LA PAROLA LIBEATRICE
INTRO.
L’approccio analitico alla filosofia è proteso ad agguantare il “valore cognitivo” delle varie proposte
teoriche. Esso è caratterizzato dal procedere per definizioni, esempi e contro esempi, da un’attività
di problem solving in cui non è importante chi sostiene una tesi né come questa sia nata e si sia
evoluta, ma ciò che importa è il suo significato semantico; le affermazioni vengono astratte dal
contesto e ridotte a linguaggio simbolico per arrivare alla struttura profonda. Ciò che viene
sacrificata è la storia : gli “analitici” trascurano il contesto, le origini e la personalità del filosofo. Lo
scetticismo viene ridotto a icona universale per poi subire le metamorfosi di coloro che lo
ricostruiscono, e l’idealismo è una sorta di archetipo del modo possibile di essere della filosofia.
I continentali rimproverano agli analitici la loro mancanza di senso storico, l’incapacità di cogliere il
carattere complessivo delle situazioni: la ragione analitica non è sufficiente per comprendere la
totalità del reale, può andare bene per le scienze empiriche, ma non per le scienze umane. Si
rimprovera invece allo “storico” il fatto che considerare tutti i contesti e tutte le situazioni gli fa
smarrire il proprio oggetto in una molteplicità di prospettive senza riuscirne a cogliere il nucleo
comune. La fedeltà storica costituisce un freno per l’immaginazione filosofica e della capacità di
formare comparazioni che possono originare nuove idee filosofiche. La storia della filosofia è ricca
di “tradimenti” del pensiero dei predecessori e di feconde ricostruzioni.
L’analitico ha finito per smarrirsi nel simbolismo, nell’irrilevante, nell’astratto, si è isterilito. La sola
terapia è quella storica. Con Kuhn la storia reale entra nella filosofia della scienza, la quale non è
stata più la stessa, devastata da Feyeranbend, Latour, Hanson… e si è aggrappata al naturalismo e
all’epistemologia evoluzionistica.
Solo tornando alla contestualizzazione storica e solo considerando autori e correnti non canonici si
possono trovare analogie impensate, pensieri insoliti.
La sapienza pre-filosofica non necessitava di una giustificazione discorsiva, in quanto si
presentava con una fulminea autoevidenza.
La filosofia nasce con la pratica della discussione e con l’esigenza di far prevalere una tesi su
un’altra, pensando che il proprio discorso, fatto di parole, fosse in grado di mostrarsi più forte
rispetto a quello dell’interlocutore; ma la tesi non è dotata di evidenza immediata, per cui bisogna
sostenerla con l’argomentazione.
Aristotele contrapponeva il carattere “profano” della ragione umana alla sapienza proveniente da
dio, il quale dona “i più grandi beni” (l’eccellenza) a coloro che non fanno interferire l’intelligenza
con i propri pensieri; << l’eccellenza non è frutto della fatica della ragione, ma è strumento
dell’intuizione; coloro che fanno a meno della ragione riescono a cogliere il segno>>. Ne consegue
la contrapposizione tra i sapienti (che comprendono senza la necessità del linguaggio) e coloro
che imparano faticosamente articolando logoi, i quali secondo Pindaro non hanno accesso alla
vera sapienza, ma solo al suo pallido riflesso.
Proprio in contrapposizione alla sapienza misterica nasce la filosofia, la razionalità greca che
intende la conoscenza come articolazione di discorsi, argomentazione.
Heddinger: solo la grande poesia da accesso all’Essere, l’”ulteriore”; invece il linguaggio
predicativo cattura l’essere come essente, manipolabile dalle argomentazioni razionali.
È grazie al logos che sono state possibili le conquiste tecniche e scientifiche che hanno condotto
l’Europa al dominio del mondo. La logica può nascere supponendo che si diano argomentazioni, e
che vi siano ambiti in cui adoperarle.
Del logos è erede la scienza moderna, istituita da Galileo da cui nasce l’idealizzazione (il carattere
più significativo del procedere metodico dello scienziato).
Wittgenstein e Schlick insegnano che non v’è altra conoscenza se non quella che si edifica nella
trama del linguaggio, nella comunicazione intersoggettiva, nel convincere e persuadere, ed è
grazie a questa razionalità che giunge la “parola liberatrice” che ci rende saggi.
LA PAROLA LIBERATRICE. MATEMATICA E MISTICISMO IN
RUSSELL E WITTGENSTEIN.
Lo spirito scientifico è molto lontano dal mistico, in cui il sentimento sostituisce la ragione, e
altrettanto distante da esso è la matematica, basata su esatte definizioni e sull’esercizio analitico;
eppure gli enti della logica e della matematica appartengono ad un mondo diverso da quello
materiale, una realtà più pura, perfetta. Russell: l’aritmetica deve essere scoperta come Colombo
scoprì le Indie.
Russell e Wittgenstein fanno entrambi riferimento al misticismo: sono stati legati da un’amicizia a
cui seguirono periodo di diffidenza e incomprensione, e finirono col porre fine al loro sodalizio, ciò
probabilmente a causa del loro modo diverso di vivere il misticismo.
Misticismo empatico e misticismo ascetico.
La “fase mistica” di Russell va dal 1901 al 1914. Due circostanze, cariche di una componente
affettiva, lo portarono alla conversione mistica: nel 1901 quando Evelyn, moglie di Whitehead di cui
era segretamente innamorato, ebbe un attacco di angina pectoris; e poi nel 1911 durante la
relazione con Lady Ottoline Morrell. Per anni si era occupato della precisione e dell’analisi.
