LA TEORIA NEOKEYNESIANA (NEW ECONOMICS) Contrariamente all’opinione comune, l’applicazione concreta delle tesi di Keynes non si ebbe immediatamente, con il cosiddetto New Deal Rooseveltiano, ma molto più tardi, nel secondo dopoguerra. In effetti, le idee keynesiane cominciarono ad essere sostenute con vigore e convinzione solo alla fine della seconda guerra mondiale, e finirono per essere accettate ed applicate solo negli anni ’60, quando la loro affermazione intellettuale si accompagnò ad una diminuita opposizione all’interventismo da parte della classe politica e degli uomini di affari. Nel frattempo, la leadership economica e politica era passata dall’Europa agli Stati Uniti. A partire dal secondo dopoguerra, quasi tutti gli sviluppi teorici dell’analisi keynesiana avvengono ad opera di economisti americani. Nell’immediato dopoguerra, gli ostacoli all’accettazione delle idee keynesiane erano molteplici: la tradizionale mentalità ciclica (i cicli facevano parte dell’ordine naturale delle cose ed erano perciò ineliminabili); il pregiudizio della derivata prima (se la direzione del cambiamento era positiva, ed il reddito continuava a crescere, ciò era sufficiente ac acquietare l’opinione pubblica); l’ipotesi di disoccupazione strutturale (per cui la disoccupazione era dovuta alle caratteristiche specifiche del mercato del lavoro e non ad una insufficienza della AD); il principio della sana finanza ortodossa, per cui il bilancio pubblico doveva essere rigorosamente in pareggio. La conquista del primato ideologico da parte della teoria neokeynesiana e la conseguente investitura ufficiale come corrente di pensiero dominante avvenne nei primi anni ’60 negli Stati Uniti con l’Amministrazione Kennedy, la quale propose un programma di politica economica decisamente innovativo, ispirato dall’impostazione teorica della cosiddetta New Economics. Tale denominazione voleva sottolineare il fatto che essa rappresentava un nuovo approccio alla macroeconomia, diverso dall’ortodossia neoclassica. Nella realtà, però, la base teorica della New Economics era un compromesso tra la Teoria Generale di Keynes e la stessa Teoria Neoclassica, presto denominata in letteratura con il termine “Sintesi neoclassica di Keynes”. Tale sintesi era di natura sia positiva, con riferimento alla teoria, sia normativo, con riferimento alla politica economica. 1. La sintesi nel campo dell’analisi teorica. Nonostante i principi ispiratori e le finalità della New Economics fossero tipicamente keynesiani, lo schema di base era decisamente mutato rispetto a quello della Teoria Generale. In particolare i nessi causali keynesiani, riconducibili allo schema: 1 M L i EMC I Y PmaC,G N W P L Y sono giustificati dal rilievo attribuito al tempo storico, alle aspettative ed alle difformi velocità di aggiustamento dei vari mercati. Tali nessi vengono eliminati dal modello della sintesi neoclassica, a favore di uno schema di equilibrio generale in cui si cerca la combinazione di Y e di i in grado di eguagliare domanda e offerta su entrambi i mercati dei beni e della moneta. Tale modello è dovuto ai contributi di Hicks, Hansen, Modigliani e Patinkin, ed è noto in letteratura con il nome di MODELLO IS-LM. Questo schema, in generale, rappresenta una pesante deviazione dal pensiero keynesiano, in quanto il ruolo del tempo storico viene eliminato, le aspettative vengono esogenizzate, e le diverse velocità di aggiustamento sui vari mercati sono eliminate, pur accettando la possibilità che le curve IS-LM, che restano indipendenti, possano subire spostamenti. Il modello si caratterizza per il sistema di equazioni simultanee: IS: Y = C(Y,T,R) + I(i) + G LM: M/P = L(Y,i,R) La IS è costituita dal luogo delle coppie (Y,i) per cui il mercato dei beni è in equilibrio, mentre la LM è costituita dal luogo delle coppie (Y,i) per cui il mercato della moneta è in equilibrio. Nel modello la ricchezza (R) è costituita sia dalla componente finanziaria (M+B)/P, sia dalla componente reale Kq, dove K è lo stock di capitale e q è il rapporto fra il valore di mercato e il costo di riproduzione dei beni capitali. Si suppone inoltre che allo stock di capitale corrisponda un analogo valore delle azioni emesse. Nello schema IS-LM la flessibilità di prezzi e salari è teoricamente in grado di riportare il sistema al livello di piena occupazione. Infatti, in presenza di disoccupazione, se cadono i salari monetari, cadranno anche i prezzi, con un conseguente spostamento verso destra sia della IS (a causa dell’aumento dei saldi di cassa reali e conseguentemente dei consumi) sia della LM (a causa dell’aumento dell’offerta reale di moneta). Il processo descritto è necessariamente convergente una volta esclusi i possibili effetti destabilizzanti di cambiamenti nelle aspettative o della deflazione sui debiti delle imprese. In conclusione, pertanto, con la New Economics la rigidità del salario monetario W torna ad essere la causa di fondo della disoccupazione (proprio come nella teoria neoclassica), nonostante si riconosca che dal 2 punto di vista pratico il processo riequilibratore automatico sia lento ed oneroso. 