21 PUBBLICAZIONE NON IN VENDITA RISERVATA ALLE BIBLIOTECHE AGLI ARCHIVI E AGLI STUDIOSI SERIE 4 RICERCHE N. 3 TRASCRIZIONI A UNO O PIÙ STRUMENTI DA OPERE DEL SETTECENTO E DEL PRIMO OTTOCENTO ISBN 88-86704-39-9 ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE (I.R.TE.M.) con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali QUADERNI DELL’I.R.TE.M. 21 SERIE 4: RICERCHE MODI DI DIFFUSIONE DELL’OPERA E DEL BALLETTO AL DI FUORI DEL CONTESTO TEATRALE N. 3: TRASCRIZIONI A UNO O PIÙ STRUMENTI DA OPERE DEL SETTECENTO E DEL PRIMO OTTOCENTO PAOLA BERNARDI ROMA 2002 I.R.TE.M. ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE COMITATO DEI GARANTI: CARLO MARINELLI, presidente ENNIO MORRICONE, vicepresidente LAMBERTO MACCHI, consigliere ISTITUTO DI RICERCA PER IL TEATRO MUSICALE (I.R.TE.M.) con il patrocinio del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo Direzione Generale per i Beni Librari e gli Istituti Culturali QUADERNI DELL’I.R.TE.M. 21 SERIE 4: RICERCHE MODI DI DIFFUSIONE DELL’OPERA E DEL BALLETTO AL DI FUORI DEL CONTESTO TEATRALE N. 3: TRASCRIZIONI A UNO O PIÙ STRUMENTI DA OPERE DEL SETTECENTO E DEL PRIMO OTTOCENTO PAOLA BERNARDI ROMA 2002 © Copyright 2002 by I.R.TE.M. Grafica Cristal s.r.l. Via Raffaele Paolucci, 12/14 - 00152 Roma PAOLA BERNARDI CORRADO NICOLA DE BERNART PAOLO RAVAGLIA MODI DI DIFFUSIONE DELL’OPERA E DEL BALLETTO AL DI FUORI DEL CONTESTO TEATRALE TRASCRIZIONI A UNO O PIÙ STRUMENTI DA OPERE DEL SETTECENTO E DEL PRIMO OTTOCENTO redazione a cura di LAURA NICOLETTA COLABIANCHI p. 7 9 11 33 49 51 75 Indice PREMESSA Quinto laboratorio aperto (1992) LE TRASCRIZIONI PER STRUMENTI A FIATO DA OPERE DI WOLFGANG AMADÈ̀ MOZART Prima sessione (14 dicembre) Seconda sessione (15 dicembre) Sesto laboratorio aperto (1993) LE TRASCRIZIONI PER STRUMENTI A FIATO DA OPERE MOZART Prima sessione (20 dicembre) Seconda sessione (21 dicembre) DI CONTEMPORANEI DI 91 103 Settimo laboratorio aperto (1994) TRASCRIZIONI PER QUARTETTO D’ARCHI E PER PIANOFORTE E QUARTETTO D’ARCHI DA OPERE DI WOLFGANG AMEDÈ̀ MOZART Prima sessione (15 dicembre) Seconda sessione (16 dicembre) 123 149 LE TRASCRIZIONI PER STRUMENTI A FIATO BEETHOVEN, WEBER E ROSSINI Prima sessione (2 dicembre) Seconda sessione (3 dicembre) 89 121 161 Ottavo laboratorio aperto (1996) DA OPERE DI ELENCO ALFABETICO DEI NOMI DI PERSONA CITATI 5 PREMESSA Oggi siamo talmente abituati a ricevere nelle nostre case immagini e suoni riprodotti da mezzi meccanici che non ci poniamo neanche il problema di quali fossero i modi nei quali fino a non più di un secolo fa venisse trasmessa la conoscenza delle opere che richiedono l’esercizio delle facoltà della vista e dell’udito a tutti coloro che per le più svariate ragioni non potevano accedere ai luoghi deputati alla loro rappresentazione. I mezzi di comunicazione di massa – il cinema, il disco, la radio, la televisione, per citarli nell’ordine cronologico della loro immissione sul «mercato» – hanno abituato milioni di persone ad ascoltare e a vedere ciò che fino ad allora sembrava fosse riservato esclusivamente a quanti avevano la possibilità oggettiva o la volontà soggettiva di recarsi in un teatro (o in altro luogo che pur non appellandosi teatro ne avesse almeno alcune delle caratteristiche fondamentali). Con altri fenomeni collaterali: il cinema ha allargato enormemente lo spazio del palcoscenico, il disco e la radio hanno concentrato l’attenzione dello spettatore divenuto ascoltatore sul suono, la televisione ha ristretto tutti gli spazi ma ha ricongiunto l’originario matrimonio di vista e di udito. Nessuno dei mezzi di comunicazione di massa, quale che sia la loro perfezione tecnica, può però riuscire né pretendere di riuscire a sostituire l’originario luogo deputato, che resta il teatro, riservato per ragioni oggi più oggettive che soggettive a quanti hanno la possibilità di accedervi. È ovvio che mi riferisco al teatro in senso tradizionale, quale storicamente si è connotato nelle diverse civiltà e non mi riferisco a nuove forme di spettacolo originate dai nuovi mezzi di comunicazione di massa (che nel campo del teatro in musica, che è l’oggetto del nostro interesse, debbono peraltro ancora nascere). Si è scritto e si è detto sui rapporti tra mezzi di comunicazione di massa e fruizione dello spettatore-ascoltatore, anche in relazione alle traslazioni di significato che le opere teatrali-musicali ricevono quando passano attraverso questi nuovi mezzi di trasmissione. Meno forse ci si è chiesti se questi nuovi modi di far pervenire l’opera di teatro in musica, nata per un preciso luogo fisicamente ben determinato e delimitato, fossero esclusivamente una conseguenza della nascita e della diffusione dei nuovi mezzi o non fossero una espansione e una proliferazione ed anche una trasformazione di un qualcosa che già esisteva, soprattutto se rispondessero ad una esigenza della società, che non è soltanto della civiltà dei mezzi di comunicazione di massa, quella di assicurare una diffusione del teatro in musica al di fuori del contesto teatrale, cioè del luogo originario per cui era stato pensato e in cui è realizzato, e ciò in funzione dell’enorme importanza che la riflessione su sé stessa, che è la natura profonda della rappresentazione teatrale, ha per ogni e qualsiasi società, di ogni tempo e di ogni luogo. L’Istituto di Ricerca per il Teatro Musicale ha tra i suoi scopi fondamentali lo studio delle interazioni tra musica e società, con particolare riguardo al teatro musicale, e quindi, per quel che concerne l’esperienza storica della nostra civiltà occidentale, all’opera e al balletto. Di qui la promozione di una «Ricerca sui modi di diffusione dell’opera e del balletto al di fuori del contesto teatrale», la cui direzione è stata affidata a Paola Bernardi. I primi due anni della Ricerca furono dedicati a Giovanni Battista Lulli ed hanno trovato il loro riscontro nel Quaderno n. 9, «Le trascrizioni per clavicembalo da opere e balletti di Lulli» (n. 1 della serie «Ricerche»), pubblicato nel 1989. Gli anni dal 1989 al 1991 furono dedicati a Georg Friedrich Haendel ed hanno trovato il loro riscontro nel Quaderno n.15, «Le trascrizioni da opere di Haendel» (n. 2 della serie «Ricerche»), pubblicato nel 1994. 7 Dal 1992 al 1996 la «Ricerca sui modi di diffusione dell’opera e del balletto al di fuori del contesto teatrale» esaminò il periodo compreso tra la seconda metà del Settecento e i primi anni dell’Ottocento: il 1992, il 1993 e il 1994 furono dedicati alle trascrizioni per strumenti a fiato e per quartetto d’archi e per pianoforte e quartetto d’archi di Wolfgang Amadé Mozart e di operisti suoi contemporanei (Christoph Willibald Gluck, Baldassare Galuppi, André-Ernest-Modest Grétry). Nel 1996 la ricerca fu dedicata ad opere di Ludwig Van Beethoven, Carl Maria Von Weber e Gioachino Rossini. Come è sempre stata regola nella Ricerca diretta da Paola Bernardi, i risultati sono stati messi alla prova del contatto con il pubblico nel corso dei lavori, con il quinto, il sesto, il settimo e l’ottavo dei «Laboratori aperti», negli anni 1992, 1993, 1994 e 1996. La malattia ha interrotto a questo punto il lavoro di Paola Bernardi, che ci ha lasciato alla fine del 1999. Non ci è riuscito di trovare persona che fosse in grado di riprendere l’opera che in dieci anni Paola Bernardi aveva condotto con tanta profondità e tanto acume, ed anche con tanta passione, dimostrando tra l’altro una straordinaria capacità di creare un amalgama di collaborazioni e una sintonia di propositi nei suoi giovani collaboratori. Il volume «Trascrizioni a uno o più strumenti da opere del Settecento e del primo Ottocento» (numero 21 dei Quaderni dell’I.R.TE.M. e numero 3 della serie «Ricerche») è interamente basato sulle registrazioni dei quattro «Laboratori aperti» corrispondenti, riviste ed integrate sugli appunti autografi trovati fra le carte lasciate da Paola Bernardi. È un volume che pone purtroppo suggello a una ricerca che non ha uguali nel panorama degli studi di esegesi storica ed interpretativa della musica, per la singolarità e la novità del punto di vista che la presuppone (non solo, anche per alcuni illuminanti risultati). È una ricerca che rimane incompiuta, e che rinnova il ricordo e il rimpianto di una presenza che è stata fondamentale e si è rivelata insostituibile per l’Istituto di cui è stata uno dei fondatori. Se l’I.R.TE.M. è quello che è, lo deve anche a Paola Bernardi, e forse a lei soprattutto. Questa pubblicazione è un atto di gratitudine, ma non è un omaggio. È la testimonianza che Paola Bernardi è, per noi tutti, una realtà vivente e sempre presente. Grazie, Paola. CARLO MARINELLI Presidente dell’I.R.TE.M. 8 RICERCA SUI MODI DI DIFFUSIONE DELL’OPERA E DEL BALLETTO AL DI FUORI DEL CONTESTO TEATRALE QUINTO LABORATORIO APERTO di Paola Bernardi con la collaborazione di Corrado Nicola De Bernart e Paolo Ravaglia LE TRASCRIZIONI PER STRUMENTI A FIATO DA OPERE DI WOLFGANG AMADÈ MOZART Roma 14 e 15 dicembre 1992 lunedì 14 dicembre 1992 ore 16 SALETTA ARCHIVI I.R.TE.M. via de’ Delfini 16 CARLO MARINELLI Signori buongiorno. Questo ciclo di incontri sui modi di diffusione dell’opera e del balletto al di fuori del contesto teatrale, condotto ormai da sei anni – con la pausa di un anno – dalla professoressa Paola Bernardi, sta diventando a mio parere sempre più interessante perché sempre più dimostra una tesi che sembrava all’inizio piuttosto azzardata. I dati che man mano vengono raccolti la confortano di una serie di testimonianze che supera sinceramente le mie stesse aspettative. La tesi è la seguente: gli odierni mezzi di comunicazione di massa (il disco, la radio, la cassetta, il videodisco, la televisione, il cinema, ecc.), per quel che riguarda quella che viene definita «musica colta», non sono una novità se non dal punto di vista tecnologico; dal punto di vista «filosofico» non costituiscono che la continuazione di qualcosa che si era cominciato a fare fin dal Seicento, vale a dire diffondere all’esterno con altri mezzi quel che era rappresentato in teatro. L’intento era quello di favorire coloro cui non era possibile l’accesso alle sale, vuoi per ragioni di tempo, vuoi per ragioni di spazio, vuoi per motivi di censo. Negli anni scorsi abbiamo visto che il clavicembalo è stato uno dei mezzi a tal fine più usati; oggi ampliamo la visuale, e dal clavicembalo o dal piccolo flauto, usato per diffondere le musiche di Haendel, giungiamo a veri e propri complessi da camera. Stiamo infatti andando avanti nel tempo e, come ci riferiranno Paola Bernardi, Corrado De Bernart e Paolo Ravaglia, ci troviamo di fronte a spazi sempre più vasti e a un pubblico sempre più ampio. Questa operazione viene compiuta nell’interesse generale di musicisti, autori, strumentisti, editori, pubblico, e sarà di proporzioni così ampie da risultare non inferiore (e forse, in alcuni casi, perfino superiore) a quella che si realizza oggi attraverso i mezzi di comunicazione di massa, a maggior ragione se teniamo conto della differenza delle società di allora rispetto a quella a noi contemporanea. Per questo lavoro di ricerca così lungo, complesso e paziente, l’I.R.TE.M. è profondamente grato a Paola Bernardi, perché è sotto il suo impulso e sotto la sua direzione che esso procede in modo così significativo; la sua stessa diretta partecipazione alla ricerca e l’inquadramento e l’organizzazione che ella ha saputo darle hanno un’importanza eccezionale. Siamo inoltre profondamente grati anche a Corrado De Bernart, che partecipa al Laboratorio fin dall’inizio, e salutiamo con molto piacere l’ingresso nel team dei nostri ricercatori di Paolo Ravaglia, che ha portato un contributo di pazienza e di attività costante, assidua e acuta. Come presidente dell’I.R.TE.M. e come ricercatore io stesso, valuto di grande importanza il tempo passato in biblioteca per riuscire a ricavare copie di musiche; se di alcune di esse era già nota l’esistenza, va detto che altre sono state scoperte proprio in questa occasione e portate a contatto di tutti voi, evitando che un autentico patrimonio fosse andato perduto. In Italia questa importantissima attività di ricerca è ritenuta da molti troppo poco confacente al livello di insegnamento universitario, mentre personalmente ritengo che ne sia proprio il fondamento, la base, la sostanza concreta senza la quale non approderemmo a nulla di produttivo. Naturalmente il ringraziamento va anche ai collaboratori di Paolo Ravaglia che incontreremo domani nella presentazione dal vivo dei pezzi per Harmoniemusik; questi ed altri sono trascritti da autori di cui si parlerà in seguito, autori quali il signor Ehrenfried, ad esempio, che è musicista sconosciuto, non citato in alcun dizionario e di cui al momento conosciamo solo le iniziali del nome. Ehrenfried è una scoperta, e il merito va a Paolo Ravaglia, ma anche a Paola Bernardi e a Corrado De Bernart, i quali hanno proseguito e proseguono le ricerche nonostante per ora queste non abbiano avuto esito positivo. Sottolineata la sua importanza, non mi resta che rinnovare il mio personale entusiasmo per ciò che si fa di anno in anno per questa ricerca che a me interessa in modo eccezionale. Questo è il mio ringraziamento personale che si aggiunge a quello ufficiale. Buon lavoro. (applausi) 13 PAOLA BERNARDI Inauguriamo il nostro Quinto Laboratorio sulla diffusione dell’opera e del balletto al di fuori del contesto teatrale. Negli anni passati il nostro lavoro è partito dalla corte di Luigi XIV, dove videro la luce le prime trascrizioni da opere realizzate da D’Anglebert. Si trattava di trascrizioni per clavicembalo (strumento principe alla corte del Re Sole), che come tali si rivolgevano a un pubblico piuttosto ristretto. Successivamente le testimonianze della diffusione dell’opera al di fuori del contesto teatrale si sono moltiplicate dinanzi ai nostri occhi: il fatto che per tre anni noi si sia rimasti fermi sulle trascrizioni delle opere di Haendel vi dice quanto materiale sia stato reperito nelle varie biblioteche italiane e straniere. Realmente il fenomeno della diffusione dell’opera attraverso la trascrizione ha confini estremamente vasti e caratteri molti diversi. Le trascrizioni che abbiamo trovato presentano vari livelli di difficoltà e vanno da quelle più semplici, per un piccolo strumento come il flautino a becco di uso domestico, ad altre ben più complesse per strumento solista o per ridotte formazioni da camera. La trascrizione è un momento divulgativo importante; attraverso di essa l’opera arriva, potremmo dire, dove non c’è: nei salotti, nelle famiglie, nelle scuole, nelle sale da concerto. La nostra ricerca si propone di indagare i confini e le caratteristiche di tale uso. Chi sono i fruitori di queste trascrizioni? E come mai in un certo tipo di società la trascrizione è fatta in un certo modo e in un altro tipo di società è completamente diversa? Che tipo di editoria si muove intorno a questo fenomeno? Qual è il livello di educazione musicale dei fruitori? Chi recepisce, chi suona queste trascrizioni? Nel tentare di rispondere a questi e ad altri interrogativi, quest’anno mi hanno affiancato due giovani colleghi, docenti – Corrado De Bernart insegna a Lecce, Paolo Ravaglia a Ferrara – e ricercatori. Vi propongo ora un brevissimo sunto, una sorta di carrellata sul lavoro svolto negli scorsi anni prima di ascoltare alcuni esempi musicali di trascrizioni. Come vi dicevo, alla corte di Luigi XIV, un grande compositore, D’Anglebert, clavicembalista della chambre du roi, trascrive per il suo strumento alcuni brani tratti dalle opere di Lulli. Sono trascrizioni colte, naturalmente, pensate per esecutori e fruitori di alto livello. Tuttavia, cercando nelle biblioteche italiane ed europee, abbiamo trovato in Francia un volumetto decisamente interessante, scritto da uno sconosciuto insegnante e compositore. Questo anonimo maestro trascrive per due signorine dell’alta borghesia francese alcune piccole ariette tratte dalle opere di Lulli. Sono brani semplici, adatti alla loro mano e al loro corso di studio, e hanno quindi una specifica finalità didattica. Se all’epoca l’ambiente principale di produzione e fruizione delle trascrizioni era la corte del monarca, pur tuttavia il fenomeno si era già diffuso, sino a raggiungere il livello didattico più semplice: il maestro, ascoltata l’opera, la trascriveva e l’allieva la eseguiva. Cercando ancora abbiamo trovato – reperimento interessante che dovremo ulteriormente studiare – un manoscritto di Charles Babell (da non confondere con il figlio William Babell, già noto trascrittore di Haendel) risalente ai primi del Settecento, nel quale sono raccolte trascrizioni di media difficoltà di varie opere del periodo. Tutto questo dimostra, quindi, che le trascrizioni erano non solo di alto livello, per provetti e colti esecutori, ma anche di media difficoltà o di livello molto semplice, addirittura per uso didattico. Ciò agevolava la penetrazione del fenomeno a livello amatoriale, in un’epoca in cui, peraltro, nelle case era ampiamente diffuso l’uso di far musica insieme. È quanto accadeva soprattutto a Londra, dove virtualmente ci siamo recati dopo Parigi e dove siamo rimasti per tre anni per studiare Haendel. Haendel viene trascritto in tutti i modi; per flautino, ad esempio, come nelle tante edizioni di musichette per riprodurre le arie d’opera nell’intimità domestica, ma anche per clavicembalo, con lavori molto complessi e virtuosistici come le trascrizioni realizzate da William Babell. Haendel era già di per sé autore complesso ad eseguirsi al clavicembalo, famoso come virtuoso eccezionale della tastiera; 14 ciononostante William Babell riesce a raggiungere nei suoi lavori un livello tecnico ancor più elevato, realizzando pezzi di estrema difficoltà esecutiva. Tra queste due opposte tipologie, cioè fra la trascrizione estremamente semplice e quella difficilissima, si collocano tutte le altre, per amatori, professionisti, cultori di ogni livello. All’epoca in Inghilterra quasi tutti sapevano suonare, spesso non solo uno strumento ma addirittura due o tre; questa cultura musicale di tipo «enciclopedico» è testimoniata dalla diffusione dei molti trattati, piccoli o grandi, che illustravano le regole salienti per ben suonare il clavicembalo, la viola da gamba, il flauto, il violino, unitamente alle nozioni di base per imparare la pratica del canto. Abbiamo infinite testimonianze sulla diffusione dell’educazione musicale in quell’epoca in ogni strato sociale. Vari giornali riportano annunci molto simili a questo: Se uno durante l’inverno vuol fare un po’ di musica, non ha voglia di parlare e sa un po’ suonare, si metta in contatto con noi per organizzare delle serate musicali. Come dicevo, circolavano per tutti costoro trascrizioni semplicissime e trascrizioni molto difficili, queste ultime adatte solo a ottimi esecutori, eseguite normalmente nei contesti privati di tranquille serate trascorse in compagnia tra le mura domestiche. Quest’anno, dalla Londra di Haendel, ci sposteremo verso l’area di Vienna e Praga, in Austria e in Cecoslovacchia, dove ridotti ensemble di strumenti a fiato – generalmente composti da due oboi, due clarinetti, due fagotti e due corni – cominciano a trovare ampia diffusione. Non c’è corte o palazzo nobiliare dove non si venga a formare un ensemble di questo genere. Gli strumentisti che ne facevano parte non erano in genere grandi professionisti quanto, piuttosto, discreti suonatori che si esibivano in determinate occasioni, quali festeggiamenti pubblici religiosi o laici, cerimonie nuziali, battesimi oppure, spesso, nel corso di banchetti privati; proprio come nel Don Giovanni, dove Mozart ci mostra appunto uno di questi ensemble che suona durante l’ultimo banchetto del protagonista. Spostandoci in quest’area territoriale abbiamo constatato che la divulgazione dell’opera attraverso le trascrizioni assume proporzioni enormi e riguarda non solo lavori teatrali propri dell’area specifica ma anche opere italiane. Per questi piccoli ensemble di fiati, peraltro, hanno scritto tutti i più grandi compositori: Mozart, Beethoven, Johann Christian Bach, Carl Philipp Emanuel Bach. Essi hanno composto brani originali per tali formazioni, cui va aggiunto il repertorio rappresentato dalle trascrizioni da opere, che sembra avesse enorme successo. Ripeto, i componenti degli ensemble, a loro volta, sapevano generalmente ben suonare; alcuni dei più noti erano prime parti delle più famose orchestre dell’epoca come, ad esempio, quella degli Eszterházy. Concludo il mio intervento leggendovi una testimonianza del 1754. In un almanacco dell’Opera di Vienna si legge: I mesi d’estate, con il bel tempo, è uno spettacolo quasi di tutti i giorni incontrare in strada piccoli gruppi di musicisti a qualsiasi ora del giorno e della notte, a volte persino dopo l’una. Questi piccoli gruppi non sono formati come in Italia da un cantante accompagnato da una chitarra [evidentemente parla delle serenate]... sono quintetti, sestetti a fiati, a volte ottoni e legni di un’orchestra. È proprio in questa occasione che si avverte quanto la passione per la musica sia viva e unanime, perché anche nelle ore avanzate della notte, quando si ha fretta di tornare a casa, si notano persone affacciate alle finestre e i musicisti sono rapidamente attorniati da curiosi che applaudono, chiedono bis e non se ne vanno finché la musica non è finita, accompagnando persino i musicisti negli altri quartieri. Proprio grazie alle trascrizioni per i piccoli ensemble che eseguivano serenate, l’opera si diffondeva al di fuori dei teatri, nei castelli, nelle piazze, nei quartieri, avvicinando il più vasto pubblico. Ovviamente la musica non può essere mai un fenomeno a se stante: qualsiasi genere musicale, e soprattutto questo della trascrizione d’opera, è strettamente 15 legato a vari elementi sociali, culturali ed educativi, editoriali ecc.; la musica non è mai sganciata dalla società della propria epoca. Detto questo, passo la parola a Corrado De Bernart, che ci fornirà un quadro generale per porre appunto la musica in contatto con la realtà sociale e storica. CORRADO NICOLA DE BERNART Il punto di partenza del mio lavoro è stato, una volta constatata l’ampiezza e la rilevanza del fenomeno «trascrizione d’opera», cercare di comprenderne le motivazioni. Quindi la mia ricerca è consistita nel tentativo di trovare una reale giustificazione — giustificazione sociale, sociologica, editoriale e via dicendo — per il fiorire di questo tipo di genere musicale che negli anni passati avevamo riscontrato così diffuso nella Francia di Luigi XIV e ora ancor più in Inghilterra. In altre parole, l’interrogativo è: ci sono delle ragioni precise, delle motivazioni concrete per cui, a un certo punto, esplode questo particolare fenomeno musicale e culturale che si concretizza nella produzione di un così enorme repertorio per un numero così vasto di esecutori a esso dediti? La ricerca che quest’anno stiamo portando avanti, relativa sostanzialmente alla musica per piccoli gruppi di fiati (poi cercheremo di circoscrivere maggiormente il discorso a quella che era la tipica formazione di musique d’harmonie, gruppo di otto fiati con coppie di oboi, fagotti, corni e clarinetti) ha posto il problema di trovare una giustificazione che spieghi come mai a un certo punto, e per certi versi all’improvviso, si cominci a notare storicamente la fioritura di una quantità enorme (non pensavamo di imbatterci in una simile pletora di materiale) di musiche scritte appositamente per questa tipologia di formazione strumentale. È evidente che una prima giustificazione di fondo possa consistere nel fatto che questi strumenti all’epoca iniziassero a essere più diffusi, come è il caso del clarinetto, che proprio in quel periodo cominciava a compiere i primi passi significativi dal punto di vista tecnico e costruttivo. Una simile giustificazione, tuttavia, risulta riduttiva e semplicistica, perché è noto che gli strumenti a fiato di cui parliamo, o buona parte di essi, sia pur con diverse caratteristiche, fossero in uso già in epoca precedente. Ma, in realtà, non ci siamo mai imbattuti in questo tipo di trascrizioni quando siamo andati ad analizzare le opere del Seicento o della prima metà del Settecento, ivi compreso tutto il complesso delle opere haendeliane (e siamo quindi intorno al 1750). Nel periodo che oggi esaminiamo, immediatamente successivo, al contrario notiamo una autentica esplosione di trascrizioni per strumenti a fiato. Consentitemi una piccola divagazione di carattere storico, che potrebbe apparire strana in questo contesto ma che in seguito ci sarà molto utile per arrivare a determinate conclusioni. Quel che accade nel Settecento è alquanto semplice da riassumere. In tutti i territori che nel secolo precedente avevano più o meno assunto le connotazioni di veri e propri stati nazionali si ebbero complessi movimenti di assestamento evolutivo sociale e politico. Il quadro storico che ne venne fuori rimase relativamente stabile sino all’inizio della Rivoluzione francese; dopo lo sconvolgimento dell’epoca napoleonica, si assisterà anche al tentativo di riproporlo da parte del Congresso di Vienna nel 1815. Il Settecento è un secolo in cui, nonostante i forti sconvolgimenti bellici, varie nazioni raggiungono una notevole stabilità interna: Francia, Inghilterra, Austria e il giovane Regno di Prussia, che comincia ad acquisire sempre maggiore importanza, sono ormai stati nazionali in pieno cammino, caratterizzati da una economia decisamente pulsante e da un nuovo sistema di vita influenzato dalle idee illuministiche propugnate da Locke, Hume, Montesquieu, Voltaire e via dicendo, idee che si diffondono in tutta Europa. Questo impulso vitale porterà all’epoca dorata della seconda metà del secolo, con i monarchi illuminati e le grandi riforme sociali, economiche, di istruzione. Prussia e Austria sono le prime nazioni a stabilire l’obbligatorietà dell’istruzione elementare, la diffusione di scuole medie in tutti i principali centri e una educazione universitaria regolata e dipendente direttamente dallo Stato. Nelle altre nazioni la situazione è ancora parzialmente fluttuante. Paradossalmente, ac16 canto a queste condizioni interne di positivo sviluppo economico — siamo ai primordi di quella rivoluzione industriale che in Inghilterra avrà una vera e propria esplosione ma sarà presente anche in altre nazioni — troviamo invece una situazione politica generale di rapporti tra stati estremamente delicata. Il Settecento, infatti, vedrà l’esplodere e il susseguirsi di conflitti a livello continentale e oltre. Ne furono coinvolti non solo i territori europei ma anche quelle parti del globo terrestre possedimenti delle varie corone; molti saranno gli scontri nei territori delle colonie. Non so se sia possibile fare una sorta di statistica che stabilisca quale sia stato il secolo più «guerreggiato», ma è indubbio che da questo punto di vista il Settecento appaia davvero notevole. Si apre infatti all’insegna della guerra di successione spagnola, prosegue con la guerra di successione polacca, che termina nel 1739, e dal 1740 al 1748 si incendia per la guerra di successione austriaca. Questo grande conflitto, che durò addirittura otto anni, era dovuto al fatto che l’imperatore Carlo VI, privo di successori maschi, con la Pragmatica Sanzione del 1726, aveva stabilito che anche le eredi di sesso femminile potessero accedere al trono; quando Maria Teresa fu incoronata imperatrice, la Francia ne contestò il diritto rivendicandolo a proprio favore per complesse linee di discendenze. Poi la guerra «dei sette anni» investì tutta l’Europa centro-settentrionale, mentre i conflitti per i possedimenti coloniali completavano il quadro di lutti e devastazioni anche in territori lontani. Nel nuovo continente, infatti, dove già da tempo inglesi e francesi si affrontavano in Canada e nei territori degli attuali Stati Uniti, nel 1776 esplode la Guerra d’indipendenza americana che coinvolgerà, a fianco dei rivoltosi, anche i francesi e che, a sua volta, comporterà sanguinosi scontri anche in Europa. E il secolo si conclude con la Rivoluzione francese e le sue conseguenze, che aprono il passo alle campagne napoleoniche. Come abbiamo visto, fu certo un periodo molto confuso; ma molte eminenti figure di monarchi, politici e intellettuali seppero con grande lucidità gettare le basi per una evoluzione verso la modernità. È questo il periodo delle grandi riforme che caratterizzeranno, ad esempio, la Prussia di Federico II e l’Austria di Maria Teresa e dei suoi discendenti. Prussia e Austria sono forse le nazioni più all’avanguardia dal punto di vista delle grandi riforme sociali, economiche, politiche, amministrative e burocratiche, nazioni che pongono veramente alcuni dei fondamenti che ritroviamo negli stati moderni (tuttora molti apparati amministrativi si conformano a quei modelli). L’Inghilterra conosce un lungo periodo di prosperità economica e in Francia l’equilibrio imposto dall’assolutismo monarchico reggerà sino al drammatico epilogo del 1789. Proprio in virtù di questa stabilità interna generale, raggiunta nonostante i conflitti internazionali, poté avere impulso la vita artistica e culturale. L’Illuminismo dà un nettissimo contributo alla cultura europea in generale, poiché fra i cardini sostanziali della cultura illuministica, ispirata a un profondo umanesimo, vi è rilevante il concetto di cosmopolitismo. Certo alla formazione di una cultura europea contribuirono non poco le vicende legate a ragioni dinastiche. Vari monarchi stranieri furono al governo di altre nazioni (si pensi, per esempio, agli Hannover in Inghilterra) con il conseguente muoversi al loro seguito di menti, personaggi e culture. L’interscambio culturale, con il passaggio nelle corti dei più grandi pensatori (si pensi, per esempio, a Voltaire), è in quest’epoca intensissimo; contribuisce in larga parte all’annullamento, ad esempio, di quella differenziazione così netta di scuole musicali e artistiche che era stata una caratteristica tipica del periodo precedente. Nel Settecento assistiamo al diffondersi di un tipo di repertorio musicale simile per tutte le nazioni, all’affermarsi di canoni estetici molto vicini tra le varie culture, con una conseguente diffusione, quindi, del fenomeno musicale in termini sopranazionali, europei, senza più marcate distinzioni territoriali. Sono gli stessi autori dell’epoca, nei loro trattati e nelle loro documentazioni, a dichiarare apertamente come ormai in Europa si facesse un solo tipo di musica e che i musicisti fossero tutti praticamente sulla stessa linea. Probabilmente con l’opera italiana questo era già successo in precedenza, ma è fuor di dubbio che se riportiamo il discorso al Seicento, anche nella sua fase tarda, 17 le differenziazioni stilistiche, ad esempio, fra la scuola francese e la scuola tedesca erano nettissime, mentre lo furono molto meno nel Settecento. Mi sono a lungo soffermato sulla particolare «militarizzazione» del Settecento e, d’altro canto, su questa nuova concezione universale della musica e dell’arte perché, nel momento in cui prendiamo in considerazione gli strumenti a fiato e il loro repertorio, dobbiamo tener presente il precedente storico a cui potersi rifare per comprendere le ragioni della nascita e del diffondersi trasversale rispetto ai confini nazionali dell’uso di formazioni di soli fiati, fenomeno legato proprio a questi due elementi: mondo militare e dimensione europea della cultura. L’impiego di vari tipi di formazioni di strumenti a fiato è già testimoniato nel Seicento in relazione a contesti militari. In verità, lo troviamo già in epoca rinascimentale, con la formazione di piccoli ensemble all’interno di vari reparti militari. Dicendo questo dobbiamo intenderci: non ci riferiamo all’utilizzo degli strumenti a fiato come mezzo per le segnalazioni militari, ma alla vera e propria formazione all’interno dei reparti militari di elites specialistiche, come potremmo definirle, formate da suonatori di percussioni, tamburini e simili, e da strumentisti a fiato. Come vedremo in seguito, si trattava di strumenti a fiato diversi a seconda delle tradizioni nazionali e delle situazioni contingenti. Le prime notizie più definite relative alla nascita di questi gruppi risalgono già alla metà del Seicento, quando, guarda caso in territorio di lingua tedesca, nel Brandeburgo, si ha presso un reparto dei dragoni della guardia l’istituzione di una vera e propria formazione di strumenti a fiato, formata da una dulciana e da tre Schalmei. Il termine è di difficile definizione e non sembra riferirsi allo chalumeau, cioè all’antenato diretto del clarinetto; probabilmente indica degli strumenti ad ancia doppia del tipo degli oboi. Ad imitazione del reggimento dei dragoni della guardia anche altri reparti acquartierati nella stessa zona provvidero a dotarsi di formazioni simili. Nel frattempo i moschettieri francesi del re, già all’epoca di Lulli, precisamente nel 1663, si dotano di un’apposita piccola banda, nel loro caso formata dapprima da tre oboi, poi solo da due e infine nuovamente da tre, con l’aggiunta di percussioni e via dicendo. Nella stessa Francia altri reparti crearono formazioni similari, e autori come Lulli, Philidor e altri cominciarono a scrivere specifici brani musicali appositamente per questi gruppi di strumentisti. In Inghilterra nello stesso periodo troviamo molte testimonianze dirette della formazione di simili gruppi. Nel corso di pochi anni si assiste al formarsi di compagini più composite rispetto a questi primi sparuti manipoli. Nei primi anni del Settecento, infatti, queste formazioni di musicisti militari si allargano gradatamente. Si nota l’introduzione del clarinetto e, soprattutto in Prussia e nei reparti austriaci, cominciano a formarsi gruppi numericamente più ampi. La testimonianza più interessante di cui dispongo è relativa al 1762, quando troviamo una vera e propria banda di musici nel reggimento dell’artiglieria reale inglese. Essa è composta da otto persone che, tuttavia, suonano dieci strumenti: due trombe, due corni, due fagotti e una coppia di musicisti che utilizza alternativamente vari strumenti a seconda delle esigenze, poiché ha la possibilità di suonare gli oboi o, eventualmente, i clarinetti. Come potete vedere, si tratta di una formazione che rientra pienamente nella tipologia di quelle che stasera prenderemo in esame. Questo tipo di ensemble si diffonde rapidamente nei reparti inglesi, tedeschi e austriaci. La larga diffusione di questo fenomeno può essere spiegata grazie a una considerazione (ed è per questo che in precedenza ho parlato delle continue campagne militari). Mai come nel Settecento il contatto fra gli eserciti è così stretto: ai nostri giorni, si parla tanto di reparti unificati per quanto riguarda le truppe degli eserciti della NATO, ma all’epoca, sia nella guerra di successione polacca sia in quella per la successione austriaca, dall’una e dall’altra parte si schierano tutti gli stati europei, e i loro eserciti combattono normalmente raggruppati così come, d’altra parte, accadrà in seguito, nel periodo napoleonico. Ciò comporta la possibilità che alcuni usi siano mutuati da un reparto all’altro anche – e perché no? – in campo musicale, oltre che in campo strettamente milita18 re. La diffusione di queste formazioni di bande militari diventa talmente capillare che una serie di grandi e piccoli autori cominciano a scrivere per loro marce o composizioni d’occasione, dando così vita a un repertorio specifico. Fra questi troviamo, ad esempio, Haydn. Nel giro di poco tempo il repertorio si amplia, fino a comprendere anche varie trascrizioni di musica d’opera. A questo punto si pone la domanda: come mai si è passati da un repertorio «militaresco» e specifico a un repertorio di carattere più colto, qual è quello della trascrizione d’opera? Per rispondere a tale quesito credo che convenga prendere in esame la penetrazione di alcuni aspetti della vita militare all’interno della quotidianità delle società del tempo. È evidente che lo svolgersi di campagne militari comporti l’impatto più cruento ipotizzabile con la società civile, e certo tralasciamo questo aspetto. Se si considera tuttavia la questione in ogni sua sfaccettatura, va tenuto presente un complesso processo che si compie nel periodo settecentesco e che ha avuto in parte origine nel secolo precedente: la formazione di eserciti nazionali stabili. Questi passano dallo stato di «assemblaggio» di vari reparti di professionisti, nella maggior parte dei casi assoldati, a quello di veri e propri eserciti regolari con coscrizione volontaria o obbligatoria, con reparti la cui organizzazione era pianificata a livello teorico e, in caso di bisogno, concretamente operativi. Si pensi, ad esempio, all’esercito di George Washington nel 1776, che è formato da quadri di professionisti e, per il 90%, da normali cittadini che imbracciano le armi per la difesa della patria, secondo uno schema che corrisponde all’attuale modello di forze armate in molte nazioni. Tutti gli eserciti europei, a partire dai primi anni del Settecento, sono costituiti su varie unità, al comando delle quali, dai livelli più bassi dei gradi di ufficiale sino a quelli degli ufficiali superiori, sono posti prevalentemente i membri dell’aristocrazia e, marginalmente, i membri di quell’alta borghesia che pian piano si affaccia ai ruoli primari della vita sociale. Proprio negli stati dell’Est europeo, in Germania, in Austria e soprattutto in Russia, la relazione tra appartenenza all’aristocrazia e servizio militare o, meglio, servizio per il paese o il monarca svolto nell’esercito, diventa strettissima: nessun appartenente alla nobiltà avrebbe mai potuto sottrarsi a lunghi periodi di vita militare o, comunque, al ricoprire importanti incarichi di comando dei vari reparti. Nella vita quotidiana il rapporto fra nuovi eserciti e vita di società diviene strettissimo. Ne abbiamo testimonianza nella letteratura e nei giornali dell’epoca, che legano molto strettamente la vita quotidiana di qualunque cittadina tedesca, inglese o francese alla presenza di reparti militari; da qui tutto un profluvio di descrizioni di balli, con madamigelle che tentano di impalmare giovani ufficiali, cadetti di famiglie nobili tronfi nella loro divisa, duelli e tutto quello che una certa letteratura ha descritto ampiamente. È un periodo in cui, in un certo senso, si afferma lo stereotipo che tutti conosciamo: la divisa ha un grande fascino, tutti i nobili di allora sono in divisa, tutta la vita sociale di una località gravita intorno alla presenza di acquartieramenti dell’esercito, del reparto dalle divise variopinte, con gli ufficiali che frequentano i salotti e, che a loro volta, ricambiano l’ospitalità organizzando feste all’interno del loro reparto. In tali occasioni le fanfare, invece di eseguire le marcette militari, devono suonare musica da ballo o, comunque, musica alla moda. A queste occasioni non si adatta la musica per accompagnare le sfilate in parata dei reparti di fanteria o cavalleria; occorre suonare musiche da serata mondana alla quale partecipavano, peraltro, personaggi di elevato rango sociale avvezzi alla musica più colta e più in voga. Tenendo presente che la quasi totalità degli ufficiali sono aristocratici, troviamo che spesso buona parte dei loro attendenti e dei loro sottoposti, ivi compresi i musicisti o, meglio, i musicanti (questo è il temine ancora in voga negli ambienti militari) passano al loro servizio nel momento in cui essi ritornano alla vita civile. Una delle caratteristiche più tipiche del Settecento (soprattutto nella tradizione russa) è il fatto che nelle grandi case principesche e nobili vi siano servitori-musicisti che in precedenza avevano prestato servizio militare insieme al loro padrone. Questo è molto importante, perché vi è una sottile distinzione rispetto alle più tradizionali figure di musicisti al servizio delle case aristocratiche, come anche fu Bach o, per certi versi, Mozart: parlo di veri e pro19 pri servitori che svolgevano normali mansioni che nulla avevano a che vedere con la musica, ma capaci in particolari occasioni, posata la ramazza o il mestolo, di prendere in mano uno strumento e suonare. E poiché molti di essi si erano formati proprio in ambito militare è credibile che suonassero prevalentemente strumenti a fiato, i quali peraltro all’epoca comportavano minori difficoltà di esecuzione rispetto al violino, al violoncello o alla viola da gamba, che certo richiedevano la conoscenza di tecniche molto più complesse. In Boemia (anche in Austria e in tutti i territori ungheresi e oltre, ma circoscrivo il discorso alla Boemia, che è la terra da cui provengono la maggior parte dei musicisti che trascrivono opere per strumenti a fiato) un altro fattore lega strettamente l’utilizzo dello strumento a fiato con la vita quotidiana e con la vita militare: la presenza dei cosiddetti verbunkos. Dire che siano canti non sarebbe corretto. Non si tratta neanche di pezzi strumentali ma piuttosto di una sorta di piccoli spettacoli che vengono organizzati per il reclutamento dei contadini nelle campagne boeme. Sono normalmente organizzati dai reparti dell’esercito che inviano nei villaggi alcuni piccoli reparti di musicanti e di ballerini, i quali hanno il compito di realizzare degli spettacoli di vera e propria propaganda militare per convincere la popolazione maschile ad arruolarsi nell’esercito. In Inghilterra esisteva la ronda che passava nelle osterie per reclutare gli ubriachi mandandoli sulle navi della regia marina. Nei territori di lingua tedesca si diffonde invece questa forma meno brutalmente coercitiva di arruolamento, che peraltro — ripeto — può non essere ritenuta circoscritta soltanto alle zone per le quali vi sono le più numerose testimonianze in proposito. In ogni caso, già a partire dai primi del Settecento, era frequente incontrare questi gruppi di musicanti in divisa che facevano il giro delle campagne e dei villaggi per reclutare giovani soldati. Questo è un altro ipotetico canale di provenienza. Ricapitoliamo: abbiamo visto il mondo militare, abbiamo visto la formazione di questi gruppi all’interno di esso, il rapporto fra il mondo militare e il mondo civile e, quindi, l’esigenza di repertorio musicale non solamente di tipo marziale ma anche più colto e mondano. Abbiamo visto infine il collegamento anche con gli strati più bassi della popolazione, l’utilizzo di questi strumenti con i Verbunkos. C’è poi un altro fenomeno interessante, soprattutto in area tedesco-austriaca. Esistono già da epoca più antica delle cariche municipali particolarmente ambite, quelle dei cosiddetti Stadtpfeifer. Questi sono suonatori pagati dalla municipalità, dipendenti da essa a tutti gli effetti, che svolgono diversi compiti. In situazioni normali uno dei loro compiti è quello, per esempio, di dare l’allarme in caso di eventuali incendi o di situazioni analoghe con dei segnali acustici emessi mediante grossi strumenti a fiato dalle torri, dai campanili, insomma dalle varie posizioni che consentissero di sorvegliare il territorio circostante. Ma questo era il compito più limitato e più limitante. In realtà questi musici avevano un incarico molto più importante, che era quello di esibirsi ogni qual volta la municipalità organizzasse festeggiamenti di qualsiasi genere essi fossero. Abbiamo quindi un’ampia presenza degli Stadtpfeifer, sia per quanto riguarda le grandi manifestazioni religiose sia per quanto riguarda tutte le feste civili, dai festeggiamenti per il genetliaco del principe locale a qualunque altra manifestazione che richiedesse apparati scenici e musicali al di fuori della normale quotidianità della vita cittadina. Leggendo di questi personaggi, in un primo momento ho pensato che si trattasse di figure molto marginali, di praticoni, i quali, smesse le vesti del comune lavoro svolto ogni giorno, in determinate occasioni acquisivano come meglio potevano la veste dei musicisti. Non è invece assolutamente così. Questi musicisti, che suonano strumenti a fiato e non di altro tipo, frequentano una vera e propria scuola, normalmente della durata di cinque o sei anni. Superato l’esame finale, entrano a far parte di una vera e propria corporazione regolata da dettagliati statuti. Per comprendere quanto il loro ruolo sia importante e prestigioso, basta pensare che a queste corporazioni appartennero, per esempio, Quantz e Hassler, dunque figure di primissimo piano nel campo musicale; essi iniziarono la loro carriera con l’incarico di Stadtpfeifer. Altro dato interessante è che di norma 20 questa professione veniva tramandata di padre in figlio, con un percepibile innalzamento e miglioramento di generazione in generazione delle qualità, delle capacità e dell’approfondimento negli studi. Ripeto: questi strumentisti erano pagati per svolgere esclusivamente attività musicale, proprio perché essa richiedeva un impegno quotidiano costante. Ogni giorno erano chiamati a qualche mansione, fosse anche quella molto modesta di passare per le strade annunziando con squilli vari la lettura di editti e proclami. CARLO MARINELLI Avevano anche il compito di annunciare le varie ore del giorno. Di recente sono stato a Norimberga e ancor ora, in una piazza di questa città, a scopo folcloristico, c’è un gruppo che suona allo scoccare delle varie ore; non tutte, ovviamente, ma solo quelle del mezzodì, quelle della sera, e così via. Suonavano appunto dall’alto delle torri e delle mura cittadine e, per forza di cose, suonavano strumenti a fiato perché dovevano essere uditi. Per quel che riguarda i Verbunkos, questa è una parola ungherese, non una parola boema, e viene dal Werbung tedesco che significa «reclutamento». Questi strumenti erano suonati da musicisti zigani, tant’è vero che al di fuori dell’Ungheria si credeva che i Verbunkos fossero il canto popolare ungherese; tanto più che le danze ungheresi sono in realtà canti di coscrizione, perché il vero canto ungherese era andato perduto a causa dell’invasione dei turchi prima e dell’occupazione austriaca poi e si era rintanato in Transilvania. CORRADO NICOLA DE BERNART Prima di parlare di questo, vorrei concludere il discorso sugli Stadtpfeifer, che sono talmente organizzati che al loro interno viene nominato un musicus con il compito di dirigerli. Come ha detto il professor Marinelli, essi hanno l’impegno minimo di un certo numero di prestazioni professionali, come quelle relative all’annuncio delle varie ore del giorno, e anche di un certo numero di concerti da tenersi in varie giornate del mese, concerti a cui partecipava normalmente tutta la cittadinanza. Attualmente possiamo trovare qualcosa di simile nell’attività di molte bande della zona del Tirolo ma anche dell’Italia meridionale, dove esistono bande municipali che vengono chiamate per i festeggiamenti e per le grandi occasioni; sono mediamente di livelli qualitativi piuttosto approssimativi, visto che oggi gli strumentisti che ne fanno parte non credo studino cinque o sei anni. Gli altri canali dai quali questa musica per fiati trae grande implulso sono in particolare quello della musica da convivio e quello della musica all’aperto. Per quel che riguarda la musica da convivio, la cosiddetta Tafelmusik (letteralmente «musica da tavola»), che si diffonde a macchia d’olio soprattutto nei territori tedeschi, è musica scritta appositamente ed esclusivamente per allietare i banchetti. Non è detto che debba trattarsi di banchetti aristocratici, perché abbiamo esempi di Tafelmusik riferiti anche a contesti molto meno altisonanti del grande banchetto dell’Elettore di Bonn, per il quale Beethoven scrisse una esemplare Tafelmusik, l’Ottetto op. 103. I primi esempi risalgono già ai primi anni del Seicento: le musiche di Schein e i vari «banchetti musicali» sono in realtà Tafelmusik. All’interno di questo repertorio, se pure sono presenti (si veda Telemann, per esempio) composizioni che comprendono l’utilizzo di archi e di vari organici strumentali, si ha tuttavia una particolare preponderanza dell’uso degli strumenti a fiato e di gruppi formati esclusivamente da fiati. Anche questo è da mettere in relazione con gli stretti rapporti tra aristocrazia e mondo militare, che a mio parere favoriscono la progressiva introduzione dello strumento a fiato anche nei salotti civili di quegli stessi personaggi che lo avevano ascoltato indossando la divisa militare. Gli esempi di Tafelmusik specificatamente scritta per musique d’harmonie in questo periodo si susseguono rapidamente: Mozart stesso scrive delle Tafelmusik per questo tipo di formazione. Un esempio famoso possiamo trovarlo proprio nella scena della cena del Don Giovanni. In questo contesto un gruppo di musici esegue una Tafelmusik e, guarda caso, questo gruppo è una musique d’harmonie, 21 cioè una formazione di strumenti a fiato che, come vedremo dopo, esegue delle trascrizioni tratte da opere italiane e da un lavoro di Martín y Soler. È molto divertente questa idea dell’opera nell’opera, idea che Mozart utilizza spesso. Anche nelle Nozze di Figaro c’è la scena in cui Figaro annuncia: «Signori, signori, di fuori ci son i suonatori». Anche in questo caso, dalle parole del testo si deduce che egli fa riferimento a trombe e tamburi, dunque a un tipo di formazione che rientra nella tipologia di quelle che abbiamo visto. La stessa cosa succede per quanto riguarda la cosiddetta «musica all’aperto». In questo caso esisteva già una nettissima tradizione, soprattutto nell’ambito dei paesi inglesi ma anche in Francia. Questo deriva probabilmente dalle spinte filosofiche dell’Illuminismo, che teorizzavano l’idea di una musica che si facesse semplice e che fosse alla portata di tutti; questa concezione di un’arte semplificata, che possa essere agevolmente compresa ed apprezzata dal più vasto pubblico possibile e trovi diffusione generalizzata, porterà allo scardinamento delle forme e delle strutture complesse del periodo precedente, e all’affermazione di schemi compositivi razionali, con melodie semplici e cantabili. È la grande rivoluzione dello stile galante. Dei concerti all’aperto per la popolazione abbiamo tante testimonianze: da quelli nei parchi londinesi, a quelli per le grandi celebrazioni della monarchia francese, a quelli nei giardini e nella piazze di Lipsia, Berlino, Vienna, ecc. Per inciso, gli strumenti a fiato conoscevano un notevole impulso di diffusione anche in conseguenza dello sviluppo della sinfonia che a Mannheim e a Berlino trova i suoi principali centri di produzione. Nell’ambito di questa ampia produzione di musica nei parchi, in luoghi aperti, nelle piazze, questi strumenti erano idonei a risolvere i problemi acustici derivanti da una collocazione così particolare. Ho una serie di documentazioni attinenti proprio al periodo mozartiano, che eventualmente leggeremo se resterà un po’ di tempo, da cui si evince che l’utilizzo di gruppi di fiati per qualunque tipo di manifestazione all’aperto, quali serenate, cassazioni, Nachtmusik, ecc., era estremamente comune e quotidianamente riscontrabile. Questi canali sin qui delineati portano alla vasta diffusione del loro repertorio, repertorio scritto ex-novo appositamente per queste formazioni oppure ricavato grazie a delle trascrizioni. L’Inghilterra è la nazione dove non abbiamo trovato delle trascrizioni di materiale d’opera. Qui il materiale scritto per questo tipo di formazioni era materiale nuovo, originale, che non prendeva ispirazione dal materiale operistico. In tutte le altre nazioni, invece, a un tipo di repertorio scritto ad hoc si unisce un repertorio di più facile consumo, di più facile realizzazione e, probabilmente, di più alto profitto economico, rappresentato dalle trascrizioni d’opera. Queste, sfruttando l’onda del successo che faceva dell’opera lo spettacolo più seguito e alla moda (e questo lo abbiamo acclarato anche negli anni passati), divennero presto repertorio pressoché esclusivo di molti ensemble di fiati. Successivamente Paolo Ravaglia ci parlerà non solo di quanti musicisti si dedicarono a questo lavoro, ma anche di quali enormi interessi economici e commerciali ruotassero intorno a questo fenomeno: nacquero addirittura delle case editrici che erano specializzate nelle trascrizioni in tempi rapidissimi di tutto il materiale operistico. Chi erano i musicisti che componevano tali gruppi? Per quel che riguarda questo argomento credo che sia preferibile leggere direttamente le fonti. Abbiamo detto di una nuova ricerca estetica connessa all’idea settecentesca di semplicità e comprensibilità. Nella sua Storia della musica Burney scrive che la musica potrebbe anche non essere considerata indispensabile; il suo scopo è quello di essere gradevole all’udito, di suscitare piacevoli sensazioni. L’anno passato lessi alcuni scritti di Cooper, un filosofo inglese che sosteneva che tutto ciò che è sostanzialmente semplice è buono e bello. Si tratta di un tipo di semplificazione dottrinaria e filosofica che nella musica si concretizza, appunto, nello scardinamento delle forme complesse. Ecco perché Johann Sebastian Bach non fu apprezzato alla fine del Settecento; egli sfuggiva completamente alla mentalità degli autori posteriori. Si predilige la ricerca di piccole forme, più semplici e lineari, la cui gradevolezza e dolcezza accompa22 gnasse i momenti quotidiani di svago. C’è una lettera di Leopold Mozart al figlio; in essa, proprio a proposito di composizioni giocose da scriversi per questo tipo di occasioni, gli consiglia di scrivere qualcosa di breve, facile e popolare. Qui è sintetizzato il concetto sostanziale della musica del tardo Settecento. Leopold scrive: Ti immagini che sia cosa indegna di te? Se così è hai completamente torto. Quando Bach [si riferisce a Johann Christian Bach] viveva a Londra non scriveva forse altro che bazzecole di questo genere? Anche ciò che è leggero può essere grande, se è scritto in uno stile naturale, scorrevole e facile e se allo stesso tempo si basa su una solida composizione. Questi lavori son più difficili da comporre... Ma poi alla fine aggiunge: Una buona composizione, una solida costruzione, il filo: ecco ciò che distingue il maestro dal dilettante anche nelle piccole cose. Ma pur sempre di piccole cose si trattava. E di piccole cose Mozart ne scrisse a getto continuo, tanto che si è sospettato che egli stesso fosse l’autore di una trascrizione per musique d’harmonie del Don Giovanni. Certamente anch’egli si è dedicato a questo repertorio di puro intrattenimento scritto per le situazioni più disparate. Oltre alla musica da convivio, egli scrive una serenata per la festa delle matricole della facoltà di fisica di Augusta, una musica molto semplice per un organico che comprendeva una formazione varia di flauti, oboi, corni, timpani e addirittura anche un quintetto di archi solisti. Ma le formazioni erano veramente intercambiabili e legate all’occasione e a leggi di mercato. Successivamente Mozart comporrà un altro divertimento, scritto per archi, due corni e due clarinetti. Lo stesso divertimento però dovrà poi rifilarlo a un altro committente, che evidentemente pagava in denaro contante, per cui sulla base delle esigenze di costui la formazione viene cambiata e comprenderà due oboi, due corni inglesi, due fagotti e due clarinetti, la formazione della musique d’harmonie. I musicisti che venivano chiamati e le modalità di esecuzione sono veramente incredibili: personalmente non pensavo di imbattermi in cose del genere. C’è una lettera di Nannerl, la sorella, in cui è scritto: L’otto ebbe luogo la prova della Finalmusik che mio fratello ha composto per le matricole degli studi filosofici dell’università. L’esecuzione avvenne alle nove. Ha avuto inizio alle otto e trenta a casa nostra e poi, partendo da qui, si è trasferita a Mirabel, residenza del principe arcivescovo, dove si è protratta fino alle nove e quarantacinque. Di là si è portata al collegio dove è proseguita fino alle undici. Le esecuzioni di questo genere di composizioni erano spesso itineranti: gli ensemble di fiati spesso giravano per le strade, recandosi via via nei luoghi dove venivano chiamati. Ma la testimonianza più singolare, interessante perché è Mozart stesso a darcela, riguarda gli strumentisti, confermando ciò che avevo detto a loro riguardo. Nel suo epistolario, infatti, vi è una lettera del 1781 dove scrive di una serenata composta per un sestetto di fiati: Scrissi questa musica il giorno di Santa Teresa [parla dunque di una composizione realizzata nell’arco di ventiquattro ore, il che è già di per sé indicativo; si evince che ciò fu fatto per scopi economici] per la sorella di Frau von Hickel [ovvero la cognata di Herr von Hickel, pittore di corte, in casa della quale venne eseguita per la prima volta appunto nell’ottobre del 1781]. I sei esecutori erano dei poveri diavoli che però suonavano abbastanza bene insieme, il primo clarinetto e i due corni in particolare. È evidente che Mozart si riferisce a dei musicisti che non appartenevano alle orchestre che egli aveva normalmente a disposizione ma che erano stati reperiti tra quelli provenienti dall’humus più popolare degli Stadtpfeifer, dei musicanti di reggimenti ecc.; erano certo musicisti «praticoni», perché altrimenti Mozart ne avrebbe parlato molto diversamente, come parla diversamente degli eccellenti musicisti dell’ensemble d’harmonie della corte viennese: Ma la ragione principale che mi spinse a comporre questa serenata fu quella di far sentire qualcosa di mio a Herr von Strack. 