Riletture. Carlo Cattaneo - Biblioteca Provinciale di Foggia

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Riletture. Carlo Cattaneo
PARTE PRIMA
SOMMARIO: 1. Tra rivoluzione e riformismo. - 2. I motivi di una scelta.
1. Tra rivoluzione e riformismo.
Molti studiosi del Risorgimento si sono posti il quesito se Cattaneo
fosse o meno un rivoluzionario. Al quesito, in linea di massima, è stata data
una risposta negativa. Cattaneo, infatti, non può essere considerato un rivoluzionario, sia per il suo temperamento, incline più allo studio e alla meditazione che all'azione diretta, sia per la sua formazione positivista, così lontana da quegli slanci e da quei moti dello spirito che sono il pane quotidiano
di ogni rivoluzione e che furono, viceversa, alla base del pensiero etico e
della attività politica di Giuseppe Mazzini. Tuttavia, anche se si nega a Cattaneo la qualifica di rivoluzionario, bisogna tenere nella giusta considerazione la parte che egli ebbe nella rivoluzione milanese del '48. Ironicamente
è stato osservato che il meno rivoluzionario dei grandi del Risorgimento,
Cattaneo, si trovò al centro del più interessante moto dell'epoca, mentre
l'unico, vero, rivoluzionario del tempo, Mazzini, non riuscì mai a capeggiare
personalmente una rivolta 1. Ma Cattaneo, in fondo, anche se per una volta
si trovò nell'occhio del tifone, non aderì mai veramente né a quella, né ad
altre rivoluzioni, perché non percepì, in tutta la loro vastità, l'importanza
politica e il significato etico delle rivoluzioni. A quattro anni dai moti del
'48, in una lettera a Pisacane, e con chiaro riferimento a Mazzini in esilio a
Londra, scriveva: « Li incorreggibili di Londra non s'accorgono che un intervallo di tre anni ha già mutato totalmente le cose materiali, che qualunque siffatta impresa, se potesse riuscire, non sarebbe altro che una calamità.
Ma essi hanno la dottrina del martirio, stolta e scellerata, e sciupano carte,
che,
1 Cfr. ALESSANDRO LEVI, Il positivismo politico di Carlo Cattaneo, Bari, Laterza, 1929, p. 65.
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giuocate a luogo e tempo, avrebbero potuto essere preziose. Dai professori
di rivoluzioni, non s'intende come le rivoluzioni e le stagioni non sono al
comando dell'individuo, e si pretende farle nascere a forza, e quando poi
son nate non si sa volgerle a profitto, ma si danno da condurre a principi e
papi » 2.
In ciò che scriveva a Pisacane, insieme al rifiuto addirittura viscerale
della rivoluzione e dei rivoluzionari, ci sono almeno un paio di considerazioni interessanti. Da una parte che « le rivoluzioni non sono al comando
dell'individuo », e che cioè senza una autentica forza di popolo esse non
potranno mai nascere e concludersi vittoriosamente; dall'altra che le rivoluzioni colgono il frutto più sostanzioso non tanto nel successo della rivolta
armata, ma piuttosto dopo, nel tempo della pace, nella lenta e paziente opera di ricucitura e ricostruzione del tessuto sociale lacerato dalla lotta. Affidare poi a « principi e papi » la guida delle rivoluzioni significava davvero
abdicare a quanto in esse vi era di vivo e di innovatore, a tutto ciò che poteva mutare dalle fondamenta la società. Tutto sommato, intorno alla rivoluzione, il riformista, il cauto progressista, l'antirivoluzionario Cattaneo,
anticipava ciò che, con ben altre ragioni e più tesa passione, avrebbe poi
detto Marx.
2. I motivi di una scelta.
Il rifiuto della rivoluzione da parte di Cattaneo, acquista maggiore significato nel confronto col rivoluzionarismo di Mazzini. Per il grande rivoluzionario genovese « la rivoluzione non è mai determinata da interessi materiali, bensì da una religione o da una filosofia: è un « novus ordo » che
incomincia, è una dichiarazione di guerra a morte tra due principii, è un
problema d'educazione sostituito all'antico: è l'avvenire di contro al passato,
anche senza che il presente offra un nesso, una giuntura fra i due » 3.
All'esaltazione mistica e alla forte carica ideale di Mazzini fa riscontro
l'opinione realistica di Cattaneo: « ...tutti quei mutamenti che noi con ampolloso vocabolo appelliamo rivoluzioni, non sono più che la disputata
ammissione d'un ulteriore elemento sociale, alla cui presenza non si può far
luogo senza una pressione generale, e una lunga oscilla2 CARLO CATTANEO, Lettera a Carlo Pisacane, in "Risorgimento italiano",
rivista storica, I, 1903, p. 306.
3 LEVI, op. cit., p. 66.
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zione di tutti i poteri condividenti, tanto più che il nuovo elemento si affaccia sempre coll'apparato d'un intero sistema e d'un intero mutamento
di scena, e colla minaccia d'una sovversione generale; e solo a poco a poco si va riducendo entro i limiti della sua stabile ed effettiva potenza; poiché indarno conquista chi non ha forza di tenere. Laonde quando l'equilibrio sembra ristabilito, e le parti sono conciliate, e l'acquistante assume il
nuovo atteggiamento di possessore e talora si fa lecito di sdegnare tutti i
principi che lo condussero alla vittoria, pare incredibile che per giungere a
così parziale innovazione, tutto il consorzio civile debba avere sofferto
così dolorose angosce » 4 .
Dalla lettura di questo brano si capisce bene come Cattaneo si rendesse conto che il complesso gioco delle forze sociali poteva alla fine imbrigliare qualsiasi rivoluzione. E coerentemente egli non credeva al successo di una rivoluzione, e soprattutto alla sua tenuta nel tempo, se non
fosse stata adeguatamente preceduta e sorretta da un accurato lavoro preparatorio, capace di incidere profondamente nella società. Bisogna concludere, quindi, che, se è vero che Cattaneo, da moderato e riformista
qual'era, preferiva, ad una rivoluzione sia pure vittoriosa, la via di un cauto e ben programmato sviluppo, è pur vero che egli aveva capito della rivoluzione molto più di quanto non avessero capito tanti rivoluzionari. E
lo dimostra ciò che scrisse a proposito dei moti milanesi del '48, che non
giudicò mai come un « mouvement avorté », ma piuttosto come la prova
generale d'una futura e più vasta rivoluzione, italiana ed europea, che prima o poi sarebbe scoppiata e avrebbe apportato « à la cause de la libertè e
du progrès toutes les forces d'une grande nation ». Il che sta ad indicare
come Cattaneo abbia saputo acutamente meditare intorno alla rivoluzione
del '48, sia sul piano storico che su quello etico.
Sul piano storico egli aveva compreso benissimo che i moti del '48,
milanesi, italiani ed europei, non erano stati occasionali esplosioni di violenza, ma legati tra loro da una sottile ed ancora oscura logica erano stati
piuttosto le prime avvisaglie di una complessa svolta storica cui l'Europa
da tempo si preparava. E la reazione, che si scatenò dopo il '46 non era
che l'ultima prova di forza, l'ultima zampata, e l'ultimo grido di furore e di
dolore, di una società che ormai cedeva dappertutto e dappertutto aveva
consumato fino in fondo la propria linfa vitale. La rivoluzione era perduta, ed egli stesso ne pagava lo scotto con l'esilio,
4 CARLO CATTANEO, Considerazioni sul principio della filosofia, in "Opere edite e inedite", vol. VI, Firenze, Le Monnier, 1892, pp. 133-134.
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ma il suo ottimismo positivistico ne usciva trionfante, la sua fede illuministica nel progresso dell'uomo era più forte che mai. Superato il contraccolpo della sconfitta e dell'esilio, poteva anche lasciarsi andare; sul fertile suolo
francese, sempre nostalgico dei sacri principi dell'89, a teorizzazioni di carattere etico, e distinguere tra insurrezione e rivoluzione, considerando l'una
sterile e gratuita, estremamente ricca e feconda l'altra se inserita in un più
vasto processo storico e morale.