2. La sintesi sul terreno della politica economica Mentre l’equilibrio di sottoccupazione keynesiano costituisce un’impossibilità (e una contraddizione) logica in presenza di W e P flessibili, per cui, secondo la sintesi neoclassica, la teoria di Keynes è teoricamente erronea, dal punto di vista operativo essa si presenta invece utile nel suggerire provvedimenti in grado di raggiungere più rapidamente il livello di piena occupazione. In effetti lo strumento più appropriato a tale fine è la politica fiscale, che consente di stimolare direttamente e con effetti più potenti la AD. Rispetto alla possibilità di utilizzare la politica economica al fine di raggiungere il pieno impiego, le argomentazioni neokeynesiane possono essere distinte in due fasi cronologicamente successive, a seconda delle ipotesi avanzate sulla pendenza relativa delle curve IS e LM. I FASE: IL FISCALISMO KEYNESIANO (ANNI ‘50) In una prima fase, corrispondente agli anni ’50, la teoria neokeynesiana viene identifica con una posizione di tipo “fiscalista” (sulla base delle considerazioni che si illustreranno tra poco). In tale prospettiva le tesi di Keynes vengono interpretate in senso statico: l’investimento, poco sensibile al tasso di interesse, determina una IS rigida; mentre la domanda di moneta, molto sensibile al tasso di interesse, dà origine ad una LM elastica. L’inclinazione relativa delle curve IS e LM, corrispondenti a questa visione originaria dei neokeynesiani nei primi anni ’50, è rappresentata nella figura 1. A causa della configurazione delle due curve, ne consegue che spostamenti della IS, generati da shock della AD o da politiche fiscali governativi, generano ampie fluttuazioni del reddito. A motivo del fatto che la LM è molto piatta, inoltre, il moltiplicatore effettivo del reddito non è di molto inferiore a quello potenziale ed il fenomeno del crowding-out, pur presente ed inevitabile, è abbastanza limitato. Per contro, nello stesso schema, la politica monetaria non è quasi per nulla efficace: la scarsa pendenza della curva fa sì infatti che incrementi anche notevoli dell’offerta di moneta generino variazioni limitate dei tassi di interesse; queste ultime, poi, a motivo della rigidità della IS, hanno scarsi effetti sull’investimento. Di qui il significato del termine “fiscalismo”, attribuito alle prime versioni della New Economics degli anni ’50: nel modello rappresentato dalla fig. 1, la politica monetaria è praticamente inefficace, mentre la politica fiscale è molto potente. Volendo 3 estremizzarne le conclusioni, si potrebbe in effetti affermare che “solo la politica fiscale conta, mentre la moneta non conta”. Fig. 1. Politica fiscale e shock della AD nel modello keynesiano “fiscalista” i LM IS IS’ Y* Y II FASE: IL MODELLO GENERALE DI CONSENSO (ANNI ‘60) A seguito delle critiche monetariste al modello fiscalista (che saranno esaminate nel prossimo capitolo), l’originario punto di vista neokeynesiano muta sensibilmente, con il risultato di produrre un modello di consenso la cui struttura di fondo diventa accettabile tanto dai monetaristi quanto dai keynesiani. Questo modello di consenso è il tradizionale modello IS-LM dei libri di testo, dove, rispetto alla versione fiscalista originaria, sono mutate le pendenze relative delle due curve: la IS è meno rigida, la LM è meno elastica. Tali modifiche sottendono una rivalutazione del ruolo della politica monetaria, negato negli anni ’50. Con l’accettazione del modello di consenso si aprono però nuove prospettive nella gestione della politica economica: tanto la politica monetaria quanto quella fiscale possono infatti essere adottate per raggiungere Y*, adottando un “policy mix” che consente di ottenere più obiettivi, con diverse strutture della AD. 4 In effetti, avendo a disposizione due strumenti (politica monetaria e politica fiscale), risulta riduttivo puntare ad un solo obiettivo (il pieno impiego), ma diventa ragionevole perseguire obiettivi più ambiziosi quali: un obiettivo statico: la piena occupazione; un obiettivo dinamico: la crescita economica. In particolare, il primo obiettivo è facilmente raggiungibile, tramite diverse combinazioni di politica monetaria e fiscale, mentre per ottenere il secondo occorre favorire un uso più intenso della politica monetaria, volto a stimolare una maggiore accumulazione di capitale, essendo g = g(I). La combinazione ottimale della politica monetaria e fiscale, ovvero il policy mix di lungo periodo ideale per ottenere i due obiettivi del pieno impiego e della crescita, è mostrato nella figura 2. Come si può osservare, mentre il pieno impiego può essere ottenuto sia con una politica monetaria espansiva ed una concomitante politica fiscale restrittiva (punto A) o con una combinazione esattamente opposta (punto B), solo la prima combinazione consente di stimolare la crescita, tramite tassi di interesse bassi e perciò investimenti elevati. Fig. 2. Il “policy mix” ideale di lungo periodo i LM LM’ B A IS’ IS Y* 5 Y È appena il caso di osservare che, in un mondo dominato dalla guerra fredda, ed in cui la supremazia tecnologica degli Stati Uniti era stata messa in dubbio dai successi spaziali sovietici, i Consiglieri economici neokeynesiani di Kennedy suggerirono al Presidente la combinazione corrispondente al punto A: una strategia che si rivelò in seguito vincente, grazie al recupero della superiorità tecnologica americana, che si finì con lo stimolare. Il policy mix ideale di lungo periodo sopra illustrato appare del resto coerente con la logica della sintesi neoclassica: nel breve periodo qualsiasi manovra della AD è utile per neutralizzare scostamenti di Y da Y*; ma nel lungo periodo rimangono valide le indicazioni neoclassiche sui fattori determinanti il tasso di crescita del sistema economico, ovvero maggiori dotazioni di fattori produttivi (lavoro e capitale) e ritmo del progresso tecnologico. Il policy mix precedentemente discusso