 dicembre 2005 (in proc. C-29/04), in Giur. ann.
dir. ind., 2006, n. 5057; Trib. Roma 23 agosto 2005, in Giur.
ann. dir. ind., 2005, n. 4894; Trib. CE, 14 luglio 2005 (in
causa T-126/03), in Giur. ann. dir. ind., 2005, n. 4871; Trib.
Torino 18 ottobre 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2005, n.
4838; Trib. Modena 28 gennaio 2003 (ord.), in Giur. ann.
dir. ind., 2003, n. 4544; Trib. Torino 7 marzo 2002; in Giur.
ann. dir. ind., 2002, n. 4413; Trib. Firenze 25 settembre
2001, in Giur. ann. dir. ind., 2002, n. 3463; Trib. Monza 26
giugno 2000 (ord.), in Giur. ann. dir. ind., 2001, n. 4227;
Trib. Torino 12 febbraio 2001, in Giur. ann. dir. ind., 2001,
n. 4263; Cass. 9 febbraio 2000, n. 1424, in Giur. ann. dir.
ind., 2000, n. 4053; App. Milano 14 luglio 1998, in Giur.
ann. dir. ind., 1998, n. 3827; Trib. Monza 27 maggio 1997
(ord.), in Giur. ann. dir. ind., 1997, n. 3664; Cass. 22 gennaio 1993, n. 782, in Giur. ann. dir. ind., 1994, n. 3017; Trib.
Milano 7 febbraio 1994, in Giur. ann. dir. ind., 1994, 3106;
Trib. Brescia 19 novembre 1994, in Giur. ann. dir. ind.,
1994, n. 3156; Cass. 22 gennaio 1993, n. 782, in Giur. ann.
dir. ind., 1994, n. 3017; App. Bologna 12 marzo 1992, in
Giur. ann. dir. ind., 1992, n. 2809; Cass. 19 marzo 1991, n.
2942, in Giur. ann. dir. ind., 1991, n. 2596; Trib. Bassano
del Grappa 15 dicembre 1990, in Giur. ann. dir. ind., 1994,
n. 3032; Trib. Milano 9 febbraio 1989, in Giur. ann. dir. ind.,
1989, n. 2401; App. Bologna 5 gennaio 1988, in Giur. ann.
dir. ind., 1988, n. 2281; Cass. 2 marzo 1987, n. 2169, in
Giur. ann. dir. ind., 1987, n. 2232; Trib. Milano 19 novembre 1987, in Giur. ann. dir. ind., 1987, n. 2220; Trib. Vicenza
30 settembre 1986, in Giur. ann. dir. ind., 1987, n. 2137;
Trib. Milano 14 aprile 1986, in Giur. ann. dir. ind., 1986, n.
2066; App. Milano 8 febbraio 1985, in Giur. ann. dir. ind.,
1985, n. 1897; Pret. Roma 2 luglio 1983 (ord.), in Giur. ann.
dir. ind., 1984, n. 1732; Trib. Milano 28 settembre 1978, in
Giur. ann. dir. ind., 1979, n. 1149; Trib. Rimini 25 maggio
1978, in Giur. ann. dir. ind., 1978, n. 1055; Trib. Catania 25
gennaio 1977, in Giur. ann. dir. ind., 1977, n. 917; Cass. 9
dicembre 1974, n. 4107, in Giur. ann. dir. ind. - Rep. Sist.
1972-1987, n. 487, 91; Trib. Torino 8 giugno 1974, in Giur.
ann. dir. ind. - Rep. Sist. 1972-1987, n. 568, 94; App. Roma
1° aprile 1974, in Giur. ann. dir. ind. - Rep. Sist. 1972-1987,
n. 541, 93; Cass. 18 febbraio 1972, n. 442, in Giur. ann. dir.
ind. - Rep. Sist. 1972-1987, n. 4, 91; Trib. Milano 14 dicembre 1972, in Giur. ann. dir. ind. - Rep. Sist. 1972-1987, n.
215, 93; Trib. Milano 27 gennaio 1972, in Giur. ann. dir.
ind. - Rep. Sist. 1972-1987, n. 62, 93; Trib. Milano 9 dicembre 1971, in Giur. ann. dir. ind. - Rep. Sist. 1972-1987, n.
46, 93.
È inoltre frequente il riferimento alla fonte produttiva: Cass.