In corrispondenza della prima circostanza fu sopraffatto dal senso della solitudine e condivideva
empaticamente la sofferenza di Evelyn; la conseguenza fu l’abbandono della sua irriverente
intelligenza, e passò da imperialista quale era a pacifista. Le origini sentimentali di quel misticismo
ebbero l’effetto di atteggiamenti di maggiore disponibilità affettiva. Ottoline è un’altra donna
sofferente, le cui emozioni lo scuotono e stimolano la sua seconda conversione, nella quale
dominano stavolta il romanticismo e l’estetismo. Il significato del suo misticismo è: un matrimonio
col mondo in cui l’uomo trova molto da amare. Ciò e associato alla consapevolezza della solitudine
di tutti gli uomini, dalla quale si può fuggire con l’amore. L’amore è lo strumento per vincere la
solitudine. Il misticismo di Wittgenstein invece disprezza l’umanità ed è alimentato da un’ascesi
sentimentale le cui condizioni essenziali sono la solitudine e l’isolamento dal mondo. Era un
ascetismo personale che lo spinse a mettersi alla prova: partì come volontario per la Grande
Guerra (Russell abbandonò il misticismo nel 1914, prima che W. andasse in guerra) durante la
quale cercava la salvezza, cercava di trovarsi in situazioni vicine alla morte invocando
l’illuminazione, sforzandosi di trovare la serenità anche nel momento di massima tensione. La
guerra fu dunque l’evento cruciale denso di significato esistenziale, in cui doveva affrontare la
morte senza incorrere nel disonore. Egli nei mesi di massima tensione ha riflettuto su religione,
etica, vita, volontà, su ogni cosa possibile, sostenendo che prima di essere un logico deve fare i
conti con se stesso, ma non riuscì a stabilire una connessione con i suoi ragionamenti matematici.
Dopo la guerra era un uomo trasformato, aveva ricevuto l’illuminazione che gli aveva reso chiaro il
senso della logica e della filosofia, che scriverà nel Tractatus.
C’è distinzione tra l’esperienza mistica in quanto tale e i modi in cui questa viene espressa: nel
primo caso essa è unica e costante in tutte le religioni e culture, mentre le forme in cui essa si
esprime possono essere assai differenti in base alla cultura, religione, personalità…e molteplici
sono le strade che portano all’illuminazione. Es. il misticismo taoista occidentale (vede il mondo
come un ostacolo al raggiungimento del vero mondo che è dato solo dall’unione con Dio) e il
misticismo taoista orientale (che vede il mondo come l’unico che ci è dato, e seguire il Tao significa
ricercare i modi migliori per poterci vivere bene). La posizione di Russell si avvicina di più a quello
orientale, ed ha caratteri che vengono attribuiti al “vero” misticismo, che non è fuga dal presente,
ma ama la vita senza essere attaccato ad essa, vive la sua gioia nel presente; Russell incitava ad
esercitare l’amore per il mondo, la carità… Invece nella posizione di Wittgenstein non v’è l’ansia di
migliorare il mondo, ma quella di migliorare se stessi, purificare il proprio IO, perché per eliminare
l’infelicità si deve agire sulla propria interiorità, abbandonare i desideri e il mondo, con l’indifferenza
verso la vita esteriore. (è simile al Buddhismo per il quale è vano cercare di alleviare la sofferenza
col migliorare le condizioni esteriori di vita, ma per sconfiggere l’infelicità è necessaria una
metanoia interiore mediante la dottrina del non attaccamento)
Filopono distingue tra “scienza” (con cui intende le conoscenze delle scienze naturali e tecniche) e
“sapienza” (scienza delle cose eterne), e con il termine filosofia indica l’amore per la sapienza, <<il
fine ultimo della sapienza è la conoscenza delle cose divine, e ciò che conduce alla sapienza è la
scienza dei matematici>>. Tale distinzione si collega a quella tra numero “noetico” (intellegibile,
modello di per sé, proprio della filosofia prima) e il numero “dianoetico” (scientifico, razionale,
matematicamente inteso), per cui si può dire che il numero dianoetico appartiene alla scienza
mentre quello noetico fa parte della sapienza. Dunque sin dalla tarda antichità, nel pensiero
neoplatonico, è presente una duplice possibilità:
- considerare il pensiero matematico come una scala che conduce la nostra anima lontano
dal materiale preparandola alla sapienza
- ritenere gli enti della matematica come l’autentica sapienza, in quanto essi sono il puro
essere, razionalità e sapienza fanno tutt’uno
Filopono sceglie la prima opzione: la matematica è la strada che conduce alla filosofia; e
Wittgenstein è in sintonia con essa.
Una personalità bipolare
Dopo la prima conversione mistica, in Russell nasce la necessità di un impegno missionario che si
traduce anche i precetti pedagogici per educare l’emozione dei giovani. La consapevolezza della
solitudine fa emergere un’ambivalenza nel modo di concepire la natura:
- la natura è grande, calma e forte, e manda un messaggio di pace e bellezza che dobbiamo saper
cogliere; l’anima emerge con la nascita e poi si concilia con la morte che è bella come la luce della
sera
- la natura è matrigna e cinica, è indifferente al bene e al male; all’uomo non rimane che una
devozione al bene, ma senza ricompensa
Questa ambivalenza è tipica della mentalità mistica, che oscilla tra la sacralizzazione del reale e il
rifiuto della materialità vista come il male.
Russell vede il proprio misticismo come una fioritura della sua umanità, la quale è stata sacrificata
al lavoro scientifico, per cui dopo aver finito i Principles of Mathematics finalmente ha il tempo e la
libertà di ricordare che ci sono esseri umani al mondo. Ma la logica e la matematica sono anche un
rifugio nella pura contemplazione, non conducono alla felicità, ma sono un grande diletto, un porto
di pace, un mondo ideale dove tutto è vero e perfetto. Sono questi i due stati d’animo che
caratterizzano la bipolare personalità di R. in seguito alla prima conversione. Il pessimismo
riguardo la logica nasce probabilmente dal problema del paradosso della teoria degli insiemi, da lui
scoperto, che non riuscì a risolvere e fu fonte di disperazione. Da ciò la conversione assume un
senso di liberazione.
Misticismo e platonismo si integrano, riferendosi il primo all’accettazione di questo mondo fatto di
dolore, il secondo permette la contemplazione che trasporta nella dimensione dell’eterno dove tutto
è bellezza e verità.
Negli anni del misticismo egli lesse tutte le opere del drammaturgo Maeterlinck e ne fu influenzato,
ma quando ritornò ad essere razionalista e scettico si rese conto delle debolezze che c’erano in
quelle dottrine.
Alla ricerca di un <<ponte tra intelletto e visione>>
Dopo il 1904 Russell torna a completare il libro che doveva scrivere con Whitehead (“Principia
Mathematica”) gettando le basi per la soluzione del paradosso della teoria degli insiemi.