23 Costui era il cameriere personale di Giuseppe II, che Mozart sperava fosse presente a casa di Hickel. Che via contorta! Eseguire una composizione a casa di un dignitario, sperando nella presenza di un secondo dignitario, il quale a sua volta potesse fare da intercessore presso Giuseppe II. Mozart poi scrive: Essi venivano trascinati altrove e pagati perché la ripetessero. La serenata quindi costituì un piccolo business per i sei poveri diavoli. Essi furono infinitamente grati al compositore, autore della musica. Mozart stesso in una successiva lettera scrive: Alle undici di sera mi offrirono, con loro musiche, una serenata eseguita da due clarinetti, due corni e due fagotti. Questi suonatori pregarono che gli si aprisse la porta e, disponendosi nel mezzo del cortile di casa, mi sorpresero proprio mentre stavo per svestirmi. Si trattò dunque di una vera serenata, di una Nachtmusik che gli venne offerta da questi poveri musicisti felici di aver guadagnato parecchi soldi. Un’altra conferma della giocosità semplificativa insita in questo genere musicale l’abbiamo in un’altra lettera di Mozart, in cui egli accenna a una serenata per soli fiati da lui composta e di cui tuttavia non abbiamo più traccia. La lettera è interessante perché egli dichiara nuovamente di aver dovuto comporre il brano molto alla svelta; l’esigenza della rapidità nella realizzazione di questo tipo di pezzi comportava certo una minore elaborazione strutturale e compositiva. Ancora qualche breve nota prima di concludere questa introduzione. I reparti militari di strumentisti a fiato di cui abbiamo parlato avevano avuto già nel Seicento formazione anche per altri ruoli e utilizzazioni. Noi sappiamo, ad esempio, che l’organizzazione degli organici strumentali presso la corte francese prevedeva la Chambre du roi, il complesso che aveva istituzionalmente il compito di produrre ed eseguire musica d’intrattenimento e i cui musicisti furono componenti del gruppo di Lulli, ma anche la Grand écurie. Questa era un gruppo formato da musicisti «militarizzati», un corpo di soldati-musicanti a cavallo che poteva spostarsi seguendo il re e che si esibiva sostanzialmente per il piacere del monarca nei padiglioni e nelle riserve di caccia di Fontainenbleau, Saint-Germain e in altre località dove la corte si recava periodicamente in occasione delle varie partite di caccia. L’usanza di eseguire composizioni musicali durante le riunioni di caccia fu particolarmente diffusa anche nella zona austro-ungarica (e ne troviamo veri e propri esempi fino all’epoca più recente) con la formazione di gruppi ad hoc che seguivano il monarca o i nobili per allietarne anche in queste occasioni i momenti conviviali e provvedere poi a quelle segnalazioni tipiche del cerimoniale della caccia. Corni e strumenti similari trovavano così ulteriore utilizzo. Vi è inoltre la presenza di momenti esecutivi anche durante lo svolgersi delle periodiche manovre militari. Nulla a che vedere ovviamente con le attuali esercitazioni, che di fatto sono una sorta di simulazione di un ipotetico contesto bellico con risultati certo di scarso aspetto estetico e coreografico. La manovra militare nel Seicento e nel Settecento era qualcosa a metà fra una parata e una esibizione coreografica, il cui fine era quello di dimostrare la forza, l’ordine, la bellezza e l’abilità di manovra dei vari reparti. Tutto ciò aveva un sapore ben poco guerresco, ben poco bellico ma molto mondano. Le manovre militari si effettuavano in zone aperte, dove venivano costruiti degli appositi padiglioni per le autorità, ed erano completate da ricevimenti, balli, concerti, banchetti, secondo un uso peraltro che si è protratto fino agli anni Trenta e Quaranta del Novecento; forse solo dopo il secondo conflitto mondiale esso è venuto meno. Si pensi per esempio agli Junker prussiani e alla loro concezione della vita militare, giunta fino al periodo hitleriano, in cui convive il senso di appartenenza al corpo militare, perfetta macchina bellica, con l’idea di un preciso stile di vita sociale. 24 CARLO MARINELLI A questo riguardo, io non commetterei l’errore di precorrere troppo i tempi, perché si tratta comunque di due livelli distinti che non si confondevano poi tanto! Vi era infatti un livello ufficiale, con la presenza di tutti questi complessi che suonavano, e un altro, che è tipico di un mondo in cui la borghesia comincia a diventare la classe dominante e in cui si afferma un informale far musica per le strade. Le testimonianze delle trascrizioni di musiche operistiche – ricordiamo che spesso la sera della prima era già resa disponibile la trascrizione dall’editore – riguardano musiche di livello dilettantistico, ed è questo l’importante. I gruppi che si riunivano e andavano in giro la sera per le strade campavano letteralmente in questo modo al pari, se vogliamo fare un confronto, dei suonatori di organetto; suonavano girando, insomma, perché avevano bisogno di guadagnarsi la giornata. È questo che va sottolineato: non si tratta più di un veicolo aulico, di corte, non è più un veicolo istituzionale. CORRADO NICOLA DE BERNART Infatti il punto interessante relativo a questo tipo di trascrizione, secondo me, è una sorta di duplicità di natura. Ne abbiamo discusso anche con Paola Bernardi e Paolo Ravaglia. Al contrario, le trascrizioni che abbiamo visto nel periodo precedente, almeno quelle di cui mi sono occupato personalmente, ci hanno posto di fronte a una tipologia di brani destinata sostanzialmente a musicisti professionisti (si pensi, per esempio, a D’Anglebert che trascrive Lulli), o comunque a quel vasto pubblico di madamigelle e giovani signori istruiti musicalmente, i quali, volendo suonare, utilizzavano queste semplici musiche trascritte dall’opera, come quelle di Charles Babell, che non presentavano problemi tecnici e che un mediocre tastierista poteva tranquillamente eseguire. Una situazione analoga abbiamo trovato nell’Inghilterra haendeliana, dove le trascrizioni si erano diffuse in modo talmente capillare che, accanto a quella iper-tecnicistica e di complesso livello esecutivo di William Babell, erano comparse trascrizioni estremamente semplificate che un allievo di clavicembalo di cinque anni avrebbe potuto suonare dopo appena un paio di mesi di lezioni. PAOLA BERNARDI In seguito ascolteremo anche qualche esempio di tipo musicale. CORRADO NICOLA DE BERNART Anche questo tipo di trascrizioni per fiati ha una penetrazione notevole a vari livelli, come ricordava il professor Marinelli: dalla musica delle strade alla musica delle corti. Ma vi è un’importante differenza rispetto a quanto abbiamo visto finora: le trascrizioni per fiati sono realizzate principalmente per essere suonate da musicisti e non tanto per essere suonate da persone che si affacciano come amatori alla conoscenza musicale. Per questa tipologia di fruitori fioriranno nello stesso periodo (e noi ne abbiamo trovate moltissime), sulle stesse arie d’opera, sullo stesso materiale musicale di partenza, delle trascrizioni destinate a persone che studiano musica per diletto, che fanno musica in salotto. Esse saranno l’humus da cui cominceranno a nascere tutte quelle più diffuse trascrizioni per pianoforte (noi ne abbiamo trovate moltissime per clavicembalo e fortepiano) che verranno suonate da persone per puro diletto per tutto l’Ottocento. Le trascrizioni per ensemble d’harmonie, invece, sono lavori che certo guardano al mercato di fruitori intesi più come ascoltatori; in tal senso il contributo che diedero alla diffusione della conoscenza dell’opera al di fuori del contesto teatrale fu enorme e non ha riscontro anche in altri periodi. Ma esse sono comunque trascrizioni che nascono pensate per una esecuzione affidata non all’amatore ma a musicisti che svolgessero realmente tale lavoro come buoni professionisti o che, comunque, quel tipo di professione facessero per 25 sbarcare il lunario. Questa è forse la cosa che più differenzia questo tipo di trascrizioni rispetto a tutte quelle che abbiamo esaminato precedentemente. PAOLA BERNARDI Chiedo scusa se mi inserisco, ma studiando le parti delle trascrizioni delle opere che ascolteremo domani ho fatto alcune riflessioni. Non vi è dubbio che coloro che scrivono le musiche sono persone che conoscono molto bene il proprio strumento ma che a volte non tengono conto di alcuni fattori importantissimi; Don Bartolo, ad esempio, viene fatto cantare in acuto, o viene affidata la parte di un soprano a un corno. In ogni caso, si tratta certo di persone che conoscono benissimo la prassi esecutiva. Mi rivolgo ora ai musicisti. Noi sappiamo che una frase, quando si ripete, è prassi esecutiva che venga leggermente cambiata. In questa piccola citazione sentirete con quale equilibrio Vent varia una piccola frase delle Nozze di Figaro. (esecuzione dal vivo) Come avete sentito, Vent introduce la fioritura con molta cautela e con risultati molto buoni. Come questo esempio ve ne saranno certamente molti altri. Proseguendo, leggiamo sempre Mozart. La parte di Figaro porta delle note uguali, mentre la parte orchestrale non risponde così. Ascoltate. (esecuzione dal vivo) Cosa fa Vent quando realizza la trascrizione? Mozart non scrive, si affida alla prassi esecutiva: è inutile che lo dica, il cantante sa come deve cantare. Abbiamo numerosissimi esempi in cui si precisa quello che si vuole nell’orchestra, mentre non vi è alcuna precisazione nella parte solista, in quanto il solista sa quel che deve fare. Vent, invece, con molta precisione fornisce indicazioni, il che significa che conosce la prassi esecutiva dell’epoca. Si tratta allora di musicisti nel vero senso della parola, anche se delle volte portano Figaro a cantare in acuto e il soprano in basso. Ma proseguiamo. Sono quindi persone che hanno mano e che conoscono la musica e la prassi esecutiva. Troviamo certo delle discordanze; per esempio, a volte non sentiamo nulla della polifonia. Quando cantano sei persone, il trascrittore ha difficoltà a farlo sentire e unifica il discorso polifonico facendolo diventare armonico; il che significa cambiare il tessuto musicale. Questo si verifica perché è difficile trascrivere un qualcosa di vocale per strumenti a fiato. In proposito abbiamo una testimonianza di Mozart. Leggo una lettera dove egli scrive: Per domenica, entro otto giorni, devo strumentare la mia opera prima che venga un altro prima di me e abbia lui il profitto anziché io... Evidentemente queste trascrizioni venivano pagate benissimo, dunque Mozart (era suo padre che lo portava sempre verso il lato pratico della sua attività) deve in una settimana trascrivere tutta l’opera. Ma continuiamo a leggere: ... e devo comporre anche una nuova sinfonia. Come sarà possibile? Non puoi immaginare come sia difficile strumentare una cosa simile per gli strumenti a fiato [se era difficile per Mozart figuriamoci per i trascrittori] in modo che non vada perduto nulla dell’effetto. Ebbene, devo utilizzare anche la notte, non c’è altro da fare... Anch’egli quindi incontrava queste difficoltà. Paolo Ravaglia è l’unico tra noi che può calarsi in questo genere di problemi, nei pregi e difetti di queste trascrizioni, visto che domani dovrà suonarle. Sarebbe allora il caso che aggiungesse qualcosa prima di fare uno stacco musicale riprendendo il discorso delle trascrizioni. 26 PAOLO RAVAGLIA Mozart scrive che era entusiasta di queste musiche, e gli stessi strumentisti erano entusiasti delle musiche perché le aveva scritte Mozart. Questi esecutori, insomma, dovevano essere veramente bravi. Noi, come ottetto di fiati, domani eseguiremo varie trascrizioni e abbiamo a nostre spese sperimentato quanto sia difficile suonarle bene. Indubbiamente, adesso come allora, sono indispensabili una solidissima intonazione, dato che la diminuzione del peso strumentale orchestrale comporta delle difficoltà che non possono essere superate se non si è particolarmente intonati, e naturalmente la ricerca di un modo di suonare che è differente da quello che potrebbe essere definito «sinfonico»: questa non è né musica da camera nel senso più stretto del termine né musica di tipo sinfonico. Bisogna cercare di operare con duttilità, facendo musica da camera ma avendo dinanzi brani che sono quasi un ibrido. Quali sono i problemi interpretativi? Visto che ci troviamo davanti alla trascrizione di opere, un primo aspetto è quello del rapporto dinamico con l’originale. Il rapporto timbrico dovrebbe essere già stato risolto dal compositore-trascrittore, se ha fatto un buon lavoro; quello dinamico si presenta come problema fondamentale, il più importante di tutti. I brani originali scritti per Harmonie non hanno difficoltà particolari, perché, già pensati all’origine strumentalmente, contengono un’equa distribuzione delle parti e usano una scrittura definita, nel senso dell’accompagnamento, della domanda, della risposta, del fraseggio, delle frasi, dei periodi. Nel caso della ouverture delle Nozze di Figaro che domani eseguiremo, il problema dinamico si presenta in tutta la sua ampiezza: il brano è strumentale, non abbiamo delle voci, ma è per orchestra. Da qui il problema dinamico dei piani sonori e della consistenza complessiva; bisogna riuscire a evitare di creare dei buchi, dei cali di tensione che possono facilmente verificarsi, perché l’ouverture delle Nozze di Figaro è stata creata e pensata all’origine da Mozart con un equilibrio che corrisponde a un organico orchestrale. Eseguirla con un ottetto (che a quel tempo poteva diventare anche un nonetto, perché molto spesso la parte del basso era raddoppiata da un serpentone o da un controfagotto, oppure, ancor più facilmente, da un contrabbasso, più duttile rispetto a quelli) implica quindi un problema di dinamica, nel senso che si possono realizzare dei pianissimi ma si hanno problemi in senso contrario. Per dare accenti, per cercare di essere brillanti nell’accentuazione di certe frasi senza essere eccessivamente pesanti, avendo poca dinamica a disposizione rispetto a un’orchestra, si corre il rischio di rompere il suono, di cambiare il timbro nel senso negativo del termine, rendendo quindi l’effetto musicale meno convincente. Per quanto riguarda invece il rapporto con la parte vocale, si aggiunge un altro problema, un altro ostacolo: viene a cambiare l’equilibrio generale nell’ottetto, nel senso che ad alcuni strumenti vengono assegnate parti che sono nate vocali, di assoluta preminenza, come nel caso di Vent accade per l’oboe. Vi sono poi problemi di distribuzione delle parti non solamente in merito alla loro maggiore o minore vicinanza con le voci ma anche alle preferenze strumentali dello stesso compositore e trascrittore. Le voci, quindi, vengono trascritte per strumenti e inevitabilmente si crea uno squilibrio di fondo che si ripercuote sulle parti che devono suonare tutti gli altri. Molto spesso, a causa di questo squilibrio, alcuni strumenti, in percentuale, hanno grande espansione rispetto agli altri, per esempio, nel nostro caso l’oboe. Vent, dunque, oboista egli stesso, ha trascritto Le nozze di Figaro per oboe; le parti principali vengono assegnate in gran parte al primo oboe, al quale poi risponde il secondo oboe, mentre i poveri clarinetti vengono sempre relegati in secondo piano. Un altro aspetto è quello che corrisponde alla necessità di verificare la trascrizione con le reali possibilità degli strumenti. Possiamo infatti affermare che le trascrizioni, in quanto a distribuzioni delle parti, si sviluppavano tenendo anche conto dello stadio di perfezione raggiunto all’epoca dagli strumenti. Prendendo ad esempio il clarinetto, esso aveva una intonazione molto precaria innanzitutto a causa della sua fisica acustica, avendo il 27 tubo cilindrico e non conico e realizzando i suoni armonici alla dodicesima e non all’ottava, come fanno oboe e flauto. Nelle note più gravi tendeva a essere calante, lo stesso negli acuti, e tra la parte superiore a quella inferiore della sua gamma sonora aveva degli scompensi che non sempre gli strumentisti riuscivano a eguagliare e a equilibrare. Per queste ragioni, nell’assegnare le parti principali ad altri strumenti rispetto al clarinetto, poteva esserci dunque una motivazione di tipo tecnico o strumentale. Non credo tuttavia che questo fosse il caso delle trascrizioni di Vent. È bene ricordare che egli suonava e scriveva per il più famoso gruppo di fiati del periodo, ossia l’Harmonie della corte di Vienna, in cui suonavano i fratelli Stadler al clarinetto, Vent stesso come secondo oboe e come primo oboe Joseph Triebensee, che fu peraltro anche trascrittore di importanza fondamentale. Costoro, in quanto ottimi esecutori, sicuramente non avevano problemi riguardo alle scelte interpretative e alla risoluzione delle varie difficoltà tecniche: erano bravi e in grado di eseguire alla perfezione le parti che Vent o altri avrebbero assegnato ai vari strumenti. Vent, tuttavia, doveva essere piuttosto egocentrico, poiché nelle trascrizioni non assegnò mai parti importanti ai clarinetti, nonostante negli originali Mozart stesso lo facesse. Nelle Nozze di Figaro, l’aria del «farfallone amoroso» viene affidata ai due clarinetti, senza alcun problema né di accompagnamento né di svolgimento della melodia; Mozart, peraltro, amava molto il suono del clarinetto. Nella trascrizione di Vent questi strumenti non vengono usati nello stesso modo e le parti principali vengono assegnate al primo e al secondo oboe. È presumibile che in questo Vent peccasse di protagonismo: in quanto oboista egli stesso, voleva far risaltare le proprie qualità tecniche e le sue capacità di fraseggio. Un’altra prova che il clarinetto, soprattutto nel periodo precedente, quello barocco, non fosse certamente un gioiello di intonazione, è data dal fatto che un autore come Pokorny scrisse due differenti concerti, uno per primo clarinetto solista, intonato nel registro dei suoni armonici, e un altro per secondo clarinetto solista, intonato nel registro dei suoni naturali. In effetti vi erano ancora molti problemi strumentali. C’è anche da dire che la stragrande maggioranza dei musicisti era di scuola boema, universalmente riconosciuta come la migliore sia nella preparazione di ottimi strumentisti sia nella costruzione degli strumenti. I laboratori artigianali fornivano esemplari che sarebbero stati all’avanguardia in tutto il mondo di allora. PAOLA BERNARDI Non dimentichiamo che comunque la finalità primaria è quella della divulgazione. Anche quando si scrive per ensemble di fiati sentiamo la melodia, che deve essere ben delineata. Certo anche la parte armonica d’accompagnamento deve essere altrettanto interessante. Ma spesso ciò non viene ritenuto importante dai trascrittori; l’importante è trasmettere il motivetto, perché il giorno dopo la prima chiunque possa canticchiarlo: questa è la finalità. Se Paolo Ravaglia ha terminato potremmo fare un salto indietro. PAOLO RAVAGLIA Vorrei aggiungere soltanto che la prova che queste trascrizioni fossero un business finanziario nel senso moderno del termine è data dal fatto che nella stessa Vienna vi era un negoziante, un certo Lausch, di cui non siamo riusciti a trovare ulteriori notizie, il quale pagava personalmente musicisti vari perché scrivessero delle trascrizioni che poi poneva in vendita nel proprio negozio, realizzando peraltro grossi guadagni, visto che la domanda era grandissima. Ciò è positivo nel senso della diffusione della musica ma negativo perché inevitabilmente certe trascrizioni venivano scritte in maniera meno raffinata e curata, quando non addirittura grossolana. Come la professoressa Bernardi ha notato in precedenza, infatti, non era necessario che questa musica ricreasse l’aspetto drammatico del teatro; si trattava di musica sostanzialmente funzionale, che doveva fornire l’esemplifica28 zione più immediata della melodia e cercare di essere il più orecchiabile possibile. Penso inoltre che potesse essere anche un ottimo mezzo per certi autori minori, compositori di non meraviglioso estro o natura, i quali, potendo scrivere cose così semplici rispetto alla stesura di un’opera originale vera e propria, aumentavano comunque le proprie possibilità di successo e di fama presso una cerchia maggiore di persone. CORRADO NICOLA DE BERNART In relazione alla diffusione degli strumenti a fiato, nella sua Storia della musica pubblicata nel Settecento, Burney specifica che in Boemia la diffusione della relativa istruzione era talmente capillare che in ogni piccolo villaggio esisteva sempre una scuola, che egli addirittura paragona a veri e propri conservatori, e un piccolo gruppo di strumentisti. CARLO MARINELLI Certamente! L’istruzione di allora prevedeva che il maestro elementare insegnasse la musica, unico esempio nel Seicento e nel Settecento di scuola elementare che contemplasse l’insegnamento della musica. I maestri elementari della Boemia erano tutti musicisti: la Boemia era il paese più musicale d’Europa, e non a caso ha esportato musicisti in tutta Europa: i boemi hanno creato la scuola di Mannheim, i boemi hanno creato la scuola di Vienna, i boemi hanno creato la scuola di Berlino. Le tre scuole di cui avete parlato sono tutte di origine boema. Questo è estremamente importante: la Boemia è stato un centro musicale di prim’ordine a partire addirittura dal Quattrocento, perché è già da quell’epoca che quel territorio comincia a esportare musicisti. Quando la Boemia cessa di essere un paese indipendente e diventa parte dell’impero austriaco ha inizio la diaspora dei suoi musicisti per tutto il mondo. Il termine «bohémien» deriva appunto da Boemia: già nel Trecento i boemi erano famosi in tutta Europa per le loro abilità di commedianti; e i commedianti, come sapete, allora dovevano essere anche musicisti. Adesso è solo un piccolo paese ma dal Trecento al Settecento è stato un grande regno e un centro culturale veramente straordinario. Proprio perché avevano alle spalle una tradizione che altri paesi non avevano, i boemi erano anche degli abilissimi costruttori di strumenti. PAOLO RAVAGLIA Peregrini erano anche strumentisti e compositori, oltretutto desiderosi di affermazione e gran lavoratori. Triebensee, che era il più grande fra questi e di cui si ha qualche informazione in più, era impiegato contemporaneamente in due orchestre e in un paio di Harmonie, facendo insomma una carriera che farebbe invidia a qualsiasi rampante strumentista di adesso. Solo un’ultima considerazione. L’organico della Harmonie era elastico e le trascrizioni varie non tanto per problemi tecnici ma anche per desiderio stesso degli esecutori. Vent per primo, suonando il secondo oboe nella Harmonie dell’imperatore e il corno inglese in un altro gruppo, trascriveva gli stessi brani in modo diverso a seconda che egli dovesse fare da secondo oboe nel primo gruppo o suonare l’altro strumento nel secondo. In altre parole, non vi erano solo diversi organici a seconda del committente che pagava ma anche diverse versioni di uno stesso brano per le preferenze strumentali degli autori. CORRADO NICOLA DE BERNART Durante l’ascolto di queste musiche vi mostrerò delle illustrazioni che sono a mio avviso divertenti da vedere. Alcune sono relative alle figure dei militari-strumentisti cui abbiamo fatto cenno, un’altra è un elenco di opere rappresentate nel 1790 che in un certo senso spiega come mai esistessero tante trascrizioni di tante diverse opere. Abbiamo parlato prevalentemente delle trascrizioni da opere di Mozart ma nel Fondo Pitti sono conservate anche trascrizioni di opere di tutte le scuole europee. Questi elenchi (che pur29 troppo sono molto lacunosi ma sono anche gli unici in mio possesso) sono molto interessanti perché documentano come a Parigi, a Vienna, a Madrid ecc. venissero messe in scena nello stesso anno moltissime opere, in numero almeno tre volte superiore a quello che oggi normalmente un grande teatro riesce ad allestire. Inoltre, la provenienza di questi lavori è veramente molto ampia, perché sono di autori italiani, francesi, tedeschi, e via dicendo. VOCE DAL PUBBLICO Il commercio di trascrizioni per fiati era dovuto al fatto che, oltre ai gruppi di semiprofessionisti, c’era una vera e propria produzione casalinga di queste musiche? CORRADO NICOLA DE BERNART In questo caso non è così ma esattamente l’opposto. Al contrario dei brani trascritti per clavicembalo o per flauto che abbiamo trovato, le trascrizioni per fiati non erano destinate all’uso domestico. Talvolta potevano essere eseguite da complessi preesistenti di musicisti in un contesto domestico su commissione, ma non si trattava certo di trascrizioni pensate per famiglie di amatori che volessero divertirsi a suonare il clarinetto o il fagotto. CARLO MARINELLI Proprio questo è importante sottolineare, che si passi cioè dalla trascrizione per colui che la esegue per il proprio personale diletto a questo tipo di diffusione a vasto respiro. L’utente musicale non è più colui che compra lo spartito, suona e canta, ma è colui che ascolta, che ascolta non soltanto al teatro ma anche altrove. Questi esecutori suonavano in luoghi determinati proprio per attirare gente; suonavano all’angolo di una piazza e, a poco a poco, la gente faceva capannello attorno a loro, senza che questo fosse programmato. E cosa eseguivano allora? Eseguivano l’aria dell’opera rappresentata in teatro in quel momento e che la gente cantava. PAOLO RAVAGLIA Purtroppo ci è stato consentito un accesso molto limitato al Fondo Pitti strumentale per problemi logistici del Conservatorio di Firenze, la cui biblioteca è depositaria di questo immenso patrimonio. CARLO MARINELLI Io credo che sia un fondo di provenienza austro-ungarica, perché le opere non mozartiane che Paolo Ravaglia ha trovato sono quasi tutte presenti in quanto eseguite a Vienna. CORRADO NICOLA DE BERNART Nell’elenco che vi è stato distribuito (purtroppo relativo solo al 1790, dunque piuttosto tardo) potrete notare che per tre opere di Mozart che vengono rappresentate ve ne sono altre dieci degli autori più disparati. In ogni caso sono tutte opere che abbiamo ritrovato in trascrizione. PAOLA BERNARDI Per prepararci all’ascolto di domani, vorrei fare solo alcuni accenni musicali che consentono di capire i diversi modi di trascrivere. Con la prima trascrizione torniamo indietro nel tempo, alla corte di Luigi XIV, dove al cembalo siede D’Anglebert, uno dei compositori più sensibili della musica francese che trascrive per questo strumento un brano tratto dall’Armide di Lulli. Ascoltiamone solo dei brevi accenni. Ci troviamo in un ambito in cui chi suona deve saperlo fare molto bene: il compositore è uno dei più grandi musicisti francesi e il pezzo che scrive è splen30 dido. Non cambia nulla della struttura di Lulli ma usa una lingua sua particolare, per cui, con pochi e piccoli abbellimenti e scioglimenti di accordo, trasforma stilisticamente il brano. Per queste ragioni anche il fruitore deve avere una certa conoscenza musicale. (esempio audio: Lulli, Armide; trascrizione D’Anglebert) Come avrete notato l’armonia non è stata intaccata. È soltanto attraverso queste fioriture che D’Anglebert pone l’accento su alcuni elementi; come avete sentito, è un pezzo squisitamente suo. Così comincia la diffusione dell’opera, ma a quale livello! In un altro caso, il maestro di musica entra invece nelle case delle signorine La Pierre e Le Noble. Egli scrive una marcetta tratta dal Thésée in due versioni diverse, adatte al diverso livello di preparazione delle fanciulle. In questo caso si sente la semplicità dell’approccio. Una curiosità: la marcia rassomiglia stranamente al Te Deum di Charpentier, musicista straordinario che sfortunatamente non trovò spazio perché in quel periodo esisteva Lulli e soltanto Lulli. CORRADO NICOLA DE BERNART Trascrivendo l’opera D’Anglebert rendeva al re un grande servizio politico. In Francia l’opera di Lulli aveva caratteristiche molto diverse rispetto a quella italiana o di altre nazioni, perché era una sorta di elemento di propaganda delle scelte politiche del sovrano. Dietro i sontuosi allestimenti era sempre sotteso un fine propagandistico e di esaltazione del regime assolutistico. È per questo che a Lulli fu così facile diventare l’unico musicista autorizzato a svolgere un’attività musicale del genere. PAOLA BERNARDI Ecco come lo sconosciuto maestro trascrive per mademoiselle Le Noble. (esecuzione dal vivo: Lulli, Thésée; trascrizione) Non v’è dubbio che il filone colto e quello didattico siano molto diversi. Come ho già detto, in Inghilterra ci siamo imbattuti in Haendel. Lo strumento che primeggia è il flauto. Mentre nelle Harmoniemusiken il flauto non compare quasi mai, in Inghilterra è diffusissimo: pensate che su 34 opere di Haendel 28 sono trascritte interamente per flauto, per flauto solo, raramente con l’accompagnamento del basso continuo. Laddove abbiamo trascrizioni di arie per voce con accompagnamento di strumento, in fondo vi è sempre stampata anche una versione per flauto. In Inghilterra troviamo di tutto: si può suonare in casa, si suona nelle scuole, si suona nei salotti. Noi abbiamo scelto due esempi opposti. (esecuzione dal vivo) Ascoltiamo la trascrizione dell’aria «Se il caro figlio» tratta dal III atto, II scena del Siroe. (esecuzione dal vivo: Haendel, Siroe, Aria di Laodice «Se il caro figlio», atto III, scena II; trascrizione) Ascoltiamo ora l’ultima aria. Ne ascolteremo una parte nell’originale e poi nella trascrizione di William Babell registrata da Antonella Moles. (esempio audio) 31 Babell sfodera un virtuosismo tastieristico di tutto rilievo, usando arpeggi, scale in terze e via dicendo: c’è veramente di tutto! (esempio audio) Avete ascoltato a confronto due versioni estremamente distanti tra loro: quella semplificata al massimo e quella complicata al massimo. Domani ascolteremo la trascrizione destinata, per così dire, ai musicisti professionisti. Abbiamo visto come all’epoca i musicisti scrivessero le partiture, la conoscenza che ebbero della musica e la loro provenienza culturale. Dunque, tutti puntuali domani alle 16.00. Vi ringrazio. (applausi) 32 martedì 15 dicembre 1992 ore 16 SALA BALDINI piazza Campitelli 3 (esempio audio: Mozart, Le nozze di Figaro, ouverture) PAOLA BERNARDI La seconda parte del nostro Laboratorio non poteva cominciare meglio di così, festosamente, con l’ouverture delle Nozze di Figaro di Mozart. Ieri, nella nostra sede di via de’ Delfini, abbiamo discusso in via teorica di molte problematiche inerenti le trascrizioni. Oggi sono presenti alcuni nostri colleghi che ci faranno ascoltare i lavori di cui si è parlato. Ieri si è parlato delle numerose trascrizioni ritrovate nel Fondo Pitti di Firenze. Tra esse moltissime sono le opere di autori italiani. Stasera cominceremo con una trascrizione da un’opera di Paisiello, Gli astrologi immaginari. Sapete che Paisiello fu autore molto prolifico. Gli astrologi immaginari ebbero grande successo alla corte di Caterina di Russia. Caterina stessa scrive: «Questa è un’opera che mi ha divertito tantissimo. Non ho fatto altro che ridere dal principio alla fine». Poi prosegue: «Ma Paisiello non è che fa solo ridere: tocca l’anima, tocca il cuore». Nonostante il lavoro fosse stato replicato numerose volte in Russia, successivamente e per un lungo periodo cadde nell’oblio. Dobbiamo all’I.R.TE.M., il nostro Istituto, il fatto di averlo riportato in primo piano grazie a un’incisione su disco realizzata con la collaborazione della Discoteca di Stato. Gli astrologi immaginari è un’opera estremamente divertente. Ieri abbiamo lungamente parlato del complesso fenomeno della diffusione dell’opera al di fuori del contesto teatrale attraverso le trascrizioni per ensemble di fiati. Dopo il 1750, soprattutto a Vienna, a Praga e in Ungheria, si erano venuti formando numerosi gruppi di strumentisti che divulgavano l’opera con moltissimo successo. Da alcune testimonianze si sa che, quando suonavano all’aperto (e lo facevano anche di notte), la gente si affacciava alle finestre, scendeva, applaudiva, seguendoli nei diversi quartieri. Il loro contributo alla diffusione dell’opera è stato certo molto rilevante. Tra loro, peraltro, vi sono stati ottimi trascrittori. Prima di passare agli ascolti il collega Ravaglia, autore delle ricerche presso il Fondo Pitti, ci darà informazioni ulteriori su questo fenomeno. PAOLO RAVAGLIA Prima ancora di fare nomi, personaggio per personaggio, bisogna innanzitutto stabilire quali siano i ruoli che questi trascrittori hanno avuto in campo musicale. Molti di loro non sono citati neanche nei più completi dizionari e di molti non possiamo conoscere il nome. Sappiamo, ad esempio, di un H. G. Ehrenfried, ancora di dubbia identificazione: ne conosciamo solamente le iniziali del nome. Abbiamo già parlato, e ne ascolteremo parte questa sera, di una sua trascrizione dal Don Giovanni di Mozart. Abbiamo notizie, sempre vaghe, di Johann Stumpf; in Baviera, se non sbaglio, realizzò varie trascrizioni per gruppi molto piccoli, come duetti e trii. Abbiamo notizia anche di due italiani, di cui conosciamo solo il nome: uno di essi è un certo Marco Berra, che trascrisse addirittura l’Idomeneo in versione per due pianoforti a otto mani. Mancano del tutto notizie biografiche più dettagliate di costoro ma vi è comunque qualche personaggio noto. Autori molto conosciuti che hanno fatto trascrizioni di parecchie opere sono infatti Vent, che prenderemo in particolare considerazione questa sera, e Joseph Triebensee. Questi musicisti fecero una carriera strabiliante; erano al contempo strumentisti in orchestre piuttosto importanti (Triebensee, se non erro, partecipò alla prima del Flauto magico a Vienna con la direzione dello stesso Mozart) e in più complessi cameristici del tipo delle Harmonie. Vent era oboista con Triebensee nella Harmonie dell’imperatore ma suonava anche il corno inglese in un’altra famosa Harmonie. In ogni caso, la gran parte di questi musicisti era di norma al servizio della nobiltà, sia pure con qualche eccezione; alcuni casi si differenziano infatti a seconda delle zone dove questi complessi erano ubicati. Pochi fra essi hanno comunque raggiunto una fama duratura, se non come compositori perlomeno come trascrittori; Vent e Triebensee sono abbastanza noti tra quanti suonano strumenti a fiato. 35 Cercando di entrare più nel dettaglio, dal punto di vista professionale Vent fu meno arrivista di Triebensee, che invece fece una carriera davvero folgorante: era primo oboe e contemporaneamente si divideva in diverse orchestre e Harmonie. Grazie alla sua attività riuscì a divenire così noto e stimato da venir chiamato, alla fine della sua carriera, a succedere a Weber nella direzione dell’orchestra che Weber stesso aveva fondato. Nei lavori di Vent abbiamo trovato diverse incongruenze relative sia alla mera trascrizione sia al rapporto con l’originale. Non avendo certezza alcuna che il manoscritto su cui stiamo lavorando sia di suo pugno non sappiamo se ciò che leggiamo sia esattamente così come Vent l’aveva pensato. In ogni caso, abbiamo trovato vari errori che riguardano il posizionamento di corone, delle dinamiche, con i «piano» e i «forte» non coincidenti tra le varie parti. Per cercare di ottenere una lettura piuttosto equilibrata, abbiamo dovuto riposizionare tali elementi per uniformare l’esecuzione. Per quanto riguarda invece l’assonanza con il testo musicale del modello originario, riguardo al rapporto fra la trascrizione strumentale e l’originale vocale possiamo dire di aver trovato delle differenze che stanno a indicare una predilezione per sonorità ed effetti più strumentali che vocali; segni di «sforzato», indicazioni agogiche e dinamiche dimostrano che Vent bada molto all’effetto finale strumentale della frase. PAOLA BERNARDI Potresti citare quell’esempio chiarissimo sulla parola «pazienza», dove Vent pone lo «sforzato» sull’ultima sillaba. PAOLO RAVAGLIA Nell’originale vocale la frase ha il suo punto di peso sul «Bisogna aver paziènza», soluzione più consona all’accentazione naturale della parola. Vent opera uno spostamento ben preciso, specificato in tutte le parti, un cambiamento della posizione dell’accento dalla terza all’ultima sillaba, per cui se fosse cantata la parola diverrebbe «pazienzà». È evidente che questo non è un errore di Vent o di un eventuale copista, perché è espressamente voluto e indicato nel manoscritto. PAOLA BERNARDI Vent non si preoccupa molto del problema dell’accentazione vocale ma sente più importante l’effetto strumentale: è importante lo «sforzato» ed è lì che egli calca la mano nella trascrizione. Ma di questo abbiamo già parlato ieri considerando quanti e quali adattamenti dalla vocalità alla strumentalità il compositore deve fare. PAOLO RAVAGLIA Questo è forse uno dei casi più lampanti. Altre differenze sono di minore rilievo. Nella trascrizione, peraltro, vi è l’aggiunta di fioriture realizzate con gusto, e questa è una ulteriore prova che i trascrittori sapevano assai bene quel che facevano. PAOLA BERNARDI A questa considerazione ne va aggiunta un’altra. Abbiamo notato ieri vari difetti o incongruenze, come Susanna che canta nel basso o Don Bartolo che canta in acuto; e tuttavia vi sono anche notevoli pregi quali, ad esempio, il respiro. La tecnica degli strumenti a fiato impone di respirare esattamente come il cantante, mentre eseguendo trascrizioni per tastiere si devono sottolineare costantemente ma artificiosamente i momenti in cui il cantante respira. I fiati, dunque, non hanno questo problema, poiché il respiro per loro viene naturalmente come quello del cantante; e poiché il respiro è uno degli aspetti più importanti della musica, ecco che la trascrizione per fiati ha in questo il pregio di essere realmente simile al modello originario. 36 PAOLO RAVAGLIA Dei ventinove numeri complessivi di cui consta Le nozze di Figaro, Vent ne ha trascritti solo quindici, dunque non ne fa una trascrizione completa che copra l’intero svolgersi drammatico della scena teatrale. D’altronde la caratteristica primaria di questa musica non sta nel ricreare la drammaticità dell’azione teatrale ma nell’essere una trascrizione funzionale, in cui venga semplificata l’essenza del linguaggio musicale per lo scopo principale di diffondere la melodia, rendendola perfettamente comprensibile al pubblico. In questo caso il pubblico si identifica con il popolo in senso ampio, con la gente che era nelle strade, quella che non poteva frequentare i teatri per ovvi motivi finanziari. Nello spirito di questa finalità vengono operati dei tagli. Vent non sempre li effettua alla luce di una valida e attenta osservazione critica ma, come abbiamo visto, spesso sposta le parti del soprano agli strumenti gravi o il baritono agli acuti, ecc. In questi casi prevale il suo desiderio di far valere le proprie qualità espressive e allora, per amore di una particolare melodia, egli trasporta le frasi di un periodo allo strumento che gli appariva in quel particolare contesto come più congeniale per rendere l’effetto generale. A volta, invece, prevale una scelta personalistica. Oltre all’oboe Vent suona il corno inglese e in più di un caso le parti che più logicamente avrebbero dovuto essere affidate a strumenti quali il clarinetto vengono addirittura eliminate dall’organico e assegnate al corno inglese, nonostante questo strumento abbia tutt’altro registro, sonorità ed estensione e non disponga della stessa mobilità melodica del clarinetto. In altre parole, non sempre i tagli venivano decisi seguendo un particolare criterio logico ma assolvevano sempre al loro compito principale che era meramente funzionale; in ogni caso era fatta salva l’essenza della musica che veniva trascritta. PAOLA BERNARDI Man mano che saranno eseguiti i vari brani vedremo quale sia l’intervento del trascrittore rispetto alla parte originale. Per quanto riguarda Paisiello, abbiamo scelto un finale dove molte voci si incrociano. Abbiamo notato che là dove le voci infittiscono la loro articolazione, il trascrittore, invece di rispettare la scrittura dell’originale, semplifica, per cui avviene che la ricchezza della polifonia vocale viene meno a favore di un tessuto armonico. Questo è certo un intervento pesante, perché una cosa è la sfaccettata articolazione a più voci e un’altra il monolitico succedersi di armonie; il che risulta abbastanza chiaro laddove si infittisce la polifonia. Non a caso il taglio nella trascrizione rispetto all’originale di Paisiello avviene quando le quattro voci polifonicamente cantano contemporaneamente; nella trascrizione tale ricchezza è troppo difficile da rendere, per cui prevale esclusivamente una linea melodica. A questo punto dovremmo spiegare perché cominciamo da Paisiello. CORRADO NICOLA DE BERNART La programmazione dei principali teatri d’Europa durante il periodo coevo alla rappresentazione delle opere mozartiane è estremamente ricca di opere di repertorio italiano; tra queste, quelle di Paisiello sono tra le più eseguite. Della larghissima diffusione del teatro d’opera italiano abbiamo infinite testimonianze ma consideriamo che il fenomeno della trascrizione riguarda tutto il repertorio dell’epoca, tanto che nel Fondo Pitti sono conservate le trascrizioni della quasi totalità delle opere teatrali composte in quegli anni. Per quanto riguarda gli autori e i lavori trascritti, dunque, non possiamo fare alcuna distinzione sulla base della nazionalità. Una simile distinzione è però plausibile per quanto riguarda i trascrittori poiché, con l’eccezione di un paio di nomi italiani, la maggior parte di essi proviene da paesi di lingua tedesca o dalla Boemia per i motivi che ho cercato di indicare ieri, motivi legati a un certo tipo di tradizione storica di quei territori attinente agli strumenti a fiato. Va tuttavia ribadito che, per quanto concerne le trascrizioni, esse coprono un repertorio davvero ampio, riguardando opere di autori spagnoli, francesi, ita37 liani, ecc. Soltanto l’Inghilterra non è investita da questo fenomeno, perché qui per la musique d’harmonie si scrisse prevalentemente un repertorio specifico e non si fece ricorso a trascrizioni d’opera. Non conosco le ragioni di questa diversità; probabilmente si tratta di un fatto di gusto e di propensione da parte degli ascoltatori inglesi verso altri generi, altri strumenti e altri tipi di ensemble. Abbiamo visto, per esempio, che vi era molto diffuso il flauto; le trascrizioni per flauto nel periodo immediatamente precedente a Mozart erano numerosissime. PAOLA BERNARDI Vorrei aggiungere che partire da Paisiello ci conduce direttamente a Mozart. Mozart era un ammiratore della musica italiana, questo è inutile ricordarlo: nel Don Giovanni cita Sarti. Per quanto riguarda Paisiello, l’aria «Salve tu Domine» serve a Mozart come base per scrivere alcune variazioni per pianoforte. Cominciare il discorso da questo autore, che è uno dei maggiori esponenti della nostra opera nel Settecento, mi sembra corretto per arrivare a Mozart. Un altro motivo che ci ha indotti a scegliere questo autore è l’intento di fare omaggio all’I.R.TE.M., che ha riportato in luce Gli astrologi immaginari. CARLO MARINELLI Personalmente non capisco perché abbiate questa particolare discrezione nel parlare delle cose che avete scoperto. Innanzi tutto ho il sospetto che il Fondo Pitti sia di origine austriaca o austro-boema. Le opere di cui parlate sono state tutte eseguite a Vienna, perché qui l’opera italiana veniva eseguita normalmente. Martín y Soler scriveva opere italiane anche se era di origine catalana. Sempre a Vienna si rappresentavano opere francesi. Questo è il punto fondamentale! Voi avete scoperto che ci troviamo di fronte a un Fondo che probabilmente è di origine austriaca, a trascrittori che vengono dalla Boemia, parte dell’impero austriaco, a opere che vengono tutte rappresentate a Vienna. Conoscete anche l’anno in cui era stata rappresentata a Vienna Gli astrologi immaginari come Filosofi immaginari. La ragione per cui quest’opera arrivò a Vienna fu che, quando gli imperatori d’Austria decisero di effettuare una visita ufficiale in Russia, si incontrarono con la zarina a metà strada, probabilmente in Prussia. L’Imperatrice Caterina II fece omaggio alla moglie dell’imperatore austriaco di una copia della partitura degli Astrologi immaginari. Ma quel che di importante avete dimostrato è che Gli astrologi immaginari sono stati eseguiti a Vienna molti anni prima delle opere di Mozart, dunque la pratica di trascrivere opere per ensemble di fiati non comincia con Mozart bensì molto prima, e riguarda tutte le opere che venivano eseguite sia nel teatro di corte sia nei teatri della periferia viennese, cioè nei teatri cosiddetti popolari. Questo è il punto fondamentale! La internazionalità di questo fenomeno non è legata al fatto che i trascrittori girassero per tutti i paesi del mondo ma al fatto che Vienna era un centro internazionale, dove si rappresentavano opere di ogni provenienza: vi arrivava l’opéra comique dalla Francia, l’opera seria e buffa dall’Italia e, infine, l’opera tedesca di produzione locale, che cominciò qualche anno più tardi, più o meno con Mozart. Questo è il punto! Quel che avete messo a fuoco in questo Laboratorio è il panorama complessivo di un repertorio viennese che abbracciava l’intera Europa e l’uso della trascrizione per strumenti a fiato su questo repertorio, come risulta appunto dal Fondo Pitti, sia pure non ancora esaminato a fondo. PAOLA BERNARDI Ringrazio Carlo Marinelli per la precisazione ma, essendo ancora in fase di studio, siamo ancora molto cauti nel comunicare i risultati cui perveniamo. D’altronde il materiale conservato nel Fondo Pitti e quello che ci sta arrivando da altre biblioteche italiane e straniere è talmente vasto che dovremo lavorarci ancora per anni. 38 Ma torniamo subito alle trascrizioni, perché ve ne sono tante da ascoltare. Come abbiamo detto in precedenza, la trascrizione di Vent ha alcune particolarità come, ad esempio, l’accento della sincope non coincidente con l’accento naturale della parola; nel complesso, tuttavia, rispetta i colori dell’originale. C’è invece una semplificazione per tagli o accorpamenti delle parti più riccamente polifoniche. Ascoltiamo prima l’originale e poi la trascrizione. (esempio audio: Paisiello, Gli astrologi immaginari, Cavatina di Giuliano «Salve tu Domine», atto I, scena VIII) (esecuzione dal vivo: Paisiello, Gli astrologi immaginari, Cavatina di Giuliano «Salve tu Domine», atto I, scena VIII; trascrizione Vent) (applausi) Se si prescinde dalle ovvie differenziazioni dovute al fatto che si trascrive per strumenti, possiamo dire che la trascrizione sia molto rispettosa dell’originale. PAOLO RAVAGLIA La trascrizione non è comunque identica all’originale: mancano alcune ripetizioni che probabilmente hanno ragione di esistere solamente per il fatto che muta il testo del canto. I gustosi battibecchi tra le protagoniste si prolungano nel tempo poiché si alternano varie frasi spiritose, ma tale lunghezza non ha ragione di esistere nella versione solo strumentale. Ancora qualche differenza. Alla fine abbiamo una risoluzione diretta sull’accordo di tonica, peraltro ripetuta una volta, quando invece nell’originale si aggiunge una codina più lenta nell’accordo di dominante e poi si giunge alla conclusione. Di fatto, insomma, c’è una battuta in più. Come prima avevo accennato, vi è inoltre la differenza della scansione ritmica della parola: nell’originale abbiamo la parola «paziènza» molto più appesantita, mentre nella trascrizione squisitamente strumentale l’accento è dato sulla sincope che contribuisce a tenere più alta la tensione durante l’esecuzione. CARLO MARINELLI Fondamentale è che il trascrittore sia riuscito a cogliere perfettamente il carattere di battibecco saltabeccante che è nell’originale vocale. Che poi trasponga o trasporti non ha molta importanza. Fondamentale è che, attraverso la trascrizione, riesca a dare all’ascoltatore la sensazione di aver assistito a un battibecco fitto e puntuto con salti e strilletti, che risultano perfettamente dal gioco degli strumenti a fiato. È appunto quanto il trascrittore doveva fare. Importa molto meno se trasporti la voce del basso al soprano e la voce del soprano al basso, o se il momento contrappuntistico diventi un momento armonico. Le trascrizioni avevano la funzione di lasciare nella persona che le ascoltava la stessa impressione che avrebbe ricevuto ascoltando l’originale e non certo quella di proporsi come precisa trasposizione della parte musicale. Quest’ultima finalità sarebbe stata importante nelle trascrizioni di livello colto e aulico, e infatti la troviamo perseguita in altri contesti (come si diceva ieri di D’Anglebert rispetto a Lulli). Nel nostro caso, invece, si tratta della capacità più popolare di rendere l’essenza, non tanto quella sostanziale quanto piuttosto quella appariscente del brano, quella stessa che l’ascoltatore ha sentito nell’opera originale, quella che ha percepito assistendo dal vivo alla scena vivacissima delle donne che litigano tra loro. Questo è un momento fondamentale nella storia della trascrizione perché segna il passaggio dalla trascrizione realizzata per chi la esegue alla trascrizione destinata a chi l’ascolta. Da questo punto di vista trovo questa trascrizione perfetta, sia pure con tutti i difetti di cui avete parlato: dal punto di vista del percettore essa realizza perfettamente il suo scopo. 39 PAOLA BERNARDI Ieri abbiamo parlato a lungo del fatto che i gruppi di fiati partecipavano a tutte le manifestazioni sia religiose sia mondane ed erano presenti anche ai banchetti. Partiamo dal Don Giovanni di Mozart. In quest’opera, come tutti sapete, nel banchetto finale, fuori di scena, Mozart scrive «Fuori dal teatro», e c’è una Harmoniemusik, un gruppo di otto strumenti più un basso che suonano delle arie famose. Sono solo piccole citazioni. Certamente Mozart non si dilunga perché il dramma sta per arrivare a compimento ma apre questa breve parentesi citando tre arie che dovevano essere ben note affinché il pubblico potesse tranquillamente riconoscerle. Tali citazioni sono tratte da tre diverse opere. La prima è un’opera di Martín y Soler, Una cosa rara, che ebbe un successo addirittura superiore a quello delle Nozze di Figaro, benché siano state rappresentate entrambe nello stesso anno. C’è poi una citazione da un’opera di Sarti, Fra i due litiganti il terzo gode; il motivo doveva essere molto piaciuto a Mozart, tanto da indurlo a comporne alcune variazioni per pianoforte. La terza opera è Le nozze di Figaro: Mozart cita se stesso con l’aria «Non più andrai farfallone amoroso». Queste sono le tre piccole citazioni. Partiamo da Mozart per poi vedere quali siano gli originali di queste arie. (esempio audio: Mozart, Don Giovanni, atto II, scena XIII) Avete ascoltato le tre citazioni di Mozart. Passiamo all’ascolto dei modelli originari. Martín y Soler è un compositore catalano vissuto a lungo in Italia; collaborò con Da Ponte, il quale firmò appunto il libretto di Una cosa rara. Se Le nozze di Figaro ebbero un grandissimo successo (tanto che Mozart stesso scrisse in una sua lettera che tutti cantavano Le nozze, che tutti danzavano Le nozze) pare che quest’opera di Martín y Soler ne ebbe ancor di più. Sentiamo una parte dell’originale di quest’aria, «Oh quanto un sì bel giubilo». (esempio audio: Martín y Soler, Una cosa rara, Aria della Regina «Oh quanto un sì bel giubilo», atto I, scena XVIII) Se non vi spiace, vorrei ascoltare subito la trascrizione di Vent da Martín y Soler perché, confrontando le partiture, mi è venuto un dubbio. Vent e Mozart operano alcuni tagli che corrispondono perfettamente. Se si toglie il minore dall’originale del compositore catalano rimane una certa architettura che viene stranamente tagliata da Mozart proprio nello stesso punto in cui anche Vent effettua un taglio. Per questa ragione mi è venuto il dubbio che Mozart, per la sua citazione, abbia addirittura utilizzato la trascrizione di Vent e non l’originale di Martín y Soler. Se è possibile eseguirle di seguito ve ne sarei grata. (esecuzione dal vivo: Mozart, Don Giovanni, atto II, scena XIII; trascrizione Aria della Regina «Oh quanto un sì bel giubilo», da Martín y Soler, Una cosa rara, atto I, scena XVIII) (esecuzione dal vivo: Martín y Soler, Una cosa rara, Aria della Regina «Oh quanto un sì bel giubilo», atto I, scena XVIII; trascrizione Vent) Mozart è chiaramente molto sintetico perché deve rendere solo una breve citazione ma certe corrispondenze nei tagli rafforzano in me il dubbio che egli abbia utilizzato ciò che era già stato trascritto. La mia è comunque una ipotesi che lascio per ora in sospeso. Passiamo alla celebre aria di Sarti. Anche questo è un motivo molto semplice che, peraltro, ricorda molto Le nozze di Figaro. Purtroppo non abbiamo una incisione dell’originale e quindi lo ascoltiamo soltanto nella trascrizione di Vent. (esecuzione dal vivo: Sarti, Fra i due litiganti il terzo gode, Aria di Mingone «Come un agnello», atto I, scena VII; trascrizione Vent) (applausi) 40 È una mia impressione o ricorda davvero Le nozze? Arriviamo adesso all’originale di Mozart delle Nozze di Figaro. PAOLO RAVAGLIA Non avendo un originale di Sarti, per noi il problema è capire se vi fossero rispetto alla trascrizione di Vent differenze sostanziali o altri particolari degni di nota. Un dubbio non ancora risolto riguarda Soler. Nel disco che abbiamo ascoltato, l’originale di Soler era senza il minore o, almeno, non ricordo di averlo sentito. PAOLA BERNARDI C’era per una sola battuta. PAOLO RAVAGLIA È allora plausibile che, seguendo il filone di originalizzazione che ogni tanto veniva battuto da parte di questi trascrittori, potessero essere intraprese certe soluzioni arbitrarie. PAOLA BERNARDI Non credo sia così poiché il minore è presente; siamo stati noi a tagliare l’ascolto. Mozart è piuttosto fedele mentre Vent lo taglia del tutto. Conviene adesso ascoltare di seguito l’originale di Mozart e la trascrizione di Vent del «Farfallone». Passeremo poi a un nuovo personaggio, Ehrenfried, di cui personalmente so pochissimo e di cui mi piacerebbe avere qualche notizia in più. Lo ha scovato Ravaglia studiando il Fondo Pitti: Ehrenfried ha trascritto tutto il Don Giovanni! PAOLO RAVAGLIA Ma sempre nello spirito delle arie più importanti! Poiché il mio accesso al Fondo Pitti è stato limitato per motivi logistici, è auspicabile che io possa riprendere nel tempo questa ricerca. Vi sono conservate, infatti, particolari trascrizioni, tra le quali anche una Zelmira di Rossini per numerosi strumenti a fiato, che sarebbe interessantissimo visionare per scoprire come sia organizzata la strumentazione; sarebbe inoltre altrettanto interessante riportare alla luce eventuali altri trascrittori sinora sconosciuti, come è accaduto per Ehrenfried. CARLO MARINELLI Credo sia importante conoscere le date delle rappresentazioni di Martín y Soler e di Sarti. Vorrei anche precisare che il nome «Ehrenfried» non è del tutto sconosciuto poiché, ad esempio, risulta anche nel «Köchel» come trascrittore di Mozart. Le iniziali sono le stesse indicate nel Fondo Pitti, H.G., ma queste iniziali non corrispondono a quelle di un Ehrenfried citato nell’«Eitner», dunque non sappiamo se si tratti di un errore del copista o piuttosto di un altro Ehrenfried. Per quanto queste siano solo ipotesi, nell’esporre i risultati di una ricerca credo sia importante darne conto. PAOLO RAVAGLIA Un caso analogo è quello di Joseph Eidelreiht, un trascrittore minore, non certo famoso come Triebensee e Vent, anzi, praticamente sconosciuto. Esiste una famiglia Eidelreiht di organari: padre, figlio, zio, nipote, una famiglia che si è tramandata la professione di generazione in generazione; e tuttavia nulla si sa di Joseph Eidelreiht, a meno che non vi sia l’errore di un copista anche in questo caso. Ed anche in questo caso, sarebbe auspicabile riuscire a scoprire se nel Fondo Pitti ci siano altri lavori di un Ehrenfried o eventualmente di Joseph Eidelreiht. 