Comunicato stampa

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Oltre Le Vette 2013
Le Dolomiti nella pittura del Novecento
Dal 4 ottobre al 3 novembre 2013, a Palazzo Crepadona
LE DOLOMITI LUOGHI DELL'ANIMA
di Giovanni Granzotto
Questa mostra certamente non pretende di rappresentare uno spaccato esaustivo
degli artisti che, nel diciannovesimo e ventesimo secolo, si sono confrontati con una
delle più belle fonti di ispirazione e di immaginazione che l’universo abbia mai potuto
offrire: quel miracolo di natura e di storia, quell’incontro irripetibile di materia di luce
di cielo e di eterno che sono le Dolomiti.
La mostra ha invece l’ambizione di presentare una scelta di opere comunque
significative o per qualità pittorica, o per importanza storica, ma poi vuole anche
rappresentare un momento di approfondimento su alcuni pittori che, nella loro
esperienza artistica, non si sono solo estemporaneamente ispirati a questi luoghi e a
queste montagne, ma di queste meraviglie del creato si sono occupati con continuità;
arrivando addirittura a proporre, su questo tema, un intero ciclo creativo. Tanti,
insomma, prima dell’avvento dell’arte non iconica, ma anche dopo la grande svolta
dell’astrattismo, sono gli artisti che dalle Dolomiti hanno preso ispirazione, e non solo
italiani, non solo quelli che inevitabilmente erano influenzati dal ”genius loci”.
Pensiamo a un pittore come E. T. Compton, ad esempio, che ha ci lasciato magistrali
oli ed acquarelli a memoria del paesaggio dolomitico. In questa mostra si potranno
proprio ammirare splendide testimonianze del grande Maestro, così come di altri
maestri austriaci, e delle autentiche gemme di pittori italiani, come Wolf Ferrari, come
Virgilio Guidi, come Pio Solero, come … tanti altri. Ma quello che è parso
particolarmente stimolante a noi curatoti della mostra, è segnalare alcuni maestri che
delle Dolomiti e nelle Dolomiti, per un certo periodo, hanno creato il loro habitat
naturale; almeno da un punto di vista artistico.
Guglielmo Ciardi
Il primo fra tutti i Maestri dell’Ottocento a dirigersi in questa direzione è stato
senz’altro Guglielmo Ciardi, il principe dell’Accademia a Venezia, il pittore delle lagune
e della campagna trevigiana, ma dopo un determinato periodo anche il pittore delle
Dolomiti. La predilezione di Guglielmo per i paesaggi della zona confinante fra Veneto
e Trentino, legati soprattutto alle Pale di San Martino ed al Civetta, e poi per quelli
della vallata cadorina che partendo da Auronzo raggiunge i confini friulani, arrivando
fino a Sappada, cominciò a tramutarsi in dipinti significativi, in alcune occasioni in
autentici capolavori, dopo il 1885. In questa rassegna ne possiamo incontrare alcuni
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esempi in quadri come “Malga Ces S. Martino”, del 1887, o “Mattino azzurro Sappada”
del 1899, o ancora, tutti dipinti in cui, indipendentemente dalle misure dell’opera, è la
dimensione spaziale e luministica a lasciare il proprio timbro, a connotare, come una
sorta di marchio di fabbrica, la pittura di montagna di Guglielmo. La sua straordinaria,
personalissima rivoluzione nella rappresentazione del paesaggio, con i “Canali della
Giudecca” della fine degli anni sessanta, e con le lagune, le “Campagne trevigiane” e
gli scorci del Sile del decennio successivo, era stata quella di spostare lo sguardo
dell’artista dalla prossimità, dall’immagine in vicinanza, verso un orizzonte sempre più
indefinito spazialmente ed atmosfericamente, anche se perfettamente delineato in
termini compositivi e prospettici. Guglielmo Ciardi, dunque, non aveva proseguito,
come tutti i pittori della sua generazione, nella descrizione più o meno fedele del
paesaggio, ma aveva inteso legarlo ad una concezione mentale e intellettuale della
natura. Quasi un magico incontro fra la pittura naturalista “en plein air” e la veduta di
ascendenze settecentesche. Certo non fu sempre così, col passare degli anni lo fu
sempre meno, ma nelle opere più meditate e conquistate, egli sapeva allontanarsi da
una rappresentazione più o meno calligrafica, magari anche particolarmente felice,
comunque ricca di fiuto luministico, per immergere le sue tele in quella sorta di
spazialità metafisica, in quell’aura immota e fuori dal tempo, che era davvero
prerogativa del solo Guglielmo. E questo sua concezione spaziale egli riuscì a
trasferirla anche nei dipinti di montagna, perlomeno in quelli più ispirati. Certo come ci
sono moltissime marine, di pur ottima fattura, giocate tutte sul tocco e sulla pura
rappresentazione, così una buona parte dei paesaggi ambientati sulle Dolomiti, sono
tavolette o tele in cui i toni e i mezzi toni della sua calibratissima tavolozza, altro
obbiettivo non hanno se non quello di fotografare pittoricamente un’emozione
paesaggistica. Anche in questo Guglielmo non aveva rivali! Ma quando andava oltre e
le montagne divenivano quinte di una magica scenografia spaziale, il miracolo della
sua pittura si era davvero compiuto.