Impegnatosi in politica (liberale) conobbe nel1910 Lady Ottoline e quest’amore darà inizio alla
seconda conversione, che ebbe caratteri diversi da quella precedente: trovata la soluzione al
paradosso, riacquista fiducia nella ragione, quindi stavolta tende verso la fusione tra misticismo e
razionalità, spinto dalla religiosità romantica di lei. Nel 1911 scrisse “Prisons”, mai finito, la sua
opera più mistica, in cui cerca di tener conto della religione e dell’intelletto, e di contemperare
amore sensuale e amore intellettuale. Le prigioni da cui l’uomo si deve liberare sono costituite
dall’egoismo, soggettivismo e richiedere attenzione per sé: <<l’ IO in tutte le sue forme è una
prigione, tiene lontana l’anima dall’unione col mondo; l’unico modo per sottrarsi a questa
condizione è la contemplazione che si ottiene attraverso l’amore, l’ammirazione e la conoscenza,
che tutte e 3 insieme ci danno la pace, gioia e virtù, quindi gioia e malinconia insieme>>.
L’accento è posto sull’esigenza di superare ogni dualismo, come quello tra IO e non-IO per mezzo
dell’intelletto che, grazie ad una contemplazione imparziale, giunge a conoscenza di ciò che è altro
da se stesso.
Inoltre l’uomo ha due anime: quella animale che vive nell’istinto ed è fonte di disunione, e l’anima
universale o divina che cerca l’unione con l’universo; quando vince quest’ultima abbiamo la
conoscenza come unione del pensiero (cui si contrappone l’errore come effetto della disunione),
l’amore come unione del sentimento (contrapposta all’odio) e il servizio come unione nella volontà
(contrapposto al conflitto).
Russell vuole distinguere il proprio misticismo da quello ascetico, che interpreta questo mondo
come il male: <<la qualità dell’infinito non è la percezione di nuovi oggetti, ma una differente
contemplazione degli stessi oggetti>>.
Il tentativo di trovare un ponte tra intelletto e visione risiede in “The Perplexities of John Forstice”
1912, un racconto in cui è trasfigurata la vicenda di R. con Evelyn: il protagonista J. Forstice è uno
scienziato così preso dal suo lavoro da dimenticare ogni affetto umano, compresa la moglie che è
molto infelice; fin quando il colloquio con un uomo di successo lo fa riflettere sulla felicità, diviene
consapevole e pieno di rimorso (anche perché seppe del cancro della moglie), mise da parte i suoi
interessi e fu pervaso da un impulso di tenerezza verso chiunque, nasceva in lui una nuova
saggezza. Egli capisce che esiste un vero valore nelle cose e decide di viaggiare per parlare con
gente diversa. Giunge a Firenze dove un amico lo porta ad un incontro in cui ascolterà dei discorsi
(ciascuno dei quali corrisponde ad uno stadio dell’evoluzione di Russell):
- per primo parla l’amico matematico Forano il quale esalta la matematica nella cui
perfezione risiede la pace, l’estetica, l’assolutezza, la bellezza
- poi parla il filosofo Nasispo (anagramma di Spinoza) che richiama il matematico alla
concretezza del mondo, affermando che anche questo è oggetto di contemplazione che
nobilita le emozioni
- segue il poeta Pardicreti che esalta la natura creativa e attiva dell’uomo, oltre quella
contemplativa, esalta il valore dell’immaginazione e della sua capacità di creare il bello
- il narratore russo Chenskoff insiste sull’importanza del Dolore della vita, grazie ad esso
ogni conquista può essere compiuta e solo attraversandolo si può raggiungere la
perfezione; tentare di sfuggirlo porta solo alla pazzia
- infine parla Giuseppe Alegno, un modesto impiegato che da voce ai comuni mortali i quali
non comprendono la matematica e la filosofia, sono indifferenti alla poesia, giudicano la
bella musica quando possono danzarla e apprezzano solo romanzi che parlano di
assassini; quindi o si rendono accessibili questi discorsi alla gente comune oppure se ne
devono creare degli altri più semplici
Forstice è colpito dalle parole dell’impiegato; la sua ricerca non è ancora finita. Si reca dallo zio
Tristram, in fin di vita, e legge i sui diari in sui trova un’appassionata esaltazione dell’amore e
dell’unione; lo stesso discorso gli fa anche la amata dello zio Suor Caterina che egli ha raggiunto in
un convento. Venne a conoscenza di due verità: la “verità della scienza” e la “verità della visione”.
Dopo molte riflessioni trova l’unione che consiste nell’accettazione del mondo in cui viviamo, che
richiede la completa conoscenza e deriva dalla riverenza (sottomissione) per l’esistenza. Così
Forstice ritornò allo studio della fisica per il resto della sua vita (dunque la piena accettazione).
Ciascuno deve stare al posto che gli è stato assegnato, senza perdersi in esso, ma avendo sempre
presente la “visione” della totalità.
Il “ponte” crolla, non resta che una “scala”
Russell conosce Wittgenstein nel 1911 come un giovane entusiasta dello studio della logica, e
vede W. e Ottoline come personificazioni dei due aspetti che configgevano in lui: l’intellettualmente
logico e il mistico visionario. Ma Wittgenstein dice di detestare “The Essence of Religion” di Russell
perché è diffidente nei confronti della morale esplicitamente professata. I valori non possono
essere descritti né sostenuti razionalmente. Critica inoltre la sua esaltazione della contemplazione
intellettuale, sostenendo che la filosofia porta alla visione di un mondo eterno, al di là della vita
quotidiana.
Così mentre secondo R. qualcosa di profondo può esprimersi linguisticamente e, se etica deve
esserci, questa deve assumere la forma di dottrina, invece secondo W. ciò che è mistico e ha reale
valore è ciò di cui non si deve parlare, per cui disprezza le professioni di fede.
Nel saggio “Mysticism and Logic”1914 finisce il periodo mistico di Russell: non c’è più una fusione
tra mistico e logica, il misticismo è solo un elemento della saggezza e non la totalità, esso deve
essere sottoposto al vaglio della ragione; giunge così all’esaltazione della filosofia scientifica che
rappresenta la forma di pensiero più elevata ed è quella che giunge più vicina alla verità.