riguarda la combinazione ottimale di politica monetaria e fiscale in un’ottica di lungo periodo. Anche nel breve periodo tuttavia è possibile sostenere l’esistenza di un policy mix ottimale. In particolare, i sostenitori della New Economics ritenevano possibile una stabilizzazione completa delle fluttuazioni cicliche, attraverso un FINE TUNING degli strumenti disponibili. L’esistenza di stabilizzatori automatici, proposti dagli stessi economisti keynesiani, serviva a smussare le fluttuazioni, ma essi non erano tuttavia sufficienti a stabilizzare completamente l’economia, continuamente sottoposta a shock di AD esogeni. In particolare gli stabilizzatori automatici potevano ridurre l’ampiezza ma non la durata delle fluttuazioni; inoltre gli shock esogeni potevano essere particolarmente accentuati. Si suggerivano quindi politiche discrezionali di stabilizzazione anticiclica, le quali, come si osserverà fra poco, implicavano un policy mix di breve periodo ben preciso. Vale la pena di osservare peraltro come con la New Economics si registra in tal modo un ulteriore allontanamento rispetto alla posizione originaria di Keynes: il problema non è più raggiungere N*, ma piuttosto quello di ridurre le fluttuazioni di Y intorno a Y*. La politica economica assume così caratteristiche ed obiettivi di “STABILIZZAZIONE”, ovvero ci si propone di minimizzare 2Y , inteso come minimizzazione dell’ampiezza e della durata delle fluttuazioni cicliche intorno al reddito potenziale o di pieno impiego. Nell’affrontare gli shock di breve periodo, però, gli strumenti di politica fiscale e monetaria non hanno lo stesso ruolo: la politica monetaria ha effetti asimmetrici, e risulta quindi più utile ed efficace, oltre che rapida, nel reprimere eventuali boom inflazionistici; la politica fiscale, invece, è più idonea ad affrontare situazioni di temporanea depressione, quando le aspettative sono pessimistiche, mettendo in moto effetti moltiplicativi sulla AD. 6 Rispetto a Keynes, infine, la New Economics si contraddistingue per l’enfasi posta sulla tassazione, piuttosto che sulla sola spesa pubblica, come strumento di bilancio: se lo scopo delle autorità di Governo è quello di stabilizzare il reddito, cambiamenti del regime fiscale, soprattutto se di carattere temporaneo, modificano la convenienza temporale a consumare, e diventano un importante strumento di fine tuning. L’uso della tassazione, anziché della spesa pubblica, non implica possibili contrasti tra interessi privati e pubblici, impliciti nelle decisioni di spesa. Essa lascia inoltre pienamente nelle mani dei privati, tramite l’aumento del reddito disponibile e dei consumi, lo stimolo ad aumentare produzione ed occupazione. Dal punto di vista dell’uso della tassazione, vale la pena tuttavia di osservare che il suo moltiplicatore, peraltro negativo, è inferiore, in valore assoluto, a quello della spesa pubblica diretta, ovvero della spesa per acquisto di beni e servizi: ciò è dovuto al fatto che mentre tale tipo di spesa aumenta la domanda direttamente, mettendo quindi in moto l’operare del moltiplicatore dei consumi, la tassazione influisce anzitutto sul reddito disponibile, e solo tramite questo, sulla spesa per consumi, e quindi indirettamente sulla domanda aggregata. Se per esempio la tassazione è di tipo lump-sum, e la propensione marginale al consumo è pari a c, il moltiplicatore della spesa pubblica diretta sarà 1/(1-c), mentre quello della tassazione sarà –c/(1-c). Naturalmente se la spesa pubblica è di tipo per trasferimenti (pensioni, sussidi, pagamenti di interessi, ecc.), il suo moltiplicatore sarà analogo a quello della tassazione, ovvero pari a c/(1-c). L’esistenza di moltiplicatori difformi per la spesa pubblica e la tassazione consente di attribuire un ulteriore grado di flessibilità alla politica fiscale. Si immagini infatti di aumentare la spesa pubblica diretta e la tassazione di uno stesso ammontare: G=T, di modo che la misura sia ininfluente sul bilancio dello Stato, che non muta (per questo si parla di bilancio in pareggio). A motivo della difformità dei moltiplicatori, la misura non avrà effetti nulli sul reddito, ma anzi quest’ultimo aumenterà nella stessa misura in cui sono aumentate tasse e spese, per cui avremo: YG=T (per cui potremo parlare di “moltiplicatore del bilancio in pareggio”). Questo risultato appare in contrasto con l’ortodossia tradizionale, secondo la quale qualsiasi manovra di bilancio in pareggio sarebbe ininfluente sul livello della produzione. Dal punto di vista pratico, inoltre, la manovra si presenta utile perché aumenta gli strumenti a disposizione delle autorità, consentendo inoltre di utilizzare una manovra che si sottrae alla critica di generare indesiderati disavanzi di bilancio. Gli insegnamenti fiscali keynesiani sopra illustrati furono messi in pratica dalla Amministrazioni Kennedy e Johnson nei primi anni ’60: robusti tagli fiscali permisero di contrastare la diminuzione spontanea della domanda che avrebbe generato effetti negativi su reddito e occupazione. 