La storia della luce
CORSO DI
EPISTEMOLOGIA E
STORIA DELLA FISICA
Professor Lenisa Paolo
Parte quarta: il colore
e l’astronomia
Nicola Carollo
Moreno Arcieri , Nicola Carollo , Anna Claudia Chierici, Roberto Compagno - TFA A049
La storia della luce
Leucippo aveva postulato che tutte le sensazioni fossero dovute al
contatto diretto con l’organo di senso. Per la visione questo
contatto si verifica sotto forma di flussi di eidola, che effluiscono
dall’oggetto verso l’occhio (V secolo aC).
Per Epicuro la formazione dell’immagine non avviene
direttamente nella pupilla ma nell’aria tra l’oggetto e
l’occhio: l’aria viene contratta e solidificata e colorata ed è
questo che appare nell’occhio. L’immagine è materiale
(341-271 aC).
Le teorie che prevedono il contatto nella direzione dall’occhio verso l’oggetto sono dette
“emissioniste o estromissive”, in quanto si pensava che fossero gli occhi a emanare una
sorta di raggi che interagivano con l’oggetto; quelle per le quali l’origine risiede
nell’occhio sono le teorie “immissioniste o intromissive”, e prevedono che sia l’oggetto
ad emettere qualcosa che porta con sé la caratteristica “colore”.
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Secondo Empedocle (V secolo aC) e
Platone (428-347 aC) gli effluvi vengono
emessi indipendentemente dal fatto che
vengano percepiti da qualcuno. Il colore
non è una percezione, ma un effluvio
fisico, reale ed oggettivo. Per Empedocle
la luce era fiamma in movimento, anche
tra il Sole e la Terra.
Aristotele (384-322 aC) pensava che ciò che si vede
degli oggetti visibili è il colore che si trova sulla
superficie dell’oggetto osservato. Per Aristotele il
“vedere”, cioè il contatto tra oggetto osservato e
osservatore viene stabilito mediante un medium
intermedio, che si sposta nello spazio. Il colore è ciò che
ricopre la superficie degli oggetti quando c’è luce, e gli
oggetti diventano visibili. I peripatetici ribaltarono l’idea
del fondatore, ritenendo che fosse la luce a muoversi tra
l’oggetto e l’osservatore, non il mezzo. Può essere
riflessa da un corpo o attraversarlo, assumendone
proprietà quali il colore. Svilupparono una teoria della
tricromia con il bianco, il giallo e il nero.
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Galeno (129-216 dC) immagina che lo spirito visivo (il
pneuma) scenda dal cervello lungo il nervo ottico (che per
Galeno è cavo) fino all’occhio ed emerga dall’occhio per una
breve distanza trasformando l’aria circostante, che quindi
diventa un’estensione del nervo ottico. L’aria stessa
percepisce l’oggetto con il quale è in contatto e ritorna la sua
percezione all’occhio, al nervo ottico e alla fine, all’anima.
L’aria è dunque uno strumento dell’occhio.
Per Al Kindi (801-866 dC) i raggi visivi sono luminosi ed emessi
dall’occhio, e la loro propagazione produce luci ed ombre, come
dimostrano gli esperimenti. Confuta la teoria intromissiva
notando che dovremmo vedere simultaneamente tutto ciò che
sta nel campo visivo e con eguale acuità (precedendo in un
certo senso il paradosso di Olbers, in realtà anticipato da
Keplero)…
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Con il filosofo persiano Avicenna (980-1037 dC) (Abu
Ali al Husain Ibn Sina, a lato) si avvia il dibattito sulla
distinzione tra lux (qualità luminosa degli oggetti, ma
anche sostanza materiale o immateriale origine della
luminosità che si osserva nel fuoco o nel Sole) e lumen
(l’effetto della lux sui corpi non luminosi).
Alhazen (965-1039 dC) (Ibn al-Haytham) ammette
l’esistenza di un agente fisico esterno all’individuo, la luce; la
visione avviene per raggi emessi da ogni punto dell’oggetto
verso l’occhio. Ogni punto dell’occhio riceve un raggio
di luce (lux) da ogni punto della scena osservata, ma solo
uno di questi incide perpendicolarmente sulla superficie
dell’occhio e produce la visione, che avviene sul cristallino.