Anche Beppe Ciardi, il figlio Beppe, dipinse frequentemente paesaggi dolomitici, se
pur più numerose furono le sue testimonianze dell’altopiano di Asiago; ci troviamo di
fronte ad esiti sicuramente importanti, in cui però la preminenza viene lasciata al
primo piano, ed a una pittoricità dalle paste alte e dense, con influssi segantiniani,
comunque tardo-divisionisti. Le opere giovanili invece, quelle della fine del secolo, e
nella mostra è presente proprio uno splendido “Civetta”, sono ancora molto vicine alla
pittura paterna, con orizzonti molo dilatati, campi spaziali estesi, ed una stesura più
controllata e morbida. Ed infatti si trattava di opere spesso eseguite a quattro mani,
con padre e figlio assieme.
Pellis
Nella pittura friulana degli inizi del secolo scorso, dopo le poetiche testimonianze di
Marco Davanzo, cantore di un mondo arcaico, forse già sulla strada del proprio
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dissolvimento, e che sembrava egli volesse custodire e proteggere attraverso gli
strumenti della pittura, fu Giovanni Napoleone Pellis a identificare completamente la
sua arte con i luoghi della propria vita: e quei luoghi erano tutti inseriti o circondati
dalle Dolomiti, o erano le Dolomiti stesse.
Pellis diventò e fu davvero riconosciuto come il pittore delle sue montagne, e come
l’inventore di una pittura delle nevi in cui la descrizione dei paesaggi, delle vallate,
delle chiostre montane, dei paesi silenziosi e assopiti, come Forni, come Ampezzo,
come Sappada, si mescolava ad una sorta di rappresentazione plastica, quasi tattile,
degli elementi della composizione e soprattutto della neve stessa. Pellis descriveva ed
allo stesso tempo faceva quasi rivivere fisicamente, attraverso la stessa materia e la
luce della sua pittura, le sue Dolomiti.
Sironi
Avremmo voluto dedicare una sezione importante in questa mostra ad un Maestro che
nelle Dolomiti, a Cortina, aveva scelto di trascorrere parte del proprio tempo, e che
soprattutto aveva anche modulato gli elementi strutturali e compositivi del suo
dipingere, lasciandosi guidare dalle masse, dai volumi, dalla potenza evocativa di
quelle montagne che tanto amava. Parlo di Mario Sironi, che ci ha lasciato alcune
prove formidabili sul tema della montagna, che fondamentalmente era da lui
identificata con le Dolomiti. Sironi era riuscito a miscelare, in un una sorta di
personalissima, plastica e mentale allo stesso tempo, concezione del paesaggio le
paste alte e trasparenti della sua possente, vigorosa pennellata con i volumi, gli echi,
le sonorità di queste montagne. Ma in questo stesso periodo Cortina gli dedica un
grande omaggio, ed è là che invitiamo lo spettatore curioso per riconoscere e
celebrare un altro cantore delle Dolomiti
De Pisis
Come Sironi anche Filippo De Pisis trascorse lunghi periodi a Cortina, che anzi egli
identificò compiutamente con le sue montagne, almeno dalla fine degli anni trenta,
mentre prima, ancora durante il periodo ferrarese, ed all’inizio di quello parigino, nel
1926/27, fu proprio il Cadore, interpretato più che nello svettare delle sue cime, nelle
sintetiche architetture e nelle cromie dei suoi boschi, a influenzare in maniera
rilevante la pittura del giovane Maestro. Nella prima parte degli anni venti, egli inserì
proprio le forme stilizzate degli alberi e delle dolci asperità cadorine, in quella sua
ricerca di impronta letterario-metafisica, in cui tutto era funzionale alla semplificazione
della forma. Successivamente, nei primi anni parigini, il Cadore continuò ad essere una
importante fonte di ispirazione per De Pisis, ma la stesura si era rinvigorita e i
contrasti cromatici accentuati, anche se la tavolozza prediligeva tinte piuttosto scure e
terrose, e tutto, materia e colore, si era molto addensato. Eravamo ancora in una fase
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di semplificazione e di definizione dei volumi e delle masse, molto lontani da quella
pennellata veloce, da quella pittura di tocco e di bagliori, che lo porterà , attraverso
una scrittura quasi stenografica, a inventare sovrapposizioni di piani in cui sarà l’aria e
la luce a prendere il sopravvento. E questo accadrà anche con i moltissimi dipinti
eseguiti a e su Cortina tra la fine degli anni trenta e la fine degli anni quaranta, in cui
saranno le strade, le chiese, le case ed i campanili della cittadina ampezzana a
colloquiare con quei fondali, con quelle quinte naturali che ovunque ci offre la conca
ampezzana. I dipinti di Cortina di De Pisis sono davvero una festa mobile, un attimo di
pura felicità trasmessa.
