GIULIANA RANIERI
Cultrice di diritto commerciale
Università Mediterranea di Reggio Calabria
IL DISSIDIO INSANABILE E LO SCIOGLIMENTO
DELLE SOCIETÀ PERSONALI
SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il dissidio fra i soci: evoluzione normativa, dottrinale e giurisprudenziale. - 3. Osservazioni conclusive 4. Impossibilità di
conseguire l’oggetto sociale nelle società di persone con due soci. - 5.
Scioglimento ed esclusione nelle società bipersonali.
1.
Premessa
Il dissidio tra i soci nelle società di persone è un tema che
suscita notevole interesse, specie a partire dalla unificazione del
Codice di Commercio nel Codice Civile del 1942, per la peculiarità di quanto è dato riscontrare: per la diffusione nella realtà societaria, nella forma più semplice, del succedersi di situazioni di
conflitto e di stallo.
All’ampia portata nella pratica del fenomeno, fa riscontro la
mancata previsione, sul piano normativo, di qualunque riferimento espresso a tale fattispecie e alla sua rilevanza giuridica, nella
già scarna normativa delle società di persone. Da qui l’interessante lavoro interpretativo della dottrina e della giurisprudenza, che
hanno ricondotto la fattispecie del dissidio alla più ampia tematica
dello scioglimento della società per la impossibilità di conseguire
l’oggetto sociale.
La disciplina normativa delle cause di scioglimento delle so-
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cietà (1) era inizialmente unitaria, nel senso che trovava applicazione, con i necessari adattamenti, per tutti i tipi di società in forza del richiamo contenuto nell’art. 2452 c.c. nella originaria stesura; aveva rilievo indistintamente per tutti i rapporti societari,
salva l’ipotesi del venir meno della pluralità dei soci riferibile,
stante le peculiarità e caratteristiche particolari, alle società di persone in via esclusiva.
In una fase successiva, con la modifica della disciplina delle
società di capitali in un’ottica autonomistica e di maggiore aderenza alle connotazioni capitalistiche, anche la disciplina dello
scioglimento e delle fasi successive, si è diversificata da quella
delle società personali (2).
La autonomia normativa ha condotto ad una netta distinzione: l’art. 2272 del codice civile e ss. è applicabile alla società semplice, alla società in nome collettivo ed alla società in accomandita
semplice; l’art. 2484 c.c. è invece applicabile alle società di capitali ed in particolare alla società per azioni. Su un piano strettamente normativo è appena il caso di ricordare che la disciplina
delle società su base personale, oltre alla norma generale sopra indicata, contiene due ulteriori norme specifiche, dettate per le caratteristiche proprie (struttura e funzione) delle relative tipologie
societarie: l’art. 2308 c.c. per quel che riguarda la società in nome
collettivo, e l’art. 2323 c.c. per la società in accomandita semplice.
Solo un accenno alla ulteriore autonoma disciplina prevista
dall’art. 2497 c.c. per le società a responsabilità limitata, norma
(1) Del tutto differente e non riguardante il nostro tema è la fattispecie relativa allo
scioglimento del rapporto sociale limitatamente a un socio, disciplinato dagli artt. 2284 c.c.
e ss. per quel che riguarda le società di persone. È evidente che tale ipotesi non incide sulla
esistenza della società e non produce l’estinzione del soggetto giuridico in questione, in
quanto il fenomeno esaminato riguarda esclusivamente il singolo socio. Le ipotesi previste
espressamente sono: la morte del socio, disciplinata dall’art. 2284 c.c.; il recesso del socio,
disciplinato dall’art. 2285 c.c., nel qual caso il socio è titolare di un vero e proprio diritto
di non partecipare alla compagine sociale ed alla vita della società nelle ipotesi ivi previste
ed in tutti i casi in cui ricorra una giusta causa, la cui portata è stata ulteriormente ampliata
con la riforma societaria soprattutto nelle ipotesi di dissenso rispetto alla gestione della società da parte del gruppo di maggioranza; l’esclusione del socio disciplinata dall’art. 2286
c.c. e ss. che viene distinta in esclusione facoltativa nelle ipotesi di gravi inadempienze da
parte del socio della legge e del contratto sociale (art. 2286 e 2287), ed esclusione di diritto
in caso di fallimento.
(2) MAFFEI ALBERTI, Comm. Breve al Diritto delle Società, CEDAM 2007, pag. 72 e ss.
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che nella considerazione dello scioglimento, quale fase terminale
della vita della società, ha operato sul piano normativo relativamente ai caratteri, disciplina e connotazione di questo ultimo tipo
di società, una vera e propria rivoluzione di configurazioni tradizionali tanto che, a seguito della riforma, si discute se questa società sia oramai da annoverare tra le società di persone e non più
tra quelle di capitali (3).
Per le società personali, con riguardo al tema che ci apprestiamo a trattare, occorre inoltre considerare l’art. 2272 c.c., al
quale le norme specifiche sopra ricordate espressamente si richiamano, per valutare la natura e gli effetti dello scioglimento, le
conseguenze che produce e il momento dal quale esso opera.
Su piano sostanziale e giuridico, la dottrina prevalente ritiene
che lo scioglimento produca non l’estinzione della società, ma
semplicemente il mutamento del suo scopo sostituendosi alla finalità di svolgere una attività economica tendente alla produzione e
alla ripartizione di utili, quello di definire i rapporti sociali e quindi
di ripartire l’attivo, ove vi sia, nella fase della liquidazione (4).
La giurisprudenza è costante nel ritenere che il semplice verificarsi di una delle cause di scioglimento espressamente previste
dall’art. 2272 c.c. o dal contratto sociale, produca ipso iure i suoi
effetti. Da tale premessa discende, coerentemente, la natura meramente dichiarativa della decisione giudiziale che conclude un procedimento avente ad oggetto la sussistenza (o meno) di una causa
di scioglimento, accertandosi di un fatto, rispetto a un effetto già
verificatosi (5) nella vita della compagine e che comporta l’apertura delle successive fasi della liquidazione e della estinzione della società stessa.
(3) Sulle modifiche normative della società a responsabilità limitata e sul dubbio per
la natura mista tra le società di persone e le società di capitali, cfr. da ultimo: PANUCCIO V., La
nuova società a responsabilità limitata, in In Iure Praesentia, 2003, Giuffrè, pagg. 157-194.
(4) CIAN-TRABUCCHI, Commentario breve al Codice civile, CEDAM, 1992, 1882;
BAZZANO-DABORMIDA-MORINI, Diritto e Realtà. Società semplice e in nome collettivo, Utet,
1994, 51, ss.. Sul mutamento di scopo in caso di scioglimento anche: FERRI, Delle società,
in Commentario Scialoja-Branca, 1968, 204. Di recente: RAGOZZO, Superato l’orientamento della Suprema Corte che equiparava lo scioglimento all’estinzione, Il Sole 24ORE,
Guida al Diritto, Società e contratti, n. 36, 1.1.1996.
(5) Trib. Torino 19.03.1983, Rep. F. It. 84, Società, 777.
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2.
Il dissidio fra i soci: evoluzione normativa,dottrinale e giurisprudenziale.
a) l’evoluzione normativa.
Venendo ora più direttamente al tema oggetto del nostro studio, va subito ricordato che il Codice di Commercio del 1865, sulla scia del codice napoleonico (6), stabiliva (quale causa di scioglimento della società) la “mancanza o la cessazione dello scopo
sociale, o l’impossibilità di conseguirlo”. Deve aggiungersi, per
completezza, che nel predetto codice le cause di scioglimento del
rapporto sociale,limitatamente ad un socio, erano regolate come
cause di scioglimento dell’intero rapporto societario.
Identica formulazione veniva riprodotta nel codice di commercio del 1882, che menzionava, all’art. 189, tra le cause di
scioglimento della società, comportanti l’invalidità del contratto,
la “mancanza o la cessazione dell’oggetto sociale” e “l’impossibilità di conseguirlo”, con l’unica modificazione (apparentemente
solo semantica) della sostituzione del termine “scopo” col termine
“oggetto”.