41 PAOLA BERNARDI Rispondo alla richiesta di Carlo Marinelli e mi scuso se non vi ho fornito le date. Per quanto riguarda Martín y Soler, Una cosa rara è del 1786 e la prima fu data a Vienna. Per quanto riguarda invece l’opera di Sarti, il cui libretto è di Goldoni, è stata data a Milano nel 1782. Ascoltiamo l’aria del «Farfallone amoroso» nella trascrizione di Vent, quindi quella di Mozart stesso nel Don Giovanni e, in ultimo, la trascrizione di Ehrenfried. (esecuzione dal vivo: Mozart, Le nozze di Figaro, Aria di Figaro «Non più andrai farfallone amoroso», atto I, scena VIII; trascrizione Vent) Mozart trasferisce la sua melodia dagli oboi ai clarinetti, ottenendo un effetto del tutto diverso, come sentirete. Basta portare poi la parte dei violini ai clarinetti perché l’atmosfera cambi nuovamente. (esecuzione dal vivo: Mozart, Don Giovanni, atto II, scena XIII; trascrizione Aria di Figaro «Non più andrai farfallone amoroso», da Le nozze di Figaro, atto I, scena VIII) Come avrete notato, la trascrizione cambia colore con pochissimo. L’ultima trascrizione di quest’aria è di Ehrenfried il quale, con pochi e limitati cambiamenti ritmici, ottiene un effetto ancora diverso, per cui anche qui l’atmosfera cambia completamente. (esecuzione dal vivo: Mozart, Le nozze di Figaro, Aria di Figaro «Non più andrai farfallone amoroso», atto I, scena VIII; trascrizione Ehrenfried) Grazie. Il confronto tra le diverse trascrizioni è interessantissimo. Ieri abbiamo parlato a lungo della provenienza degli ensemble di fiati dai reggimenti militari. Ebbene, quella che abbiamo appena ascoltato è una esecuzione che appare vicina a un’idea di musica di origine militaresca, mentre quella precedente, più raccolta e fine, è più da teatro. Vent eseguiva egli stesso la sua trascrizione e, poiché era un oboista, affidava agli oboi il ruolo più rilevante. Ma passiamo alle Nozze di Figaro. Per evitare di dimenticarmene dirò che Le nozze di Figaro su libretto di Da Ponte ebbe la prima esecuzione il 1° maggio 1786 e fu replicata a Praga il 15 gennaio dell’anno successivo. Dopo la replica Mozart scrive a un suo amico: Ho osservato con grandissimo piacere tanta gente salticchiarmi intorno piena di vera gioia sulle note del mio Figaro, trasformato in contraddanze e in allemande. Non si parla, infatti, d’altro se non di Figaro; non si suona, intona, canta e fischietta altro se non Figaro, non si assiste ad altra opera se non a Figaro e sempre Figaro. Questa è la testimonianza di Mozart sulla vastità del successo che ebbe questo suo capolavoro. PAOLO RAVAGLIA Vorrei fare un’ultima puntualizzazione in relazione alle trascrizioni: in esse l’elemento più importante era quello di riprodurre in maniera funzionale lo stato d’animo che l’opera creava nell’ascoltatore. Oltre a variazioni di tipo dinamico nell’agogica e altri interventi diversi da parte del trascrittore, in alcuni casi i brani subiscono un mutamento della tonalità. Spesso nelle trascrizioni si alterava la tonalità dell’originale per facilitare le esecuzioni con gli strumenti di allora, che sicuramente non erano perfezionati come quelli di adesso. Ad esempio, all’epoca erano utilizzati i corni naturali che avevano maggior facilità a emettere quasi esclusivamente suoni armonici; la trascrizione, pertanto, si adattava alla tonalità in cui essi erano intonati. I clarinetti avevano poche chiavi, così come il fa42 gotto e l’oboe, per cui potevano suonare più agevolmente in certe tonalità e, generalmente, non si discostavano troppo dal do maggiore. Anche a seconda dell’intonazione particolare di uno strumento – e questo vale soprattutto per i clarinetti – erano necessari diversi tagli di strumenti, o clarinetti in do, o clarinetti in si bemolle, o anche clarinetti in la. Questo caso si presenta proprio nella Harmonie del Don Giovanni originale di Mozart, in cui, per quanto riguarda le musiche di Sarti e Soler, vengono usati clarinetti in la, mentre invece nell’aria del «farfallone amoroso» viene usato il clarinetto in si bemolle. PAOLA BERNARDI Molto interessante è stato il passaggio nell’ascolto dall’originale alla trascrizione, perché Vent ne conserva la tonalità e l’effetto finale è bellissimo! PAOLO RAVAGLIA In questo caso non vi sono grossi problemi. A quel tempo naturalmente era richiesto un clarinetto in do perché il clarinetto in si bemolle (come quello che ho appena suonato) non era in grado di eseguire agevolmente le certo non insormontabili ma comunque ostiche difficoltà che sono scritte nella partitura. Era quindi necessario uno strumento che fosse intonato un tono più alto per suonare agevolmente nella tonalità di do maggiore. PAOLA BERNARDI Entriamo nel vivo delle Nozze di Figaro che, come ha ricordato Paolo Ravaglia, non sono trascritte integralmente da Vent. Il perché (e qui forse subentra la mia deformazione professionale) credo sia dovuto a problemi di origine musicale oppure a qualche difficoltà strumentale. Difficile spiegare altrimenti il perché non siano presenti trascrizioni di arie che sono invece tra le più famose. Vent opera quindi un taglio selettivo nelle Nozze di Figaro. Partiamo dall’ascolto dell’introduzione. (esecuzione dal vivo: Mozart, Le nozze di Figaro, Duetto Figaro-Susanna «Cinque... Dieci... Venti... Trenta...», atto I, scena I; trascrizione Vent) Segue l’altro duetto, dove a mio parere è molto ben conservato l’effetto di concitazione del dialogo, che è precisamente l’effetto che conta dell’aria. Possiamo ascoltare l’altro duetto. (esecuzione dal vivo: Mozart, Le nozze di Figaro, Duetto Figaro-Susanna «Se a caso Madama», atto I, scena I; trascrizione Vent) CORRADO NICOLA DE BERNART A questo punto, cercherò di tirare le conclusioni di quanto abbiamo appena ascoltato e di quanto abbiamo detto sinora. Ieri abbiamo cercato di compiere un cammino estremamente razionale e storicistico per cercare di comprendere come questo tipo di filone si sia potuto sviluppare, quali possano essere state le ragioni per cui, come giustamente sottolineava il professor Marinelli, già ai primi del Settecento si trovi questo tipo di formazione con un così vasto repertorio appositamente scritto o trascritto. Abbiamo cercato – riassumo brevemente quanto detto ieri – di trovare l’origine di questo tipo di filone nella presenza, nei paesi austro-ungarici e di lingua tedesca in generale, dei cosiddetti Stadtpfeifer, cioè di quei suonatori assunti dalle varie municipalità che si esibivano in occasione di tutte le importanti ricorrenze, comprese quelle religiose, e che erano esclusivamente degli strumentisti a fiato. Abbiamo anche cercato di trovare delle ragioni partendo dalla cruenta peculiarità del Settecento di essere stato uno dei secoli della storia più insanguinati da conflitti militari. Abbiamo quindi visto come dalla formazione di più moderni eserciti con quadri di 43 effettivi, reggimenti di coscritti, reclutamento obbligatorio e così via, sia scaturita la formazione di queste piccole fanfare, queste bande, questi gruppi di musique d’harmonie utilizzati per occasioni di carattere mondano, per le parate, per i caroselli militari. Le prime notizie che noi abbiamo della musique d’harmonie, costituita proprio con la tipica formazione di due oboi, due clarinetti, due corni e due fagotti, sono relative alla banda di un reparto inglese; dall’Inghilterra questo uso si diffuse poi in altre zone europee. Abbiamo cercato di trovare anche delle motivazioni storiche in quella tradizione di Tafelmusik, musica da banchetto, che nel Don Giovanni di Mozart trova una sublimazione nella scena che abbiamo appena ascoltato, nonché nell’ambito di quelle musiche di intrattenimento per le quali la formazione di fiati era ritenuta particolarmente adatta. Queste musiche erano legate a un mondo aristocratico a sua volta legato al mondo militare: la figura del nobile spesso si contornava, come dicevamo ieri, di piccoli gruppi di fiati che accompagnavano le battute di caccia, le passeggiate nei boschi e sui prati, le feste all’aperto, ecc. Vi è certo una vasta tradizione riguardo la presenza di questo tipo di formazioni (anche se parliamo di formazioni che potevano essere molto differenti nell’organico rispetto a quella che noi vediamo qui stasera). Esse erano formate spesso da servitori, per di più servitori di basso rango, che di frequente avevano prestato servizio nei reggimenti reclutati e comandati dall’aristocratico che li pagava; servitori che nelle occasioni importanti toglievano la livrea di famiglia e vestivano quella di musicisti. Una sensazione che riceviamo dall’ascolto di questa sera è proprio che il carattere di queste musiche sia di puro intrattenimento, una sorta di musica giocosa, di musica scritta sostanzialmente (e lo abbiamo visto ieri dalla lettura delle stesse lettere di Mozart) senza altro scopo particolare se non quello del diletto dell’orecchio, una musica che quindi realizza quei canoni di semplicità e naturalezza che molte speculazioni di filosofia e di estetica musicale del periodo dell’Illuminismo facevano propri. Dal mio punto di vista percettivo ho riscontrato moltissimo questa sensazione. Forse sono di parte perché Mozart per me è un punto di riferimento assoluto in fatto di estetica musicale, ma trovo che quello ascoltato sia un tipo di musica che riesca eccezionalmente a realizzare lo scopo per il quale sembra essere stato scritto: il piacere. In questo concordo pienamente con il professor Marinelli quando dice che la cosa stupenda di questi trascrittori è che riescono a rendere veramente la percezione subliminale dell’aria d’opera originaria. Riescono a ricreare questa stupenda sensazione di naturalezza, annullando la possibilità di pensare al fatto musicale come complessità strutturale, rapporti strutturali, scienza formale ecc., e portando in primo piano la piacevolezza della musica. Questo tipo di produzione musicale può sembrare apparentemente secondario rispetto alla musica più grande che noi siamo abituati a praticare, come ad esempio le stupende musiche originali per ensemble d’harmonie scritte dallo stesso Mozart. Ma la cosa eccezionale di questi trascrittori è la capacità di calarsi all’interno della costruzione estetica dei modelli originali, peraltro non scritti da loro, intervenendo con notevole capacità e raffinato gusto e riuscendo quindi a creare risultati artisticamente molto interessanti. Ed è questo lo stimolo che porta tutti noi ad approfondire la ricerca su questo repertorio, che via via si sta rivelando di notevole vastità. Negli anni passati abbiamo lavorato su altre formazioni, altri strumenti e altri momenti storici, e purtroppo sempre con rammarico abbiamo dovuto fermarci a metà strada per l’impossibilità di prendere visione di una quantità di materiale enorme, per esempio del prezioso materiale che è custodito presso il Fondo Pitti strumentale, che penso possa rivelare non solo moltissimi dati a noi studiosi ma anche piacevoli emozioni a tutti gli ascoltatori. E con questo credo di aver concluso. PAOLA BERNARDI Adesso lasciamo la parola alla musica, che deve sempre aprire e chiudere i discorsi. Devo comunque dire che queste trascrizioni sono risultate belle perché sono state molto ben eseguite, e di questo vi ringrazio davvero: proprio perché il materiale musicale non è 44 complesso bisogna avere quella cristallinità di suono, quel fraseggio preciso, quella intonazione, quella fusione che, come si diceva, non è né cameristica né orchestrale ma che sta nel mezzo. Di questo sono molto riconoscente ai colleghi che sono intervenuti e spero vivamente che questa iniziativa possa andare avanti per continuare una vera collaborazione. Vi ringrazio a nome dell’I.R.TE.M.; il presidente vi ringrazierà personalmente. Chiudiamo col sestetto dell’atto secondo, che ascolteremo prima in originale. Credete, è un passaggio importantissimo ascoltare l’originale e poi la trascrizione, perché tanti elementi assumono chiarezza anche alla luce di quanto è stato detto sulla società, la storia e la filosofia del periodo. (esempio audio: Mozart, Le nozze di Figaro, Sestetto Il conte di Almaviva-MarcellinaDon Curzio-Figaro-Bartolo-Susanna «Riconosci in questo amplesso», atto III, scena V) (esecuzione dal vivo: Mozart, Le nozze di Figaro, Sestetto Il conte di Almaviva-Marcellina-Don Curzio-Figaro-Bartolo-Susanna «Riconosci in questo amplesso», atto III, scena V; trascrizione Vent) Grazie di tutto cuore, siete stati bravissimi. Il nostro V Laboratorio si corona nel modo migliore possibile. CARLO MARINELLI Sebbene questo sia un Seminario e non un concerto, io vi chiedo un bis. Le ragioni di questo sono molto difficili da spiegare: e dovrete aver pazienza, perché dovrò fare un discorso che è difficile anche per me. Chi canta «Non più andrai farfallone amoroso» nell’edizione che ci avete fatto sentire? Chi è Figaro? «Non più andrai farfallone amoroso» è alla fine del primo atto. Mozart divise Le nozze di Figaro in quattro atti ma in realtà si tratta semplicemente di una partizione in due atti, perché i due finali sono nel secondo e nel quarto atto. Ciò non toglie che i due finali non complessi, cioè composti da un solo pezzo e non di una articolazione di più pezzi, anche se il numero è sempre uno, abbiano una loro importanza e un loro significato che li pone in una posizione diversa dagli altri numeri che scorrono nei singoli atti. Cosa significa «Non più andrai farfallone amoroso»? Per non dilungarmi troppo, non è il caso che vi racconti adesso la vicenda narrata dalle Nozze di Figaro, dunque do per scontato che voi la conosciate e che, quindi, sappiate in quale punto arrivi. Arriva in un punto cruciale per stabilire una situazione di cui Cherubino in quel momento diviene il simbolo. Le nozze di Figaro è un’opera sulle quattro età dell’uomo: l’adolescenza (Barbarina e Cherubino), la giovinezza (Susanna e Figaro), la maturità (Il conte e La contessa), la terza età (Marcellina e Bartolo). Figaro sa benissimo (lo ha saputo all’inizio dell’opera) che Il conte minaccia Susanna. Sa benissimo che Cherubino è innamorato di tutte le ragazze e che corteggia sia Susanna che La contessa. Sa benissimo che La contessa ha un debole per Cherubino. Sa benissimo che la sua certezza nella fedeltà di Susanna è legata più alla volontà di Susanna che alle sue possibilità personali. È invidioso di Cherubino che, in quanto adolescente, ha tutte le ragazze ai suoi piedi, teme Il conte, ironizza sul Conte, nello stesso tempo sentendo che l’ironia lo investe anche personalmente se invece egli si rivolge verso Cherubino. A differenza di come viene eseguita dalla maggior parte dei baritoni che ne fanno una canzoncina, insomma, è uno dei pezzi più complessi, dal punto di vista psicologico, dell’intera opera. In questo momento in Figaro si incentrano una infinità di reazioni psicologiche che vengono tutte espresse da un solo cantante – badate bene, non da un quartetto, da un quintetto o da un sestetto! –, con inflessioni che riguardano una scrittura tutto sommato abbastanza semplice. Solo un grande artista può rappresentare Figaro in questa situazione ed esprimere questo momento cruciale dell’opera, che è simbo45 lico di una situazione umana: Figaro non è soltanto personaggio ma anche simbolo di una condizione generale dell’umanità. Ebbene, come fare a rendere tutto questo in una trascrizione per strumenti a fiato? Dopo aver ascoltato la sua trascrizione mi sono reso conto che Vent ha fatto un’operazione che a mio parere è l’unica possibile con gli strumenti a fiato: invece di far avvertire tutto questo contemporaneamente, Vent lo fa avvertire in momenti successivi. Noterete che inizia con la parte di baldanza e poi, appena appena, attenua i colori e fa entrare in gioco, nel trascorrere del tempo (invece di metterli in sincronia li mette in diacronia), non tutti i sentimenti che ho descritto prima ma diversi sentimenti di quel personaggio. Vent è stato davvero bravo nell’aver avuto questa idea: non potendo compiere l’operazione che ha fatto Mozart con il canto, dati gli strumenti che aveva a disposizione, egli la compie ugualmente spostando il tutto su un piano di successione anziché di contemporaneità. E tuttavia poi ascolto Mozart e, dall’ingresso dei fagotti in poi, mi rendo conto che ha compiuto il miracolo di usare gli strumenti a fiato come se fossero la voce, dando tutto in sincronia e distruggendo Vent, il quale pure aveva fatto un’operazione di una intelligenza straordinaria. Il povero Ehrenfried ne esce invece completamente distrutto, perché per lui esiste solo l’apparenza momentanea e non coglie nulla di tutta questa complessità. A questo punto vorrei risentirlo per verificare se mi sia sbagliato o meno. Se ciò che osservavo è effettivamente vero, infatti, potremmo scoprire nella trascrizione uno strumento che va ben al di là della diffusione, perché sarebbe uno strumento di interpretazione, cioè di approfondimento dell’originale. Vi prego allora di rieseguire Vent, Mozart ed Ehrenfried di seguito, proprio come avete già fatto. Subito dopo mi riservo di aggiungere qualche altra considerazione. (esecuzione dal vivo) Vi ringrazio molto. Non so se le mie riflessioni vi abbiano convinto ma, a mio avviso, il fatto fondamentale è il seguente. Quello che è avvenuto di importante oggi è che voi musicisti, più che fare un concerto, abbiate partecipato a un seminario, e che i nostri tre relatori abbiano potuto avvalersi di voi sette. Paola Bernardi, Corrado De Bernart e Paolo Ravaglia hanno fatto una ricerca veramente straordinaria, e francamente non so perché abbiano avuto la pudicizia di non mostrarla in tutta la sua eccezionalità; se si siano tenuti qualcosa per conto loro, chi lo sa, si vede che hanno intenzione di sfruttarlo per un’altra occasione! Il fatto che i nostri tre ricercatori lavorino insieme a voi (sebbene, purtroppo, voi siate a Ferrara) è certo di grande rilievo. Se potessimo lavorare tutti insieme su questo materiale realizzeremmo un fatto che nel mondo di oggi succede molto raramente, e certamente in Italia non succede in alcun posto; caso mai succede in qualche università americana, dove la ricerca musicologica va di pari passo con quella musicale. Non ci si può infatti fermare solo sui problemi della trasformazione del contrappunto in armonia o delle trasposizioni tonali (che, d’altra parte, facevano e fanno anche i cantanti) o agli adattamenti di carattere strumentale: bisogna andare oltre, al significato profondo di tutto questo. Dalle testimonianze che ci ha letto Paola Bernardi e da quello che ci ha riferito Corrado De Bernart sappiamo che la musica del Settecento era tutt’altro che un rumore di sottofondo, come invece oggi accade: anche quando si faceva per le strade e quando si faceva all’improvviso, la musica era una parte fondamentale, costitutiva della società, cosa che oggi non è più; ed è questa una ragione per portarla di nuovo a esserlo. Personalmente, avverto questa collaborazione come un avvenimento veramente importante non soltanto per l’Istituto ma soprattutto come modello di quel che sarebbe possibile fare. Il fatto di aver acquisito la collaborazione di Paolo Ravaglia è per me molto importante. Che poi Paolo abbia portato con sé sette persone così brave, che ha la fortuna di frequentare, è altrettanto importante e mi è piaciuto moltissimo. Per il resto ripeterò quello che ho detto 46 ieri. Ogni giorno che passa, ogni passo che facciamo in questa ricerca ci convince che la tesi buttata lì come un’ipotesi da verificare (credendoci sì, ma con la paura, con il timore che non sarebbe stata verificata e che saremmo stati smentiti) si afferma invece con forza sempre maggiore. I mezzi di comunicazione di massa, il disco, il cinema, la radio e la televisione, quando diffondono la musica attraverso i sistemi meccanici ed elettronici, non fanno, dal punto di vista sociale, qualcosa di diverso da quel che facevano i musicisti popolari in passato (per quelli colti il discorso è un altro: il caso D’Anglebert è diverso), quando questi mezzi non esistevano. È soltanto una questione di progresso tecnologico, ma la mentalità che c’è dietro, cioè il desiderio di fare della musica un patrimonio della società, un bene di cui tutti fruiscano, suonandolo ma anche ascoltandolo, è una cosa importante. Questo mi spinge a ritenere che il Laboratorio aperto di Paola Bernardi debba continuare per molti anni ancora, con l’aiuto di tutti quanti vi collaborino. Paola Bernardi lo dirige benissimo, con spirito di collaborazione e di curiosità che non è tipico né del musicista né del musicologo ma forse solo di un certo tipo di persone dotate di sensibilità umana. Per tutte queste ragioni spero che lo Stato, attraverso il Ministero che ci finanzia, ci consenta di continuare questa esperienza. Ribadendo quanto ho già detto, concludo con un nuovo ringraziamento a voi tutti e con un invito per noi tutti: bisogna che aggrediamo il Fondo Pitti strumentale! 47 RICERCA SUI MODI DI DIFFUSIONE DELL’OPERA E DEL BALLETTO AL DI FUORI DEL CONTESTO TEATRALE SESTO LABORATORIO APERTO di Paola Bernardi con la collaborazione di Corrado Nicola De Bernart e Paolo Ravaglia LE TRASCRIZIONI PER STRUMENTI A FIATO DA OPERE DI CONTEMPORANEI DI MOZART Roma 20 e 21 dicembre 1993 lunedì 20 dicembre 1993 ore 15.30 SALETTA ARCHIVI I.R.TE.M. via de’ Delfini 16 CARLO MARINELLI Cari amici, ho il piacere di salutarvi e accogliervi al Sesto Laboratorio aperto di Paola Bernardi dedicato alla ricerca sui modi di diffusione dell’opera e del balletto al di fuori del contesto teatrale, ricerca arrivata al suo settimo anno di vita. Quest’anno si affronterà un argomento estremamente interessante che contribuisce ad approfondire il lavoro su quella tesi da noi posta come punto di partenza, tesi che andava dimostrata e che ora ci sembra sia da ritenere affermata con sufficiente certezza. L’uso di diffondere al di fuori del contesto teatrale la musica in generale (ma la nostra indagine è limitata al nostro campo, cioè l’opera e il balletto) destinandola a tutti coloro che non potevano andare a teatro per ragioni di denaro o per ragioni di distanze, oppure a quanti, andati a teatro, volevano divertirsi a risuonare il relativo repertorio, riascoltando melodie o brani che erano loro particolarmente piaciuti, esisteva già in perfetta somiglianza con quello che poi verrà fatto nel nostro secolo con i mezzi di comunicazione di massa. Tale costume esisteva addirittura, se non fin dagli inizi della storia dell’opera, sicuramente appena mezzo secolo dopo che essa era nata. Il lavoro che su Mozart ha fatto Paola Bernardi con i suoi collaboratori, Corrado De Bernart e Paolo Ravaglia, ha affrontato un campo che era abbastanza noto, sia pure non nell’estensione che abbiamo riscontrato effettivamente. Al centro della ricerca di quest’anno vi sono le trascrizioni da opere di Mozart per ottetto di strumenti a fiato. Questa ricerca è stata resa possibile grazie al ritrovamento, presso il Conservatorio di Musica di Firenze, del Fondo Pitti strumentale, che Paolo Ravaglia ha esplorato con pazienza infinita nei limiti del possibile, mentre Paola Bernardi ha comparato le partiture delle opere originali con le trascrizioni per strumenti a fiato in parti staccate. Per questa via non solo si è venuti a conoscenza di un fondo molto vasto ma si è soprattutto rilevato che l’uso di ascoltare musiche d’opera suonate da strumenti a fiato per le strade o nei salotti, forse addirittura nelle taverne, non riguardava soltanto le opere di Mozart, cioè le opere di un musicista noto e che aveva avuto grande successo presso il pubblico, ma anche i lavori di compositori suoi contemporanei. Tale consuetudine riguardava opere che erano state scritte addirittura prima della sua nascita o quando egli era un bambino, quando ancora con questa forma non si era cimentato. In altre parole, ci troviamo di fronte a una consuetudine pienamente affermata già prima degli anni di Mozart. Mi sembra che questo sia un momento di estrema importanza per la nostra ricerca, giunta alla sesta tappa del settimo anno, che trova conferme alla tesi di partenza che vanno ben al di là delle mie personali attese. Per questa ragione, come presidente dell’I.R.TE.M., devo ringraziare con molto calore Paola Bernardi, Corrado De Bernart e Paolo Ravaglia che la affiancano in questa occasione nonché tutti i collaboratori che l’hanno assistita negli anni precedenti. Mi auguro che si possa andare ben oltre i risultati finora ottenuti perché, man mano che procederemo per questa via, ci aspetta una vastità di materiali in confronto alla quale il pur vastissimo archivio di Firenze sembrerà un’inezia. In ogni caso, l’esperienza di affrontare lo studio sia pur parziale di un grosso archivio (tenuto peraltro in pessime condizioni e difeso con i denti come se fosse un tesoro di famiglia) e di essere riusciti a penetrarlo mi sembra possa servire per il futuro. Di questo paziente lavoro, come sapete, cerchiamo di lasciar traccia: ai pochi privilegiati che assistono di persona al Laboratorio si aggiungono coloro i quali ne leggeranno la documentazione scritta. Abbiamo infatti pubblicato un quaderno su Lulli (penso che lo conosciate), è già in cantiere (uscirà nel 1994) quello su Haendel e credo che tra qualche anno sarà pubblicato anche quello su Mozart e i suoi contemporanei. Grazie e buon lavoro. 53 PAOLA BERNARDI Diamo dunque inizio a questo nostro Sesto Laboratorio aperto. La ricerca portata avanti in questi anni sta aprendo spazi enormi di conoscenza musicale che personalmente trovo preziosa anche nel mio campo cembalistico. A questo proposito vorrei proprio raccontarvi un’esperienza. C’è un personaggio in Les pèlerins de la Mecque il cui nome è Vertigo. Avevo incontrato, nelle Pièces de clavecin pubblicate nel 1746 da Joseph Nicolas Pancrace Royer, un pezzo intitolato Le Vertigo. Nonostante varie ricerche non mi è mai stato chiaro chi fosse ma studiando le opere di Gluck ho risolto l’enigma. Voglio dire che questa ricerca, che sembrerebbe molto lontana dal campo in cui opero giornalmente, mi porta invece a conoscenza anche di cose che potrebbero sempre servirmi. Vertigo è un pittore girovago un po’ folle, che ha perso un amore e non vuol sentir parlare di matrimonio. Non sappiamo se il personaggio sia passato nell’opera di Gluck; dunque o da Gluck a Royer o da Royer a Gluck, ma in ogni caso il personaggio è quello. Questo naturalmente mi fa molto contenta; studiando mi sono arricchita di un’ulteriore scoperta. In apertura di questo Sesto Laboratorio (molto ha già detto il professor Marinelli) farò una brevissima carrellata dell’attività fin qui svolta. Siamo partiti dalle trascrizioni per un solo strumento, il clavicembalo o il flauto, poi siamo passati ai due flauti, ai due flauti e basso continuo, quindi alla voce e basso continuo. Questi sono stati gli organici di cui ci siamo occupati negli anni precedenti. Dallo scorso anno abbiamo affrontato la trascrizione per musique d’harmonie, cioè per ottetto di fiati composto da due oboi, due clarinetti, due corni e due fagotti. Questa tipologia di organico strumentale ha avuto una grandissima diffusione nella seconda metà del Settecento. Abbiamo visto che non c’era corte dove non vi fosse un ensemble di tal tipo. Che cosa suonavano questi gruppi? Intanto, come sapete bene, musica per loro appositamente scritta: basta ricordare le serenate di Mozart o di Johann Christian Bach e Carl Philipp Emanuel Bach, così come le composizioni di Beethoven. Questi strumentisti avevano quindi a disposizione musiche originali composte specificatamente per loro ma, al contempo, diffondevano la musica operistica eseguendone varie trascrizioni. Il successo delle loro esecuzioni era tale che, secondo le numerose testimonianze rintracciate, quando si esibivano per le strade (le serenate si suonano per strada o comunque all’aperto) la gente li accompagnava di quartiere in quartiere, andando loro dietro fino a tarda notte. La loro musica raggiungeva larghi strati della popolazione, poiché essi non si esibivano al chiuso delle corti ma anche durante i banchetti, le cerimonie religiose, nelle strade e nelle piazze: non era più soltanto la nobiltà a essere coinvolta nel fenomeno di diffusione dell’opera attraverso la trascrizione ma anche la popolazione più semplice. L’ottetto di fiati, quindi, è stato uno mezzo di grande portata per la diffusione dell’opera. Siamo rimasti molto colpiti da tutto quanto abbiamo via via trovato. Sommersi come eravamo dalla mole delle parti, quest’anno abbiamo deciso di concentrarci sul materiale proveniente da una sola biblioteca, quella del Conservatorio di Firenze. Ci sono state varie difficoltà che Paolo Ravaglia ha vissuto in prima persona, come poi ci racconterà. Ad esempio, consultando un faldone contenente alcune parti dell’opera di Gluck che esamineremo più tardi, Les pèlerins de la Mecque, sono state trovate anche delle parti senza indicazioni dell’Orfeo, opera scritta due anni prima rispetto a quella che prenderemo in esame. Ricordo che le difficoltà non sono solo relative alla consultazione delle parti ma anche al reperimento delle partiture. Delle tre opere che quest’anno abbiamo esaminato, l’unica italiana non era in Italia. La partitura del Filosofo di campagna di Galuppi, che sappiamo essere stata scritta a mano in diverse copie, non è accessibile nella nostra nazione: una biblioteca era chiusa per qualche motivo, per un’altra abbiamo ricevuto false indicazioni: il «Grove», per esempio, riporta erroneamente che una partitura è conservata presso la Biblioteca Doria Pamphili qui a Roma. Ci siamo allora rivolti a Vienna, e da Vienna ci sono pervenute addirittura due partiture distinte. Mi riprometto di esaminarne le differenze. L’o54 pera francese era invece nella Biblioteca del Conservatorio di Roma, dove siamo andati a consultarla, mentre quella di Gluck per nostra fortuna è stata pubblicata di recente. Vi è stata quindi una certa difficoltà nel reperire le partiture, cosa assolutamente necessaria perché il lavoro di comparazione che va dalla partitura alle parti trascritte è fondamentale. Per quest’anno ci eravamo proposti di verificare se nel periodo precedente a Mozart esistessero già trascrizioni per Harmonie. Ebbene, le abbiamo trovate! Per ricostruire un quadro un po’ più definito vi leggerò le date e le località delle prime rappresentazioni delle opere di cui ci siamo occupati lo scorso anno e di quelle di cui parleremo oggi. Lo scorso anno abbiamo preso in considerazione Le nozze di Figaro, rappresentate a Praga nel 1786, e il Don Giovanni, la cui prima fu nel 1787, sempre a Praga, con replica a Vienna nel 1788 che conteneva lievi variazioni. Poi, prendendo spunto dalle citazioni musicali della scena della cena nell’ultimo atto del Don Giovanni, dove si sente proprio un gruppo di fiati eseguire brevi incisi tratti da altre opere, siamo andati a prendere in esame quei lavori. Abbiamo lavorato su Tra i due litiganti il terzo gode di Sarti, rappresentata a Milano nel 1782, su Una cosa rara di Martín y Soler, rappresentata anch’essa a Vienna nel 1786, e sull’opera di un italiano, Paisiello, il quale aveva scritto Gli astrologi immaginari per la corte di Caterina di Russia. L’imperatrice si divertì moltissimo; scrisse in una lettera di aver riso dal principio alla fine e fece dono di questa partitura all’imperatrice d’Austria durante una visita ufficiale di quest’ultima. Gli astrologi immaginari furono così ripresi a Vienna nel 1781. Come vedete le opere dello scorso anno sono tutte degli anni Ottanta del Settecento. Quest’anno invece abbiamo tre nuove opere: Il filosofo di campagna che venne rappresentato a Venezia nel 1754, due anni prima della nascita di Mozart, Les pèlerins de la Mecque di Gluck, data a Vienna nel 1764, quando Mozart aveva otto anni, Zémire et Azor di Grétry, la più tarda di tutte, rappresentata a Fontainebleau nel 1771. Come vedete sono tutte trascrizioni di opere precedenti a Mozart. Ma le cose non sono così semplici come sembrano. Detto questo, infatti, il grande interrogativo che ci si è posto è il seguente: quando sono state trascritte? Non è detto, infatti, che siano state trascritte subito dopo la prima rappresentazione. Noi veniamo dall’esperienza del lavoro su Haendel: il mattino dopo la prima rappresentazione dei suoi lavori già circolavano le trascrizioni di varie parti. Ma il caso haendeliano è certo diverso: si trattava di trascrizioni molto semplici, poiché erano per un flauto o per due flauti, mentre nel caso delle trascrizioni per harmonie l’operazione è molto più complessa. L’interrogativo che ci si è posti riguardo la datazione delle trascrizioni è inoltre importante. Non credo che potremo giungere a una soluzione definitiva a questi problemi ma come sempre daremo conto delle ipotesi sulle quali ci sarà ancora da lavorare. D’altronde la ricerca non si conclude mai; e questo mi stimola molto e mi fa sentire molto vicina ai miei collaboratori, i quali, oltre ad avere il gusto dell’analisi e a essere dei bravissimi musicisti, hanno come me la volontà di ricercare sempre qualcosa di nuovo. Trovare dei giovani così aperti è stato per me fonte di altro piacere. Ho una certezza e voglio dirvela. Le tre opere di cui parleremo ebbero un grande successo. Quella di Galuppi, subito dopo la prima di Venezia, venne portata in scena a Bologna e Roma nello stesso anno, poi a Francoforte, a Praga, a Dresda, fino ad arrivare a Vienna nel 1763. Di quest’opera vi furono venti allestimenti nei primi dieci anni e ottanta rappresentazioni in vent’anni. L’opera di Gluck ha girato tutto il mondo ed è stata tradotta persino in italiano, e lo stesso è accaduto per l’opera di Grétry. Tutto questo successo porta a pensare che l’esigenza di divulgarle rimase a lungo e ciò rende plausibile che le trascrizioni potrebbero essere state realizzate anche molti anni dopo la prima. L’esigenza di divulgarle attraverso le trascrizioni per gruppi di fiati a distanza di tempo è la più preziosa testimonianza che il pubblico desiderava ancora sentirle e risentirle. Questo è un primo inquadramento. Adesso Paolo Ravaglia ci racconterà le sue esperienze nel Fondo Pitti della Biblioteca del Conservatorio di Firenze. 55 PAOLO RAVAGLIA Sicuramente ci troviamo di fronte a un archivio meraviglioso. Il problema principale è stato quello della consultazione per alcuni impedimenti che in breve cercherò di spiegarvi. La ricerca cominciò quasi in sordina. Consultando il RISM avemmo certezza della presenza di una copia manoscritta di una trascrizione delle Nozze di Figaro attribuita a Vent nell’Archivio del Fondo Pitti strumentale presso la Biblioteca del Conservatorio «Cherubini» di Firenze. Inizialmente immaginavo di trovarvi pochi spartiti ma appena entrato, approfittando anche dell’assenza del bibliotecario ma aiutato dalla buona volontà di una sua collaboratrice, vidi montagne di musica, scaffali che arrivavano fino al soffitto pieni di manoscritti del Settecento. Esiste anche un Fondo Pitti vocale, e non so assolutamente cosa possa nascondervisi all’interno. Nel Fondo Pitti strumentale, per quel che si riferisce alla Harmoniemusik, vi sono circa trecento titoli di opere in trascrizione degli autori più disparati. Vi sono lavori di Mozart, Beethoven, Rossini, Cherubini, Haydn, Adam, Bellini, Donizetti, Hérold, dunque di autori maggiori, minori o anche sconosciuti; vi è anche un certo numero di lavori anonimi (più o meno una trentina, se non erro), con titoli di opere sulle quali il mistero non può essere svelato fin quando non si riesca ad avere accesso alla musica, per verificare se sia riconducibile all’opera già conosciuta di qualche autore. Facendo richieste specifiche e ottenendo permessi particolari, sono riuscito a consultare l’Archivio e lo schedario ma non ho avuto modo di completarne l’archiviazione nominale; sono riuscito a fare un 70% del lavoro poiché, adducendo motivi burocratici, i responsabili della biblioteca purtroppo mi hanno impedito di portarlo a termine. In ogni caso, le schede sono state compilate parecchi anni fa e presentano vari errori che rivelano una catalogazione superficiale; in esse sono indicati esattamente il numero delle carte, la forma degli spartiti (in genere in quarta ma anche in ottava) e solo raramente la presenza di date relative alla copia avvenuta da parte dei trascrittori. L’Archivio si presenta in buone condizioni ma il bibliotecario mi ha rivelato un suo dubbio: molte partiture della sezione per Harmoniemusik o più genericamente dell’intero Fondo Pitti strumentale e vocale – il primo comprende anche composizioni originali per un solo strumento, per strumento solista e orchestra e per varie formazioni cameristiche – potrebbero essere state danneggiate dall’alluvione del novembre 1966. Durante una breve pausa ho avuto modo di consultare la partitura di un concerto per clarinetto e orchestra scritto da un certo Giuseppe Manganelli, fiorentino, databile intorno al 1798-1800, sulla quale erano visibili i segni dei danni provocati dall’acqua; fortunatamente, però, le note erano integralmente leggibili. Il problema è che tutti questi fascicoli, che siano in buono stato o meno, non sono affatto conservati nel modo più idoneo. In altre parole, gli scaffali in cui la musica è contenuta non sono l’ideale per la conservazione. Per quanto riguarda invece la sezione del Fondo Pitti relativa ai lavori per Harmoniemusik, devo comunque dire che lo stato complessivo di conservazione delle musiche è abbastanza soddisfacente. I fogli sono tutti rilegati in modo piuttosto rifinito (a differenza di altri spartiti, come ad esempio quello della composizione per clarinetto e orchestra), poiché spesso le musiche erano contenute in cartelle arabescate, molto impreziosite rispetto alle usuali rilegature dell’epoca. I faldoni contengono due tipi di trascrizioni: quelle caratterizzate da vari fascicoli, in parti staccate (sino a ventisei-ventisette parti) e quelle che contengono solamente otto-nove parti (perché otto o nove erano gli strumenti che componevano la Harmonie). Nel caso delle parti con otto o nove fascicoli ciascuna, abbiamo per tutte delle rilegature pressoché identiche, con arabeschi in verticale per circa un quarto o un quinto della lunghezza della pagina e la musica redatta con un’ottima calligrafia, tutto generalmente in buono stato di conservazione. Le opere con molte parti (Zémire et Azor appartiene al primo di questi gruppi, mentre Galuppi appartiene all’altro) hanno un altro tipo di rilegatura, in ogni caso sempre abbastanza raffinata. I fascicoli sono contenuti in alcuni cartoni, tutti in ottimo stato, che ne hanno conservato nel tempo l’integrità. Purtroppo questa musica 56 non dovrebbe rimanere più a lungo in questi scaffali, certo poco adatti sia alla conservazione sia alla consultazione, peraltro resa molto difficile. Non essendo permesso fotocopiare il materiale, non essendovi una sala per la consultazione, con una macchina fotografica sono stato costretto a fare circa cinquecento fotografie nel più scomodo dei modi, posta la musica per terra e con la schiena piegata in due; questo solo per il lavoro di quest’anno. In sostanza, si è trattato di fare dei microfilm per i quali ho impiegato una ventina di rullini da trentasei pose, dai quali sono poi riuscito a ricavare le singole pagine: su cinquecento fotografie vi erano quindi, più o meno, un migliaio di pagine. Il mal di schiena è responsabile delle trenta-quaranta foto (poche in percentuale!) che sono venute sfocate o mosse. Detto questo, cedo la parola a Corrado De Bernart che introdurrà la Harmoniemusik. Del problema della datazione delle parti preferirei parlare in seguito. CORRADO NICOLA DE BERNART L’anno passato avevamo già preso in considerazione questo particolare organico cameristico. Per me, che provengo da settori di ricerca su altri aspetti della vita musicale del Settecento, si è trattato di scandagliare una realtà di cui personalmente non avevo particolari conoscenze. Non avevo sentore soprattutto del fatto che si trattasse di un fenomeno così diffuso e così radicalmente legato alla realtà musicale di tutta Europa. Quando parliamo di musique d’harmonie ci riferiamo, come tipologia di fondo, a un gruppo di otto fiati, caratterizzato dalla presenza di una coppia di clarinetti, una coppia di oboi, una coppia di corni e una coppia di fagotti; ma con lo stesso termine ci si può riferire, in un’accezione più ampia, a complessi di soli strumenti a fiato anche dissimili rispetto al suddetto tipo di formazione. Nello stesso Fondo Pitti strumentale esiste anche materiale per complessi di fiati molto più grandi e vari. Certo, per queste formazioni esiste un repertorio originale d’epoca già ben noto, dalle serenate di Mozart alle composizioni di Beethoven, ma non molto sapevamo della vasta utilizzazione di trascrizioni d’opera. Tutte le trascrizioni operistiche di cui ci siamo interessati sinora, con una eccezione per quanto riguardava le trascrizioni per flauto del materiale haendeliano in Inghilterra, sono nate in ambienti di un certo spessore culturale oltre che sociale. Le trascrizioni per clavicembalo, per esempio, sono nate ad opera di musicisti colti per fruitori appartenenti all’aristocrazia. Per imitazione, poi, esse hanno avuto anche un ambito di diffusione presso le classi sociali emergenti. Lo stesso vale per le trascrizioni violinistiche, come anche per quelle per voce e basso continuo, che nascevano per un ambiente culturale piuttosto elevato, dove la pratica del canto, della tecnica strumentale, della musica in generale fosse fatto consueto. Per la musica per strumenti a fiato, invece, il discorso deve essere capovolto, perché le radici storiche della formazione di questo tipo di organico risiedono più in ambienti popolari che non aristocratici, anzi, faremmo meglio a dire, sono di derivazione nettamente popolare. I precedenti storici più antichi risalgono alla fine del Cinquecento. Nei territori di lingua inglese (l’Inghilterra, dunque, ma anche Scozia e Irlanda) e nei paesi di lingua tedesca (Austria, ma anche vaste zone dell’Ungheria, della Germania, della Polonia e della Boemia) troviamo delle figure abbastanza particolari di strumentisti. Nel tempo essi assumeranno il nome in lingua tedesca di Stadtpfeifer e in inglese di whistle. Essi erano in pratica suonatori di strumenti a fiato – poi vedremo perché di strumenti a fiato – cui era conferito l’incarico di strumentisti municipali ovvero essi erano assunti e stipendiati dalla comunità cittadina locale per svolgere vari compiti. Avevano l’incarico di provvedere a tutta una serie di segnalazioni, per esempio quella di segnalare il passaggio delle ore o di dare l’allarme in caso di pericolo; dovendosi percepire tali segnali anche a distanza, era ovvio che gli strumenti più adatti al bisogno fossero quelli a fiato. Ma questi musicisti avevano anche compiti più gratificanti e gradevoli: erano chiamati a esibirsi in tutte le occasioni più mondane, nei festeggiamenti annuali laici e sacri, per ricorrenze particolari, per vittorie militari, per la nascita di personaggi importanti, ecc. Il loro impiego contribui57 va a rendere più sfarzosa la magnificenza dei festeggiamenti. Gli Stadtpfeifer e i whistle erano organizzati in corporazioni, a capo delle quali vi era un direttore, il musicus; frequentavano dei corsi specifici della durata di almeno cinque o sei anni, sostenevano degli esami, avevano dei turni settimanali organizzati di prove (venivano esonerati dal servizio per poter studiare e provare) ed erano utilizzati quando, come e dove l’autorità pubblica lo ritenesse opportuno. Gli era comunque concessa la libertà, al di fuori degli orari di servizio, di esibirsi anche in ambiti privati allo scopo di incrementare il loro guadagno. Gli strumentisti, quindi, offrivano i loro servigi anche per allietare ricevimenti privati, feste, banchetti, ecc. In Inghilterra il loro organico complessivo si attestò su un minimo di sei elementi ma abbiamo notizia che nella metà del Seicento vi fossero gruppi formati da nove o più strumenti. Anche in Germania i complessi ebbero organici molto elastici. Nello stesso periodo, in Boemia ma anche in vaste aree confinanti, si diffondevano praticamente in ogni luogo, compresi i più piccoli villaggi, scuole di musica affidate agli stessi maestri elementari che insegnavano ai bambini a leggere, scrivere e a far di conto. Vi si insegnava la musica e gli strumenti prevalentemente impiegati erano strumenti a fiato. Burney ci testimonia che queste scuole operavano davvero in tutti i villaggi. Nelle zone di lingua tedesca si diffondevano i Verbunkos, i «canti di arruolamento». Soprattutto dagli inizi del Settecento, piccoli gruppi di musicisti, suonatori di strumenti a fiato e tamburini, giravano per tutti i villaggi dell’Austria, dell’Ungheria e di altre vaste aree per arruolare volontari. Questi piccoli complessi di strumenti a fiato e percussioni, cui spesso si univano dei ballerini, formati interamente da militari (soldati o sottufficiali di truppa), organizzavano una sorta di spettacoli di piazza che avevano lo scopo di attrarre l’attenzione della popolazione. Al pubblico di curiosi che vi assisteva, al termine dell’esibizione, veniva proposto di arruolarsi nell’esercito invece di far la fame nelle campagne. Questa usanza ebbe grandissima diffusione: l’arrivo di queste orchestrine nei vari villaggi era occasione di svago e divertimento per l’intera comunità locale e portava la musica a contatto con gli strati più bassi della popolazione. Anche in Inghilterra è esistito un fenomeno simile. Nelle città, invece, l’esercito raccattava gli ubriachi nelle taverne; la mattina successiva i malcapitati si trovavano in divisa e armati senza saper come. I migliori di questi strumentisti, militari o civili che fossero, poterono entrare a far parte dei più prestigiosi gruppi di strumentisti a fiato che trovavano il loro impiego in ambiti più elevati, borghesi e aristocratici; ma di questo parleremo in seguito. Continuiamo con le radici del fenomeno. Nel periodo settecentesco vi sono molti generi musicali che sono legati alla pratica degli strumenti a fiato. Tra le varie curiosità vi è la Turmmusik, letteralmente «musica dalle torri»; la si suonava in varie località dall’alto delle torri, dei campanili, delle terrazze, ecc. Se la sua origine è nei segnali lanciati per annunciare il cambio dell’orario o un pericolo, con il tempo si arrivò a esibizioni vere e proprie con esecuzione di composizioni scritte specificatamente per questo tipo di contesto. L’uso relativo a questi concerti dall’alto ebbe tale diffusione che anche importanti musicisti (Beethoven, per esempio) si divertirono a comporre brani di Turmmusik. Esiste poi il vasto filone della Feldmusik, letteralmente «musica da campo». La musica da campo era composta per essere utilizzata durante le marce, le parate militari, i festeggiamenti al termine delle grandi manovre; essa appartiene al mondo che potremmo definire di «mondanità militare» che tanto caratterizzò il costume sociale nel periodo di nascita e formazione dei vari eserciti nazionali. Sappiamo che per i giovani aristocratici e alto borghesi d’Europa l’alternativa per il futuro si poneva spesso tra la carriera militare o l’amministrazione dello Stato. In Francia, in Germania, in Austria e in Inghilterra, i rampolli delle famiglie importanti dovevano dare un contributo alla nazione e alla corona soprattutto prestando il servizio militare. Durante il periodo di ferma nulla però cambiava nei loro costumi di vita: stesse abitudini, stesso lusso, stesse mode, stessi svaghi, musica e 58 danza comprese. Ecco perché alla presenza degli ufficiali si legava un grande fermento mondano. Ne conosciamo tutti i luoghi comuni: intere cittadine elettrizzate dalla presenza di reparti dalle variopinte divise, giovani fanciulle trepidanti all’idea di poter conoscere e frequentare nobili ufficiali dal fiero portamento, fitto carnet di incontri mondani. C’è poi il filone della Tafelmusik, cioè della musica da convivio, la «musica da tavola». Difficile dire per quale motivo essa sia particolarmente legata agli strumenti a fiato, ma una prova oggettiva di come fossero prevalentemente impiegati proprio questi strumenti l’abbiamo considerando le varie composizioni del genere appositamente scritte da vari autori. Nell’organico usuale, che pur sempre prevede l’utilizzazione di archi, cominciano ad assumere sempre maggiore peso i fiati. Nel convivio del Don Giovanni, per esempio, come diceva in precedenza Paola Bernardi, tutte le musiche suonate durante l’ultima cena del protagonista sono affidate a una musique d’harmonie. Ci sono poi le musiche composte per le cacce e per la mondanità ad esse legata, organizzate nelle varie residenze campestri delle ricche famiglie aristocratiche. In tutte le nazioni d’Europa, le corti reali, le grandi casate, gli aristocratici in generale disponevano di varie residenze. Alcune erano destinate specificatamente ad accogliere la famiglia e il suo entourage in occasione di quelle cacce collettive che tanto appassionavano i signori dell’epoca. In realtà tali avvenimenti erano soprattutto occasioni di incontro politico-sociale di prim’ordine e spesso la Storia si è fatta nei padiglioni di caccia. Ambasciatori, ministri, personalità straniere, monarchi e via dicendo trascorrevano a contatto con la natura giorni di svago e di divertimento, allietati da tutto ciò che poteva sollevare il loro spirito. La musica vi aveva una grandissima importanza. Gli interpreti sono spesso musicisti di origini molto umili ma anche musicisti al servizio della nobiltà; spesso essi erano servitori i quali, tolta la livrea di cocchieri o di cuochi, indossavano, quando occorreva, parrucca e tenuta di gala per trasformarsi in strumentisti. Le giornate della caccia si aprivano di consueto con un sontuoso spettacolo musicale. Spesso vi venivano rappresentati lavori teatrali complessi ed elaborati; molte delle comédie-ballet di Lulli furono proprio rappresentate in occasione di cacce. E spesso la musica chiudeva i festeggiamenti come sottofondo alle esplosioni dei fuochi pirotecnici. C’è poi il filone della musica all’aperto, che saprà essere gradita agli strati più popolari della società e agli ambienti aristocratici. Nel corso del Settecento, in alcuni paesi quali Austria, Germania e Inghilterra, il contatto con la natura divenne particolarmente di moda; le passeggiate all’aria aperta, il trascorrere momenti di svago nel verde, nei giardini o nei boschi, il godimento della bellezza della natura divengono abitudini usuali per vaste fasce sociali. Si diede inizio alla costruzione e poi all’ingrandimento e abbellimento di tutti i giardini e parchi pubblici delle città, grandi o piccole che fossero; nei giorni festivi essi ospitavano un incredibile via vai di gente, le cui piacevoli e distensive passeggiate erano rallegrate dall’ascolto di buona musica. I concerti all’aperto diventarono un appuntamento da non mancare, per esempio nella Londra del Settecento. Si trattava di veri e propri concerti nei più eleganti parchi cittadini, con biglietto d’ingresso, affidati a strumentisti di grande bravura. Con il passare degli anni si arrivò a organizzare vere e proprie stagioni artistiche. Altre volte la situazione era un po’ diversa, con piccoli gruppi di suonatori che si esibivano confidando nel buon cuore dei passanti. I vari parchi godevano addirittura di maggiore o minore fortuna a seconda della notorietà, della bravura, della novità dei gruppi strumentali che vi si esibivano. Vennero costruiti accoglienti e variopinti padiglioni, con cupole che migliorassero l’acustica, e in essi si esibivano molto spesso gruppi di strumenti a fiato. Evidentemente, infatti, i concerti all’aperto, per problemi di natura sonora, dovevano avvalersi principalmente di strumenti con maggiore voce. Una Harmonie ha certo più potenza sonora di un’orchestra di dodici o quindici archi con clavicembalo. Vienna e Londra sono sicuramente due punti di riferimento per questo tipo di attività musicale all’aperto. 