Averroè (1126-1198 dC) (Abu-I-Walid Ibn Rashid) identifica
nella retina l’organo fotosensibile, e non nel cristallino.
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Johannes Kepler (1571-1630 dC) descrive la funzionalità
della retina e paragona l’occhio alla camera oscura. Per
Keplero tutti i raggi di luce emessi da un punto di un oggetto
contribuiscono alla visione, e devono convergere in un
singolo punto, grazie al cristallino. Parla dell’immagine come
di una pictura sulla retina. Quello che succede oltre la retina
e i nervi ottici, Keplero lo considera un argomento che
compete ai fisiologi (physicis), non più agli studiosi di ottica
quale lui è. Pone però una importante domanda: vediamo
con il cervello o vediamo con gli occhi?
Galileo Galilei (1564-1642 dC) è il primo ad utilizzare il
cannocchiale per indagare l’universo immutabile. L’astronomia
ha il privilegio di osservare il laboratorio di fisica migliore che
esista: il nostro universo. Deve però rinunciare a replicarne i
fenomeni. Galileo osservò il mondo cercando di isolare i
parametri necessari alla comprensione di un problema, da tutto
ciò che risultava superfluo. Contrariamente ai contemporanei
Cartesio e Keplero, considerava finita la velocità della luce,
anche se non riuscì a misurarla nei suoi esperimenti.
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Christiaan Huygens (1629-1695 dC) nel suo Dioptrica
parla diffusamente delle aberrazioni, da quelle sferiche a
quelle cromatiche, creando le basi per la moderna teoria
ottica. Riteneva che la luce si propagasse per effetto del
moto nella sostanza eterea. Il suo Traitè de la lumière
venne ritardato dalla pubblicazione della New theory
about light and colors di Newton e dall’osservazione di
Ole Rømer (1644-1710 dC) sulla finitezza della velocità
della luce (nata dalla questione posta da Filippo II di
Spagna, a cui rispose anche Galileo).
Pensava che la luce avesse un’origine meccanica, e si propagasse
come le onde sulla superficie di uno stagno, quando si getta un sasso
nell’acqua. Boyle con una pompa a vuoto aveva però già dimostrato
che la luce si propaga anche in assenza di aria, da cui l’idea
dell’etere, sostanza molto più sottile. Rielaborando la teoria
ondalutaria di Hooke introdusse l’emissione luminosa, per cui ogni
punto del fronte d’onda ne produce a sua volta altri.
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Isaac Newton (1642-1727 dC) ebbe per primo l’intuizione che la
relazione tra lo stimolo luminoso e la percezione del colore si
potesse rappresentare con un modello matematico. Tra il 1665 e il
1666, Newton aveva osservato che la luce del sole, fatta passare
attraverso un prisma, si scompone in una serie di colori (è il
fenomeno della “dispersione della luce”), a causa della diversa
rifrattività dei raggi che la compongono. Newton chiama questa
serie di colori “spettro”. Quando questi diversi raggi sono mescolati,
l’apparato visivo percepisce un colore diverso da quelli che
percepirebbe se fossero separati. Il colore è quindi una percezione
soggettiva, causata da uno stimolo oggettivo, la luce, ma sono
anche una qualità della luce stessa. La possibilità di dividere la luce
nei suoi componenti ne decreta la natura corpuscolare.
Ignorò però completamente l’esperimento della doppia fenditura di Huygens, dandone anche
un’interpretazione errata. Bisognerà aspettare Thomas Young per capire le ragioni fisiche del
fenomeno, con l’interferenza costruttiva e distruttiva. Fresnel, applicando il principio di
Huygens ad una sorgente di luce monocromatica coerente, spiegò come ottenere cerchi scuri
e luminosi per effetto della diffrazione.