Dunque dal 1914 iniziano le incomprensioni tra R. e W., poiché il primo voleva che il secondo fosse
il suo alleato nell’esaltazione della filosofia scientifica, invece questo era appena tornato dalla
Norvegia, dove aveva riflettuto in solitudine e si stava incamminando verso il misticismo.
Si sono sollevate due questioni:
1) la tesi di W. distrugge tutto ciò che R. aveva sostenuto: W. gli insegnò che la logica e la
matematica hanno natura linguistica e sono perciò banali ed era un’illusione pensare che
conducessero alla verità; così perse l’interesse per la logica, convincendosi che essa fosse
costituita da tautologie, e non riusciva più a trovare alcuna soddisfazione mistica nella
contemplazione della matematica
2) ciò che a W. interessa è l’etica che non si esprime a parole e quindi rientra nel mistico; nel
“Tractatus” dice che la parte più importante è quella che non ha scritto, che non si può
mettere in parole, ma si può solo vedere
R. scrisse nell’introduzione al “Tractatus” (che W. non condivideva, ma gli serviva per la
pubblicazione) che in ogni linguaggio vi sono cose che quel linguaggio non può esprimere, ma si
può costruire un altro linguaggio che potrà esprimerle, e in quest’altro linguaggio vi sono altre cose
che si possono esprimere.
La logica è nel linguaggio e si mostra in esso, si “mostra da sé” nella misura in cui comprendiamo il
linguaggio, così come dell’etica non si parla, ma la si pratica nella vita, così della logica non si
parla, ma la si pratica esprimendo le proposizioni nel linguaggio.
Per Wittgenstein il noetico è l’inesprimibile e non può coincidere con la scienza; l’inesprimibile è
contenuto in ciò che si è espresso: <<nella scienza si mostra il mistico, che però non è la
scienza>>, e solo la ragione può permettere il mostrarsi di ciò che va oltre essa.
Engelmann, nella sua metafora dell’isola, dice << W. non vuole esaminare la costa dell’isola, ma i
limiti dell’oceano>>.
Wittgenstein si attendeva la soluzione dei suoi problemi dalla “parola liberatrice” che non poteva
essere raggiunta solo con l’intelligenza, ma bisogna attendere questo linguaggio autentico come
un evento imprevedibile e non calcolabile: il “pensiero liberatore” non so coglie con un
ragionamento, né in una dottrina, ma deve essere visto, riconosciuto perché esso si mostra e non
si dice; esso è frutto di un cambiamento improvviso di prospettiva che porta al raggiungimento di
un nuovo punto di vista, quello Uberlick che, una volta posseduto, fa si che tutto vada a posto. Il
sapiente, colui che ha colto il senso della vita, non teorizza, ma semplicemente vive: non risolve i
problemi, ma li dissolve e grazie a ciò scopre che non vi sono affatto problemi.
La scienza, e quanto detto nel “Tractatus” è una scala, uno strumento, e tutta la sua rilevanza sta
in ciò che non viene detto, ma mostrato. Matematica e logica sono dianoetiche ed hanno solo la
funzione di permettere la contemplazione del non dicibile.
Mentre in Russell la conversione irrompe improvvisamente senza preparazione, in Wittgenstein la
conversione è perseguita, attesa, preparata attraverso un lavoro intellettuale e logico sul proprio
IO, in solitudine. Riuscirà a comprendere il suo pensiero solo colui che a sua volta ha già avuto
pensieri simili, e comprenderà anche che non ha alcun senso.
Conclusioni
Dopo il “Tractatus” W. abbandonò il lavoro filosofico e fece prima l’insegnante elementare, poi il
giardiniere in un convento e infine si dedicò alla costruzione della casa della sorella. Ma nel 1928
sentì a Vienna una conferenza di Brounwer sull’intuizionismo, dove la matematica veniva intesa
come una creazione, una costruzione della mente umana e non come verità esistenti di per sé, e
ciò era in linea con quanto W. sosteneva nel trattato riguardo l’aritmetica : è un insieme di
operazioni il cui senso traspare nell’operare stesso.
Così nasce il “secondo” Wittgenstein, il quale cominciò a rivedere quanto sostenuto nella sua
opera.
Secondo Russell invece quest’approccio è un disastro e porta al crollo dell’intera teoria dei numeri.
Sostiene anche che W. si fosse stancato di pensare sul serio e stesse inventando una dottrina che
non rendesse necessaria questa attività, riducendo la filosofia ad un ozioso divertimento da salotto.
Inoltre paragona W. a Pasca (un genio matematico che abbandonò la matematica per la religione)
e a Tolstoj (sacrificò il suo genio di scrittore preferendo i contadini alle persone colte).
Per W. si aprì la stagione dei “giochi linguistici”. La distinzione tra “dire” e “mostrare” veniva
approfondita e articolata: il saggio vede ciò che prima non si vedeva, coglie un’essenza nascosta
delle cose, vede in modo diverso, con nuovi occhi, ciò che già prima si vedeva. L’uomo può essere
felice solo vivendo pienamente nel presente, perché non c’è nulla di importante da domandarsi sul
mondo e sulla vita.
FUNZIONE DELLA FILOSOFIA E SIGNIFICATO DELLA VITA IN
MORITZ SCHLICK
Uno dei più ambiti progetti del pensiero filosofico tra 800 e 900 è l’idea che sia possibile fare della
filosofia un sapere con lo stesso rigore e la medesima esattezza delle scienze naturali.
L’inizio della filosofia scientifica risale al 1884, quando Hillebrand scrisse una stroncatura della
“Introduzione alle scienze dello spirito” di Dilthey, fondatore dello stoicismo tedesco. Gli viene
rimproverata la mancanza di rigore argomentativo, l’ignoranza di regole logiche elementari, uno
stile poco chiaro. Vi è quindi la contrapposizione tra una filosofia che aspira alla scientificità e una
filosofia storica, problematica e dialettica.