20 settembre 2012, n. 15957, in DeJure; Trib. Milano 7 luglio 2010, in Giur. ann. dir. ind., 2010, n. 5571; Trib. Bologna 23 novembre 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2011, n.
5628; App. Milano 20 marzo 2009, in Giur. ann. dir. ind.,
2009, n. 5412; Trib. Torino 18 dicembre 2009, in Giur. ann.
dir. ind., 2010, n. 5517; Trib. Roma 11 ottobre 2007, in Giur.
ann. dir. ind., 2008, n. 5250; Trib. Torino 26 novembre
2007, in Giur. ann. dir. ind., 2008, n. 5253; Trib. Catania 12
maggio 2006 (ord.), in Giur. ann. dir. ind., 2007, n. 5089;
App. Milano 10 maggio 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2003,
n. 4499; Trib. Torino 12 febbraio 2001, in Giur. ann. dir.
ind., 2001, n. 4263; Corte di Giustizia CE 22 giugno 1999
(in causa C-342/9), 1998, in Giur. ann. dir. ind., 2001, n.
4045; Cass. 4 dicembre 1999, n. 13592, in Giur. ann. dir.
ind., 2000, n. 4051; Trib. Napoli 5 novembre 1998 (ord.), in
Giur. ann. dir. ind., 1998, n. 3841; App. Milano 9 giugno
1998, in Giur. ann. dir. ind., 1999, n. 3926; App. Milano 22
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maggio 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1999, n. 3923; App. Milano 14 novembre 1997, in Giur. ann. dir. ind., 1998, n.
3782; Trib. Monza 24 luglio 1997 (ord.), in Giur. ann. dir.
ind., 1997, n. 3670; Cass. 15 maggio 1997, n. 4295, in Giur.
ann. dir. ind., 1997, n. 3570; Trib. Torino 8 maggio 1996, in
Giur. ann. dir. ind., 1996, n. 3486; Trib. Milano 26 febbraio
1996, in Giur. ann. dir. ind., 1996, n. 3470; Trib. Milano 14
dicembre 1995, in Giur. ann. dir. ind., 1996, n. 3450; App.
Milano 27 ottobre 1995, in Giur. ann. dir. ind., 1996, n.
3441; App. Milano 19 maggio 1995, in Giur. ann. dir. ind.,
1995, n. 3317; Trib. Milano 6 aprile 1995, in Giur. ann. dir.
ind., 1995, n. 3412 Trib. Brescia 19 novembre 1994, in Giur.
ann. dir. ind., 1994, n. 3156 App. Milano 15 aprile 1994, in
Giur. ann. dir. ind., 1995, n. 3230; Trib. Milano 7 febbraio
1994, in Giur. ann. dir. ind., 1994, n. 3106; Trib. Milano 4
febbraio 1993, in Giur. ann. dir. ind., 1993, n. 2935; App.
Bologna 12 marzo 1992, in Giur. ann. dir. ind., 1992, n.
2809; Trib. Milano 22 gennaio 1990, in Giur. ann. dir.
ind.,1990, n. 2505; App. Milano 6 novembre 1990, in Giur.
ann. dir. ind., 1990, n. 2574; App. Milano 24 gennaio 1989,
in Giur. ann. dir. ind., 1989, n. 2396; Trib. Roma 15 novembre 1988, in Giur. ann. dir. ind., 1988, n. 2350; Trib. Milano
31 marzo 1988, in Giur. ann. dir. ind., 1988, n. 2305; App.
Bologna 19 maggio 1987, in Giur. ann. dir. ind., 1987, n.
2260; Trib. Milano 16 aprile 1987, in Giur. ann. dir. ind.,
1987, n. 2161; Trib. Torino 22 settembre 1986, in Giur. ann.
dir. ind., 1987, n. 2135; Trib. Milano 13 maggio, 1985, in
Giur. ann. dir. ind., 1985, n. 1925; Trib. Milano 3 maggio
1984, in Giur. ann. dir. ind., 1984, n. 1769; Trib. Milano 1°
marzo 1984, in Giur. ann. dir. ind., 1984, n. 1753; App. Milano 24 febbraio 1984, in Giur. ann. dir. ind., 1985, n. 1751;
Cass. 24 ottobre 1983, n. 6244, in Giur. ann. dir. ind., 1983,
n. 1602; Trib. Milano 6 ottobre 1983, in Giur. ann. dir. ind.,
1984, n. 1739; Trib. Roma 28 settembre 1983, in Giur. ann.
dir. ind., 1983, n. 1689; Trib. Milano 16 settembre 1982, in
Giur. ann. dir. ind., 1983, n. 1619; Trib. Roma 27 maggio
1982, in Giur. ann. dir. ind., 1982, n. 1557; Trib. Roma 26
febbraio 1982, in Giur. ann. dir. ind., 1982, n. 1528; Trib.
