IL FATTORE RELIGIOSO NEL DIRITTO DI FAMIGLIA

CAPITOLO PRIMO
IL FATTORE RELIGIOSO
NEL DIRITTO DI FAMIGLIA
SOMMARIO: 1.1. Il valore delle opzioni religiose nelle scelte matrimoniali. –
1.2. Rapporto tra ordinamento civile e ordinamento canonico in relazione al
matrimonio. – 1.3. L’incidenza delle motivazioni religiose nella disgregazione
del consorzio familiare. – 1.4. Matrimonio religioso “privo di effetti civili” e
sua rilevanza giuridica.
1.1. Il valore delle opzioni religiose nelle scelte matrimoniali.
Per il suo essere tradizionale crocevia tra diritto e religione, anche
il matrimonio costituisce da sempre uno degli atti principali attraverso i quali l’individuo soddisfa i dettami della coscienza esercitando il
proprio diritto di libertà religiosa.
Lo stesso concetto di società naturale, incastonato nell’articolo 29
della Costituzione, sintetizza l’intima natura pregiuridica della famiglia, cui è connesso il suo metaforico essere “come un’isola che il mare
del diritto può solo lambire, ma lambire soltanto” (C. A. Jemolo).
Non sfuggono a quest’ordine di idee numerose disposizioni positive, tra le quali spicca la previsione codiciale dei doveri coniugali di fedeltà, coabitazione, collaborazione, assistenza morale e materiale (artt.
143 e 144 c.c.), al cui interno sono sintetizzate molteplici esigenze intrinseche del rapporto coniugale che trovano nell’affectio coniugalis la
principale fonte prescrittiva, ed in gran parte mutuati da precetti religiosi.
Tuttavia, il processo di secolarizzazione che caratterizza la società
contemporanea ha riformulato in una diversa grammatica quello che
ancora può essere considerato, seppure diversamente motivato, un
legame indissolubile tra matrimonium e religio, le cui radici affiorano
già nel diritto romano all’interno della celebre definizione formulata
Matrimonio e
religione
I riflessi della
secolarizzazione
2
La predisposizione
di uno ius speciale
La rilevanza del
fattore religioso
GIUSTIZIA E RELIGIONE
da Modestino: nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium
omnis vitae, divini et humani iuris communicatio (D. 23.2.1).
Questa sintesi di fattori rende ancora più evidente il legame tra
agire giuridico e bisogni dello spirito qualora un determinato comportamento conforme ad un precetto religioso, pur configurando sul
fronte statuale un atto di mero godimento del bene giuridico della
libertà, sostanzia l’adempimento di un dovere sancito dall’ordinamento confessionale.
Anche in materia matrimoniale l’appartenenza religiosa non è priva di conseguenze giuridiche. Difatti, attraverso la predisposizione di
uno jus speciale ad adesione volontaria, è riconosciuta al singolo la
facoltà di aderire ad un sistema matrimoniale alternativo a quello
predisposto all’interno del codice civile per una generalità di consociati religiosamente non qualificata. L’introduzione dell’istituto matrimoniale declinato in chiave pluralista è dunque funzionalmente
ordinata alla promozione dell’interesse del singolo a sviluppare e manifestare la propria personalità anche attraverso l’esercizio di una scelta matrimoniale espressiva della libera osservanza di un precetto religioso al cui rispetto è connessa per il credente la finalità escatologica
della “salvezza dell’anima”.
L’eterogeneità degli interessi coinvolti in tale atto di autonomia
innesca un rapporto tra libertà matrimoniale e libertà religiosa, nel quale la prima, pur conservando la propria autonomia, diventa una proiezione diretta della seconda.
Questo rapporto simbiotico tra libertà matrimoniale e libertà religiosa ha da sempre collocato il matrimonio tra le res mixtae, intese
come quel complesso di materie caratterizzate da una duplice valenza, civile e religiosa, dalla quale deriva una competenza concorrente
tra Stato e confessioni religiose che si è tradotta nella produzione di
una speciale normativa di derivazione pattizia.
1.2. Rapporto tra ordinamento civile e ordinamento canonico
in relazione al matrimonio.
Ordinamento
canonico e
ordinamento
civile: diversità
dei fini
La materia matrimoniale costituisce, dunque, un esempio di contatto anche tra l’ordinamento canonico e quello civile, anche se gli
stessi rimangono ovviamente separati, indipendenti e sovrani, ciascuno nel proprio ordine, così come prescritto all’art. 7, comma 1 della
Costituzione.
IL FATTORE RELIGIOSO NEL DIRITTO DI FAMIGLIA
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Peraltro, al fine di una migliore comprensione della tematica, è
opportuno chiarire che l’ordinamento giuridico canonico risponde a
fini e si basa su presupposti nettamente diversi dall’ordinamento giuridico civile; il primo tende al fine ultimo della salus animarum, il secondo, invece, tende alla pax sociale, cioè alla regolamentazione dei
rapporti civili al fine della pacifica convivenza sociale. La giuridicità
dell’ordinamento canonico è caratterizzata dalla volontarietà e spontanea adesione dei consociati (c.d. christifideles), ed è retto dalla supremazia delle norme di diritto divino naturale.