Con “filosofia scientifica” possiamo indicare diverse tesi:
1La scienza costituisce il fondamento della filosofia, la quale deve trarre conclusioni
generali dai suoi risultati. Si pensi a Spencer per il quale <<la scienza unifica sempre
più il mondo naturale grazie a leggi via via più generali, allo stesso modo le
generalizzazioni della filosofia consolidano le generalizzazioni della scienza. La filosofia
è dunque conoscenza del grado più elevato di generalità.
2La scienza è l’oggetto della filosofia, la quale deve essere indagine sulla scienza. La
filosofia è una meta scienza, riflessione su metodi e criteri. Essa è privata di uno
specifico oggetto di interesse e non ha un proprio metodo; si pensi agli esponenti del
Circolo di Vienna…
3La scienza deve essere il modello per la filosofia, che deve risolvere i problemi con gli
stessi metodi delle scienze. Mira al perfezionamento della filosofia senza privarla di un
proprio campo problematico. Un esponente è Russell: grazie al metodo dell’analisi
logica si possono eliminare i problemi filosofici più ambiziosi, per risolvere
gradualmente quelli restanti.
Nei primi due casi abbiamo una filosofia non autonoma, che si svolge su una conoscenza già data
dalla scienza; nel terzo caso, fornito da Tatarkiewicz, la filosofia è autonoma e le viene imposta
l’adozione di metodi e criteri.
L’uomo giusto al posto giusto
Schlick era un filosofo, matematico, aveva conseguito il dottorato in fisica, si interessava anche di
etica, estetica e filosofia della scienza; era stato tra i primi a capire l’importanza della teoria della
relatività.
Grazie all’appoggio di Hahn, professore di matematica all’università, Schlick occupò la cattedra di
“storia e filosofia delle scienze induttive” nel 1922. Intorno a lui si formò un gruppo di discepoli che
si infittì sempre di più.
Nello stesso anno nacque l’empirismo logico.
Con la fine dell’Impero degli Asburgo e dopo la Grande Guerra il clima culturale stava cambiando.
Emersero tendenze come la “rossa Vienna” retta da esponenti di sinistra, tra cui molti ebrei, a cui si
opponeva un governo pan germanico, con molti esponenti antisemiti. Le autorità e il corpo
accademico erano molto conservatori, e la filosofia ispirata alla scienza era vista con diffidenza,
come anche l’orientamento laico, liberale, progressista del Circolo di Vienna.
Della vita culturale tedesca Hook evidenzia due aspetti: l’estensione e il radicamento della filosofia
classica tedesca (da Kant a Hegel con l’ostilità verso la scienza, con una filosofia il cui compito era
andare verso la religione, la moralità, la libera volontà) e l’importanza che la filosofia aveva
nell’opinione pubblica e nella vita intellettuale, poiché essa completava qualsiasi disciplina.
La filosofia era intrinsecamente politica.
Schlick era un isolato tra i filosofi dell’università, tra i quali si diffondevano idee naziste e
antisemitismo (per la scelta dei docenti veniva richiesta la discendenza non ebraica). La sua
stessa posizione divenne precaria perché, anche se “ariano”, era imparziale e obiettivo nel lavoro,
insisteva nel tenere con se l’ebreo Waismann. La situazione comportò l’emigrazione dei principali
esponenti del Circolo. Feigl, in quanto ebreo, emigrò negli U.S.A.; Neurath emigrò in Olanda… nel
1936 Schlick venne assassinato da uno studente filonazista all’università.
La morte prematura non gli ha permesso di esprimere tutte le potenzialità del suo pensiero; si
intravedono delle direzioni di aperture che lo avrebbero svincolato dal Circolo.
La pervasività della filosofia: Schlick prima di Wittgenstein
Per il Circolo di Vienna la metafisica è una malattia della filosofia, e la sua cura è la moderna logica
simbolica.
Carnap nel 1930 abbandonò le posizioni di ispirazione russelliana ed entrò nella sua fase
sintattica, in cui la filosofia è una mera sintassi della logica della scienza.
L’influenza di Wittgenstein sul pensiero di Schlick risale al 1922. Le opere che risalgono a prima di
quella data possono essere sintetizzate nella sua opera centrale “Allgemeine Erkenntnislehre”
(Teoria generale della conoscenza), la quale contiene tutte le sua riflessioni. Per Schlick la filosofia
ha un ruolo molto importante: è capace di pervenire a conoscenze cui la scienza non giunge;
chiarifica i fondamenti della scienza; completa le conoscenze della scienza. Gli scienziati si sono
resi conto che, nel risolvere i loro problemi, si inoltrano sul terreno epistemologico e quindi
filosofico; e i filosofi hanno riconosciuto l’infruttuosità della speculazione (un pensiero che non si
basa su metodi e scoperte della scienza). Dunque il pensiero di Schlick è ottimista nei confronti
dell’amicizia tra filosofia e scienza. Tutte le scienze hanno in comune lo spirito filosofico, la ricerca
della conoscenza per se stessa.
Tale concezione è minacciata da scritti come quelli di Bergson, il quale ripudia il concetto di
conoscenza matematica e va alla ricerca di un territorio non turbato da questa, il territorio
dell’intuizione, che è il metodo della filosofia e della metafisica. Ma quasi tutti i filosofi dell’intuizione
commettono un errore: parlando di “conoscenza intuitiva” essi pronunciano un ossimoro, poiché
<<conoscere, sia nella scienza che nella vita quotidiana, significa ri-trovare una cosa nell’altra>>.
Da ciò scaturisce la differenza tra:
- il kennen, ovvero il (co)noscere, l’aver noto; esso è il contatto l’immediato col dato, che
viene intuito, ma non è ancora conoscenza, la quale presuppone il riconoscere
- l’er-kennen, ovvero il conoscere, riconoscere
Nel conoscere ci sono sempre due termini: qualcosa che viene conosciuto, e il come che cosa
esso viene conosciuto. Nell’intuizione invece è solo un oggetto che abbiamo di fronte che viene
intuito; finché l’oggetto non viene confrontato con nulla, esso non è conosciuto. Nell’intuizione gli
oggetti vengono dati, non compresi.
Le cose le conosciamo solo attraverso il pensiero. La scienza non ci rende noti gli oggetti, ma ci
insegna solo a comprendere gli oggetti che ci sono noti.
Ma in che modo la filosofia costituisce il legame che unisce tutte le scienze?