Così si può dire, anche se sottovoce e con molta prudenza, che se
Cattaneo perdette la rivoluzione, la rivoluzione non perdette Cattaneo. E il
suo dialogo con essa, iniziato anni addietro in sordina, e forse del tutto incosciamente, con i primi aneliti alla libertà e alla verità, ma fiorito prepotentemente nel vivo della realtà di quelle cinque deliranti giornate milanesi,
continuò in lui per tutta la vita, inducendolo a riflettervi, a scriverne, e ad
approfondirne i temi, in una progressiva presa di coscienza e in una sofferta
e continua altalena di attrazione e repulsione.
Nel 1862, forse già in fase di una prima amara verifica dei risultati del
Risorgimento, analizzava la rivoluzione francese e scriveva che essa « fin dal
principio del secolo scorso era profondamente penetrata nel seno della società, prima assai che assumesse il nome di rivoluzione, e si manifestasse
con la forza del popolo, e si consacrasse con una nuova legislazione. Non è
la volontà dell'uomo che fa le rivoluzioni; né la volontà dell'uomo le può
reprimere; quando si sono incarnate nelle viscere della società, è forza che
vengano alla luce, e s'insignoriscano delle leggi » 5. E nel marzo dello stesso
anno sviluppava questi concetti, andando alla ricerca, senza trovarla, di una
suprema volontà di rottura rivoluzionaria nella società del Mezzogiorno. «
Voi avete il vizio - scriveva a Bertani - di pensare più ai solfanelli che non
alla legna, e in Napoli avevate appunto un mazzo di solfanelli sopra un
monte di sassi. In mezzo a popoli malcontenti è facile dar l'ultima spinta ad
una rivoluzione; Palermo nel 1848 poté farla anche senza i mille. Ma se non
vi è nulla di più che il popolo malcontento, la rivoluzione diviene in pochi
mesi una nuova forma di malcontento, e nulla più » 6.
5 CARLO CATTANEO, Scritti politici ed epistolario, vol. III, Firenze,
Barbera, 1901, p. 322.
6 CARLO CATTANEO, Lettera ad Agostino Bertani, in " Scritti politici
ed Epistolario ", Firenze, Barbera, 1894, p. 359.
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PARTE SECONDA
SOMMARIO: 1. Libertà e verità. - 2. Il rifiuto del socialismo. - 3. I due ideali.
- 4. Libertà e repubblica.
1. Libertà e verità.
Cattaneo si dimostrò, dunque, sempre contrario ad una soluzione rivoluzionaria del problema unitario, e nelle sue scelte politiche fu fondamentalmente un moderato ed un riformista. Viceversa, nella esposizione
della sua filosofia politica, assunse non di rado toni accesi e radicali. Cattaneo, che spesso si compiacque di distinguersi dagli altri, prendeva con questo duplice atteggiamento le distanze sia rispetto al rivoluzionarismo mazziniano, sia rispetto al tiepido programma dei moderati. Fu radicale perché,
come dice Bobbio, « accetta e propugna integralmente e senza riserve quella
idea liberale, la cui applicazione i progressi della scienza sembrano aver reso
inevitabile; in quanto è convinto che il progresso della scienza e il progresso
della libertà siano tanto intimamente legati da non potersi separare senza
uccidere lo stesso progresso. Il che egli compendia nel motto, assunto a
simbolo della sua convinzione e della sua lotta: « libertà e verità » 1.
Dunque, libertà e verità sono, per Cattaneo, i massimi valori di ogni
ideologia politica, ma, egli avverte, non potrà mai essere autenticamente
liberale chi è ancora fermo alla soluzione di problemi metafisici. In questo
caso la libertà non potrà mai assurgere a livello di valore assoluto, resterà
invece sempre un bene strumentale. Cattaneo, alla luce della sua cultura
illuministica, considera la libertà non come un episodio della vita associata,
ma piuttosto come il più alto valore civile e la più solida forza morale. Ogni
tentativo di progresso e di riscatto sociale, disancorato da questo valore, è
destinato a rimanere una pura aspirazione. Daltro canto la ferma coscienza
del valore civile della libertà e la totale assenza di interessi metafisici non
indussero mai Cattaneo a trasformare la sua concezione del liberalismo in
una sorta di dogmatica religione della libertà, errore nel quale, sulla scorta
anche di motivazioni passionali, incorsero molti pensatori del romanticismo. Nessuna retorica inquinò mai la purissima idea che Cattaneo ebbe della libertà, che fu sempre pensata come « l'esercizio della ragione » 2.
1 NORBERTO BOBBIO, Una filosofia militante, "Studi su Carlo Cattaneo",
Torino, Einaudi, 1971, p. 12.
2 CARLO CATTANEO, Lettera a P. Maestri del gennaio 1856, in " Scritti
politici ed Epistolario " , vol. II, Firenze, Barbera, 1894, p. 66.
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Il suo liberalismo, al fondo di ogni analisi, deve essere considerato
come una ideologia produttrice di una sempre più vasta libertà, che a sua
volta costituirà una forma di moltiplicatore del progresso e dei valori civili.
« Le menti libere - dice Cattaneo - sono in eterno moto; non possono essere unanimi se non nella verità. Val più il dubbio d'un filosofo che tutta la
morta dottrina d'un mandarino o d'un frate... Dall'attrito perpetuo delle
idee s'accende ancora oggidì la fiamma del genio europeo » 3.
In nome della libertà, della purezza cristallina di questa idea, Cattaneo
finì col litigare con tutti: con i moderati, con i rivoluzionari, e con tutta quel
compatto e potente settore politico che ruotava intorno a Casa Savoia, d'Azeglio e Cavour primi fra tutti. Anche con Mazzini i suoi rapporti furono burrascosi. Sebbene ammirasse l'alta moralità del genovese e la vasta opera di riformatore della coscienza nazionale, egli lo avversò per due motivi. Da una parte,
per il fanatico unitarismo, nel quale vedeva come una specie di pericolosa forzatura che avrebbe inevitabilmente finito col comprimere la libertà dei costumi
e l'autonomo sviluppo delle varie regioni; dall'altra, perché vedeva nella incessante spinta rivoluzionaria di Mazzini un elemento di violenza endemica che,
dilagando senza freno, avrebbe compromesso proprio quella libertà per la quale lo stesso Mazzini si batteva.
Opinione alquanto azzardata e forse dettata più dal ricordo degli
scontri col rivoluzionario genovese che, da una serena e lucida analisi dell'azione politica mazziniana. « La sua fede era dittatoria, cesarea, napoleonica » 4 scriverà a proposito di Mazzini, ma poi, appena qualche pagina più in
là, ne farà l'elogio: « egli fu il precursore del Risorgimento » 5. Anche Cattaneo, malgrado il sostegno di una lucida intelligenza e di una cultura razionale, non riuscì a sottrarsi, nei riguardi di Mazzini, a quel complesso sentimento di amore-odio, attrazione-repulsione, che fu comune a molti uomini del
Risorgimento.
Ritornando al problema della libertà cattaneana, bisogna aggiungere
che essa non si cristallizzò mai in una astratta teoria. La conoscenza della
vita e l'analisi minuta dei fatti lo spinsero sempre a sottolineare i risvolti
CARLO CATTANEO, Le origini italiane illustrate coi libri sacri dell'antica Persia, in
Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1848, pp. 291-292.
4 CARLO CATTANEO, Scritti politici ed epistolario, vol. I, Firenze, Barbera,
1892, p. 249.
5 CARLO CATTANEO, ibidem, p. 262.
3
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pratici dei problemi rendendo questi sempre vivi ed attuali e sfuggendo ai
pericoli di una arida teorizzazione.
La questione economica fu uno dei terreni più fertili per l'esaltazione
della libertà. Il libero scambio e la proprietà, il « promuovimento della piena
e libera proprietà » 6, sono considerati da Cattaneo come la base di ogni
sana economia, sia pubblica che privata.