La formulazione della norma era mantenuta, malgrado qualche oscillazione, nei testi delle commissioni di riforma (7), fino
all’attuale Codice del 1942 che, all’art. 2272 n. 2, ripete sostanzialmente la previsione fra le cause di scioglimento delle società
personali, “il conseguimento dell’oggetto sociale” o “la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo”.
La più importante modifica, da parte del legislatore attuale
sembra riguardare il termine “sopravvenuta”, che è stato correttamente introdotto, in considerazione del fatto che l’impossibilità,
quale causa di scioglimento, se non sopravvenuta, comporterebbe
(6) Il Codice del Commercio abrogato riproduceva la nozione di società civile contenuta nel Codice Napoleonico a struttura romanistica con rilievo meramente obbligatorio
del rapporto, così come la distinzione, ed il relativo criterio di individuazione, tra società
civile e società commerciale.
(7) Il Progetto D’Amelio e il Progetto Vivante prevedono una disciplina in parte diversa da quella del Codice del Commercio in quanto, con riferimento alle fattispecie di
scioglimento della società, vi è la tendenza distinguere tra cause di scioglimento del vincolo
rispetto ad un socio e del rapporto sociale nel suo complesso; nonché la contrapposizione
tra cause di scioglimento che operano di diritto e dipendenti invece dalla volontà dei soci.
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ab origine la invalidità del contratto e lo scioglimento successivo
dello stesso per tale ragione.
Questi rapidi cenni circa lo sviluppo legislativo del tema evidenziano che del dissidio fra soci non si è occupato espressamente il legislatore, fin dall’epoca del primo codice di commercio, anche se il problema è più antico; si ricordi nell’epoca romana la figura del socio rissoso (8), sicché l’istituto è dovuto alle elaborazioni graduali della dottrina e della giurisprudenza.
b) l’evoluzione dottrinale.
L’esigenza del senso comune di trovare una soluzione giuridica alle frequenti ipotesi di conflitto, ha motivato l’attività della
dottrina, che ha iniziato un attento esame delle situazioni concrete
al fine di definire la nozione di dissidio, le caratteristiche, gli effetti, con l’occhio alla impossibilità di conseguire per tale causa,
l’oggetto sociale. L’indagine storico positiva in materia, consente
di ritenere che tale processo di elaborazione abbia già avuto inizio
qualche anno dopo l’entrata in vigore del codice del 1942 (9), riconducendo la dottrina dell’epoca, già da allora, il dissidio alla
impossibilità sopravvenuta della prestazione (10) e richiedendone i
caratteri dell’assolutezza e oggettività (11). Altra dottrina, minoritaria, ha contestato questa conclusione, ritenendo che tali caratteri
(8) L’ipotesi del dissidio era infatti già nota ai Romani che avevano creato la figura
del socius rixosus, anche se come è noto e risulta da testi ulpianei, per la societas romana
non era prospettabile una ipotesi di scioglimento del singolo rapporto sociale, neanche in
ipotesi di morte del socio
(9) L’argomento è stato trattato per la prima volta dal BOLAFFI, La società semplice
1947, rist. 1975, pagg. etc .
(10) Istituto che successivamente si differenziò rispetto all’impossibilità sopravvenuta del conseguimento dello scopo sociale, vedi infra nel testo.
(11) DI SABATO, Manuale delle società, pag. 159; MONTAGNANI, Disfunzioni degli organi collegiali e impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale, Milano, 1993, 77. La
dottrina ha quindi mantenuto anche con riferimento al dissidio, i due caratteri che connotano l’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale, previsti dall’art. 2272 cc., in termini di assolutezza e definitività. L’esperienza dottrinale e giurisprudenziale ha tradotto
questi ultimi caratteri adeguandoli alla nozione di dissidio attraverso un aggettivo costantemente richiamato in quest’ottica “insanabile”. L’insanabilità esprime, dunque, con riferimento al dialogo fra i soci la impossibilità di ripristinare una situazione di accordo e di
apertura reciproca, quindi sostanzialmente, riproduce con riferimento al dissidio i requisiti
della definitività e della assolutezza.
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non sono riferibili alla impossibilità ed al dissidio, come causa di
scioglimento della società, perché questa è originata da situazioni
non neutralizzabili con mezzi (contrattuali) normali, e non è sempre qualificabile come oggettiva (12). Fu proprio il lavoro di creazione condotto dalla dottrina, nel prendere atto dell’emergere di
molteplici situazioni e tipologie di contrasto nella vita reale della
società nel ricondurre le fattispecie concrete e nell’indirizzarle,
induttivamente, nell’alveo della generale ipotesi dell’art. 2272 cc.
al n. 2. La norma, al menzionato punto 2, pone quale elemento
centrale di valutazione ai fini della prosecuzione o meno della vita societaria, l’oggetto sociale (nel senso che preciseremo fra breve) come lo scopo per il quale la società è stata costituita e l’attività che essa intende svolgere per conseguirlo (13).
Le due ipotesi previste, entrambe rilevanti come cause di
scioglimento della società di persone, sono identificabili la prima,
nel caso di raggiungimento dell’oggetto sociale, quando cioè la
società ha raggiunto integralmente la finalità per la quale era stata
costituita, la seconda, quando, invece, si verifichi la impossibilità
di conseguirlo (14). Naturalmente, si avverte, che tale impossibilità deve avere connotazioni precise e soprattutto deve rivestire
una certa importanza e gravità, per far sì che la società si sciolga.
È la stessa norma che precisa, nella adozione del termine “impos-
(12) COTTINO, Diritto Comm., I, 2, 242.
(13) SCHIANO DI PEPE, Le società di persone, Trattato teorico pratico delle società,
Ipsoa, pagg. 441 ss.
(14) Di conseguenza resta privo di rilievo giuridico ai fini dello scioglimento il verificarsi fra i soci di un motivo di disarmonie di minima entità, la dottrina è soprattutto la
giurisprudenza,all’atto della valutazione delle singole fattispecie e della applicazione sul
campo dei vecchi canoni normativo, ha, nel corso degli anni, identificato ipotesi significative di dissidio in cui la mancanza del dialogo costruttivo tra i soci, giunge a determinare la
impossibilità di gestire una impresa sociale. Sul punto si veda. JAEGER-DE NOZZA, Appunti
di diritto commerciale, Milano 1997, pag.183, quale causa di paralisi della società. Il rapporto dissidio-impossibilità di gestione dell’impresa, come causa ed effetto è, quindi, come
motivo di scioglimento e principio stabilito dalla giurisprudenza costante “anche con riferimento alla società con due soli soci, quando il loro dissidio risulta insanabile, e si riflette
sulla gestione dell’impresa, al punto da rendere impossibile il conseguimento dell’oggetto
sociale, si verifica ai sensi dell’art. 2272, n. 2 cc., una causa di scioglimento della società.
La relativa declaratoria può essere demandata in giudizio da ciascuno dei soci, indipendentemente dalla sua eventuale responsabilità circa la cause del dissidio stesso, questo essendo
rilevante, ai fini quj considerai nella sua obiettività” (segue nota 16 nel testo).
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sibilità” che questa deve essere connotata da definitività (15) e assolutezza (16), oltre ad essere ovviamente sopravvenuta (17). Non
è pertanto sufficiente una situazione di impossibilità momentanea
(18), che sia successivamente superabile, né può rilevare, ai fini di
un eventuale scioglimento, la posizione particolarmente critica di
un socio, in riferimento alla possibilità della società di proseguire
la propria attività, poiché occorrono fatti determinati, oggettivi ed
inconfutabili che rendano impossibile su piano giuridico e sostanziale la continuazione dell’attività della società per conseguire lo
scopo comune (19) non bastando critiche soggettive e personali.