Tomea
Completamente diverso fu invece l’approccio nei confronti della montagna, della sua
montagna, poiché era proprio nato a Zoppè di Cadore, di Fiorenzo Tomea. Per questo
artista riservato e schivo, profondamente innamorato dell’arte di Massimo Carrà, i
monti erano un elemento costitutivo, come la natura e le persone, della sua terra. A
Tomea non interessava descrivere i luoghi, non interessava nemmeno rappresentarli
come una specificità naturale o ambientale; voleva scoprire e trasmettere attraverso
le tele l’anima profonda, sotterranea, antica e inviolabile del suo mondo,
quell’interiorità che per lui possedevano in egual misura le persone, gli oggetti
domestici, i luoghi. Le Dolomiti per Tomea erano il momento perfetto del silenzio e
della verità, non rappresentavano un paesaggio, non ci offrivano soltanto un
panorama, ma costituivano una frazione di assoluto, e ancor più un percorso per
riconoscerlo. Montagne come nature morte, come maschere e candele, come silenziosi
incontri e processioni di persone. Montagne come creature.
Zoran Music
Ed infine desidero chiudere questa breve carrellata parlando di un artista che aveva
origini ben diverse, quasi opposte: Zoran Music, il goriziano che veniva dal mare e dal
Carso, e che dopo aver girato l’Europa, conoscendo personalmente il dramma della
deportazione, aveva scelto Venezia e poi Parigi come città elettive, ma che proprio a
Cortina, nel 1951, aveva ricevuto il premio Parigi, il primo grande riconoscimento della
sua carriera. Ed a Cortina, circa dieci anni dopo, egli dedica un ciclo intimamente
poetico, una serie di dipinti di una particolare gioiosità cromatica, luminosi e sereni,
soprattutto gonfi di una aerea levità: “Prati a Cortina e “Fiori a Cortina” del 1962/63, di
cui troviamo in mostra un autentico capolavoro, che credo possa indicarci come
quell’andare per i prati e i boschi delle Dolomiti, per Music fosse diventato una sorta di
ristoro del corpo e dell’anima, una specie di lavacro rispetto alle ingiurie e alle
bestialità degli uomini. Ma in mostra troviamo anche due splendide “Cinque Torri”,
posteriori di più di dieci anni, ma soprattutto successive al ciclo “Non siamo gli ultimi”,
dedicato al campo di concentramento, e conseguentemente pregno di una lacerante
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drammaticità. Quando Music dipinge “Motivi vegetali”, “Cinque Torri”, “Paesaggio
rocciosio” è ancora troppo influenzato dal ciclo “Non siamo gli ultimi”, e le memorie
riaffiorate sono ancora troppo vivide e presenti per non condizionare la sua tavolozza e
la tensione compositiva; eppure proprio calandosi nei paesaggi dolomitici, in quei
luoghi colmi di sacralità e di senso dell’infinito, la pittura del Maestro trova la sua
catarsi, riprende una vibrazione sottile e atmosferica, che aveva sempre
accompagnato la sua pennellata. Non è ancora il momento dei prati sereni, ma è
nuovamente un momento di elevazione, di ascesi, di superamento della ponderosa e
dolorante gravità terrestre. Ammirando la natura Music sta ricominciando a
dimenticare gli uomini.
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