7 IL MODELLO MUNDELL-FLEMING (ANNI ‘60) Con l’aumentare delle transazioni di beni, servizi e capitali con il resto del mondo, nel corso degli anni ’60 diventava necessario considerare esplicitamente le caratteristiche di un’economia aperta; ciò ha importanti conseguenze per l’uso più appropriato degli strumenti di politica economica per fini alternativi. In un’economia aperta, l’obiettivo esterno è rappresentato dall’equilibrio della Bilancia dei Pagamenti (BP), così definibile: BP = BPC+MC = NX(Y,E)+K(i-i*- E e ) = X(E)-EM(Y,E)+K(i-i*- E e ) La bilancia dei pagamenti sarà pertanto in equilibrio se: BP = X(E)-EM(Y,E)+K(i-i*- E e ) = 0 Il modello elaborato negli anni ‘60 da Mundell e Fleming ha per oggetto l’uso appropriato della politica monetaria e politica fiscale in una economia aperta: a seconda del regime di cambi vigente, il modello suggerisce la combinazione ottimale degli strumenti di politica economica per il raggiungimento dell’obiettivo interno (il pieno impiego) e di quello esterno (l’equilibrio della bilancia dei pagamenti). Tale combinazione ottimale finisce per dipendere in maniera fondamentale dal sistema monetario di riferimento, ovvero dal fatto che si operi in regime di cambi fissi o flessibili. CAMBI FISSI Se i cambi sono fissi, E è dato (ed inoltre E e =0), per cui l’equazione BP = 0 individua tutte le coppie (Y,i) in grado di assicurare l’equilibrio esterno; tale equazione quindi può essere introdotta come e equazione aggiuntiva, nello schema IS-LM, come scheda BP. Il nuovo sistema è ora costituito da tre equazioni (IS,LM,BP) e da due incognite (Y,i); esso risulta così sovradeterminato: un’ulteriore variabile deve allora risultare endogena; come si vedrà tra poco, ciò implica che uno strumento non è più sotto il controllo delle autorità. La BP è positivamente inclinata, e si assume essere più piatta rispetto alla LM. Infatti la pendenza della LM dipende dalla sostituibilità tra moneta e titoli, cioè tra attività finanziarie con liquidità e scadenze diverse; la pendenza della BP dipende invece dalla sostituibilità tra attività finanziarie nazionali ed estere, e quindi tra attività finanziarie con scadenze simili: in mercati dei capitali sviluppati, la sostituibilità è maggiore nella BP che nella LM, per cui la BP è più piatta della LM. 8 Fig. 3. Il modello Mundell-Fleming i LM BP IS Y* A) Manovra di politica monetaria Y Consideriamo ora, nel modello Mundell-Fleming, gli effetti di una politica monetaria espansiva. Le conseguenze di tale manovra sono illustrate nella figura 4. Fig. 4. La politica monetaria in cambi fissi i LM LM’ BP E E’ IS Y* 9 Y Il punto E rappresenta una situazione di equilibrio iniziale simultaneo sui mercati della moneta, dei beni e dei cambi. Una espansione monetaria in un’economia chiusa porterebbe il sistema da E ad E’, posizione che implica un deficit di BP (una caduta del tasso di interesse genera movimenti di capitale in uscita); pertanto la posizione E’ non è di equilibrio stabile. Lo squilibrio di BP in regime di cambi fissi genera un deflusso di moneta corrispondente alla riduzione delle riserve ufficiali. Essendo M s = M I BP (componente interna + componente esterna), le autorità, a fronte dello squilibrio di BP, hanno due alternative: sterilizzare il deflusso di moneta mediante M I >0; in tal caso, però, la BP rimarrebbe perennemente in passivo e le riserve diminuirebbero continuamente fino ad arrivare ad una situazione insostenibile; seguire la regola aurea di Wicksell, cioè tenere costante M I e lasciare che M s segua BP. In tal caso il deflusso di valuta riduce l’offerta complessiva di moneta e riporta il sistema in E. Se ne conclude che in cambi fissi LA POLITICA MONETARIA E’ COMPLETAMENTE INEFFICACE: l’offerta di moneta è subordinata all’equilibrio esterno; reddito e tassi di interesse sono determinati dall’incontro tra la IS e la BP. La terza incognita del sistema deve essere M s , che diventa variabile endogena. Si ha dunque un sistema di tre equazioni (IS,LM,BP) e tre incognite (Y, i, M). B) Manovra di politica fiscale Consideriamo ora, nel modello Mundell-Fleming, gli effetti di una politica fiscale espansiva. Le conseguenze di tale manovra sono illustrate nella figura 5. Per raggiungere Y* è sufficiente implementare una espansione fiscale tale da portare la IS in IS’ (molto meno che in economia chiusa, dove sarebbe necessario far spostare la IS più a destra e in alto, fino ad intersecare la LM al livello di reddito di pieno impiego). Si passa così dal punto di equilibrio E al punto di equilibrio E’; qui si ha un surplus di BP, il quale, sulla base dei meccanismi esposti in precedenza, sposta la LM fino a raggiungere l’equilibrio esterno (ed interno) in E’’. Se ne conclude che LA POLITICA FISCALE E’ MOLTO PIÙ EFFICACE CHE IN ECONOMIA CHIUSA; qualora la BP fosse piatta essa sarebbe addirittura PIENAMENTE EFFICACE, in quanto l’invarianza del tasso di interesse non determinerebbe alcun effetto di crowding-out. 10 Fig. 5. La politica fiscale in cambi fissi i LM LM’ E’ BP E’’ E IS’ IS Y* Y Sulla base della discussione precedente, si ricavano le seguenti conclusioni: In cambi fissi una corretta assegnazione degli strumenti agli obiettivi prevede che la politica monetaria sia impiegata per raggiungere l’equilibrio esterno, mentre la politica fiscale sia impiegata per raggiungere l’equilibrio interno. CAMBI FLESSIBILI In un regime di cambi flessibili le conclusioni precedenti vengono totalmente rovesciate. C) Manovra di politica monetaria Cominciamo a considerare gli effetti di una politica monetaria espansiva, le cui conseguenze sono illustrate nella figura 6. Per raggiungere Y* è sufficiente una espansione monetaria da LM a LM’ (molto meno che in economia chiusa, dove era necessario spostare la LM a destra e verso il basso fino a intersecare la IS al livello di pieno impiego). In seguito alla manovra, e alla conseguente riduzione di i, la BP va inizialmente in deficit (punto E’) ed il cambio si svaluta. Sotto la validità della condizione