2. Il rifiuto del socialismo.
Nei riguardi delle prime teorie socialiste, che minacciavano il suo
cauto programma riformistico, il giudizio cattaneano è duro e senza appello. Del nascente socialismo egli colse solo l'aspetto utopistico, il lato più
fragile e più facilmente criticabile, e, come accadde a molti, pur generosi,
pensatori dell'800, non ne capì il significato di riscatto universale che andava molto al di là dei limitati problemi nazionali e politici.
Più concretamente, non capì, che il sia pure utopistico socialismo dell'epoca era la prova che il proletariato internazionale premeva dal fondo della
storia e si accingeva a proporsi come grande forza politica e grande alternativa
storica, con cui l'establishment dei decenni futuri avrebbe dovuto misurarsi.
Di lì a pochi anni il socialismo avrebbe abbandonato per sempre le
innocue vie dell'utopia per imboccare quelle meno esotiche, ma più realistiche, del socialismo scientifico. Cattaneo invece liquidò il problema come
una pericolosa teoria che avrebbe demolito « la ricchezza senza riparare alla
povertà; e sopprimendo fra gli uomini la eredità e per conseguenza la famiglia, avrebbe ricacciato il lavorante nella abiezione delli antichi schiavi, senza natali, e senza amore » 7.
Giudizio che, in un acuto osservatore della realtà come Cattaneo, si
può giustificare solo attribuendolo alle scarse informazioni di cui egli, isolato nell'esilio di Lugano, disponeva sul proletariato europeo, e in particolare
su quello inglese e francese; o considerando che il socialismo utopistico di
un Proudhom e di un Saint-Simon era ancora fermo alle buone intenzioni e
alle grandi speranze, senza potersi ancora avvalere di quelle severe basi
scientifiche e di quella lucida analisi politica che sarebbero state in seguito
elaborate da Marx e da Engels.
6
CARLO CATTANEO, Saggi di economia rurale, Torino, Einaudi, 1939, p.
201.
7 CARLO CATTANEO, Scritti completi, vol. I, Milano, edizioni del Risorgimento, 1925, p. 100.
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3. I due ideali.
Ma dove l'ideale cattaneano della libertà rifulge in tutta la sua severa
etica e si fa nutrimento primario del suo pensiero, è nella analisi del problema politico. Cattaneo respinge ogni forma di dittatura e di dispotismo.
Sintetizza il suo rifiuto nella famosa massima: « O l'ideale asiatico, o l'ideale
americano », indicando l'America come matrice di quelle libertà, che attraverso la grande rivoluzione dell'89 si diffusero in tutta l'Europa, e l'Asia
come la mitica patria di ogni tirannia e di ogni costrizione della coscienza
individuale.
Alla monarchia preferisce senza tentennamenti la repubblica, considerando i monarchi europei come una casta a sé, supernazionale e antinazionale, legati strettamente gli uni agli altri da interessi particolari, e del tutto avulsi dalla vita dei popoli su cui governano. « ...Le famiglie regnanti dirà Cattaneo - son tutte straniere. Non vogliono essere di nessuna nazione;
si fanno interessi a parte, disposte sempre a cospirare colli stranieri contro i
loro popoli » 8. Il che significa che alla base di ogni monarchia vi è una concezione dispotica del potere, mentre repubblica è sinonimo di libertà, non
di una libertà dogmatica e mistica, ma di una libertà cosciente del proprio
valore civile e razionale.
Lungo la stessa direttrice, civile e razionale, fiorisce il suo nazionalismo che non fu mai una forza deviante, causa di pericolose e meschine
chiusure verso gli altri popoli, ma fu semmai uno stimolo allo studio e alla
comprensione delle altre nazionalità. « Se non è lodevole che la gioventù
nostra - scrive Cattaneo - adori le cose straniere, è assai più turpe che al
tutto le ignori » 9. In Cattaneo il nazionalismo politico e il cosmopolitismo
culturale si incontrano e si fecondano a vicenda sul piano comune della libertà, che di entrambi è matrice.
4. Libertà e repubblica.
Sul problema più specifico e più concreto dell'unità nazionale, il sentimento della libertà si fa in Cattaneo ancora più netto e determina tutto il
suo atteggiamento politico. Prima e dopo il '48, in un momento in cui molte
forze politiche cominciavano a guardare al Piemonte e
8 CARLO CATTANEO, L'insurrezione di Milano del 1848, in Tutte le opere, vol.
IV, Milano, Mondadori, 1967, p. 509.
9 CARLO CATTANEO, Il Don Carlos di Schiller e il Filippo d'Alfieri, in Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, vol. I, Firenze, Le Monnier, 1948, p. 59.
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a Casa Savoia come occasione di stimolo e di fusione di tutte le forze risorgimentali, Cattaneo non esita sulla strada da seguire. La sua scelta resta fedele ai due concetti fondamentali della libertà e della repubblica. Dopo il
'48 scriverà nelle « Memorie dell'Insurrezione di Milano » una violenta requisitoria contro Casa Savoia e la politica di Carlo Alberto. Da questo momento Cattaneo è volontariamente tagliato fuori dal Risorgimento italiano.
Ma il rifiuto di riconoscere il Piemonte come Stato-guida dell'indipendenza
nazionale non è determinato solo dal più generale rifiuto di ogni monarchia.
Questo è anzi il motivo meno importante. Vi sono ragioni più profonde,
che si riallacciano sia alla convinzione che il carattere nazionale degli italiani
fosse essenzialmente repubblicano, sia alla coscienza vivissima che egli ebbe
fin dall'inizio della natura egemonica della politica piemontese. « Tutte le
istituzioni in Italia - scrive a proposito del carattere repubblicano degli italiani - hanno da tremila anni una radice di repubblica; le corone non vi ebbero mai gloria. Roma, l'Etruria, la Magna Grecia, la Lega di Pontida, Venezia, Genova, Amalfi, Pisa, Firenze, ebbero dal principio repubblicano
gloria e potenza. Mentre in Francia il vocabolo di repubblica suona tuttavia
straniero, nella istoria d'Italia risplende ad ogni pagina; s'intreccia alle memorie del patriziato e della chiesa; sta nelle tradizioni delle genti più appartate. Gridar la repubblica nelle valli di Bergamo o del Cadore è così naturale
come gridar in Vandea viva il re! » 10.
Analisi storica che lascia perplessi. Affermare, infatti, che in Francia,
patria della costituzione di Robespierre, « il vocabolo di repubblica suona
straniero », o attribuire virtù repubblicane al regime oligarchico, e quanto
mai dispotico di Venezia, significa forzare il senso della storia. Il richiamo,
poi, ai vecchi miti di Roma, dell'Etruria e della Magna Grecia è più un'affermazione retorica che una considerazione di carattere scientifico. E questo sorprende davvero in un pensatore realistico e rigoroso come Cattaneo.
Ma ciò che è più interessante, e ancora oggi attuale per le conseguenze storico-politiche che ne sono scaturite, nel complesso rifiuto cattaneano
del Piemonte, è dato dalla considerazione che lo Stato, il quale pretendeva
di assumersi la gestione del Risorgimento, era molto più arretrato, sia per
strutture politiche e amministrative che per tradizioni culturali, di molte
altre regioni italiane, e in particolare della Lom10 CARLO CATTANEO, L'insurrezione di Milano del 1848, in Tutte le opere, vol.
IV, Milano, Mondadori, 1967, p. 540.
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bardia e della Toscana. In questo Cattaneo vedeva giusto. Sul Piemonte,
malgrado la vicinanza della Francia illuministica e rivoluzionaria, aveva
sempre deleteriamente influito l'isolamento culturale imposto da Casa Savoia ed attuato con piemontese precisione da una delle più grette burocrazie d'Italia. Sulla Lombardia, per vie più dirette, e sulla Toscana, sia pure
per vie più articolate, aveva invece beneficamente influito la buona amministrazione austriaca, che traeva la sua tradizione di correttezza e di efficienza
dalle grandi riforme illuministiche di Maria Teresa e dell'età giuseppina.