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L’ipotesi tricromatica afferma che ogni colore può essere ottenuto
come mescolanza di tre colori detti “primari” in proporzioni diverse;
quindi è in contrasto con gli infiniti colori primari di Newton. Per
Thomas Young (1773-1829 dC) il tricromatismo è causato dalla
fisiologia del sistema visivo, cioè è causato dall’occhio e non da
proprietà della luce; non esistono colori “primari” ma tre tipi di
elementi sensibili al colore nella retina. E’ questa la prima teoria di
visione dei colori, cioè la prima spiegazione del perché vediamo i
colori in questo modo. Il principio della sintesi additiva sulla media
temporale dice che un colore succede all’altro così rapidamente che
sulla retina le due immagini si sovrappongono e i colori si
mescolano.
La qualità di un colore, secondo la teoria di Young,
dipende dai rapporti delle intensità delle tre sensazioni e la
luminosità dalla loro somma. Un raggio blu per esempio è
capace di eccitare sia la sensazione verde che quella
violetta e un raggio giallo sia quella rossa che verde. Pare
che Young non abbia mai effettuato verifiche sperimentali,
ma suggerì tuttavia un metodo per farlo: si tratta del
cerchio colorato rotante, già usato da Tolomeo.
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Nel 1801 Young descrisse il fenomeno dell’astigmatismo, ed insime a
Maxwell ipotizzò che la percezione dei colori dipendesse dalla presenza
sulla retina di 3 tipi di fibre nervose. La sua teoria mancava però di una
base matematica, finendo per essere offuscata da quella newtoniana fino a
Fresnel (1788-1827 dC). Questi ne La diffraction de la lumière afferma che
luce e calore hanno la stessa natura, perché un corpo nero illuminato
diventa caldo, ed a una certa temperatura diventa luminoso. Con la sua
interpretazione matematica della diffrazione pone anche termine alla teoria
corpuscolare di Newton.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832 dC) ha un diverso
approccio: la sperimentazione esplorativa stabilisce una gerarchia
sperimentale, che parte dal semplice per andare verso il
complesso. Riconosce il ruolo fondamentale del magenta, oggi alla
base del sistema CMYK (Cyan, Magenta, Yellow, Key black), che è
quello più utilizzato nella stampa attuale (quadricromia); infatti si
sovrappongono tante immagini diverse, quanti sono gli inchiostri
utilizzati.
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James Clerk Maxwell (1831-1879 dC) calcolò che la velocità di
propagazione del campo elettromagnetico, unificato tramite le
sue famose quattro equazioni, era all’incirca quella della luce
(egli stimò circa 310.000 km\s) . Diede tuttavia molti altri
contributi:
►Pubblicò un articolo anonimo sulla lente ad occhio di pesce
(fish-eye) da lui scoperta ed utilizzata ancora oggi nella
fotografia professionale.
►Dimostrò che i colori per la visione di una persona normale
possono essere ottenuti partendo da 3 colori primari.
► Descrive il funzionamento della scatola di colore, il primo
tentativo di avere un colorimetro assoluto, mescolando i colori
primari e confrontandoli con un bianco di riferimento.
►Realizzò la prima fotografia tricromatica, sovrapponendo le
immagini fotografiche proiettate attraverso 3 filtri (rosso, verde,
blu).
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La concezione
moderna
La luce visibile dall’occhio umano è un’onda
elettromagnetica con una frequenza che va da circa
400 THz (rosso) a 780 THz (violetto), ovvero una
lunghezza d’onda che va da 390 nm a 780 nm.
Il colore è la percezione visiva generata dai segnali nervosi che i fotorecettori
della retina mandano al cervello quando assorbono radiazioni elettromagnetiche
di determinate lunghezze d'onda e intensità.
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L’occhio umano
Il sistema diottrico oculare, cioè l’insieme
della cornea e del cristallino, porta i raggi
luminosi a convergere verso la fovea. Essa è
la regione centrale della retina, con alta
concentrazione di coni ma non di bastoncelli
(cellule fotosensibili). I primi consentono di
distinguere i colori nella visione diurna, e ce ne
sono di 3 tipi, uno più sensibile al rosso, uno al
verde e uno al blu. I secondi sono specializzati
per la visione notturna (bastano pochi fotoni
per attivare un bastoncello).