59 Che cosa succede per quanto riguarda la vera e propria musique d’harmonie? Le notizie riguardo questa formazione cameristica formata da otto fiati si legano principalmente al mondo militare. Tutto ciò di cui ho parlato rappresenta l’humus sul quale è germogliato l’interesse per questo tipo di organico. Ma la vera e propria nascita della Harmonie è nei campi militari. Difficile è spiegare per quale motivo l’attenzione fu concentrata su questi strumenti; mancano, ad esempio, le trombe, che sono gli strumenti militari per eccellenza. Non fu così alle origini. Nella Grande écurie di Luigi XIV (siamo dunque ancora in pieno Seicento) vi erano prevalentemente ottoni e percussioni, il che forse permetteva di eseguire un genere di musica spiccatamente marziale. Probabilmente l’affinarsi del gusto della classe elitaria nell’esercito, la presenza di persone in divisa più educate e raffinate portò al passaggio da strumenti militari e musiche in stile tonica-dominante-tonica a strumenti che avessero molte più possibilità espressive, capacità dinamiche e che, soprattutto, potessero eseguire con maggior eleganza musiche di più elevata fattura. Era utile poter utilizzare questi piccoli o grandi complessi non soltanto in occasione delle parate militari, dove bisognava solo impressionare il popolino con il rullo dei tamburi e gli squilli delle trombe, ma anche in occasione di eleganti occasioni mondane, balli, feste ecc. Servivano esecuzioni di buon livello di musica vera. L’ambiente sociale che frequentava tali appuntamenti era ovviamente abituato a certi cliché musicali molto più colti delle fanfare; ascoltava l’opera, la musica sacra in chiesa, la musica strumentale eseguita ad alto livello. Nei primi anni del Settecento presso i vari reparti era ormai usuale l’esistenza di gruppi di strumenti a fiato costituiti stabilmente; per essi cominciava, peraltro, a essere scritto un enorme repertorio che, nel volgere di breve tempo, mise a loro disposizione moltissimo materiale musicale. Si trattava di brani originali e di trascrizioni. Credo che la difficoltà di reperire le tracce di questo materiale d’origine sia più che altro dovuta al fatto che si trattava, comunque, di un tipo di musica all’epoca generalmente composta da musicisti e compositori minori, quasi sempre componenti degli stessi ensemble. Per quanto mi è capitato di verificare, analogamente accade per la musica da ballo durante il periodo barocco, sostanzialmente appannaggio di musicisti di secondo piano, non considerati al livello dei veri e propri professionisti i quali, invece, si dedicavano alla musica sacra, alla musica operistica e alle grandi forme strumentali. La musica da danza, che pure fu composta in grandissima quantità, al momento attuale è quasi tutta persa o nascosta in fondi strumentali ritenuti di scarso interesse. Per quanto detto, i più antichi brani composti per Harmonie sembrerebbero irrimediabilmente persi; nella maggior parte dei casi, d’altronde, si trattava di musiche manoscritte, mai pubblicate, utilizzate solo dal gruppo di fiati per il quale erano state occasionalmente composte senza ulteriore possibilità di diffusione. Di conseguenza, è difficile datare con certezza questo tipo di fenomeno proprio perché, andando a ritroso nel tempo, non riusciamo ad avere del materiale. Di fatto le prime composizioni in cui ci siamo imbattuti sono di poco precedenti alla metà del secolo. Questo è il quadro generale. Passiamo ad approfondire il discorso. Il primo problema che si è posto è stato capire in cosa ci si sia imbattuti. Il Fondo Pitti strumentale è enorme nella quantità ed estremamente interessante per la qualità delle opere contenute (sentiremo domani, infatti, che si tratta di trascrizioni di alto livello e non di lavori di riduzione realizzati nella peggiore delle maniere). Per noi si pone il problema di capire esattamente perché tutto ciò si trovi a Firenze e se da questo si possa far discendere che in Italia esistesse una vera e propria attività di questo tipo di complessi diffusa come io ho riferito essere in tutte le altre nazioni europee. Ovviamente non posso dare una risposta assoluta su questo ma posso proporvi alcuni elementi di riflessione che per noi hanno rappresentato un punto di partenza per una serie di ipotesi. La prima cosa che ho cercato di fare è stata quella di esaminare, per quanto possibile, la musica strumentale italiana dell’epoca, per verificare sino a che punto si potesse affermare che nella nostra nazione esistesse una tradizione d’uso di strumenti a fiato tale da giustificare l’ipotesi che il fenomeno della Harmonie vi avesse attecchito con una 60 certa ampiezza. Non basta, infatti, la mancanza di testimonianze storiche dettagliate per arrivare a negare una ipotesi. E stranamente devo dire di essermi imbattuto in una serie di dati che, a un certo punto, ha cominciato a incuriosirmi anche per altri motivi. Facendo eccezione per un periodo più inoltrato, in cui furono attivi musicisti quali Cambini o Giuseppe Sammartini (strumentista a fiato egli stesso ma attivo più all’estero che non in patria), di fatto in Italia non sono riuscito a trovare opere strumentali che potessero avvicinarsi come tipo di organico alla Harmonie. Vi sono molte composizioni per archi e fiati, concerti solistici, sonate, ecc., ma nulla di veramente vicino a questa formazione. La diffusione in Italia delle scuole violinistiche e la preponderante importanza dell’opera provocarono di fatto una focalizzazione dell’interesse su questi generi musicali. La caratteristica tipica della musica strumentale in Italia è il ruolo assolutamente centrale degli archi, ai quali, certo, si aggiunge anche lo strumento a fiato, ma si aggiunge sempre in modo non continuativo; l’utilizzazione appare legata più a un gusto di colore momentaneo che non a una realtà concertante, così apprezzata invece all’estero. Confrontando, per esempio, i lavori di Telemann, i lavori di Bach, i lavori di Haendel, con i lavori dei grandi musicisti italiani, a cominciare da Vivaldi per finire a Pergolesi, noteremo che gli organici sono molto diversi. Bach, per esempio, nelle cantate utilizza organici molti diversi, unendo al gruppo degli archi e del continuo trombe, corni, corni da caccia, oboi, oboi d’amore, flauti e fagotti. Se invece consideriamo le cantate degli autori italiani coevi noteremo che gli organici molto raramente fanno ricorso agli strumenti a fiato: l’inserzione di flauti, di oboi, in qualche caso di trombe per lavori destinati a occasioni di maggiore rilievo, è sempre estremamente episodica. Non esistono composizioni in Italia il cui organico possa essere raffrontato con quello, per esempio, dei Concerti brandeburghesi di Bach, o della Tafelmusik di Telemann. È evidente che l’interesse del pubblico e, quindi, dei compositori nazionali si muove verso un altro campo, un campo che utilizza gli strumenti a fiato ma senza riuscire a intuire che un loro ensemble possa creare una realtà coloristica e strumentale molto interessante. C’è il sinfonismo: a Milano esiste una grande scuola di sinfonisti (ma siamo abbastanza avanti negli anni), e tuttavia è un discorso che terrei distinto, perché la sinfonia è caratterizzata da un altro tipo di ricerca di impasto coloristico, che ha poco in comune con quello del piccolo gruppo da camera quale la musique d’harmonie. Possiamo allora dire che, in primo luogo, in Italia non vi è alcuna tradizione o, comunque, una tradizione molto dubbia: non abbiamo nessuna notizia storica sull’attività di gruppi di questo genere mentre ne abbiamo, e di molto precise, per quanto riguarda le altre nazioni; e avendo affermato che la musique d’harmonie, la formazione del tipico ottetto di fiati, si lega strettamente al mondo militare, a questo punto c’è da chiedersi se in Italia sia effettivamente mancato qualche tassello che abbia impedito il sorgere dello stesso tipo di fenomeno. In effetti così è stato, perché per tutto il periodo settecentesco, mentre nelle altre nazioni europee assistiamo a quello che potremmo definire il consolidamento di una struttura organizzativa militare, con un piccolo reparto di musicanti o una piccola banda in ogni reggimento, nulla di ciò vediamo qui da noi. In Italia non esistono gli eserciti. L’Italia, frammentata in una miriade di piccole nazioni e soggiogata dalle altre potenze europee, non li avrà per lungo tempo ancora. I pochi reparti costituiti all’epoca erano sciolti al termine delle operazioni belliche per l’impossibilità finanziaria di sostenerne i costi. Se la musique d’harmonie trova un grande impulso nell’ambito del mondo militare e il mondo militare in Italia non esiste (o, comunque, ha caratteristiche molto sui generis) manca quindi un tassello fondamentale. Questo è sicuro. E mancano i costruttori, gli artigiani, mancano le scuole, manca ciò che poteva far sì che in Italia ci fosse una tradizione simile a quella di altre nazioni. In Boemia, in Austria e in Inghilterra si aprono tanti laboratori di costruttori di flauti, oboi, fagotti, trombe. In Italia la tradizione artigianale è legata alla liuteria: gli strumenti ad arco dominano ovunque. Ed è interessante notare che i tre musicisti che prendiamo in considerazione oggi studiavano tutti il violino, il clavicembalo e la composi61 zione. Peraltro, anche il padre di Galuppi e il padre di Grétry erano violinisti, mentre il padre di Gluck era soltanto un musicofilo (era infatti un guardaboschi). La formazione usuale dei musicisti in Italia era per tradizione quella di strumentisti ad arco, mentre, per esempio, Quantz è uno Stadtpfeifer e comincia la sua carriera come suonatore, così come Hässler; si tratta cioè di tutt’altro tipo di estrazione. Ripeto, in Italia mancano dei tasselli importanti perché si affermi la tradizione della Harmonie. E la trascrizione dell’opera? Nel periodo considerato, mi sembra che in Italia manchi anche questa tradizione. Forse converrebbe aprire una breve parentesi sulla differenza che intercorre tra il concetto di trascrizione e il concetto di riduzione. Parlando di trascrizione ci si intende riferire a una composizione che riproponga un brano originale di partenza con un organico differente e modifiche non sostanziali. Scelto un brano, lo si riscrive adattandolo a un organico diverso, caratterizzato da impasti timbrici differenti che possano rendere necessari dei cambiamenti rispetto all’originale. Oltre a ciò, brevi tagli, semplificazioni strutturali o piccoli arricchimenti possono certamente essere realizzati dal trascrittore che, in tal modo, colora il risultato finale con tratti della propria personalità. Le trascrizioni di cui in questi anni ci siamo occupati sono di questo tipo. Che cosa intendiamo, invece, per riduzione? La riduzione è un adattamento estemporaneo del materiale di partenza, che non subisce modifiche interne, a una esigenza squisitamente esecutiva ma sempre dello stesso originale. L’opera viene tagliata di alcune sue parti, l’organico viene ridotto senza che vi siano tuttavia modifiche nelle originali parti musicali dei singoli strumenti o dei cantanti, l’allestimento scenico scompare o è ridotto all’essenziale. In poche parole, si accorcia e si mutila ma senza modificare. In tal modo, apparentemente senza influire sulla composizione originale, in realtà se ne distrugge totalmente la natura. Perché ho sottolineato questa differenza? In epoca settecentesca in Italia pullulavano delle compagnie d’opera note e compagnie improvvisate e di livello molto basso. Le prime si esibivano nei teatri più importanti e famosi. Le seconde si spostavano di città in città e spesso davano più l’idea di essere compagnie di saltimbanchi che di cantanti e strumentisti. Si recavano di luogo in luogo allestendo nelle piazze i loro spettacoli che frequentemente consistevano nelle rappresentazioni delle opere in voga al momento. Ma ciò che esse realizzavano non era un vero e proprio allestimento operistico, né era una trascrizione dello stesso, e consisteva piuttosto in una rappresentazione in forma ridotta al minimo indispensabile. Per intenderci, si trattava di una esecuzione a parti reali, privata di varie arie, privata di alcuni personaggi secondari, senza scenografia e magari senza neanche un palchetto di legno con un lenzuolo come sfondo (com’era caratteristico nella tradizione della commedia dell’arte). Queste non erano trascrizioni: erano solo riduzioni. Altre compagnie itineranti erano invece di alto livello, come quelle, rivali tra loro, dei fratelli Mengotti. I Mengotti erano due fratelli che avevano ciascuno la propria compagnia; con alterne fortune, fallimenti e bruschi capovolgimenti finanziari, allora all’ordine del giorno, essi giravano per tutta Europa. Gluck collaborò con loro per lungo tempo, portando i suoi lavori in città come Copenaghen, Vienna, Graz e Milano. Se le compagnie dei Mengotti erano serie, con ottimi cantanti e buoni strumentisti, generalmente esisteva una tradizione molto plebea di compagnie messe su alla meno peggio, con i soliti archi (che in Italia si trovavano in grande dovizia), qualche strumento a fiato, qualche cantante dalla voce dubbia. Le rappresentazioni erano una specie di riassunto dell’opera principale: giusto le scene e le arie salienti, col taglio di tutte le altre parti impossibili da mettere in scena per durata o complessità. Dato che la difficoltà di reperire un oboe, un flauto, una tromba era molto maggiore che non quella di reperire un violino, i primi strumenti a essere eliminati erano proprio i fiati; e se per caso si fossero trovati disponibili, per esempio, sia un oboe sia un violino, possiamo essere certi che si sarebbe preferito quest’ultimo. Ma questa è una battuta. La cosa che mi premeva sottolineare è che, mentre altrove l’opera si diffonde con certe modalità 62 al di fuori del contesto teatrale, in Italia, invece, è questo il filone di diffusione che riesce a far convergere l’attenzione del pubblico più vasto. A questo punto, se in Italia non esisteva una specifica tradizione di trascrizioni, non esistevano Harmonie, non vi erano gli strumentisti, come mai esiste l’enorme archivio del Fondo Pitti di Firenze? Come e perché questo materiale è arrivato in Italia? Facciamo delle ipotesi, con la premessa che per poter parlare con pertinenza del Fondo Pitti bisognerebbe poterlo esplorare integralmente. Questo permetterebbe di esprimere conclusioni motivate. Dal punto di vista metodologico, quindi, diciamo che al momento, sulla base dei dati già in nostro possesso, proponiamo solo alcune ipotesi. Cosa accade in Europa in questo periodo? Il Settecento è l’epoca dell’assestamento di confini, dinastie, società e nazioni. La lunga serie di conflitti per l’egemonia politica in Europa disegnerà e ridisegnerà spesso le mappe di tutto il continente. L’Austria ai primi del Settecento aveva una presenza massiccia in Italia; controllava vaste zone nel settentrione e soprattutto il Regno di Napoli, Sicilia compresa, che tenne fino agli anni Trenta, quando, dopo una sonora sconfitta a Bitonto subita ad opera dei francesi, dovette rinunciarvi a favore di Carlo di Borbone (figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese). Al suo seguito arrivò in Italia anche la mia famiglia. I mutamenti degli equilibri politici comportarono inevitabili conseguenze anche su molti dei piccoli stati italiani. A Firenze, per esempio, si estingue la dinastia de’ Medici, già politicamente decaduta dopo essersi alleata con gli stati perdenti. Sul trono del Granducato di Toscana arrivano i Lorena, e con loro l’Austria. I Lorena, infatti, sono imparentati molto strettamente con gli Asburgo. Francesco di Lorena, nuovo granduca di Toscana, è il marito di Maria Teresa d’Austria, all’epoca ancora principessa, figlia di Carlo VI d’Asburgo. Sappiamo che, non avendo egli eredi maschi, con la Prammatica Sanzione nel 1726 stabilì che la legge salica fosse abrogata nel regno austro-ungarico, spianando la strada per la successione a Maria Teresa. Alla morte dell’imperatore, un’ampia coalizione di stati europei, primi tra tutti Francia e Prussia, avanzando la candidatura di altri pretendenti al trono austriaco, tentò invano di scacciare dal trono la giovane imperatrice. L’impero degli Asburgo poté resistere e la Toscana rimase definitivamente ai Lorena, cioè alla corona austriaca. Si comincia così a intuire qualcosa: le trascrizioni conservate nel Fondo Pitti sono chiaramente scritte per un organico che in Austria è molto in auge. Presso la corte degli Asburgo era attiva la migliore formazione di musique d’harmonie probabilmente mai esistita, formata dai più valenti strumentisti dell’epoca, la cui brillantissima carriera si svolse per decenni al servizio dell’imperatore. Alla ricerca di ulteriori dati e immemore di informazioni derivate da altri momenti di studio, avevo cercato di impelagarmi in una ricerca sulla famiglia Pitti. In un primo momento avevo pensato che potesse esserci un legame tra questa famiglia e l’impero austriaco. Considerando la storia di Palazzo Pitti, da cui il fondo trae il nome, mi sono ricordato che già nel 1500 il palazzo era stato venduto per problemi finanziari dalla famiglia Pitti alla famiglia de’ Medici, precisamente a Cosimo de’ Medici. Il palazzo era dunque diventato la nuova sede della dinastia medicea; da qui la denominazione di Palazzo Vecchio per il Palazzo della Signoria, perché appunto precedente residenza del casato de’ Medici. Quando i Medici furono scalzati dai Lorena, la corte dei Lorena si stabilì a Palazzo Pitti: Palazzo Pitti diviene la residenza fiorentina di Maria Teresa d’Austria, nonché il luogo «italiano» dell’attività della musique d’harmonie al servizio dell’imperatrice d’Austria. A mio avviso, un’ipotesi verosimile è che il materiale che vi è custodito non solo sia stato scritto in origine realmente da Vent o dai copisti che normalmente svolgevano tale attività al servizio dell’imperatore, ma che questa parte del Fondo Pitti sia l’Archivio, non semplicemente un archivio, del materiale musicale che veniva raccolto all’interno della corte asburgica ed eseguito dai vari gruppi di strumentisti a fiato dell’imperatore nelle varie occasioni in cui venivano utilizzati. Peraltro, troviamo che le varie annotazioni sugli spartiti sono in lin63 gua tedesca. E se questa ipotesi dovesse essere vera, il resto del Fondo Pitti potrebbe constare di tutti i manoscritti di tutti i lavori che sono stati realizzati, scritti, dedicati, presentati o regalati alla corte asburgica. Questo spiegherebbe anche perché il Fondo Pitti strumentale si compone di così tanti libri. Quanti sono, Paolo? PAOLO RAVAGLIA Tanti. Piccola facezia. Parlando con una addetta alla biblioteca in relazione all’arrivo di un computer dissi: «Ma che bello! Adesso potrete lavorare e catalogare tutto»; lei mi rispose: «Ma scherza? Non si farebbe in tempo sino alla pensione. Sa che qui ci sono oltre 500.000 libri da catalogare? Lo farà chi verrà dopo di noi». CORRADO NICOLA DE BERNART Io credo che, pur volendo ipotizzare che l’intero Fondo Pitti non sia stato realizzato nello stesso periodo e che, quindi, si sia parzialmente arricchito anche nell’epoca successiva, se pensiamo che i Lorena lasciarono definitivamente la Toscana nel 1859, abbiamo più o meno un centinaio d’anni da considerare. Ci pensate? 500.000 libri! 500.000 cartelle piene di musica, una raccolta la cui imponenza fa pensare veramente che il committente o il raccoglitore di partenza fosse veramente in grado di gestire una biblioteca enorme! A questo punto è difficile ipotizzare (come in un primo tempo avevamo pensato) che si potesse trattare di una raccolta scritta per una musique d’harmonie particolare esistente a Firenze, per un gruppo di strumentisti che si fosse lì costituito o, anche, per un gruppo proveniente dall’estero; l’ipotesi che si trattasse di una biblioteca di uso corrente per una Harmonie oppure del fondo di una famiglia aristocratica che, avendo avuto dei contatti con l’Austria, la Germania ecc., si fosse interessata a questo tipo di repertorio. Quel che vi ho illustrato e l’incredibile quantità di materiale mi incuriosiscono a tal punto che personalmente vorrei vedere il resto: secondo me potrebbe trattarsi veramente dell’archivio musicale degli Asburgo trasferito a Firenze. PAOLA BERNARDI Questa ipotesi viene avvalorata dal fatto che, come abbiamo visto, le opere che prendiamo in esame quest’anno hanno avuto la loro prima esecuzione a Vienna, all’epoca il vero centro culturale dell’Europa: da lì mi pare che partisse tutto e lì mi pare che tutto arrivasse. Dalla Russia di Caterina II, dalla Francia tutto arrivava a Vienna! C’è dunque questo collegamento. Dopo questa ampia visione storico-culturale potremmo fare un intervallo, potremmo porre subito delle domande o passare all’ascolto delle opere. CARLO MARINELLI Secondo me non si tratta dell’archivio musicale degli Asburgo ma di copie, perché è molto difficile per motivi storici che sia l’archivio originale: Vienna non è stata saccheggiata e pertanto non vi è stata la necessità di mettere in salvo l’archivio. È più probabile invece che i delfini della casa austriaca, i Lorena, si facessero mandare questo materiale da Vienna, copie di tutto quello che a Vienna si faceva. PAOLA BERNARDI In questo caso, allora, si dovrebbero trovare le rispettive composizioni a Vienna. CARLO MARINELLI Non è detto, perché è più probabile che siano andate disperse a Vienna che non a Firenze. Firenze non ha subito devastazioni. A Firenze non è passato Napoleone, e se c’è passato lo ha fatto in modo incruento. 64 CORRADO NICOLA DE BERNART Per avere una risposta a tutto questo dovremmo conoscere tutto quello che è custodito a Firenze. VOCE DAL PUBBLICO Vorrei avere più notizie dell’archivio degli Asburgo a Vienna. Avete idea di come sia costituito? CORRADO NICOLA DE BERNART Purtroppo di Vienna non ci siamo ancora occupati. Per quanto è a mia conoscenza, un problema ulteriore è che in territorio austriaco esistono moltissime biblioteche private. Bisognerebbe allora andare anche a vedere che materiale si sia via via smistato anche lì. Non posso dare una risposta alla sua domanda. PAOLO RAVAGLIA Volevo fare una piccola aggiunta, non tanto in merito alla provenienza del Fondo Pitti ma in merito a quello che può esservi custodito. Come unico esempio di una catalogazione che io definisco assolutamente superficiale, porterò una sola scheda delle tante che ho visionato relative non solo a musica strumentale ma anche vocale. L’esempio è quello di una scheda che si riferiva a un concerto per clarinetto, corno e orchestra. Sono andato a controllare. Il corrispondente volume era un pacco spesso una quindicina di centimetri che conteneva di tutto: concerti per sette o otto strumenti, sinfonie per strumenti a fiato, una Harmoniemusik tarda, del 1803-1804, di Giuseppe Manganelli, fiorentino, e musica per fortepiano non catalogata. Se una scheda è sbagliata potrebbero esserlo anche le altre, senza per questo dire che debbano esserlo tutte. In altre parole, in questo archivio possiamo veramente trovare di tutto! PAOLA BERNARDI Fino a poco fa ci siamo chiesti come mai non sia stato trascritto il primo atto dell’opera Zémire et Azor di Grétry. Signori, qui veramente finiamo nelle ipotesi! Non credo che il trascrittore abbia saltato il primo atto, che peraltro è molto divertente. Probabilmente è stato inserito in un altro fascicolo e chissà quando lo troveremo. CARLO MARINELLI Nel caso di archivi non catalogati, quello che avete appena riferito è del tutto normale. PAOLO RAVAGLIA Ma il Fondo Pitti è un archivio catalogato! CARLO MARINELLI Intendo dire che in genere si cataloga il primo foglio e non tutto il resto. PAOLO RAVAGLIA È infatti stato catalogato il primo foglio, ma fascicoletto per fascicoletto erano rilegati in maniera indegna, con delle corde, il che sicuramente non giova alla conservazione. Oltre ai danni dell’alluvione c’erano anche i danni provocati dalla corda e dai timbri del bibliotecario su ogni foglio! CARLO MARINELLI Il problema più rilevante è come il Fondo Pitti strumentale sia stato trasferito da Palazzo Pitti alla Biblioteca del Conservatorio di Firenze; questo è il punto chiave: se sia 65 stato impacchettato frettolosamente o se fosse costituito da faldoni già precostituiti. Questo sarebbe molto importante a sapersi, se il mescolamento sia avvenuto nel momento in cui da Palazzo Pitti si è passati alla Biblioteca del Conservatorio avrebbe un significato, se il mescolamento sia precedente ne avrebbe un altro, direi molto più importante ma anche molto più difficile da decifrare. Questo sarebbe da appurare. Non sarà difficile sapere quando è avvenuto questo trasferimento. PAOLA BERNARDI Tale confusione non regna soltanto a causa del disordine creato dai bibliotecari che hanno raccolto queste musiche ma anche per colpa degli stessi trascrittori. La trascrizione dell’Orfeo non è che un foglio che porta la scritta «Orfeo», senza ulteriori specificazioni, che è inserito tra le pagine di tutt’altro lavoro. Tutti magari penserebbero che sia di quell’opera. CARLO MARINELLI Direi che questa è un’osservazione molto acuta. Il fatto che vi sia questo tipo di confusione fa pensare che il povero bibliotecario che metteva i timbri non sia colpevole di tutto bensì che la confusione sia precedente, il che apre un’infinità di problemi difficili da risolvere. PAOLA BERNARDI Problemi che affronteremo in seguito. Possiamo andare avanti ed entrare nel vivo delle opere di quest’anno. Come abbiamo detto le opere sono tre. Cominciamo dall’opera più antica, rappresentata a Venezia nel 1754: Il filosofo di campagna di Galuppi. Galuppi è un autore a proposito del quale, se vorrete, potremmo dare informazioni su dove sia nato o sulle composizioni per clavicembalo, anche se penso che sia superfluo. C’è qualche notizia interessante? CORRADO NICOLA DE BERNART Una cosa interessante che riguarda tutti e tre i compositori è quanto viaggiassero. Rispetto a quella che è la situazione attuale del mondo musicale, è incredibile come nel Settecento ci fosse uno scambio così costante e ricco. Per esempio, Galuppi è a Firenze, poi a Venezia (si parla di stati diversi, non è la distanza chilometrica la cosa importante!), a Mantova, a Londra, poi di nuovo a Venezia, quindi a Pietroburgo alla corte di Caterina di Russia, infine ancora a Venezia. Grétry è belga. Nasce a Liegi e comincia la sua attività prevalentemente in ambiente parigino, dopo di che va a Roma con una borsa di studio (studia peraltro a San Giovanni in Laterano), quindi a Ginevra e, finalmente, di nuovo a Parigi. È l’autore che si muove di meno. Per Gluck è necessario citare solo le mete più importanti: Praga, Milano, Vienna, Londra, Dresda, Copenaghen, Napoli, dove venne chiamato nonostante la città partenopea fosse all’epoca terreno ostile ai musicisti stranieri; poi Parigi, Bologna, Firenze, Parma, Vienna, quindi ancora Parigi. Maria Antonietta di Francia, la regina che perderà la testa, era stata sua allieva a Vienna, dunque Gluck aveva legami molto stretti con le case regnanti più importanti d’Europa. In ultimo ritorna a Vienna dove morirà. Questo aspetto è interessante. Certo l’opera italiana domina l’Europa e, quindi, gli operisti circolano ovunque ma, in fin dei conti, Gluck scrive soprattutto opéra comique e Grétry, a sua volta, era di cultura francese. Di conseguenza, la questione fondamentale non è la diffusione dell’opera italiana a livello internazionale quanto piuttosto una realtà per la quale monarchi, case aristocratiche o teatri si servono dei compositori più importanti, chiamandoli anche da lontano. Il filosofo di campagna fu rappresentato in tutte le nazioni europee, le opere di Grétry furono conosciute finanche in Russia e persino a Copenaghen. 66 CARLO MARINELLI Copenaghen è stato un centro importantissimo dal punto di vista musicale, questo fin da epoche antichissime. Già nel Seicento, ma anche nel Cinquecento, tutte le compagnie musicali, per esempio, che si recavano in Russia vi arrivano da Copenaghen attraverso i paesi baltici. Se si va a Nord, nelle biblioteche di Svezia, a Stoccolma o a Upsala, si trova un tesoro inestimabile di musica settecentesca. Alcuni musicisti italiani sono arrivati sin là. Per esempio, il musicista italiano che ha lavorato di più in Svezia è Uttini. C’era un teatro svedese in svedese. Sebbene, al contrario, non credo vi fosse un teatro danese perché i danesi parlavano in tedesco, è certo che Copenaghen non fosse un centro minore. PAOLA BERNARDI Scusate se vi interrompo, ma poiché domani si esibiranno gli otto amici musicisti sarebbe bene sapere almeno che cosa eseguiranno. In primo luogo, Il filosofo di campagna, un capolavoro del teatro comico italiano. Il critico Confalonieri afferma che sul teatro italiano si è basata la struttura dell’opera mozartiana, addirittura dell’intero linguaggio di Mozart. L’opera è un capolavoro. Pensiamo a come Galuppi caratterizza i personaggi – lo sentiremo anche domani –, il padre prepotente e le civette; oppure pensiamo alle situazioni comiche che crea: il vecchio che corteggia la giovane servetta, la servetta che si sostituisce alla padrona. Il libretto, infatti, è convenzionale e presenta i soliti intrighi. Eugenia è innamorata di un certo Nardo. Il padre vuole farla sposare al Filosofo di campagna, «filosofo» perché prende la vita con filosofia nonché molto ricco. La servetta allora si sostituisce alla propria padrona e, alla fine, il Filosofo di campagna sposa lei e non più Eugenia. L’opera è veramente permeata di buon senso: è l’opera del buon senso, vince il buon senso. Il Filosofo finisce per sposare la persona che è più vicina a lui dal punto di vista sociale, ed è in fin dei conti più tranquillo quando vede che la servetta si è sostituita alla padrona. Detto questo, veniamo alle dolenti note, vale a dire la revisione di Wolf-Ferrari. Wolf-Ferrari è un musicista che tutti conoscete, il compositore dei Quattro rusteghi, morto nel 1947. Cominciamo dalla Sinfonia. Galuppi scrive la Sinfonia in tre parti, secondo una struttura ben precisa: allegro, adagio, allegro. Wolf-Ferrari taglia l’adagio e l’allegro, lasciando solo il primo allegro, per cui tutta la struttura della Sinfonia viene meno. Oltre tutto la blocca sulla dominante e, improvvisamente, deve far scivolare l’aria perché altrimenti rimarrebbe anche armonicamente per aria. I revisori spesso tagliano i recitativi, alle volte sostituiscono le arie, prendendole dalla stessa opera o da un’opera buffa se di opera buffa si tratta. Ebbene, mi sembra che Wolf-Ferrari sostituisca le arie – conoscete la differenza fra l’aria di un’opera comica e l’aria di un’opera seria: c’è una vocalità totalmente diversa – con arie prese da opere serie, inserendole in un contesto buffo. Musicalmente parlando, c’è un andamento tra serio e buffo che rende l’opera in certi momenti piuttosto scombinata. Per queste ragioni dico che il nostro è stato un lavoro difficilissimo: oltre al confronto partitura/parti si è dovuto fare anche un confronto partitura/esecuzione, che ha evidenziato come il revisore abbia operato rilevanti tagli e sostituzioni. Se si dovesse ricostruire l’originale certamente non potremmo partire da questa esecuzione, che è una vecchia esecuzione dei Virtuosi di Roma diretti da Fasano. Non mi risulta che ci siano altre registrazioni. Sentiamo quest’aria. Nell’ultimo atto del Fondo Pitti manca la parte del primo corno. Per quel che riguarda l’ultimo atto, domani sera non si potrà sentire. Viceversa, oggi ascolteremo dall’originale un’aria dell’ultimo atto che è molto interessante: Nardo scopre che la servetta ha sostituito la padrona, per cui lui sposerà la servetta, e invece di arrabbiarsi canta che non è necessario essere nobili ma che contano altri valori come la bellezza, l’onestà, la virtù. Poi canta: «Servetta graziosa sarai la mia sposa». Sentirete che sono due momenti diversi. Non 67 c’è più in Galuppi l’aria col «da capo». C’è all’interno dell’aria sempre un’articolazione che caratterizza il momento, una caratterizzazione quasi sempre di origine ritmica o agogica. In questo caso c’è un cambiamento da un ritmo binario della prima parte a un ritmo ternario della seconda parte. Nelle sue arie c’è sempre la differenziazione ritmica o agogica, senza mai ricorrere al «da capo». Per quanto riguarda le trascrizioni? PAOLO RAVAGLIA La trascrizione di Galuppi appartiene a quella categoria di spartiti del Fondo Pitti strumentale che comprende molti fascicoli. Degli originali ventisette ne abbiamo trovati solamente ventisei, perché, come è stato detto prima dalla professoressa Bernardi, manca la parte del primo corno almeno per quanto riguarda il terzo atto. In sostanza, l’intera opera, a parte qualche aria, è trascritta. Grétry e Gluck sono invece trascritti in misura molto minore. Cosa abbastanza strana, è tutto mantenuto nella tonalità originale. Cosa accadeva? Accadeva che spesso, per facilitare l’uso di strumenti come il corno, che è in fa o si bemolle, o come i clarinetti, che, avendo poche chiavi, avevano grossi problemi nell’eseguire musiche con più di una o due alterazioni in chiave, i trascrittori trasponevano la musica per cercare di adattarla a questi particolari strumenti. Nei casi considerati questo non succede e tutto viene mantenuto nella tonalità di impianto, tutto a vantaggio della fedeltà all’originale. Facendo un paragone con la partitura originale, abbiamo verificato che le arie sono nel medesimo ordine, quando invece Wolf-Ferrari stravolge completamente il pensiero compositivo di Galuppi mescolando tutto. La trascrizione appare quindi più fedele e rappresenta al momento un documento attendibile per testimoniare il processo mentale del compositore, cosa che Wolf-Ferrari stravolge completamente. Questo spartito è l’unico esistente in Italia mentre a Vienna vi è la partitura originale. È dunque importante anche per questo. Non ci sono molti tagli. Mancano due arie dal primo atto che probabilmente non si adattavano a una trascrizione strumentale. Rimane purtroppo il problema della datazione. Come è stato già detto, l’opera è stata eseguita per la prima volta nel 1754. La trascrizione, per come è scritta, per la distribuzione delle parti tra gli strumenti, non può essere di quel periodo e questo è un dato molto importante. Prendendo solamente uno strumento, ad esempio il clarinetto, esistono parti nella trascrizione per clarinetto in la, altre per clarinetto in do e altre per clarinetto in si bemolle, ma il ricorso all’uso dei tre diversi strumenti, ognuno con le sue caratteristiche timbriche e tonali, è tipico di un’epoca più tarda. Nel 1754 vi era solo il clarinetto a due chiavi ed esso arriverà fino a tutta la metà del Settecento. Lo spartito, inoltre, contiene delle note che possono essere eseguite solamente con uno strumento a cinque chiavi, che era poi quello in voga nel periodo mozartiano, comparso non prima del 1770, forse anche a partire dal 1775. Possiamo dedurne che questa trascrizione risale al 1770 circa, sicuramente non a prima, perché la notazione del clarinetto nello spartito non può essere applicata a uno strumento primitivo come il clarinetto a due chiavi. Qui abbiamo una parte molto difficile, che deve essere eseguita con clarinetti in do. La stragrande maggioranza dello spartito è per clarinetti in do. Domani sarà eseguito con un clarinetto in si bemolle ma, aumentando le alterazioni, ciò comporterà una complicazione. Ripeto, la trascrizione deve essere sicuramente più tarda, il che comunque testimonia il successo dell’opera. Per quanto riguarda la trascrizione, il suo compito fondamentale non era certamente quello di ricreare l’aspetto drammatico ma quello di sottolineare piuttosto la concezione strumentale dell’opera e di sottolinearne, quindi, l’essenza musicale. Questo voleva dire che per certi versi potevano essere eliminate delle parti. Molte volte troviamo trascrizioni in cui mancano segni di agogica e di dinamica. In questo caso, si tratta di una trascrizione 68 molto precisa, con segni molto ben distribuiti, fatta con un certo mestiere. D’altronde sappiamo che lo stesso Mozart, a suo tempo, nelle lettere al padre, diceva che trascrivere opere per complesso di Harmonie non era facile; procurava certamente grandi guadagni, era una pratica molto di moda ma era un lavoro per il quale occorreva un certo mestiere. Qui si vede che questo mestiere è stato applicato. Unica pecca, a scapito del tempo disponibile per la concertazione, sono alcuni errori di notazione che forse dipendono anche da una certa fretta nel mettere giù le parti, cosa che sembra abbastanza contraddittoria, perché le parti sono scritte in maniera molto curata, con i segni agogici e dinamici scritti con puntigliosità. Alcuni errori nella notazione ci hanno portato via del tempo, perché abbiamo dovuto ricostruire una armonizzazione più corretta e, addirittura, in un numero del secondo atto vi erano così tanti errori che abbiamo deciso di eliminarlo dalla concertazione. PAOLA BERNARDI L’opera di Galuppi è stata rappresentata a Vienna nel 1763. Siamo abbastanza avanti. PAOLO RAVAGLIA In precedenza, ho indicato il 1770 per cercare di avvicinarmi il più possibile ma il clarinetto a cinque chiavi si diffonde soprattutto dal 1780 in avanti. Considerando i primi esperimenti, ho calcolato che il 1770 potrebbe essere una data possibile. Il 1754 è tuttavia molto anticipata, sicuramente non può essere stata una trascrizione di quell’epoca. Ancora nel 1764 ci sono i clarinetti a tre chiavi. CARLO MARINELLI Non dico che debba essere stata trascritta nel 1763. Il fatto che sia stata rappresentata a Vienna nel 1763 ha prolungato la vita dell’opera e, quindi, si arriva tranquillamente agli anni Settanta. PAOLO RAVAGLIA L’opera intesa come trascrizione presenta una divisione in tre parti. Nelle schede dell’archivio troviamo ventisette fascicoli divisi per nove strumenti: due oboi, due clarinetti, due corni, due fagotti più controfagotto o serpentone o contrabbasso, più plausibile perché più intonato e con un timbro più caldo. Manca la parte del primo corno, quindi sono ventisei. Esse comprendono una sinfonia, dodici numeri d’opera per la prima parte, compreso il finale, nove numeri per la seconda, con un finale, e quattro per la parte terza, ineseguibile perché – ripeto – manca la parte del corno. Avrei voluto avere la possibilità di consultarlo tutto ma ciò non è stato possibile e spero di riuscire a ovviare a questa mancanza al più presto, dunque non posso che fare delle congetture in merito a quella piccola parte del Fondo che sono riuscito a visionare. In percentuale, comunque, si riferisce più o meno a opere date in prima esecuzione a cavallo della fine del secolo. Solo una piccola parte, venti o venticinque, si può datare prima del 1780; le altre vanno tutte dal 17801781 in avanti. L’opera di Galuppi è tra le pochissime a essere trascritte in così grande dovizia di note tra quelle che sono state eseguite attorno alla metà del secolo, perché in genere le altre si riferiscono a opere di Weber o Rossini, che ha degli organici stranissimi: troviamo ancora le trombe, e le trombe cominciano a imporsi nei complessi di Harmoniemusik dopo il 1800. Troviamo addirittura complessi con clarinetto piccolo, cosa interessantissima; abbiamo flauti, cosa strana perché di solito occorrevano commissioni particolari per mettere il flauto nei complessi di Harmonie, oltre a due oboi, due clarinetti, due corni, due fagotti, timpani, trombone, tromba, serpentone, clarinetto piccolo, flauto piccolo, tre fagotti: questo è L’Assedio di Corinto. Abbiamo la Zelmira, che ha un organico simile. In sostanza, quella da Galuppi è interessante soprattutto perché è una delle poche riferite alla metà del secolo ad avere un numero così grande di fascicoli trascritti. 69 CARLO MARINELLI C’è da porsi qualche domanda in merito alla presenza massiccia di Rossini: finché si parla di Beethoven e Weber non vi è nulla di particolare da chiedersi ma nel momento in cui compare Rossini il problema si fa abbastanza difficile. PAOLO RAVAGLIA Le trascrizioni vanno fino al 1826, almeno per quanto sono riuscito a constatare. Può darsi invece che esista una parte del Fondo non ancora trascritta nemmeno in schede. Le trascrizioni vanno dal 1754 (e quella da Paisiello è la prima) fino al 1826 (con molto materiale da Rossini). CARLO MARINELLI Spero che sia oggetto di un futuro Laboratorio, non nell’immediato, poiché prima bisogna trattare Beethoven, Weber e il quartetto d’archi. PAOLA BERNARDI Certo! Ma ascoltiamo la seconda opera. Abbiamo qualcosa di Gluck in modo particolare? PAOLO RAVAGLIA Non mi pare. Vorrei solo aggiungere che Grétry e Gluck sono trascritti in misura molto minore. PAOLA BERNARDI Ascoltiamo prima l’opera di Gluck e poi la trascrizione. Il librettista è Louis Hurtaut Dancourt. È stata rappresentata a Vienna per la prima volta nel 1764 e ha due titoli: Les pèlerins de la Mecque ou La rencontre imprévue. Vi leggo una critica che fu pubblicata sui giornali: Per quanto riguarda la musica dell’opéra comique francese La rencontre imprévue, Gluck ha sorpassato se stesso. Si può verosimilmente dire che il successo ricevuto per questo lavoro presso i conoscitori è stato straordinario e unico. L’opera ebbe grandissimo successo. Gluck non era nuovo all’opéra comique poiché ne aveva già scritte cinque o sei. Questa è la più completa ed è anche l’ultima che compose. Viene dopo l’Orfeo ed Euridice e appartiene a quel genere, come ben sapete, che inserisce la musica e la danza all’interno del parlato. L’intelligenza di Gluck sta proprio nel far entrare la musica nel parlato in punta di piedi, con estremo rispetto, e tutto con semplicità di melodia (Mozart ne canticchiava le melodie prima di andare a letto), semplicità di ritmi, semplicità di soggetti per il contrappunto. Direi che è la perfezione della semplicità: è un’opera di altissimo livello musicale ma con questa estrema semplicità che – ripeto – denota l’intelligenza e la squisita sensibilità dell’autore. Il successo fu tale che venne allestita in tutti i principali teatri ed ebbe subito una notevole diffusione. Il cantante che sostenne durante la prima il ruolo di Alì si trasferì l’anno successivo a Parigi come maestro di canto e trascrisse sei arie dell’opera che poi fece stampare; tre di queste furono alquanto rimaneggiate, perché egli vi aggiunse qualcosa di sua mano, ma Gluck, da Vienna, ne approvò la stesura finale. L’opera, tradotta poi in tedesco, arrivò nel castello degli Eszterházy; nel 1775 il libretto fu tradotto in italiano e fu musicato da Haydn. Non sappiamo se per evitare confusioni o per altre ragioni, il librettista-traduttore invertì i recitativi in arie e viceversa. Haydn ne scrisse la musica e l’opera uscì con il titolo L’incontro imprevisto. Nel 1782 poi andò in scena a Vienna Il ratto dal serraglio di Mozart e si scatenò una sgradevole querelle perché vi fu chi accusò Mozart di aver saccheggiato l’opera di Gluck, soprattutto nella sinfonia e nelle prime arie, dove in effetti v’è una certa somiglianza nella musica. Ma il 70 vecchio Gluck, per evitare l’amplificarsi dei pettegolezzi, in qualità di compositore di corte, fece replicare l’opera di Mozart. CORRADO NICOLA DE BERNART Era amico del responsabile di tutti i teatri viennesi. PAOLA BERNARDI Fece dunque replicare l’opera di Mozart e si presentò a teatro insieme a lui proprio a sua difesa: cavalleria di un certo periodo della storia! L’opera si svolge al Cairo. È noto a tutti l’amore dei francesi del Settecento per i paesi del lontano Oriente. Ci sono a testimoniarlo Le bourgeois gentilhomme di Molière, le Lettere persiane di Montesquieu, Les Indes galantes di Rameau. Vi racconto rapidamente la trama. Il principe Alì, col suo servitore, si reca al Cairo alla ricerca di sua moglie rapita. Lì incontra personaggi stranissimi: un monaco dall’aria molto ambigua, Le Calender e Vertigo (personaggio che mi è piaciuto tantissimo), pittore un po’ matto. Principe e servitore vengono invitati a una gran festa dove si presentano tre donne velate che vogliono sedurre il nobile. Queste donne sono state mandate da sua moglie, Rezia, per vedere se egli le rimarrà fedele. Il principe resiste alle profferte galanti delle tre donne e lei gli si rivela, dichiarando che anche ella non lo ha mai tradito sebbene il sultano abbia tentato di corromperla. Sembra che tutto vada per il meglio ma ecco che arriva il Sultano infuriato. Osmin, che è il servitore intelligente, suggerisce allora a tutti di camuffarsi e di far finta di essere pellegrini che vanno alla Mecca. Anche in questa circostanza sembra che tutto vada bene ma nuovamente la malasorte è in agguato: Le Calender, che vuole intascare la taglia posta su di loro, li tradisce. Circondati dalle guardie perdono ogni speranza ma la forza dell’amore tra Alì e Rezia impressiona così tanto il Sultano da convincerlo a perdonarli. E così tutto finisce bene. Un’altra cosa mi sono chiesta per quanto riguarda la trascrizione di quest’opera che ascolteremo. Questa è una trascrizione, secondo me, fatta da un musicista vero, perché tutti gli interventi di taglio, piccoli o grandi che siano, cadono proprio nel momento giusto e mai a caso. I tagli sono nelle cadenze o nelle quattro battute di inizio. Mi sono chiesta perché egli non avesse trascritto dal primo atto un’aria che era già pronta, perché già scritta per fagotto, violino e voce. Si trattava solo di sostituire due voci. Ma poi ho capito: forse, essendo veramente un musicista, si è reso conto che la delicata tessitura di quest’aria si sarebbe irrimediabilmente appesantita se trascritta per ottetto di fiati. Ecco perché penso che questo trascrittore fosse veramente dotato di grande mestiere. Passiamo agli esempi che voglio farvi ascoltare. Due sono tratti dall’atto che non possiamo farvi sentire domani. Un terzetto è scritto in italiano. La vista di un quadro che rappresenta un gruppo di suonatori dà lo spunto a Vertigo per spiegare che essi sono strumentisti italiani e che egli è molto amante della musica italiana. Il terzetto gioca sulla terminologia tipica delle musica italiana: «andante», «presto», ecc., ed è dunque molto spiritoso. Segue, invece, l’aria della battaglia, dove si sentono la cavalleria, la fanteria, il tamburo, le trombe, i timpani, le artiglierie. Gluck ha portato questa novità nelle partiture, e cioè l’imitazione totale: è un’aria onomatopeica. Questo è un particolare della musica di Gluck che dovreste ricordare anche nell’Orfeo ed Euridice. Ascoltiamo queste due arie. (esempio audio: Gluck, Les pèlerins de la Mecque, Terzetto Balkis-Osmin-Vertigo «Estce un adagio?» e Aria di Vertigo «Des combats, j’ai peint l’horreur», atto III, scena VIII) Sarà divertente valutare la finezza delle orchestrazioni che sentiremo domani, quando metteremo a confronto l’originale con l’ottetto. È un’opera splendida. Per quanto riguarda la trascrizione, Paolo? 71 PAOLO RAVAGLIA Rimane il dubbio se quello custodito a Firenze sia il manoscritto originale o il lavoro di un copista. Ci sono tuttavia somiglianze calligrafiche con Le nozze di Figaro, per cui è probabile che si tratti della stessa mano, sebbene non potrei dirlo con certezza; parliamo delle Nozze di Figaro, scritte in maniera egregia, che sono state eseguite l’anno scorso. Con Zémire et Azor ci sono differenze notevoli. PAOLA BERNARDI Colui che trascrive è senza dubbio un musicista. Come abbiamo visto lo scorso anno, Vent era sicuramente un musicista ma l’autore sconosciuto di questa trascrizione, proprio per il dosaggio equilibrato degli interventi, non è da meno. PAOLO RAVAGLIA La trascrizione dei Pellegrini alla Mecca, come quella di Zémire et Azor, appartiene alla seconda categoria di trascrizioni che si trovano nel Fondo Pitti, cioè a quelle trascritte in minima parte e rilegate in maniera diversa rispetto alle trascrizioni mastodontiche di Rossini o Galuppi cui prima accennavo. Questa categoria è caratterizzata da fascicoli arabescati in un certo modo, con decorazioni verticali, e che comprendono ciascuna tre opere. Per esempio, Gluck, se non ricordo male, è trascritto insieme a un’opera di Righini, di cui adesso non ricordo il nome, e alla Didone di Piccinni; in questo caso, come anche nel fascicolo in cui si trovava Grétry, abbiamo giustapposte trascrizioni che però si riferiscono a opere di datazione diversa. Nel caso di Grétry abbiamo Zémire et Azor, che è del 1774, trascritta nello stesso fascicolo del Flauto magico, che è del 1791. Considerando le trascrizioni da Gluck e Grétry – lo dico ancora una volta – rileviamo una notazione molto più semplice rispetto a quella da Galuppi. Per quanto attiene al clarinetto, sono trascrizioni in cui la sua importanza è secondaria perché vi è una forte predominanza delle parti per oboe. Molti dei trascrittori-esecutori erano oboisti: Vent lo era e anche Triebensee. Nell’Ottocento vi sarà Václav Sedlak che contribuì tantissimo alla continuazione della diffusione di questo genere musicale. Egli trascrisse moltissime opere di Rossini e il Fidelio di Beethoven con l’autorizzazione dello stesso autore, concessa con l’abituale modo burbero. Sedlak era clarinettista e diede perciò una parte predominante al clarinetto. In ogni caso, Gluck può essere eseguito da strumenti non così evoluti come invece è necessario per l’opera di Galuppi. Abbiamo verificato quando è stata data a Vienna? PAOLA BERNARDI A Vienna nel 1775, quattro anni dopo la prima. PAOLO RAVAGLIA Considerato il fatto che nello stesso fascicolo abbiamo Il flauto magico che è del 1791, potrebbe essere, almeno per quanto riguarda la musica che esiste a Firenze, una copia a posteriori che, però, si rifaccia a una trascrizione precedente. Ascoltiamo anche Grétry? PAOLA BERNARDI Procediamo rapidamente, anche perché a questo punto dei lavori è subentrata anche una certa stanchezza. Bisogna dire qualcosa su quest’opera di Grétry su libretto di Marmontel data a Fontainebleau nel 1771. Zémire et Azor ha un sottotitolo, La belle et la bête. L’autore non poteva certamente lasciare un titolo di questo genere per la rappresentazione a corte. Erano infatti appena finiti i festeggiamenti per il matrimonio tra Luigi e Maria Antonietta e il sottotitolo appari72 va alquanto ammiccante. Conoscete tutti la favola della Bella e la bestia, comparsa in un libro di favole di una donna, Jeane-Marie de Beaumont, edito a Parigi con Le magazine des enfants. La storia è quella di un uomo ridotto alle sembianze di una bestia da un incantesimo che viene salvato dall’amore della bella; quando lei se ne innamora egli torna a essere un bellissimo principe. Le critiche dopo la prima furono entusiastiche, soprattutto riguardo la musica. Al contrario, il libretto di Marmontel, che era accademico, editore e poeta, non piacque affatto. Diderot, che era amico di Grétry, scrisse che il testo era molto melenso. Scrisse anche che, a suo giudizio, il francese non poteva essere musicato: l’unica lingua musicabile era quella italiana. Diderot amava a tal punto la lingua italiana che estese la critica del libretto sino al punto di mettere in dubbio la stessa lingua francese. Questo a me sembra un po’ esagerato perché, come poi vedremo, la lingua francese è musicabilissima. In ogni caso, a Parigi circolò la freddura che «la belle» era la musica e «la bête» il libretto. Anche la regina Maria Antonietta, incontrando i due autori il giorno dopo la prima, si congratulò moltissimo con Grétry e ignorò totalmente il povero librettista. L’opera, comunque, ebbe successo. Burney scrisse di essere rimasto colpito, oltre che dalla bellezza delle melodie della musica, soprattutto dalla raffinatezza degli accompagnamenti. In effetti, gli accompagnamenti acquisiscono una propria dignità dialogando alla pari con il tessuto melodico principale. Di quest’opera ebbe un grandissimo successo una scena particolare, nella quale il protagonista, ancora bestia, commosso dalla sua nostalgica tristezza, chiede alla fanciulla se ella abbia voglia di rivedere la famiglia; alla sua risposta positiva egli, con un incantesimo, gliela mostra in uno specchio magico. Ma la fanciulla non si deve avvicinare! Se tentasse di farlo l’incantesimo si spezzerebbe. La fanciulla, alla vista dei genitori lontani, si precipita verso lo specchio illudendosi di poterli abbracciare e la visione scompare. La scena commosse moltissimo il pubblico anche per effetto della suggestiva scenografia, con uno specchio e una visione in lontananza. Le Mercure de France scrive a questo proposito: La musica è deliziosa e sempre vera, sentita e ragionata, rende tutti gli affetti dell’animo. Bisognerebbe ricordare tutti i brani per farvi un giusto elogio, ma non possiamo non citare il trio in sordina del padre e delle due figlie che compaiono nello specchio magico. Così Maria Antonietta, la quale dichiarò di non aver dormito la notte nel ricordare la scena del padre dietro allo specchio magico e la sua scomparsa. Quest’opera fece il giro del mondo e fu tradotta anche in italiano. Mozart la conosceva senz’altro, in primo luogo perché la sorella di sua moglie, musicista anch’ella, cantò nella parte di Zémire, e in secondo luogo perché, alla sua morte, tra i suoi libri ne hanno trovato una partitura. Fu rappresentata lungamente e rimaneggiata nell’Ottocento, andando incontro a una sorte simile a quella vista per il povero Galuppi. Vi mise le mani un revisore, il quale da quattro atti ne fece due e ne modificò sezioni ed armonie, Ora, finalmente, è stata ricostruita e ne esiste anche una registrazione piuttosto buona. Nelle sue memorie, scritte dopo essersi ritirato in un piccolo centro per motivi di salute, Grétry dice che la musica non deve produrre imitazioni ma creare atmosfere. Egli cita ad esempio due arie. La prima è quella «dello sbadiglio», sulla quale scrive spiritosamente: «Alla fine di quest’aria tutto il teatro sbadigliava. Spero non sia per la noia». Poi ne cita un’altra, che adesso ascolteremo. Volevamo farvela sentire nella versione per ottetto di fiati ma non è stato possibile. Il compositore scrive anche che gli era stato chiesto perché, quando Zémire chiama Azor in eco (è proprio un’aria in eco: lo chiama nel mezzo di un bosco e lei risponde da lontano), invece di far rispondere alla voce un’altra voce, egli facesse rispondere il suono di un corno. Gli chiesero ragione di una simile stranezza, ed egli rispose che sarebbe stata una soluzione troppo realistica, mentre egli voleva una soluzione più fantasiosa, che si avvicinasse di più alla favola. Ascoltere73 mo quest’aria adesso, visto che non possiamo ascoltarla domani; è l’aria finale, dove ella pronunzia le parole «je t’aime», rompendo l’incantesimo che rendeva orrido l’aspetto del protagonista. CARLO MARINELLI Mi viene in mente un tale che, intervenendo durante un congresso, disse: «Tutte le ragioni da lei esposte mi convincono esattamente del contrario di quello che lei ha sostenuto». Personalmente, mi sto trovando nelle stesse condizioni nei confronti di me stesso. Per quanto avete detto finora, e il fatto che Rossini sia così presente, tutto sta cominciando a far venir meno l’idea che si tratti di un Fondo interamente originario di Vienna. Potrebbe essere che l’inizio sia di origine viennese, ma con aggiunte locali. Rossini ha avuto certamente rapporti con Vienna, ma non così stretti. Questo mostrerebbe che il Fondo si sarebbe sviluppato da un nucleo inizialmente austriaco che successivamente è andato ben oltre (e questo sì che sarebbe da studiare). L’Austria si è poi estesa alla Lombardia e al Veneto. Anche questo sarebbe da studiare, perché la ricchezza della musica di trascrizioni operistiche dell’Ottocento italiano è vastissima, per tutti i complessi possibili e immaginabili, tutti gli strumenti possibili e immaginabili e tutte le combinazioni: ricordo di aver trovato un pezzo per violoncello, viola e (forse) clarinetto. PAOLO RAVAGLIA Per quanto concerne l’Ottocento, io posseggo tutto Rigoletto per due clarinetti! CARLO MARINELLI Massimo Coen possiede un’opera di Verdi (se non erro La traviata) per violino solo, tutta trascritta per violino solo! Era questa riflessione che volevo fare: su questo Fondo bisogna ancora ragionarci. PAOLO RAVAGLIA Lo avevamo premesso: se avessimo avuto accesso a tutto avremmo potuto trarre conclusioni più definitive. Purtroppo possiamo fare solo congetture. Ne abbiamo analizzato solo una piccola parte, mentre in quella biblioteca ci sono 500.000 libri, tra i quali neanche uno computerizzato e per di più catalogati con schede battute a macchina che contengono errori grammaticali e cose analoghe. Si auspica di avere in futuro accesso completo, anche perché è probabile che si trovino musiche per tutti gli strumenti. Come avevo accennato, una scheda che si riferiva a un concerto per clarinetto, corno e orchestra corrispondeva a un fascicolo che conteneva esercizi di armonia, brani per fortepiano, composizioni originali per Harmoniemusik di autori italiani dell’Ottocento e musica per archi. Tutto in una sola scheda che si riferiva a un concerto per strumenti a fiato! PAOLA BERNARDI Signori, come sempre puntualissima, vi chiedo se c’è qualche altra domanda da porre. Vi pregherei di fare un po’ di propaganda per domani, perché vale veramente la pena ascoltare questa musica. PAOLO RAVAGLIA È rieseguita per la prima volta dopo centocinquanta anni! PAOLA BERNARDI Vi chiedo inoltre di essere puntuali, perché i musicisti devono ripartire subito per Viterbo. E con questo ci lasciamo. A domani. 