L’ordinamento giuridico civile è caratterizzato, invece, dalla sua
coercibilità nell’applicazione del sistema di norme di diritto positivo.
In particolare il matrimonio canonico è definito come un “patto”
con cui un uomo e una donna stabiliscono il consortium totius vitae,
cioè la comunione di tutta la vita, finalizzato al “bene dei coniugi” e
alla procreazione ed educazione della prole (can. 1055, c.j.c.), la cui
peculiarità sta nel fatto che è elevato a dignità di sacramento tra
battezzati; tale carattere sacramentale rende essenziali l’unità e l’indissolubilità, intese come qualità di detta tipologia matrimoniale
(can. 1056, c.j.c.).
Per l’ordinamento italiano, invece, pur non essendovi espressamente enucleata una precisa definizione, dal complesso contesto normativo si può evincere che il matrimonio è inteso più tecnicamente come un negozio giuridico di genesi consensuale, da cui derivano per i
coniugi diritti e doveri di natura inderogabile (c.d. solidarietà familiare), sempreché sussista, però, quella unione di tipo naturale della
coppia stessa caratterizzata dalla affectio coniugalis.
Questa diversità di fini e di presupposti delle due tipologie matrimoniali giustifica anche quella separazione e indipendenza delle
due potestà giurisdizionali tese all’accertamento della caducazione dei
presupposti del vincolo matrimoniale.
La possibilità (riconosciuta dalla legge) di trascrivere agli effetti
civili i matrimoni canonici ha creato un sistema complesso ove l’atto matrimoniale è regolato dal diritto confessionale a tutela di una
opzione religiosa, mentre il matrimonio come rapporto è regolato
anche dal diritto civile. Quest’ultimo, tuttavia, è prevalente nel regolamentare le conseguenze giuridiche in caso di crisi del rapporto
o di suoi difetti funzionali, anche se, ed è bene sottolinearlo, in
molti casi le opzioni religiose dei coniugi condizionano non solo la
forma di celebrazione ma anche molte scelte ed indirizzi della vita
familiare.
Diversa
configurazione
dell’istituto
matrimoniale
4
GIUSTIZIA E RELIGIONE
Le differenze appena accennate tra i due sistemi giuridici emergono anche nelle evidenze processuali.
L’indagine svolta dal giudice ecclesiastico nel processo matrimoniale canonico è completamente diversa da quella del giudice italiano: il primo valuta l’atto matrimoniale, diverso per presupposti e finalità (come appena accennato); il secondo valuta il rapporto matrimoniale, e dunque la cessazione dei suoi effetti civili. In sostanza,
come è stato lucidamente affermato dalla Corte Suprema di Cassazione, tra il giudizio dinanzi al Tribunale ecclesiastico relativo alla nullità del matrimonio concordatario e quello dinanzi al Tribunale civile avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio
non sussiste alcun rapporto di pregiudizialità, posto che trattasi di
procedimenti autonomi sfocianti in decisioni aventi non solo diversa
natura, ma anche finalità e presupposti differenti (Cassazione civile,
sentenza 19 settembre 2001).
Corollario di quanto appena evidenziato, è che deve escludersi la
configurabilità di un contrasto della l. n. 898/1970, recante la disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, con l’art. 34 del Concordato con la Chiesa cattolica del 1929, e, quindi, con il nuovo Concordato del 1985.
Lo Stato italiano, infatti, attraverso il Concordato con la Santa Sede, non ha inteso recepire la disciplina canonistica del matrimonio,
limitandosi, invece, a riconoscere al matrimonio celebrato secondo il
diritto canonico, e regolarmente trascritto, gli stessi effetti di quello
celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile, ferma restando la regolamentazione di tali effetti, anche quanto alla loro permanenza nel
tempo, secondo le norme del proprio ordinamento.
In questa materia sono molteplici le sentenze che offrono lo spunto per alcuni rilievi problematici circa la possibile interferenza tra i
due ordinamenti giuridici, quello canonico e quello civile.
Tutte, però, presuppongono un dato comune, e cioè quello dell’accoglimento della tesi relativa all’abrogazione della riserva di giurisdizione in materia di nullità del matrimonio concordatario, potere
giurisdizionale espressamente assegnato in via esclusiva dal Concordato Lateranense del 1929 ai Tribunali ecclesiastici.
In particolare, nelle ipotesi in cui sia celebrato un matrimonio concordatario, e successivamente i coniugi decidano di sciogliere il vincolo
rivolgendosi sia al giudice italiano, sia al giudice ecclesiastico, sorgono
per l’operatore del diritto diversi problemi interpretativi, tra cui la possibile incidenza della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio
IL FATTORE RELIGIOSO NEL DIRITTO DI FAMIGLIA
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canonico sul procedimento o sulla pronuncia di divorzio, ed i relativi
provvedimenti divorzili di natura economica; ovvero l’eventuale contrasto tra le discipline giuridiche dei due differenti ordinamenti.