di 11 Mashall-Lerner ( x m 1 ), la IS si sposta a destra e contemporaneamente la BP si sposta in basso (in quanto se E si svaluta è sufficiente un i inferiore per tenere in equilibrio la BP); ciò condurrà al raggiungimento della posizione di equilibrio finale E’’. Qualora la condizione di Marshall-Lerner non valesse, si genererebbe un effetto perverso di E su NX. Infatti si ha: NX=X-EM. Qualora E si svaluti, aumenta X e si riduce M, ma E sale, con un effetto finale perverso sulla BP se la condizione di Marshall-Lerner non risulta valida. La condizione è quindi necessaria. Fig. 6. La politica monetaria in cambi flessibili i LM LM’ BP (E) BP’ (E) E E’ E’’ IS’ (E) IS (E) Y* Y Si ottiene così la conclusione che in regime di cambi flessibili i movimenti del cambio ripristinano automaticamente l’equilibrio esterno, per cui la politica monetaria diventa di nuovo libera da condizionamenti e può essere utilizzata per l’equilibrio interno; in particolare, come già sottolineato, la politica monetaria è più efficace che in un’economia chiusa. In particolare, se la BP fosse piatta, la politica monetaria sarebbe pienamente efficace, con una variazione del reddito pari al prodotto della variazione dell’offerta di moneta per la sua velocità di circolazione (immutata, perché i è costante). 12 D) Manovra di politica fiscale Fig. 7. La politica fiscale in cambi flessibili i LM E’ BP’ E’’ BP E IS’ IS’’ IS Y* Y Un’espansione fiscale consistente in uno spostamento della IS da Is a IS’ porterebbe il sistema in E’, dove si raggiungerebbe il pieno impiego Y*. In tale situazione, tuttavia, la BP è in surplus: il cambio allora si rivaluta, facendo tornare indietro la IS; contemporaneamente la BP si sposta verso l’alto. Il sistema quindi si sposta in un punto come E’’. L’efficacia della politica fiscale è ridotta. Qualora la BP fosse piatta, la politica fiscale sarebbe addirittura completamente inefficace. Sulla base della discussione precedente, si ricavano le seguenti conclusioni: In cambi flessibili, la corretta assegnazione degli strumenti agli obiettivi prevede che la politica monetaria sia occupi dell’obiettivo interno, dato che l’obiettivo esterno, cioè l’equilibrio della bilancia dei pagamenti è già assicurato dalla flessibilità dei cambi. CONCLUSIONI GENERALI DEL MODELLO DI MUNDELL E FLEMING Come correttamente sottolineato da Tobin, cambi fissi, mobilità dei capitali e politiche economiche nazionali indipendenti costituiscono un terzetto incoerente. Benché ciascun elemento della triade sia di per sé stesso desiderabile, tuttavia nella pratica una condizione deve essere abbandonata affinché il sistema sia consistente. 13 1. Se non si vuole rinunciare allo strumento della politica monetaria, si deve necessariamente passare ad un sistema di cambi flessibili: in questo modo si otterrebbero tre equazioni, tre variabili endogene e tre obiettivi. In effetti questo è l’orientamento prevalente a livello mondiale dove i rapporti di cambio tra le monete sono flessibili. 2. Se si vuole mantenere un sistema di cambi fissi e continuare a realizzare tre obiettivi, bisogna introdurre un terzo strumento indipendente, come ad esempio: a) un sistema di crediti d’imposta legato alla realizzazione di programmi di investimento da parte delle imprese; ciò consentirebbe di aumentare il volume di investimenti spontaneo e stimolare la crescita; b) l’imposizione di una tassa (implicita o esplicita) sulla detenzione di attività finanziarie estere (ad esempio la cosidetta Tobin Tax), la quale ridurrebbe la sostituibilità tra attività finanziarie interne ed estere, spostando la BP e restituendo efficacia alla politica monetaria. Vale la pena di osservare che nell’UEM il problema del terzetto incoerente è stato risolto, con cambi fissi e perfetta mobilità di capitali, eliminando le sovranità nazionali nella conduzione della politica monetaria ed attribuendo alla BCE il compito di gestire la politica monetaria unica dell’Unione. UN NUOVO OBIETTIVO: IL CONTROLLO DELL’INFLAZIONE Verso la fine degli anni ’60 ai tradizionali obiettivi keynesiani in precedenza esaminati, se ne aggiunse un altro, costituito dall’opportunità di mantenere sotto controllo il tasso di inflazione. Il perseguimento di tale obiettivo risultava piuttosto complesso; anche perché era evidente la difficoltà di conciliarne il raggiungimento contestualmente a quello degli altri obiettivi, ed in particolare con quello della piena occupazione. Si poneva anzitutto un problema teorico: l’analisi di Keynes non conteneva una teoria specifica dell’inflazione; essa considerava piuttosto un apparato analitico di determinazione del livello dei prezzi, in base al quale questi dipendevano dal livello dei salari monetari e dal valore della produzione di equilibrio. Tale situazione era rimasta sostanzialmente invariata negli anni ’50, quando, sempre ad opera della Sintesi Neoclassica, il sistema keynesiano era stato ricondotto ad un’analisi in termini di AD-AS in grado di determinare il valore di equilibrio di Y e P. 14 In particolare, la scheda AD deriva dalla combinazione delle equazioni IS ed LM: Y = C(Y,T,R) + I(i) + G+NX(Yf,PfE/P) M/P = L(Y,i,R). Ricavando i dall’equilibrio tra domanda ed offerta di moneta, e sostituendo nella IS, si ottiene proprio la scheda AD: P = D (Y), D’(Y) < 0 La AD rappresenta il luogo delle coppie (Y,P) in grado di assicurare l’equilibrio reale e monetario. La posizione della curva dipende dalle grandezze esogene che influenzano consumi, investimenti ed esportazioni nette, nonché