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Quando la luce che colpisce i recettori sulla retina non proviene direttamente da una sorgente,
ma è riflessa da una superficie interposta, dobbiamo tenere presente in questo caso la curva di
riflessione. Il colore visibile di una qualsiasi superficie dipende infatti dal potere di quella
superficie di assorbire una parte della luce ricevuta dall'ambiente e di rimandarne verso
l'osservatore la parte non assorbita sotto forma di luce riflessa.
I vari colori possono essere generati a partire da pochi colori
di base. Si è scelto storicamente l’uso di 3 colori, detti primari,
per generare tutti gli altri: il rosso, il verde e il blu. Possiamo
utilizzare la sintesi o mescolanza additiva, che è un fenomeno
dovuto alla sovrapposizione di onde con diversa lunghezza.
Ciano, giallo e magenta sono invece considerati i colori primari
della sintesi o mescolanza sottrattiva, cioè che genera la visione di
colori in dipendenza del modo in cui essi riflettono la luce bianca.
Mescolando il ciano e il magenta vedremo il colore blu, che
entrambi riflettono. Allo stesso tempo la luce rossa riflessa dal
magenta sarà bloccata dal ciano, così come sarà bloccata dal
magenta la luce verde riflessa dal ciano.
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Un modello di colore è un modello matematico astratto che permette di rappresentare i colori in
forma numerica, tipicamente utilizzando tre o quattro valori o componenti cromatiche (per
esempio RGB e CMYK). Un modello di colore si serve di un'applicazione che associa ad un
vettore numerico un elemento in uno spazio dei colori. All'interno dello spazio di riferimento, il
sottoinsieme dei colori rappresentabili costituisce a sua volta uno spazio di colori più limitato detto
gamma o gamut, che dipende dalla funzione utilizzata per il modello di colore. Così, per esempio,
gli spazi di colori Adobe RGB e sRGB sono differenti, pur essendo entrambi basati sul modello
RGB. Il primo modello creato dalla Commissione Internazionale sull’Illuminazione è del 1931:
Le funzione colore dello standard CIE
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Per descrivere l’impressione visiva generata da uno
stimolo luminoso la CIE ha definito nel 1924 la
funzione di visibilità relativa, oggi funzione di efficienza
luminosa spettrale fotopica in funzione della lunghezza
d’onda.
RGB è la sigla di Red, Green, Blue; è un modello di
colore detto anche tricromia, che sfrutta la sintesi
additiva.
CMYK è la sigla di Cyan, Magenta, Yellow, Key black; è
un modello di colore detto anche quadricromia, che
sfrutta la sintesi sottrattiva.
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L’occhio umano da secoli non è più il solo strumento che
abbiamo a disposizione per catturare la luce. Pur
essendo eccezionale, ha il difetto della soggettività.
Seguendo lo sviluppo dell’ottica geometrica, siamo in
grado di realizzare lenti e gruppi ottici di eccezionale
complessità. Accanto al problema di progettare strumenti
che possano investigare meglio determinati aspetti dello
spettro elettromagnetico, nasce però il problema di come
gestire e memorizzare i dati oggettivi raccolti.
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La gestione dell’immagine diventa digitale, i colori
vengono manipolati e memorizzati utilizzando
strumenti elettronici (anche se la raccolta del
segnale può dipendere anche da strumenti non
elettronici). I fotodiodi sono alla base dei circuiti
integrati che raccolgono la luce.
Il CCD (Charge-Coupled Device)
consiste in una griglia di elementi
semiconduttori, in grado di accumulare
una carica elettrica proporzionale
all'intensità della radiazione incidente
che li colpisce. Il segnale uscente è
analogico e molto uniforme.
Nel CMOS (Complementary MetalOxide Semiconductor) ogni fotodiodo
è accompagnato da un convertitore, il
segnale è digitale ma meno uniforme.
La qualità dell’immagine è minore,
con più rumore, ma sono più
economici e consumano meno.
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La memorizzazione, la visualizzazione, la stampa dei colori attraverso il digitale, presenta
problemi: non tutti i colori visibili possono venire gestiti da tutti gli spazi colore, così come non
tutti i colori di uno spazio possono venire visualizzati e stampati (colori immaginari).
