1° e unico premio sezione saggi Tema: Strategie di sopravvivenza di animali e piante Elogio di Jonathan (e dello stormo) Divagazioni sui gabbiani Basta guardare negli occhi un gabbiano reale, rimanere freddati dal bagliore rettiliano dell’iride giallo chiaro e sentire lo sguardo che viene ricambiato, percependosi di rimando oggetto della sua attenzione indagatoria -calibrate oscillazioni del capo ed impercettibili cambiamenti di diametro della pupilla che ci scruta-, per capire che i gabbiani sono un mondo a parte. Non solo nell’universo degli uccelli, ma anche in quella galassia falsamente uniforme degli “uccelli marini”, i sea-birds del mondo anglosassone che vorrebbero raccogliere più o meno sistematicamente tutti i volatili legati alle coste oceaniche o alla liquida distesa blu del mare aperto, ma che con i gabbiani si devono subito arrendere a inattese “fughe ecologiche” verso l’entroterra, le acque dolci, le paludi, ma anche molto oltre, fino alla banchisa remota o al deserto più arido. E se è innegabile che i gabbiani debbano cedere a berte (le “diomedee” dell’epopea omerica) ed albatri la signoria pelagica e arretrare di fronte alla naturalezza assoluta (noncuranza evolutivamente collaudata...) con cui questi falsi parenti frequentano senza tregua il mondo spietatamente salato dell’oceano aperto, non v’è dubbio che sulla fascia litoranea, nell’interfaccia terra-mare, siano loro a farla da padroni. Mancano del virtuosismo delle sterne nel forare la superficie dell’acqua con tuffi mirati alla preda come colpi di fiocina, sulla terraferma dei luoghi di nidificazione sono forse meno disinvolti degli stercorari (più a loro agio con zampe meno anatine e piumaggi color terra), ma l’eclettismo con cui si sono cimentati ed hanno avuto successo imboccando molteplici direzioni che dal mare si allontanavano assai non ha francamente eguali. Osservano, assimilano, affrontano (e risolvono). I gabbiani hanno un’antica vocazione di spettatori partecipanti nei confronti dell’arrabattarsi planetario dell’uomo, ci osservano da sempre, forse più accuratamente di quanto non abbiamo fatto noi. Si prestano, fin dalla nostra lontana infanzia, a finire “iconizzati” in forma di una doppia virgola nel cielo di incerti disegni di bimbi, campeggiano tra battaglie navali e cieli corruschi su più pretenziosi quadri marinareschi ad olio (dove volano sempre, anche con improbabili condizioni meteo), hanno concesso senza ritrosia a Niko Tinbergen e molti altri studiosi di decifrare il significato di loro morfologie e comportamenti, ma se noi abbiamo l’illusione di fermarli sulla carta o siamo convinti di sapere qualcosa sul valore della macchia rossa sulla porzione inferiore del becco, “loro” hanno compreso appieno dove collocarci nel loro variegato sistema di risorse trofiche cui accedere. “Dell’uomo non si butta nulla” li si potrebbe sentir affermare, se intendessimo il senso profondo dei vocalizzi con cui riempiono l’aria quando si aggregano in discarica o attorno ad un peschereccio che ormeggia. È vero, il popolo dei gabbiani (o più tecnicamente, la famiglia dei Laridi) annovera anche un manipolo di puristi, specie “fedeli alla linea” che continuano a catturare solo pesci pelagici e calamari alla superficie del mare, granchi sulla battigia e tra gli scogli, o insetti sfarfallanti sul pelo dell’acqua, ostinandosi –senza scelta peraltro- a inseguire una risorsa sulla quale troppo si sono concentrati e plasmati nel corso dell’evoluzione. Ma accanto a questi (ai quali va ovviamente tutto il rispetto che si tributa agli irriducibili, nonché le nostre più serie attenzioni di conservazione), vi è una folla di buoni a nulla capaci di tutto. Nessuna pratica alimentare è la loro specializzazione stretta, ma tutte sono percorribili e con un po’ di esperienza, apprendimento ed affinamento, arrivano comunque ad una discreta maestria del fare in cui combinano eclettismo (individuale e specifico) e professionalità (acquisita). La struttura corporea assiste, verrebbe di dire. Pensando alla “tribù del gabbiano reale”, il nostro mediterraneo, la genia dei suoi fratelli vicini, nordico, pontico e relative sottospecie (relativamente alle quali solo la genetica recente ci ha permesso di capire qualcosa in quello che un tempo percepivamo solo come un guazzabuglio invernale di forme un po’ diverse che si accalcavano attorno al porto o sul lungomare...), l’ampia cerchia dei suoi parenti nord-atlantici, patagonici, sudafricani, australiani e pacifici, pare di intuire come l’evoluzione abbia insediato, qui e là ai quattro angoli del globo, una modello polivalente da gabbiano