dagli strumenti di politica economica monetari e fiscali; la sua pendenza decrescente riflette l’elasticità dei consumi alla ricchezza, delle esportazioni nette alla competitività e degli investimenti rispetto al livello dei prezzi, ovvero l’elasticità della IS e della LM rispetto a i. La scheda AS viene invece derivata dalle ipotesi avanzate circa il funzionamento del mercato del lavoro e la determinazione dei prezzi da parte delle imprese. In particolare: si assume una tradizionale funzione di produzione Y = Y (N); si impone la condizione di massimizzazione dei profitti neoclassica, ovvero si suppone che le imprese eguaglino il salario reale alla produttività marginale del lavoro: W/P = Y’ (N); si suppone infine che i lavoratori chiedano un salario monetario crescente all’aumentare di N, ovvero: W = W°+W(N). Dalle tre condizioni deriva la formulazione della AS: P = S (Y), S’(Y) > 0 In effetti, dall’eguaglianza tra prezzo e ricavo marginale, sostituendo per il livello del salario monetario determinato dalla contrattazione sindacale, come sopra illustrato, avremo: W0 +W Y -1 Y W W°+W(N) . P= = = Y'(N) Y'(N) Y ' Y 1 Y La scheda AS è inclinata positivamente perché si assumono rendimenti decrescenti e salari monetari crescenti al crescere di N. La stessa relazione, peraltro, può essere ottenuta con ipotesi diverse e aggiuntive: - metodo del mark-up nella fissazione di P; - strozzature nella AS; 15 - influenza dei prodotti agricoli nell’indice di P (il cui livello cresce al crescere della produzione). Come raffinamento ulteriore si può ipotizzare che, mano a mano che ci si avvicina ad N*, i lavoratori intensifichino le loro rivendicazioni in termini di W monetari; in tal modo la AS risulta abbastanza piatta per bassi livelli di reddito diventando sempre più inclinata in corrispondenza di Y*, come nella figura 8. Fig. 8. Lo schema AS-AD P AD AS Y Y* Il punto di incontro AS-AD consente di individuare la coppia (Y,P) di equilibrio necessaria a identificare il livello di P che, inserito nello schema ISLM, determina la posizione delle due curve (la IS e la LM infatti risultano parametriche rispetto ad un certo livello di prezzi), da cui derivare il tasso di interesse i compatibile con l’equilibrio generale. Lo schema AS-AD venne utilizzato negli anni ’50 per descrivere e discutere le cause ed i rimedi dell’inflazione. Esso consentiva di distinguere tra: INFLAZIONE DA DOMANDA Spostamenti a destra della AD, causati da incrementi dell’offerta di moneta, della spesa pubblica, del consumo autonomo, degli investimenti, o delle esportazioni nette; l’inflazione da domanda genera un aumento del livello dei prezzi che si accompagna ad una variazione positiva del reddito, come si può osservare nella figura 9. 16 Fig. 9. L’inflazione da domanda nello schema AS-AD P AD’ AS AD Y Y’ Y* INFLAZIONE DA COSTI Essa è conseguente ad innalzamenti della curva AS dovuti ad incrementi di W superiori a quelli della produttività o, in un modello più generale, ad aumenti dei prezzi delle materie prime importate o del livello del mark-up. Nel caso di inflazione da costi, come si può facilmente osservare dalla figura 10, la crescita dei prezzi si accompagna ad una caduta del livello del reddito. La cura dell’inflazione da costi è quindi particolarmente difficile, generando un dilemma di politica economica: se si vuole mantenere invariato il livello di reddito di partenza, bisognerà aumentare la AD, ma ciò genererà un ulteriore aumento di P; se invece si vuole mantenere la stabilità dei prezzi, occorrerà ridurre la AD, ma ciò determinerà una ulteriore caduta di Y, tanto più pronunciata quanto più la AS è piatta. Fig. 10. L’inflazione da domanda nello schema AS-AD 17 P AS’ AS AD Y’ Y Y* CASO ESTREMO Qualora la AS abbia una forma ad L rovesciata (se ad esempio la produttività del lavoro, i salari monetari ed il mark-up sono costanti fino al pieno utilizzo della capacità produttiva), spostamenti delle due curve non generano necessariamente gli effetti appena descritti. In particolare, dalla fig. 11, è facile verificare che: 1) spostamenti della AD producono variazioni positive nel reddito senza alcuna variazione di P fino a Y*; superato tale livello del reddito esse generano esclusivamente inflazione; 2) spostamenti della AS provocano sempre variazioni del livello dei prezzi pari alla traslazione della curva, indipendentemente dalla caduta nel livello di attività che peraltro si verifica sempre. Fig. 11. Il caso estremo di AS piatta 18 AD’’ AD’ P AD AS’ AS AD Y’ Y Y* Si deve inoltre osservare che l’intersezione tra la IS e la LM a sinistra del livello di reddito di pieno impiego era un risultato che apparteneva alla prima fase della teoria neokeynesiana. Con l’affermazione della sintesi neoclassica, l’intersezione tra la AS e la AD normalmente avviene, come mostra la fig. 12, a livello di pieno impiego, pur essendo possibili nel breve periodo scostamenti da tale posizione in seguito a shock di domanda o di offerta. Fig. 12. Lo schema AS-AD della sintesi neoclassica P AD AS Y* 19 Nello schema AS-AD, uno spostamento della AD o della AS sono peraltro in grado di spiegare solo una variazione “una tantum” del livello dei prezzi, la quale necessariamente si arresta una volta raggiunto il nuovo livello di equilibrio. Nella realtà l’inflazione è un processo dinamico di crescita persistente dei prezzi, compatibile con lo schema AS-AD solo ammettendo che le curve traslino continuamente nel tempo. Ciò può essere concepibile per spostamenti della AD in seguito ad