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La luce interagisce con la materia attraverso vari fenomeni: la riflessione, la rifrazione, la
diffrazione, la diffusione e l’assorbimento. La riflessione è il principale meccanismo attraverso il
quale gli oggetti si rivelano ai nostri occhi, mentre la diffusione da parte dell'atmosfera è
responsabile della luminosità del cielo.
L’assorbimento o l’emissione di fotoni da parte degli atomi che
compongono la materia sono correlati al salto degli elettroni da un livello
quantizzato di energia ad un altro.
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La storia della luce
Se un sottile fascio di luce bianca, come quella emessa
dal sole, viene fatto passare attraverso un prisma di
vetro, le sue radiazioni componenti subiscono una
rifrazione (deviazione) differente, tanto maggiore quanto
è minore la lunghezza d'onda. All'uscita dal prisma il
fascio si allarga a ventaglio (fenomeno definito
dispersione) e proietta su uno schermo l'immagine di
una striscia luminosa formata da una successione di
zone colorate sfumanti con gradualità l'una nell'altra: si
forma cioè uno spettro di emissione continuo.
Una sostanza gassosa a bassa pressione portata ad
alta temperatura o sottoposta a scariche elettriche
emette luce. Se con uno spettroscopio si analizzano
queste radiazioni luminose, si osserva uno spettro
formato da una serie di righe nette di colori diversi su
sfondo nero . Ogni elemento produce un proprio
spettro di emissione a righe che ne permette
l'identificazione. Viceversa, se la luce di una sorgente
ad una certa temperatura passa attraverso un gas più
freddo, possiamo osservare uno spettro di
assorbimento a righe.
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Questa scoperta di Kirchhoff (1824-1887 dC) e Bunsen
(1811-1899 dC) permise di conoscere la composizione
chimica di oggetti anche a distanza. Particolarmente
importante è l’uso che se ne fa in astronomia, poiché
l’analisi spettroscopica ci dice quali elementi chimici
sono presenti nelle atmosfere di stelle e pianeti
lontanissimi. Analizzando la luce dei corpi celesti, gli
astronomi sono in grado di stimare molte loro
grandezze fisiche, quali temperatura superficiale,
distanza, dimensioni, massa, età, ecc.
Inoltre la conoscenza della struttura dello
spettro che identifica gli elementi chimici
ha permesso di misurare anche il moto
delle sorgenti luminose. Sfruttando infatti
l’effetto Doppler si nota uno spostamento
delle righe verso il rosso (redshift) se
l’oggetto si allontana, verso il blu (blueshift)
se si avvicina. Si sono trovati oggetti che si
allontanerebbero da noi a velocità superiori
a quelle della luce: un problema per
Einstein e la sua relatività?Ovviamente no.
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L’effetto fotoelettrico era stato investigato da vari fisici verso la fine
del XIX° secolo, ma solo Albert Einstein (1879-1955 dC) riuscì a
darne un’interpretazione soddisfacente, dando un senso fisico ai
quanti che Max Planck (1858-1947 dC) aveva inventato per evitare la
catastrofe ultravioletta nell’emissione di un corpo nero. La
quantizzazione della luce in particelle chiamate poi fotoni riportò alla
teoria corpuscolare di Newton. Questa felice intuizione suggerì la
quantizzazione di ogni forma di energia, che condurrà allo sviluppo
della meccanica quantistica. Nell’interpretazione della scuola di
Copenhagen guidata da Niels Bohr (1885-1962 dC) si accetta il
principio di complementarietà, cioè nei fenomeni microscopici si
accetta una natura dualistica della luce e di altri oggetti, che sono allo
stesso tempo sia onda sia particella .
Planck suggerì che solo lo scambio
di energia tra atomi e campo
elettromagnetico fosse quantizzato;
così i campi continuavano ad
essere continui e soggetti alla fisica
classica, mentre gli atomi venivano
quantizzati.
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La luce è protagonista anche nelle
aurore boreali, dovute all’interazione del
vento solare (un flusso di particelle
cariche eettricamente) con il campo
elettromagnetico terrestre.
Tali particelle eccitano gli atomi dell'atmosfera che
diseccitandosi in seguito emettono luce di varie
lunghezze d'onda. A causa della geometria del campo
magnetico terrestre, le aurore sono visibili in due
ristrette fasce attorno ai poli magnetici della Terra.