Cattaneo, da fine conoscitore di cose lombarde, sapeva bene tutto questo e
vedeva con orrore come molti milanesi via via abbracciassero la causa sabauda. Egli, invece, si trovò in modo del tutto naturale tra le fila del cosiddetto partito progressista che, se mirava all'indipendenza, mirava anche alla
libertà, e voleva raggiungere l'una e l'altra non attraverso un'annessione pura e semplice, ma attraverso grandi e graduali riforme.
Indipendenza, dunque, ma prima di tutto libertà, perché « la libertà è
pianta di molte radici » 11. Da sola l'indipendenza poteva risolversi soltanto
in un cambio di padroni. Cattaneo vide lucidamente questo pericolo; il pericolo che dalla servitù sotto gli Asburgo si passasse alla servitù sotto i Savoia, con l'aggiunta di una pericolosa egemonia sabauda sull'Italia. A questo
tipo di equivoca indipendenza, egli preferì fin dall'inizio della sua milizia
politica la libertà, appunto perché « pianta di molte radici », e perché matrice inevitabile di indipendenza autentica, di sviluppo civile, di progresso economico, di una democrazia cioè non cristallizzata in formule, ristretta in
istituzioni assembleari più o meno allargate, ma ampiamente articolata nelle
coscienze e nei sentimenti di tutti i cittadini.
Questo ribaltamento dei valori risorgimentali, prima la libertà e poi
l'indipendenza, e non viceversa come indicava Mazzini, fa di Cattaneo uno
tra i più coraggiosi e tra i più originali pensatori del Risorgimento. Se fosse
stato capace di andare più in là di questi risultati, e di spingersi alla scoperta
di più ampi e profondi significati della libertà, avvicinandosi, con la sua solida intelligenza razionale e la sua integrità morale, ai problemi delle masse
proletarie, Cattaneo forse avrebbe potuto superare il limite borghese ed
illuministico della sua ricerca e oggi, a cento anni dalla sua morte, sarebbe
forse ricordato come un pensatore di ben altra statura.
11 CARLO CATTANEO, prefazione al volume IV del "Politecnico'", in
Scritti politici ed epistolario, Firenze, Barbera, 1892, vol. I.
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Fu un'occasione mancata, ma fu un'occasione mancata da tutti i
pensatori del Risorgimento, che, a sua volta, fu la grande occasione mancata di ribaltare anzitempo certi rapporti di forza, di distruggere certi centri di potere, soprattutto nel Mezzogiorno, e di trasformare un Paese, che
non era ancora uscito del tutto dal feudalesimo, in una nazione moderna e
democratica.
Ma questo è un discorso a parte, un discorso difficile a farsi, perché
la storia è quella che è, o meglio quella che è stata, e se anche qualche
pensatore più acuto degli altri avesse capito il fondo di ogni problema,
sarebbe stato travolto dalla realtà circostante. Perché « la storia non è
prodotta / da chi la pensa e neppure / da chi l'ignora » e in ogni caso «
non è magistra / di niente che ci riguardi. / Accorgersene non serve / a
farla più vera e più giusta » 12 .
12 EUGENIO MONTALE, La storia, in Satura, Milano, Mondadori,
1971, pp. 51-52.
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PARTE TERZA
SOMMARIO: 1. Una scelta ideologica. - 2. Mancata aderenza alla realtà. –
3. Ipotesi di federazione europea. - 4. Genesi della teoria federalistica. - 5. Sconfitta politica dell'idea federativa. - 6. La guerra del '59 e la
polemica con Mazzini. - 7. La riforma cattaneana dell'esercito. - 8. Il
contributo di Cattaneo alla organizzazione del nuovo stato. - 9. Giudizio sul federalismo cattaneano.
1. Una scelta ideologica.
Uno dei punti più noti del pensiero cattaneano è la cosiddetta teoria
federalistica, teoria che è intimamente legata sia al problema morale della
libertà che alla forma repubblicana da dare al nuovo stato unitario. La libertà, il federalismo e la repubblica trovano poi una loro profonda unità morale di fronte ad un problema ben più vasto ed articolato, il progresso dell'uomo, che giustifica in sé sia le esistenze individuali, sia il flusso della storia nel suo divenire. « Libertà è repubblica - dice Cattaneo - e repubblica è
pluralità, ossia federazione...1 ... Il federalismo è la teorica della libertà » 2.
« Repubblica - scrive al riguardo Bobbio - diventa il termine unitivo
tra libertà e federazione; ma mentre la premessa e la conclusione sono elementi essenziali, il termine medio, essendo al servizio di quelli, è secondario. Voglio dire come il Cattaneo, liberale e federalista per convinzione e
quindi per essenza, è repubblicano per reazione e quindi per accidente, tanto da ammettere, per un verso, il federalismo in seno all'impero asburgico, e
da condannare, per altro verso, la repubblica accentrata dei francesi o dei
mazziniani » 3. Giudizio che può indurre a ritenere che Cattaneo avrebbe
anche potuto adattarsi alla monarchia se questa si fosse a sua volta adattata
ad esistere come pura espressione in uno stato autenticamente liberale ed
ampiamente federativo. Ma questa, in fondo, è solo un'ipotesi, non confortata da alcuna esplicita dichiarazione dello studioso lombardo, il quale aveva
chiaramente intuito fin dal '48 la vocazione autocratica di Casa Savoia. Recenti studi, d'altronde, hanno dimostrato che Vittorio Emanuele cercò
spesso di svincolarsi dalla tutela del Parlamento e, in più occasioni, osteggiò
proprio quei valori
1 CARLO CATTANEO, Lettera all'ing. Tentolini del 24 aprile 1852, in Epistolario, vol. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 157.
CARLO CATTANEO, Lettera a L. Frapolli del 5 novembre 1851, in Epistolario, vol. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 122.
3 NORBERTO BOBBIO, Una filosofia militante, Studi su Carlo Cattaneo,
Torino, Einaudi, 1971, p. 20.
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costituzionali che pur aveva accettato come base ideologica dello stato unitario 4. Questi studi hanno d'altra parte fatto giustizia di molta oleografia
post-unitaria. Il cosiddetto costituzionalismo di Casa Savoia solleva oggi
ormai diverse perplessità.
Ritornando alla teoria federalistica conviene ricordare che essa fu accusata fin dall'inizio di municipalismo deteriore e di conservatorismo. Norberto Bobbio 5 , ha ampiamente spiegato come tale accusa fosse in gran parte infondata perché, anche se il federalismo cattaneano aveva in sé una
componente di orgoglio municipalistico, questa assolveva, tutto sommato,
ad una « funzione solamente stimolatrice » 6 ed era neutralizzata, nei suoi
risvolti conservatori, dalla solida base liberale sulla quale poggiava l'intera
teoria politica cattaneana. Si trattò, quindi, è sempre Bobbio che parla, non
di una scelta strumentale, votata alla difesa di particolarismi regionali, ma di
una scelta ideologica, di fronte alla quale perdevano valore gli aspetti storici,
geografici ed economici del problema, mentre acquistava sostanza ideologica e politica la convinzione cattaneana per cui « lo stato unitario, in quanto
tale, non può non essere autoritario, e quindi cesareo e dispotico, perché la
unità, è, di per se stessa, soffocatrice delle autonomie, della libera iniziativa,
in una parola della libertà, e solo la pluralità dei centri politici o meglio l'unità articolata e non indifferenziata, l'unità nella verità e non già l'unità senza distinzioni, sono l'unica reale garanzia della libertà, l'unico ambiente in
cui può prosperare la società nella direzione del progresso civile » 7.
2. Mancata aderenza alla realtà.
Il federalismo fu quindi per Cattaneo una scelta ideologica di carattere generale e non uno strumento politico ispirato da esigenze tattiche. Si
tratterebbe semmai di verificare in che modo e in quale misura l'ideologia
federalistica avrebbe potuto aderire alla realtà politica del tempo e quale
contributo avrebbe potuto dare sia al processo unitario, sia al nuovo stato
che da esso sarebbe nato.