74 martedì 21 dicembre 1993 ore 15.30 SALA BALDINI piazza Campitelli 3 PAOLA BERNARDI Buonasera a tutti. Continuiamo oggi a illustrarvi i risultati delle nostre ricerche, auspicando di poter pubblicare al più presto i risultati del nostro lavoro in modo da lasciarne traccia. Ringraziando ancora i colleghi di Ferrara che questa sera eseguiranno per noi alcune trascrizioni, ricordiamo che quest’anno abbiamo portato la nostra attenzione su tre opere distinte, una italiana, Il filosofo di campagna di Galuppi, una di Gluck, Les pèlerins de la Mecque e, in ultimo, una del belga Grétry, Zémire et Azor. Ne ascolteremo le trascrizioni per musique d’harmonie. Ieri sera abbiamo parlato a lungo della musique d’harmonie, tipologia di formazione che ebbe vasta diffusione nella seconda metà del Settecento e contribuì non poco alla diffusione dell’opera al di fuori del contesto teatrale. Detto questo, vorrei che Paolo Ravaglia tornasse sul discorso delle trascrizioni. PAOLO RAVAGLIA Ieri abbiamo parlato ampiamente dei caratteri generali delle opere che abbiamo preso in esame e delle relative trascrizioni. Oggi vorrei parlare un po’ più approfonditamente dei problemi di concertazione. Con riferimento alla ricerca effettuata, ieri avevo accennato alle difficoltà che ho affrontato al Fondo Pitti strumentale, presso la biblioteca del Conservatorio «Cherubini» di Firenze, per poter fare le copie di queste musiche manoscritte. Ho dovuto realizzarle fotografando personalmente una per una le pagine dei fascicoli perché non era disponibile alcuna macchina professionale per microfilm. Le foto sono state scattate con luce scarsissima; successivamente abbiamo lavorato su fotocopie fatte con una macchina per microfilm su negativi fotografici normali. La qualità finale delle copie ottenute è abbastanza buona ma molto tempo è stato comunque perso. Terminata questa fase, si è potuto passare allo studio e alla concertazione dei vari brani. Come prima osservazione va detto che questa musica è difficile, ancor più difficile in quanto trascrizione da opere. Perché? Perché c’è una variazione profonda nell’usuale rapporto di relazione tra gli strumenti e perché bisogna inserire in un organico strumentale qualcosa di nuovo e di estraneo, vale a dire la trascrizione delle parti vocali. Come si è detto più volte, gli strumenti che generalmente formano un complesso di Harmonie sono otto: due oboi, due clarinetti, due corni e due fagotti; qualche volta (come in Galuppi, per esempio) era prevista la possibilità di aggiungere un controfagotto o un contrabbasso. I complessi di Harmonie potevano comunque avere organici molto più grandi. Abbiamo eseguito in altre occasioni Il barbiere di Siviglia di Rossini con l’aggiunta di due trombe. Altri organici comprendono serpentoni, timpani, flauti piccoli, clarinetti concertati. Non vi è insomma un organico fisso. L’organico della composizione forse più nota, la serenata Gran partita di Mozart, comprende addirittura quattro corni, con un risultato sonoro meraviglioso. Ma questa serenata è musica originale, strumentale, non è trascrizione, sebbene se ne ipotizzi la derivazione da un’altra composizione dello stesso Mozart. Lo stesso compositore, nelle sue lettere al padre, accennava alle notevoli difficoltà del lavoro di trascrizione, difficile poiché bisognava essere capaci di strumentare per otto voci. Era quindi un lavoro di riduzione cameristica da un modello originario con organico e pensiero orchestrale. Per una resa efficace in fase esecutiva determinante era anche la maestria degli strumentisti, i quali dovevano essere in possesso di due qualità non indifferenti: quella di ottimo solista e quella di eccellente orchestrale. Essi dovevano saper valorizzare la propria parte in ogni sua sfumatura e nel contempo giungere a una perfetta fusione, amalgamandosi efficacemente con gli altri. A questo punto, per non parlare troppo a lungo, dividerei in due parti il mio intervento. 77 PAOLA BERNARDI Conviene ora cominciare con gli ascolti. Tireremo magari in seguito le conclusioni. La prima opera di cui stasera ascolteremo alcuni brani è un lavoro di Galuppi che ebbe grandissimo successo. Il filosofo di campagna fu rappresentato a Venezia nel 1754, due anni prima della nascita di Mozart. Lo ascolteremo, purtroppo, nella revisione di Ermanno Wolf-Ferrari, il quale ha operato tagli, riduzioni, cambiamenti, rendendo difficile la ricostruzione dalla partitura originale. Ve ne renderete conto subito ascoltando la Sinfonia. La Sinfonia di Galuppi si divide in tre parti, allegro-adagio-allegro. Il revisore fa saltare l’adagio e l’allegro finale e ci presenta soltanto il primo allegro, stravolgendo totalmente la struttura del brano originale di Galuppi. CORRADO NICOLA DE BERNART L’esecuzione che ascoltiamo adesso è peraltro l’unica esistente su disco al momento attuale e ha come interpreti Anna Moffo, Elena Rizzieri, Mario Petri, Florindo Andreolli e Rolando Panerai, il Coro del «Collegium Musicum Italicum» e, infine, i «Virtuosi di Roma» di Renato Fasano. Si tratta peraltro di un’incisione che risale a molti anni fa. Ascoltiamo questa Sinfonia. (esempio audio: Galuppi, Il filosofo di campagna, Sinfonia, riduzione di Wolf-Ferrari) PAOLA BERNARDI Nella riduzione di Wolf-Ferrari la Sinfonia dura due minuti esatti. Adesso la ascolteremo nella trascrizione d’epoca per Harmonie, ben più rispettosa dell’originale. Ne rispetta l’esatta divisione in tre movimenti e opera solo alcuni brevi tagli marginali. (esecuzione dal vivo: Galuppi, Il filosofo di campagna, Sinfonia; trascrizione) (applausi) Avete sentito cosa abbia creato dalla Sinfonia l’intervento di Wolf-Ferrari. Adesso che siamo entrati nell’atmosfera reale del sentire come l’opera venisse divulgata, vorrei chiedere a Corrado De Bernart di intervenire in proposito. CORRADO NICOLA DE BERNART Qualche ulteriore notazione sul Filosofo di campagna. Innanzitutto una prima riflessione sul criterio che è stato seguito per la riproposizione di quest’opera nella riduzione di Wolf-Ferrari. Penso che il criterio adottato da un revisore possa essere accettabile o meno a seconda dei risultati. Ma non credo comunque che possa essere considerata «revisione» un intervento che operi dei tagli che influiscano così pesantemente sulla strutturazione interna di una composizione musicale. Direi che si tratti di cosa ben diversa. Si tratta di una «riscrittura»! Così come è strutturata da Galuppi, questa Sinfonia, con la ripartizione in tre brevi movimenti, è evidente che si presenta come un pezzo assolutamente autonomo, che potrebbe quindi giustificare una esecuzione per Harmonie prestandosi a essere suonata tranquillamente come brano a sé rispetto alle altre arie trascritte dall’opera. Nel repertorio settecentesco esistono composizioni strutturate esattamente così per gli organici più diversi. Nel momento, invece, in cui viene privata della seconda e della terza parte, il pezzo può diventare esclusivamente brano introduttivo d’apertura, perdendo il carattere di sinfonia in sé composita per quello di brevissima ouverture. È un tipo di intervento davvero molto dubbio, quello effettuato da Wolf-Ferrari, sul quale sarebbe interessante saperne di più per capirne le eventuali motivazioni. Un’altra osservazione mi riporta a un tema che abbiamo trattato negli anni passati, attinente alla storia del costume sociale dell’Europa settecentesca come ricavato attra78 verso i libretti d’opera. La trama del Filosofo di campagna è, come abbiamo detto ieri, piuttosto consueta, con figure tipiche come quella del saggio personaggio di una certa età, che sa prendere la vita con filosofia, appartenente alla bonaria buona società delle campagne, in una posizione preminente per denaro più che per casta; alla fine egli impalmerà la sua giovane serva che, pur non essendo la nobildonna di classe che egli aveva inizialmente sperato di avere accanto nella vita, ha infiniti pregi come donna e compagna. È interessante soffermarsi su questo finale d’opera perché vi ritorna un tema che abbiamo trattato negli anni passati, cioè il tema della ricca borghesia che attraverso il matrimonio con appartenenti all’aristocrazia tentava l’ascesa sociale. Per il nostro Filosofo le cose vanno male e alla fine dovrà accontentarsi della servetta; la morale sarà che, tutto sommato, ognuno deve rimanere al suo posto e nel suo ambiente sociale. Chi non è nato nobile è meglio che si adatti a una moglie non aristocratica. La cosa divertente è vedere come i libretti d’opera, col passare degli anni e con l’avvicinarsi del 1789, tendano a recepire l’uso sempre più diffuso a livello sociale di matrimoni misti che scavalchino le differenze di classe. Il nostro Filosofo di campagna deve invece accettare con rassegnazione il fatto di aver mancato l’occasione di fare un salto di classe sociale. Altrettanto interessante è cercare di capire come mai un’opera che ha avuto circa ottanta riprese nel corso dei tre o quattro decenni successivi alla sua composizione sia potuta poi di fatto scomparire dalle scene. L’operazione di recupero da parte di Wolf-Ferrari, pur con i limiti stigmatizzati, appare allora opera encomiabile. Sarebbe interessante capire come mai ogni tanto scompaiano dal repertorio teatrale molti capolavori e se questo sia dovuto soltanto al passare delle mode o ad altre motivazioni. PAOLA BERNARDI Andiamo avanti. Dopo la Sinfonia passiamo all’ascolto di alcune arie, sebbene sarebbe stato interessante ascoltarle tutte. L’opera infatti è quasi tutta trascritta. La prima che incontriamo è l’aria a due (Lesbina ed Eugenia) «Candidetto gelsomino», sul consueto tema della gioventù che passa troppo presto, con la morale che comunque è importante essere giovani se si vuole essere apprezzati. Ieri notammo che quest’opera è pervasa di buon senso. Questo buon senso appare sin dall’inizio proprio in quest’aria. (esempio audio: Galuppi, Il filosofo di campagna, Aria a due Lesbina-Eugenia «Candidetto gelsomino», atto I, scena I) Mi pare che l’aria sia trascritta interamente, senza tagli né interventi. (esecuzione dal vivo: Galuppi, Il filosofo di campagna, Aria a due Lesbina-Eugenia «Candidetto gelsomino», atto I, scena I; trascrizione Wolf-Ferrari) Andando avanti, ascoltiamo una delle canzonette che Lesbina intona. Come abbiamo già detto ieri sera, in quest’opera i caratteri dei personaggi sono delineati magnificamente. Non dimentichiamo che il libretto è stato scritto da Goldoni. Charles Burney scrive che Galuppi sarebbe stato addirittura in grado di migliorare il testo e le situazioni creati da Carlo Goldoni. Adesso ascolteremo una canzonetta sull’insalata che Lesbina intona in modo civettuolo (le precedenti sono sulla cicoria e sul ravanello). È interessante sentire come il trascrittore risolva il problema del pizzicato, perché in partitura vi è appunto l’indicazione «archi: pizzicato». Ascoltiamo dunque l’«aria dell’insalata», cioè l’aria di Lesbina «Non raccoglie – le mie foglie». 79 CORRADO NICOLA DE BERNART Sembra che sia una parodia di quelle situazioni bucoliche che avevano caratterizzato l’opera del periodo immediatamente precedente. Certo l’intermezzo comico aveva anche una trivialità popolaresca. La visione bucolica aveva avuto ovviamente una raffinatezza del tutto differente. Sembra che sia un calcare la mano su una vena comica. D’altra parte Galuppi e i suoi librettisti ebbero sicuramente la capacità di riuscire a sostenere e a valorizzare estremamente proprio il lato comico, divertente e umoristico e del libretto e della musica. (esempio audio: Galuppi, Il filosofo di campagna, Aria di Lesbina «Non raccoglie – le mie foglie», atto I, scena II) PAOLA BERNARDI Anche questa è trascritta interamente. (esecuzione dal vivo: Galuppi, Il filosofo di campagna, Aria di Lesbina «Non raccoglie – le mie foglie», atto I, scena II; trascrizione Wolf-Ferrari) Ascoltiamo un’altra aria. In essa il padre non vuole che la figlia sposi l’uomo di cui è innamorata e la figlia si chiede il perché. Il padre, tuttavia, ritiene di non doverle dare alcuna spiegazione. Una notazione di carattere musicale. Wolf-Ferrari fa entrare subito il cantante tagliando le prime quattro battute, il che è un grosso errore, visto che tutte le arie di movimento usualmente vengono introdotte da poche battute di soli strumenti. Per quale motivo egli decida di tagliare queste quattro battute ce lo chiediamo tuttora, quando ci sono addirittura trattati che spiegano che l’aria di movimento è preceduta da una piccola introduzione; tant’è vero che se il cembalista deve accompagnare un cantante, se l’aria è di movimento la prepara con alcune battute. Le battute sull’originale ci sono ma Wolf-Ferrari sente il bisogno di tagliarle. (esempio audio: Galuppi, Il filosofo di campagna, Aria di Don Tritemio «La mia ragione è questa», atto I, scena III) (esecuzione dal vivo: Galuppi, Il filosofo di campagna, Aria di Don Tritemio «La mia ragione è questa», atto I, scena III; trascrizione Wolf-Ferrari) Una osservazione strettamente musicale. Non so se abbiate sentito che a un certo punto c’è un lungo trillo. Ebbene, in partitura non è segnato ma è prassi eseguirlo quando vi è una nota lunga o ribattuta. L’autore della trascrizione conosceva bene il proprio mestiere e anche la prassi in voga. Passiamo al finale, che Wolf-Ferrari passa al secondo atto ma che in realtà è il finale del primo. Galuppi è uno tra i primi compositori a realizzare nei finali un incontro tra tutte le voci, risolvendovi il dramma e utilizzando repentini cambiamenti di tempo. Vi leggo le sue indicazioni di andamento e ritmo: tre quarti, due quarti, quattro quarti, poi nuovamente due quarti, quattro quarti e infine allegro. Tutto questo movimento interno di agogica e di ritmica rende estremamente interessante il brano. (esempio audio: Galuppi, Il filosofo di campagna, Finale atto I) (esempio audio: Galuppi, Il filosofo di campagna, Finale atto I; trascrizione Wolf-Ferrari) PAOLO RAVAGLIA Volevo spezzare una lancia in favore degli esecutori di allora ma anche di oggi. Noi abbiamo avuto problemi di organizzazione delle parti; queste musiche erano raccolte in fa80 scicoli e vi erano diverse pagine senza pause che potessero favorire gli esecutori nel voltarle. Mi chiedo come allora potessero eseguire queste musiche senza fermate. Noi siamo ricorsi a delle fotocopie e abbiamo avuto la necessità di usare anche dei leggii particolari con un ampio piano rigido che ci permettesse di potervi aprire più pagine contemporaneamente. Sappiamo che gli esecutori di allora erano spesso musicisti dilettanti ma di più alto livello rispetto a ciò che noi si pensi. Le esecuzioni erano di un ottimo livello. Questo lo testimoniano anche le cronache del tempo. Il genere era molto di moda e molto seguito; i gruppi di Harmonie, i cui esecutori erano molte volte componenti di famosissime orchestre, provenienti da ottime scuole di strumenti a fiato quali quella boema, sicuramente non avevano problemi tecnici. Certo avranno avuto un bel da fare nel voltare le pagine. PAOLA BERNARDI Per quel che ne sappiamo, considerando che i gruppi di otto fiati giravano nei cortili, nelle strade, nelle piazze, dobbiamo ritenere che suonassero a memoria. PAOLO RAVAGLIA Io ho pensato che l’archivio che ho consultato fosse stato realizzato esclusivamente allo scopo di conservare il materiale musicale. Questo particolare spartito, che crea problemi per la voltata delle pagine durante l’esecuzione, sarebbe stato fatto per pura conservazione del materiale. Forse è opera di un copista che, assolutamente incurante delle necessità ineluttabili di avere battute di pausa per voltare le pagine, ha realizzato questa copia per archivio allo scopo di conservare il brano. Abbiamo dovuto fare molte più cesure, molti più tagli per riuscire a riordinare le pagine in maniera da poterle eseguire senza problemi. PAOLA BERNARDI È evidente che erano parti che non erano usate. In qualsiasi partitura dell’epoca il materiale è organizzato anche ai fini delle girate di pagina; tante volte c’è addirittura scritto «volta subito» per non perdere tempo. In questo senso erano abbastanza vigili e precisi ed è chiaro che nel nostro caso le parti non siano state scritte per essere realmente adoperate. PAOLO RAVAGLIA Probabilmente non erano adoperate ma certo questo Finale ci ha creato diversi problemi. Io ho avuto modo, a suo tempo, di sfogliare tutta la partitura del Filosofo di campagna, e in molti fascicoli mi sono imbattuto nello stesso problema; da qui il sospetto che si potesse trattare di una copia d’archivio, una copia per conservazione della musica stessa. PAOLA BERNARDI Grazie tante per la bellissima esecuzione di Galuppi che ci avete offerto. Passiamo a Gluck e Grétry. Fortunatamente Wolf-Ferrari non c’è più ma vi anticipo che nella trascrizione che andiamo ad analizzare vengono apportati molti tagli, il che è però più normale perché i tagli in una trascrizione sono del tutto usuali. Noteremo che essi sono opera di un vero musicista, realizzati non a sproposito ma con estrema attenzione, come avevamo già notato ieri sera. Il trascrittore non tocca la struttura ma si limita a sopprimere alcune battute di peso secondario. L’opera di Gluck risale a quando Mozart aveva otto anni, dunque è del 1764. Ebbe grandissimo successo a Vienna e fu presentata in ogni nazione. Ci sono dei personaggi molto interessanti. Il primo è un monaco che è a capo di una setta, un tipo piuttosto ambiguo; si chiama Le Calender e in una delle sue arie canta che la credenza degli uomini riguardo alla sofferente vita dei monaci per le privazioni è proprio sbagliata, in quanto lui 81 sta benissimo, mangia fino a scoppiare e beve altrettanto. Possiamo cominciare dal numero 5. Vorrei però ribadire che, sebbene ci siano dei tagli, essi non danno alcun fastidio. Delle cinquantacinque battute originali ne vengono tagliate dodici. La melodia è quella di un canto popolare semplicissimo, che Mozart stesso poi riprese per le Variazioni K 455 per pianoforte. Come ho detto ieri, la partitura di Gluck è di una semplicità enorme: semplice nella melodia, semplice nel ritmo, semplice nella polifonia ma, dicevo, è la perfezione della semplicità, perché con la semplicità riesce a raggiungere tutto ciò che vuole. CORRADO NICOLA DE BERNART La registrazione è dell’Orchestra dell’Opera di Lione e il direttore è John Eliot Gardiner. (esempio audio: Gluck, Les pèlerins de la Mecque, Aria di Le Calender «Les hommes pieusement pour Caton nous tiennent», atto I, scena II) (esecuzione dal vivo: Gluck, Les pèlerins de la Mecque, Aria di Le Calender «Les hommes pieusement pour Caton nous tiennent», atto I, scena II; trascrizione) PAOLA BERNARDI Nell’aria che segue sempre Le Calender insegna al servo a suonare i campanelli quando chiede l’elemosina. Anche qui c’è un semplice taglio che non dà alcun fastidio. Richiamo la vostra attenzione sull’orchestrazione che, come sentirete, è molto leggera. La musica di Gluck entra in punta di piedi nella commedia, e ve ne renderete conto anche da quest’aria. (esempio audio: Gluck, Les pèlerins de la Mecque, Aria di Le Calender «Il fait entendre sa sonnette», atto I, scena IV) (esecuzione dal vivo: Gluck, Les pèlerins de la Mecque, Aria di Le Calender «Il fait entendre sa sonnette», atto I, scena IV; trascrizione) Le due arie che seguono non hanno, dal punto di vista delle battute, nessuna differenza con l’originale: quarantasei battute da una parte e quarantasei battute dall’altra, cinquanta e cinquanta, sono proprio trascritte interamente. La prima è in stile francese. Gluck scrive un po’ in stile francese e un po’ in stile italiano ma direi che questa parte è proprio in stile francese; lo notiamo dal fatto che è una danza, tipo minuetto, con una marcata accentuazione sul primo movimento. Ha inoltre degli abbellimenti molto stretti, nello stile francese, acciaccature, appoggiature soprattutto inferiori. L’orchestrazione è molto leggera anche in questo caso. Vogliamo sentirla? (esempio audio: Gluck, Les pèlerins de la Mecque, Aria di Dardané «A ma maîtresse j’ai promis, Seigneur», atto II, scena II) (esecuzione dal vivo: Gluck, Les pèlerins de la Mecque, Aria di Dardané «A ma maîtresse j’ai promis, Seigneur», atto II, scena II; trascrizione) L’ultima aria di Gluck inneggia al vino: Maometto è il nostro grande Signore ma non ha capito quanto è importante poter bere il vino, perché bevendo il vino si è felici, si raggiunge uno stato di ebbrezza, ecc. Anche qui non c’è nessun taglio, cinquanta battute nell’originale e cinquanta battute nella trascrizione. Prego. (esempio audio: Gluck, Les pèlerins de la Mecque, Aria del Capo della carovana «Mahomet, notre grand prophète», atto III, scena II) (esecuzione dal vivo: Gluck, Les pèlerins de la Mecque, Aria del Capo della carovana «Mahomet, notre grand prophète», atto III, scena II; trascrizione) 82 Grazie. Questa è una splendida opera; non si capisce perché non venga mai rappresentata in nessun teatro. Per quel che sappiamo, almeno per quanto riguarda l’Italia, stiamo ascoltando questa musica dopo ben duecento anni di silenzio. Nessun teatro d’opera ha mai rappresentato in anni recenti questo capolavoro la cui musica è splendida e semplice. Le melodie sono estremamente lineari, i ritmi sono semplici e accattivanti. Certo ci sarà una difficoltà nell’esecuzione per il canto ma il canto del periodo ottocentesco è, per altre ragioni, altrettanto difficile. Proprio non si riesce a capire perché quest’opera sia caduta nell’oblio più totale. Sentiamo cosa Paolo Ravaglia ha da dirci su questa trascrizione. PAOLO RAVAGLIA Vorrei ribadire alcune considerazioni già fatte ieri. Le tre trascrizioni possono essere ricondotte a due tipologie. Quella dell’opera di Galuppi fa parte di una serie di trascrizioni molto ampie, che riguardano quasi l’intera opera con la sola assenza di pochissime arie, composte da diversi fascicoli. Per quanto riguarda le trascrizioni dei lavori di Gluck e Grétry, esse appartengono a una seconda categoria: vengono trascritte in misura molto minore per il numero delle arie trascritte, peraltro posizionate differentemente rispetto all’originale. Nella trascrizione, ad esempio, avevamo la prima aria originale che corrispondeva al numero quattro, poi un’altra passava al due, e così via. Tutto appariva sfalsato. Abbiamo inoltre due tipologie di trascrizioni a seconda dell’operosità e del gusto del trascrittore stesso. Quella dell’opera di Galuppi rispecchia fedelmente il flusso del pensiero compositivo dell’autore perché vengono rispettate le tonalità e i particolari. Nell’altro tipo i mutamenti sono maggiori, a cominciare dalle tonalità che cambiano in considerazione dell’utilizzazione di particolari strumenti quali il clarinetto e il corno. In altre parole, il clarinetto di allora, che era uno strumento a quattro o a cinque chiavi, non poteva eseguire l’aria composta nella tonalità originale perché le alterazioni sarebbero state eccessive. Anche i corni, che allora erano corni naturali, senza pistoni o con pochissimi pistoni, potevano suonare solo in tonalità ben specifiche. Molto spesso le trascrizioni venivano fatte adattando la tonalità delle arie originali alle varie esigenze del gruppo. Non soltanto c’erano delle differenze connesse all’uso degli strumenti ma c’erano anche diversità nella trascrizione delle parti. Abbiamo visto delle arie che sono tagliate in misura anche notevole, e altre che invece rispettano fedelmente il numero delle battute. Questo sarà molto più evidente in Grétry che in Gluck. PAOLA BERNARDI Ripeto che in Gluck i tagli sono stati di sicuro apportati da un musicista di livello perché, non toccando la struttura e riguardando magari ripetizioni, si possono tranquillamente operare. Al contrario, direi che in Grétry il trascrittore sia meno accorto. PAOLO RAVAGLIA Qualcosa possiamo aggiungere rispetto alla «densità», se così si può dire, di presenza nella trascrizione di uno strumento rispetto agli altri. Molti dei più importanti trascrittori erano oboisti, e l’oboe era lo strumento principale dell’intero gruppo. Se il trascrittore era oboista (e abbiamo visto l’anno scorso il caso di Vent, che trascrive Le nozze di Figaro), la stragrande maggioranza dei soli, delle parti solistiche in rilievo, erano assegnate all’oboe; ad altri strumenti, seppure importanti come il primo clarinetto, venivano assegnate parti di minore rilevanza. Ma per quanto riguarda lo specifico materiale del Fondo Pitti strumentale, appare certo anche dalla diversità di soluzioni e criteri adottati nelle trascrizioni che diverse mani hanno operato. Un’ultima considerazione. In Galuppi, invece, è il clarinetto ad avere un ruolo fondamentale. Molte volte, addirittura, raddoppia all’unisono l’oboe, cosa che comunque risul83 ta singolare. Il problema dell’unisono non è da sottovalutare. Le parti solistiche potevano alternativamente passare all’oboe o al clarinetto ma di solito gli unisoni venivano evitati perché comportavano problemi di accostamento timbrico e di intonazione, visto che gli strumenti dell’epoca erano molto più primitivi rispetto a quelli moderni. PAOLA BERNARDI Grazie. Passiamo all’ultima opera che abbiamo preso in esame. È un’opera di un autore francese, Grétry. Zémire et Azor è la storia della bella e della bestia che tutti conosciamo. Un individuo brutto, orribile, ripugnante e spaventoso alla fine si trasforma e diventa bello grazie all’amore di una bellissima fanciulla. Per quanto riguarda Zémire et Azor, come diceva Paolo Ravaglia, notiamo quanto vari possano essere gli interventi dei trascrittori. In Galuppi, per dire la verità, quasi non si avverte la mano del trascrittore, mentre in Gluck l’intervento è più avvertibile sebbene sia di ottima fattura. Dobbiamo dire che in Grétry il trascrittore è intervenuto in vari punti in modo meno razionale e più grossolano. Ascoltiamo alcune arie. La prima è una piccola aria sulla rosa, intitolata «Rose chérie, aimable fleur». La bravura di Grétry nella scrittura delle parti d’accompagnamento è sempre stata riconosciuta. Come dicevo ieri, esse non sono più soltanto sostegno armonico o raddoppio della voce ma cominciano a divenire autonome. Nella trascrizione che ascolteremo oggi, invece, la parte d’accompagnamento, così interessante e particolare nell’originale, perde molto perché invece di muovere la parte come indicato da Grétry il trascrittore la ferma in valori più lunghi. In definitiva, la semplificazione rispetto all’originale è notevole. Vogliamo sentire questa piccola arietta? CORRADO NICOLA DE BERNART La registrazione è dell’Opera Reale di Vallonia e il direttore è Alan Curtis. (esempio audio: Grétry, Zémire et Azor, Aria di Zémire «Rose chérie, aimable fleur», atto II, scena II) (esecuzione dal vivo: Grétry, Zémire et Azor, Aria di Zémire «Rose chérie, aimable fleur», atto II, scena II; trascrizione) PAOLA BERNARDI Ancora grazie. L’autore ama molto il suono del corno. Come abbiamo visto ieri, nell’ultima aria «Azor, Azor», Grétry fa rispondere alla voce femminile non già un’altra voce femminile in eco ma il corno. Egli sosteneva che questo strumento lo portava nel mondo fantastico della fiaba. Anche nella trascrizione alla voce umana risponde il timbro del corno. L’aria che ascolteremo adesso ebbe un successo enorme, tanto che all’epoca tutti ne parlavano. Il giorno successivo alla prima rappresentazione, i giornali scrissero che di tutte le arie si doveva parlare, perché erano tutte splendide, ma una in particolare, quella che ascolterete adesso, era assolutamente fantastica. La regina Maria Antonietta, dopo la prima eseguita per lei a Fontainebleau, incontrando il compositore e i cantanti disse che non le era stato possibile dormire per tutta la notte al ricordo struggente di questa aria in trio. Azor permette a Zémire di vedere la sua famiglia attraverso uno specchio; si odono le voci e gli strumenti in lontananza al di là dello specchio. Tuttavia le ha raccomandato di non tentare di avvicinarsi; quando infatti Zémire si lancia istintivamente verso lo specchio per abbracciare il padre e le sorelle l’incantesimo si rompe e la visione scompare. La bellezza di questa scena commovente fu esaltata dai giornali e in ogni recensione dell’epoca si scrisse di quest’aria a tre. Molto deve aver giovato la trovata scenografica dello specchio. 84 Possiamo ascoltare questa aria famosissima. (esempio audio: Grétry, Zémire et Azor, Terzetto Fatmé-Lisbé-Sander «Comme mon père est triste et comme sa douleur», atto III, scena VI) Nell’esecuzione che abbiamo ascoltato mancano alcune battute all’inizio che sono state tagliate nell’introduzione. (esecuzione dal vivo: Grétry, Zémire et Azor, Terzetto Fatmé-Lisbé-Sander «Comme mon père est triste et comme sa douleur», atto III, scena VI; trascrizione) Per concludere, ascoltiamo un’aria che a Grétry stava molto a cuore e che ritroviamo anche come base per un duetto alla fine del secondo atto. Prego. (esempio audio: Grétry, Zémire et Azor, Aria) (esecuzione dal vivo: Grétry, Zémire et Azor, Aria; trascrizione) (applausi) Grazie, davvero grazie. Dovrei chiedervi un favore. Guardando le parti che provengono dal Fondo Pitti abbiamo trovato anche la famosa aria di Gluck «Che farò senza Euridice». Potete farcela ascoltare? Purtroppo adesso non possiamo compararla con l’originale: se avessimo dovuto parlare anche dell’Orfeo le cose sarebbero andate veramente per le lunghe. So che voi l’avete letta. È davvero interessante sentire la trascrizione di quest’aria che tutti conosciamo. (esecuzione dal vivo: Gluck, Orfeo ed Euridice, Aria di Orfeo «Che farò senza Euridice», atto III, scena I; trascrizione) (applausi) Interessantissima questa trascrizione, in cui vi è qualche breve taglio, ma il motivo «Che farò senza Euridice» tre volte è in originale e tre volte è qui. Evidentemente era questo il punto saliente che si voleva ascoltare, quindi i tagli si apportano ovunque ma non in questi punti. Vorrei che si tirassero le conclusioni di questi giorni. Da parte nostra vi è la soddisfazione di essere andati avanti tranquilli nel nostro lavoro di ricerca ed esserci arricchiti di tante splendide musiche. CORRADO NICOLA DE BERNART Una brevissima conclusione che prende l’avvio da quello che è stato il tema di partenza della nostra ricerca: ormai sei anni fa avevamo proposto l’ipotesi che il filone della trascrizione dal teatro d’opera sostanzialmente si proponesse, con i mezzi e con le forze culturali disponibili nelle varie epoche, come fenomeno similare a quello che oggi noi vediamo realizzato dai mezzi di comunicazione di massa. Alla luce dei nostri studi è possibile ritenere che le trascrizioni d’opera settecentesche o addirittura seicentesche possano essere poste in rapporto diretto come mezzi di diffusione con i mezzi più moderni, quali riproduzione discografica, riproduzione audiovisiva, ecc. Si è cercato di riportare alla luce – e questa è stata la cosa indubbiamente più interessante – un’enorme quantità di materiale completamente dimenticato in varie biblioteche e istituti oppure fonti che comunque non erano state lette alla luce di questo specifico campo di ricerca. Le conclusioni che possiamo trarre sono che senza alcun dubbio esistette un sistema di «comunicazione di massa» anche in epoca barocca legato al fenomeno delle trascrizioni. Fu certo un fenomeno molto variegato e sfaccettato che, se pur prese l’avvio da trascrizioni estrema85 mente colte, come quelle di D’Anglebert da opere di Lulli, riservate a un pubblico di raffinati ascoltatori e pensate per esecutori provetti, approdò in breve a tipologie adatte al pubblico più vasto. Già al passaggio successivo, all’epoca di Haendel per intenderci, ci siamo invece trovati di fronte a una situazione molto diversa: il mondo dell’imprenditoria editoriale, sfruttando l’interesse che l’opera accentrava su di sé come forma di spettacolo più popolare dell’epoca, riuscì a dare proporzioni enormi al fenomeno, creando una incredibile ascesa di domanda e offerta di materiale musicale tratto dall’opera. Le trascrizioni che troviamo nel periodo haendeliano cominciano ad assumere ben differenti caratteristiche incamminandosi lungo due binari distinti. Da un lato, il binario di trascrizioni estremamente colte e professionistiche. Si pensi, per esempio, alle trascrizioni di William Babell; il materiale originale haendeliano diventa base di lavori in cui l’intervento del trascrittore, soprattutto in senso virtuosistico e tecnico, diviene estremamente marcato. Si incomincia a delineare quello che sarà poi il filone della grande trascrizione virtuosistica del materiale d’opera che si avrà nel periodo romantico: le varie parafrasi per pianoforte che autori come Liszt realizzeranno sulle musiche di tutte le principali opere ottocentesche. Dall’altro lato c’è il binario delle trascrizioni di tipo semplificato che si rivolgevano a un pubblico di fruitori e di esecutori molto vasto ma meno qualificato. Abbiamo addirittura trovato l’utilizzazione della trascrizione da opere nell’ambito della didattica, nella riduzione per flauto solo, per violino solo, per voce e basso continuo, sempre alla portata delle voci più modeste, degli esecutori più modesti, spesso trascritta dai trascrittori più modesti. Il padre di William Babell, Charles, era trascrittore modestissimo e i suoi lavori per clavicembalo erano scritti per persone che con la tastiera non avessero grande pratica. Ma le grandi trascrizioni per musique d’harmonie hanno un aspetto ancora nuovo e differente: si tratta di una produzione che non si rivolge a un generico pubblico di fruitori-esecutori ma nasce per gruppi di musicisti professionisti o comunque professionali. Spesso erano gli strumentisti stessi a comporre la trascrizione, mentre nel periodo precedente il materiale musicale veniva proposto dall’esterno all’attenzione di un pubblico che, acquistando lo spartito, potesse diventarne l’esecutore. Abbiamo visto che la musique d’harmonie fu eseguita da gruppi di grandi strumentisti, quali Vent, Triebensee ed altri, ensemble di prim’ordine costituiti nell’ambito delle corti più famose; e abbiamo visto che la stessa musica risuonava in ambiti ben più popolari, come quello dei musicisti municipali, professionisti ma non certo grandi esecutori. Anche i trascrittori erano figure molto diverse. E infatti abbiamo trovato molte mani nelle trascrizioni del Fondo Pitti strumentale, come prima diceva Paolo Ravaglia. Abbiamo trovato quelle di trascrittori estremamente capaci financo di delineare i più sfumati contorni emotivi e musicali: l’anno passato abbiamo visto addirittura la capacità del trascrittore di intervenire a vivificare in maniera molto raffinata un tessuto musicale originario più opaco. E abbiamo trovato la mano di musicisti molto meno abili, addirittura impacciati: sempre lo scorso anno mettemmo a confronto tre diverse trascrizioni per ottetto di fiati dello stesso brano di Mozart e palesemente apparve chiara la diversa levatura degli autori. La conclusione è che l’opera passa al pubblico attraverso degli strumentisti professionisti, e questo caratterizza in maniera nettamente diversa la musique d’harmonie rispetto alle trascrizioni per altri organici e altri strumenti di cui precedentemente ci siamo occupati. Il Fondo Pitti strumentale si sta rivelando una incredibile riserva di interessantissimo materiale per gli organici e le formazioni più disparate. Le conclusioni ipotetiche che abbiamo cercato di trarre hanno riguardato in particolare cosa sia questo Fondo, su come si trovi in Italia e su quale possa essere stato il suo criterio di formazione. Senza ripetere quello che è stato detto ieri, avevamo ipotizzato che il Fondo Pitti potesse essere la raccolta originale o una copia di quella che era la raccolta di spartiti musicali della corte asburgica. Nella seconda parte del Settecento, il granducato di Toscana, affidato alla casa dei Lorena, è di fatto una provincia austriaca. Il materiale musicale che si trova a Firenze, 86 catalogato come Fondo Pitti, potrebbe essere il materiale della corte austriaca o, comunque, una copia di tutto quell’archivio musicale. Un’altra ragione mi porta a ritenere che questa potrebbe essere un’ipotesi che per lo meno varrebbe la pena di studiare. Ed è un fatto collegato all’editoria e alla pubblicazione di tutto questo materiale. Perché un’opera teatrale potesse essere trascritta è evidente che, a meno che non si ipotizzino delle capacità mnemoniche prodigiose da parte di chi la avesse ascoltata una volta, era necessario che il trascrittore ne possedesse una copia. Il problema delle copie si pone in due modi: o l’opera veniva manoscritta e copiata molto pazientemente in vari fascicoli che poi trovavano modo di circolare oppure l’opera veniva data alle stampe. In un caso e nell’altro dobbiamo però tener presente che, per quanto riguarda l’editoria nel secondo Settecento, di fatto non poteva essere al passo con le prime teatrali. Nonostante l’incredibile fiorire del mercato e la crescita dell’attività in centri come Londra, Parigi, Vienna, ecc. non è credibile che in contemporanea alla prima rappresentazione già circolassero edizioni a stampa di ogni opera. In una città come Vienna, dove ogni anno venivano rappresentate dieci-quindici nuove opere, nei teatri, a corte, nelle ricche case aristocratiche, come poteva aversi una tiratura di materiale a stampa che stesse al passo con le novità? E che dire di tutte quelle che non ebbero mai pubblicazione? Qualche volta ci siamo imbattuti solo in alcune arie o alcuni brani pubblicati spesso ad opera di cantanti o di strumentisti quasi in proprio. Comunque certo non esistono delle edizioni integrali di tutto il materiale operistico. Allora dovremmo ipotizzare per la maggior parte di questi lavori che il tramite fra il lavoro teatrale vero e proprio e il trascrittore siano state delle copie manoscritte che fossero in qualche modo circolate. Questo sappiamo che è sicuramente verosimile. Ma tutte le copie di tutto questo materiale operistico non possono essere finite nelle mani di un qualsiasi privato, perché l’attività di copiatura era ovviamente molto costosa, molto faticosa e molto complessa. Le copie che venivano approntate avevano dei destinatari molto precisi: o persone dell’ambiente teatrale, quali impresari, cantanti, orchestrali, oppure coloro che erano poi i veri padroni del teatro, coloro che ne sovvenzionavano l’attività, quindi le grandi famiglie aristocratiche e le grandi famiglie regnanti. Allora forse da questo può discendere una ulteriore conferma del fatto che il destinatario del paziente lavoro di trascrizione dei trecento e più titoli di opere conservati presso il Fondo Pitti fosse effettivamente la corte austriaca. Questo lavoro di trascrizione di opere poteva esistere solo presupponendo la possibilità di avere materialmente a disposizione copia stampata o manoscritta di oltre 300 partiture d’opera complete, alcune delle quali peraltro scarsamente eseguite. Mi sembra che ciò possa portare solamente a una conclusione: l’esistenza di un importantissimo committente, personalità di estremo rilievo e di altissima levatura, con mezzi finanziari tali da rendere possibile la realizzazione e la raccolta di un archivio così enorme. La vastità quantitativa del Fondo esclude l’ipotesi che esso potesse essere l’archivio di un gruppo di musique d’harmonie privato o di un gruppo di strumentisti al servizio di un ordinario facoltoso committente. Le condizioni generali dell’archivio appaiono ulteriore conferma di quanto ipotizzato: i volumi, come ieri diceva Paolo Ravaglia, sono estremamente curati nella realizzazione, nell’impaginazione e nella suddivisione in fascicoli, e questo presuppone un criterio sistematico e accurato di raccolta e di conservazione. Ma come venivano eseguite queste trascrizioni? In fin dei conti il lavoro di realizzazione di tutto questo materiale è stato fatto per le esecuzioni e non per il puro teorico gusto di comporre trascrizioni per ottetto di fiati. Il criterio esecutivo non era quello che noi abbiamo proposto questa sera, giustapponendo varie arie tratte dalla stessa opera e trascritte dallo stesso autore. Molto più probabilmente dovremmo dire che il criterio di scelta esecutiva era casuale; si trattava cioè di comporre un programma da eseguire in funzione di intrattenimento, che contenesse quelle che al momento erano le arie più alla moda, le arie più riconoscibili e gradite, le arie più presenti nell’orecchio di tutti coloro che 87 ascoltavano. Un riscontro attendibile di questa probabile modalità esecutiva lo troviamo proprio nella scena della cena del Don Giovanni di Mozart: l’accostamento delle varie opere citate è assolutamente casuale. Si cambia autore e si citano i passi più noti. Le costanti riprese di opere nel corso degli anni evitavano che esse (e le loro trascrizioni) cadessero del tutto nell’oblio. Il riallestimento delle opere che più avevano incontrato il favore del pubblico faceva sempre molto bene alle casse dei teatri, in un periodo in cui le difficoltà finanziarie portavano allo sfacelo le compagnie più famose. Ne abbiamo una prova col Filosofo di campagna e ne abbiamo una prova con le opere di Gluck. E con questo chiudo il mio intervento. (applausi) 88 RICERCA SUI MODI DI DIFFUSIONE DELL’OPERA E DEL BALLETTO AL DI FUORI DEL CONTESTO TEATRALE SETTIMO LABORATORIO APERTO di Paola Bernardi con la collaborazione di Corrado Nicola De Bernart TRASCRIZIONI PER QUARTETTO D’ARCHI E PER PIANOFORTE E QUARTETTO D’ARCHI DA OPERE DI WOLFGANG AMADÈ MOZART Roma 15 e 16 dicembre 1994 giovedì 15 dicembre 1994 ore 16.30 IL LUOGO DELLA MUSICA via de’ Delfini 20 PAOLA BERNARDI Signori buonasera. Diamo il via al Settimo Laboratorio Aperto sulla diffusione dell’opera e del balletto al di fuori del contesto teatrale. Voglio presentarvi i collaboratori di quest’anno. Conoscete già Corrado De Bernart, che mi ha affiancato in sette anni di ricerca; quest’anno è nella doppia veste di esecutore e ricercatore. Poi abbiamo Carmelo Andriani e Giulio Arrigo al violino, Marcello Manfrin alla viola e, al violoncello, Antonio Ramous. Sarà inoltre con noi Claudio Tuzzi, costruttore di clavicembali e fortepiani nonché esperto di temperamenti e di accordature. Siamo giunti al settimo anno della nostra ricerca e, a questo punto, possiamo dire con una certa tranquillità che il veicolo maggiore di diffusione del repertorio d’opera al di fuori del contesto teatrale è proprio la trascrizione. Nel prendere in esame molte musiche arrivateci manoscritte e a stampa da varie biblioteche italiane e straniere, ciò che ci ha colpito è innanzitutto la diversità di scrittura di queste trascrizioni. Per esempio, in una raccolta di fine Settecento, molto diffusa all’epoca, alla quinta o sesta lezione si trova una marcia dal Rinaldo di Haendel ridotta a poche battute per tastiera: è il Per Elisa di allora, suonata evidentemente da tutti e proposta anche ai principianti; accanto a questa versione così semplice ci capita poi di trovare una trascrizione, sempre dal Rinaldo di Haendel, difficile al punto da essere alla portata solo di buoni virtuosi. Tra questi due poli – brani facilissimi e brani molto complessi – vi sono poi tanti livelli intermedi di trascrizione. Vi sono le trascrizioni per ottimi strumentisti o per professionisti di livello, pensate per prime parti di orchestra e, quindi, da affrontare con una certa professionalità. Altre sono un po’ meno complesse: meno difficili, sono destinate a diffondere l’opera, quindi a un pubblico di amatori, di dilettanti, sia pur considerando che all’epoca i dilettanti sapevano suonare molto bene. C’è insomma una varietà enorme di scritture musicali, varietà cui corrisponde anche una grande diversità di organici: si va dalle trascrizioni per clavicembalo solo a quelle per flauto solo, per due flauti, per voce e basso continuo, per strumento acuto e basso continuo, per complessi cameristici, ecc. Cominciando a esaminare una parte di tutto questo materiale, ci siamo imbattuti a volte in realizzazioni particolarmente interessanti e davvero singolari, come il caso di una trascrizione custodita nella biblioteca del Conservatorio di Roma per voce, strumento e basso continuo. La sua caratteristica è che vi appare indicato il nome del cantante che la eseguiva e le variazioni ornamentali che vi apponeva; il che rappresenta una testimonianza interessantissima sulla prassi esecutiva dell’epoca oltre che sulla diffusione dell’opera attraverso la trascrizione. I differenti organici per cui appaiono trascrizioni si legano a luoghi di esibizione specifici e distinti, con il coinvolgimento di larghissimi strati di ascoltatori. Il clavicembalo suona a corte, nelle sale nobiliari, nei castelli. Le trascrizioni per flautino solo evidentemente si suonano in casa, mentre la Harmoniemusik si esibisce in uno spazio grande, nelle piazze o, addirittura, sfilando per le strade e fermandosi ai crocevia con il pubblico al seguito. Lo scorso anno abbiamo detto che la Harmoniemusik era legata prevalentemente ad esibizioni all’aperto. Quest’anno, col quartetto e col pianoforte, rientriamo negli spazi chiusi, adatti a un pubblico più ristretto. La trascrizione ha quindi grande varietà sia di scrittura sia di luoghi di esecuzione e, come dicevo prima, proprio grazie a questa sua caratteristica raggiunge larghissimi strati sociali. Ma veniamo ai trascrittori. Alle volte si chiamano Haendel, il quale trascrive se stesso; le ouverture delle sue opere sono infatti da lui trascritte per clavicembalo. Altre volte si chiamano Mozart, che trascrive Il ratto dal serraglio. In una lettera del luglio 1782, appena dopo la prima rappresentazione dell’opera, egli scrive al padre: «Caro padre, questa settimana sono occupatissimo perché devo trascrivere tutta l’opera per Harmoniemusik, cioè per ottetto di fiati; se non lo faccio io lo farà certo un altro e si prenderà pure i soldi». Preoccupato da tutto ciò, quindi, in una settimana Mozart trascrive per Harmoniemusik Il ratto dal serraglio. In altri casi, invece, i trascrittori non hanno questi grandi nomi 93 ma sono pur sempre, come dicevo, ottimi strumentisti: lo scorso anno abbiamo parlato a lungo di Vent, un oboista che suona in orchestra e che, una volta terminato il lavoro, si riunisce con altre prime parti per suonare il repertorio d’opera. Vent per trent’anni è stato orchestrale e trascrittore a Vienna. Talvolta le trascrizioni non sono firmate. Come vedete dal programma, quest’anno ne abbiamo prese in considerazione alcune di autore sconosciuto ma ciò nonostante, esaminandole, possiamo comunque avere un’idea precisa della qualità del trascrittore attraverso il confronto con la partitura originale. Il buon trascrittore coglie il momento emotivo e trasmette il senso musicale benché, per forza di cose, propone una riduzione, visto che gli organici che usa non sono quelli dell’orchestra. Abbiamo qui una trascrizione per quartetto d’archi con un pianoforte e i fiati degli originali certo non ci sono, eppure il trascrittore riesce a rendere l’effetto generale del modello di partenza. Anche se bisogna ridurre un po’ il colore, lo spirito dell’opera viene rispettato e molti autori sanno comunicarlo: il momento drammatico, quello lirico, il momento psicologico vengono trasposti molto bene. Differente è il caso della trascrizione d’uso, laddove non conta trasmettere il senso profondo dell’originale bensì riprodurne il motivetto melodico. Sono quelle che vengono subito messe in circolazione. In esse non ci si preoccupa certo delle sfumature che il musicista prevedeva nell’originale proprio per sottolineare certi stati d’animo, ma ci si limita appunto a togliere tutto lasciando solo il motivetto melodico. Si tratta insomma di vere e proprie trascrizioni «di consumo». Quest’anno vi faremo ascoltare delle trascrizioni per quartetto d’archi cui si aggiunge a volte il pianoforte. Secondo l’idea che ne abbiamo tratto, sono trascrizioni che si rivolgono più a un pubblico di amatori, a persone che suonavano in un contesto domestico per un numero limitato di ascoltatori, ma ciò non esclude che possano essere destinate anche ai professionisti. Si tratta in ogni caso di house-music: gli amatori si riunivano nelle case e trascorrevano le ore di svago e divertimento facendo musica. D’altra parte ricordo di aver preso parte in prima persona a questa tradizione, soprattutto per quanto attiene al quartetto d’archi. Quando sono venuta a Roma, tanti anni fa, ricordo due quartetti di professionisti non musicisti, alcuni medici e un paio di architetti, che suonavano benissimo: la sera si riunivano e suonavano le ouverture di Rossini. Adesso, purtroppo, la televisione e la diffusione del disco hanno reso tali usi assolutamente desueti. Prima di cominciare, qualche accenno al quartetto d’archi. Nella forma classica (due violini, viola e violoncello) è molto difficile datarne la nascita. Siamo intorno al 1760. Questa formazione ha ispirato tutti i più grandi compositori: non c’è musicista dell’epoca romantica, ma anche del Novecento, che non scriva per quartetto, formazione estremamente stimolante. Pensate alla nota più grave che può suonare un violoncello e alla nota più acuta del violino e capirete che il quartetto d’archi copre tutta la gamma dei suoni. È una piccola orchestra, un’orchestra d’archi. Ciò significa che il linguaggio musicale si può complicare in quanto, avendo quattro parti reali, gli autori potevano realizzare polifonia a quattro voci (la polifonia classica) ma anche avere a disposizione un’armonia completa con quattro parti oppure scrivere un solo con accompagnamento. Non è vero, inoltre, che i timbri siano limitati. Anche se gli strumenti sono tutti archi, certe combinazioni danno la possibilità di ottenere impasti timbrici assolutamente vari. Questa formazione si cala in una Vienna che all’epoca aveva il gusto della ricerca di una lingua che non fosse di pura evasione ma di un certo impegno. È la Vienna di Maria Teresa, delle Accademie, dell’Accademia di Belle Arti; è una città dove già ci si interessava di didattica per bambini, stabilendo cosa dovessero studiare nella scuola primaria; è la Vienna di Giuseppe II, che aboliva la pena di morte e lasciava libertà di culto. In questa città vi era uno strano personaggio che mi ha sempre incuriosito. È un certo barone Van Swieten, il quale, giunto nella capitale austriaca come diplomatico ed entrato nelle grazie di Maria Teresa, a un certo punto prese in mano la gestione del teatro di corte. Fu per sua volontà che a Vienna furono rappresentate tutte le opere che si esegui94 vano all’estero. Da uomo illuminato qual era, raccolse anche moltissimi volumi di musiche, oggi depositati nel Fondo Giordano di Torino. In questa realtà si cala la scrittura per quartetto. Al quartetto può essere aggiunto un quinto strumento, che può essere il più diverso: ci sono i quintetti con chitarra, con oboe, con clarinetto, con doppio violoncello oppure con doppia viola. Alle volte il quinto strumento si aggiunge in modo paritario, altre volte diviene una sorta di «prima donna», per cui il quartetto ha funzione più che altro di accompagnamento. Questa ricerca colta, oltre che a Vienna, si sviluppa enormemente anche a Londra e presso la corte di Spagna. A Parigi, invece, non attecchisce soprattutto perché gli editori la considerano troppo difficile e quindi legata a un prodotto finale non vendibile. Nella capitale francese si diffonde allora il «quartetto parigino», o «quartettino», cui aderirono subito gli italiani Giardini e Boccherini. L’Opera 26 di Boccherini, ad esempio, è un quartettino in due soli movimenti, in uno stile non troppo impegnato. Ebbe grandissima fortuna, tant’è che fu trascritta all’epoca per due clavicembali, trascrizione che peraltro è stata pubblicata dall’Associazione Clavicembalistica Bolognese. Torniamo alla trascrizione per quartetto e per quintetto. Quando scrive le opere che ascolteremo quest’anno – il Don Giovanni, Così fan tutte e Il flauto magico – Mozart ha già composto i quartetti dedicati a Haydn, che egli indica come suo grande maestro riguardo questa forma musicale. A volte, analizzando le partiture delle opere di Mozart, in particolare le ultime, troviamo che esse hanno una scrittura quartettistica. Ecco perché non sono affatto facili da eseguire per l’orchestra e le ouverture sono di estrema difficoltà; proprio perché c’è un tipo di scrittura cameristica molto raffinata, un tipo di scrittura quartettistica. Partiamo dal Così fan tutte, di cui cominceremo ad ascoltare qualche estratto. Così fan tutte è la terza delle opere italiane scritte su libretto di Da Ponte (la prima è il Don Giovanni, la seconda Le nozze di Figaro). Rappresentata a Vienna nel 1790 con grandissimo successo, nell’Ottocento non ebbe altrettanta fortuna. Se ne criticò soprattutto il libretto, ritenuto offensivo e per la donna e per l’amore inteso in senso spirituale. Anche Wagner espresse un parere negativo e scrisse che, in fondo, Così fan tutte