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Nel corso dei milleni ci furono varie persone convinte che la
velocità della luce non fosse infinita, ma da quanto si sa Galileo
fu il primo a provare a misurarla, con il suo esperimento sulle
colline fuori Firenze. Il fatto di non esserci riuscito non lo
scoraggiò, ma lo portò a credere che fosse un’impresa fuori
portata dei suoi mezzi. Sfruttando un suggerimento dello stesso
Galileo, Rømer nel 1676 stimò una misura di circa 210.000 km\s.
Meglio fece James Bradley (1728), che spiegando l’aberrazione
stellare, giunse ad un valore di 305.000 km\s. La prima misura
non astronomica è dovuta a Hippolyte Fizeau (1849), con il suo
esperimento dlle ruote dentate, ma che arrivò a 310.000 km\s.
Oggi accettiamo il valore di c= 299 792,458 km\s, che è la
velocità della luce nel vuoto. Questo valore viene usato per tarare
molte altre costanti, quale ad esempio il metro.
Galileo
Fizeau
Rømer
Bradley
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La storia della luce
L'esperimento di Michelson-Morley (1887) mostrò che la velocità
della luce non cambiava nonostante il moto della Terra nell’ipotetico
etere luminifero. Einstein decise di partire da questo dato
sperimentale per costruire la sua teoria della relatività, dando un
significato fisico alle trasformazioni che Lorentz aveva creato per
mantenere la validità delle equazioni di Maxwell in ogni sistema di
riferimento. La finitudine della velocità della luce lega spazio e tempo
in modo indissolubile, e le masse deformano questo tessuto
quadridimensionale generando l’illusione che ci sia una forza di
gravità che agisce anche sui fotoni. Possiamo sfruttare il fenomeno
per osservare oggetti molto distanti, a miliardi di anni luce (lensing
gravitazionale).
Viaggi nel tempo. Il fatto che la velocità della luce sia
finita ha anche un’altra conseguenza. Osservare un
oggetto implica che stiamo guardando un’immagine
che è riferita al passato, a quando i fotoni sono partiti
da quell’oggetto. Se fissiamo il Sole (con le dovute
precauzioni) la sua immagine è vecchia di 8,3 minuti
circa. Chiamiamo anno luce la distanza che la luce
percorre in un anno (molto usato in astronomia).
Croce di Einstein
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Einstein e la luce
Possiamo in un certo senso dire che Einstein, una delle maggiori menti di tutti i tempi, ha usato la
luce per cambiare radicalmente l’idea che avevamo dell’universo in cui viviamo. Facendo della
finitudine della velocità della luce una pietra angolare, ha costruito una struttura stupefacente
come la relatività generale. Essa però litiga con l’altra grande creatura del genio, la sorella non
riconosciuta: la meccanica quantistica. Anch’essa infatti ha origine da un’idea di Einstein sulla
luce, che attribuisce un significato fisico ai quanti di energia di Planck, che nel caso della
radiazione elettromagnetica prenderanno il nome di fotoni. Ancora oggi non siamo stati in grado di
legare assieme questi capolavori della mente umana, ma i fotoni continuano a riservarci sorprese.
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Fotoni imprevedibili
L’entanglement lega due particelle o due stati
quantistici opportunamente preparati anche se
posti a distanza arbitraria. Essi possono
vicendevolmente e istantaneamente influenzarsi
nelle misurazioni, contravvenendo a qualunque
criterio di causalità di eventi a velocità finita.
Il comportamento particellare oppure ondulatorio di un
fotone già rivelato può essere determinato con una
successiva misurazione su un secondo fotone, entangled
con il primo, con un’apparente retroattività che mostra
ancora una volta la natura paradossale della meccanica
quantistica. Questo fenomeno si chiama procrastinazione
quantistica. Altre sorprese in futuro?
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Bibliografia
La fisica di Amaldi, Ugo Amaldi, Zanichelli
La strana storia della luce e del colore, Rodolfo Guzzi, Springer
Sitografia
Mauro Boscarol Web
Wikipedia
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