In primo luogo, dalle problematiche appena accennate va mantenuta distinta la differente situazione in cui siano state proposte dai
coniugi, contemporaneamente, due cause aventi il medesimo oggetto.
Tale contrasto infatti, va risolto, secondo la giurisprudenza italiana di
legittimità, attraverso l’applicazione del c.d. criterio della prevenzione,
che inibisce la delibazione di una successiva sentenza ecclesiastica di
nullità matrimoniale quando sia già intervenuta la pronuncia di annullamento da parte del giudice civile.
Le sentenze di seguito riportate attengono, invece, a fattispecie differenti riguardando le possibili interferenze tra il giudizio dinanzi al
Tribunale italiano di cessazione degli effetti civili del matrimonio,
con quello di nullità instaurato dinanzi al tribunale ecclesiastico.
In secondo luogo, si deve tenere conto della specificità del processo matrimoniale civile, secondo cui, per espressa disposizione normativa, la decisione sullo status dei coniugi deve avvenire prima e in modo autonomo rispetto alle questioni patrimoniali che possono continuare il loro corso nel processo civile.
Ne consegue che le ipotesi di interferenza si avranno tra la sentenza parziale sullo stato civile emessa dal giudice italiano e quella di nullità del matrimonio emessa dal giudice canonico (e resa efficace con il
susseguente giudizio di delibazione).
Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile
Sentenza 26 ottobre-16 novembre 2006, n. 24494
(Cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario)
La Corte Suprema di Cassazione
Sezione Prima Civile
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
dott.ssa Maria Gabriella Luccioli – Presidente
dott.ssa Maria Rosaria San Giorgio – Cons. relatore
(omissis)
ha pronunciato la seguente
Sentenza
(omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con sentenza non definitiva depositata in data 16 gennaio 2002, il Tribunale di
Padova dichiarò, su ricorso di R.F., la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto dallo stesso il 18 settembre 1971 con D.F.D. L., disponendo, con
separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio.
6
GIUSTIZIA E RELIGIONE
2. La sentenza fu impugnata dalla D.F. – che deduceva i propri convincimenti religiosi sulla indissolubilità del vincolo coniugale sulla base dei quali aveva contratto matrimonio, nonché il contrasto dell’istituto della cessazione degli effetti civili del matrimonio con la Costituzione – innanzi alla Corte d’appello di Venezia, che, con sentenza depositata in data 17 marzo 2003, rigettò il gravame, escludendo il dedotto contrasto con
la Carta costituzionale, e sottolineando la genericità dei motivi di appello, in rapporto alla consolidata giurisprudenza nel senso indicato.
3. Per la cassazione di tale sentenza ricorre la signora D.F. sulla base di quattro
motivi. L’intimato non si è costituito nel giudizio.
Artt. 1 ss.
l. n. 898/70
Matrimonio
celebrato davanti a
ministri del culto
cattolico,
art. 82 c.c.
Concordato tra
Stato italiano e
Santa sede del
1929
Principio del
primato della
legge nazionale
nella disciplina
degli effetti civili
del vincolo
coniugale
Rapporti tra
l. n. 898/70,
Concordato del
1929 (art. 34) e
Accordi di
revisione del 1985
MOTIVI DELLA DECISIONE
(omissis)
7. Con il terzo motivo, si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del
1970, artt. 1 e seguenti. Avrebbe errato la Corte territoriale a non tener conto, nella valutazione della legittimità della cessazione, dichiarata dal Tribunale di Padova, degli effetti civili del matrimonio tra il R. e la D.F., delle argomentazioni poste a fondamento
del gravame da quest’ultima, incentrate sulla indissolubilità del matrimonio concordatario da lei contratto per le sue convinzioni morali e religiose, condivise anche dal coniuge all’epoca del matrimonio. La Corte d’appello si era limitata, invece, a valutare la
sola sussistenza del requisito temporale di cui alla citata L. n. 898 del 1970, art. 3, n. 2,
lettera b), senza considerare che la dichiarazione di divorzio non consegue automaticamente alla constatazione della presenza di una delle cause previste dall’art. 3 della
stessa legge.
8. Con il quarto motivo, si denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 82
cod. civ. La pronunzia del divorzio tra la ricorrente e il R. sarebbe contraria alle norme
del culto cattolico garantite dal Concordato concluso con la Chiesa cattolica, ed inoltre
alla stessa comune volontà dei coniugi, che, al momento di contrarre il matrimonio, avevano espressamente accettato e convenuto la indissolubilità dello stesso. La decisione della Corte veneta, che non aveva tenuto conto di ciò, avrebbe violato i diritti
fondamentali della personalità della ricorrente.
9. Il terzo ed il quarto motivo, da esaminare congiuntamente avuto riguardo
alla connessione logica che li avvince, volti, come sono, entrambi alla censura della
opzione favorevole alla possibilità di scioglimento del vincolo contratto con il matrimonio religioso celebrato con rito concordatario, sono infondati.