era una copia delle Nozze di Figaro. Ovviamente non è certo così, perché sappiamo che Le nozze di Figaro è pervasa da un’ironia estremamente ottimistica, mentre in Così fan tutte questa ironia è del tutto assente. Basti pensare alla figura di Don Alfonso. Come sappiamo, la storia è quella di due sorelle, Dorabella e Fiordiligi, che si fidanzano con due militari. Don Alfonso, non credendo alla fedeltà delle due donne, finge di farli partire per la guerra. In realtà, i due tornano camuffati e ognuno corteggia la donna dell’altro finché entrambe cedono. Secondo il parere di Massimo Mila, tra i personaggi di questa vicenda la figura veramente agghiacciante è quella di Don Alfonso, il quale, quando l’intrigo viene svelato, conclude più o meno in questi termini: «Va bene, torniamo a come eravamo prima, perché vecchie, giovani, belle o brutte, così fan tutte». Questa non è l’ironia positiva delle Nozze. Direi piuttosto che Così fan tutte sia ispirata a un certo cinismo. Cominciamo ad ascoltarne i primi brani. Dopo l’ouverture, l’opera si apre con l’incontro di tre personaggi: Ferrando e Guglielmo, i fidanzati di Dorabella e Fiordiligi, e Don Alfonso. I due giovani sono molto sicuri di sé e dell’amore eterno delle loro donne, mentre l’altro, appellandosi alla propria esperienza e ai suoi capelli bianchi, li mette sull’avviso, dichiarando che la fedeltà delle donne è come l’araba fenice. Come è nostro uso, vi faremo ascoltare l’originale prima delle trascrizioni. Naturalmente nella trascrizione avvertirete la mancanza di qualcosa. Lo scorso anno i brani erano per fiati e si avvertiva la mancanza degli archi, quest’anno accade il contrario ma lo spirito viene colto ugualmente: la tracotanza dei due fidanzati, il dubbio che comincia a insinuarsi. Tutto è ben trascritto da Maximilian Stadler, un abate che viveva in un monastero in Austria, di grande apertura mentale (nelle abbazie faceva 95 rappresentare le opere di Paisiello) e di cultura notevole, autore tra l’altro di una storia della musica. Arrivato a Vienna, divenne il consulente musicale della vedova di Mozart cinque anni dopo la morte del musicista. Sebbene non ne sia sicura, è probabile che la trascrizione risalga a quell’epoca. Questo per quel che riguarda i brani per quintetto. A differenza di quelle per quintetto, che sono manoscritte, le trascrizioni per quartetto non hanno una firma ma, essendo a stampa, conosciamo l’editore. Portano la data del 1805 e sono state pubblicate da Artaria, che all’epoca era un grosso editore di Vienna. Ascoltiamo nell’originale l’incontro dei tre personaggi dopo l’ouverture. Successivamente ascolteremo le trascrizioni della melodia del terzetto dell’«araba fenice», quindi la trascrizione della prima aria (Duetto Fiordiligi-Dorabella) per quartetto, che è la forma di trascrizione meno traumatica rispetto al modello di partenza, e poi quella per quintetto. Nell’originale ascolterete anche il piccolo pezzo di recitativo: naturalmente i recitativi non sono trasposti nella trascrizione e, quindi, li ascoltiamo soltanto nell’originale. (esempio audio: Mozart, Così fan tutte, Terzetto Ferrando-Guglielmo-Don Alfonso «La mia Dorabella capace non è», atto I, scena I) Ascoltando l’esecuzione emerge il problema della riduzione e dell’interpretazione, perché non è detto che chi trascriveva dovesse seguire pedissequamente l’originale; vi è un momento di differenza e stacco, altrimenti ogni esecutore sarebbe portato a eseguire copiando ciò che ha ascoltato nell’originale. La trascrizione non è copia perfetta di un originale. L’autore ne dava comunque una sua versione. (esempio audio: Mozart, Così fan tutte, Terzetto Don Alfonso-Ferrando-Guglielmo «È la fede delle femmine», atto I, scena I) (esecuzione dal vivo: Mozart, Così fan tutte, Terzetto Don Alfonso-Ferrando-Guglielmo «È la fede delle femmine», atto I, scena I; trascrizioni per quartetto e per quintetto) (applausi) CORRADO NICOLA DE BERNART Possiamo dire qualcosa sulla scrittura di queste trascrizioni. Innanzitutto penso che si sia abbastanza sentito che fra la scrittura del quartetto e quella del quintetto c’è una notevole differenza. Nella scrittura per quartetto si sente chiaramente una solida compattezza, tutto sembra meglio costruito e meglio funzionante. Invece la versione per quintetto, manoscritta, lo ricordiamo, quindi probabilmente non ancora completata (non è detto che Stadler non ci dovesse ancora mettere mano in vista di una eventuale, futura pubblicazione), appare alquanto disordinata con alcune stranezze, ancor più strane se si tiene presente che lo strumento per cui veniva scritto il quintetto era il fortepiano, oltre che gli archi. Per esempio, non so se avete notato che nell’aria «dell’araba fenice» frequentemente al fortepiano viene affidato solamente una parte al basso, solo un raddoppio; certamente questo non è il modo migliore per risolvere un punto musicale così delicato. Si salta, infatti, l’intera zona intermedia della tastiera, quella zona più ricca di suono e risonanza; Mozart stesso, valentissimo pianista e famoso esecutore, prediligeva nei suoi lavori proprio questa zona dello strumento. Egli è un autore, cioè, che ha un tipo di scrittura pianistica prevalentemente raccolta nella zona centrale, proprio perché sugli strumenti dell’epoca, e in parte anche su quelli attuali, tale sezione è certamente la più espressiva. Altre incongruenze appaiono essere i terribili raddoppi in ottava che vengono posti alla viola o al primo violino, scopertissimi e in una posizione estremamente complessa e pericolosa. Alcune strane incongruenze riguardano le parti espressive, quelle cioè che riprendono le parti dei cantanti: esse vengono palleggiate da uno strumentista all’altro, senza rimanere ferme su uno strumento che assuma il ruolo del cantante e lo 96 porti dall’inizio sino alla fine. In più la scrittura appare strana e contraddittoria quando, per esempio, la parte del fortepiano, sempre estremamente semplice, improvvisamente si arricchisce di alcune ottave che non hanno una sostanziale giustificazione in quello specifico contesto e che risuonano piuttosto strane. Peraltro la nota superiore dell’ottava va a salire più su rispetto alla parte del primo violino, per cui queste note vengono ad avere un peso musicale maggiore rispetto a quello che dovrebbero. Nella versione orchestrale, invece, tutto questo non si era assolutamente sentito. Per il resto, ci sono delle indicazioni di sonorità molto parche e molto disordinate tra le varie parti degli strumenti, cioè non tutti gli strumenti hanno cambi di sonorità coincidenti, il che potrebbe essere dovuto a semplice distrazione per la rapidità di scrittura; non credo, infatti, che al trascrittore si possa attribuire la volontà di spostare di 1/4 o di 2/4 determinati effetti. Qualcosa di particolare appare un po’ diverso rispetto a quello che si sente nell’originale dell’opera. Per esempio, il diminuendo che chiude il brano, che Mozart realizza come un vero e proprio diminuendo, viene trascritto da Stadler con la parte per il fortepiano molto densa e quindi forte. Noi abbiamo cercato di far udire tale effetto il meno possibile perché era abbastanza anti-musicale. Il resto del tessuto rispecchia perfettamente quella che era la parte operistica. Nel quartetto avete sentito nettamente che il ruolo dei cantanti era assunto fin dal primo momento da uno strumento e veniva portato avanti dallo stesso sino al termine. Nella trascrizione per quintetto, invece – lo vedremo ancora dopo – questi ruoli vengono a essere palleggiati, ripeto, tra i vari strumenti, come a voler sottolineare una specie di maestria da parte del trascrittore, tanto bravo da spostare l’espressività della situazione da uno strumento all’altro. Probabilissimo che questa versione manoscritta per quintetto fosse nata e servisse per una utilizzazione estemporanea, cioè semplicemente per essere utilizzata in un’unica occasione, con determinati strumentisti, e che quindi la trascrizione fosse fatta ad personam, come frequentemente noi abbiamo trovato in tutto questo nostro cammino di ricerca. In questo caso valeva la stessa regola valida per i grandi cantanti d’opera: ognuno doveva avere, sia pure per un attimo, il suo punto di gloria e la sua bella parte. Potremmo magari continuare con questi ascolti? PAOLA BERNARDI Passiamo al duetto. Nel primo atto Fiordiligi e Dorabella si comportano in modo molto simile. D’altronde avevano la stessa età e lo stesso sentimento. Solo nel secondo atto cominciano a essere un po’ diverse, una cede un po’ prima, l’altra ha un po’ più di tormento. La cosa strana che notiamo nelle trascrizioni è che nella versione per quartetto la vocalità delle due sorelle è affidata ai due violini, mentre stranamente nel quintetto, nella trascrizione di Stadler, il ruolo delle due sorelle va al violoncello e alla viola, quindi questa uniformità di sentimento delle due fanciulle traslata in musica si sente effettivamente un po’ meno. Sentiamo il duetto nella versione originale, poi per quartetto e infine per quintetto. (esempio audio: Mozart, Così fan tutte, Duetto Fiordiligi-Dorabella «Ah, guarda, sorella», atto I, scena II) (esecuzione dal vivo: Mozart, Così fan tutte, Duetto Fiordiligi-Dorabella «Ah, guarda, sorella», atto I, scena II; trascrizioni per quartetto e quintetto) (applausi) Mi è sembrato di cogliere che la versione per quintetto dia più luce; è come se si vedesse la solarità della città meridionale dove è ambientato il Così fan tutte. Basta a questa sensazione quel raddoppio al pianoforte che dà luce alla frase. Il fatto reale si sospetta sia avvenuto a Vienna ma, come sapete, la storia è ambientata a Napoli perché evidentemente 97 questa città evoca più luce, più colore e più profumi. Ascoltiamo poche battute d’attacco dall’originale. Qui la luce in partitura è data dai clarinetti mentre nella trascrizione inizialmente, con i soli archi, l’atmosfera è più chiusa, meno brillante. Basta però quell’entrata del pianoforte e la luce si diffonde. Questa è proprio una mia sensazione: quelle poche note al pianoforte rendono maggiormente lo spirito di quanto abbiamo sentito nell’originale di Mozart. Prima di passare a parlare della società dell’epoca e delle caratteristiche del fortepiano, concludiamo la parte dedicata alla trascrizione con altri due ascolti dal Così fan tutte e poi dal Don Giovanni. Passiamo alla marcia. Si realizza lo scherzo: ci si scambiano gli addii, tutti piangono alla partenza dei due fidanzati che si allontanano sulle note di una marcia militare. La cosa interessante è che nella partitura e nella trascrizione non esiste il diminuendo finale che invece si ascolta sempre in teatro. Sulla scena arriva una barca, i due vi salgono, la barca si allontana e la musica con essa, con un diminuendo finale che porta il suono a sfumare. Questo diminuendo finale si è sentito benissimo nell’incisione discografica ma né in partitura né in trascrizione esiste. Mozart scrive che le ragazze rimangono ferme mentre i due fidanzati si allontanano, e questo andare verso la lontananza evidentemente legittima l’intervento del regista e del direttore che inseriscono un diminuendo anche dove non è previsto: se fossero solo questi gli interventi innovativi da parte loro potremmo ritenerci fortunati! (esempio audio: Mozart, Così fan tutte, Coro «Bella vita militar!», atto I, scena V) (esecuzione dal vivo: Mozart, Così fan tutte, Coro «Bella vita militar!», atto I, scena V; trascrizione) (applausi) Salutiamo i musicisti che devono andar via. Adesso il nostro collaboratore Claudio Tuzzi ci parlerà delle caratteristiche del pianoforte o, se preferite, del fortepiano dell’epoca di Mozart, certo ben diverso da quello che vediamo qui. CLAUDIO TUZZI Diverso lo era davvero. Quello che vedete non è il pianoforte per il quale erano pensate le musiche di cui stiamo parlando. Se ne è accorto di certo Corrado De Bernart durante l’esecuzione, perché solo lasciando lo strumento col coperchio chiuso e suonando in modo estremamente ovattato e soffice egli ha potuto rendere il delicato equilibrio fonico necessario fra archi e tastiera. Sul pianoforte moderno tutto ciò sarebbe stato irrealizzabile suonando con più vigoria e col coperchio alzato. Se si parla di fortepiano è necessario andare un po’ più indietro nel tempo rispetto agli anni di Mozart, visto che questo strumento era già nato almeno settanta anni prima. Bisogna dire tuttavia che Mozart fu il primo musicista a utilizzare il fortepiano in modo consapevole e pieno, sfruttandone tutte le possibilità, e questo soprattutto a partire dal 1777, anno in cui egli trovò finalmente uno strumento che per caratteristiche tecniche e foniche rispondesse alle sue aspettative ed esigenze. Gli esemplari prodotti in precedenza, infatti, non sempre erano di livello tale da soddisfare il compositore. Il fortepiano, come tutti sappiamo, nasce con Bartolomeo Cristofori, i cui primi tentativi risalgono agli ultimi anni del Seicento, tra il 1697 e il 1698. Il primo fortepiano di Cristofori appare ufficialmente nel 1700 ed è uno strumento derivato dal clavicembalo. Nella meccanica vengono sostituiti i salterelli a pizzico con un martelletto leggerissimo, realizzato addirittura in carta pergamena arrotolata, che consentiva la percussione delle corde. Di conseguenza il suono di questo strumento era molto flebile, neanche paragonabile per intensità a quello del clavicembalo, ma aveva in sé qualcosa che al cembalo mancava, vale a dire una reale possibilità dinamica di differenziazione fra «piano» e «forte». Tale escur98 sione sonora si muoveva comunque entro un margine molto ristretto che però già risultava sorprendente per chi suonava strumenti a tastiera. Dal 1700 fino al 1777 (data fatidica in cui Mozart scoprì uno strumento che lo entusiasmò al punto da decidere definitivamente riguardo la sua utilizzazione) la sperimentazione andò avanti alacremente. Il genio di Cristofori aveva risolto via via molti problemi, primo fra tutti quello di trovare un meccanismo che allontanasse il martelletto dalle corde una volta ottenuto il suono, per evitare che esso stesso smorzasse istantaneamente le vibrazioni. Nel clavicembalo il movimento tasto-salterello rimane totalmente solidale: la penna, una volta pizzicata la corda, non ne impedisce le vibrazioni. Nel pianoforte è necessario un meccanismo che faccia allontanare il martelletto dalle corde e lo faccia ricadere in posizione di riposo anche se il tasto rimane abbassato. Sembra facile ma l’invenzione di un simile meccanismo richiedeva una certa genialità. Va dato credito a Cristofori come autore di questa invenzione. Certo, partendo dalla struttura del clavicembalo era difficile arrivare a uno strumento soddisfacente per livello meccanico e bellezza timbrica; e infatti il fortepiano ha vagato nelle nebbie per circa settant’anni. La meccanica di Cristofori fu ripresa in Germania trent’anni più tardi da Silbermann. Questi presentò uno strumento a Johann Sebastian Bach, il quale lo trovò sulle prime del tutto insufficiente, ma una decina di anni più tardi, dopo che Silbermann ebbe apportato allo strumento ulteriori modifiche e migliorie, sembrò interessarsene al punto da diventarne «piazzista»: pochi sanno che egli, forse per motivi squisitamente economici, fece per questo strumento molta pubblicità, facendo in modo che se ne incrementasse l’utilizzo. Siamo però negli anni 1740-1750 e la produzione del fortepiano è ancora molto limitata. I problemi di questo nuovo strumento erano tanti: la flebilità del suono, una meccanica che non permetteva una ripetizione delle note sufficientemente veloce per poter eseguire passaggi brillanti, il martelletto talmente leggero da essere portato, dopo aver percosso la corda, a rimbalzare più volte, per cui una nota suonata con una certa vigoria veniva ribattuta più volte senza che ciò fosse deciso dall’esecutore. Tutti questi limiti non potevano certo permettere un utilizzo pieno dello strumento. Di questi difetti si lamentava fortemente Mozart, che non fu propenso a utilizzare il fortepiano fino alla fatidica data del 17 ottobre 1777, quando per caso, trovandosi a passare da amici ad Augusta, visitò la bottega del costruttore Andreas Stein. Sappiamo che sotto mentite spoglie provò gli esemplari che erano in bottega, rimanendone entusiasta. Di questo incontro c’è una gustosa descrizione in una lettera al padre, scritta tre giorni dopo il 17 ottobre. Egli racconta come si sia trovato per caso in questo laboratorio fumoso, umido e scuro, e si sia presentato in incognito. Stein, che evidentemente sospettava di trovarsi al cospetto di un personaggio tutt’altro che anonimo, gli chiese chi fosse e Mozart rispose, col solito gioco di invertire il suo cognome, di essere il signor Trazom. Al momento ciò evidentemente non suggerì nulla a Stein ma quando Mozart si mise alla tastiera il costruttore si rese conto immediatamente di trovarsi di fronte a un grande musicista e, a quel punto, Mozart dichiarò la sua vera identità. Come dicevo, fu entusiasta dello strumento e per lettera ne descrisse al padre le caratteristiche che ovviavano a tutti i problemi cui accennavo. Penso sia divertente leggere la lettera: Mon très cher père, devo subito cominciare con i pianoforti di Stein. Prima di aver visto qualche prodotto di Stein preferivo a tutti i pianoforti di Spaeth, ma ora devo lasciare il primo posto a quelli di Stein perché essi smorzano molto meglio di quelli di Regensburg. Se suono con forza, sia che lasci giù il dito sia che lo sollevi, il suono scompare non appena lo si è udito. Posso arrivare al tasto in qualunque modo ma resta eguale. Esso non stride, non si rafforza, non si indebolisce e nemmeno scompare. In altre parole è tutto eguale. È vero, non è possibile avere un tale pianoforte per meno di trecento fiorini ma l’impegno e la fatica che egli adopera non si possono pagare. I suoi strumenti si distinguono dagli altri specialmente nello scappamento. Nemmeno uno su cento costruttori vi presta attenzione, ma senza scappamento non è possibile avere un pianoforte che non strida o echeggi. I 99 suoi martelletti, quando lo si suona, cadono giù non appena hanno percosso le corde, sia che si lasci giù il tasto o lo si abbandoni. Quando egli costruisce uno strumento, come mi disse personalmente, si siede e prova a suonare ogni tipo di passaggi, scale e intervalli, e lima e lavora finché rende il pianoforte capace di eseguire qualunque cosa, poiché egli lavora per il bene della musica e non soltanto per suo profitto, altrimenti avrebbe subito finito. Egli dice spesso: se non fossi un amatore così appassionato della musica e non sapessi io stesso eseguire qualcosa sul pianoforte, avrei da tempo perso la pazienza nel mio lavoro. Solo che amo gli strumenti che non mettono alla prova il suonatore e che siano durevoli. E durevoli lo sono davvero. Egli pone particolare attenzione a che la tavola di risonanza non si rompa e non crepi. Quando ha terminato una tavola di risonanza di uno strumento la espone all’aria, alla pioggia, alla neve, al sole e a tutte le diavolerie affinché crepi, e poi inserisce dei tasselli affinché diventi veramente robusta e forte. Il pedale, premuto col ginocchio, è fatto meglio nei suoi pianoforti che negli altri. Basta sfiorarlo appena che si inserisce, e appena si toglie un poco il ginocchio non si sente più neanche la più piccola risonanza. Questo è un estratto della lettera che spiega quali fossero i problemi risolti da Stein sul suo fortepiano. Il primo problema risolto era quello del martelletto che continuava a ribattere le corde. Anche il pedale di risonanza, azionato mediante una ginocchiera, era stato migliorato eliminando il fastidioso rumore degli smorzi che si innalzavano o abbassavano producendo armonici indesiderati. Per quel che riguarda il fortepiano di Stein, ho preparato delle illustrazioni. Nella prima vedete una tabella comparativa delle grandezze dei martelletti, a partire da quella dello strumento di Stein del 1777 per arrivare a quella di un moderno Steinway. Il primo martelletto è poco più grande di un bottoncino, mentre il martelletto dello Steinway è ben altra cosa ed è di ben altre dimensioni. Anche il peso è molto diverso: nel fortepiano di Stein siamo sui dieci grammi, quindi chi suona trova un peso per ogni tasto di circa dieci grammi contro i cinquanta del pianoforte moderno. Quest’ultimo richiede uno sforzo cinque volte superiore rispetto al pianoforte dei tempi di Mozart. Il pianoforte mozartiano è insomma uno strumento la cui leggerezza permette grande brillantezza esecutiva e facilità di fraseggio ma che è caratterizzato da un’ampiezza dinamica molto ridotta rispetto al pianoforte moderno; tanto è vero che, se dovessimo fare una comparazione fonica fra il fortissimo eseguito su pianoforte moderno e quello eseguito su pianoforte mozartiano, la differenza sarebbe abissale. Ciò è dovuto anche al fatto che mentre nel fortepiano settecentesco la tensione totale delle corde arriva a circa quattrocento chili, nel pianoforte moderno la tensione totale arriva a venti tonnellate. Per questo è necessario «soffocare» un pianoforte moderno per poter riuscire a ricavare lo stesso suono del suo antenato; ma svantaggiato dal punto di vista della quantità di suono, il fortepiano prende la sua rivincita dal punto di vista dell’equilibrio con altri strumenti e con le voci, della brillantezza del timbro, della capacità di rendere i fraseggi più minuti con estrema chiarezza. Vale la pena di sottolineare anche le indicazioni di pedalizzazione. Nel fortepiano la più bassa tensione delle corde, la più limitata quantità di suono e la minore durata nel tempo delle vibrazioni sonore fanno sì che, abbassando il pedale di risonanza, i suoni non riescono a mescolarsi tra loro più di tanto. Questo spiega, ad esempio, i punti delle sonate di Beethoven con l’indicazione di pedale per battute e battute anche in presenza di cambi armonici; indicazioni che pongono seri problemi di esecuzione su un pianoforte moderno, sul quale diviene impossibile prolungare il pedale così come scritto. Sul fortepiano i passaggi del genere risultano molto più chiari, le armonie non si mescolano e si percepisce solo una modifica generale della timbrica che non disturba assolutamente e rende perfettamente eseguibile ciò che è scritto. VOCE DAL PUBBLICO Perché Mozart parla di ginocchio? 100 CLAUDIO TUZZI Perché la pedaliera non esisteva ancora. Il meccanismo per sollevare gli smorzi era montato sotto la tastiera e azionato con un semplice movimento del ginocchio. In alcuni strumenti dell’epoca e posteriori, peraltro, si montavano anche dei pedali aggiuntivi che azionavano mazze che percuotevano all’interno della cassa piccoli tamburi e campanelli; erano detti «pedali di turcherie» e si utilizzavano per sottolineare ritmicamente, con timbri da musica turco-orientale (almeno all’epoca così si riteneva!) alcuni momenti di particolari composizioni: pensate, ad esempio, alla Marcia alla turca per pianoforte dello stesso Mozart. In realtà la passione e la moda per questi suoni e atmosfere orientali di sapore esotico la troviamo anche in Così fan tutte: Ferrando e Guglielmo si presentano sotto le mentite spoglie di due ufficiali turchi. In molti pianoforti antichi che ho restaurato, ho trovato e riportato al funzionamento meccanismi simili. L’altra illustrazione che vi è stata distribuita è la fotografia di uno Stein, esattamente il pianoforte di cui Mozart scriveva. Di questo strumento alcuni anni fa ho realizzato una copia che purtroppo non ho più ma che possiamo sentire adesso in una registrazione RAI di un paio di anni fa. Si tratta del Secondo concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven che, ricordo, è stato scritto nel 1798. Da Mozart in poi il pianoforte ha fatto dei progressi velocissimi e innovativi: si è allargata la tastiera, e dalle cinque ottave dei tempi di Mozart è passata a sei ottave e mezza; è aumentato il numero delle corde per ogni nota e la potenza sonora si è accresciuta. Queste innovazioni lo hanno reso molto più simile allo strumento attuale. Sentiamo ora il pianoforte dell’epoca di Mozart, quello del 1777-1780, in una esecuzione di un’opera beethoveniana del 1798. Sentiremo come la scrittura musicale si fosse già evoluta al punto che le caratteristiche sonore dello strumento appaiono già inadeguate per l’esuberanza focosa di Beethoven. L’esecuzione è di un’orchestra inglese, i London Classical Players, diretti da Roger Norrington; al fortepiano che, ripeto, è una copia di uno Stein costruita da me, c’è un americano, Lowell Levine. È una registrazione dei concerti Italcable, una diretta di un paio di anni fa. Ascoltiamo pochi minuti della cadenza del primo tempo, dove il fortepiano appare in tutta la sua dimensione di solista, e la parte conclusiva, dove sentirete che, benché l’orchestra sia di cinquanta elementi, sia pur con strumenti originali e dunque con un timbro più morbido, la sonorità complessiva dello Stein regga sul piano dell’equilibrio fonico. (esempio audio: Beethoven, Secondo concerto per pianoforte e orchestra) 101 venerdì 16 dicembre 1994 ore 16.30 IL LUOGO DELLA MUSICA via de’ Delfini 20 PAOLA BERNARDI Ieri abbiamo parlato di Così fan tutte, opera di Mozart in italiano, l’ultima della triade su libretto di Da Ponte. Siamo arrivati al punto in cui vi sono le più forti espressioni d’amore sia da parte dei fidanzati sia da parte delle fidanzate. Alla falsa partenza dei due protagonisti Dorabella e Fiordiligi entrano in crisi. Ascolteremo l’aria di Dorabella «Smanie implacabili». Nell’opera, il cui contenuto inizialmente appare frivolo ma successivamente rivela di essere tutt’altro che frivolo, si inseriscono alcune arie che sono da opera seria, e quella che ascolteremo è una grande aria da grande opera seria. Vi farò ascoltare anche il precedente recitativo con accompagnamento, dove la donna cade nella più totale disperazione: quell’atmosfera così chiara di cui abbiamo goduto ieri, con le ragazze innamorate, felici in una Napoli piana di luce, comincia a chiudersi con il sommesso grido di dolore di Dorabella «Smanie implacabili». La donna canta di star per morire nell’angoscia, perché la partenza del suo fidanzato è per lei un autentico dramma interiore. Mozart mette in musica tutto ciò in modo divino, utilizzando un movimento di terzine che rende molto bene l’ansia e la tensione del momento. Come vedete ho fatto spostare la viola nel punto in cui ieri era il violoncello, perché in questo contesto sono proprio le viole ad avere il ruolo di protagoniste. Ci sono tre momenti nell’aria: una parte angosciata, in terzine, che è quella che viene espressa dalle viole e che nella trascrizione risulta abbastanza simile all’originale; c’è poi una parte ossessiva, ritmicamente ripetitiva come lo scoccare di un metronomo, realizzata dal basso insieme al pianoforte; e infine la terza parte, che è il canto di lei che si dispera, affidato al violino. Ripeto, è un’aria da opera seria, una grande aria che potremmo trovare in una grande opera drammatica. Sentiamo prima l’originale, compreso il recitativo accompagnato che fa da preludio all’aria. Naturalmente la trascrizione per quintetto riguarda soltanto l’aria. (esempio audio: Mozart, Così fan tutte, Recitativo e Aria di Dorabella «Smanie implacabili», atto I, scena IX) Certo, passando dall’originale alla trascrizione spesso si deve necessariamente cambiare anche l’interpretazione. In una trascrizione orchestrale che passa a pochi strumenti, questi devono fare la parte di tutti: si deve inserire la parte dei fiati, si deve inserire un determinato colore, ecc. Chiaramente la trascrizione propone una riduzione timbrica e perciò può comportare una differente interpretazione. Su questo siamo d’accordo: non essendo in un teatro, non essendoci il canto, alle volte si può certo trovare una via interpretativa che non corrisponda propriamente all’originale. Ma quel che davvero ci interessa è che la trascrizione ci tramandi la sensazione e l’emozione del momento: lo stato d’animo disperato di Dorabella reso attraverso le terzine, un po’ più rallentate o un po’ più veloci che siano, ce lo comunica nelle scelte interpretative anche la trascrizione, sebbene non sia fedelissima; e non potrebbe essere altrimenti, poiché manca la voce e mancano i timbri dei fiati. (esecuzione dal vivo: Mozart, Così fan tutte, Aria di Dorabella «Smanie implacabili», atto I, scena IX; trascrizione Stadler) CORRADO NICOLA DE BERNART La cosa più interessante di questa trascrizione per quintetto è la parte della tastiera, perché il trascrittore, che negli altri lavori aveva cercato di sfruttare attentamente le possibilità del fortepiano dell’epoca, certo molto diverso da questo strumento, in questo caso sembra regredire dando alla tastiera la normale funzione del basso continuo, affidandole semplicemente il ruolo di far risuonare questi accordi armonici con precisa scansione ritmica; solo talvolta le fa raddoppiare la parte del violino. Da un certo punto di vista è chia105 ro che l’aria non si prestava particolarmente a una trascrizione più ricca; abbiamo sentito che anche l’originale era caratterizzato da un accordo molto fermo su tutti i movimenti delle varie battute. Questo appare interessante perché sembrerebbe dimostrare che l’autore di questi quintetti, cioè l’abate Stadler, non abbia operato una selezione dei brani da trascrivere sulla base del tipo di formazione che aveva a disposizione, ma che sia andato avanti in modo casuale, riproponendo forse quelle che erano le arie più note all’interno dell’intera opera. Un’aria come questa è infatti molto poco adatta, secondo me, a una trascrizione nella quale, peraltro, uno strumento come il fortepiano venga così fortemente limitato nelle sue possibilità. Probabilmente l’esecuzione di quest’aria sarebbe più efficace con il clavicembalo; l’insieme riuscirebbe a funzionare meglio perché la levità e, allo stesso tempo, la secca brevità degli accordi al clavicembalo riuscirebbero a dare una più incisiva scansione ritmica che non il pianoforte. Col fortepiano, ovviamente, il risultato sonoro è in un punto intermedio ma rimane una leggera lunghezza di suono che, tutto sommato, dà qualche problema. PAOLA BERNARDI Abbiamo visto ieri come la conclusione di quest’opera sia cinica ed estremamente ipocrita, perché la morale che propone è che, poiché così fan tutte, è meglio che ognuno si tenga la donna che ha. Su questo finale Corrado De Bernart deve dirci qualcosa. CORRADO NICOLA DE BERNART Una cosa interessante da sottolineare (probabilmente la conoscerete) è una certa coincidenza tra avvenimenti della vita di Mozart e alcune sue composizioni. Qualcuno di questi legami ha anche contribuito a ingigantire quella sorta di alone leggendario che circonda la figura del grande musicista. La famosa storia del Requiem, commissionato da un misterioso personaggio, che non fu certo né creatura demoniaca né angelica ma solo un nobile che tenne nascosta la propria identità perché voleva usare la musica di Mozart spacciandola per propria, è cosa risaputa. È incredibile però come anche Così fan tutte arrivi in un momento del tutto particolare. La prima rappresentazione di quest’opera è del 1790. Abbiamo visto ieri che viene data nel teatro cittadino che faceva capo alla corte. Sulla genesi compositiva di Così fan tutte non si sa molto, perché, a differenza di altre opere di cui rimangono i passaggi intermedi del lavoro di Mozart, essa arriva un po’ come una meteora. Il libretto, come molti dicono, è stato voluto da Giuseppe II; sappiamo che Da Ponte lo scrisse rapidamente e, in men che non si dica, troviamo l’opera già realizzata. Le lettere di Mozart parlano piuttosto vagamente del lavoro compiuto, il che fa credere che la fase compositiva abbia avuto una genesi estremamente breve. Nell’agosto del 1789, poco prima che Mozart cominciasse a lavorare a Così fan tutte, egli passava un momento abbastanza difficile. Ai soliti debiti e alla situazione economica complessiva certo non positiva si era aggiunta la malattia della moglie. Costanza non era in buone condizioni fisiche poiché aveva avuto un’infezione a una gamba e aveva necessità di cure termali. Parte e si reca ai bagni di Baden dove venivano praticate delle cure che erano ritenute per questi casi molto benefiche. La coincidenza interessante, che forse ci potrebbe aiutare a capire il perché di un finale così amaro, è il fatto che, a quanto pare, a Baden le cose non andarono molto bene. Mozart è costretto a scrivere alla moglie: «Carissima mogliettina» – lo scrive con ironia! – e, dopo alcune frasi che non vi leggo, ripete con un bel punto esclamativo: Cara mogliettina! Voglio parlarti con tutta sincerità. Non hai alcuna ragione per essere triste. Hai un marito che ti ama e che fa per te tutto quello che è in grado di fare. Per il piede devi solo aver pazienza, guarirà sicuramente benissimo. Sono contento se ti diverti, certo. Solo vorrei che tu non dessi eccessiva confidenza. Con NN mi sembra che ti sia comportata troppo liberamente, e anche con NN, quando si trovava a Baden. Considera che gli 106 NN non sono stati così impudenti con nessuna altra donna, che magari conoscono meglio di quanto non conoscano me. Persino NN, che di solito è un uomo cortese, particolarmente rispettoso con le donne, perfino lui è stato indotto in questo modo a scrivere nella sua lettera le più disgustose e grossolane sciocchezze. Una donna deve sempre farsi rispettare, altrimenti dà luogo a pettegolezzi. Amore mio, perdonami se sono così sincero, ma è necessario per la mia tranquillità e per la nostra comune felicità. Ci sarà un’altra lettera, che non vi leggerò per brevità, nella quale Mozart deve nuovamente richiamare l’attenzione della consorte sulla sua vita sociale a Baden un po’ troppo frivola. D’altra parte sappiamo che Costanza anche precedentemente rispetto all’unione con Mozart spesso si era comportata con una certa leggerezza. Questa era una piccola coincidenza che andava sottolineata per spiegare che il finale del Così fan tutte forse è volutamente amaro e disilluso. Comunque sia, nei primi anni dell’Ottocento questo finale cominciò a creare dei problemi. Vi erano due elementi che andavano a cozzare con l’aspettativa generale del pubblico. Da un lato, offendeva un finale così poco morale, in una trama così poco pudica che riguardava lo scambio che da burla diventava uno scambio amoroso di coppie nel vero senso della parola, visto che le due donne si innamoravano dei nuovi cavalieri. Certo il tardivo pentimento nel finale non bastava a ripristinare del tutto la moralità. Dall’altro lato, si criticava che l’immoralità dell’opera fosse fine a se stessa perché, in fin dei conti, ciò che narrava era troppo paradossale e non credibile. È molto divertente vedere come nei primi anni dell’Ottocento si intervenne sulla trama per cercare di adattarla a quelle che erano le varie aspettative del pubblico e rendere il testo del libretto più accettabile per chi ascoltava. Di Così fan tutte – forse l’avevamo già accennato ieri – ci sono state nove repliche solo nel 1790 a Vienna. L’opera non entusiasmò in maniera eclatante ma diede comunque origine a consensi positivi che, con il proseguire delle repliche, incominciarono pian piano ad aumentare; probabilmente se si fosse arrivati, come per il Don Giovanni, alla quindicesima o sedicesima serata la fortuna dell’opera sarebbe stata ben maggiore. In quella occasione Mozart fu sfortunato perché alla morte di Giuseppe II tutti i teatri furono chiusi per il lutto della corte e saltarono almeno sette o otto repliche già programmate. L’opera, tuttavia, andò in scena in altre località; già nell’anno successivo la troviamo a Praga, Dresda e Lipsia, portata in giro dalla compagnia di Guardasoni, un impresario fra i più importanti. Nel 1792 l’opera è già a Berlino ma avendo subìto una prima modificazione. Solo nel 1794 ritorna a Vienna. Nei primi dell’Ottocento l’opera ebbe in tutto il territorio austriaco circa una cinquantina di riprese, che furono molte di più in Germania. Nel 1811 Così fan tutte fu a Parigi, dove ebbe grande successo, ma lo stesso anno a Londra non fu affatto apprezzata: evidentemente il pubblico era troppo prammatico per divertirsi con maliziosi giochi di seduzione. Nel 1807 arrivò a Milano ed ebbe un discreto successo, per poi passare a Napoli e a Torino, dove tuttavia non sappiamo come fu accolta. In alcune delle località che ho nominato l’opera venne rappresentata dapprima in traduzione tedesca, sia pure estremamente rispettosa del testo italiano. Ben presto cominciarono a comparire, soprattutto nei primi dell’Ottocento, alcune riedizioni totali che non solo intervenivano, per esempio, sulla collocazione delle varie arie e duetti, capovolgendo l’ordine della parte musicale, ma modificavano pesantemente la trama. Nel 1814, ad esempio, un certo Treitschke la trasforma in questo modo: per giustificare la grande confusione sentimentale e amorosa, Don Alfonso diviene un mago e Despina uno spirito dell’aria; risolve cioè la situazione, sull’onda del successo dell’opera fantastica dell’epoca, dando un tocco di magico e facendo rientrare l’opera nel filone di cui faceva parte Il flauto magico. Nel 1816 Kredel, un altro terribile revisore, capovolge addirittura il finale perché il notaio che sposa le coppie scambiate è un vero notaio, non già un impostore, per cui si ha un vero matrimonio. Un altro divertente escamotage è del 1820: non sono i fidanzati a scambiarsi i ruoli ma dei loro amici i quali, all’insaputa di Ferrando e Gugliel107 mo, decidono di giocare uno scherzo alle due donne corteggiandole. Il massimo, tuttavia, lo si raggiunge con tre autori, Liechtenstein, Arnold e Steiner. Siamo già nel 1831. I primi due autori fanno in modo che Despina riveli l’inganno, e ciò porta a un capovolgimento totale del senso dell’opera, perché sono le donne che prendono in giro gli uomini dando luogo a una contro-burla rispetto alla burla iniziale. La scommessa iniziale viene vanificata dal fatto che le ragazze, già al corrente di questo scherzo, fingono fino all’ultimo di credere che il proprio fidanzato sia l’altro, e così via. Steiner inventa una trama ancor più moraleggiante. Le ragazze infatti non scherzano più ma fingono per punire i fidanzati con un capovolgimento totale: non solo sanno dello scherzo, anzi ci stanno, ma con uno scopo morale, che è quello di punire l’immoralità dei fidanzati! La cosa interessante è che questo tipo di adattamenti, che peraltro stravolgevano il tessuto musicale (questo è inutile dirlo, perché cambiando la trama si era costretti a spostare la collocazione dei vari episodi), hanno un germe in comune con le trascrizioni, il germe dell’adattamento nella direzione di chi l’opera doveva recepire. In fin dei conti la trascrizione rimaneva per molti versi legata a questo principio: l’opera serve per un violino e si trascrive per violino, l’opera serve per un quartetto e si trascrive per un quartetto, l’opera serve per essere realizzata davanti a un certo tipo di pubblico e allora si sfoltiscono tutte le arie più drammatiche e si fanno dei tagli, l’opera serve per essere rappresentata in un teatro davanti a un pubblico benpensante e si modifica radicalmente la trama. Fa parte di quell’uso un po’ piratesco di cui parlavamo ieri, secondo il quale chiunque si sentiva in diritto di intervenire comunque fosse sul lavoro altrui. È incredibile che persino sulle versioni originali di Mozart alle volte si appuntavano le critiche di molti di questi «autori del lavoro di altri»; ci sono molti documenti in proposito. Addirittura alcuni di loro (questo è interessante e ne parleremo in seguito) arrivarono a giustificare i propri interventi affermando che la musica di Mozart fosse troppo, troppo bella! Ed essendo troppo bella sempre, non dava modo di fermarsi, di riflettere durante l’ascolto. Con queste premesse potete immaginare cosa accadesse nei teatri dell’epoca! Credo che a questo punto si possa passare al Don Giovanni, tornando indietro nel tempo perché quest’opera è precedente a Così fan tutte. PAOLA BERNARDI Naturalmente non parlerò delle problematiche del Don Giovanni, che è stato letto in tutte le chiavi: filologiche, religiose, psicologiche e psicanalitiche. Vorrei dire soltanto che, come vedete dal programma, abbiamo una trascrizione non firmata ma di cui conosciamo l’anno di realizzazione. Sul frontespizio leggiamo (naturalmente in traduzione): «Essendo tutti i brani di questo capolavoro tutti belli ugualmente, non c’è motivo di ometterne alcuno». La trascrizione del Don Giovanni è, infatti, assolutamente completa. Procedendo nella lettura: «Inoltre questi quartetti possono servire da accompagnamento agli amanti del canto al posto delle parti d’orchestra». Che significa? Che in queste riunioni era possibile anche la presenza di un cantante. Nelle parti della trascrizione, infatti, troviamo delle piccole note che a volte servono da guida alla parte del cantante, con alcuni suggerimenti di prassi esecutiva molto interessanti ad analizzarsi. La domanda che ora ci si pone è cosa facesse il cantante, visto che il canto passa quasi sempre al primo violino (ma anche agli altri strumenti). Evidentemente raddoppiava le parti aiutato dall’unisono con gli strumenti. Sul frontespizio compare anche un nome, Scheidler, e abbiamo cercato di sapere chi fosse. Il proprietario della partitura potrebbe essere un signore noto all’epoca poiché si interessava di acustica, tanto da aver proposto di fissare il la a quattrocentoquaranta hertz, ma non abbiamo certezza assoluta che effettivamente si tratti di lui. Così fan tutte e Don Giovanni, entrambi in due atti, sono indicati con la medesima dizione di dramma giocoso e sono firmati dallo stesso librettista, Lorenzo Da Ponte, ma sono due opere profondamente diverse. Mozart sfugge sempre al vincolo delle definizio108 ni. Il Don Giovanni comincia addirittura con una concitata scena drammatica che culmina nel duello del protagonista con il Commendatore e con l’uccisione di questi, con le famose otto battute che incorporano la settima diminuita, che ritorna nel corso dell’opera all’apparire della figura del Commendatore, e sulla quale sono stati scritti fiumi di parole. Ma usciti di scena la figlia del Commendatore, il suo promesso sposo e la mesta corte dei dolenti accompagnatori della salma, l’atmosfera si alleggerisce nell’assunzione della centralità della scena da parte della comica figura di Leporello. Ascolteremo l’aria famosa «Madamina, il catalogo è questo» (che segue l’episodio dell’incontro con Donna Elvira) e un’altra aria non drammatica, quella del duetto della seduzione di Zerlina da parte di Don Giovanni, « Là ci darem la mano», con la straordinaria rappresentazione della ritrosia e dell’accettazione da parte della donna che «vorrebbe e non vorrebbe»... C’è l’inserimento di elementi contrastanti che fa sempre sfuggire la collocazione dell’opera così come la definirebbe la sua qualificazione. (esempio audio: Mozart, Don Giovanni, atto I, scena I) Così si introduce Don Giovanni e già vengono i brividi, ma poco dopo… (esempio audio: Mozart, Don Giovanni, Aria di Leporello «Madamina, il catalogo è questo», atto I, scena V) La trascrizione è per quattro strumenti, che devono contemporaneamente far sentire il canto e l’accompagnamento; la difficoltà quartettistica comincia dunque a farsi sentire, perché è complesso suonare dovendo fare nello stesso istante da secondo e da primo violino. Nella trascrizione c’è questa doppia parte da dover fronteggiare ma il risultato è efficace. Sebbene ci sia ignoto il suo nome, possiamo dire che l’autore è un buon trascrittore. (esecuzione dal vivo: Don Giovanni, Aria di Leporello «Madamina, il catalogo è questo», atto I, scena V; trascrizione) (applausi) Avete sentito come la parte si snodava prima al violino poi al violoncello, e come insieme essi dovessero gestire la linea del canto e poi l’accompagnamento. Adesso ascolteremo «Là ci darem la mano» nell’originale. (esempio audio, Don Giovanni, Duetto Zerlina-Don Giovanni «Là ci darem la mano», atto I, scena IX) Il trascrittore si comporta in questo modo: la parte di Zerlina è affidata quasi per intero al primo violino, senza particolare impegno negli accompagnamenti; l’insinuante Don Giovanni è affidato alla viola, il cui timbro si insinua bene, perché non è né troppo basso né troppo corposo né troppo acuto, ecc.; gli altri strumenti seguono più o meno l’originale, come nel caso della parte del violoncello che risulta esattamente uguale confrontata con la partitura: si potrebbe andare all’opera e suonarla a memoria. Questo duetto si svolge soprattutto fra Zerlina, il violino, e Don Giovanni, la viola. (esecuzione dal vivo: Don Giovanni, Duetto Zerlina-Don Giovanni «Là ci darem la mano», atto I, scena IX; trascrizione) (applausi) Grazie. A Corrado De Bernart la parola sul Don Giovanni. 109 CORRADO NICOLA DE BERNART Mi sembra che il teatro musicale di Mozart possa essere consigliato come antidepressivo. Ha sempre un umorismo e una carica di positività, nel testo e nella musica, che è eccezionale. Ascoltando le sue opere è impressionante vedere come egli giochi di continuo con la musica per rendere fino in fondo il senso del testo letterario. Credo che questo sia stato forse il motivo determinante per il quale alcuni lavori teatrali siano sopravvissuti nel corso dei secoli, ed altri, che pure all’epoca ebbero grande successo, siano del tutto rimasti in ombra. Per rimanere sulle scene per secoli non basta la figura di Don Giovanni, la vittoria del bene sul male, il cattivo che brucia negli inferi. Serve che tutto ciò sia vivo. E Mozart, il Genio, riesce a rendere vivo ogni istante, ogni momento, ogni parola, ogni emozione, ogni passaggio. Consideriamo, per esempio, quest’ultima aria. A un certo punto in partitura compaiono dei pizzicati ma i pizzicati sono collocati solo a partire da quando, dopo le insinuanti profferte amorose di Don Giovanni e l’iniziale titubante reazione da parte della donna, si arriva al punto in cui i desideri di entrambi si combinano ed essi cantano in duetto: la scintilla è scoccata, sono divenuti complici. Solamente qui Mozart inserisce i pizzicati, per rendere il senso di leggerezza interiore dei due personaggi che hanno sciolto i loro dubbi, che si sono liberati dall’incertezza che accompagna la situazione. Ora si può finalmente librare la gaia leggerezza di questi staccati che accompagnano il nuovo, lieve e allegro quadro emotivo: Don Giovanni è felice della conquista e la donna è finalmente convinta dal suo corteggiamento. Questo rapporto strettissimo fra la parola e la musica è continuo, e lo spostamento di una sola nota comporterebbe una modifica totale di tutto l’effetto. Consideriamo l’aria n. 5, «Madamina, il catalogo è questo». Premetto che è usuale che ogni autore talvolta citi se stesso, utilizzando materiale precedentemente composto. Nel periodo immediatamente precedente a Mozart, per esempio, Haendel sfruttava tranquillamente vecchi lavori, adattandoli e inserendoli in nuovi contesti. Mozart va oltre. Egli riesce genialmente, con modifiche minime, a mutare completamente il senso musicale di molti passaggi. All’aria «Madamina, il catalogo è questo» fa immediatamente seguito un andante che viene cantato sempre da Leporello. Ve lo accenno. (esecuzione dal vivo: Mozart, Don Giovanni, «Nella bionda egli ha l’usanza», atto I, scena II) Questo è l’inciso che caratterizza l’entrata di Leporello. Adesso lo cambio di tonalità. (esecuzione dal vivo) Ho eseguito esattamente la stessa cosa ma l’ho trasportata. E adesso vi suono la stessa frase ma come Mozart l’aveva scritta anni prima in una delle sonate per pianoforte. (esecuzione dal vivo) Come avete sentito si tratta quasi esattamente della stessa cosa; cambia solo, di pochissimo, la parte finale. Nella sonata per fortepiano, più fiorita, si scende; nell’opera, invece più essenziale, si rimane su. Il contesto armonico e melodico è esattamente uguale, cambiano soltanto le chiusure delle frasi e la fioritura. Ma quale diversa sensazione emotiva riescono a suscitare i due passaggi! La musica di Mozart è musica in senso assoluto, non caratterizzata diversamente a seconda dello strumento per cui è scritta. Capita molto spesso di ascoltare interpretazioni di lavori pianistici di Mozart suonati in maniera squisitamente «tastieristica». Non dico che non si tratti di esecuzioni valide; spesso sono anzi in sé meravigliose. Eppure gli stessi brani, suonati con squisita intelligenza e sensibilità 110 da altri interpreti alla luce di un’idea «teatrale», assumono un carattere e uno spessore assolutamente differenti. Rendere una parte considerando il respiro melodico, arricchito da quelle microcesure che sono tipiche di una voce, invece che pensando alle caratteristiche della tastiera, significa darle vita. Se si introducesse nelle esecuzioni delle sonate per pianoforte la flessibilità naturale dell’emissione delle voci, poggiando certe note e dinamicizzandone altre, l’effetto sarebbe completamente diverso, peraltro paradossalmente più filologico perché più vicino alla prassi esecutiva di derivazione tardo-barocca. Da pianista, personalmente rifletto sempre molto su questo. In fin dei conti Mozart è estremamente attratto dal fortepiano ma non esiste tra la scrittura delle sue composizioni per tastiera e quella per altri strumenti o per il teatro alcun tipo di differenza. Un esempio stilisticamente opposto, più o meno intorno agli stessi anni, troviamo nelle musiche di Clementi, il quale scrive brani per fortepiano in una maniera tale da renderli non riproponibili su un altro strumento. Ma stiamo divagando troppo. Torniamo al Don Giovanni. Mozart è entusiasta perché Praga lo accoglie in maniera trionfale. L’opera ha grandissimo successo e si sprecano i consensi sui giornali: «Musicisti e intenditori sostengono che a Praga non si era mai visto nulla di simile. Grandi spese hanno richiesto i cori e gli scenari realizzati dal signor Guardasoni [lo stesso che poi porterà in giro l’opera]. Lo straordinario afflusso del pubblico testimonia il completo successo». A Vienna Giuseppe II, l’imperatore, venuto a conoscenza del trionfo, chiama Da Ponte (o, almeno, Da Ponte così afferma) e gli dice «Evviva Da Ponte, evviva Mozart! Tutti gli impresari, tutti i virtuosi devono benedirli. Finché essi vivranno non si saprà mai che sia miseria teatrale». In quella occasione regala cento zecchini a Da Ponte. Non ci risulta li abbia regalati anche a Mozart ma fece qualcosa di più per il compositore. Voleva a tutti i costi e al più presto vedere l’opera, ed essendo il teatro dalle capitale impegnato per una lunga stagione intervenne personalmente per agevolarne la rappresentazione. E qui successe l’incredibile, perché quando Don Giovanni fu rappresentato a Vienna il pubblico rimase perplesso. In questo caso fu intelligente Da Ponte, il quale insieme a Bondini, l’impresario, pensò che tutto sommato fosse solo una reazione iniziale. Si decise allora di incrementare le repliche, e in effetti la scelta fu risolutiva. Via via che le repliche si susseguirono, infatti, il consenso del pubblico crebbe. La critica fu straordinaria, e fu ancor più straordinaria in altre città, dove si scrisse: «Se mai un’opera è stata attesa, se mai una composizione di Mozart è stata portata alle stelle già prima della rappresentazione, ciò è accaduto con questo Don Giovanni»; «Se mai una nazione poteva andare orgogliosa di un suo figlio lo sia ora la Germania verso Mozart, l’autore di quest’opera». Incredibilmente non mancano però neanche le critiche: “Ciò provano uomini come Grétry, Monsigner, Philidor [uditorio alla moda e molto importante dell’epoca]. Con questo Don Giovanni Mozart ha voluto creare qualcosa di inaudito, di veramente grande, ma questo è certo, che se gli è riuscito di essere inaudito manca però la vera grandezza. Estro, bizzarria e orgoglio hanno creato il Don Giovanni, non però il cuore, e noi avremmo preferito ammirare la sua grande tecnica musicale in un Oratorio o in una solenne composizione da chiesa anziché in questo suo Don Giovanni”. Un’ultima nota per concludere il discorso sul Don Giovanni. È interessante vedere la fortuna di quest’opera rispetto a Così fan tutte. Nel 1787 è a Praga, nel 1788 a Vienna con quindici repliche. A Lipsia arriva nel 1788, nel 1789 è già a Magonza, Mannheim, Bonn e Francoforte. Nello stesso anno è ad Amburgo, Graz, Brno. Arriva anche a Varsavia, in italiano, mentre in altre città tedesche viene rappresentato in traduzione tedesca, questa volta fortunatamente senza strani rimescolamenti di trama, visto che il cattivo viene punito e, dunque, tutto è perfettamente in linea con la morale comune. Nel 1790 è a Budapest e a Berlino, nel 1791 a Monaco. Nel 1792 arriva a Brema e a Firenze, dove piacque molto. Nel 1793 ancora a Monaco, a Düsseldorf, Colonia, Aquisgrana, ecc. Andando avanti negli anni, arriva nei primissimi anni dell’Ottocento a Londra, e nel 1826 è la prima opera di Mozart rappresentata a New York. Per parlare di opera abbiamo dimenticato che questi 111 sono gli anni della Rivoluzione americana, che segneranno la nascita di una nuova nazione e di un nuovo mercato per la musica. Già ai primi dell’Ottocento negli Stati Uniti vi sono numerosi teatri, e la prima opera di Mozart che vi sarà rappresentata sarà appunto il Don Giovanni. Passiamo adesso al Flauto magico. PAOLA BERNARDI Solo due parole su quest’opera. Mozart scrive Il flauto magico prima di morire. La dirige lui stesso (la prima, si sa, è del settembre 1791). Piacque al pubblico dal punto di vista musicale ma non altrettanto per quanto riguardava l’allestimento scenico. Tutto il movimento in scena di personaggi vari fece dire che l’opera sembrava tornare indietro all’epoca barocca, e ci si chiese come Mozart avesse potuto mettere insieme una splendida musica con delle scene ormai datate. Per la parte drammatica e non certo per la musica Il flauto magico fu definita un’opera barocca. Noi siamo in possesso della trascrizione di Vent che risale all’anno successivo alla prima, precisamente al 1792. Di Vent si è ampiamente parlato lo scorso anno: fu un oboista che con termine moderno ricoprì l’incarico di «direttore artistico» della Harmoniemusik dell’imperatore, cioè di quel famoso gruppo di fiati (costituito da due oboi, due clarinetti, due fagotti e due corni) che era al servizio di Giuseppe II. Vent per venti anni ne curò i programmi, il lavoro di studio, l’organizzazione delle prove e, soprattutto, con una mano favolosa, realizzò una notevole serie di trascrizioni, non solo per fiati, e trascrisse molte opere italiane. L’aria che abbiamo scelto dal Flauto magico è quella famosa di Papageno «Son io l’uccellatore». Tutti ne ricordiamo le scalette del flautino, le cui acute notine nella trascrizione vengono naturalmente affidate al violino. Per il resto, sulla trascrizione non ci sono molte cose da dire. Vent dimostra buona mano anche nel trascrivere per archi. Ha però un difetto: taglia, come già notammo l’anno passato. Questa trascrizione, per esempio, non è completa, poiché mancano quattro battute all’inizio e la ripresa dell’aria. È probabile