Infatti l’elaborazione dottrinale maggioritaria propone una
ulteriore distinzione all’interno della categoria,”dell’impossibilità
di conseguire l’oggetto sociale”, quella tra le cause di impossibilità interne (20) e quelle di impossibilità esterne (21). Posto che in
(15) Il requisito della “definitività” viene riferito dalla dottrina come quell’elemento,
interno o esterno alla società che sia idoneo a troncare definitivamente il rapporto sociale. In
questo senso: CAGNASSO, La società semplice, Tratt. di Dir. Civ., Utet, 1998, pag. 269.
(16) La Suprema Corte già con la antica decisione del 21.7.1981 n. 4683, in RFI,
1981, Società, 328 aveva stabilito: ”L’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale può costituire causa legittima di scioglimento della società (ex art. 2272 cc.n. 2) quando riveste i
caratteri della assolutezza e definitività tali da rendere inutile ed improduttiva la permanenza del vincolo sociale; l’accertamento in concreto, di tali caratteri, cui consegue la dissoluzione del rapporto sociale, si risolve in un giudizio di fatto che è istituzionalmente riservato al giudice di merito.
(17) Il motivo di impossibilità deve necessariamente essere sopravvenuto poiché
laddove si trattasse di una impossibilità di carattere originario non si rientrerebbe più nella
fattispecie dell’art. 2272 c.c., bensì nella diversa ipotesi di cause di invalidità del contratto
intendendosi nella specie il contratto sociale. Si verificherebbe una ipotesi di nullità dello
stesso che comporterebbe, quale conseguenza anche in quel caso, lo scioglimento della società ma per ragioni del tutto differenti strettamente connesse al contratto. In tal senso:
COTTINO, Diritto commerciale, I, 2, 241; MONTAGNANI, op. cit. 72 e ss.
(18) Cass. 6.4.1991 n. 3602, Giur.comm, 1992, II, 384; Cass. 28.8.1952 n. 2783,
DF, 1952, II, 488; Trib. Catania 11.5.1973, G. Comm. 74, II, 314; App. Firenze 29.4.1949,
G.It., 1949, I, 2, 559.
(19) BALESTRA-DE ROSA-GRADASSI-MARIANI, La s.n.c.Utet, 2004, pag.456
(20) Tra le cause di impossibilità interne individuate dalla dottrina (GHIDINI, Società
personali, 789; DI SABATO, op. cit. 159 e ss.; MAFFEI-ALBERTI, Commentario breve al Diritto
delle società, Cedam, 2007, 73): il venir meno della base personale, patrimoniale o finanziaria indispensabili per l’attività sociale, per il venir meno del bene sociale nei casi in cui
lo stesso sia essenziale ai fini del conseguimento dello scopo, per l’esistenza di perdite ingenti. Ed in giurisprudenza anche le peculiari ipotesi di impossibilità interna dell’oggetto
sociale per venir meno della partecipazione del socio considerata essenziale (Cass.
22.10.70 n. 2099, per l’impossibilità di ottenere finanziamenti (Cass. 1975 n. 879).
(21) MONTAGNANI, op. cit. pag. 18 e ss.; DI SABATO, op. cit.
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tale ultima categoria rientrano tutte quelle ipotesi in cui, per fattori congiunturali, o comunque esterni alla compagine e realtà societaria, l’oggetto sociale sia praticamente non conseguibile, attraverso cause di impossibilità interne alla società.
Occorre infine sottolineare un ulteriore carattere del dissidio,
oltre alla insanabilità, che si traduce nella paralisi della vita societaria, puntualizzato dalla dottrina maggioritaria (22), e cioè la totalitarietà: Il dissidio in sostanza deve tradursi in una situazione di
contrasto fra tutti i soci (23) della compagine sociale,o comunque
tra il maggior numero di essi (24). Ciò, in quanto, nella diversa
ipotesi in cui la contrapposizione, le impossibilità di dialogare riguardino un socio ed il resto della compagine sociale, la situazione sostanziale e giuridica è radicalmente diversa: il conflitto del
singolo infatti (salvo che egli non abbia una posizione maggioritaria nella composizione del capitale sociale) difficilmente può causare la paralisi irreversibile e la impossibilità di perseguimento
dello scopo sociale. Si innestano piuttosto qui diverse problematiche che principalmente pongono esigenze di raccordo con la normativa di cui agli artt.2286 cc. ss. (25). In sostanza la posizione di
dissenso del singolo socio comporterà il diverso effetto dello scioglimento non del rapporto sociale nella sua globalità, ma del singolo rapporto, senza coinvolgere la società che continuerà ad operare (26). In altri termini, nel caso in cui il dissidio sia imputabile
(22) BALESTRA-DE ROSA-GRADASSI-MARIANI, op.cit., pag.458.
(23)BOLAFFI, La società semplice, 443. In giurisprudenza: Cass. 13.1.1987 n. 134;
Cass. 15.7.1996 n. 6410; App. Milano, 15.11.1996, Soc., 1997, 552.
(24) Parte della dottrina ritiene che lo stallo decisionale tale da creare una situazione
di paralisi possa verificarsi anche nel caso in cui vi sia una situazione di contrapposizione
tra due soci o due gruppi di soci che determini un totale bilanciamento nei voti espressi da
ciascuno o da ciascun gruppo, rendendo impossibile la formazione della volontà sociale. In
tal senso in dottrina: BAZZANO-DABORMIDA-MORINI, Società semplice e in nome collettivo,
Utet 1994, 55. Contra: COTTINO, Diritto commerciale, I, 2, 239. In giurisprudenza: App.
Milano 5.1.1948 in Foro It., 1948, I, 944.
(25) CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, 118 ha sottolineato lo stretto rapporto tra
il dissidio tra i soci la totale e definitiva paralisi dell’attività sociale, rilevando che qualora
questa non presenti tali connotazioni ma sia imputabile ad uno di essi, dovrà procedersi
all’esclusione e non allo scioglimento; CAGNASSO, La società semplice, Tratt. di Dir. Civ.,
Utet, 1998, 270.
(26) Tipica è l’ipotesi ricorrente nella pratica ed oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali nella quale richiesto lo scioglimento giudiziale della società da uno dei soci
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ad uno o ad alcuni soci in particolare, tale situazione porterà allo
scioglimento del rapporto limitatamente al socio o soci dissenzienti, senza scioglimento del rapporto sociale.
c) L’evoluzione giurisprudenziale.
Numerosissime sono le decisioni giurisprudenziali in materia
di dissidio che hanno valutato, in relazione alle peculiarità delle situazioni concrete, l’incidenza e insanabilità del conflitto, in linea di
massima ritenuto sussistente in tutte le ipotesi in cui i contrasti riguardino l’osservanza e applicazione delle disposizioni del contratto sociale; ad esempio, nel caso di contrasti per la nomina dell’amministratore o del soggetto deputato ad amministrare in luogo di
quello revocato (27); nella mancata partecipazione, nell’ipotesi di
società con due soli soci, di uno dei due (il che è stato ritenuto praticamente incompatibile con la natura stessa del vincolo societario); nonché nella promozione da parte di alcuni dei soci di continue liti giudiziarie (28); nella concreta impossibilità proprio per la
posizione contrapposta dei soci, di formare la volontà sociale (29)
nella gestione dell’attività comune (30), nella impugnativa persistente delle delibere di approvazione dei bilanci (31), etc..
per dissidio interno poiché, come detto autonomo dalla valutazione di eventuali responsabilità, qualora tale dissidio derivi da costanti violazioni dello statuto o del contratto sociale
da parte del socio richiedente o da cause esclusivamente riconducibili a quel socio, il socio
convenuto, costituendosi può chiedere le scioglimento del rapporto sociale esclusivamente
con riferimento all’attore chiedendone l’esclusione (Cass. 83 n. 3779; Cass. 1996 n. 6410)
( 27 ) Trib. Ascoli Piceno 14.6.88, in Soc., 1988, 1256; Trib. Reggio Emilia17.11.1983, Soc. 1984, 681.