Milano 17 novembre 1980, in Giur. ann. dir. ind., 1980, n.
1350; Trib. Roma 30 settembre 1980, in Giur. ann. dir. ind.,
1980, n. 1340; Trib. Milano 29 settembre 1980, in Giur.
ann. dir. ind., 1980, n. 1336; App. Napoli 23 aprile 1980, in
Giur. ann. dir. ind., 1980, n. 1305; App. Firenze 25 ottobre
1979, in Giur. ann. dir. ind., 1979, n. 1383; Trib. Milano 8
febbraio 1979, in Giur. ann. dir. ind., 1979, n. 1165; Trib.
Milano 6 novembre 1978, in Giur. ann. dir. ind., 1978, n.
1093; Trib. Milano 5 ottobre 1978, in Giur. ann. dir. ind.,
1978, n. 1078; Cass. 10 giugno 1977, n. 2396, in Giur. ann.
dir. ind., 1977, n. 897; Cass. 9 dicembre 1974, n. 4107, in
Giur. ann. dir. ind. - Rep. Sist. 1972-1987, n. 487, 91; Trib.
Milano 8 novembre 1973, in Giur. ann. dir. ind. - Rep. Sist.
1972-1987, n. 412, 93; App. Milano 22 settembre 1972, in
Giur. ann. dir. ind. - Rep. Sist. 1972-1987, n. 169, 93.
Alcune pronunce si sono spinte ad indagare anche la “concorrenzialità o complementarietà” dei prodotti in raffronto:
Trib. Milano 25 settembre 2012, in Giur. ann. dir. ind.,
2012, n. 5906; Corte CE, 18 dicembre 2008 (in causa C16/06), in Giur. ann. dir. ind., 2010, n. 5601; Trib. CE 11 luglio 2007 (in proc. T-150/04), in Giur. ann. dir. ind., 2008, n.
5331; Trib. CE 11 luglio 2007 (in proc. T-443/05), in Giur.
ann. dir. ind., 2007, n. 5202; Trib. Firenze 13 giugno 2005,
in Sez. Spec. PII, 2005, II, 269; Trib. CE 13 luglio 2004 (in
proc. T-115/02), in Giur. ann. dir. ind., 2004, n. 4779; Trib.
CE 6 luglio 2004 (in causa T-117/02), in Giur. ann. dir. ind.,
2004, n. 4778; Trib. CE 22 giugno 2004 (in causa T-185/0),
311
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in Giur. ann. dir. ind., 2004, n. 4776; Trib. CE 12 dicembre
2002 (in causa T-110/01), in Giur. ann. dir. ind., 2003, n.
4612; Trib. CE 15 gennaio 2003 (in causa T-99/01), in Giur.
ann. dir. ind., 2003, n. 4613; Corte CE 29 settembre 1998
(in causa C-39/97), in Giur. ann. dir. ind., 1998, n. 4038.
Tra le numerose pronunce relative a questi aspetti, si possono ricordare alcuni casi in cui è stata esclusa l’affinità tra
prodotti: di telefonia mobile (servizi) e consulenza aziendale
fornita da imprese che operano nel settore delle comunicazioni elettroniche, Trib. Milano 13 novembre 2012 (ord.), in
Giur. ann. dir. ind., 2012, n. 5908; di prodotti di profumeria
o i prodotti dietetici e medicinali e le birre, le bevande analcoliche gli sciroppi ed i succhi di frutta: Trib. Torino 12 aprile 2011, in Giur. ann. dir. ind., 2011, n. 5715; di attrezzi manuali per l’agricoltura ed il giardinaggio e le motozappatrice
ed i motocoltivatori: Trib. Firenze 6 dicembre 2006 (ord.), in
Giur. ann. dir. ind., 2007, n. 5122; di abbigliamento di uso
quotidiano e per il tempo libero e destinati ad una clientela
elegante e prodotti di attrezzatura tecnica e specialistica
per lo sport di montagna: Trib. Milano 3 febbraio 2003, in
Giur. ann. dir. ind., 2004, n. 4657; di servizi assicurativi, creditizi e di assistenza automobilistica e le automobili: App.