che questa abitudine derivi dalle brutte consuetudini tipicamente orchestrali di accorciare, ridurre, risparmiare tempo. Peraltro non vi era alcuna necessità di tagliare quelle quattro battute ma, fortunatamente, questo piccolo taglio non incide sull’aria. Vogliamo sentirla? (esempio audio: Mozart, Il flauto magico, Aria di Papageno «Son io l’uccellatore», atto I, scena II) Notate che il flautino si sente sempre lontano per scelta. Nella trascrizione, invece, il trascrittore vuole proprio che si senta forte la prima volta e poi piano, in eco. È una tradizione che viene dal Barocco. Ascoltiamo la trascrizione. Questa differenza tra l’originale in teatro e la trascrizione è usuale: alle volte i trascrittori aggiungono indicazioni di sonorità che non sono affatto previste dall’autore. (esecuzione dal vivo: Mozart, Il flauto magico, Aria di Papageno «Son io l’uccellatore», atto I, scena II; trascrizione Vent) (applausi) Devo dire che, dopo averla ascoltata ed esaminata, questa è forse l’aria più quartettistica che Mozart abbia scritto ed è interessante il disegno variato del violino. Credo che Corrado De Bernart ne voglia parlare. So che alcuni colleghi dovranno lasciarci per una prova. Voglio ringraziarli nella speranza che questa collaborazione possa continuare. Grazie tante e auguri di buone feste. (applausi) 112 CORRADO NICOLA DE BERNART Il flauto magico con il tempo esplose come una meteora. Abbiamo letto ieri qualche notizia a riguardo: incontrò un successo strepitoso nonostante il fatto che fosse stato allestito in un piccolo teatro, dove i mezzi scenici, il corpo di canto e i musicisti dell’orchestra non erano all’altezza di quelli cui Mozart era abituato. Per lui si trattava di un momento molto delicato e difficile: i problemi economici erano ormai seri e non gli riusciva di ottenere in alcun modo nuove commissioni. Quando gli giunse la proposta da parte dell’impresario che gestiva questo teatro minore Mozart accettò immediatamente e scrisse questa opera meravigliosa sapendo già che sarebbe andata in scena in un luogo frequentato da un pubblico molto alla buona, più che altro formato da borghesi; non si trattava certo del miglior pubblico possibile. Paradossalmente, proprio da questi spettatori meno raffinati e meno colti giunse un plauso strepitoso. Costanza rivela entusiasta quello che vede avvenire e scrive al marito: «Ciò che però più di tutto mi fa piacere è l’applauso silenzioso. Si vede ogni giorno di più come quest’opera sale». Percepisce come l’intera società viennese sia completamente rapita dalla bellezza di questa opera. Lo stesso Mozart scrive: «Benché il sabato sia sempre un giorno cattivo, perché è giorno di posta, l’opera è stata data a teatro pieno con i soliti applausi e richieste di bis. Domani si replica ancora e lunedì si fa pausa». Seguono altre notizie sulla grande quantità di pubblico. Una sera Mozart va a prendere in carrozza Salieri e la Cavalieri. Sappiamo degli attriti fra Mozart e Salieri. Quando Mozart scrive Così fan tutte accenna in una sua lettera al fatto che aveva avuto dei problemi con Salieri ormai risolti (non sappiamo assolutamente però di che si sia trattato). Altre volte il rapporto tra i due ebbe momenti difficili. Non così il rapporto tra Mozart e Haydn, il quale, invitato a sentire in prima assoluta una rappresentazione a porte chiuse di Così fan tutte, se ne era dichiarato entusiasta. Haydn arrivò a dichiarare di aver smesso di scrivere musica per il teatro dopo aver sentito quella di Mozart. Ma torniamo a Mozart che va a prendere Salieri e la Cavalieri per condurli a teatro. Parlando di ciò che questi due personaggi dissero: Hanno detto ambedue che l’opera è degna di essere eseguita nelle più grandi occasioni e davanti ai più grandi monarchi. Essi stessi sarebbero andati più volte a rivederla, giacché non avevano mai assistito a uno spettacolo più bello e gradevole. Lui [si riferisce evidentemente all’eminenza grigia Salieri] ha ascoltato e guardato con grande attenzione, e dalla sinfonia al coro finale non c’è pezzo che egli non commentasse con un bravo! bello! Non la finivano più di ringraziarmi per il favore che gli avevo fatto. Tutto ciò nonostante il corpo dei cantanti non fosse un granché, le scene apparissero rabberciate e il teatro modesto. Il successo del Flauto magico fu incredibile, tant’è che tra le opere di Mozart fu la più rappresentata in tutti i teatri principali: nella sola Vienna si raggiunse un numero tale di repliche (150-200 nel giro di un paio di anni) che anche altri teatri decisero di metterla in scena. Per un certo periodo vi fu una sorta di competizione fra due compagnie che la eseguivano in due teatri distinti. Sembrava di essere tornati ai grandi duelli tra soprani e castrati sui palcoscenici dei teatri londinesi, al suono di mirabolanti ornamentazioni e fioriture. A Vienna tuttavia a riempire i teatri non era la bravura dei solisti ma quella dell’autore. L’opera è del 1791 ma già nel 1794 è rappresentata in tutti i principali teatri d’Europa, anche a Weimar e a Berlino. Della rappresentazione di Berlino abbiamo una testimonianza di entusiasmo molto importante, quella di Katharina Elisabeth Textor, madre di Goethe. Goethe stesso rimase infatuato da questo lavoro al punto che scrisse una prosecuzione della trama, una specie di «Flauto magico parte II», per usare una definizione moderna, che nessuno gli musicò mai. Goethe assiste a queste rappresentazioni berlinesi varie volte e scrive: Nulla di nuovo salvo che Il flauto magico è stato dato diciotto volte a teatro sempre pieno. Tutti vogliono averlo visto, artigiani, giardinieri e perfino quelli di Sachsenhausen, i cui figli partecipano allo spettacolo travestiti da scimmie e da leoni. Cose mai viste. Il teatro 113 deve aprire ogni volta alle quattro. Malgrado ciò c’è sempre qualche centinaio di persone che non riescono ad entrare. Ne hanno fatti di quattrini. Il re, l’ultima volta che è stato qui, ha pagato per le tre volte che ha occupato il solo piccolo palco di Wiener. Evidentemente vi era così tanta gente che anche il monarca doveva accontentarsi di un piccolo spazio, e aveva pagato queste tre presenze alle rappresentazioni cento talleri. La madre di Goethe assiste a un’altra replica del Flauto magico e scrive: «La settimana scorsa Il flauto magico è stato dato per la ventiquattresima volta a teatro strapieno e ha già incassato circa 22.000 fiorini»; una somma molto consistente, se si pensa che Mozart era stato pagato circa 200 fiorini per la commissione di Così fan tutte: anche in questo caso l’autore è stato il poveraccio della situazione! Prosegue poi scrivendo a un destinatario che era in un’altra città dove l’opera andava in scena: «Sono brave le vostre scimmie come da noi quelle di Sachsenhausen?». Stesso successo ebbe anche in altre nazioni. Oltre alle varie rappresentazioni che già alla fine del Settecento vi furono in tutte le grandi città tedesche, l’opera arrivò subito a Parigi e a Londra, all’epoca le più importanti capitali europee nonché le città con i teatri più prestigiosi. Divertente è notare che, ancora una volta, la diversità di pubblico comportò qualche problema. A parte la necessità di tradurre il testo del libretto, è molto significativo quello che successe a Parigi nel 1801. Il clima dell’opera fantastica, della Zauberoper tedesca, era parzialmente estraneo alla mentalità dei teatri francesi. Un certo signore si incarica allora di riadattare l’opera al teatro francese. Anche in questo caso assistiamo a stravolgimenti spaventosi. Costui toglie qualunque tipo di magia alla figura di Papageno e snatura così profondamente il personaggio da renderlo irriconoscibile. Da una sorta di satiro campestre quale era, il Papageno mozartiano viene trasformato in un pastore saggio, molto posato, concreto e serio. Gli viene cambiato anche il nome, poverino! Per concludere, un’ultima informazione sui teatri. Esistevano sale importanti e prestigiose che disponevano di fondi consistenti, buone sovvenzioni e alti incassi di botteghino, ma esistevano anche teatri molto meno importanti, dove ci si arrabattava in ogni modo. Buona parte del repertorio del teatro d’opera circolava grazie all’attività di compagnie girovaghe; alcune tra esse erano di alto livello come quella di Guardasoni, altre, molto più scalcinate, improvvisavano come potevano e con i mezzi che avevano. Voglio leggervi qualche riga da Goethe perché penso che ciò possa dare un’idea molto veritiera di quel che accadeva all’epoca. Il lavoro da cui traggo queste righe si intitola Wilhelm Meister ed è sottotitolato La vocazione teatrale. È un libro che narra le vicissitudini di un grande appassionato di teatro che abbandona la famiglia e il lavoro da impiegato, cui era costretto per motivi di cliché familiari, e si dedica a quella che egli sente come sua vocazione: il teatro. Scrive egli stesso dei drammi e, quasi per caso, diventa un protagonista della vita teatrale tedesca di provincia, entrando a far parte di una compagnia di attori girovaghi. Il libro è del 1785, dunque lo spaccato che ci propone è relativo allo stesso periodo cui appartengono le opere di Mozart. E se pure fa riferimento al solo teatro di prosa, riserva però alcune interessanti sorprese. Si scopre, per esempio, che nel repertorio drammatico dell’epoca la presenza della musica era costante e determinante. Lo stesso Wilhelm Meister, autore di drammi, si sobbarca all’organizzazione degli spettacoli, mettendo a disposizione i fondi necessari: Di scenari decenti adatti alla tragedia ve ne erano ben pochi [si riciclavano gli stessi scenari per risparmiare denaro], e benché fossero previsti solo alcuni cambiamenti di scena si dovette provvedere anche a quelle. Naturalmente anche questo peso ricadde sulle spalle del buon poeta [Guglielmo]. Questi dovette sobbarcarsi alle spese per stoffe e sete, tele e colori, sarti e pittori, e si contentò della promessa, finora a dire il vero poco redditizia, che lo si sarebbe rimborsato subito dopo quegli incassi che si sperava di fare. Nel frattempo il materiale da acquistare si sarebbe aggiunto ad altri oggetti già impegnati a suo favore. Intanto le spese andavano sempre più aumentando, e perfino i soliti musicisti erano stati considerati indegni di tanta festa, e gli strumentisti del reggimento ottennero il permesso di prendere il loro posto dietro un ricco compenso. 114 Mi interessava leggervi questa parte perché l’anno scorso, a proposito della musique d’harmonie, abbiamo parlato del ruolo importantissimo dei musicisti militari, quasi sempre strumentisti a fiato, per la nascita e la diffusione del repertorio per ottetto di fiati. È interessante notare quanto il mondo teatrale e il mondo musicale all’epoca si fondessero. Notiamo la presenza di un’orchestra con un ruolo abbastanza importante se, addirittura, per evitare che la serata decadesse di livello, si chiamavano musicisti migliori rispetto a quelli che solitamente si esibivano in quel piccolo teatro. Che cosa suonavano questi musicisti? Goethe scrive qualcosa in proposito. Siamo alle prove: Si era fatta venire anche l’orchestra. Da varie ouverture furono scelti pezzi splendidi e solenni da suonare negli intervalli. La prova incominciò e Guglielmo… Dunque, venivano impiegate musiche operistiche all’inizio e come intermezzi strumentali fra i vari atti dei lavori di prosa. Questo è un veicolo di diffusione dell’opera estremamente importante; e ovviamente si trattava di trascrizioni, non con l’organico originale, perché certo i musicisti del reggimento non potevano essere trenta orchestrali con violini, viole, violoncelli, oboi, fagotti, e così via. Anche la madre di Goethe scrive qualcosa di interessante: Gli spettacoli erano in serata. Le ore passavano veloci, e già verso le quattro gli spettatori più sfaccendati si assicurarono i posti migliori. Verso le cinque la sala era abbastanza piena all’infuori dei palchi prenotati. L’orchestra era arrivata… Peraltro, quando l’afflusso di pubblico era superiore al previsto, si faceva un giochino un po’ disonesto (successe anche in occasione della rappresentazione di alcuni lavori di Mozart): si stampavano immediatamente dei biglietti in sovrappiù e si continuava a far accedere il pubblico nelle sale ormai strapiene. E finalmente lo spettacolo: l’orchestra attacca la sinfonia del dramma e lo spirito di Guglielmo finalmente si accende. Dato il grande ritardo, arriva il messo dagli attori che dice: Ma che fate? Il pubblico si sta scatenando, la platea chiede a gran voce il dramma battendo i piedi e urlando. Nelle gallerie strapiene succede il putiferio. Parte del pubblico vuole riavere il denaro, gli spettatori nei palchi minacciano di chiamare le carrozze, e intanto l’orchestra fa quello che può, e suona quello che può, cercando di calmare per un poco la tempesta. La musica, quindi, viene usata in funzione di intrattenimento nell’attesa che finalmente lo spettacolo abbia luogo. Vi chiedo ancora un attimo di pazienza. Devo leggervi un brano un po’ più lungo ma gustoso, che si riferisce a quanto a volte poteva accadere a queste piccole compagnie di giro, sia che facessero teatro sia che facessero l’opera. A un certo punto qualcosa va storto. Il primo giorno recita Guglielmo, che è anche un bravissimo attore sia pur non professionista, ed ha un successo travolgente. Il secondo giorno, però, Guglielmo non recita e viene sostituito dall’attore anziano della compagnia, un certo signor Bendel, il quale aveva tuttavia alcuni problemi di cui adesso vi leggerò: Non appena gli spettatori lo videro, il loro malumore riprese il sopravvento [già nel primo atto questo signor Bendel non aveva recitato troppo bene]. Egli doveva descrivere in modo patetico l’orgia sfrenata del banchetto. Purtroppo è incapace di pronunciare alcuni versi di questo brano e scambia la lettera erre con la lettera elle, il che già alle prove ci aveva fatto tanto ridere. Come costretto dal suo cattivo genio, in questi punti si fermava sempre e proprio nel momento in cui credeva di evitare l’errore. Sembrava che facesse apposta a metterlo in mostra dinanzi al pubblico. Si udirono grandi risate. Egli alzò ancor più il tono della voce e pestò incominciando a balbettare e a impappinarsi. Il battere dei piedi, i fischi, i sibili, i battimani, le grida di bravo divennero generali. Il fiele e il veleno che gli bollivano dentro traboccarono. Dimenticò chi era e dov’era, si avanzò fino alle luci del proscenio, e lì si mise a urlare e a inveire contro il comportamento del pubblico, sfidando chiunque osasse dimostrargli una tale impertinenza. Non aveva finito di parlare che si vide volare un’arancia e colpirlo in pieno petto con tale forza da farlo indietreggiare di alcuni passi. Subito ne volò un altra, e mentre si chinava a raccoglierla ecco una mela 115 schiacciargli il naso, tanto da avere il viso inondato da un fiotto di sangue. Fuori di sé dalla rabbia afferrò la mela e la scagliò in platea. Doveva aver colpito qualcuno in malo modo, perché immediatamente si scatenò una rivolta in tutto il teatro. Un ragazzo che vendeva paste e panini venne lì per lì letteralmente saccheggiato e l’oggetto dell’odio generale ricoperto di pasticcini. Si vide volare perfino una vecchia tabacchiera che andò in pezzi urtando contro un elmo e gli riempì gli occhi e la bocca di una nuvola di tabacco. Bendel pestava i piedi, sbavava, starnutiva, sputacchiava, e gli attori erano fuggiti tutti dietro le quinte. Lui solo si ostinava a rimanere sfidando le ire del pubblico suscitando la generale ilarità, e quasi si sarebbe accorto troppo tardi del pericolo che lo minacciava. Numerosi spettatori armati di bastoni facevano irruzione nell’orchestra per salire sul palcoscenico [nessun golfo mistico all’epoca poteva proteggerlo. L’orchestra era più in basso rispetto al palco ma comunque al livello del pavimento del teatro]. La direttrice fece abbassare il sipario all’improvviso, per cui alcuni spettatori rimasero incastrati, altri tagliati fuori almeno per il momento, e intanto la signora faceva uscire dalla porta di servizio il suo favorito [cioè Bendel] che si era gettato addosso un mantello nero per camuffarsi. Molti spettatori spaventati dal tumulto fuggirono anche loro e, essendo sbarrate le porte, la maggior parte del pubblico che si trovava in platea irruppe sul palcoscenico. Fecero a pezzi il sipario, tagliarono le corde in modo di far cadere le scene, calpestarono e squassarono tutto ciò che trovavano sul loro cammino in mezzo al parapiglia generale e a grida assordanti che coprivano le esortazioni della direttrice accrescendo il nostro spavento. Ciò nonostante nessuno di noi rimase ferito. I più ragionevoli ci compiangevano e tentarono di aiutarci in mezzo al tumulto. Gli scalmanati perlustrarono l’intero edificio cercando l’oggetto della loro vendetta e presto fummo minacciati da una completa rovina. Infatti il popolino che era ammassato all’esterno aveva invaso il teatro. È gente che non frequenta i teatri perché costano denaro, li considera un’invenzione del diavolo [e questo fu per l’opera lirica per molto tempo] e crede che le compagnie di attori attirino, come per una forza magnetica, calamità, incendi e malattie. Con sacro zelo, acuito ancor di più dalla prospettiva di un ricco bottino, alcuni cominciarono ad abbattere le assi delle pareti, altri, prima che lo si potesse impedire, salirono sul tetto e presero a scoperchiarlo. Non avendo il coraggio di avventurarci per strada assistevamo di persona alla nostra rovina. E finalmente la salvezza. Già da un pezzo avevamo fatto chiamare le guardie… E finalmente arriva un ufficiale che prende questi attori sotto la sua protezione e li porta alla locanda. Seguirà tuttavia anche un tentativo di prendere a sacco la locanda ma non vi annoio ulteriormente. Le compagnie d’opera sperimentavano situazioni simili: non solo il lavoro poteva non piacere (e quindi niente pubblico e niente incassi) ma c’era anche il rischio che per un nonnulla il pubblico si scatenasse. È interessante quel che Goethe scrive sulla presunta immoralità del teatro (e quindi dell’opera) nella concezione mentale di vaste fasce sociali. L’opera ebbe per lungo tempo molti nemici anche di spicco. Mozart ne pagò lo scotto in varie occasioni, e abbiamo visto le modifiche apportate al Così fan tutte per rendere più accettabile al pubblico benpensante una trama intrigante. (applausi) PAOLA BERNARDI Grazie per questo bellissimo discorso. Credo che il nostro presidente voglia dire qualcosa: è stato particolarmente silenzioso, il che mi preoccupa! CARLO MARINELLI Vorrei dire innanzitutto che ho ammirato enormemente lo stile assunto da questo Laboratorio grazie ai due protagonisti: Paola Bernardi in primo luogo, che lo ha inventato e portato avanti ormai da otto anni, e Corrado De Bernart, che ne è stato il braccio destro, se non dal primo giorno dal secondo al più tardi. Sono riusciti a realizzare uno stile colloquiale piacevole, per cui sembra di essere in un salotto, e nello stesso tempo ci arricchiscono di molte informazioni, riferite con una semplicità e con una grazia che dispongono al meglio chi deve recepirle. Personalmente ho passato due piacevolissime serate in compagnia di piacevoli persone. 116 PAOLA BERNARDI Come avveniva allora! CARLO MARINELLI Proprio come avveniva allora! È il successo più grande che si possa ottenere dal rapporto con un pubblico, sebbene questo sia un pubblico molto selezionato, educato e preparato. Questo è il mio apprezzamento come responsabile dell’Istituto. A questo punto vorrei chiedervi una cosa e poi dirne un’altra. La domanda è la seguente: ci sono i finali in queste trascrizioni? Ci sono per intero? PAOLA BERNARDI Per quanto riguarda il quartetto del Don Giovanni sì. CARLO MARINELLI Sono trattati in modo diverso? I finali mozartiani sono giganteschi, talvolta durano anche quaranta o cinquanta minuti, con una serie di variazioni straordinarie; variano di sezione in sezione, se vogliamo dire di scena in scena (a volte la sezione corrisponde alla scena, nel senso che entra un nuovo personaggio), ci sono cambiamenti di tempo, di indicazione, di movimento, di organico strumentale. Il finale, quindi, procede sempre più ricco di oggetti, perché alla fine ci sono tutti i personaggi insieme, con un respiro straordinariamente ampio che non è decisamente facile riprodurre in una trascrizione. Il problema chiave della trasmissione dell’opera al di fuori del contesto teatrale è quello di vedere se il trattamento dei finali resta simile. Nel caso di un’aria, di un duetto, di un terzetto, ci troviamo sempre di fronte a una linea melodica ben precisata e quindi facilmente riproducibile, e quindi facilmente trasmissibile. Per i finali il discorso è molto più complesso. PAOLA BERNARDI Posso rispondere con certezza per quanto riguarda il Così fan tutte. I due finali dell’atto primo e dell’atto secondo esistono sia in quartetto sia in quintetto. Non li ho esaminati poiché implicherebbero un seminario apposito. Anche per il Don Giovanni esistono perché la trascrizione è completa. Si potrebbe dedicare un prossimo seminario a questo argomento. CARLO MARINELLI Quel che penso è questo: probabilmente un finale è difficile da memorizzare come motivo ma deve essere molto divertente da suonare proprio per questo suo continuo variare, questo suo continuo arricchirsi; si potrebbe allora pensare come un qualcosa scritto per i dilettanti che suonavano più che per quelli che ascoltavano. Ora vorrei divertirmi raccontandovi un aneddoto. Ha detto giustamente Paola Bernardi che del Don Giovanni sono state date tutte le interpretazioni possibili. All’università feci un corso sul Don Giovanni in musica, partendo da un’opera del Seicento di Melani di cui dà notizia Pirrotta in un suo libro. Pirrotta si ferma a Mozart mentre io sono andato oltre. Ma non è questo che è interessante. Non c’è mai stata una interpretazione marxista del Don Giovanni e una volta a Bologna, città notoriamente aperta al marxismo, mi sono divertito a tentare di farla. L’interpretazione era di questo tipo. Pensiamo che la classe rivoluzionaria dell’epoca è la classe borghese. I personaggi borghesi dell’opera sono Donna Elvira e Leporello. Leporello è il doppio borghese di Don Giovanni, e infatti nel secondo atto Donna Elvira va volentieri a spasso con Leporello, Don Giovanni borghese, perché lo riconosce consono a se stessa. Se questi sono i personaggi rivoluzionari, quindi i personaggi positivi, chi sono i personaggi negativi? Qual è il tentativo? Il proletariato contadino, che ancora non esiste, tenta di allearsi 117 con l’aristocrazia per contrastare il tentativo della borghesia di impadronirsi del potere per elevare le proprie condizioni. L’aristocrazia ci sta per difendere le proprie condizioni di classe dominante. Leporello, membro della classe borghese, che come sappiamo è prude, non accetta il libertinaggio di Don Giovanni e tanto meno accetta che, oltre a essere libertino, tenti anche di allearsi con la classe contadina a suo danno attraverso il connubio Don Giovanni-Zerlina. E allora cosa fa? Condanna Don Giovanni e chiede l’intervento dall’alto (che può essere anche l’intervento di un’autorità, non necessariamente quello divino), un’autorità superiore che lo elimini perché non dia più fastidio e non possa più allearsi con la classe contadina, lasciando così libero il campo alla borghesia; borghesia che, per la parte prude incarnata da Donna Elvira, si rinchiude in convento perché è rimasta vedova e non ha altre prospettive, e per la parte che è invece quella approfittatrice, Leporello, consiglia sempre a Don Giovanni di essere ipocrita, di mettersi a posto: fai pure ma non lo dire; fai pure quello che ti pare ma non assumere questi atteggiamenti di sfida, non ti conviene; cerca di startene nascosto così puoi fare meglio gli affari tuoi; e alla fine «si cerca un padron migliore», cioè cerca di sfruttare bene le cose. Ma non dimenticate che siamo nel 1788, l’anno che precede la Rivoluzione francese. Certamente non c’era in Mozart e in Da Ponte un’intenzione di questo genere. I tempi erano quelli che erano. Questo potrebbe spiegare lo scarso successo del Flauto magico: proprio perché c’era stata la Rivoluzione un’opera di carattere così magico, illuministico (Sarastro è il classico sovrano illuministico che accarezza i bambini, che fa buone leggi, forse Giuseppe II) poteva probabilmente piacere a Napoleone ma piaceva sicuramente poco a tutti gli aristocratici e conservatori. A parte il gioco dell’interpretazione marxista del Don Giovanni, che vi prego di non prendere sul serio perché richiederebbe ben altro che questa mia improvvisazione, quel che di sostanziale vorrei dire è che siamo arrivati a un punto di svolta cruciale, perché sta per aprirsi il sipario sull’Ottocento. L’Ottocento ci presenterà come mezzi di diffusione al di fuori del contesto teatrale praticamente tutto: abbiamo trascrizioni per pianoforte, per pianoforte a quattro mani, per due pianoforti a otto mani, per pianoforte a sedici mani; abbiamo trascrizioni per flauto solo, per flauto e altri strumenti, per clarinetto solo, per pianoforte e altri strumenti, per quartetto d’archi, per organo, trascrizioni tra le più importanti che esistano per la diffusione dell’opera al di fuori del contesto teatrale. Quasi nessuno sa che venivano eseguiti in chiesa al posto di brani sacri durante la messa dei pezzi d’opera: l’abitudine di far eseguire durante le nozze l’Ave Maria di Gounod, che può essere considerata quasi come un’aria d’opera, nasce proprio dal fatto che nelle chiese si eseguivano pezzi di teatro. Verdi ha imparato a suonare e ha sentito i suoi primi pezzi di teatro suonando sull’organo della chiesa del suo paese pezzi d’opera, non pezzi sacri. L’organo è uno dei mezzi più importanti di diffusione dell’opera; ci sono poi le bande e una serie di complessi fra i più strani: se non mi sbaglio, uno fra questi era composto da flauto, viola e violoncello, un complesso a tre strumenti con trascrizioni da Bellini. E ci sono musicisti che si dedicano quasi esclusivamente a questo mestiere; non solo musicisti anonimi e minori ma anche grandi musicisti, quali Mercadante, il quale ha scritto tutta una serie di trascrizioni di pezzi d’opera per flauto. E così via continuando. Tralasciamo l’aspetto virtuosistico, poiché si riaprirebbe il doppio canale che si era già intravisto nel Settecento: da una parte ci sono le trascrizioni d’uso, semplici e per tutti, e dall’altra ci sono le trascrizioni di bravura, da Moscheles a Chopin, che scrive delle variazioni su «Là ci darem la mano». Arriviamo agli inizi del Novecento e la situazione cambia completamente. È infatti nato il disco, la riproduzione su mezzo meccanico. A questo punto la trascrizione non avrà più ragione di esistere e rimarrà legata solo allo specifico interesse del compositore, il quale trascrive un brano perché gli interessa e vuole lavorarci sopra. Credo sia il caso di dire che questo ci porta a cambiare la cadenza dei Laboratori aperti da annuale in biennale, per ricercare e preparare il materiale tempestiva118 mente e anticipare rispetto a questi giorni natalizi l’effettuazione del Laboratorio aperto, che è una tappa, non la conclusione del lavoro. La conclusione è invece segnata dalla pubblicazione dei volumetti, che richiedono ancor più tempo. Cercheremo quindi di spostare questa iniziativa a ottobre. Per finire, non mi resta che ribadire il mio entusiasmo per il modo con cui avete condotto la ricerca fino a questo punto, acquisendo uno stile di presentazione estremamente piacevole, caldo, cordiale; e questo indipendentemente dai risultati che raggiungete, che pure ci sono e di cui vi siamo grati. (applausi) PAOLA BERNARDI Grazie al presidente. Ringrazio tanto anche il pubblico per la partecipazione. A tutti un augurio e un arrivederci. 119 RICERCA SUI MODI DI DIFFUSIONE DELL’OPERA E DEL BALLETTO AL DI FUORI DEL CONTESTO TEATRALE OTTAVO LABORATORIO APERTO di Paola Bernardi con la collaborazione di Corrado Nicola De Bernart e Paolo Ravaglia LE TRASCRIZIONI PER STRUMENTI A FIATO DA OPERE DI BEETHOVEN, WEBER E ROSSINI Roma 2 e 3 dicembre 1996 lunedì 2 dicembre 1996 ore 16.30 IL LUOGO DELLA MUSICA via de’ Delfini 20 CARLO MARINELLI Benvenuti all’ottavo appuntamento con i nostri Laboratori aperti, da anni impegnati nella ricerca sui modi di diffusione dell’opera e del balletto al di fuori del contesto teatrale. A mio parere, dagli esiti della ricerca che quest’oggi verranno riportati emergerà qualcosa di molto importante che è mia intenzione, ora, sottolineare ma che senz’altro verrà meglio chiarito e argomentato dai relatori che prenderanno la parola subito dopo di me. Questo «qualcosa» consiste in una sostanziale conferma dell’ipotesi formulata al principio di tale ricerca: i modi di diffusione dell’opera e del balletto al di fuori del contesto teatrale seguiti nei secoli passati mostrano con sufficiente chiarezza che sono prodromi di quanto è poi avvenuto nel nostro secolo con l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa e presentano con questi delle analogie fortissime. Il fatto che il cambiamento tecnologico non abbia sostanzialmente innovato i modi di procedere, pertanto, è una tesi che possiamo cominciare a considerare più che attendibile. Questo risultato è motivo di nuova soddisfazione per noi, perché dimostra come ci sia continuità non solo nella storia della musica ma anche nella storia della sua diffusione tra la gente. Per questo, vorrei ora ringraziare gli studiosi che hanno reso possibile tale risultato per tutto quello che fanno e che faranno in futuro. Grazie, dunque, e buon lavoro! PAOLA BERNARDI Grazie al professor Marinelli. Nel 1987 abbiamo dato inizio a questo lavoro sulla ricerca sui modi di diffusione dell’opera e del balletto al di fuori del contesto teatrale; una ricerca promossa dall’I.R.TE.M., l’Istituto di Ricerca per il Teatro Musicale. Ogni anno, nel mese di dicembre, come ben sa chi ci ha seguito in tutto questo tempo, ci riuniamo ed esaminiamo tutte le trascrizioni per i più svariati organici che man mano vengono sottoposte alla nostra attenzione; laddove il mezzo di diffusione del teatro d’opera non poteva essere la ripresa dell’opera stessa, e questo per una serie di motivi di natura storica, sociale, economica, l’unico mezzo di diffusione dell’opera era la trascrizione. Una trascrizione presenta molte particolarità al suo interno, secondo il periodo e il luogo in cui viene prodotta e secondo il pubblico a cui si rivolge. Tutte queste differenze fanno sì che le trascrizioni siano realizzate con modalità specifiche e per i più svariati organici. Un esempio concreto meglio chiarisce questo concetto. Le trascrizioni nascono alla fine del Seicento alla corte di Luigi XIV. Chi è il trascrittore? Il clavicembalista di corte, D’Anglebert. Per chi si trascrivono le opere di Lulli? Per le famiglie nobili, in particolare per le signorine aristocratiche che praticavano la musica tra le pareti domestiche. Qual è lo strumento? Il clavicembalo. Ebbene, le risposte alle domande che ci siamo posti comportano una serie di specificità che definiscono un tipo di società. Nel corso delle nostre ricerche, ci siamo soffermati per due anni sulle opere di Lulli: abbiamo preso in esame l’Armida, il Teseo, l’Atys e il Phæton, tutte opere trascritte da D’Anglebert. Questi due anni di ricerche hanno portato anche alla pubblicazione del n. 9 dei «Quaderni dell’I.R.TE.M.», poiché è nostra abitudine «coagulare» in un volume i risultati da noi conseguiti. Il n. 9 dei «Quaderni dell’I.R.TE.M.» documenta appunto la nostra ricerca di due anni sulle musiche di Lulli, sulla corte di Luigi XIV e sulle trascrizioni di D’Anglebert, che era il clavicembalista della corte stessa. Successivamente, l’area della nostra indagine si è spostata in Inghilterra. Negli anni 1989, 1990 e 1991 abbiamo studiato le trascrizioni da opere di Haendel. Per la maggior parte queste opere vedono la luce a Londra, che è la capitale musicale dell’epoca. Haendel opera nella società in cui fiorisce il mondo mercantile. La musica, pertanto, comincia a essere eseguita nei collegi, nei teatri, nelle case dei ricchi mercanti borghesi. Al «nobile» clavicembalo, ormai insufficiente anche fonicamente, si comincia ad affiancare per primo il flauto; e, infatti, quasi tutte le opere di Haendel 125 sono state trascritte per flauto. Successivamente, al clavicembalo si affianca anche il violino, quindi il violoncello, e si cominciano così a formare piccoli gruppi da camera che talvolta comprendono anche la voce: esiste un’ampia documentazione che attesta che, fino alla fine del Settecento, nei salotti londinesi si cantavano le arie trascritte con l’accompagnamento del clavicembalo. A questo riguardo, eminente testimone del fenomeno è Domenico Corri, un insegnante italiano di canto trapiantato a Londra. Tre anni di lavoro su Haendel hanno portato alla pubblicazione del n. 15 dei «Quaderni dell’I.R.TE.M.». Negli anni 1992 e 1993 si è nuovamente spostata l’area geografica del nostro interesse. Nella seconda metà del Settecento fioriscono, sia in Austria sia in Boemia, piccoli gruppi di fiati chiamati Harmoniemusik o musique d’harmonie (che, da questo momento in poi, spesso chiameremo per comodità semplicemente Harmonie). I musicisti che compongono queste formazioni sono le prime parti delle orchestre delle varie corti. Riuniti in piccoli gruppi di fiati di sei, sette o otto elementi, essi cominciano a divulgare l’opera non più solamente all’interno dei palazzi ma anche all’esterno. Vorrei riportarvi in proposito una bella testimonianza del fenomeno della musique d’harmonie risalente al 1754. In un almanacco del Teatro di Vienna leggiamo: I mesi d’estate, con il bel tempo, è uno spettacolo di quasi tutti i giorni incontrare in strada piccoli gruppi di musicisti, a qualsiasi ora del giorno e della notte, a volte persino dopo l’una. Questi piccoli gruppi non sono formati, come in Italia, da un cantante accompagnato da una chitarra; sono quintetti, sestetti di fiati, a volte ottoni e legni di un’orchestra. È proprio in quest’occasione che si avverte quanto la passione per la musica sia viva: i musicisti sono attorniati da curiosi che applaudono, che chiedono bis, e non se ne vanno finché la musica non è finita, accompagnando a dozzine i musicisti perfino in altri quartieri della città. Questo passo dimostra come la divulgazione dell’opera si cominci a espandere; come, dall’interno dei palazzi aristocratici, esca all’esterno, nelle piazze. Su questo periodo ci siamo soffermati due anni, puntando la nostra attenzione più che altro sulle trascrizioni delle opere di Mozart. Tuttavia non abbiamo trascurato le opere precedenti, le opere contemporanee e quelle seguenti, per esempio quelle di Grétry, Martín y Soler, Gluck e, fra gli italiani, di Galuppi e Paisiello. Leggiamo a questo punto una testimonianza di Mozart stesso, che il 20 luglio 1782 scrive al padre: ... e ora ho non poco lavoro. Per domenica devo strumentare la mia opera, prima che venga un altro prima di me e abbia lui il profitto anzi che io. E ora devo comporre anche la nuova sinfonia. Come sarà possibile? Non puoi immaginare quanto sia difficile strumentare una cosa simile per gli strumenti a fiato in modo che non vada perduto nulla dell’effetto. 20 luglio 1782, dunque. Si parla del Ratto dal serraglio che era stato rappresentato il 16 luglio dello stesso anno: a soli quattro giorni di distanza dalla prima già Mozart si preoccupa di finire presto la trascrizione per evitare che qualcuno lo preceda. Senza dubbio Mozart non apre una strada, non inaugura l’uso delle trascrizioni di opere, ma ci testimonia soltanto che i trascrittori erano numerosissimi e che essi trascrivevano a volte subito dopo la prima rappresentazione di un’opera, alle volte ancor prima della prima, proprio in virtù di questo enorme interesse per la diffusione. Da questa testimonianza apprendiamo inoltre che molti compositori trascrivono la propria musica. Anche Haendel ha trascritto la propria musica e altrettanto ha fatto William Babell. E Mozart, ripeto, non solo trascrive Il ratto dal serraglio ma si preoccupa di far presto per impedire che qualcuno lo faccia prima di lui sottraendogli il guadagno, a soli quattro giorni dopo la prima rappresentazione dell’opera. Di Mozart abbiamo ascoltato Le nozze di Figaro, Il flauto magico, Così fan tutte; abbiamo esaminato il Don Giovanni soprattutto nelle trascrizioni. I trascrittori erano i musicisti che suonavano all’interno delle Harmonie e che avevano una buona pratica degli 126 strumenti. Fra questi ricordiamo alcuni nomi, come, ad esempio, Vent, oboista della Harmonie della corte imperiale nonché autore di numerosissime trascrizioni; quindi Triebensee e, ancora, Eidelreiht, autore di una trascrizione del Don Giovanni. Costoro sono quasi tutti prime o seconde parti di orchestre oppure oboisti interni alle Harmonie. Sulla harmonie musique abbiamo lavorato per due anni con un gruppo composto da due oboi, due clarinetti, due corni e due fagotti. Per un anno, nel 1994, abbiamo abbandonato le Harmonie per riprendere le trascrizioni delle opere di Mozart, questa volta non più per fiati ma per archi, per quartetto d’archi con pianoforte. Nel 1995 abbiamo invece fatto una sosta, rendendo il Laboratorio aperto biennale. Nel 1994, dunque, abbiamo trattato le opere di Mozart soffermandoci sul Don Giovanni nella trascrizione di un anonimo datata 1799, su Così fan tutte, di cui esistono due trascrizioni, e sul Flauto magico nella trascrizione di Vent. E, finalmente, siamo giunti al 1996. Il periodo di cui attualmente ci occupiamo è l’Ottocento. Abbiamo ripreso il discorso sulla Harmoniemusik attraverso l’esame di tre opere fondamentali: una di Beethoven, il Fidelio, nella stesura finale del 1814 (ricordo al pubblico che il Fidelio ha avuto tre stesure); quindi il Freischütz di Weber e, in ultimo, il Guglielmo Tell di Rossini. Il Freischütz è stato eseguito per la prima volta a Berlino nel 1821, mentre il Guglielmo Tell a Parigi nel 1829. Le trascrizioni di queste tre opere sembra che siano tutte firmate dallo stesso autore, Václav Sedlak, che fu clarinettista della corte del principe del Liechtenstein. A Vienna, infatti, ci furono due Harmonie importanti, una che faceva capo all’imperatore e un’altra che faceva capo, appunto, al principe del Liechtenstein. Questa è in sintesi la storia di quanto si è svolto da otto anni a questa parte in seno al Laboratorio aperto. In questo lungo percorso sono stata affiancata fin dall’inizio da Corrado De Bernart, pianista, clavicembalista, musicologo nonché mio allievo, diplomato in clavicembalo con lode; attualmente insegna pianoforte al Conservatorio di Lecce e mi ha seguito nella ricerca in tutti questi anni. Quando la nostra ricerca ci ha condotti alla Harmoniemusik si è aggiunto a noi Paolo Ravaglia, che tutti ben conoscete. Insegnante di clarinetto al Conservatorio di Ferrara e profondo conoscitore di tutta la letteratura per clarinetto, i suoi interessi spaziano dalla musica afro-americana a quella contemporanea. Ho il dovere di dire che con questi due giovani studiosi ho lavorato splendidamente, e per questo li ringrazio. Non mi resta che cedere loro la parola, invitandoli a riassumere quel che abbiamo fatto in questi anni prima di entrare nelle opere specifiche. (applausi) CORRADO NICOLA DE BERNART Il problema che ci si è posto ogni qual volta ci siamo trovati di fronte alle varie formazioni e alle varie peculiarità delle trascrizione è sempre stato quello di capire come, perché, in che modo e in che ambito si muovesse il fenomeno per riuscire a definirne meglio contorni e caratteristiche. In questo sforzo di comprensione, abbiamo sempre cercato di stabilire, nei limiti del possibile, anche una sorta di sincretismo con altre discipline per individuare le motivazioni più profonde del fenomeno, considerando l’oggetto delle nostre ricerche in connessione con la vita sociale, culturale e musicale di ogni nazione e di ogni società. Tale discorso, che già avevamo affrontato per le trascrizioni per clavicembalo, si è riproposto, più o meno negli stessi termini, anche per quanto riguarda queste «curiose» formazioni di strumenti a fiato, che successivamente presero il nome di Harmoniemusik. Con questo nome generalmente si intendeva un ottetto di fiati, caratterizzato dalla presenza di due oboi, due clarinetti, due corni e due fagotti, ma in realtà con lo stesso termine spesso si è indicato qualunque tipo di formazione di strumenti a fiato, che sovente comprendeva anche un numero elevatissimo di strumenti; tant’è che abbiamo trovato alcune trascrizioni dal repertorio d’opera che prevedevano addirittura tredici parti. 127 PAOLO RAVAGLIA Questo bisognerebbe verificarlo, in quanto, non potendo accedere in toto all’archivio, si potrebbe anche ipotizzare che si tratti in sostanza di parti doppie oppure di diversi volumi, però in apparenza si va da un minimo di due parti, fino a un massimo di undici o tredici parti reali, che poi è l’organico del Barbiere di Siviglia. Anche il Guglielmo Tell, che qui non viene eseguito con l’organico completo poiché alcune parti non vengono eseguite, dovrebbe prevedere dodici, se non addirittura, con tre tromboni, quindici elementi. Diciamo che, di sicuro, fino a quindici si arriva. CORRADO NICOLA DE BERNART Ci troviamo quindi di fronte a tipi di formazioni molto varie e differenti tra loro che, peraltro, hanno subito nel corso degli anni anche una certa evoluzione. Il primo elemento emerso dalla lettura delle trascrizioni per Harmonie del periodo settecentesco – per periodo settecentesco intendo quello che va dalla metà del Settecento alla prima metà dell’Ottocento, che corrisponde più o meno al periodo di grande diffusione di questo tipo di formazioni – è stato però quello di notare che comunque esse avevano radici storiche molto remote. Formazioni già dotate di caratteristiche simili, infatti, cominciavano a sorgere fin dalla prima e dalla seconda metà del Seicento, sebbene fossero all’epoca legate a utilizzazioni e a scelte di repertorio alquanto differenti, ovviamente, da quelle che riguardano le trascrizioni di opere. I precedenti storici delle formazioni di fiati naturalmente sono molteplici. A questo riguardo, non è possibile semplificare più di tanto poiché è evidente che entrano in ballo moltissimi canali di derivazione e di evoluzione. Possiamo tuttavia affermare con sicurezza che, soprattutto nell’area storica della Germania, dell’Austria, dell’Ungheria e della Cecoslovacchia attuali (e, quindi, nell’area della Boemia e della Moravia), sono rintracciabili precedenti storici molto precisi, i quali, per stratificazioni successive, si sono resi autonomi al punto di avere un repertorio completamente diverso rispetto a quello di qualunque altro tipo di formazione, fino al punto di conquistare una propria autonomia di impiego molto più ampia rispetto a quanto avvenisse in origine. Alcuni gruppi di fiati che avevano specifici incarichi – in seguito vedremo quali – già esistevano, come ho detto, negli ultimi anni del Cinquecento e nei primissimi anni del Seicento. Nella maggior parte delle città dei territori austro-boemi e tedeschi esistevano piccoli gruppi di strumentisti a fiato che erano direttamente al servizio della municipalità locale e che da questa ottenevano una serie di incarichi particolari. Questi personaggi si chiamavano Stadtpfeifer. Erano riuniti addirittura in corporazioni e si tramandavano l’incarico di padre in figlio. Il loro ruolo era sostanzialmente quello di suonare in qualsiasi occasione pubblica richiedesse festeggiamenti tali da comportare l’utilizzazione di formazioni musicali. Per inciso, notiamo che in quell’epoca la gran parte delle manifestazioni pubbliche solitamente comprendeva anche un’ampia presenza di momenti musicali affidati a organici molto variegati; in quest’area dell’Europa è possibile riscontrare che gli strumenti a fiato avevano ruoli molto più importanti che non in altre nazioni. In Italia, per esempio, una situazione similare di fatto non si verificò, nel senso che non vi è traccia di utilizzazione diffusa di organici di questo tipo. Al contrario dell’Italia, un’usanza molto simile a quella sopra descritta era presente in Inghilterra: anche qui esistevano nelle varie città, piccole e grandi, piccoli gruppi di strumentisti che suonavano ottoni e legni con compiti diversi. Il genere di musica che essi praticavano era molto vario, perché alcuni di loro avevano, per esempio, semplicemente l’incarico di dare squilli di tromba allo scoccare delle ore oppure di comunicare segnali di allarme o di pericolo. Ma quegli stessi strumentisti, poi, in occasione di festeggiamenti particolari o in qualsiasi occasione richiedesse esecuzioni musicali, venivano chiamati a eseguire un vero e proprio repertorio concertistico. 128 Si comincia così a delineare un canale di diffusione; un canale, potremmo dire, professionistico di formazione degli strumentisti a fiato. Essi erano musicisti autentici: frequentavano dei corsi di cinque o sei anni per poter entrare all’interno delle corporazioni, e molti di loro sono stati anche grandi nella loro professione. Membro di una congregazione di Stadtpfeifer, per esempio, è stato anche Quantz, uno dei migliori strumentisti del Settecento. D’altro canto, si andava sviluppando, parallelamente a questo, un altro filone nell’attività degli strumentisti a fiato, un filone molto più popolare, che aveva come protagonisti, più che veri e propri strumentisti, dei «praticoni» (chiamiamoli così, anche se forse questo non è il termine più adeguato per definirli), vale a dire volenterosi interpreti che, tuttavia, avevano studiato in maniera piuttosto approssimativa strumenti che oggettivamente ponevano difficoltà esecutive minori (sino a un certo punto, ovviamente) rispetto a quelle poste da strumenti più complessi come quelli ad arco, per esempio. Questi musicisti «così-così», dunque, avevano avuto una infarinatura musicale superficiale e cercavano di sbarcare il lunario suonando strumenti alquanto rudimentali e di facile apprendimento. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che il clarinetto settecentesco presenta notevoli differenze rispetto al clarinetto attuale, e faceva parte di quel genere di strumenti nei confronti del quale, in un certo senso, la musica colta conservava una posizione di sostanziale snobismo. I musicisti appartenenti a questo secondo filone, quelli nati dall’humus della parte più popolare della società, spesso provenienti da piccole scuole di campagna, soprattutto della Boemia – in seguito, ci occuperemo più diffusamente di questa area geografica – erano tuttavia di frequente chiamati a gestire e a portare di fronte al pubblico un repertorio molto impegnativo. A questo riguardo, vale la pena di leggere una testimonianza molto divertente dello stesso Mozart, poiché corregge un nostro particolare vizio di pensiero. Quando, infatti, noi pensiamo all’attività musicale in genere, siamo sempre portati ad assimilarla a quella attuale, a pensarla cioè come appartenente a un ambito strettamente professionistico. Nel periodo di cui ci stiamo occupando, invece, la realtà è tutt’altra. Per gli ambiti cittadini delle province, ma anche dei grossi centri europei dell’epoca, questo nostro modo di pensare si rivela inadeguato. A eccezione, infatti, delle più importanti organizzazioni orchestrali e teatrali o dei gruppi strumentali di particolare rilievo, la maggior parte dell’attività musicale era sostanzialmente affidata a fasce di esecutori che non corrispondono affatto alla nostra idea di professionisti. La testimonianza che vorrei riportarvi si riferisce al fatto che Mozart, avendo realizzato una composizione per ottetto di fiati, aveva affidato l’esecuzione di questa musica a un gruppo alquanto «raccogliticcio», composto non da strumentisti professionisti ma, come Mozart stesso testimonia, da «poveri diavoli» che aveva trovato all’ultimo momento e che aveva raggruppato per l’occasione. Leggiamo, dunque, quanto Mozart scrisse in proposito alla sorella: Il giorno di Santa Teresa ... avevo scritto questa Serenata [la Serenata è la K 375, peraltro una delle più belle del compositore austriaco]. I sei esecutori erano dei poveri diavoli, che però suonavano abbastanza bene insieme, il primo dei corni e i due clarinetti in particolare. Dopo aver dato ragione della composizione di quest’opera – «... perché volevo ingraziarmi Herr von Strack, che era cameriere personale di Giuseppe II» –, egli scrisse che l’esecuzione di questi «poveri diavoli» aveva ottenuto un grande successo: Venne eseguita la Serenata in tre luoghi diversi, poiché appena avevano finito di suonare in un posto, gli esecutori venivano trascinati altrove e pregati perché la ripetessero. Questi suonatori furono talmente contenti dei guadagni ottenuti attraverso i ripetuti passaggi da una sala a un’altra, da un cortile ad un altro, da sentirsi in debito verso Mozart, tanto che questi, dopo qualche giorno, scrive: Mi venne offerta una serenata eseguita dai due clarinetti, dai due corni e dai due fagotti dei giorni prima, serenata di mia composizione e che fu realizzata con una specie di picco- 129 la sorpresa, perché questi suonatori pregarono che gli si aprisse la porta e, disponendosi nel mezzo del cortile, iniziarono a suonare svegliandomi col più piacevole degli accordi... Da questa testimonianza abbiamo appreso che Mozart, per la realizzazione e l’esecuzione della Serenata K 375, non si è servito di musicisti professionisti ma di gente raccolta sostanzialmente dalla strada, e comunque di persone che non avevano un’attività musicale stabile. Questo discorso sugli strumentisti che suonavano i fiati, fossero essi professionisti o non professionisti, comporta ovviamente la considerazione di moltissime sfaccettature. È necessario considerare, ad esempio, che, salvo rarissime eccezioni, il rapporto di dipendenza che sappiamo generalmente stretto fra il musicista e il datore di lavoro (nel periodo da noi considerato, la municipalità o la personalità aristocratica), aveva all’epoca molti più margini di elasticità di quel che possiamo sospettare. Noi siamo abituati a pensare al povero Haydn, costretto a scrivere la Sinfonia degli addii per indurre il suo ossessivo datore di lavoro a ridurre gli orari di impegno dei musicisti, ma in realtà molto spesso essi godevano di libertà financo in eccesso. Ciò poiché le grandi casate aristocratiche, per non parlare poi delle corti europee, incontravano moltissime difficoltà nel pagare regolarmente i compensi richiesti dai musicisti professionisti per prestare con assoluta continuità la propria opera. La conseguenza di ciò, soprattutto in area tedesca, austro-boema e inglese, fu che ai musicisti era generalmente concessa una enorme libertà di esibirsi comunque e dovunque, anche al di fuori della ristretta attività dell’orchestra o del gruppo da camera a cui ufficialmente appartenevano. Questo dato è interessante perché è forse uno dei motivi che meglio spiega come mai il repertorio operistico o di derivazione operistica come le trascrizioni abbia acquistato così tanto peso in seno all’attività musicale di quegli anni. Risulta con particolare evidenza, infatti, che per tutto il periodo da noi considerato, la principale attività di spettacolo (quella che attraeva maggiormente il pubblico da un lato, permetteva maggiori incassi dall’altro e, soprattutto, aveva sostanzialmente, per una serie di motivazioni connesse alla moda, alla passione del momento o alla mondanità, un canale di esecuzione e di realizzazione privilegiato) era senza alcun dubbio l’attività del teatro d’opera. In un certo senso, dovremmo capovolgere la prospettiva che con mentalità moderna saremmo portati a seguire. Per noi, ad esempio, l’attività di un teatro d’opera rappresenta pur sempre un aspetto minoritario e circoscritto rispetto all’ambito di attività sinfonica, cameristica, e via dicendo. È invece probabile che, tornando indietro nel tempo, questa situazione vada esattamente capovolta, poiché noi sappiamo che la maggior parte dei teatri attivi in epoca settecentesca programmava principalmente teatro d’opera e, solo in modo molto marginale, l’esecuzione di composizioni che non prevedessero l’utilizzazione delle voci e che non prevedessero un’azione scenica. Quanto, insomma, va sottolineato come elemento di grande importanza per gli sviluppi che successivamente avrebbe comportato è che la maggior parte degli strumentisti dell’epoca si confrontavano quotidianamente soprattutto col teatro d’opera; dal che discende, come conseguenza naturale e ovvia, che la loro attenzione fosse innanzitutto convogliata verso questo tipo di repertorio. Nel momento in cui essi erano chiamati a svolgere un’attività alternativa rispetto a quella ufficiale di componenti di determinati gruppi orchestrali, era a questo repertorio che essi rimanevano comunque legati. Verso questo repertorio, d’altronde – insisto su questo punto, perché è la vera conclusione cui la nostra ricerca è pervenuta, conclusione che siamo sempre più in grado di poter corroborare e sostenere con prove di volta in volta più solide –, la passione e le mode musicali del momento convogliavano completamente l’attenzione del pubblico. Dicendo questo, potrebbe sembrare che l’offerta dello spettacolo teatrale provocasse e convogliasse di per sé, per la sua sola stessa esistenza, l’entusiasmo e l’attenzione del pubblico verso questo tipo di reperto130 rio; in realtà il rapporto sottile tra teatro musicale e pubblico venne molto sapientemente guidato anche attraverso, per esempio, l’attività di trascrizione. Si trattava, in pratica, di far crescere nel pubblico una domanda che giustificasse un’offerta sempre più ampia. E torniamo così al discorso fondamentale del teatro d’opera che, trovando anche attraverso le trascrizioni i mezzi per svolgere su di sé una potente pubblicità e per convogliare su di sé l’attenzione di gran parte della società del tempo, è in grado di sostenere da un lato l’enorme numero di allestimenti e, dall’altro, la crescente richiesta di sempre nuovi lavori da parte di un pubblico sempre più appassionato. Le trascrizioni, in questo senso, sono certamente un veicolo di diffusione, poiché consentono un ritorno di immagine al teatro musicale notevolissimo. Abbiamo visto come spesso le trascrizioni fossero addirittura precedenti alla prima rappresentazione di un’opera. In questo caso, quindi, sarebbe improprio parlare di «diffusione», visto che l’opera non era neanche stata ascoltata. Si tratta, infatti, di vera e propria promozione pubblicitaria, vale a dire di un fenomeno molto accurato e accorto che permetteva di riempire le sale. Questo fenomeno è ovviamente connesso ai costi notevolissimi che il teatro d’opera deve sostenere: nel momento in cui ci si affranca dalla committenza aristocratica, che gestisce direttamente i costi di produzione, e la si sostituisce con le sovvenzioni pubbliche o private, siano esse del regnante, del principe, di società di musicofili, di impresari o di chiunque altro, sovvenzioni che tuttavia non sono più sufficienti a sostenere costi elevati, per