(28) In questo senso: Cass. 14.2.1984 n. 1122.
(29) Cass. 1996 n. 6410; Cass. 1984 n. 1122; Cass. 1983 n. 3779, nello stesso senso
anche la giurisprudenza di merito: Trib. Napoli 26.3.2003 in Giurisprudenza di merito
2003, 1099; Trib. Roma 21.1.1985, Società, 85, 1180.
(30) GRECO, Le società nel sistema legislativo italiano, 381, GHIAINI, Le società personali, 790; GALGANO, Le società di persone, 1985, 288; DI SABATO, Manuale delle società,
15 e ss.
(31) Si tratta del fenomeno denominato dalla prassi “impugnativa a catena”, riconducibile al principio di continuità dei bilanci per cui il bilancio successivo che si riferisce
ad altro precedente invalidato, è invalido pure esso per invalidità derivata. Tale principio è
pacifico in giurisprudenza : Cass. 14.12.1982 n. 6943 la cui massima è del seguente tenore:”il logico e necessario collegamento esistente tra i bilanci di esercizio permette di dichiarare la nullità dei bilanci successivi a quello viziato, senza “(addirittura!)”che quest’ultimo venga autonomamente impugnato“. E tale “nullità può essere dichiarata di ufficio una
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Con particolare, complessivo riguardo all’attività giurisprudenziale, è possibile individuare nella evoluzione di cui parliamo,
di quattro momenti salienti dal Codice del 1942 in avanti, significativi mutamenti di decisioni e di orientamenti, taluni dei quali
apparentemente consolidati.
1. - Un primo momento può individuarsi proprio nella fase
immediatamente successiva all’entrata in vigore del Codice Civile
del 1942, in cui la giurisprudenza ha seguito la dottrina, nella ricerca di individuare ed isolare requisiti eclatanti, indicativi obiettivamente del dissidio o nella verifica della perdita dell’intero patrimonio, quali ipotesi di impossibilità di continuazione dell’attività societaria (32) .
2. - Nella seconda fase si è assistito ad un superamento sul
piano pratico dei principi dottrinali consolidati in materia, con alcune decisioni che hanno applicato in maniera estensiva la disposizione dell’art. 2272 c.c. n. 2 ammettendo con larghezza che, venuto a mancare l’accordo tra i soci, si verificasse lo scioglimento
per impossibilità sopravvenuta dell’oggetto (33). La giurisprudenza, con orientamento largheggiante, ha ritenuto sussistente un dissidio insanabile ogni qualvolta risultava la impossibilità di rag-
volta che non risulti violato il principio della domanda”, sicchè resta irrilevante (persino)
“che la questione di nullità della delibera non sia stata prospettata nei gradi di merito”
(Cass. 2.9.2004 n. 17678, pag. 4 motiv. e, da ultimo, Cass. 2004 n. 8204 nello stesso senso: Trib. Napoli, 5.4.2002 in Soc. 2004, 1418).
(32) Cass. 19.06.1947 n. 972; Cass. 31.7.1947 n. 131; Cass. 11.8.1947 n. 1483.
(33) Cass. 10.3.1975, n. 879, più di recente altre decisioni che affermano un principio di elasticità, ritenendo integrata la casa di scioglimento oggetto di indagine in tutte le
ipotesi in cui il conflitto tra i soci determini non la impossibilità dell’oggetto, bensì un
semplice limite, un ostacolo al raggiungimento dello scopo sociale: Cass. 10.3.75 n. 879;
Cass. 14.2.1984 n. 1122.
Nello stesso periodo non sono però mancate posizioni divergenti che hanno sottolineato l’importanza della società e della prosecuzione della relativa attività in un’ottica conservativa dell’impresa: CAMPOBASSO, Diritto Commerciale. Diritto delle società, Torino,
1999, 117; MONTAGNANI, op. cit, 80, che ha affermato la posizione di sussidiarietà dello
scioglimento del contratto sociale rispetto ad altre soluzioni per il superamento di situazioni patologiche.
Anche la giurisprudenza ha manifestato posizioni divergenti da quelle di cui alle
sentenze sopra riportate, nelle quali si è invece sostenuta la non automaticità dello scioglimento del vincolo sociale in caso di contrasti e l’esigenza di accertare la causa ed eventuale imputabilità degli stessi: Tr. Trani, 25.07.1978; Trib. Napoli 17.10.1986, in Giur.
Comm. 1988, II, 654; Trib. Pavia, 15.12.1989, in Società, 1990, 348
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giungere una volontà comune, ovvero in tutti i casi in cui era impedito il processo decisionale comune. Le decisioni di quell’epoca presentavano tuttavia due aspetti che a noi sembrano non condivisibili: in primo luogo, qualora vi fosse coesistenza nel medesimo giudizio tra domanda di scioglimento per dissidio e domanda di esclusione, la causa veniva decisa sulla base dell’anteriorità
della domanda proposta, quindi prevalentemente per lo scioglimento; in secondo luogo non si procedeva alla verifica ed all’indagine sulla eventuale imputabilità del dissidio (tranne che non
sussistesse una ragione esterna oggettiva di impossibilità di conseguimento dello scopo). A fronte di una domanda di scioglimento della società, rimaneva del tutto priva di rilievo giuridico la circostanza che magari all’interno della compagine il dissidio, la
conflittualità, fosse originata da un unico o da pochi soci.
3. - Nella c.d. terza fase, a questa interpretazione assai largheggiante dell’art. 2272 n. 2 c.c., si è contrapposta una opinione
minoritaria che ha tentato di connotare il dissidio collegandone la
nozione all’obbligo di collaborazione che dovrebbe connotare i
rapporti tra soci (34). Il dissidio diventerebbe così determinante ai
fini dello scioglimento solo qualora la condotta del socio o dei soci fosse apertamente in violazione di tale obbligo. Questa opinione è stata oggetto di diverse censure, rilevandosi che le norme codicistiche individuano ma nello stesso tempo limitano, gli obblighi del socio della società di persone, né valutazioni e interpretazioni estensive o sistematiche potevano identificare obblighi ulteriori di collaborazione che a contrario potessero determinare la
configurabilità di un dissidio. Criticamente si è infatti rilevato
che, così facendo, si giungerebbe a sanzionare la inerzia di un socio, anche se la stessa non costituisca violazione di obblighi o divieti di legge, ma per il solo fatto di non avere collaborato.
4. - Nella quarta fase, il superamento di questa tesi si ebbe
grazie ad una lenta rielaborazione segnata in particolare da due
(34) DAL MARTELLO, L’esclusione del socio, Padova, 1939, 93 e ss.. Più di recente:
GALGANO, Società in generale.Società di persone. In Tratt. Cicu-Messineo, XVIII 1982,
327; GUERRERA, voce “Società in nome collettivo”, in Enc. Dir., XLII, Milano, 1990, 938,
secondo il quale la regola della buona fede si concretizza nel dovere di collaborazione per
la realizzazione dell’interesse sociale.
11
sentenze : una decisione importante è quella della Cassazione del
26 ottobre 1995 n. 11151, incentrata sul tema dell’abuso della
maggioranza in sede assembleare. La decisione, attinente a società di capitali, ha recepito ed applicato il principio generale proprio di tutti i tipi di società, di inquadrare cioè la realtà societaria
in una concezione contrattualistica, a tutto tondo, oggi evidenziata
e legittimata dalla recente riforma societaria (35). In questa ottica
sono stati quindi interpretati il contratto sociale posto alla base
della società, la sua esecuzione e l’attività sociale volta al raggiungimento dello scopo, nonché tutti gli ulteriori aspetti problematici che tale orientamento ha avuto il merito di risolvere, su un
piano sostanziale e normativo, attraverso l’interpretazione e l’applicazione dei principi estesi dal campo contrattuale e negoziale.