Torino 13 febbraio 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, n.
4716; di abbigliamento maschile e le pellicce destinate a
una clientela femminile: App. Bologna 13 aprile 2004, in
Giur. ann. dir. ind., 2004, n. 4739; e Cass. 4 maggio 2009,
n. 10218, in Giur. ann. dir. ind., 2009, n. 5352; di oli essenziali destinati alla profumazione di ambienti e prodotti cosmetici per la cura del viso e del corpo: Trib. Milano 30 settembre 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4522; cosmetici e quelli riconducibili a un’amica tradizione erboristica:
Trib. Torino 7 marzo 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, n.
4413; vini e gelati: App. Palermo 18 ottobre 1999, in Giur.
ann. dir. ind., 2001, n. 4215; servizi offerti su siti internet
inerenti la diffusione di notizie su personaggi dello sport e
l’effettuazione di concorsi a premi di prodotti commercializzati dal titolare del sito: Trib. Pistoia 9 aprile 2001 (ord.), in
Giur. ann. dir. ind., 2001, n. 4280; formaggi e salumi: Cass.
15 maggio 1997, n. 4295, in Giur. ann. dir. ind., 1997, n.
3570, di igiene per la persona e quelli di igiene per la casa
e per la lucidatura degli interni di autovetture: App. Milano
24 gennaio 1989, in Giur. ann. dir. ind., 1989, n. 2396.
È stata invece riconosciuta l’affinità fra i prodotti: di abbigliamento femminile e maschile, nonché di abbigliamento
e scarpe: Cass. 20 settembre 2012, n. 15597, in Giur. ann.
dir. ind., 2012, n. 5792; di vino ed olio: Trib. Milano 1 marzo 2010, in Giur. ann. dir. ind., 2010, n. 5537; ed anche
Trib. 11 aprile 1996, in Giur. ann. dir. ind., 1996, n. 3481; di
cosmesi e gli oli essenziali ad uso cosmetico: Trib. Torino
29 settembre 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2009, n. 5456; di
pasticceria e derivanti del latte, fra cui lo yogurt, ed i gelati:
Trib. Roma 22 maggio 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2004, n.
4676; di capi di abbigliamento e calzature: Trib. Trento, 15
gennaio 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4542; di pelletteria e di abbigliamento, da un lato, e di ombrelli, bastoni
da passeggio ed occhiali, dall’altra: App. Milano 10 maggio
2002, in Giur. ann. dir. ind., 2003, n. 4499; di abbigliamento
312
e quelli di cartoleria che siano destinati ad essere portati
sulla persona: Trib. Milano 2 aprile 2001, in Giur. ann. dir.
ind., 2001, n. 4279; mangimi per cavalli e quelli per cani e
gatti: Trib. Verona 23 luglio 2001 (ord.), in Giur. ann. dir.
ind., 2001, n. 4308; gelati e servizi di gelateria: Trib. Milano
7 febbraio 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2000, n. 4137; di seghe circolari e troncatrici, taglierini e banchi sega: Trib.
Reggio Emilia 29 gennaio 1996 (ord.), in Giur. ann. dir. ind.,
1997, n. 3586; di creme cosmetiche e creme che abbiano
indicazioni terapeutiche: Trib. Monza 27 maggio 1997
(ord.), in Giur. ann. dir. ind., 1997, n. 3664; appartenenti allo
stesso genere merceologico, ma di qualità e prezzo differenti: App. Brescia 4 maggio 1989, in Giur. ann. dir. ind.,
1989, n. 2413; Trib. Cagliari 28 settembre 1989, in Giur.
ann. dir. ind., 1989, n. 2451; e Trib. Brescia 29 aprile 1987,
in Giur ann. dir. ind. - Rep. Sist. 1988-1996, 81.