10.1. Al riguardo, premesso il rilievo della inconferenza del richiamo alla L. n.
898 del 1970, art. 1, il quale si riferisce allo scioglimento del matrimonio contratto
a norma del codice civile, va considerato che lo Stato italiano, attraverso il Concordato con la Santa Sede, non ha inteso recepire la disciplina canonistica del
matrimonio, limitandosi, invece, a riconoscere al matrimonio contratto secondo il
diritto canonico, e regolarmente trascritto, gli stessi effetti di quello celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile, ferma restando la regolamentazione di tali effetti, anche quanto alla loro permanenza nel tempo, secondo le norme del proprio
ordinamento (v., in tal senso, Corte cost., sent. n. 176 del 1973).
Resta, con ciò, ribadito il principio del primato della legge nazionale nella regolamentazione degli effetti civili del vincolo coniugale, già affermato dalla risalente giurisprudenza di legittimità, cui ha fatto correttamente riferimento la Corte
territoriale nella sentenza impugnata (v., per tutte, Cass., sent. n. 5347 del 1980).
10.2. Logico corollario – anch’esso ampiamente sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità (v. Cass., sentt. n. 4921 del 1978, n. 1483 del 1976, n. 835 del
1975, n. 1270 e n. 1334 del 1974) – di siffatto principio è la esclusione della configurabilità di un contrasto della legge n. 898 del 1970, prodotto della scelta adottata dal Parlamento italiano di introdurre nell’ordinamento nazionale la previsione
di casi di scioglimento, e di cessazione degli effetti civili, del matrimonio, con
l’art. 34 del Concordato con la Chiesa cattolica del 1929 (e, quindi, anche con il
nuovo Concordato del 1985).
Del resto, a tale conclusione era pervenuto, già all’indomani della entrata in
vigore della citata L. n. 898 del 1970, lo stesso giudice delle leggi che, con le sen-
IL FATTORE RELIGIOSO NEL DIRITTO DI FAMIGLIA
7
tenze n. 176 del 1973, cit., e n. 169 del 1971 (sulle quali si tornerà tra breve), aveva
escluso che, con i Patti Lateranensi, lo Stato avesse assunto alcun obbligo di non
introdurre nell’ordinamento l’istituto del divorzio.
10.3. Né nel nuovo regime di non indissolubilità del vincolo coniugale è ravvisabile il contrasto, denunciato dalla ricorrente, con i suoi diritti fondamentali di
cattolica, in quanto la previsione della possibilità di porre fine agli effetti civili del
matrimonio concordatario non spiega, com’è ovvio, alcuna incidenza sul vincolo
religioso, la cui permanenza non è affatto posta in discussione, e, pertanto, non
reca vulnus all’esplicazione dei convincimenti etici e religiosi del contraente contrario al divorzio.
Per le ragioni esposte, nessuna rilevanza può assumere, nella specie, la circostanza, posta in evidenza dalla ricorrente, della condivisione delle sue convinzioni morali e religiose, all’epoca in cui era stato contratto il vincolo, da parte del
proprio coniuge, che, tra l’altro, aveva presentato il ricorso per la dichiarazione
del divorzio.
Va, al riguardo, ancora una volta sottolineata la correttezza della sentenza della
Corte veneta, che ha richiamato sul punto la pregressa giurisprudenza costituzionale e
di legittimità. Ed infatti, rileva Cass., 4921 del 1978, cit., che la L. n. 898 del 1970, art. 3
ricollega la pronuncia di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio
a situazioni obiettive, il cui accertamento è rimesso al giudice, senza perciò introdurre
alcuna disparità di trattamento dei coniugi, né lesione di diritti inviolabili della persona,
e pertanto manifestamente non ponendosi in contrasto con gli artt. 2 e 3 della Costituzione. E la stessa sentenza esclude altresì il contrasto con gli artt. 2 e 3 Cost. della L.
n. 898 del 1970, art. 2 della medesima, il quale disciplina la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio religioso.
11. Infine, con il quinto motivo, si eccepisce la illegittimità costituzionale
della L. n. 898 del 1970, art. 2, nella parte in cui consente la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, in particolare, la norma denunciata si
porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., comma 1, nella parte in cui esso sancisce la pari dignità e l’uguaglianza di tutti i cittadini – e, quindi, anche dei coniugi – davanti alla legge, senza distinzione ... “di religione ..., di condizioni personali e sociali”. La stessa norma recherebbe, inoltre, vulnus all’art. 7 Cost., che
stabilisce la sovranità e l’indipendenza dello Stato e della Chiesa “ciascuno nel
proprio ordine” e che i loro rapporti – anche per quanto riguarda gli effetti civili
dei matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico – “sono regolati
dai Patti Lateranensi”.