Questa decisione, frutto e fonte del dibattito dottrinale fino a
quel momento causativo nonché di quello futuro, ha affermato in
particolare un principio contrattuale, quello della immanenza della buona fede (36) nella fase esecutiva del rapporto sociale, ovvero
(35) Introdotta sia sul piano sostanziale che processuale, con identificazione di un
autonomo rito societario per tutte le questioni inerenti la società, dai decreti legislativi del
17 gennaio 2003 nn. 5 e 6.
(36) Una distinzione fondamentale relativa alla nozione di buona fede in particolare,
condivisa da larga parte della dottrina, è quella tra buona fede soggettiva e oggetti va (per
tutti: BIGLIAZZI-GERI, voce “buona fede nel diritto civile”, in Digesto IV, UTET, 1988, pag.
156 e ss): la prima, intesa (in relazione ai diritti reali e al possesso, quindi alla condotta del
soggetto rispetto al bene) come “ignoranza di ledere l’altrui diritto”, in base alla interpretazione anche meramente letterale dell’art 1147 c.c.. La seconda nozione, invece, di buona
fede in senso oggettivo, attiene tipicamente ai rapporti obbligatori ed è fondata sugli articoli 1375, 1337, 1358, 1366, 1460 2° comma c.c.. Questo tipo di buona fede per la dottrina
maggioritaria, costituisce uno dei criteri fondamentali di determinazione della prestazione
(BIANCA, Diritto Civile, vol. 4 L’obbligazione, pagg. 86 e ss. Giuffrè editore; sul punto anche A. SCHERMI, op. cit., pag. 5 evidenzia che l’art. 1375 c.c. cui del pari si richiama il ricorrente, stabilisce che il contratto sociale deve essere eseguito secondo buona fede, vale a
dire con un impegno di cooperazione che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere dagli obblighi espressamente assunti con il contratto, siano idonei
a soddisfare le legittime aspettative dell’altra parte (Cass. 9 marzo 1991 n. 2053), consistendo in “un complesso di doveri o di obblighi variamente destinati ad arricchire il contenuto del contratto o, comunque, ad allargare lo spettro dell’obbligazione” (BIGLIAZZI-GERI,
op. cit., pag. 170). Essa comprende, in sostanza, un complesso di obblighi che, sebbene
non espressamente contenuti nel contratto, quindi non esplicitamente valutati, risultano indispensabili per l’attuazione e l’esecuzione del rapporto obbligatorio e sono connessi alla
prestazione principale. Poiché d’altra parte la buona fede, definita anche come “clausola
generale” è rilevante l’opinione del PREITE, L’abuso di maggioranza e conflitto di interessi,
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in tutte quelle attività poste in essere (37) dai soci che devono condurre al perseguimento e alla realizzazione non già di un interesse
personale ma di quello comune.
Risultano dunque chiari i passaggi della costruzione giuridica di cui abbiamo fin qui discusso: contratto sociale-esecuzione
del contratto-cooperazione per l’interesse sociale- buona fede-perseguimento dell’oggetto sociale.
È evidente che ognuna di tali fasi può presentare ipotesi patologiche, ma la connessione buona fede-esecuzione-oggetto sociale fa sì che, ogni qualvolta la buona fede venga violata nel suo
contenuto omissivo (che parte della dottrina identifica nella “correttezza”), traducendosi in un comportamento commissivo negativo di conflitto, di scontro ed incomunicabilità, si crea il dissidio.
in Trattato delle società per azioni, Portale e Colombo, III, T. 2, Torino 1993, pag. 75: “La
peculiarità della disciplina del contratto sociale, d in particolare, il suo dar luogo ad una
persona giuridica, consentono di affermare poi che tali norme sono imputabili sia ai soci
che alla società, ove la deliberazione sia assunta col voto determinate di soci che le abbiano violate, e altresì di affermare che la loro violazione da luogo insieme alla annullabilità
delle deliberazioni e all’obbligo di risarcimento danni a carico sia della società che dei soci
di maggioranza” di integrazione del rapporto obbligatorio, include obblighi anche non
esplicitati ma integrativi e determinativi della prestazione(BIANCA, op. cit., pag. 86 e ss.),
essa rappresenta un criterio oggettivo di valutazione di un fatto e/o di un comportamento
delle parti.Nel richiamare brevemente tali concetti propri del rapporto contrattuale e della
condotta dei contraenti, non può non considerarsi il qui accennato concetto di “correttezza”.Va tuttavia ricordato che per alcuni autori, la nozione di buona fede oggettiva ricomprenderebbe anche la “correttezza” nell’esecuzione del rapporto plurisoggettivo; per altri,
si tratterebbe invece di due concetti del tutto equivalenti (Per la identità dei concetti: BIANCA, op. cit., pag. 86; la differenza di contenuti è invece sostenuta da BEITI, Teoria generale
delle obbligazioni. I, Milano, 65). Secondo altra posizione la buona fede (oggettiva) e la
correttezza devono invece essere tenute distinte in base al contenuto da attribuirsi rispettivamente. Alla correttezza deve infatti riconoscersi un contenuto puramente negativo, nel
senso che devono farsi rientrare in tale nozione specificatamente i doveri di carattere negativo, ovvero di astensione da un dato comportamento (artt. 1175 e 1337 c.c.) (BEITI, Teoria
centrale delle obbligazioni. I, Milano 1953, 63; BESSONE, Rapporto precontrattuale e doveri di correttezza, Riv. Trim. Dir. Prov. Civ. 1972, 962.).Per converso nella buona fede oggettiva, devono farsi rientrare tutti i doveri di contenuto positivo ai fini dell’esecuzione
dell’obbligazione. Corollari del principio di solidarietà sono gli obblighi di lealtà e salvaguardia, che devono essere posti a base della condotta di ciascun contraente
(37) La dottrina ha ritenuto che nelle società di persone la buona fede può considerarsi oltre che di portata commissiva, anche di contenuto omissivo consistente cioè
nell’obbligo di ogni socio di non ostacolare le attività lecite per il raggiungimento dell’oggetto sociale, tra gli autori: PERRINO, Le tecniche di esclusione del socio dalla società, Milano, 1997, 59 e ss.
13
Qualora tale dissidio assuma le connotazioni dell’insanabilità,
comporterà la paralisi della società ed all’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale, così concretizzando la fattispecie
di cui all’ art. 2272 n. 2 c.c.
La portata innovativa della decisione richiamata è notevolissima su un piano interpretativo e applicativo poiché la nozione di
buona fede con riferimento al dissidio ha portato la giurisprudenza
a valutare, di volta in volta, in concreto l’entità della condotta del
singolo socio e verificare in sostanza se la condotta commissiva di
conflitto integri l’esercizio di un diritto (per es. ripetute azioni giudiziarie per contrastare l’attività illegittima dei soci di maggioranza) o sia invece gravemente inadempiente perché contraria al contratto sociale, alle norme vigenti agli obblighi di buona fede e correttezza e legittimi, per ciò, invece l’esclusione del socio.
L’altra importante decisione in materia di scioglimento è della Corte di Cassazione, 15 luglio 1996 n. 6410, che oltre ad esprimere valutazioni su un piano giuridico ed interpretativo, ha anche
una notevole portata innovativa sotto il profilo processuale. La
decisione ha infatti: ribaltato il precedente orientamento, fondato
sul principio di anteriorità in caso di coesistenza delle due azioni
di scioglimento, che aveva portato attraverso questo criterio asettico e privo di qualunque riscontro col dato reale della causa del
dissidio, ad una molteplicità di decisioni di scioglimento societario per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale; ed ha
escluso il dissidio insanabile se il conflitto è addebitabile ad un
singolo socio, dovendosi ricorrere al rimedio dell’esclusione; ha
infine ammesso lo scioglimento del contratto sociale solo allorquando l’andamento negativo dell’impresa renda obiettivamente
inutile la permanenza del vincolo associativo.