Il problema, in fondo, è nel tentare, in via di ipotesi, di capire da quali forze dello schieramento politico la teoria federalistica poteva essere assunta come base ideologica di lotta. Escluso il proletariato urbano,
4
1972.
cfr. DENIS MACK SMITH, Vittorio Emanuele II, Bari, Laterza,
cfr. NORBERTO BOBBIO, op. cit., p. 20 e seg.
NORBERTO BOBBIO, op. cit., p. 21.
7 NORBERTO BOBBIO, ibidem, p. 21.
5
6
153
ancora in via di formazione, escluse le masse contadine, forze passive e latenti 8, confinate da secoli in un ghetto culturale e politico, esclusa anche
buona parte della piccola e media borghesia, chiuse nella rete dei propri
interessi e incapaci di recepire lo spirito dei tempi nuovi, restavano a fronteggiarsi sulla scena politica la vecchia classe dirigente, la fazione sabauda, e
i gruppi patriottici che, con varie sfumature e diversa intensità, si ispiravano
a Mazzini. Tutto sommato, nessuna di queste forze poteva abbracciare la
causa federalistica. La vecchia classe dirigente, composta dalla nobiltà, dalle
gerarchie ecclesiastiche e dall'alta borghesia, aborriva in toto qualsiasi teoria
che si collegasse all'ideale unitario; i sabaudi, dal canto loro, guardavano al
federalismo come ad una grave minaccia alle mira espansionistiche ed egemoniche del Piemonte; i patrioti, a loro volta, lo giudicarono come un pericolo ed un freno per la causa unitaria.
Il federalismo cadde così nel vuoto per la mancanza di una vera base
politica e dimostrò in fondo la sua scarsa aderenza alla realtà italiana del
tempo. In seguito, fatta l'unità, dimostrò un'aderenza ancora minore, quando ci si trovò di fronte alla necessità di dover eliminare ogni pericolo centrifugo e di rafforzare, anche autoritariamente, le strutture del nuovo stato.
Ci sarebbe, invece, da chiedersi quale uso avrebbero fatto della teoria federalistica, una volta sfuggita dalle mani purissime del suo autore, proprio
quelle classi politiche spazzate via dall'ondata unitaria. E' pensabile che i
vecchi notabili avrebbero saputo sapientemente trasformare la più avanzata
teoria politico-economica dell'epoca in un deteriore strumento di conservazione, per salvare il salvabile ed attuare un'esemplare riforma gattopardesca.
E' solo un'ipotesi, naturalmente, ma una ipotesi che assume una certa credibilità se solo si pensa a ciò che accadde a Napoli dopo l'unità, dove i democratici, che erano stati fervidi sostenitori del processo unitario, finirono
col trovarsi all'opposizione, a fronte dei conservatori che si assunsero il
ruolo di sostenitori del nuovo stato, proprio perché videro in esso l'occasione per perpetuare i vecchi privilegi del regno borbonico.
Il federalismo fu forse danneggiato da un eccesso di perfezionismo e
dal prevalere della ideologia sulla prassi politica. Gli anni decisivi del Risorgimento, il '59 e il '60, furono invece proprio il trionfo dell'improvvisazione
geniale, dell'avventurismo fortunato, della capacità politica di mutare rapidamente indirizzi ed orientamenti. La stessa conquista del
8
cfr. ANTONIO GRAMSCI, Sul Risorgimento, Roma, Editori Riuniti,
1972.
154
Sud, che non era del tutto nei programmi di Cavour e di Vittorio Emanuele,
cioè delle forze attive che avevano assunto la gestione del Risorgimento, fu
un capolavoro di destrezza, di rapidità e di spregiudicatezza. In questo turbinoso intrecciarsi di fatti militari, di convulsi contatti diplomatici, di rapidi
slittamenti di fronti politici e di opinioni personali, le razionali, illuministiche, perfezionistiche teorie del pensatore lombardo si trovarono come i
proverbiali vasi d'argilla tra i vasi di ferro. Cattaneo finì col parlare un linguaggio incomprensibile, che richiedeva tempo e meditazione, in un tempo
in cui non era possibile meditare, un tempo in cui la vita era più che mai «
un racconto pieno di rumore e di furore » 9 e bisognava fare presto, « faire
vite » secondo una espressione attribuita a Napoleone.
3. Ipotesi di federazione europea.
Tanto forte era la base ideologica del federalismo che Cattaneo finì
per estendere il suo discorso a tutta la situazione europea. Di conseguenza
avversò sempre l'accentramento politico-amministrativo dei grandi stati
unitari. A proposito della Francia, che aveva ereditato il centralismo giacobino e napoleonico, scriverà che « finché i dipartimenti non si trasformeranno in cantoni con amministrazioni proprie, la libertà in Francia sarà
sempre un assurdo, perché chi aspetta gli ordini da Parigi, non è libero a
Versailles » 10.
Esaminò i mali dell'impero austriaco, vaticinandone una rapida fine
se non si fosse dato un ordinamento federale. La fine non fu poi così rapida
come Cattaneo aveva previsto, ma tuttavia si verificò anche per i motivi da
lui enunciati. In effetti, ammonita dai moti del '48, l'Austria tentò di darsi
una parvenza di ordinamento federale attirando nell'area del potere il maggiore dei popoli soggetti, gli Ungheresi. Ma il nuovo corso si arrestò subito.
La maggioranza dei sudditi rimase ai margini del potere. Cechi, croati, polacchi, italiani, si sentirono sempre meno integrati nello stato asburgico e
iniziarono dall'interno un implacabile processo di corrosione, che fu una
delle cause determinanti del crollo morale e politico dell'impero 11.
Nell'ipotizzata federazione austriaca Cattaneo contemplò anche
9
cfr.. WILLIAM SHAKEASPEARE, Mac Beth, atto V, scena V.
CARLO CATTANEO, Scritti politici, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1964,
10
p. 449.
11 cfr. WOLFGANG J. MOMMSEN, L'età dell'imperialismo, Milano, Feltrinelli, 1970.
155
il Lombardo-Veneto, il che non deve stupire anzitutto perché l'idea di una
federazione guidata dall'Austria fu elaborata prima del '48, quando cioè
l'unità d'Italia era ancora un progetto informe, e poi perché la logica federativa di Cattaneo non tenne mai in gran conto i particolarismi nazionalistici nel tentativo di ipotizzare una superiore unità europea. Ciò che può
stupire, invece, è piuttosto l'affermazione secondo cui il legame con l'Austria avrebbe fatto compiere al Lombardo-Veneto il primo passo verso
l'indipendenza. Stupisce perché un'indipendenza, nata da un patto federativo ed anzi a causa di questo, avrebbe costituito il fallimento di tutta l'ideologia cattaneana e la più secca smentita all'ipotesi che la federazione
non divide, ma unifica.
4. Genesi della teoria federalistica.
Ma in che modo nacque e si consolidò il pensiero federalistico di
Cattaneo? Attraverso quali strutture di pensiero si trasformò da idea informe in articolata proposta politica? Sono interrogativi ai quali ancora
oggi è difficile dare una risposta definitiva, perché essa va ricavata da una
impressionante mole di documenti, che vanno dalle opere fondamentali di
Cattaneo agli innumerevoli articoli, fino alla fitta e minuta corrispondenza.