In attuazione di detta norma, si legge nel ricorso, la L. 25 marzo 1985, n. 121, art. 8
(Nuovo Concordato tra Repubblica italiana e Santa Sede), come già faceva l’art. 34 del
Concordato dell’11 febbraio 1929, disciplina interamente gli effetti civili di detti matrimoni, prevedendo che, una volta che gli stessi siano stati trascritti nei registri dello stato civile, solo le sentenze di nullità di matrimonio pronunciate dai Tribunali ecclesiastici
e dichiarate efficaci nella Repubblica italiana possono far venir meno detti effetti, e non
anche le pronunce di cessazione degli effetti civili emesse da giudici dello Stato italiano su tali matrimoni, come confermato anche dal primo comma della stessa norma,
che afferma che i matrimoni concordatari sono regolati “secondo le norme del diritto
canonico”, che li considera indissolubili. La L. n. 898 del 1970, art. 2 violerebbe, poi,
l’art. 8 Cost., comma 1, che, nel garantire la libertà religiosa, prescrive che “tutte le
confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge” e che “le confessioni
religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in
quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”. La norma censurata si
porrebbe, infine, in contrasto con l’art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili della personalità dell’individuo anche nelle formazioni sociali in cui la stessa si
svolge, come la famiglia; con l’art. 29 Cost., che riconosce i diritti della famiglia come
società naturale fondata sul matrimonio, tendendo a tutelarne l’unità; con l’art. 31
Cost., volto espressamente ad agevolare la formazione della famiglia e l’adempimento
dei compiti relativi.
12. La eccepita questione di legittimità costituzionale è manifestamente infondata.
8
Non vi è contrasto
tra la l. n.
898/1970 e gli
artt. 2, 3, 29 Cost.
…
… né con
l’art. 31 Cost.
…
… né con
l’art. 7 Cost.
…
… né con
l’art. 8 Cost.
GIUSTIZIA E RELIGIONE
13.1. Il contrasto della disciplina della cessazione degli effetti civili del matrimonio con gli artt. 2 e 3 Cost., oltre che con l’art. 29 Cost., era già stato escluso, come si è riferito sub 10.3., da questa Corte con la sentenza n. 4921
del 1978, alla stregua del rilievo che fra i diritti essenziali della famiglia non è
annoverabile quello alla indissolubilità dell’unione matrimoniale, dalla quale
trae origine la famiglia stessa. Questa, come organismo, è tutelata nel momento della sua formazione e nel corso del suo sviluppo, ma non anche in rapporto a situazioni che, conseguenti al venir meno della comunione materiale e
spirituale dei coniugi, ne determinano la fine: proprio perché la famiglia viene
considerata nel suo aspetto di comunità naturale, i diritti intangibili che ad essa si ricollegano, anteriori a qualunque riconoscimento della legge positiva,
restano condizionati alla persistenza del nucleo familiare, come risulta naturalmente operante, venuta meno la quale, la tutela costituzionale cessa di operare.
Alle esposte argomentazioni il Collegio intende prestare piena adesione,
non senza aggiungere che le stesse risultano idonee a dare conto della ritenuta
insussistenza altresì del vulnus all’art. 31 Cost., che, per l’appunto, tutela la
formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, oltre alla maternità, all’infanzia ed alla gioventù, impegnando lo Stato a favorire gli istituti necessari allo scopo, da individuare, peraltro, ad opera del legislatore secondo
modalità e misure rimesse alla sua discrezionalità (v. Corte cost., sent. n. 81 del
1966).
13.2. La citata sentenza di questa Corte n. 4921 del 1978 aveva escluso altresì
la violazione dell’art. 7 Cost., richiamando le precedenti pronunce della Corte costituzionale (parimenti ricordate sub 10.2.) n. 176 del 1973 e n. 169 del 1971.
Quest’ultima, in particolare, aveva sottolineato che, poiché il predetto art. 7 afferma, tanto per lo Stato quanto per la Chiesa, i principi di indipendenza e di sovranità di ciascuno nel proprio ordine, una limitazione della competenza statale
sul punto degli effetti civili del vincolo matrimoniale, che nell’ordinamento statale
nasce dalla legge civile ed è da questa regolata, sarebbe dovuta risultare da una
norma espressa, mentre, in mancanza di questa, non desumibile da argomenti interpretativi, tanto più che, in materia di accordi internazionali, vale il criterio della
interpretazione restrittiva degli impegni che comportino per uno dei contraenti
l’accettazione di limitazioni alla propria sovranità.
13.3. La citata sentenza aveva, infine, respinto il dubbio di contrasto della
disciplina in esame con l’art. 10 Cost., poiché la L. n. 898 del 1970 – come si è già
chiarito sub 10.2. – non contraddice l’art. 34 del Concordato.
13.4. Del tutto inconferente deve, poi, ritenersi il contrasto della stessa legge
con l’art. 8 Cost., che si riferisce alla copertura costituzionale dei diritti delle confessioni religiose diverse da quella cattolica.