3. Osservazioni conclusive
Da questa panoramica di insieme che abbiamo tentato, della
evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinale sul dissidio, nei
suoi tratti fondamentali, a far data dal 1942, si sembra opportuno
trarre qualche conclusione su due aspetti di teoria generale che ci appaiono fondamentali in base alle esperienze giuridiche raccolte.
14
l) Di fronte alle esigenze della pratica la costruzione del dissidio fra i soci come causa di scioglimento della società appare
quale frutto dell’immaginazione controllata (38) della dottrina, che
ha utilizzato, di contro alle ristrettezze del diritto positivo, rappresentate dal silenzio sull’istituto, ma con una formula generica,avvalendosi di un metodo induttivo e ricorrendo alla interpretazione
sistematica, si è affidata a tre standards legislativi (39):il principio
della buona fede, quello della fiducia cum amico (40),e dell’abuso
della maggioranza (41), applicati alla materia societaria.
2) Non è sfuggito alla dottrina e alla giurisprudenza il cambiamento, solo apparentemente terminologico contenuto
nell’art.2272, n. del codice vigente che ha parlato di “oggetto” e
di impossibilità di conseguirlo in luogo di”scopo”, termine presente, come rilevato nel testo precedente. La differenza non è, come abbiamo accennato, meramente terminologica, ma coinvolge
la problematica concettuale dei rapporti tra oggetto e causa (42)
nell’attività.
Il mutamento del termine dell’originario codice del commercio del 1865 ha portato a controversia dottrinale che non può dirsi
al momento del tutto chiara, perché coinvolgente non solo la differenza fra atto e attività (43), ma anche la nozione di causa della
società (44), che nel nesso con la nozione più generale di attività,
(38) Cfr PANUCCIO V., La fantasia nel diritto, Milano, 1984, pag. 130 e ss.; sui controlli della fantasia v. pure dello stesso A., Il ruolo della fantasia nella interpretazione giuridica, in Studi in onore di P. Rescigno, 1998, pag. 607-622.
(39) PANUCCIO V., Applicazioni giurisprudenziali degli standards valutativi, in Giust.
Civ., 2000, pagg. 85-94
(40) Si tratta evidentemente di fiducia cum amico sulla cui evoluzione concettuale
resta fondamentale lo scritto di PUGLIATTI S., Fiducia e responsabilità indiretta, in Saggi di
Diritto civile, Milano, Giuffrè, 1951 pagg. 226 e ss.
(41) Ci sia consentito richiamare il nostro saggio: Società per azioni, l’abuso e la tutela delle minoranze nelle delibere di aumento di capitale, in In Iure Praesentia, 2006, n.
1, pagg. 2 e ss.
(42) Per le differenze fra la nozione di oggetto e causa e per il suggerimento di sopprimere il concetto di causa nel passaggio dal vecchio al nuovo codice, cfr. PANUCCIO V.,
Per una teoria della causa del negozio in Studi in onore di A. Asquini,, Padova, 1965,
pagg. 1302 e ss. ove è ricordata l’opinione in proposito di Rosario Nicolò.
(43) Su tali differenze, cfr. PANUCCIO V., Teoria giuridica dell’impresa, Milano,
1974, pag. 97 e ss.
(44) Sulla causa della società cfr. PANUCCIO V., Precisazioni in tema di causa della
società, in Vita Notarile, n. 13, 1993, pag. 9 e ss.
15
concerne l’elemento teleologico, sinonimo della causa del singolo
atto o del negozio comportando, senza scendere in ulteriori dettagli, la interpretazione dell’espressione legislativa “impossibilità di
conseguire l’oggetto sociale” di cui al codice vigente nei termini
seguenti. Il concetto di oggetto sociale va tradotto e inteso come
elemento teleologico dell’attività sociale e cioè come realizzazione dell’interesse programmato, risultato cui tende il contratto, nella doppia configurazione di causa generica (cioè di creazione di
un organismo) e di causa variabile, fissata dal contratto stesso
(45). Queste argomentazioni danno la chiave per intendere funditus la differenza fra impossibilità della prestazione relativamente
all’atto singolo e all’attività, che la dottrina e la giurisprudenza
hanno rilevato (46) senza tuttavia il necessario impianto più generale dei rapporti tra oggetto e causa, e quello più specifico
nell’ambito societario.
In sostanza, se vi è impossibilità per cause esterne o interne
di conseguire il risultato, o, in altre parole, di realizzare l’interesse
programmato fissato nel contratto sociale, nel doppio aspetto generico e specifico, deve concludersi che si è realizzata la fattispecie prevista dall’art. 2272 n. 2 cc.
(45) Sulle nozioni di causa generica e variabile già contenute nel lavoro del PANUCV., La cessione volontaria dei crediti nella teoria del trasferimento, Milano, 1955 si
vedano ora gli approfondimenti e le applicazioni negli scritti dell’Autore: Bilancio e prospettive di un’idea (causa generica e causa variabile), parte I, in In Iure Praesentia, 1993,
pagg. 35 e ss. e In Iure Praesentia, 1994, pag. 115 e ss.parte II.
(46) È questo un ulteriore effetto della differenza di disciplina tra atto singolo ed attività, che si aggiunge alle altre differenze esposte in PANUCCIO V., Teoria giuridica
dell’impresa, Milano, 1974, e che valgono a fondare la categoria giuridica dell’attività, distinta nella struttura e nella funzione dall’atto singolo. Questa giustificazione teorica dà ragione, su piano generale, del perché la prassi in materia ha ritenuto ostacoli superabili i
contrasti che riguardano scelte specifiche di politica aziendale (lavorazioni in stabilimento
o all’esterno, acquisto o meno di nuovi macchinari), senza incidere sulla realizzazione dei
fini della società, così anche la mancata approvazione dei bilanci (ovviamente purchè non
si tratti di perdurante continua approvazione di bilanci falsi) o il fatto che i soci si accusino
vicendevolmente per gravi irregolarità negli atti singoli, o ancora l’esercizio del diritto di
veto per tali atti, salvo sempre l’ipotesi in cui tutto ciò sia attuato con rituale sistematicità,
e quindi per tale verso, incida sull’attività nel complesso (Cass. 10 aprile 1969 n. 1155;
App. Milano 19 giugno 1951 in Foro it., 1951, I, 1233; Cass. 10 marzo 1975 n. 879, pubbl. per l’interessante fattispecie dell’esercizio del diritto di veto in Giur. Comm., 1975, II,
584; in Giur. It. 1975, I, 1, 1442 e in Giust. Civ., 1975, I, 1340.
CIO
16
4.
Impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale nelle società di persone con due soci
Problematica particolare suscita l’impossibilità di conseguire
lo scopo nelle società bipersonali. È caso frequente nella pratica
che la compagine sociale delle società di persone sia spesso di entità limitata, comprendente un numero esiguo di soci, il più delle
volte nel numero di due. Questa situazione, molto comune nella
realtà, ha determinato non pochi problemi teorici e pratici, soprattutto di coordinamento con l’istituto dello scioglimento dell’ente
per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale.
La prospettabilità di un dissidio insanabile tra i due soci che
da soli compongano la base personale della società, quale causa di
scioglimento per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, nel
caso in cui tale dissidio presenti i caratteri della insanabilità tale da
determinare la richiamata paralisi dell’intera attività sociale (47), si
presenta di particolare gravità quando i due soci abbiano uguale
partecipazione nella società.
È evidente che la posizione identica e paritaria, ma contrapposta, è particolarmente idonea a creare una condizione di stallo
totale ed irrimediabile nella vita della società (48). La dottrina
(non così la giurisprudenza) ha ritenuto parificabile, nella identità
di situazione e di effetti, l’ipotesi in cui all’interno della società
esiste una pluralità di soci, ma suddivisa in “due blocchi” contrapposti di uguale consistenza (49), che rendono comunque impossibile la formazione di una volontà sociale o comunque il conseguimento del fine sociale.