tuttofare, sufficientemente grande e forte per risultare una preda impegnativa per altri uccelli, sufficientemente grande e forte per divenire a sua volta un quasi-predatore. Massiccio e compatto, con una massa corporea abbastanza cospicua da non essere più soggetta ai capricci del vento, ed una struttura alare resistente e multifunzionale, capace di potente volo battuto nell’imperversare di una mareggiata o di agili veleggiamenti nelle correnti ascensionali lungo una falesia, il “gabbiano tipo”, quasi una versione opportunistica ed attualizzata dell’archetipo platonico, percorre il limite tra acqua e terra con la sicurezza e l’audacia che gli derivano dall’incarnare un ottimale connubio di robustezza e versatilità (e dei loro corrispettivi comportamentali, combattività ed inclinazione ad apprendere plasticamente e a trasformarsi). Alcune morfologie tradiscono l’originaria destinazione marina, ma nel “genericista” si sono assestate ad un livello compatibile con usi vari ed eventuali. La palmatura delle dita, utile alle pagaiate nell’acqua, è riuscita, complice l’allungamento e l’irrobustimento delle dita e delle zampe, a non diventare un ostacolo alla camminata e a consentire, se non proprio di stare appollaiati sui rami, di usare pali e manufatti come posatoi. Analogamente il becco, che in origine appariva vocato ad un destino intermedio tra la pinza e l’arpione (e questa via ha percorso in gabbiani “particolaristi” come i rosei ed i còrsi), mostra nei gabbiani all-terrain un assetto da robusto strumento multiuso (fatto di margini taglienti, estremità adunca e notevole spessore), tale da farne, alla bisogna, un elemento di offesa, un’arma da taglio, un uncino, buono per ghermire una preda sgusciante sulla superficie del mare, ma altresì per lacerare i sacchi dell’immondizia, aprirsi dei varchi in una carcassa di salmone, o stringere a morte per il collo (e poi finire, sempre a beccate) un pulcinella di mare imprudente, o... O afferrare, manipolare, fare a pezzi ed ingurgitare qualsiasi tessuto animale passi per le fauci e si presti a diventare alimento. Gabbiani compresi, e qui –nella predazione tout-court ad ampio spettro, non nell’occasionale cannibalismo- sta il punto d’arrivo (e di grandiosa apertura ecologica) dell’eclettico divagare adattativo dei gabbiani “grandi” attraverso il genericismo alimentare: su una stirpe di ittiofagi di superficie hanno costruito una potente macchina da cibo che con acume d’osservazione e fantasia applicativa continua ad “inventarsi” nuovi contesti (e modalità, a volte messe a punto sul momento da questo o quell’individuo), in cui un altro essere vivente o sue porzioni possono venir (loro malgrado) a far parte della dieta. Un uovo lo si può facilmente ingoiare senza che si opponga, ma necessita sollevarlo da terra e gestire la sua curva superficie tra le mandibole, un pulcino è altrettanto appetibile, soltanto un po’ più combattivo ma meno scivoloso (e lo sanno bene gli stessi pulcini dei gabbiani, che fin dall’inizio della loro esistenza, poco dopo la schiusa, cercano tramite un voluminoso piumino di apparire molto più grandi e meno ingoiabili da parte di adulti di altre –o della propria- specie...); un passeriforme migratore in arrivo dal mare sulla costa, esausto dopo una notte di volo, è un boccone (o un “beccone”?) facile, ma va raggiunto e fermato in assenza di zampe prensili ed artigliate, quindi abbattuto in acqua con uno schiaffo delle remiganti e poi finito a colpi del fatidico becco. L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma rischierebbe solo di generare antropocentrica riprovazione per quello che è un mirabile opportunismo alimentare, che a volte ha crudamente opposto gabbiani a gabbiani, con gli ittiofagi puristi –come i gabbiani còrsi- a patire l’uso a fastfood delle loro colonie da parte di quegli inarrestabili ingurgitatori che sono i “reali”. A noi, specie umana -ed apoteosi dell’opportunismo nell’accedere alle risorse-, non sta del resto di giudicare (potremmo al limite fare attenzione a non continuare a creare situazioni di degrado che favoriscano i generalisti a scapito dei vulnerabili). E d’altro canto ai gabbiani del nostro giudizio non interessa molto; continueranno anche per il futuro ad osservarci, a scrutarci nella nostra fruibilità, plaudendo ad un sacco di “umido” abbandonato non come prodotto virtuoso di una raccolta differenziata, ma in quanto selezione di potenziali spunti alimentari –crudità organiche e nouvelle cuisine di avanzi di cibi cotti- a cui accedere senza la necessità di separarli da indigeste cartacce o incommestibili pezzi di plastica. Osvaldo Negra