13.5. Conclusivamente, il ricorso va rigettato. Non v’è luogo a provvedere sulle
spese del presente giudizio, non essendo stata spiegata attività difensiva dall’intimato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
La Corte Suprema di Cassazione continua statuendo che nel regime di non indissolubilità del vincolo coniugale introdotto nell’ordinamento nazionale dalla l. n. 898/1970, non è ravvisabile alcun
contrasto con i diritti fondamentali del cittadino di fede cattolica, in
caso abbia celebrato matrimonio concordatario, poiché la previsione
IL FATTORE RELIGIOSO NEL DIRITTO DI FAMIGLIA
9
della possibilità di porre fine agli effetti civili del matrimonio concordatario non spiega alcuna incidenza sul vincolo religioso e, pertanto, non reca vulnus alla esplicazione dei convincimenti etici e religiosi
del contraente contrario al divorzio.
In altra decisione, la Cassazione italiana ha aggiunto che non sussiste un rapporto di necessaria pregiudizialità tra il processo di nullità
del matrimonio e quello di separazione personale, che sono autonomi l’uno dall’altro; infatti, prima della pronuncia di nullità, e anche
in pendenza del relativo processo, i coniugi continuano ad essere trattati come tali, con reciproci diritti e doveri, mentre la sentenza di separazione non spiega efficacia di giudicato sul punto dell’esistenza e
validità del vincolo matrimoniale (salvo che sulla relativa questione le
parti abbiano chiesto una decisione con efficacia di giudicato ex art.
34 c.p.c.) e non preclude la delibabilità con dichiarazione di efficacia
civile della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio.
Incidenza e
interferenze delle
decisioni in caso
di concomitante
pendenza della lite
Corte di Cassazione, Sezione Prima Civile
Sentenza 18 maggio 2007, n. 11654
(Matrimonio concordatario e sentenza dichiarativa
della cessazione degli effetti civili)
La Corte Suprema di Cassazione
Sezione Prima Civile
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
dott. Gabriella Luccioli – Presidente
dott. Carlo De Chiara – Cons. relatore
(omissis)
ha pronunciato la seguente
Sentenza
(omissis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il sig. P.F., con citazione del febbraio 2002, ha chiesto alla Corte di appello di Lecce la declaratoria di efficacia nella Repubblica della sentenza ecclesiastica, passata in
giudicato, dichiarativa della nullità del suo matrimonio con la sig.ra P. G. per esclusione
della indissolubilità del vincolo.
La sig.ra P. si è opposta, eccependo il giudicato formatosi a seguito della sentenza
di separazione personale dei coniugi, nonché la violazione del principio di ordine pubblico di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole, essendo ella ignara,
prima del matrimonio, della riserva mentale del marito sulla non indissolubilità del vincolo matrimoniale. Ha, inoltre, in via riconvenzionale subordinata, fatto richiesta di riconoscimento delle provvidenze economiche previste dall’art. 8, n. 2, dell’Accordo di
revisione dei patti lateranensi sottoscritto il 18 febbraio 1984 e ratificato e reso esecutivo con L. 25 marzo 1985, n. 121, nonché dall’art. 129 bis c.c.
La Corte di appello, con sentenza del 26 luglio 2003, ha accolto la domanda dell’attore e respinto la riconvenzionale della convenuta, osservando (per quanto qui ancora rileva):
Fatto
10
Petitum
Causa petendi
Concordato del
1929 e Accordo di
revisione del
Concordato
del 1929
(c.d. Accordo di
Villa Madama)
Reciproca
autonomia del
giudizio di nullità
matrimoniale e del
giudizio per la
separazione
personale dei
coniugi
GIUSTIZIA E RELIGIONE
che non sussisteva il prospettato contrasto di giudicati tra la sentenza di separazione dei coniugi e quella di delibazione della sentenza ecclesiastica, attesa l’autonomia dei due procedimenti, diversi per finalità, obiettivi, petitum e causa petendi;
che neppure sussisteva contrasto con i principi di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole, dovendo ritenersi, sulla base di dichiarazioni rese dalla sig.ra P.
nel processo ecclesiastico, che la riserva mentale del sig. P. le fosse nota prima della
celebrazione del matrimonio;
che la richiesta di provvedimenti economici provvisori ai sensi dell’art. 8, n. 2, del
richiamato accordo del 1984 era da respingere per difetto, quantomeno, del requisito
del periculum in mora, e che quella relativa all’indennità di cui all’art. 129 bis c.c. era
inammissibile, dovendo essere rivolta al tribunale ordinario.
Avverso tale sentenza ricorre la sig.ra P. per quattro motivi, cui resiste il sig. P. con
controricorso. La ricorrente ha anche depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione dell’art. 2909 c.c. e vizio di
motivazione, si sostiene che la sentenza impugnata avrebbe violato il giudicato, implicito
in quello di separazione personale dei coniugi, sulla validità del vincolo matrimoniale, dato
che l’esistenza ed efficacia di tale vincolo costituiscono presupposto logico e giuridico
della pronuncia di separazione e che il giudicato copre il dedotto e il deducibile.
Ciò, ad avviso della ricorrente, è particolarmente vero dopo la modifica del concordato del 1929 tra lo Stato italiano e la Santa Sede mediante il richiamato accordo
del 1984, che ha abolito la riserva di giurisdizione dei tribunali ecclesiastici in materia di
nullità del matrimonio concordatario, rendendo così deducibile la relativa questione
davanti ai giudici dello Stato.