Ovviamente anche con riferimento a questo tipo di società,
(47) Cass. 2.6.1983 n. 3779; Trib. Roma 28.11.1994; Cass. 14.11.1989 n. 4857;
Trib. Biella 8.11.2006
(48) Trib. Milano 18.1.2006 n. 626 ha ritenuto sussistere dissidio rilevante ai fini
dello scioglimento quello verificatosi nell’ambito di una società in nome collettivo ove uno
solo dei due soci è il finanziatore essendovi una situazione di confusione tra il suo patrimonio e quello societario.
(49) LUBRANO, Insanabile dissidio tra soci di società di persone, prevalenza dello
scioglimento del vincolo particolare e modalità di liquidazione della quota, in Giur.
Comm. 2000, 868 e ss..; BAZZANO-DABORMIDA-MORINI, Le società. Società semplice e in nome collettivo, Utet 1994, 55.
17
occorre verificare la definitività del dissidio, le conseguenze sulla
vita della società e soprattutto la possibilità di un eventuale superamento dello stesso (50).
Come riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, non
mancano in pratica strumenti alternativi introdotti negli statuti,
per superare o evitare ab origine i conflitti o comunque scongiurare le conseguenze e le lungaggini di un procedimento giudiziario
di scioglimento per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.
Per aggirare l’effetto paralizzante del dissidio, vengono spesso previsti meccanismi per dire così, “agevolati”, per consentire
in modo più immediato lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio che crea, all’interno della bipersonale, la situazione di conflitto: o ricorrendo all’intervento di arbitri per l’esclusione, senza attivare il procedimento ex art. 2287 c.c. ultimo comma; oppure modificando il sistema di computo delle maggioranze,
ovvero non più per capi come espressamente previsto dall’art.
2287 c.c., bensì a maggioranza di capitale.
Il primo eventuale rimedio al dissidio non suscita alcun particolare problema per la generale ammissibilità della compromettibilità in arbitri delle questioni societarie anche in una società bipersonale (51); non netta e pacifica è invece la soluzione rispetto
al secondo rimedio. Parte della dottrina ha infatti ritenuto che dare
rilevanza, attraverso la clausola statutaria, alle maggioranze di capitale è sistema che connota le società capitalistiche, certamente
snaturando la diversa natura personale e l’intuitus personae stesso, proprio di tale tipologia sociale (52). La giurisprudenza non ha
(50) Cass. 14.2.1884 n. 1122:”In una società di due soci, quando il dissidio risulta
insanabile e si riflette sulla gestione al punto da rendere impossibile il conseguimento
dell’oggetto sociale, si verifica ex art. 2272 n. 2 non un motivo di recesso del socio, bensì
un caso di scioglimento della società indipendentemente dall’imputabilità all’uno o all’altro socio”
(51) RUBINO-SAMMARTINO, Il diritto dell’arbitrato (interno), Padova, 1994, 131;
SCHIZZEROTTO, Dell’arbitrato, Milano, 1988, 101; LUBRANO, op. cit., 868 e ss. In giurisprudenza: tra le prime decisioni Cass. 28.3.1969 n. 1011; Cass. 3.8.1998 n. 4814. Contraria:
Trib. Como 4.8.1998, in Società, 1999, 200.
(52) LUBRANO, op. cit., 868 e ss.. In senso favorevole: GALGANO, Società in generale.
Società di persone, p. 327; AULETTA, Deroghe contrattuali alla disciplina dell’esclusione
nelle società di persone, II, in Annali del seminario giuridico dell’Università di Catania,
III, nuova serie, Napoli, 1949, 277 e ss.
18
invece affrontato in maniera specifica la questione, tuttavia sembra esistere un orientamento per l’interpretazione tradizionale della norma, quale unico rimedio “alternativo” e prevalente sullo
scioglimento per dissidio (53).
Certamente, a parere di chi scrive, l’introduzione a livello
statutario dei suddetti rimedi, se da un lato potrebbe consentire in
linea con i principi normativi in materia, la conservazione della
struttura societaria e della società stessa, dall’altro contribuisce e
si presta, anche in considerazione della ridotta portata normativa
in materia di società di persone e di società, bipersonali, a tutelare
situazioni nelle quali lo scioglimento rappresenterebbe l’unica soluzione di buon senso, diversamente legittimando posizioni di
prevaricazione e di illiceità del socio inadempiente.
5.
Scioglimento ed esclusione nelle società bipersonali
Il problema dell’imputabilità del dissidio assume particolare
rilievo nella società con due soci. La riferibilità della causa del conflitto ad uno solo dei due componenti solleva in questa ipotesi alcune rilevanti questioni connesse al collegamento dell’art. 2272 n. 2
c.c., con gli artt. 2287 u.c., c.c. e 2272 c.c. n. 4, rendendo necessaria
qualche precisazione circa i rapporti tra la impossibilità di realizzare il risultato dell’attività e l’esclusione del socio rissoso.
In sostanza, la ridotta composizione personale della società
pone in un particolare rapporto le tre norme richiamate, in quanto
provoca l’innescarsi di meccanismi autonomi, e spesso incompatibili, con lo scioglimento. Ciò ha fatto dire ad una parte della dottrina che nelle società di persone composte da due soci, “lo scioglimento della società per insanabile dissidio tra gli stessi può essere pronunciato solo se non ricorrano i presupposti per la esclusione” (54), in quanto sarebbe preliminare decidere se escludere o
no l’altro socio, e, in caso positivo, sarà applicabile l’art. 2272 n.
(53) Trib. Roma, 10.3.1997, in Impresa, 1997, 701; Trib. Napoli 17.7.1996, in Società, 1997, 200.
(54) MAFFEI ALBERTI, op. cit., 73
19
4 c.c., che consente entro sei mesi la eventuale ricostituzione della
compagine societaria. Per ciò si suole dire che i presupposti per lo
scioglimento si accrescono in questa ipotesi, rispetto a quelli consueti, della mancata ricostituzione della compagine nei sei mesi
dalla esclusione .
Insomma, promossa l’azione di scioglimento da uno dei due
soci, se il convenuto eccepisca che la causa del dissidio sia imputabile in via esclusiva all’altro socio, paralizzando così l’azione
iniziale di scioglimento, nella coesistenza delle due azioni, prevale quella di esclusione (55).
Nella sostanza, il socio si viene a trovare nella situazione di
essere rimasto all’interno della società, ma di dovere ricostituire la
integrità della compagine sociale entro il termine dei sei mesi; in
caso contrario, si verificherà lo scioglimento della società. Ma non
già per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, bensì sulla base di quanto stabilito dalla norma da ultimo richiamata. A tale proposito la giurisprudenza ha ulteriormente aggravato le conseguenze
pratiche di questa soluzione, specie con riguardo alla incertezza ed
ai ritardi, avendo stabilito che, essendo la sentenza di esclusione di
natura costitutiva, il termine dei sei mesi per scongiurare il verificarsi della causa di scioglimento decorrerà solo dal passaggio in
giudicato della sentenza ed il mancato assolvimento dell’onere di
ricostituzione della compagine solo da quella data potrà importare
lo scioglimento della società con effetto ex nunc (56), con quali conseguenze sulla vita dell’ente, è facile immaginare.
Una posizione parzialmente difforme, è stata assunta dalla
più recente giurisprudenza (57), la quale ha rilevato che nel caso
(55) Cass. 2.6.1983 n. 3779:”In una società di persone composta da due soli soci,
quando il dissidio fra gli stessi risulti insanabile e si riflette sulla gestione dell’impresa al
punto da rendere impossibile il conseguimento dell’oggetto sociale, si verifica, ai sensi
dell’art. 2272 n. 2, c.c., non un motivo di recesso del socio, bensì una causa di scioglimento
della società; la relativa declaratoria può essere domandata in giudizio da ciascuno dei soci,
indipendentemente dalla sua eventuale responsabilità circa le cause del dissidio stesso, questo essendo rilevante, ai fini dello scioglimento, nella sua obiettività, salvo alla parte convenuta il potere di paralizzare la domanda di esclusione contro l’attore e dimostrando che la
causa del dissidio è imputabile esclusivamente a lui”. Cfr: Cass. 13.1.1987 n. 134.