Alle spalle della prima idea federalistica vi è certamente quella
congerie di studi e di esperienze ai quali per anni accanitamente Cattaneo
si dedicò. Questo metodo, fondamentalmente illuministico, se rompeva
l'unità della ricerca e costituiva anche un elemento di dispersione, aveva
tuttavia il vantaggio di penetrare la realtà attraverso mille canali,
mostrando come essa fosse ad un tempo duttile e multiforme, pronta a
mutare di tono e significato. Da questa fondamentale esperienza dello
spirito Cattaneo dovette trarre quella sua avversione alla unicità, che poi
calò in ogni idea politica e morale. Bobbio, analizzando la nascita e lo
sviluppo del federalismo cattaneano, ha ritenuto di poter distinguere « tre
diversi momenti, ciascuno dei quali ha i propri caratteri. Nella prima fase,
che va sino al '48, il concetto federalistico si dispiega in una ideologia
normativa per una generale politica europea: nella fase intermedia; che
comprende gli anni fra il '48 ed il '60, l'idea federalistica, ormai maturata,
viene applicata principalmente al problema della guerra di insurrezione
nazionale; nell'ultima fase, dopo il '60, si trasforma in principio generatore
di riforme militari e amministrative del
156
nuovo stato italiano. Sono tre diversi aspetti di un'unica idea, che si adatta
al turbinoso e rapido svolgersi degli eventi » 12.
Il primo periodo, che, sulla scorta della interpretazione di Bobbio,
possiamo definire della fase europea, può essere considerato come una delle
tante utopie fiorite nel periodo post-illuministico. Alla base, come in tutte
le costruzioni utopistiche, manca una severa indagine della società e della
realtà politica del tempo. Solo la mancata verifica delle cose poteva indurre
a ipotizzare la costituzione degli Stati Uniti di Europa. Il cosmopolitismo
culturale, al quale questa prima fase federalistica si ispira, e il generico umanitarismo sociale, in voga all'epoca di Cattaneo, erano in fondo due modi
per eludere i reali problemi del tempo. Il cosmopolitismo culturale, che era
stato una delle caratteristiche essenziali dell'Illuminismo, e che nel '700 aveva svolto una importante funzione di rottura di certi schemi mentali, non
aveva ormai più significato in una Europa, in cui le nazioni, sulla scorta della prima gloriosa esperienza nazionale della rivoluzione dell'89, si attestavano ormai le une contro le altre, esaltate dalla scoperta del proprio genio nazionale e animate dalla volontà di primeggiare. Per altro verso, l'umanitarismo sociale, dopo un primo atteggiamento di sospetto e di paura da parte
della classe dirigente, fu considerato come un episodio ai margini della vera
lotta politica e, tutto considerato, innocuo.
Eppure di questa prima fase del federalismo cattaneano è interessante
segnalare sia la critica al centralismo dell'impero austriaco, sia la proposta
unità degli Stati europei; unità che, se in quel tempo era fuori da ogni realtà,
ha, da allora in poi, trovato sempre maggior credito fino ad essere oggi, anche se in minima parte, realizzata. I due nuclei di pensiero non sono distaccati l'uno dall'altro, ma scorrono paralleli e trovano la loro unità nella teoria
federalistica. Nella condanna del centralismo austriaco, che è tra le cause
principali della decadenza dell'impero asburgico, c'è già l'idea di una federazione tra gli Stati europei. « O l'autocrata d'Europa, o gli Stati Uniti d'Europa » 13 dice Cattaneo sintetizzando i due problemi, e poi sviluppandoli aggiunge: « quel giorno che l'Europa potesse, per consenso repentino, farsi
tutta simile alla Svizzera, tutta simile all'America, quel giorno ch'ella si scrivesse in fronte Stati Uniti d'Europa, non solo ella si trarrebbe da questa
luttuosa necessità
N. BOBBIO, op. cit., pp. 25-26.
CARLO CATTANEO, Considerazioni al I volume dell'« Archivio triennale, in Scritti politici ed epistolario, vol. I, Firenze, Barbera, 1892, p. 249.
12
13
157
delle battaglie, degli incendi e dei patiboli, ma ella avrebbe lucrato cento
mila milioni » 14.
Siamo ancora al federalismo come grande ipotesi di pace europea.
Perché esso si fosse svestito dei paludamenti dell'utopia illuministica e si
fosse calato più sommessamente nella realtà italiana, « occorreva - a dirla
con Bobbio - una esperienza politica nuova e fortissima, quale fu il fallimento dell'insurrezione lombarda malgrado, o come egli (Cattaneo) sostenne, a causa dell'intervento piemontese » 15.
Il giudizio di Cattaneo sul Piemonte fu, come è noto, durissimo. Le
mire egemoniche dello stato sabaudo furono, secondo il pensatore lombardo, la causa principale della sconfitta nella prima guerra di indipendenza. La leadership del Piemonte, mentre limitò il contributo degli altri stati
italiani, timorosi che una soluzione vittoriosa del conflitto si potesse risolvere a loro svantaggio, frenò lo slancio delle stesse masse popolari che
videro nelle annessioni solo un cambio di padroni. L'analisi dei fatti del
'48 portò Cattaneo a concludere che l'unità si poteva fare solo con la repubblica e con il federalismo, e lo indusse a prendere posizione sia contro
Casa Savoia, sia contro l'unitarismo accentratore dei mazziniani.
Non fu antiunitario, come poi da qualcuno fu detto, fu invece antifusionario, e lo disse chiaramente quando ammoni che bisognava « contrapporre la federazione alla fusione e non all'unità, e mostrare che un
patto fra popoli liberi è la sola via che può avviarli alla concordia e alla
unità: ma ogni fusione conduce al divorzio, all'odio » 16.
5. Sconfitta politica dell'idea federativa.
Naufragate a Novara le speranze del '48, si fece rapidamente strada
la convinzione che un patto federativo tra i vari stati italiani non potesse
portare a nulla di conclusivo. Giusta o sbagliata che fosse tale opinione,
nella realtà delle cose l'idea federativa usciva da quella prova sconfitta per
sempre. L'indipendenza italiana prendeva da quel momento la via dell'unità d'azione indicata da Casa Savoia. Molti convinti federalisti e anche molti mazziniani, soprattutto per l'abile e tenace opera di ricucitura politica
operata da Cavour, mutarono man mano opinione.
CARLO CATTANEO, ibidem, p. 275.
N. BOBBIO, op. cit., p. 27.
16 CARLO CATTANEO, lettera a G. Ferrari del 27 ottobre 1951, in Epistolario, vol. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 39.
14
15
158
Chi non mutò opinione fu Cattaneo, che, esiliato in Lugano, approfondì ed affinò i temi della teoria federalistica. Gli stati ai quali d'ora in
poi si ispirò furono la Confederazione Svizzera e gli Stati Uniti d'America.
« Solo al modo della Svizzera e degli Stati Uniti - scriverà in quel tempo può accoppiarsi unità e libertà » 17 . E, a chi gli faceva notare che uno stato
federale si confaceva solo a popoli diversi per lingua e per tradizioni e che
adattarlo ad una nazione già di per sé unificata da una somma di valori
comuni significava sovrapporre una divisione artificiale ad una unità sostanziale, ribatteva che non sempre dall'unità della lingua e dei costumi
nasceva l'unità degli ordinamenti statali. « No, qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una lingua propaga tra le famiglie e le
comuni, un parlamento adunato in Londra non farà mai contenta l'America; un parlamento adunato in Parigi non farà mai contenta Ginevra; le
leggi discusse in Napoli non risusciteranno mai la giacente Sicilia, né una
maggioranza piemontese si crederà in debito mai di pensar notte e giorno
a trasformar la Sardegna, o potrà rendere tollerabili tutti i suoi provvedimenti in Venezia o in Milano » 18.
A proposito dell'Italia, poi, anche se non espose mai organicamente
la sua teoria, venne in effetti, dal '48 in poi, fin dopo l'unità, chiarendo ed
approfondendo le sue idee in tutta una serie di scritti, saggi, articoli, lettere agli amici, finché non gli uscì della penna quell'espressione, « Stati Uniti
di Italia », che restò un poco come l'etichetta di tutta la sua fede federalistica.