1.1. Il motivo è infondato.
Questa Corte, infatti, già da epoca risalente ha avuto modo di chiarire che tra
giudizio di nullità del matrimonio e giudizio di separazione non sussiste un rapporto di necessaria pregiudizialità, perché prima della dichiarazione di nullità, e anche in pendenza del relativo processo, i coniugi continuano ad essere trattati dalla legge come tali, con reciproci diritti e doveri e le relative azioni per il loro adempimento, e
la questione della relazione fra il giudizio di nullità e quello di separazione deve
essere risolta nel senso dell’autonomia dei due procedimenti (cfr., tra le altre,
Cass. 1093/1967, 5976/1981, nonché Sez. Un. 2602/1974, le quali hanno conseguentemente escluso la necessità della sospensione del processo di separazione in pendenza di quello di nullità o anche – come puntualizza la richiamata Sez. Un. 2602/1974
– di una mera pronuncia di separazione temporanea ai sensi dell’art. 126 c.c.).
Del resto questa Corte ha anche avuto modo di chiarire, più di recente, che –
pur dopo la modifica del concordato del 1929 tra lo Stato italiano e la Santa Sede
mediante il già richiamato accordo del 1984, con la conseguente deducibilità della questione di nullità del matrimonio concordatario nel giudizio di cessazione dei
suoi effetti civili – lo stesso giudicato formatosi in quest’ultimo giudizio non preclude la dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, in quanto tale giudicato non spiega efficacia sul punto della esistenza e
validità del vincolo matrimoniale (salvo che la relativa questione sia stata espressamente sollevata dalle parti e dunque decisa necessariamente con efficacia di
giudicato – trattandosi di questione di status – ai sensi dell’art. 34 c.p.c.), le quali
costituiscono un presupposto della sentenza di cessazione degli effetti civili del
matrimonio, ma non formano oggetto, nel relativo giudizio, di specifico accertamento suscettibile di dar luogo al formarsi di un giudicato (Cass. 4202/2001; in
precedenza, ma sempre in epoca successiva al richiamato accordo del 1984, anche
Cass. 12144/1993 si era espressa nel senso della delibabilità della sentenza ecclesiastica di nullità in presenza di giudicato di cessazione degli effetti civili).
2. Con il secondo motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione,
viene censurata la esclusione della contrarietà della delibanda sentenza ecclesiastica
all’ordine pubblico interno sotto il profilo della violazione dei principi della buona fede e
dell’affidamento incolpevole.
IL FATTORE RELIGIOSO NEL DIRITTO DI FAMIGLIA
11
La ricorrente non contesta il principio di diritto (del resto costante nella giurisprudenza di legittimità) cui ha dichiarato di attenersi la Corte di appello, e cioè che
i principi di tutela della buona fede e dell’affidamento incolpevole non sono violati
allorché la riserva mentale di uno degli sposi in ordine all’esclusione di un bonum
matrimonii (nella specie il bonum dell’indissolubilità del vincolo) fosse conosciuta
o conoscibile (applicando l’ordinaria diligenza) dall’altro. Ritiene, tuttavia, che in
concreto la Corte di merito abbia fatto malgoverno di tale principio nell’osservare
che (torna qui utile la riproposizione testuale del passo della sentenza criticato dalla ricorrente) “dall’interrogatorio reso dalla P. al giudice istruttore del Tribunale Ecclesiastico il 24 maggio 1996 (...) emerge che l’esclusione dell’indissolubilità del sacro vincolo
da parte dell’attore era conosciuta o, quanto meno, conoscibile da parte della convenuta. Costei, al quesito su quali fossero le convinzioni dell’attore, all’epoca delle nozze,
circa il divorzio e l’indissolubilità del matrimonio, si è così testualmente espressa:
“Non ricordo di aver mai avuto scambi di idee con F. circa le sue idee sul divorzio.
Se debbo esprimere una impressione, penso che ritenesse che una coppia in crisi dovesse fare ogni sforzo per salvare il matrimonio; solo quando ogni tentativo fosse andato a vuoto, fosse possibile il ricorso al divorzio, in tal modo rendendo palese che, sia
pure per sua personale “impressione”, si era resa conto che il futuro sposo non era alieno, quale extrema ratio, dal ricorrere alla possibilità di chiedere la declaratoria di
cessazione degli effetti civili nascenti dalla trascrizione del matrimonio concordatario
prevista dalla L. n. 898 del 1970”.
Nel ricorso si critica tale ragionamento della Corte di appello perché:
fa confusione tra esclusione dell’indissolubilità del vincolo e possibilità di richiederne la mera cessazione degli effetti civili, la quale, invece, non intacca la validità sacramentale del matrimonio;
non basta sapere, o addirittura supporre (la ricorrente nel processo ecclesiastico
aveva parlato di una sua “impressione”), che il futuro coniuge può anche seguire ideologie favorevoli al divorzio, per essere definiti consapevoli di una intenzione concretamente simulatoria dello stesso con riferimento specifico al suo matrimonio; intenzione
che, del resto, come risulta dagli stessi verbali del processo ecclesiastico prodotti dal
P., quest’ultimo aveva escluso di aver confidato alla sposa.