(56) BALESTRA-DE ROSA-GRADASSI-MARIANI, La s.n.c., Utet 2004, 459. In giurisprudenza: Cass. 1974 n. 1278; Cass. 13.11.1987 n. 134.
(57) Cass. 2004 n. 18243.
20
di dissidio tra i soci di una società di persone bipersonale, causato
da uno solo di essi, che si sia reso responsabile di gravi inadempimenti agli obblighi contrattuali o ad altri doveri ed obblighi di
legge, al socio adempiente si prospettano due alternative: il proprio recesso per giusta causa, oppure l’esclusione del socio inadempiente. In sostanza secondo la SC il dissidio nella società di
due soci “non può costituire causa di scioglimento della società ai
sensi dell’art. 2272 n. 2 c.c., giacché non è tale da rendere impossibile il conseguimento dell’oggetto sociale essendo eliminabile
attraverso uno dei due rimedi predetti” (58). Secondo tale innovativa interpretazione ed applicazione offerta dalla Corte di Cassazione, nell’ipotesi di dissidio insanabile, ma imputabile ad uno dei
due soci, non sarebbe mai configurabile scioglimento per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, perché difetterebbe uno
dei requisiti previsti ex lege: l’assolutezza e definitività ovvero la
irreversibilità della situazione.
In sostanza, considerata la categoria dell’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale per inquadrare l’ipotesi del dissidio fra
soci, quale soluzione limite, estrema per tutti quei casi in cui sia
una situazione di paralisi, la prospettiva muta ove sussistano soluzioni alternative prospettabili nella società di due soci di cui uno
solo sia inadempiente: cioè il recesso per giusta causa o lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al socio responsabile.
Deve ritenersi, dunque, che la decisione in discorso ha certamente una portata innovativa, tuttavia, a parere di chi scrive, risulta contraria e principi normativi generali in materia societaria,
ed appare non sufficientemente consapevole delle conseguenze in
termini di tempi e di incertezza. Infatti, se è vero che, in astratto,
la legge offre al socio la possibilità di recedere per giusta causa, è
pur vero che ciò può risultare violatore del proprio interesse, e
persino penalizzante la posizione di quest’ultimo.
Vogliamo criticamente osservare che la decisione della SC,
nel prevedere l’esercizio del diritto di recesso verrebbe a legittimare una situazione paradossale e ingiusta, in cui il socio adempiente,
che non è responsabile del conflitto, si trova costretto a lasciare la
(58) MAFFEI-ALBERTI, op. cit., 74.
21
società nelle mani del socio resosi responsabile di inadempimenti e
al quale va imputata la situazione di conflitto, dovendosi accontentare, se mai, di un risarcimento ipotetico del danno.
Situazione altrettanto censurabile e paradossale concerne
l’ipotesi della prospettabilità dello scioglimento nella ipotesi di
una società bipersonale che potremmo definire “di fatto”, ossia di
quella compagine nella quale i soci sono più di due ma in concreto esistono “due blocchi” contrapposti di interesse. Si verifica in
tal caso, una situazione sostanziale del tutto identica ad una società di due soci, nella quale è facilmente riscontrabile una paralisi del rapporto societario. Ma, se è indiscussa la possibilità di applicazione dell’art. 2272 n. 2 c.c., la giurisprudenza è invece costante nel ritenere la inapplicabilità al caso in esame dell’art. 2287
comma 3, c.c., ovvero lo scioglimento giudiziale limitatamente al
socio inadempiente del rapporto sociale ricorrendo al tribunale.
Tale posizione assunta dalla giurisprudenza con decisione di oltre
un decennio (59), pur avendo ritenuto rilevante sotto il profilo del
dissidio e dello scioglimento la contrapposizione in “due blocchi”, tuttavia ha escluso l’applicazione al caso dell’art. 2287, co.
3, c.c.. La sentenza ha posto a base della motivazione una interpretazione restrittiva dell’art. 2287 c.c. ultimo comma, qualificata
come norma eccezionale applicabile, appunto, solo all’ipotesi
dell’esclusione di società composta da due “soci” e non da due
“blocchi” di soci, come letteralmente disposto ex lege (60).
Nel tempo non è mutato l’orientamento giurisprudenziale
che, anzi, in una recente decisione (61) riguardante una società tripersonale nella quale tuttavia non dovendosi computare il socio di
minoranza da escludere in posizione contrapposta alla restante
(59) Cass. 1998 n. 153
(60) Conforme: Cass. 19.9.2006 n. 20255 “In tema di società di persone, il ricorso
all’autorità giudiziaria per ottener la pronuncia di esclusione è ammissibile a norma
dell’art. 2287 comma 3 c.c., nel solo caso in cui la società sia composta soltanto da due soci…senza che assuma alcun rilievo la circostanza che all’interno della compagine sociale
siano eventualmente configurabili due gruppi di interesse omogenei e tra loro contrapposti,
e che l’esclusione sia in tal caso rivelarsi impossibile, in virtù del conflitto di interessi che
impedisce di computare nella maggioranza il socio da escludere.”
(61) Cass. 19.9.2006 n. 20255; cfr: Cass. 22.12.2006 n. 27504 con riferimento ad
una società in accomandita semplice.
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parte della compagine, finiva per divenire a tutti gli effetti una bipersonale (ove gli altri due soci rappresentavano l’altro “blocco”),
ha ribadito il precedente orientamento.
La sentenza si è fondata non solo su una interpretazione letterale dell’art. 2287 comma 3,c.c., ma sul principio in materia di
formazione della maggioranza ai fini dell’esclusione, di impossibile formazione nel caso di una bipersonale “pura”. Posta la ratio
di tale previsione, che consente l’intervento del tribunale nel caso
di bipersonale poiché sarebbe impossibile raggiungere una maggioranza, la sentenza ha ritenuto che, diversamente nella tripersonale o nella società personale con più soci, possa formarsi una
maggioranza ai fini di esclusione del socio da escludere non computabile a tal fine.
Anche rispetto a tali conclusioni, la nostra posizione non può
che essere critica, poiché essa appare assolutamente distante dalla
realtà, anzi totalmente astratta ed in contrasto con la tutela delle
situazioni giuridiche soggettive coinvolte nel gioco delle maggioranze. Poiché è di tutta evidenza che se, come nel caso oggetto
della sentenza richiamata, esistono due blocchi di interessi, ed il
socio da escludere non può votare ‘a sensi dell’art. 2287 c.c comma uno, la situazione è in tutto identica alla società bipersonale
con un socio da escludere: è solo un “soggetto”, un socio o gruppo di soci in posizione identica a votare, ed è quindi necessario
anche in caso di blocchi contrapposti, ricorrere all’Autorità giudiziaria. L’abnormità del ragionamento, restrittivo e formalistico,
raggiunge il culmine quando la Corte indica il “rimedio” consentito al socio da escludere: il recesso per giusta causa. In pratica,
poiché è sul piano strettamente pratico che tale situazione deve
essere valutata, il socio da escludere, parte del blocco divenuto di
minoranza, per la sua incompatibilità a votare ha il “diritto” di recedere dalla società magari dallo stesso creata.
Anche tale indirizzo appare piuttosto contrario ad una reale
tutela dei diritti del socio e piuttosto quando il dissidio in una società bipersonale o a blocchi contrapposti sia di entità insostenibile, lo scioglimento dell’intera compagine sociale dovrebbe invece
essere l’unica soluzione giuridica o comunque quella prevalente
suggerita anche dal buon senso e dalla equità.
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Finito di stampare
nel mese di Settembre 2008
presso Officina Grafica srl
Via Matteotti, 4 - Villa San Giovanni
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