espansioni ripetute della quantità di moneta, mentre è più difficile da ipotizzare nel caso di una politica fiscale espansiva, che dovrebbe comportare disavanzi sempre più elevati. Le stesse considerazioni risultano rafforzate se si considera la curva AS: variazioni reiterate del livello dei prezzi richiedono spostamenti ripetuti della curva verso l’alto, che si accompagnerebbero, in assenza di politiche accomodanti sulla AD, a continue riduzioni del reddito. In ogni caso bisognerebbe spiegare perché questi eventuali ripetuti spostamenti della AS verso l’alto di fatto si verificano. Un ulteriore problema pratico dello schema AS-AD concerneva la sua incapacità di fornire una spiegazione convincente al fenomeno concreto della STAGFLAZIONE, ovvero di una situazione in cui, a fronte di un tasso di inflazione positivo, il reddito risultava stagnante. L’assenza di una correlazione tra tasso di inflazione e variazione del reddito si era presentato per la prima volta agli occhi degli economisti nella seconda metà degli anni ’60. I neokeynesiani, di fronte al fenomeno dell’inflazione, adottarono un nuovo apparato di riferimento, non più statico ma dinamico, grazie al contributo di Alban Phillips, il quale, in un famoso articolo del 1958 su Economica, aveva evidenziato, con riferimento all’esperienza del Regno Unito, l’esistenza di una relazione di lungo periodo tra il tasso di variazione dei salari monetari ed il tasso di disoccupazione, del tipo: W g (u) g '(u ) 0 , g ''(u ) 0 Tale relazione empirica, rappresentata nella figura 13, era di forma inversa, non lineare, ma soprattutto stabile, per tutto il periodo di tempo considerato da Phillips (dal 1861 al 1957). Essendo una relazione solo di tipo empirico (“come un personaggio pirandelliano in cerca di autore”, secondo Tobin), essa stimolò successivamente una serie di contributi analitici volti a fornirle una razionalizzazione teorica. LIPSEY interpretò la relazione come risposta dei salari monetari ad un disequilibrio sul mercato del lavoro, misurato dall’eccesso di domanda sull’offerta, di cui il tasso di disoccupazione corrente rappresenta una proxy. In tal modo risulterebbe: 20 ND NS W f ; f(0)=0 S N f risulta essere una funzione non lineare e crescente rispetto all’eccesso di domanda di lavoro, ovvero decrescente rispetto al tasso di diccupazione. Fig. 13. La relazione di Phillips . W u SAMUELSON & SOLOW sostituirono, nella relazione originaria di con P , utilizzando implicitamente un metodo di formazione dei Phillips, W prezzi caratteristico dell’oligopolio e consistente nell’applicazione di un mark-up costante sul costo del lavoro. In particolare, in tal caso si ha: W P (1 q) con a = produttività media del lavoro; a . . . . se q q , allora P W a ; qualora a sia esogeno, tale grandezza può essere ritenuta una costante. La relazione di Phillips può quindi essere trasformata nella più tradizionale curva di Phillips dei libri di testo, come nella figura 14, per cui: . P f u f ' u 0, f '' u 0 Fig. 14. La curva di Phillips secondo Samuelson-Solow P 21 5,5% Le conseguenze ricavabili da questo nuovo strumento analitico furono diverse a seconda del punto di vista degli economisti: per gli ottimisti esisteva la possibilità di un menu di scelta che le autorità di politica economica potevano sfruttare; per i pessimisti invece sorgeva un dilemma di politica economica dovuto al TRADE-OFF tra inflazione e disoccupazione. In particolare, secondo le stime di Samuelson e Solow, solo accettando un u=5,5%, era possibile garantire un tasso di inflazione nullo. Il problema della scelta tra le infinite combinazioni tra inflazione e disoccupazione di fatto raggiungibili poteva peraltro essere risolto, come avevano mostrato Lipsey e lo stesso Samuelson, attraverso l’uso di FUNZIONE DEL BENESSERE SOCIALE di tipo bergsoniano, che tenesse conto del trade-off esistente tra i due obiettivi e della disutilità arrecata da entrambi. A seconda dei diversi orientamenti governativi si avrebbero diverse funzioni del benessere sociale, e quindi diverse strutture delle curve di indifferenza tra i due obiettivi . delle autorità, con il risultato di produrre diverse combinazioni ottimali tra P e u. In particolare autorità più avverse all’inflazione avrebbero scelto una combinazione di equilibrio caratterizzata da minore inflazione e maggiore disoccupazione, e viceversa nel caso contrario. L’evidenziazione dell’esistenza di un trade-off tra inflazione e disoccupazione portò altresì alla nascita di alcune controversie all’interno della scuola neokeynesiana. Per Modigliani non esisteva più un unico livello di pieno impiego, ma piuttosto un insieme di possibili livelli di disoccupazione di equilibrio, . ognuno associato ad un P diverso, con l’effetto di rendere obsoleto e indecifrabile lo stesso concetto keynesiano di “equilibrio di sottoccupazione”. Tobin invece era piuttosto preoccupato della possibilità di identificare il pieno impiego di Keynes con il tasso di disoccupazione, di natura frizionale e 22 . strutturale, associato a P = 0, e della conseguente implicazione per cui le autorità dovevano necessariamente mirare a conseguire tale tasso di equilibrio da lui ritenuto troppo alto. Secondo Tobin, in effetti, il tasso di disoccupazione . corrispondente a P =0 era sistematicamente superiore a quello di pieno impiego. Ciò era dovuto al fatto che la curva di Phillips rappresentava il risultato di un’aggregazione a livello macroeconomico di funzioni di reazione di singoli mercati del lavoro, in stato di perenne