La dottrina
Alvanini, Rischio di confusione e percezione dei marchi, in
questa Rivista, 2009, 151; Biglia, Alcuni problemi sull’affinità
fra prodotti e sul giudizio di confondibilità fra marchi, in Riv.
dir. ind., 1982, II, 42; Bottero, Marchi notori, beni affini ed
usi atipici nella giurisprudenza comunitaria, in Giur. comm.,
2004, IV, 363; Calboli, Rilevanza della “qualifica professionale” degli acquirenti nel giudizio di confondibilità tra marchi simili non registrati, in Giur. comm., 1998, 604; Di Cataldo,
Capacità distintiva ed estensione merceologica della tutela,
Relazione al Convegno SISPI, Milano 14-16 settembre
2006, su Marchi: capacità distintiva e confondibilità, in questa Rivista, 2007, 27; Floridia, Commento alla nuova legge
marchi, in Corr. giur., 1993, 270; Galgano, Diritto civile e
commerciale, III ed., I, Padova, 1999, 191; Galli, I limiti della
protezione dei marchi rinomati nella giurisprudenza della
Corte di giustizia C.E., in Riv. dir. ind., 2004, II, 137; Galli,
L’allargamento della tutela del marchio e i problemi Internet,
in Riv. dir. ind., 2002, III, 2002, 103; Galli, Rischio di associazione, protezione allargata e marchi anteriori alla riforma, in
Riv. dir. ind., 1995, II 15; Magelli, Moda e diritti IP nella giurisprudenza italiana, in questa Rivista, 2013, 385; Manfredi,
Marchio celebre, marchio di rinomanza e decadenza parziale
per il non uso, in questa Rivista, 2009, 245; Montuschi,
Muova decisione della Corte di giustizia CE sul rischio di associazione, in questa Rivista, 2001, 17; Quaranta, Decadenza per non uso e affinità, in questa Rivista, 2003, 70; Ricolfi,
Marchi che godono di rinomanza e beni affini nella giurisprudenza comunitaria, in Giur. comm., 2003, II, 574; Sena,
Confondibilità fra segni e confondibilità fra prodotti o servizi
nella giurisprudenza comunitaria: alcune considerazioni pertinenti e impertinenti, in Riv. dir. ind., 2004, I, 203; Sena, Il
nuovo diritto dei marchi, Milano, 2001, 69; Sironi, La “percezione” del pubblico interessato, in questa Rivista, 2007,
121; Sobol, Marchio notorio e decadenza, in Riv. dir. ind.,
2009, II, 217; Sotriffer, Protezione allargata del marchio di rinomanza e prodotti affini, in Riv. dir. ind., I, 2010, 108; Vanzetti - Di Cataldo, Manuale di diritto industriale, V ed., Milano, 2005, 223; Vanzetti, La nuova legge marchi, Milano,
1993, 23.
Il Diritto industriale 3/2015
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Indici
Il Diritto industriale
INDICE DEGLI AUTORI
parte degli Stati membri: il pericoloso precedente
del pacchetto brevetti ....................................
221
Cassiers Vincent
L’Unione non può essere privata dei suoi poteri da
parte degli Stati membri: il pericoloso precedentedel
pacchetto brevetti .........................................
Zamboni Barbara
Rassegna della Corte di Cassazione ...................
306
221
Zoboli Laura
Cistaro Mario
Assetto finanziario del corporate delle società per
azioni e tutela della concorrenza ........................
Interesse pubblico ed eccezione culturale: le limitazioni al diritto all’immagine dei personaggi famosi ...
Comelli Andrea
Il blocco dell’app Uber Pop: concorrenza sleale nei
confronti del servizio pubblico di taxi ...................
252
De Visscher Fernand
L’Unione non può essere privata dei suoi poteri da
parte degli Stati membri: il pericoloso precedente
del pacchetto brevetti .....................................
221
294
Florio Francesca
Il diritto all’immagine, la necessità del consenso
e le sue eccezioni .........................................
276
300
Giove Luca
Il blocco dell’app Uber Pop: concorrenza sleale nei
confronti del servizio pubblico di taxi ...................
270
231
Cassazione civile
13 giugno 2014, n. 13524 ................................
259
2 febbraio 2015, n. 1861 .................................
308
9 febbraio 2015, n. 2405 .................................
306
4 marzo 2015, n. 4386 ....................................
309
Milano 21 gennaio 2014 .................................
292
Roma 17 luglio 2014 ......................................
273
Genova 20 settembre 2014 .............................
269
Milano, 25 maggio 2015 .................................
245
Antitrust
Effetti restrittivi della concorrenza
281
Mastrelia Dario
Profili evolutivi della tutela del software ...............
223
5 maggio 2015, n. C-147/13, Grande Sezione ........
INDICE ANALITICO
Maggiore Massimo
Interesse pubblico ed eccezione culturale: le limitazioni al diritto all’immagine dei personaggi famosi ...
5 maggio 2015, n. C-146/13, Grande Sezione ........
252
La Rocca Francesca
I diritti morali d’autore e diritti della personalità
delle persone giuridiche ..................................