Lungi dal ritenere che il '48 avesse segnato la sconfitta definitiva
della via federale all'unità, dal suo esilio di Lugano, Cattaneo continuò a
spiegare che « se la guerra del '48 era fallita, perché non vi avevano concorsi popoli liberi, ma principi inetti, aveva per lo meno dimostrato che
quel che di alto e di provvido si poteva compiere era stato compiuto non
dai principi ma dai popoli. Milano insorta, Roma Repubblicana, Venezia
ultimo baluardo dell'indipendenza » 19. E nel 1851, continuando nell'analisi
dei motivi che avevano condotto alla sconfitta del '48 e riaffermando ancora una volta la perenne validità della guerra federale, si chiedeva come
mai si fosse scritto « che la guerra del 1848 fu guerra federale? Fra tutti
quelli che comandavano allora li eserciti chi segnò
17 CARLO CATTANEO, Per la Sicilia, in Scritti politici ed epistolario, vol. I,
Firenze, Barbera, 1892, p. 142.
18 CARLO CATTANEO, Proetnio al III volume dell'Archivio triennale in
Scritti politici ed epistolario, vol. I, Firenze, Barbera, 1892, pp. 403-404.
19 N. BOBBIO ,op. cit., p. 33.
159
questo patto federale? E quando? E dove? E in che termini? » 20 , dichiarandosi poi polemicamente convinto che « la guerra del 1848 fu intrapresa
senza patto da chi l'ha guidata e non fu federale » 21 e rimbeccando con
asprezza Mazzini che insisteva nel chiamare guerra federale quella del
1848 e consigliava di non ripetere l'infausto esperimento.
In effetti, per quanto Cattaneo si sforzasse di dimostrare il contrario, la guerra del '48 era stata guerra federale ed anche per questo, oltre
che per l'inconsistenza militare del Piemonte, era stata perduta. Si sa come
andarono le cose: gli alleati si tennero sempre ben lontani dalla linea del
fuoco e, tranne qualche reparto che poi disertò e si diede alla guerriglia,
ritornarono a casa senza aver sparato un sol colpo. Malgrado questo, Cattaneo aveva, per altro verso, ragione quando rifiutava il valore di un patto
stretto solo a livello di prìncipi e aggiungeva che un vero patto federale
non era un mero documento diplomatico, ma piuttosto il frutto di una
intensa passione popolare. Ciò comportava di necessità che i popoli facessero da soli, che mettessero da parte i prìncipi e si costituissero in eserciti
popolari. Cattaneo forse non si rendeva conto che, nel momento in cui
parlava di « guerra di popolo » e di « nazione armata », il suo cauto riformismo liberale andava in frantumi ed egli finiva con l'attestarsi su posizioni profondamente rivoluzionarie, tali da affiancarsi ed in un certo senso da scavalcare lo stesso Mazzini, del quale aveva sempre condannato
l'accanito rivoluzionarismo.
6. La guerra del '59 e la polemica con Mazzini.
Gli anni che seguirono furono quelli che poi si dissero del glorioso
decennio di preparazione. Sulla scena politica dominava incontrastata la
figura di Cavour. Dall'esilio di Lugano la voce di Cattaneo giungeva come
un'eco sempre più stanca. Scoppiata la guerra del '59, egli assunse una
cauta posizione di appoggio al Piemonte, sostenendo che « ogni qualvolta
si offra un caso di guerra giova sempre ai popoli scendere in campo... se
non possono avere la guerra per la libertà, ebbene, frattanto, abbiano la
guerra per la guerra » 22.
20 CARLO CATTANEO, Lettera a L. Frapolli del 5 novembre 1851, in
Epistolario, voi. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 122.
21 CARLO CATTANEO, Lettera a G. Ferrari del 29 ottobre 1951, in Epistolario, vol. II, Firenze, Barbera, 1952, p. 113.
22 CARLO CATTANEO, Lettera ad A. Bertani in Epistolario, vol. III, Firenze, Barbera, 1954, p. 136.
160
Questa volta il disaccordo con Mazzini fu netto e completo. Mazzini, a differenza di quanto aveva predicato nel '48, sosteneva che i repubblicani non dovessero appoggiare la guerra. L'alleanza del Piemonte con
Napoleone fu poi un'altra occasione di polemica tra i due. Cattaneo vedeva, con un errore di valutazione storica e politica, nell'imperatore francese
il continuatore delle tradizioni repubblicane e bonapartiste, soddisfatto tra
l'altro della proposta napoleonica di fare dell'Italia una federazione di stati, e inspiegabilmente sorvolando, lui laico e liberale di vecchia fede, sul
particolare che a capo di questa federazione vi dovesse essere il Pontefice.
Mazzini, invece, considerò la cosa con maggiore lucidità e giudicò l'intervento francese come una ennesima dimostrazione della volontà imperialistica della Francia e come un tentativo di porre un'ipoteca sul futuro stato
italiano.
Dopo l'unità, ebbe inizio la terza fase del federalismo cattaneano.
Dal 1860 in poi, svuotatisi di significato quei temi politici che avevano
preceduto e accompagnato l'unificazione, Cattaneo concentrò il suo lavoro di studioso nel tentativo di dare il proprio contributo all'organizzazione
del nuovo stato. La rinuncia alla parte più importante della sua dottrina
non ebbe tuttavia per Cattaneo mai il sapore di una abdicazione. Fu semmai frutto del suo realismo politico. Di certo Cattaneo si rese conto che,
viste com'erano andate le cose, per alcuni decenni di federalismo in Italia
non se ne sarebbe più parlato. Si trattava ora, in un supremo tentativo di
sopravvivenza, di conservare per gli Italiani del futuro la fede federalistica, tramandandola intatta in tutta la sua purezza etica come l'unica e autentica « teorica della libertà » e di adoperarsi affinché almeno una parte
delle sue idee si fosse rifusa nell'organizzazione del nuovo stato. La sua
attenzione di studioso si concentrò così sui due temi che gli parvero più
importanti: la riforma dell'esercito e l'organizzazione amministrativa.
7. La riforma cattaneana dell'esercito.
L'ideale militare cattaneano può essere sintetizzato in questa sua
stessa formula: « militi tutti, soldato nessuno » 23. Una formula che opportunamente interpretata e sviluppata contiene in nuce tutta la problematica
militare di Cattaneo.
23 CARLO CATTANEO, Considerazioni al I volume dell'Archivio triennale,
in Scritti politici ed epistolario, vol. I, Firenze, Barbera, 1892, p. 275.
161
Da una parte, « soldato nessuno », egli si oppone ai grandi eserciti
stanziali che, mentre sono dispendiosissimi per le nazioni e fertile campo di
equivoche manovre politiche e diplomatiche, sono anche privi di vero spirito combattentistico e costituiscono, nello stesso tempo, un costante pericolo di aggressione fra gli stati; dall'altra, « militi tutti », sostiene la validità di
un esercito popolare, il quale, mentre comporta un minore impegno finanziario e per sua natura una maggiore volontà di combattere, sia anche la
somma delle virtù civili e morali del popolo che lo ha espresso. Un esercito
così concepito, osserva Cattaneo, non si sarebbe mai prestato a guerre imperialistiche o a pericolose manovre politiche, avrebbe viceversa sviluppato,
in una guerra di difesa e di liberazione nazionale, una potenza e un impeto
sconosciuti ai militari di professione. Ed ancora, dice Cattaneo, l'esercito
non dovrà essere un corpo estraneo nel contesto della nazione, ma dovrà
essere in piccolo la nazione stessa. Sarà opportuno, pertanto, introdurre
l'addestramento militare in tutte le scuole, le quali « devono preparare la
adolescenza al fine supremo di tutti i nostri pensieri: la difesa della patria.
Tutte le scuole devono avere aspetto militare » 24 .
8. Il contributo di Cattaneo alla organizzazione del nuovo stato.
Il fallimento dell'ideologia federalistica non comportò solo l'avvento
di un sistema statale centralizzato, ricalcato sugli schemi giacobini e napoleonici, ma contribuì anche al profilarsi di un pericolo ben maggiore: la cosiddetta piemontizzazione dell'Italia, fenomeno molto simile ad un vero e
proprio processo di colonizzazione e di acculturazione dei territori annessi.