2.1. Il motivo non può essere accolto.
È vero che l’esclusione del bonum sacramenti, che presuppone la riserva di
riprendere la piena libertà da ogni legame, con la connessa possibilità di celebrare nuove nozze, non si identifica, concettualmente, con la riserva di ricorrere al
divorzio civile, che di per sé non tocca direttamente il vincolo matrimoniale canonico; ma è pur vero che (come riconosciuto anche nella giurisprudenza ecclesiastica;
cfr. Trib. regionale Vicariato Lazio 13 febbraio 1996) è giustificata la presunzione che
chi si riserva di divorziare abbia appunto l’intenzione di riprendere pienamente la
sua libertà (salva, ovviamente, la prova contraria, di cui però nella specie non si discute), onde, di fatto, i due accertamenti possono ben coincidere.
Ed appunto a ciò ha inteso far riferimento la Corte di appello nella sentenza
impugnata.
Per il resto, il motivo contiene inammissibili censure di merito sulla valutazione del materiale probatorio compiuta dalla Corte di appello (la quale non ha mancato neppure di
considerare la tesi della ricorrente secondo cui il P., nell’ipotizzare lo scioglimento del matrimonio, si riferisse a tutti i matrimoni tranne che al suo, valutandola come non plausibile).
3. Con il terzo e il quarto motivo, da esaminare congiuntamente data la loro connessione, la ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia rigettato la sua domanda
riconvenzionale, riguardante le provvidenze economiche in suo favore, escludendo il
periculum in mora senza considerare le sue condizioni economiche e la sua situazione
di bisogno documentata in atti (terzo motivo), e che abbia dichiarato inammissibile la
domanda volta al conseguimento dell’indennità prevista dall’art. 129 bis c.c. sul rilievo
che la domanda andava proposta davanti al Tribunale, mentre invece, ai sensi dell’art.
8, n. 2, del più volte richiamato accordo del 1984, alla Corte di appello compete il riconoscimento delle provvidenze economiche in via provvisoria in sede di delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio (quarto motivo).
Esclusione dei
bona matrimonii
Art. 129 bis, c.c. e
art. 8, n. 2
dell’Accordo di
revisione del
Concordato
del 1929.
12
GIUSTIZIA E RELIGIONE
3.1. I due motivi sono inammissibili, avendo questa Corte già avuto occasione
di chiarire che il provvedimento con il quale la Corte d’appello, chiamata a delibare la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, disponga, a
norma dell’art. 8, n. 2, dell’accordo del 1984, misure economiche provvisorie a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rientra tra i
provvedimenti aventi funzione strumentale e natura anticipatoria, con la conseguenza che avverso detto provvedimento interinale, per sua natura inidoneo a conseguire efficacia di giudicato (sia dal punto di vista formale sia dal punto di vista sostanziale), non è esperibile il ricorso per cassazione, ammissibile soltanto nei confronti di provvedimenti giurisdizionali che siano definitivi ed abbiano carattere
decisorio, ossia attitudine ad incidere con efficacia di giudicato su situazioni
soggettive di natura sostanziale (Cass. 17535/2003). Le medesime considerazioni
valgono, evidentemente, anche per i provvedimenti che, come nella specie, negano l’invocata tutela provvisoria.
4. Il ricorso va pertanto respinto. La natura e i termini della controversia giustificano la compensazione tra le parti delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso (omissis).
Autonomia e
sopravvivenza dei
provvedimenti
economici
Da ultimo, la Cassazione si è spinta a favore dell’autonomia di due
provvedimenti derivanti da ordinamenti giuridici diversi (quello civile e quello canonico), sostenendo che la sentenza di divorzio, in relazione alle statuizioni di carattere patrimoniale in essa contenute, passa in cosa giudicata rebus sic stantibus; tuttavia, la sopravvenienza di
fatti nuovi, successivi alla sentenza di divorzio, non è di per sé idonea
ad incidere direttamente ed immediatamente sulle statuizioni di ordine economico da essa recate e a determinarne automaticamente la
modifica, essendo al contrario necessario che i “giustificati motivi”
sopravvenuti siano esaminati, ai sensi dell’art. 9 l. 1° dicembre 1970
n. 898, e succ. mod., dal giudice da tale norma previsto, e che questi,
valutati detti fatti, rimodelli, in relazione alla nuova situazione, ricorrendone le condizioni di legge, le precedenti statuizioni.
Ne consegue che il passaggio in giudicato della sentenza della Corte di appello che dichiara efficace in Italia la pronuncia ecclesiastica di
nullità del matrimonio concordatario celebrato tra i coniugi non fa
venir meno in modo automatico i provvedimenti di natura economica contenuti nella sentenza di divorzio, ma necessita di un apposito
giudizio di revisione di detti provvedimenti (cfr. Corte di Cassazione,
7 giugno 2005, n. 11793).