Corte di giustizia UE
Tribunale
Gargiulo Giovanni
L’ultimo nato tra i segni distintivi: il nome a dominio
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
Giurisprudenza
Del Re Claudia
Tutela dell’immagine: nozione estensiva del tribunale di Milano .................................................
281
213
Assetto finanziario del corporate delle società per
azioni e tutela della concorrenza di M. Cistaro .......
213
Brevetti
261
Brevetto europeo
Prado Iuri Maria
Giurisdizione unificata e regime linguistico nelle sentenze della Corte UE sui ricorsi del Regno di Spagna
Rassegna della Corte di Cassazione ....................
Strowel Alain
L’Unione non può essere privata dei suoi poteri da
Il Diritto industriale 3/2015
238
306
L’Unione non può essere privata dei suoi poteri da
parte degli Stati membri: il pericoloso precedente
del pacchetto brevetti di A. Strowel, F. de Visscher,
V. Cassiers ..................................................
221
Giurisdizione unificata e regime linguistico nelle sentenze della Corte UE sui ricorsi del Regno di Spagna
(Corte UE 5 maggio 2015, n. C-146/13, Corte UE 5
maggio 2015, n. C-147/13) commento di I.M. Prado
223
313
Indici
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Il Diritto industriale
Concorrenza sleale
Marchi
Norme pubblicistiche
Affinità tra prodotti
Il blocco dell’app Uber Pop: concorrenza sleale nei
confronti del servizio pubblico di taxi (Tribunale di
Milano, 25 maggio 2015) commento di L. Giove e A.
Comelli) .....................................................
Affinità tra prodotti: differenza del pubblico di riferimento e dei bisogni da soddisfare (Cass. civ. 4 marzo 2015, n. 4386) ..........................................
309
245
Capacità distintiva del marchio
Diritto d’autore
Secondary meaning di marchio originariamente debole (Cass. civ.2 febbraio 2015, n. 1861) ..............
308
Diritto all’immagine
Domain name
Il diritto all’immagine dei personaggi famosi ( Tribunale di Roma 17 luglio 2014) commenti di F. Florio e
M. Maggiore - L. Zoboli) ..................................
273
Tutela dell’immagine: nozione estensiva del Tribunale di Milano (Tribunale di Milano 21 gennaio 2014)
commento di C. Del Re ..................................
292
I diritti morali d’autore e diritti della personalità delle
persone giuridiche (Tribunale di Genova 20 settembre 2014) commento di F. La Rocca ...................
L’ultimo nato tra i segni distintivi: il nome a dominio
di G.Gargiulo ...............................................
300
Parole di lingua straniera
Capacità distintiva di parole straniere (Cass. civ. 9
febbraio 2015, n. 2405) ...................................
306
269
Plagio e contraffazione
Profili evolutivi della tutela del software (Cassazione
civile 13 giugno 2014, n. 13524) commento di D.
Mastrelia ....................................................
314
259
Il Diritto industriale 3/2015
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
Processo civile:
le novità del decreto
degiurisdizionalizzazione
Il volume fornisce al professionista un primo commento del d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito con modificazioni in legge 10 novembre 2014, n. 162, recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed
altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo
civile.
Dopo una premessa sulle ragioni che hanno portato all’approvazione
della nuova novella, nell’instant book vengono analizzate e descritte le
singole misure introdotte dal legislatore, riguardanti:
• l’eliminazione dell’arretrato e il trasferimento in sede arbitrale dei
procedimenti civili pendenti;
• la negoziazione assistita;
• le modifiche in tema di separazione e divorzio;
• le altre misure per la funzionalità del processo civile di cognizione;
• le disposizioni varie per la tutela del credito e per la semplificazione ed accelerazione dell’esecuzione forzata e delle procedure
concorsuali.
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Vito Amendolagine
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Completano il volume le tavole riepilogative poste alla fine di ciascun
capitolo, la tabella di raffronto delle novità introdotte in sede di conversione in legge del d.l. n. 132/2014 e l’indice analitico.
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Nel descrivere le singole modifiche introdotte dal legislatore, si è
cercato di privilegiare l’aspetto pratico nell’ottica dell’avvocato, senza
tralasciare naturalmente il necessario rigore scientifico, evidenziando
anche pregi e difetti e, quindi, le possibili criticità.
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V. Di Cataldo - F. Guerrera
A. Sciarrone Alibrandi