Un primo aspetto riguarda il “dove si trova” la filosofia. Le concezioni di Schlick a riguardo si sono
evolute nel tempo.
1)In un saggio del 1911 scrisse che <<la filosofia sta al di sopra delle scienze speciali come se le
abbracciasse, essa forma un tutto organico con esse; l’argomento della filosofia è il mondo intero,
non un suo frammento>>.
La filosofia è dunque la totalità, e il suo fine ultimo è il completamento armonico della vita mentale;
essa unisce laddove la scienza divide, perché la scienza crea conoscenza in particolari aree,
mentre la filosofia forma un quadro compiuto del mondo. (siamo lontani dalla concezione della
filosofia di Russell, come analisi logica)
Schlick precisa inoltre due direzioni in cui la filosofia svolge la funzione unificatrice:
_ verso il basso, in quanto essa costruisce la base su cui poggiano le scienze;
_ verso l’alto, coordinando i risultati delle scienze in modo da produrre una visione armoniosa del
mondo; è il <compito metafisico>, per cui la metafisica parte dall’esperienza e va oltre essa, come
le scienze esatte devono andare oltre se stesse, colma i vuoti, forma le connessioni.
S. ritiene inoltre che la filosofia debba svolgere il suo compito non solo a partire dalle scienze, ma
dall’intera cultura, in quanto l’umanità ha bisogno di una visione del mondo unitaria, per il
completamento armonioso dello spirito umano.
Ma già nel 1916 questa riflessione cambia, è più riduttiva: la filosofia ha solo il compito di
sintonizzare le idee prefilosofiche con i concetti scientifici; viene messa da parte la metafisica che
abbraccia la scienze e la cultura; non c’è più anche l’aspirazione al perfezionismo spirituale; si
punta solo ad armonizzare le verità della scienza con quelle del senso comune. <<Verso
l’alto:stabilire un’armonia tra concetti già impliciti nella vita e nelle scienze. Verso il basso: si
penetra alle fonti, alle origini di queste contraddizioni>>.
Così siamo arrivati alla concezione della filosofia che aveva S. nel 1918, quando in “A. E.” scrisse
che <<la filosofia è insita in tutte le scienze, risiede in esse, è la loro anima; ogni sapere
particolare presuppone principi più generali e la filosofia è il sistema di tali principi. Essa abita nel
profondo di tutte le scienze>>.
La scienza arriva ad un punto che non è più in grado di dominare, e capisce che la decisione finale
deve essere lasciata alla filosofia. Ad esempio la fisica può giungere a concetti come spazio,
tempo, ma non può andare oltre. La migliore illustrazione del legame tra filosofia e scienza è fornita
dalla teoria della relatività di Einstein. Si basa sul principio che << solo qualcosa che è realmente
osservabile dovrebbe essere introdotto come base per la spiegazione della scienza>>. La teoria
speciale della relatività differisce dalla teoria di Lorentz (basata sull’idea della contrazione dei
corpi), solo in virtù dell’interpretazione filosofica, mentre nelle equazioni matematiche sono
d’accordo. Einstein rese la fisica filosofica.
Siamo giunti al secondo aspetto, riguardo il rapporto filosofia-scienza, che è di tipo contenutistico.
La filosofia può reagire in due modi di fronte alle nuove scoperte della scienza: può modificare le
proprie concezioni, o può adattarsi alle nuove scoperte. Dunque valutiamo la solidità di una
filosofia esaminandone l’atteggiamento verso le nuove scoperte.
Secondo Schlick la teoria della relatività può fornire contributi per la comprensione di molti
problemi filosofici. Ad esempio essa costrinse l’empirismo e il positivismo a riformulare alcune
concezioni, spingendo la filosofia a passare da formule vaghe a formule esatte. Ad esempio la
critica di Hume al concetto di sostanza è stata convalidata dalla demolizione del concetto di etere,
che porta a concepire il mondo della fisica moderna non più costituito da “sostanze”, ma da eventi
e accadimenti.
Emerge dunque che la filosofia occupa un duplice posto nella scienza: da un lato è il nucleo da cui
partono le teorie scientifiche, che può comunque essere messo in discussione; dall’altro è la
conseguenza della scienza.
La filosofia è scientifica, nel senso che discute i propri classici problemi ispirandosi a metodi e
contenuti della scienza. Manca la consapevolezza del valore della logica, che verrà in seguito.
Inoltre Schlick sostiene che il più alto scopo è l’essere liberi dall’errore. Possiamo essere salvati
dall’errore in due modi: rinunciando a pensare, o cercando la salvezza nella filosofia, la quale
elimina le contraddizioni, portando alla luce i giudizi infondati. Ciò fornisce alla filosofia un carattere
cognitivo.
Tale carattere cognitivo insieme a quello scientifico, fa della filosofia una teoria della conoscenza.
Quest’ultima non può mettere da parte i dubbi sollevati dallo scetticismo, ma deve trovare la
soluzione. A questo S. risponde con un fatto: l’unità di coscienza, consistente nella tesi che << è
reale tutto ciò che esiste in un determinato tempo>>.
Il fascino travolgente del genio: l’incanto di Wittgenstein su Schlick
Nel 1922 uno dei circolisti, Hahn, organizzò un seminario sul Tractatus e Schilck ne fu affascinato.
Da allora S. e W. intrapresero contatti epistolari e personali, fino alla morte del primo.
I temi in cui è evidente l’influenza sono tre: il concetto di verità logica e matematica; il significato
delle proposizioni empiriche, con la proposta verificazionista; la concezione della filosofia come
attività. Esaminiamo prima il terzo, per poi arrivare alle connessioni col principio di verificazione.
La prima fase del pensiero di Schlick e la seconda fase hanno dei punti di continuità: rimane la
connessione tra filosofia e scienza, rimane la distinzione tra kennen ed erkennen; a ciò si
aggiunge la tesi che ciò che è esprimibile, comunicabile, non è il contenuto della conoscenza, ma
la sua struttura, la forma.