Il tentativo di piemontizzare l'Italia riuscì solo in parte, o forse non riuscì
affatto, sia per la vitalità culturale dei piemontizzandi, sia perché i rappresentanti del governo sabaudo, che rapidamente si insediarono ai vertici della
burocrazia e della direzione politica, non possedevano né la preparazione
necessaria ad un compito così complesso, né quella duttilità mentale, indispensabile per il buon esito dell'operazione. I piemontesi, tutto sommato,
non seppero vendere la propria mercanzia, e, dovunque, andarono si lasciarono dietro una scia di rancori e di antipatie che rimase proverbiale.
« Il Piemonte - faceva acutamente osservare Cattaneo - essendo
24 CARLO CATTANEO, La nuova legge del pubblico insegnamento, in Scritti letterari, artistici, linguistici e vari, vol. II, Firenze, Le Monnier, 1448, p. 370.
162
il solo centro organizzato e vivente, è più forte di tutta la massa; padroneggia; prodiga; abusa; rende odiosa ai popoli l'idea nazionale; finirà col far
sospirare il passato. Per raffrenarlo e bilanciarlo, bisogna dar vita libera agli
altri centri. Bisogna, nel nome della concordia e della vera unità libera e
morale, costituirsi protettori delle autonomie » 25.
Era il naturale sviluppo di chi sapeva che il nucleo maggiore delle
proprie idee era stato sconfitto dai fatti, ma che nello stesso tempo, almeno
a livello di studi e di proposte teoriche, non voleva essere del tutto emarginato dalla vita politica. Cattaneo in sostanza, mentre verificava nella realtà
la sconfitta del federalismo, ne tentava il recupero riproponendolo su basi
più aderenti alla nuova realtà. Fu un'operazione di grande coraggio e insieme di grande onestà morale. La sua polemica si diresse soprattutto contro i
vari progetti di legge comunale e provinciale, e contro il tentativo, poi riuscito, di estendere a tutto il Regno un'unica legislazione.
Dalle pagine del « Politecnico », che aveva ripreso a pubblicare con
nuovo fervore non appena rientrato a Milano dall'esilio svizzero, spiegò a
più riprese i pericoli che questa operazione comportava. In primo luogo,
osservava Cattaneo, nelle abrogate legislazioni degli ex-stati italiani vi erano
spesso norme e consuetudini più moderne ed efficienti delle leggi piemontesi, per cui l'estensione indiscriminata di queste avrebbe semmai prodotto
un regresso e non un progresso; in secondo luogo le esigenze delle varie
regioni erano così particolari e peculiari da non poter essere adeguatamente
soddisfatte da una legislazione unificata. « Il mio voto - scriveva Cattaneo
già nel 1859 con esemplare preveggenza - è che ogni stato d'Italia muti la
sua legislazione e amministrazione da sé medesimo, e solo in quanto possa
sostituirvi delle leggi assolutamente ed evidentemente migliori » 26. Era già
quasi un progetto di organizzazione regionale, progetto che è rimasto per
cento anni nella coscienza della classe politica italiana come una presenza
sopita, ma sempre pronta a rivivere.
Tuttavia il fulcro dell'azione per una riorganizzazione democratica e
liberale dello stato fu individuata da Cattaneo nell'attività politica del Comune. « I comuni sono la nazione - scriveva a commento della legge
CARLO CATTANEO, Lettera ad A. Bertani del maggio 1862, in Epistolario, vol. IV, Firenze, 1956, p. 56.
26 CARLO CATTANEO, Lettera a Gino Duelli del 10 luglio 1859, in Epistolario, vol. III, Firenze, Barbera, 1954, p. 171.
25
163
comunale e provinciale - nel più intimo della sua libertà » 27.
Il Comune rappresentò per Cattaneo oltre che uno strumento politico dal quale non si poteva prescindere per un armonico sviluppo economico di tutto il Paese, anche il primo elemento dialettico di quella «
teorica della libertà », per cui egli aveva speso tutte le sue energie di pensatore e la sua passione di patriota. Come l'esercito nazionale e popolare
doveva nascere sui banchi delle scuole, così la libertà, la democrazia, e le
virtù civili, dovevano nascere nei consigli comunali, sia in quelli dei grandi
agglomerati urbani, sia in quelli dei piccoli paesi sperduti fra le montagne
del Sud.
9. Giudizio sul federalismo cattaneano.
Il federalismo cattaneano si è portato dietro, in questi cento anni di
ripensamento della storia risorgimentale, l'accusa di essere una teoria fondamentalmente antiprogressista. Questa accusa, anche se è stata poi ampiamente forzata e strumentalizzata dalla cultura ufficiale di ispirazione,
sabauda, contiene una parte di verità. Ma è giusto sottolineare che se il
federalismo volgeva lo sguardo al passato, era anche tanto in anticipo sulle ragioni del tempo e tanto proiettato nel futuro da non poter essere veramente capito.
Passati e recenti studi hanno approfondito il problema del doppio
volto del federalismo e ne hanno lucidamente fissato i termini 28. Quando
Cattaneo parla degli Stati Uniti d'Italia, lo fa con lo sguardo volto alla civiltà dei Comuni, allo splendore economico e culturale della Venezia dei
Dogi e della Firenze dei Medici. In questo è certamente l'aspetto deteriore
e antiprogressista della sua analisi storico-politica, anzitutto perché la sua
« teorica della libertà » avrebbe difficilmente trovato diritto di cittadinanza
in strutture statali del genere, e poi perché questo tipo di analisi del passato stava a dimostrare una imperfetta intelligenza del proprio tempo.
L'800, in parte nella prima metà, e maggiormente nella seconda, avrebbe registrato invece il trionfo delle grandi compagini nazionali fortemente centralizzate. Gli Stati europei, sbarazzatisi di quei residui di forze
centrifughe che nei secoli precedenti avevano fatto tremare il potere dei
monarchi, si accingevano a cimentarsi nella grande avventura
27 CARLO CATTANEO, Sulla legge comunale e provinciale, in Scritti politici,
vol. IV, Firenze, Le Monnier, 1964, p. 422.
164
imperialistica e colonialistica. Se la Francia, subito dopo la rivoluzione, cioè
in un momento di intenso travaglio politico e morale, era riuscita a tenere a
bada e a vincere gli eserciti coalizzati di mezza Europa, lo doveva anche alla
rigida direzione politica della capitale. Le vittorie napoleoniche e, mezzo
secolo dopo, il trionfo della Prussia di Bismarck, sia all'interno della nazione germanica, sia all'esterno contro l'Austria e la Francia, sarebbero nati
anche dal rigido centralismo della guida politica. Uno stato federale, pur
volendo prescindere dai problemi di politica interna, sarebbe stato fatalmente emarginato nella grande competizione a livello internazionale. Tutto
questo sfuggì a Cattaneo. Nella sua ansia di teorizzare sulla libertà e sulla
democrazia, gli sfuggì l'aspetto più saliente della sua epoca, che cioè l'Europa già da tempo si avviava lungo la via della più spietata competizione politica ed economica: una competizione che si sarebbe tragicamente risolta
solo nei primi decenni del '900, e che sarebbe stata chiamata l'età dell'imperialismo.
Tuttavia oggi è chiaro, ed è in questo che il federalismo si proietta
utilmente nel futuro per giungere ancora vivo fino a noi, che tutto ciò che,
in questo complesso processo di assestamento degli stati nazionali, l'Europa
acquistava in splendore economico e in potere politico, veniva pagato in
termini di democrazia e di libertà. Quando più le nazioni acquistavano coscienza della propria sostanza nazionale, tanto meno sviluppavano, al di là
dei più o meno demagogici suffragi universali, all'interno delle proprie
strutture politiche ed amministrative, quella che oggi viene chiamata democrazia diretta.
E questa democrazia di base, il potere decisionale assunto da ogni
singolo cittadino, rappresenta la parte più cospicua dell'intero messaggio
etico-politico di Cattaneo. Rappresenta proprio quella parte proiettata nel
futuro, che ieri non fu capita e che oggi viene ampiamente recuperata nella
costruzione di una nuova società.
ROSARIO MICHELINI
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cfr. N. BOBBIO, op. cit., p. 43 e segg.
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