Tradizioni d’Africa a Ginevra Le opere della collezione di Josef Mueller ci invitano a scoprire il loro mondo / 06.02.2017 di Marco Horat Il Museo ginevrino Barbier-Mueller si è da molti anni specializzato nella presentazione al pubblico delle varie forme artistiche che hanno caratterizzato in passato soprattutto le molte culture africane; da quando il fondatore Josef Mueller cominciò la sua straordinaria raccolta di oggetti di grande pregio artistico e culturale nella prima metà del ’900, fino a mettere insieme una collezione privata tra le più importanti al mondo. L’interesse per le culture extraeuropee in Occidente aveva fatto in quel periodo molti adepti, sia tra i più famosi artisti (Picasso, Braque, Brignoni, Tzara e tanti altri) sia tra i mercanti d’arte sempre alla ricerca di nuovi oggetti da immettere sul mercato; di qui il diffondersi tra i collezionisti della passione per tutto ciò che non era frutto della tradizione culturale della vecchia Europa: Africa, Asia con Cina, India e Giappone, Nuova Guinea, Melanesia. Fino ad aprile a Ginevra si possono ammirare alcuni capolavori provenienti dalla Costa d’Avorio, che si riferiscono a popolazioni quali gli Yohouré o i Senufo: maschere naturalmente, ma anche statuette e oggetti rituali utilizzati nel corso di cerimonie dedicate al tema della morte, alle divinità del loro pantheon o a figure di antenati. Le maschere sono forse ritratti di personaggi eminenti, di antenati appunto o di divinità, e rivestono quindi un valore religioso; al punto che le donne della tribù non potevano nemmeno vederle, pena la sterilità o la morte, quando venivano indossate dagli uomini nel corso di cerimonie e danze. Le statuette incarnano invece i geni protettori della Natura consultati dagli sciamani mattino e sera per trarne auspici circa la caccia o la guerra (sono quindi veri e propri oracoli). Di queste testimonianze Barbier-Mueller ne ha già esposte parecchie nel corso degli ultimi anni, cercando sempre di abbinare la fruizione estetica all’approfondimento tematico. Questa volta lo fa accompagnando la mostra con uno studio antropologico di Alain-Michel Boyer che degli Yohouré si occupa fin dagli anni ’70. L’iniziativa è interessante anche perché mi pare che da anni l’attenzione della nostra cultura per quelle africane sia decisamente calato a favore dell’Oriente vicino e lontano. Dell’Africa oggi parliamo soprattutto a proposito di guerre fratricide, carestie, corruzione, terrorismo o di migrazioni di popolazioni in cerca di una vita migliore... e poco più. Pare di capire, ma è una mia impressione, che di quel mondo affascinante e visionario di popoli e tradizioni così intimamente legati alla Natura e all’aldilà, che hanno prodotto in passato veri capolavori artistici, non sia rimasto molto. La gente lascia le campagne per andare a vivere in città e qui le cose cambiano, come muta lo stile di vita nei villaggi discosti. Non sempre maschere e oggetti usati in occasioni speciali forse per secoli sono state conservate, anche perché la loro funzione è ormai dimenticata e quindi hanno perso di significato; sono state così vendute sul mercato internazionale a favore di chi riusciva ad arrivare prima sulla preda, musei europei compresi. Bisogna però anche dire che modernizzazione non significa necessariamente abbandono dei valori del passato, poiché il substrato culturale ancestrale continua a vivere sotto la patina della modernità: è sempre successo così fin dagli albori della civiltà in tutte le parti del mondo. Un bel tema di studio per l’antropologia culturale.