La svolta del modo di concepire la filosofia la troviamo in una prefazione del 1928: <<Lo scopo
della filosofia è la chiarificazione logica dei pensieri; non è una dottrina, ma è un’attività. Non è una
scienza, ma è la regina delle scienze, mediante la quale si determina il senso delle proposizioni. Le
scienze trattano la verità degli enunciati, la filosofia tratta cosa significano>>. Ne segue la
distinzione tra problemi risolvibili (sono quelli scientifici a cui si può rispondere) e problemi non
risolvibili (non ammettono soluzione, poiché sono inganni verbali, combinazioni di parole mal
poste, senza significato; questi scompariranno dimostrando che sono errori). La risolvibilità o meno
di un problema è quindi legata al fatto di possedere un significato, e ciò conduce al principio di
verificazione, che tratteremo dopo.
Ciò che segna la svolta è la dichiarazione della scomparsa di autentici problemi filosofici. La
filosofia non sta più al di sopra delle scienze, non sta più nemmeno dentro di esse, ma essa ha una
funzione propedeutica, viene prima della scienza: prima deve essere stabilito il significato di un
enunciato, e dopo verrà stabilita la sua verità o falsità. (vedi esempio sull’estetica, pagina 188)
Wittgenstein distingue tre tipi di proposizioni: sinnvoll, sinnlos, unsinnig.
Le proposizioni sinnvoll sono quelle dotate di senso, che appartengono alle scienze naturali, di cui
non fa parte la filosofia.
Le proposizioni sinnlos sono quelle prive di senso, collegate al livello del “mostrare”, che
comprende la filosofia, la logica, la matematica, l’estetica, che non sono dottrine, ma hanno una
funzione intermediaria.
Le proposizioni unsinnig sono quelle che “parlano” della filosofia, non contengono alcuna verità,
che comprendono la metafisica. Quelle contenute nel Tractatus sono unsinnig.
Lo stesso discorso vale per Schlick; per entrambi la filosofia ha funzione di intermediazione tra il
sinnvoll e l’unsinnig. Ma c’è una differenza: per W. lo sbocco dell’attività filosofica è la visione del
mondo, mentre per S. la filosofia, chiarificando i pensieri, si trasforma in scienza.
Schlick inoltre propone un ritorno al passato, vuole ricollegare il Circolo di Vienna (che ricerca il
senso autentico del lavoro filosofico) alla storia della filosofia. Egli sostiene che il padre fondatore
della filosofia è Socrate, il quale ha cercato il significato delle proposizioni. Quest’ ultimo intende la
filosofia non come una scienza, ma come una “saggezza della vita”. Per Socrate la filosofia è
l’analisi del significato posseduto dalle nostre espressioni, per rendere chiaro il pensiero. Insegnare
filosofia vuol dire educare all’arte del pensare.
La filosofia si realizza solo quando si annulla, adempie il proprio scopo con lo scomparire.
La filosofia coltivata indipendentemente dalla scienza è infruttuosa, il filosofo deve essere anche
scienziato e viceversa. Filosofia e scienza possono risiedere nella stessa persona. La filosofia non
è una disciplina come tutte le altre, ma essa permette la crescita della altre discipline.
Tra scienza e filosofia vi è quindi distinzione, ma non separazione.
Schlick coglie il senso autentico del pensiero di W. , ma non il significato complessivo. Mentre per
W. il senso della filosofia sta nella fuoriuscita dal dicibile, per S. la filosofia permette ala scienza di
dispiegarsi al suo meglio.
Dal significato alla verificazione
Il “principio di verificabilità” ha il compito di segnare il confine tra scienza e metafisica. Fa parte
dell’approccio empiristico alla conoscenza, che consiste nella tesi per cui una credenza che non ha
alcun rapporto con l’esperienza è illusoria.
Con Hume il principio dell’empiricità assume per la prima volta tratti semantici: egli ritiene che il
significato di un termine filosofico debba essere ricercato nel suo collegamento con la
“impressione” dalla quale si suppone che esso sia derivato; quindi per capire un’idea poco chiara si
deve ridurre alle idee semplici che la costituiscono e produrre le impressioni da cui deriva.
Si può graduare il pensiero empirista nelle seguenti tesi, dalla più debole alla più forte:
● Caratteristica della scienza naturale è la stretta connessione con l’esperienza (possibilità di
controllare, verificare le sue teorie); ma ciò non comporta che il non empirico non sia scientifico,
poiché ne fanno parte anche la matematica e la logica che non sono empiriche. Il campo della
scientificità è dunque più vasto di quello dell’empiricità.
● Ciò che non è empiricamente controllabile o non appartiene alle scienze formali, non è
scientifico; ma ciò non esclude che siano possibili delle conoscenze a priori. Le conoscenze
scientifiche sono solo un sottoinsieme delle conoscenze ottenibili mediante la ragione.
● Ciò che non è scientifico è metafisico; quest’ultimo termine ha un’accezione negativa, racchiude
le credenze illusorie, infruttuose, false. (qui si collocano Neurath e Carnap)
● Ciò che è metafisico è senza senso.
Quest’ultima è la tesi di Schlick, che intende la verificabilità come una dottrina semantica che
concerne il significato di un’asserzione.
I Circolisti per il principio di verificabilità furono ispirati da Wittgenstein, anche se nel Tractatus non
vi fa riferimento; fu durante i colloqui con Schlick e Waismann che disse: il senso di una
proposizione sta nella sua verificabilità.
La verifica presuppone il significato e conseguentemente quest’ultimo è indipendente da essa. Ma
vi è un momento in cui dobbiamo andare al di là del linguaggio, per non proseguire all’infinito da
proposizione a proposizione: l’ultima determinazione del significato avviene sempre mediante
azioni che costituiscono l’attività filosofica. Questi atti sono chiamati da S. “definizioni ostensive”, e
rappresentano il legame tra linguaggio e realtà, fornendo il contenuto empirico, e mettono in luce il
carattere proprio della filosofia, quello di essere un’attività.
Inoltre il problema del significato non ha nulla a che fare con il pensiero, poiché quando pensiamo
di aver compreso il significato di un enunciato, possiamo cadere in errore; il significato autentico
deriva solo dalla capacità di sapere cosa accade o dovrebbe accadere quando una certa
proposizione è vera. Può succedere che un’affermazione non sia di fatto verificabile, ma resta
comunque concepibile, cioè la sua verificazione è logicamente possibile e si sa bene quali dati di
fatto servono per verificarla. Quindi non è la verificazione che costituisce il criterio di significato, ma
la “possibilità di verificazione”, ovvero la verificabilità.