disequilibrio stocastico. Essendo N D N V e N S N U (dove V rappresenta il numero di posti vacanti e U il numero di disoccupati), l’equilibrio sul mercato del lavoro prevede che sia N D N S , e quindi U=V (come si può osservare, pertanto, l’equilibrio sul mercato del lavoro non implica una disoccupazione nulla, ma positiva; tale disoccupazione di equilibrio viene normalmente definita naturale ed il tasso di disoccupazione corrispondente è detto tasso naturale di disoccupazione.). In equilibrio, qualora il mercato del . lavoro fosse omogeneo, si avrebbe P =0. Poiché tuttavia il mercato del lavoro è disomogeneo, nel senso che è composto di tanti specifici mercati del lavoro settoriali, a livello aggregato può risultare U=V, compatibilmente con disequilibri specifici a livello disaggregato. Ad esempio, supponendo per semplicità l’esistenza di due singoli micromercati i e j (vedi fig. 15), sia: U i Vi 0 eccesso di offerta di lavoro (OA) sul mercato i e U j V j 0 eccesso di domanda di lavoro (OB) sul mercato j. Fig. 15. Il bias inflazionistico . W B O A U i Vi 23 Supponendo che i due mercati abbiano la stessa dimensione, la variazione . dei salari media ( W ) del sistema è la media aritmetica delle singole variazioni . W sui due mercati, ed è perciò maggiore di zero a causa della non linearità della curva di Phillips. Il sistema economico incorpora quindi quello che Tobin chiama un “bias”, ovvero un pregiudizio inflazionistico: quello che a livello aggregato appare come tasso di disoccupazione naturale (u*), al quale dovrebbe corrispondere . P =0, non è il tasso di disoccupazione naturale (sostanzialmente corrispondente al pieno impiego), ma un tasso di disoccupazione maggiore. Il livello di disoccupazione naturale è più basso del livello di disoccupazione cui corrisponde un’inflazione nulla. Per avere stabilità dei prezzi occorre dunque accettare un tasso di disoccupazione più alto di quello naturale, definito da Tobin NAIRU (Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment). In particolare, il bias inflazionistico sarà tanto più elevato quanto maggiore è l’incertezza stocastica e la forza sindacale. L’esistenza di un bias inflazionistico, conseguenza della non linearità delle curve di Phillips e del fatto che l’equilibrio macroeconomico è compatibile con squilibri microeconomici sui vari mercati del lavoro specifici, giustifica l’obiettivo più ambizioso delle autorità di puntare ad un tasso di disoccupazione minore di quello compatibile con l’inflazione nulla, pari secondo Samuelson e Solow, al 5,5% (in particolare, si puntava al livello del 4%, come previsto dal programma iniziale della New Economics). Qualora, a motivo della pendenza della curva di Phillips, l’inflazione corrispondente al vero pieno impiego sia ritenuta troppo elevata, non rimarrebbe che ricorrere a forme dirette di controllo della dinamica di P e W. Secondo Tobin, in effetti, le autorità di politica economica, poste di fronte a tre obiettivi (stabilità dei prezzi, pieno impiego e assenza di controlli su P e W), potevano raggiungerne al massimo due (un altro esempio di terzetto inconsistente). CONCLUSIONE Nonostante le palesi deviazioni rispetto alla posizione teorica originaria di Keynes, il suo minore spirito critico e la fiducia incondizionata nella capacità delle autorità di politica economica di manovrare la AD per ottenere gli obiettivi desiderati, la New Economics ha avuto l’indubbio merito di essere riuscita a produrre quel radicale cambiamento intellettuale nei confronti dell’interventismo statale responsabile di un netto miglioramento nell’evoluzione di breve-medio periodo del sistema economico. Verso la fine degli anni ’60, però, le teoria keynesiana entrò definitivamente in crisi. Tale crisi era in particolare il risultato della presunta 24 scomparsa della curva di Phillips e dell’incapacità di spiegare il fenomeno della stagflazione. In effetti, sul finire degli anni ’60, a seguito di una maggiore conflittualità sindacale, il tasso di crescita dei salari monetari aumentò notevolmente rispetto all’esperienza storica. I neokeynesiani spiegarono tale fenomeno con uno spostamento verso l’alto della curva di Phillips. Tale spiegazione tuttavia era carente, in quanto il requisito essenziale di un trade off tra inflazione e disoccupazione è la sua stabilità. Se la curva si sposta continuamente, essa è inutilizzabile come strumento di politica economica per le autorità di governo. Inoltre, dal punto di vista empirico, il trade off asserito dai keynesiani era incompatibile con il fenomeno della stagflazione, in quanto la nuova curva di Phillips avrebbe dovuto consentire alle autorità di spostarsi lungo di essa, riducendo il tasso di inflazione ma al costo di una maggiore disoccupazione. La realtà empirica, invece, sembrava indicare che lo stesso tasso di disoccupazione era compatibile con diversi livelli del tasso di inflazione, in maniera del tutto incoerente con la curva di Phillips. E così, proprio mentre Nixon si sbilanciava a dichiarare “siamo tutti keynesiani ora”, l’incapacità dei keynesiani di fornire una convincente spiegazione della stagflazione, e di fornire ricette di politica economica atte ad affrontarla, determinava la fine della supremazia intellettuale della New Economics, collegata alla cosiddetta rivoluzione keynesiana. I tempi erano maturi per una controrivoluzione, di natura monetarista, legata al nome del leader carismatico di tale scuola di pensiero, il Professor Milton Friedman dell’Università di Chicago. 25