Il senso di un enunciato non è mai determinato con una singola verificazione, ma è sottoponibile ad
infinite verificazioni; perciò una proposizione non può essere mai dimostrata vera in assoluto, ed
anche il suo significato è sempre “aperto”.
I fondamenti “ineffabili” della conoscenza
Ci fu una celebre polemica all’interno del Circolo di Vienna, la “polemica sui protocolli”, che vide
scontrarsi l’ala sinistra (Neurath, Carnap ed Hempel) che vleva fare del fisicalismo la filosofia del
Circolo, e l’ala destra (Schlick e Waismann) conservatrice.
Ciò che Schlick criticava riguarda due punti su cui insisteva Neurath: 1) la tesi “revisionista” la
quale sostiene che tutti gli enunciati della scienza empirica siano correggibili, e la posizione
antifondazionalista secondo il quale non esiste alcun fondamento sicuro e incrollabile della
scienza; 2) la teoria della “verità-coerenza” per cui la verità consiste nella coerenza.
Riguardo la prima: le proposizioni protocollari sono ipotesi e, in quanto tali, ce ne possiamo servire
solo se non entrano in contraddizione con le altre ipotesi; allora esse non possono servire da
fondamento. Coloro che sostengono il fisicalismo non sono interessati a fondare la conoscenza su
qualcosa di certo, ma la concepiscono come qualcosa di intersoggettivo.
Riguardo la seconda: se il valore primario è l’intersoggettività, allora una proposizione sarà
accettata solo se non entra in contraddizione con le altre.
L’accettazione di un asserto dipende dalla sua origine, dal modo in cui è formato, e ciò permette di
apprezzare la graduazione, il loro diverso valore in relazione alla loro maggiore o minore certezza.
L’ “errore” della dottrina delle proposizioni protocollari consiste nel misconoscimento della
graduazione: per riconoscere come corretto un sistema di conoscenze, sono determinanti le nostre
proprie proposizioni, che esprimono le nostre osservazioni. Queste non possono essere fissate su
carta in quanto sono individuali, istantanee, sono degli atti indicativi e se vengono tradotte in
proposizioni diventano ipotesi. Le costatazioni sono dunque ineffabili, appartengono alla
dimensione del contenuto della conoscenza, dove verità e senso coincidono. Esse stimolano il
processo conoscitivo (sono il “carburante” necessario affinché continuiamo a proseguire la
strategia conoscitiva) e intervengono anche nella verificazione delle ipotesi. A partire da esse si
possono formulare proposizioni protocollari.
Neurath ribatte che le constatazioni sono solo un soggettivo sentimento di soddisfazione, che ha
poco a che fare con la scienza. Dunque Neurath si basa sul privilegiamento dell’intersoggettività
della scienza, mentre Schlick sostiene l’importanza di dare una base certa alla scienza.
Schlick: << la sola e unica ragione del perché io accetti qualsiasi proposizione come vera deve
essere ritrovata nelle esperienze , che possono essere riguardate come il passo finale di un
confronto tra una proposizione e un fatto e che ho chiamato konstatierungen.
La dimensione autentica della vita
Nel saggio “Von Sinn des Lebens” 1927, emergono emergono alcuni elementi che aiutano a capire
la filosofia successiva di Schlick. Essi sono legati al valore attribuito alla vita e alle attività che gli
uomini svolgono. Viene privilegiata la dimensione estetica, il piacere del fare senza scopi
utilitaristici, non subordinato a finalità esterne: il valore della vita risiede in quelle attività che danno
soddisfazione di per sé. Esse consistono nel gioco, il quale può essere anche creativo e quindi può
riconciliarsi col lavoro, il gioco creativo è l’attività suprema (per lo scienziato il conoscere è puro
gioco dello spirito). La gioia della creazione trasforma il lavoro in gioco. I bambini, prima di essere
catturati dai doveri, non conoscono le fatiche del lavoro, e sono capaci di gioia pura. Il valore della
gioventù sta nel non essere offuscata dalle nubi dello scopo: ciò che ha uno scopo è finito, il gioco
è infinito. Perciò la condizione umana di perfezione è la giovinezza, pervasa dall’entusiasmo
(l’ardore che ci infiamma per una causa): un uomo che è emotivamente immerso in ciò che fa è
giovane, infatti il genio è intriso di qualità infantili. Dunque il significato della vita è la giovinezza,
riferita non agli anni, ma al modo di condurre la propria vita.
La gioventù è anche il periodo in cui si realizza la perfezione etica, poiché la cattiveria nasce dalla
volontà di raggiungere uno scopo.
E’ in contrasto con la morale di Kant: il bene deve essere innocente, spontaneo, non imposto. Ed è
in contrasto anche con Nietzsche che trasporta il significato del divenire nel futuro, in un fine da
realizzare.
Schlick auspica ad una rivoluzione che porti al ringiovanimento della nostra cultura, che liberi gli
uomini dalla schiavitù degli scopi: il compito educativo è la cura che nulla del bambino sia perduto
quando diventa maturo, e il compito della scuola è insegnare ad occuparsi di cose importanti solo
per se stesse.
Waismann sostiene che Schlick avesse due personalità: da un lato il talento analitico e dall’altro
l’animo poetico.
Il gioco richiama alla mente l’intuizione, la quale è godimento, il godimento è vita, non conoscenza.
Conoscenza e intuizione sono contrapposte, e Schlick lo esprime con la dicotomia “godibile/utile”,
dove godibile è caratteristica dell’intuizione, e utile è caratteristica della conoscenza.
Ogni lavoro si trasforma in gioco se è vissuto col giusto atteggiamento. La conoscenza è gioia
quando viene coltivata per se stessa, non finalizzata all’utile; dunque la gioia del conoscere è la
gioia provata quando si verificano le previsioni, nella verificazione.
Il vero significato della filosofia è che essa è una sorta di terapia che libera dagli inganni generati
dalle confusioni linguistiche per far si che l’uomo possa godere del vero significato della vita, che
ora si “mostra”.