cui subentra l’esigenza che lo spettacolo sia in grado di avere lauti introiti del botteghino (per quanto essi potessero essere ancora minoritari rispetto all’afflusso di denaro da parte dei committenti), è evidente che la presenza del pubblico ogni sera sia un imperativo categorico affinché il teatro possa sopravvivere. La trascrizione diviene in questo modo il veicolo principale attraverso il quale l’attenzione del pubblico veniva convogliata verso questo tipo di spettacolo. In particolare, la trascrizione per Harmonie, di cui in seguito Paolo Ravaglia vi parlerà in maniera più specifica e tecnica, presenta aspetti diversi rispetto alle altre per altri strumenti o organici. Mentre le trascrizioni per clavicembalo, per flauto, per violino e così via, erano destinate sia a esecutori professionisti sia – e soprattutto – al dilettante che le eseguiva tra le pareti domestiche in privato, le trascrizioni per Harmonie rimasero, in un certo senso, confinate entro margini minori di possibilità di esecuzione sia pur avendo più ampia potenzialità di fruizione d’ascolto. Esse di fatto richiedevano le prestazioni di esecutori che conoscessero la tecnica di strumenti i quali non possedevano ancora un sostanziale radicamento o, più semplicemente, una ampia diffusione nell’ambito dell’humus sociale. La penetrazione del flauto, del violino, del clavicembalo e del fortepiano in seguito sarà consistente: sappiamo tutti che nel periodo ottocentesco non esisteva famiglia della buona medio-alta borghesia e dell’aristocrazia in cui tutti i componenti non fossero educati a suonare il fortepiano. È allora evidente che la trascrizione per fortepiano vada nella direzione dell’amatore non professionista, che suoni in privato per il proprio diletto. Le trascrizioni per Harmonie, invece, avevano un mercato esecutivo relativamente più ristretto, perché prevedevano la presenza di otto strumentisti a fiato; dal che discende che le relative esecuzioni fossero esclusivo appannaggio di musicisti in senso stretto e molto meno di un gruppo di amatori, anche perché, ripeto, questi strumenti a fiato – corno, fagotto, oboe, clarinetto – non conoscevano ancora una grande diffusione al di fuori dell’ambiente di stretta formazione musicale. CARLO MARINELLI Il pubblico, tuttavia, era molto più vasto! CORRADO NICOLA DE BERNART Senza dubbio, perché queste formazioni si esibivano in contesti molto più ampi. 131 CARLO MARINELLI Questo è esattamente quanto è accaduto col disco. Anche il disco, nella prima metà del nostro secolo, è servito da veicolo pubblicitario per indurre la gente ad andare al teatro. Altrettanto è avvenuto con la banda. Vedremo in seguito come, verso la metà dell’Ottocento, la banda diventi autonoma rispetto al teatro d’opera, eseguendo brani operistici in città dove l’opera non veniva rappresentata. Di altrettanta autonomia gode oggi il disco, sebbene, come la banda, esso sia servito in origine come veicolo di propaganda per l’opera. CORRADO NICOLA DE BERNART D’altra parte la Harmonie si avvantaggiava di un fattore particolare. La musica per strumentisti a fiato, infatti (e tutto l’iter storico che noi abbiamo delineato e studiato nelle sue varie provenienze di Feldmusik, cioè «musica da campo», Turmmusik, cioè «musica delle torri», Tafelmusik, cioè «musica da tavolo», lo dimostra), era sostanzialmente legata alle esecuzioni all’aperto per ovvi problemi acustici: otto strumenti ad arco, per esempio, si sentono ben poco, mentre otto strumenti a fiato hanno una capacità di volume sonoro ben diversa; lo stesso timbro degli strumenti a fiato si adatta maggiormente alle esecuzioni all’aperto. A questo fattore puramente tecnico, si accompagna la grande passione, tipicamente settecentesca, per il giardino, per la natura, sia pure razionalmente ricostruita secondo i canoni di bellezza di allora; per una natura, dunque, non più autentica ma un po’ posticcia, alterata dall’intervento dell’uomo. In ogni caso, entrambi questi fattori – acustica e gusto del pubblico – fecero sì che, in ogni occasione si prevedesse qualche tipo di manifestazione all’aperto, si ricorresse prevalentemente ai gruppi di fiati. Già nel Seicento in Francia, presso la corte del Re Sole, esistevano la chambre du roi, formata da archi, clavicembali, ecc., responsabile della musica da camera, e la chapelle du roi, responsabile invece della musica sacra. Esisteva inoltre una fanfara, denominata grand écurie du roi, che era addirittura un corpo a cavallo formato da alcuni strumentisti che suonavano diversi tipi di strumenti a fiato e percussioni. La grand écurie du roi veniva impiegata per le più svariate situazioni, quali feste in giardino o, in generale, per tutte quelle situazioni nelle quali si riteneva più opportuno l’utilizzo di strumenti a fiato. È quindi giustissimo quello che diceva il professor Marinelli: se è vero, da un lato, che il pubblico dei diretti fruitori, cioè di coloro che potevano prendere lo spartito ed eseguirlo, è ovviamente molto più limitato in relazione – poniamo – alle trascrizioni delle opere di Haendel per flauto a becco, è altrettanto vero che il contatto diretto da parte di un pubblico di ascoltatori per i repertori d’opera, proprio in virtù dell’attività della Harmoniemusik si accresceva in maniera straordinaria. Verificheremo tutto questo soprattutto quando prenderemo in esame l’enorme capillarità di diffusione di questo tipo di formazioni in determinate aree territoriali; ma nel percorso ideale che stimo sforzandoci di delineare dobbiamo necessariamente mantenerci entro limiti più ristretti di analisi. In seguito, eventualmente, risponderemo a domande su questioni più specifiche. Il nostro intento era quello di tracciare a grandi linee un quadro generale per quanto attiene questo tipo di formazioni. Cedo ora la parola a Paolo Ravaglia. PAOLO RAVAGLIA In relazione a quanto hanno detto la signora Bernardi e Corrado De Bernart, su un punto in particolare vorrei puntare l’attenzione: il fatto del profitto. In seguito parlerò dei requisiti degli strumentisti e dei problemi di concertazione. Però il profitto in generale, il movimento di danaro che suscitava questa moda della musica per strumenti a fiato all’aperto secondo me non è assolutamente da sottovalutare, perché guadagnavano in primo luogo gli strumentisti, ai quali venivano elargite delle ricompense per le loro divertenti prestazioni in un posto o nell’altro, come nel caso delle quattro esecuzioni di fila in quat132 tro posti diversi la stessa sera; in secondo luogo, guadagnavano gli editori come Lausch, il quale a Vienna aveva aperto un laboratorio di stampa in cui pubblicava le trascrizioni e, addirittura, «affittava» musicisti, forse non di prima qualità ma in ogni caso capaci, per fare queste trascrizioni e pubblicarle per venderle; guadagnavano denaro, in terzo luogo, questi stessi trascrittori, questi musicisti minori che, in tal modo, riuscivano a campare del lavoro di trascrizione; e guadagnavano anche certi altri compositori, come Amand Vanderhagen, ad esempio, che ha realizzato molte trascrizioni per due strumenti a fiato e per gli allievi le inseriva all’interno dei suoi metodi. C’è questo suo metodo per clarinetto, il primo metodo per clarinetto a quattro chiavi, del 1750 credo, che contiene delle trascrizioni per due clarinetti da opere come Blaise et Babette di Nicolas Dezède; insomma, egli trascriveva le arie, semplificava i temi, adattandoli anche con cambi di tonalità per ovviare ai problemi di intonazione dello strumento. Contribuiva in tal modo anche ad aumentare la tiratura e la vendita del metodo per clarinetto stesso, poiché l’aggiunta di queste arie trascritte e semplificate per due strumenti aumentava l’interesse dei dilettanti che studiavano clarinetto. Vi sono sicuramente altri metodi del periodo per flauto o per oboe, in cui sono comprese trascrizioni per due strumenti. Ricordiamo però che l’organico della Harmoniemusik in senso stretto andava da un minimo di otto parti a un massimo di tredici (o anche quindici) strumenti: l’esempio più famoso è quello della Gran Partita di Mozart, la Serenata K 361, che comprendeva il numero più vasto di strumenti, per la precisione undici, con l’aggiunta di due corni di bassetto, per arrivare così a tredici. Un’altra considerazione da fare riguarda invece i requisiti degli strumentisti. I dilettanti di allora erano indubbiamente migliori di quelli di oggi. Questa serenata (come molta della la sua musica d’altronde), non molto difficile da eseguire da un punto di vista tecnico, ha però una sua cristallinità e un suo equilibrio interno che andavano rispettati, anche per soddisfare il compositore stesso che, infatti, sappiamo fu molto contento dell’esecuzione. Se consideriamo anche il fatto che gli strumenti di allora erano decisamente instabili dal punto di vista dell’intonazione, credo sia facile capire come in realtà la preparazione di questi musicisti fosse molto più avanzata di quella che noi oggi definiremmo una preparazione dilettantesca. Introduco così il primo aspetto dei cinque che sono importanti per la concertazione di una trascrizione per strumenti a fiato e che vado ora a elencare: i requisiti degli strumentisti, i problemi interpretativi, la relazione col testo originale (che implica l’approfondimento di queste tematiche interpretative), gli aspetti della scrittura e operazioni specifiche da fare sul testo. Parliamo in primo luogo dei requisiti degli strumentisti. A questo proposito ho preparato qualche appunto, visto che non ho la straordinaria capacità di improvvisazione e di organizzazione del discorso che è propria di Corrado De Bernart. Cercherò quindi di improvvisare sulla base della lettura dei miei appunti scritti. La definizione delle caratteristiche degli esecutori è importante. Adesso come allora, gli esecutori stessi devono possedere una solida capacità di intonazione e sviluppare quella sensibilità musicale necessaria per raggiungere una adeguata omogeneità timbrica e un buon impasto sonoro con gli altri strumenti del complesso. È il primo aspetto che l’ensemble deve affrontare, se il brano di Harmonie è una trascrizione d’opera. Questo è importante, perché esistevano brani di Harmonie di trascrizioni da altre tipologie di originali, che non avevano sostanzialmente particolari problemi dal punto di vista dell’equilibrio tra le parti. La trascrizione d’opera era invece un po’ più difficile, perché in partenza esistevano grossi problemi di riadattamento della parte vocale alla parte strumentale e di omogeneizzazione del tutto. Nei limiti in cui un piccolo complesso può reinterpretare un’idea sonora nata per orchestra, il rapporto dinamico con l’originale, il problema timbrico, è probabilmente risolto dall’autore della trascrizione, per cui è l’aspetto dinamico che assume immediatamente un’importanza fondamentale. Le composizioni originali per Harmonie non presentano problemi tecnici ma la trascrizione d’opera richiede uno spessore strumentale 133 diverso: non un peso inteso come massa orchestrale, naturalmente, bensì come distribuzione delle parti in rapporto di dipendenza con quanto nell’originale facevano le voci, che rimangono, ovviamente, il mezzo espressivo fondamentale nonché il punto dal quale bisogna partire per ricostruire la linea della parte strumentale. L’ostacolo è dunque doppio: ripeto, il rapporto dinamico con la strumentazione originale e il rapporto con la parte vocale. La difficoltà sta nel ricreare con un repertorio molto più limitato di colori strumentali, quindi di timbri, e di escursioni dinamiche la brillantezza e l’omogeneità necessarie e ciò tramite un’esecuzione che sia scevra da cali di tensione – questo è molto importante – e, soprattutto, cercando di rispettare quello che è il colore generale della composizione. Nel rapporto con la parte vocale trascritta per gli strumenti, dunque, si parla di un rapporto ben chiaro di peso/distribuzione. Un’elaborazione di questo tipo non può non alterare gli equilibri di una normale strumentazione per Harmonie, intesa come sviluppata da una specifica idea strumentale, in quanto determinate voci, come è quella dell’oboe nelle Nozze di Figaro, spesso, ad esempio, assumono un aspetto dominante a scapito delle altre. Nel 19921993 abbiamo notato come i trascrittori stessi decidessero, a seconda dello strumento che suonavano, di dare preminenza alla voce del loro strumento a scapito delle altre; e avevamo ipotizzato che questo fosse un modo per esibire le loro capacità espressive e la loro bravura. Tuttavia, in considerazione dello studio condotto anche su queste ultime opere, tale ipotesi si è rivelata azzardata. Come in seguito chiarirò parlando del Freischütz, ciò non è vero, perché esisteva in realtà un ruolo specifico dello strumento nel complesso di Harmonie; il fatto che nell’opera il solo strumentale, che magari introduceva la voce (cosa niente affatto rara), fosse realizzato da tale strumento non aveva nulla a che fare con l’ipotesi che avevamo fatto perché, come scopriremo in seguito, nella distribuzione delle parti gli oboi hanno un preciso compito, i clarinetti hanno un compito altrettanto preciso, come i corni e i fagotti. Il contrabbasso, naturalmente, ha il solito compito di suonare il 16 piedi, cioè quello di rinforzare la parte del basso. C’è anche un terzo aspetto, che assume alla luce dell’omogeneità della elaborazione un’importanza dominante: la necessità di verificare le trascrizioni con le reali possibilità esecutive, tecniche e sonore di ogni strumento all’epoca. È vero che noi ragioniamo col senno di poi, nel senso che consideriamo già risolti nella fase di concertazione e anche di esecuzione problemi che, magari, per lo strumentista di allora erano tutt’altro che semplici. Non posso far altro che riferirmi al clarinetto. Attualmente disponiamo di strumenti che hanno un certo numero di chiavi, vale a dire di meccanismi più o meno complessi che servono per aprire fori lontani, consentendo così alle dita di rimanere al loro posto. Gli strumenti di allora avevano un numero decisamente inferiore di chiavi, quindi molte meno possibilità tecniche di quante non ne abbiano gli strumenti di oggi. Questa nozione ci è servita come tecnica di datazione di molte partiture. In altre parole, potevamo stabilire (cosa che è successa in passato con Sarti) se una trascrizione era esattamente di un determinato periodo oppure se si trattava di una trascrizione posteriore anche di dieci o quindici anni. Dico questo perché, facendo particolare riferimento al mio strumento, l’aggiunta di chiavi era una cosa all’ordine del giorno. Se nello spartito del singolo strumento erano presenti delle note o dei passaggi particolari, potevamo stabilire con una certa immediatezza se essi erano eseguibili da uno strumento costruito magari nel 1805, oppure eseguibili solamente da uno strumento costruito nel 1815, o anche da uno strumento addirittura a tre o a quattro chiavi, quindi precedente al 1800. E ancora: se c’erano quelle particolari note, e prendendo in considerazione la tonalità del pezzo e le difficoltà tecniche, potevamo stabilire se era una trascrizione contemporanea rispetto all’opera originale oppure se era una trascrizione a posteriori; ciò proprio perché queste stesse difficoltà tecniche magari non erano eseguibili con uno strumento primitivo, cioè dotato di poche chiavi, in relazione agli strumenti più perfezionati degli anni successivi. Abbiamo addirittura esempi – apriamo con questo una piccola parentesi – di composizioni strumentali scritte da vari compositori (uno 134 è Franz Pokorny) per primo clarinetto oppure per secondo clarinetto; vale a dire, composizioni alternativamente basate una interamente sulla tessitura dei suoni superiori e una interamente sulla tessitura dei suoni inferiori. Ciò è dovuto al fatto che a quel tempo i clarinetti a tre o quattro chiavi erano tremendamente stonati (cosa che, comunque, talvolta accade tuttora, anche se di chiavi ce ne sono diciotto o ventuno!). Il primo clarinetto era più bravo a suonare nei suoni superiori, il secondo clarinetto era più bravo a suonare nel registro dei suoni inferiori, o suoni naturali, per cui vi erano concerti, specifiche composizioni, composte espressamente per quel registro oppure per l’altro. Concludendo, in merito al rapporto fra scrittura ed esecuzione, il compositore non poteva non tener conto, durante la stesura di una elaborazione per ensemble, delle qualità sonore e delle caratteristiche acustiche degli strumenti che aveva a disposizione, ovvero della perizia tecnica dei singoli esecutori. Nel caso dei complessi discretamente organizzati, quelli che oggi definiremmo non di dilettanti bensì di professionisti, cioè quelli che venivano mantenuti e pagati dall’imperatore o da principi o da nobili, gli esecutori, pur possedendo strumenti ancora in fase di evoluzione, erano veramente bravi, perché erano i virtuosi del tempo. E tutto andava a vantaggio di una corretta omogeneizzazione delle parti. Per inciso, il raddoppio delle parti da parte del basso è provato anche da alcune immagini dell’epoca, non solamente dalle partiture. Il supporto di rinforzo era effettuato più spesso dal contrabbasso che non dal controfagotto o dal serpentone, come abbiamo notato in numerose partiture, perché era più elastico, più intonato. Pensando al controfagotto di quel periodo mi vengono i capelli dritti, perché esistevano grossi problemi di intonazione e, quindi, la resa sonora del contrabbasso appariva più soddisfacente. Ciò vuol dire che, anche nel caso di complessi formati da dilettanti, c’era pur sempre una specifica attenzione all’insieme; e questo è un primo elemento. Si preferiva il contrabbasso al controfagotto o al serpentone perché si pensava già a un’esecuzione fatta in un certo modo. Non credo che fossero stonati o eseguissero queste partiture in maniera sciatta o superficiale; c’era al contrario una ricerca sonora e di impasto e di omogeneità dell’insieme tra tutti gli strumenti. Per quanto riguarda la concertazione in generale, in tutti questi anni, come in quelli precedenti, abbiamo avuto dei grossi problemi. Queste sono partiture che erano precise per una buona parte ma che contenevano anche un certo numero di errori. Abbiamo riscontrato questo nelle partiture di Mozart, come in Grétry, come in Gluck, come in tutte le altre opere che abbiamo preso in esame, certo poche rispetto alla massa di musica che esiste (abbiamo preso in considerazione in questi quattro-cinque anni, cinque, sei, sette opere, non di più). Solamente a Firenze (come ha detto Corrado De Bernart, non era una pratica comune italiana quella della composizione per fiati, ma ci sono dei validi motivi storici per i quali questa musica si trovi a Firenze) c’è un archivio, il Fondo Pitti strumentale presso la Biblioteca del Conservatorio «Luigi Cherubini», che contiene più di trecento titoli di trascrizioni di opera; senza contare poi quelle che possono essere state composte appositamente per questo organico strumentale (originali, quindi non trascrizioni). Il nostro compito era quello di controllare le trascrizioni, e noi quelle abbiamo controllato; e solo quelle sono trecento! Potendo andare a consultare in completa libertà (cosa che, al momento, è alquanto difficile) tutto l’archivio, sono sicuro che troveremmo materiale molto, molto interessante. Comunque tutte le trascrizioni visionate, per quanto le abbia trovate tutte ben rilegate in fascicoli – il che dimostra una certa cura anche nella forma – all’interno presentavano molti problemi, perché riportavano (e qui ci sono un paio di esecutori che domani contribuiranno alla riproposta di queste musiche e che possono testimoniare quanto sto dicendo) note sbagliate, problemi di ripetizione o mancanza di sezioni, come sempre capita nei manoscritti. Naturalmente accadeva che i numeri di battuta mancassero, per cui molto tempo nella concertazione è stato impiegato per cercare di ridare una omogeneità alle parti, nel senso che molte erano irte di errori, di omissioni, di ripetizioni, il che rendeva il lavoro particolarmente difficile. Tutto questo, comunque, tornava a vantaggio della professionalità degli strumentisti 135 di allora, nel senso che probabilmente essi non leggevano nemmeno; era piuttosto una forma di stenografia, cioè la parte, forse volutamente (ma si tratta di un’ipotesi), non era neanche così perfezionata: mancano delle corone, le dinamiche ci sono ma spostate da una battuta all’altra, perché questi esecutori conoscevano alla perfezione la parte originale e, secondo me, sapevano esattamente già il «dove», il «come» e il «quando». Essi, infatti, conoscevano già la parte dei cantanti; inoltre, per riferirci all’episodio della serenata nel cortile di Mozart, molto probabilmente gli strumentisti già conoscevano la parte così bene da eseguirla estemporaneamente per la sorpresa del compositore. Ed erano dei dilettanti, trovati in una bettola tra una gozzovigliata e l’altra! In sintesi, noi esecutori moderni abbiamo dovuto cercare di fare un lavoro ulteriore di raffronto con l’originale, perché in effetti molte cose mancavano: mancavano dei ritenuti, mancavano delle corone, ecc. Si trattava comunque di problemi tecnici. Probabilmente, gli esecutori di allora davano solamente un’occhiata alle parti, ripeto, perché già conoscevano la musica, quindi non c’era alcun problema nell’esecuzione; oppure con poche prove riuscivano tranquillamente a sistemare tutto. Per quanto riguarda lo specifico dell’opera Der Freischütz, rimando a dopo, eventualmente, la descrizione dei problemi riscontrati. Penso che a questo punto sia il caso di ascoltare qualche esempio, se i miei collaboratori sono d’accordo. PAOLA BERNARDI Prima di entrare nello specifico delle esemplificazioni musicali, vorrei fare una considerazione che, prendendo spunto dai discorsi finora fatti, mi è venuta in mente proprio adesso: dopo una prima fase preparatoria, quando ci ritroviamo insieme a discutere, infatti, qualche cosa cambia, poiché esiste una dinamica di gruppo tra noi tre. Paolo Ravaglia parla del disordine delle parti e della difficoltà della trascrizione. Ora, credo sia il caso di interrompere per un momento la conferenza per passare a una curiosità tratta dal Fidelio di Beethoven, che avevo deciso di far ascoltare verso la fine di questo incontro ma che conviene far sentire adesso perché esemplifica bene la difficoltà della trascrizione e anche la manipolazione che viene fatta dal trascrittore. Si tratta del «Coro dei prigionieri». Per chi non conoscesse il Fidelio, riferirò brevemente la trama. I prigionieri vanno a prendere l’aria ma sono molto sorvegliati. In questo frangente c’è un coro estremamente bello, che esprime la sensazione di liberazione dei prigionieri, che tuttavia è poi offuscata dal controllo ferreo delle guardie. Si tratta, insomma, di una pagina stupenda, ma non è su questo che voglio soffermarmi. C’è una parte introduttiva, che non vi è stata distribuita in copia, seguita dal «Coro dei prigionieri» che, come potete vedere nella parte di cui invece disponete, entra a distanza di due battute. In alto c’è un fagotto che esegue un controcanto, leggerissimo, appena percettibile; e questo è ovvio, perché come il titolo stesso indica – il «Coro dei prigionieri», appunto – la parte importante è quella cantata dai prigionieri. Mettiamo questa parte a confronto con la trascrizione di Sedlak, e scopriamo che la parte importante non è più quella del «Coro dei prigionieri» bensì la melodia che egli passa dal fagotto al clarinetto. Ascoltiamo un attimo. (esempio audio: Beethoven, Fidelio, «Coro dei prigionieri», atto I, scena IX) Come avete sentito la parte, essendo così trasposta in acuto, chiaramente diventa la melodia portante. PAOLO RAVAGLIA Prima dell’ascolto completo vorrei fare una considerazione che può servire anche per confermare un’ipotesi a cui ho accennato prima. 136 Perché Sedlak passa dal fagotto al clarinetto? Perché i fagotti in quel momento devono fare un’altra cosa, perché il loro compito è quello di fare un’altra cosa che nell’originale non fa il fagotto ma fa invece l’orchestra. PAOLA BERNARDI Questa prima versione originale è presa da una esecuzione dal vivo, diretta da Furtwängler a Salisburgo nel 1950. Furtwängler stacca un tempo, per così dire, teatrale, perché deve lasciare il tempo ai prigionieri di uscire; i tempi, quindi, sono molto diluiti. Chiaramente, quando poi si passa ai fiati, bisogna tenere conto anche delle esigenze della respirazione; le modificazioni di tempo – si capisce facilmente – sono dovute molte volte al fiato. PAOLO RAVAGLIA Ma anche ad altri problemi, come quello di mantenere la tensione con i pochi mezzi che sono disponibili; manca l’azione scenica, mancano i colori timbrici. In altre parole l’orchestra viene ridotta solamente a otto voci, a nove con il contrabbasso, e bisogna certo, se possibile, mantenere un chiaro rapporto con le velocità originali, ma a volte ciò non è proprio possibile e ci si può permettere anche una esecuzione più veloce. PAOLA BERNARDI Tempi a parte, la cosa importantissima che Paolo Ravaglia ha detto riguarda il problema strumentale. L’«Aria di Florestano» non è pensabile senza timpani, perché in Beethoven il timpano non ha soltanto una funzione di colore ma anche una funzione drammatica. Eliminando il timpano, l’aria cambia del tutto. Questa considerazione è dunque importantissima. Come spesso succede, a volte si dà preminenza alle cose più semplici, a quelle che possono essere meglio trascritte, e tutte le parti complicate finiscono per essere tagliate. C’è comunque anche un rapporto tra timbro e carattere di un brano: togliere il timpano proprio significa dimezzare l’importanza drammatica dell’aria. CARLO MARINELLI A mio parere, un’altra cosa importante da sottolineare è quella che hai detto in un inciso ma che invece non è affatto incidentale: si privilegiano le trascrizioni dalle parti più facili, diciamo, analogamente a quanto accade per le registrazioni nella prima metà di questo secolo. Nessuno si sognava di andare a fare tutte le ricerche che sono state fatte dopo la Seconda guerra mondiale in sede di registrazioni su disco, che poi hanno allargato il repertorio dei teatri. Prendiamo ad esempio Wagner: non esiste un’opera completa di Wagner se non a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. PAOLA BERNARDI Deve essere semplice musicalmente il brano prescelto, soprattutto! CARLO MARINELLI Certo, proprio perché è modesto il mezzo di riproduzione. Ma ci sono già tre versioni di Tosca prima della Seconda guerra mondiale, c’è più di una versione di Madama Butterfly ma non esiste neanche una versione di un’opera di Wagner, di Weber, non c’è una versione registrata dell’opera di Beethoven. Il repertorio registrato in dischi è quello delle arie singole – e torniamo al discorso fatto per Corri, ad esempio – oppure, se si tratta di opere, quello di scelta dei brani più famosi per motivi squisitamente commerciali. PAOLA BERNARDI Ma torniamo all’ascolto che volevo proporvi. Cominciamo dalla parte originale: si sente addirittura lo scalpiccìo dei personaggi sul palcoscenico. 137 (esempio audio: Beethoven, Fidelio, «Coro dei prigionieri», atto I, scena IX) È un leggerissimo controcanto, quello che ascoltiamo. Sentiamo adesso la trascrizione, stando attenti a come in questo caso si capovolga la situazione. (esempio audio: Beethoven, Fidelio, «Coro dei prigionieri», atto I, scena IX; trascrizione Sedlak) Durante la registrazione di questo nastro mi trovavo con una persona che mi stava aiutando e che è dotata di un buon orecchio. Terminata la registrazione, le ho chiesto che cosa avrebbe cantato del brano che aveva appena ascoltato. Ebbene, non si trattava affatto del «Coro dei prigionieri»! Mi domando, a questo punto, se questa sia divulgazione. Non voglio parlare male della trascrizione di Sedlak, che peraltro ha dei momenti deliziosi; ma può accadere che, invece di rendere l’originale, si finisca per restituire un prodotto sofisticato; come dimostra appunto il caso che ho appena sottoposto alla vostra attenzione, che è abbastanza divertente perché – l’avete sentito tutti – la differenza è decisamente lampante. Il Fidelio è l’unica opera per teatro scritta da Beethoven, l’unico lavoro del genere scritto da questo grande compositore. Per averne la stesura definitiva ci sono voluti nove anni. La prima stesura è del 1805 e il titolo è Leonora, dal nome della protagonista principale. Per Leonora Beethoven scrive due ouvertures, «Leonora n. 1» e «Leonora n. 2». La prima non venne mai eseguita ma fu in seguito pubblicata postuma. L’opera, però, non ebbe successo. Immediatamente Beethoven la rimaneggia e ne viene effettuata una esecuzione con una nuova ouverture, dopo sei mesi, sempre col titolo di Leonora; e abbiamo così una «Leonora n. 3». Alle volte, ascoltandoli, ciò può generare una certa confusione tra i tre diversi lavori. Dopo nove anni, nel 1814, si arriva alla stesura definitiva. Cambia il titolo in Fidelio, dal nome che Leonora prende quando si traveste da uomo. Il libretto subisce vari cambiamenti, operati sempre da un poeta di corte, Treitschke; e non si può dire che questa volta il lavoro non abbia successo. A questo proposito, Beethoven lascia una lettera importantissima che viene pubblicata dalla Wiener Zeitung il 1° luglio 1814, dove dice: La presente versione musicale [si tratta della consegna della partitura per farne la trascrizione] non va confusa con una precedente, dato che, a mala pena, un solo numero musicale è rimasto invariato e più di metà dell’opera è stata composta di nuovo. Partiture, nella sola copia autorizzata, e anche il libretto possono essere ottenuti da me o dal revisore, poeta teatrale della Corte Reale Imperiale. Altre copie non autorizzate saranno perseguite per legge. Vienna, 28 giugno 1814, Ludwig van Beethoven. Egli, quindi, testimonia di suo pugno l’esistenza di un rimaneggiamento profondo. Ultimamente, è apparsa su la Repubblica una critica di Zurletti che ha sentito l’opera a Salisburgo in forma di Singspiel, quindi senza i recitativi ma col parlato. Il Singspiel si lega di più all’opera buffa, evidentemente; ma Zurletti dice che, con tutti questi rimaneggiamenti – devo dire che adesso si comincia a studiare la prima versione, in confronto alla seconda versione e via dicendo – Beethoven va dal Singspiel verso l’opera seria, come se, piano piano, ci portasse verso le tematiche serie del Fidelio, che sono tematiche d’amore e di anelito alla libertà. Non mi sento di dire che Fidelio sia stato dimenticato nell’Ottocento: a me risultano, dopo l’ultima stesura, 550 esecuzioni (che non sono poche), per di più sparse in tutto il mondo, da Londra a Mosca, e così via. Al contrario, il Fidelio arriva tardi in Italia, in occasione del centenario della morte di Beethoven. Nel 1927 viene rappresentato a Torino e a Milano. Credo che questo sia avvenuto perché l’Italia possiede il ricco repertorio musi138 cale del nostro teatro d’opera. Un Singspiel tedesco, per di più in tedesco, comportava ovviamente delle difficoltà. Furtwängler dice, a proposito del Fidelio, che ... quando in Germania, a seguito degli avvenimenti politici [evidentemente si riferisce alla nascita e alla fine del Nazismo] il senso primordiale delle nozioni di dignità umana e di libertà si presentò in tutta chiarezza, si percepì nella musica del Fidelio la grande sete di libertà che domina tutta l’opera. Un altro fatto significativo è che quest’opera è sempre stata rappresentata a Salisburgo per dieci anni consecutivi. Attualmente il Fidelio viene rappresentato per lo più senza scena, in forma di concerto. Cercherò di riassumerne molto brevemente la trama, che comunque penso di conoscenza comune. È probabile che anche l’ambiguità di sentimento, l’amore sia pur inconsapevole di una donna per un’altra donna, l’abbia un po’ allontanato dal nostro teatro. Non direi tuttavia che non abbia avuto successo anche in Italia, benché vi sia giunto tardi. Siamo all’inizio dell’Ottocento, vicino Siviglia. Il Governatore imprigiona Florestano perché è un ribelle, è un prigioniero politico. La moglie si traveste da uomo per andare a vedere cosa succeda in questa prigione ed eventualmente tentare di recargli aiuto, prendendo il nome di Fidelio. Acquista la fiducia di Rocco, che è il capo carceriere, ma Rocco ha una figlia, la quale si innamora di Fidelio. Ella è riamata da un aiutante di Rocco. E questa è la trama amorosa del Fidelio. Amore impossibile di Marcellina verso Fidelio, come impossibile è l’amore di Jaquino verso Marcellina, perché ella è innamorata di Fidelio. Questo intreccio d’amore dà vita a un quartetto stupendo, che ascolteremo, che a mio parere è una delle pagine più belle dell’opera. A un certo punto della storia, dovendo arrivare il Ministro della Giustizia, Pizarro ha intenzione di uccidere Fidelio, la cui presenza vuole nascondere al Ministro. È questo il punto della famosa «Aria di Florestano», che è di una bellezza sconvolgente: Florestano ricorda i periodi più felici e poi si accascia. Pizarro vuole che si scavi una tomba per Florestano e affida l’incarico a Rocco. Ma Fidelio, cioè Leonora travestita, riesce a giungere in suo soccorso. Quando, a un certo punto, arriva Pizarro per uccidere Florestano, ella rivela il suo travestimento, dicendogli che prima di poter sopprimere Florestano deve ammazzare anche lei, sua moglie. È in arrivo il Ministro; Pizarro deve correre ad accoglierlo e Florestano e Leonora possono dar vita a uno stupendo duetto finale «Oh, gioia immensa»: si riconoscono, si chiamano, si abbracciano, e così via. Il Ministro viene a sapere ogni cosa, punisce Pizarro e libera Florestano, portando così a un lieto fine. La trascrizione del Fidelio è affidata dalla casa editrice Artaria a Sedlak, il clarinettista di cui già si è parlato. Nella citata dichiarazione di Beethoven, egli dice: Io sottoscritto, a richiesta dei signori Artaria [che è la sua casa editrice di Vienna], qui dichiaro che egli ha dato la partitura della propria opera Fidelio alla suddetta casa editrice musicale per la pubblicazione [sottolineo], sotto la propria direzione, di uno spartito completo per pianoforte, quartetto o adattamento per banda di fiati. Quindi dà la sua autorizzazione sotto la propria supervisione. La trascrizione vede la luce otto mesi dopo la prima rappresentazione. Ne abbiamo testimonianza, anche in questo caso, dal giornale di Vienna. Scrive: Fidelio, una grande opera in 2 atti di Ludwig van Beethoven, per «Harmonie» a nove voci [attenzione, precisa che vuole nove voci, dunque significa che vuole il «16 piedi»] adattata da Václav Sedlak, maestro di cappella presso l’Illustrissimo Signor Principe Giovanni di Liechtenstein. Sul fatto che Beethoven abbia controllato la versione di Sedlak ci sono posizioni contrastanti. Io personalmente, dopo l’esempio che vi ho prima mostrato, propendo più per il fatto che Beethoven non l’abbia vista. Anche se era già sordo (nel 1814 già avanzava la sordità), certo il suo orecchio interno da compositore non si era distrutto; dunque mi sembra azzardato, date le angolosità della trascrizione, supporre che egli l’abbia controllata. 139 Alcuni sostengono che Beethoven abbia controllato la trascrizione per forza di cose, visto che Sedlak abitava nella sua stessa città. Indubbiamente si può ipotizzare che abbia dato il suo placet per certi tagli decisi ma che non abbia invece controllato il risultato finale al momento in cui erano realizzate le parti prima che andassero in stampa. Al contrario di questa per fiati, la versione per pianoforte, secondo una precisa testimonianza, sembra sia stata controllata da Beethoven. Tale testimonianza è tratta dal diario di Moscheles. Moscheles è stato un grande pianista nonché compositore. Nato a Praga, nel 1808 si ferma vari anni a Vienna, che lascerà per Londra, quindi per Dresda. Nel suo diario ci rilascia una testimonianza che è molto bella, perché scrive: Era l’anno 1814, quando Artaria si accinse a pubblicare l’adattamento per pianoforte del Fidelio di Beethoven, e chiese al compositore se mi avrebbe permesso di provvedervi. Beethoven assentì, a condizione che potesse vedere il mio adattamento di ciascuno dei pezzi prima che fosse consegnato all’incisore [quindi era molto, molto pignolo]. Nulla avrebbe potuto essermi più gradito, dal momento che io riguardavo ciò come l’opportunità lungamente desiderata di avvicinare più da presso il grande uomo e di profittare delle suo osservazioni e delle sue correzioni. Nelle mie frequenti visite, il numero delle quali io cercai di moltiplicare con ogni scusa possibile, mi trattò con la più cortese indulgenza. Benché la sua crescente sordità fosse un considerevole intralcio alla nostra conversazione, mi dette ugualmente molti istruttivi suggerimenti e persino mi suonò quelle parti che desiderava fossero adattate in modo particolare per pianoforte. Copie della versione per pianoforte esistono a Vienna e a Londra e speriamo, in un futuro prossimo, di avere la possibilità di farvele ascoltare. Della versione per quartetto, invece, non se ne sa più nulla, perduta probabilmente per la rivalità sorta fra la casa editrice Steiner e la casa editrice «Artaria». La partitura del Fidelio fu infatti mandata alla casa editrice Steiner, e Beethoven ne sollecitava la restituzione, perché voleva farne una trascrizione. A questo proposito, egli insiste per due volte di seguito: Ho bisogno della partitura di Fidelio per qualche giorno, per rivedere con essa l’adattamento per quartetto. La seconda volta: Ancora vi richiedo di inviarmi l’opera in modo ch’io possa con essa correggere l’adattamento per quartetto per Artaria. Certamente non desiderate esprimere alcun sentimento di gelosia per questo. O trattenete la partitura per questo motivo? In ogni caso, la versione per quartetto non ci è pervenuta. Detto questo, la versione di Sedlak non è completa, perché su sedici numeri ne sono trascritti soltanto dieci. Abbiamo già fatto un’ipotesi in proposito: ci sono motivi, a volte, di difficoltà di trascrizione, o anche di organico. E già all’epoca vi era coscienza della complessità dell’operazione di trascrizione; scrive un altro giornale di Vienna, parlando della musique d’harmonie: «... eseguono persino pezzi che erano destinati alle voci», dimostrando di aver colto quanto difficile fosse questo così radicale mutamento di organico. E veniamo ai tagli. I tagli maggiori avvengono nel secondo atto, vale a dire nella parte più complessa della partitura originale. Anche tutto il finale è soppresso; Sedlak, infatti, termina con il duetto tra Florestano e Leonora. Questo avviene squisitamente per problemi musicali: quando l’originale comincia ad avere parti di estrema complessità e ci sono difficoltà, si taglia, riducendo drasticamente. PAOLO RAVAGLIA Volevo inserirmi per sottolineare un elemento, anche in relazione a quello che ha detto Corrado De Bernart, che è estremamente importante. Compito della trascrizione non è quello di ricreare in toto l’opera ma quello di far conoscere i brani fondamentali e di ricreare un colore generale. Con un termine molto improprio, si potrebbe paragonare la trascrizione a un ottimo trailer, cioè al breve provino 140 di un film, per il quale si rimanda la visione alla sala cinematografica. Ovviamente la concentrazione non è la stessa, poiché i trailer fanno solo vedere momenti brevissimi dai quali è impossibile desumere la trama, ma il concetto di fondo è lo stesso. Lavoro artistico di trascrizione, dunque, ma anche, in buona parte, opera pubblicitaria, per cui non è importante che tutta l’opera sia trascritta. Lo scopo importante è far girare più denaro che serva a mantenere il teatro, a mantenere viva l’attenzione per le pubblicazioni, a far guadagnare gli strumentisti, e via dicendo. Questo capita anche col Freischütz – e con questo finisco la mia interruzione –: dell’intera opera viene trascritto un buon 75% ma manca del tutto l’ultima parte. Non è da escludere neanche l’ipotesi che, avendo raggiunto un certo minutaggio sufficiente per un concerto o per una specifica esecuzione (ma non credo in questo specifico caso), la trascrizione dell’opera terminasse perché il tempo previsto si esauriva con il numero «x» (il numero, nel particolare, pendeva dalla lunghezza di ogni numero d’opera) di brani trascritti. PAOLA BERNARDI Vorrei farvi ascoltare il quartetto, là dove si intrecciano i dialoghi d’amore dei vari personaggi. Questo quartetto è di una semplicità estrema dal punto di vista strutturale. Si possono disegnare addirittura due quadrati, otto battute iniziali e otto battute finali. Poi c’è un canone di ventiquattro battute. Entra prima Marcellina, con ventiquattro battute, poi, a distanza sempre di otto battute, un canone, entra Leonora, con ventiquattro battute; poi c’è Rocco, che, entrando dopo otto battute, ne fa soltanto, di canone, sedici; e poi c’è l’ultima entrata, che è quella di Jaquino, con otto battute sole. Fin qui sembra la tabellina dell’otto: otto, sedici, ventiquattro; c’è soltanto una parte di contrappunto libero che serve a Marcellina per terminare, quale coda sino al termine. Poi c’è un incontro, tre battute di raccordo e, di nuovo, otto di finale. Come vedete, quindi, lo schema è semplicissimo. Possiamo dire che lo schema di questo Quartetto è costituito da due quadrati, un rettangolo e un trapezio. È di una semplicità estrema, come semplice è la melodia, come semplice è l’armonia! Sono tutte cadenze: quarto, quinto, primo; c’è soltanto una cadenza evitata alla fine ma poi subito si raccorda e rientra in tono per concludere. Eppure, quanta drammaticità c’è in questo quartetto! Ci sono quattro stati d’animo. Anche Furtwängler si interroga su come sia possibile che quattro parti così, appena accennate, diano come risultato questa pagina stupenda. Sono quattro stati d’animo diversi: Marcellina canta il suo amore, è il canto spianato di una persona che è contenta; poi c’è Leonora che è preoccupatissima e a disagio; c’è Rocco, contentissimo, perché assiste all’amore di sua figlia per Fidelio che egli stima molto; e poi, in ultimo, c’è la disperazione di Jaquino. Possiamo sentire questo quartetto? È sempre nell’edizione di Furtwängler. (esempio audio: Beethoven: Fidelio, Quartetto Marcellina-Leonora-Rocco-Jaquino «Mi sento sì strana», atto I, scena IV) Domani ascolteremo altre musiche, naturalmente, nella trascrizione per Harmoniemusik. Cominciamo a sentire notizie delle altre opere. PAOLO RAVAGLIA Sarò breve perché voglio far sentire non parecchi, ma un certo numero di brani musicali il più presto possibile. Una cosa è comunque da sottolineare: più si va avanti col tempo e più l’arte della trascrizione diventa difficile; e questo perché si inseriscono degli elementi che sono molto importanti, primo fra tutti il cogliere lo stato d’animo ed emotivo che la musica romantica implica e che si riflette sia sulle voci sia sulle strumentazioni. Nel nostro caso, questo problema si sente particolarmente, soprattutto nella ouverture iniziale del Freischütz che 141 pure, devo dire, è magistralmente trascritta. Il problema della resa forse in un’orchestra viene a essere minore quando c’è un direttore che dà precise indicazioni o, in ogni caso, contribuisce a una buona esecuzione. Nell’ottetto, che di solito non ha direttore, viene a essere maggiore. E più difficile cogliere le precise relazioni tra i tempi espressivi che sono più complessi rispetto al brano settecentesco o di fine Settecento: cambiamenti di andamento, nuance, corone, legature, tutti problemi importanti da risolvere nella fase della concertazione. È anche un problema di esecuzione, essendo musica più complessa dal punto di vista tecnico e spirituale, e più complessa da rendere anche dal punto di vista della armonizzazione a otto voci. In particolare, il Freischütz si compone di sedici numeri d’opera ai quali si aggiungono naturalmente i dialoghi, caratteristici del Singspiel; la suddivisione è in tre atti con sei scene ciascuno. L’elaborazione manoscritta per strumenti a fiato che abbiamo trovato a Firenze, appartenente al Fondo Pitti strumentale, si compone di tre fascicoli, il primo di nove numeri, il secondo di sette e il terzo di sei. I numeri della partitura originale non procedono parallelamente a quelli della trascrizione, in quanto quest’ultima suddivide in più parti un singolo numero dell’originale; ad esempio, l’introduzione dell’opera – il n. 1 dell’opera – viene suddivisa in tre numeri, in tre parti, ossia introduzione, marcia e allegretto. Naturalmente questi brevi brani vengono collegati l’uno con l’altro. Così succede anche per il terzo numero del secondo atto, il n. 9, suddiviso in tre parti, con l’indicazione dell’andamento: allegro, andantino, allegro vivace. L’opera è trascritta per la maggioranza dei suoi numeri, con l’esclusione, naturalmente, dei dialoghi – come ho già detto – dell’entr’acte e della bellissima scena dei lupi, cioè il finale del secondo atto. E manca anche il finale del terzo atto, in verità piuttosto lungo; quindi un buon 20% dell’opera è soppresso. È molto probabile che l’autore dell’adattamento sia Václav Sedlak. Nel manoscritto non c’è il suo nome, che è invece presente nella trascrizione, ad esempio, del Fidelio. Le parti fiorentine sembrano comunque essere analoghe a un altro Freischütz, che però non abbiamo avuto modo di vedere ma che sappiamo comunque esistente. Esso proviene dalla Cappella Ustina di Altbrunn, ed è stato preso a modello per una esecuzione, registrata su disco, da parte di un gruppo di fiati tedesco che si è avvalso di quel manoscritto benedettino. Ho controllato personalmente l’esecuzione con le parti in mio possesso e ho constatato che sono pressoché identiche. Le uniche discrepanze sono il fatto che il manoscritto tedesco non prevede le trombe, che sono invece previste nella nostra trascrizione, e che manca un intero numero. I casi sono allora due: o è un manoscritto incompleto di parti oppure è diverso. Personalmente propendo per la prima ipotesi, cioè che sia incompleto di parti perché, per il resto, è uguale dalla prima nota fino all’ultima. Il lavoro in nostro possesso si presenta eseguito con buona cura, nonostante quegli errori che non mancano mai nei manoscritti. Sono presenti numerose indicazioni dinamiche e agogiche, più o meno correttamente posizionate in relazione al totale delle parti strumentali, e meglio posizionate rispetto ad altre trascrizioni che sia quest’anno (il Guglielmo Tell), sia negli anni passati (Mozart, Grétry e Gluck) sono state prese in considerazione. Manca tuttavia uniformità nell’articolazione riguardo punti, legature e segni vari, con inevitabili problemi durante l’esecuzione in contemporanea, e appaiono usuali errori di trascrizione, quali note sbagliate, misure ripetute, configurazioni non identiche. Mancano inoltre alcuni dettagli, corone, sospensioni ecc., che fanno riferimento alle parti dei cantanti; ma, come già ho accennato prima, sicuramente gli esecutori di allora sapevano dove porle e, quindi, non era necessario scriverle e specificarle più di tanto. Probabilmente, almeno per l’esecuzione diretta e non per una pubblicazione, erano dei brogliacci dai quali prendere spunto aggiungendovi i particolari già noti e non scritti, per poter suonare in tutta tranquillità in esecuzioni pubbliche. Un caso particolare di articolazione contrastante l’abbiamo riscontrato con i corni. Abbiamo trovato infatti delle legature che i corni di allora (che erano senza pistoni e che costringevano a eseguire certe note con l’ausilio della mano) era impossibile che eseguis142 sero. Lo «Jäger Chor», il «Coro dei cacciatori» – comunque, breve inciso, spostato dal terzo atto, al quale in origine appartiene, al primo nel fascicolo delle trascrizioni –, normalmente eseguito a note puntate, lo si trova invece trascritto a note legate. Questo è un dato singolare, che potrebbe essere spiegato col fatto che si tratti di aggiunte a posteriori, sicuramente destinate a strumenti più perfezionati. Se così non è, non so cos’altro possano essere, visto che erano ineseguibili con i corni di allora. L’adattamento si presenta comunque più interessante rispetto ad altre trascrizioni che ho avuto modo di studiare. L’originale è bello, è entusiasmante. Questa trascrizione è divertente da suonare, al di là degli errori che ci hanno causato non pochi problemi. Rammento all’uditorio che il compito della Harmoniemusik non era tanto quello di ricreare in toto la partitura ma quello di dare – l’ho già specificato più volte ma è un punto molto importante – un colore, una immagine generale dell’opera. È chiaro che con l’opera romantica questa operazione era molto più difficile. In ogni caso, Sedlak si dimostrò evidentemente un sapiente organizzatore di parti, perché non soltanto Weber ma anche molti autori romantici furono da lui trascritti con successo. In effetti, operando in questo modo, egli contribuì a prolungare il favore per questo genere musicale anche molto oltre gli inizi dell’Ottocento, nonostante la moda della Harmonie, per l’impossibilità di molte corti di mantenerne i musicisti, andasse progressivamente scemando. Questo genere rimase molto popolare in Boemia fino al 1830, e abbiamo molte testimonianze di musicisti moravi che si trasferirono in America, in Pennsylvania, e contribuirono a mantenere viva questa moda della Harmoniemusik ben oltre il 1830. La preparazione di Sedlak era senza dubbio soddisfacente. Fiore all’occhiello e prova di bravura per gli esecutori è l’ouverture, trascritta per intero. Alcune differenze sostanziali saltano all’occhio, per esempio la traslazione di gran parte del solo di clarinetto dal clarinetto all’oboe; ma, ripeto – e do corpo a questa mia ipotesi –, c’è un ben valido motivo per questo: non è più necessario riproporre il solo con lo stesso timbro ma viene a essere cristallizzata la funzione di ogni coppia di strumenti. Constateremo che il solo per clarinetto passa all’oboe. Ma perché avviene questo? Perché il clarinetto ha un altro compito, che è quello (che sarà, d’ora in avanti, sempre più frequente trovare) di riproporre una parte della struttura armonica, che coincide poi con la parte dei violini. Agli oboi, dunque, la voce principale, quasi sempre quella del soprano o del tenore nella parte vocale, e la voce principale nel caso dei soli; al clarinetto la voce principale in alternativa, nel caso di duetti o terzetti o quartetti, in molti casi comunque subordinata all’oboe e, cosa importantissima, la parte del sostegno ritmico e armonico, quello dei violini. Questo sarà in seguito il ruolo del clarinetto nelle bande militari fino ai nostri giorni. Nel caso del Freischütz, al clarinetto è sovente affidata la voce di Agate, la protagonista femminile, mentre la parte di Max si avvale del timbro dell’oboe. Ai corni è affidata una funzione di colore, quindi richiami venatori naturali (ma questo non è neanche da sottolineare, trattandosi di Carl Maria von Weber), e di ossatura ritmica. Il fagotto è il completamento del sostegno ritmico e armonico al basso e, quando serve, cosa molto frequente nel Freischütz, la voce principale grave, quindi quella del basso. È chiaro che il solo spetta al primo della coppia, mentre invece il secondo strumento di ogni coppia contribuisce alla realizzazione delle Harmoniemusik. Non importa se l’assolo nel confronto con l’originale perde la sua connotazione timbrica: la trascrizione esige, per un valido ribilanciamento del totale sonoro, una disposizione delle parti diversa e, quindi, più rigidamente codificata. La professionalità nell’elaborazione di queste trasposizioni dall’orchestra, quindi, sta nella sapiente riorganizzazione del materiale timbrico e dinamico e nel giusto adattamento delle parti dal vocale allo strumentale. Questa tesi viene maggiormente rafforzata dal fatto che Sedlak era clarinettista, e costringere proprio un clarinettista a rinunciare al suo solo dall’ouverture del Freischütz era quasi un insulto. Tuttavia questo doveva essere fatto, perché ogni strumento aveva il suo ruolo; e nell’ouverture, sebbene ogni tanto il 143 clarinetto riprenda e completi quello che l’oboe fa, la parte principale, quindi l’assolo di clarinetto, in gran parte finisce all’oboe, perché il clarinetto ha un’altra funzione: quella dell’accompagnamento orchestrale, la parte dei violini. Altrettanto accade, come abbiamo visto, nel Fidelio, dove la parte del fagotto viene affidata al clarinetto e, invece, fagotto, oboi e corni fanno la parte vocale. A questo punto volevo passare all’ascolto di qualche brano – il nastro è già a posto –: due arie brevi che, comunque, non sentiremo domani ma che sono molto interessanti. Le ascolteremo dapprima nella parte originale e poi nella trascrizione. (esempio audio: Weber, Der Freischütz) Ci sono alcune parti, in questa trascrizione, che sono sconvolgenti anche per gli strumenti di adesso. Tra breve ne ascolteremo una in cui gli strumenti suonano una parte molto veloce, ma facciamo prima due considerazioni. In primo luogo, si rafforza l’idea che il dilettante di allora fosse comunque un bravo strumentista; in secondo luogo, questa idea è rafforzata anche dal fatto che, considerando l’imperfezione degli strumenti, abbastanza stonati rispetto allo standard odierno, per eseguire questi passaggi correttamente occorreva una mano di notevole abilità. Ma ascoltiamo gli esempi. (esempio audio: Weber, Der Freischütz) CORRADO NICOLA DE BERNART Proseguiamo con il Guglielmo Tell di Gioachino Rossini, opera in quattro atti con un libretto dalle complesse vicissitudini. La prima stesura del libretto di de Jouy era infatti troppo complessa e poco equilibrata al punto che fu dato incarico ad un altro poeta, Bis, di correggerla e darle una migliore sistemazione. La datazione dell’opera in questo caso è importante, perché la trascrizione che noi abbiamo, che proviene da Brno in Cecoslovacchia, è una delle poche che possa essere datata con assoluta certezza. Una volta tanto ci si è imbattuti in una serie di elementi concreti che hanno dato conferma ad alcune delle nostre ipotesi. In genere, non abbiamo mai partiture delle trascrizioni ma sempre le singole parti dei singoli strumenti, tuttavia attribuibili ad una stessa mano di trascrittore, revisore, ecc. Ebbene, in questa occasione ci siamo trovati di fronte parti staccate, secondo il rituale, ma ciascuna di esse era firmata e datata da un diverso personaggio. Ogni singolo strumentista aveva provveduto da se stesso non solo alla ricopiatura ma anche alla stesura e al riadattamento della propria parte, perché ogni singolo strumentista indica in latino che ha provveduto alla copiatura ma anche alla revisione della parte; e ogni strumentista mette la propria firma e la data. La data è quella del 1831. Siamo dunque assolutamente certi che almeno la prima esecuzione di questa partitura risalga al 1831, seppure non possiamo affermare con altrettanta certezza che anche la composizione dell’originale trascrizione di partenza risalga allo stesso anno, perché teoricamente queste parti staccate potrebbero eventualmente essere delle copie revisionate di una partitura di qualche anno precedente. Il fatto è che noi non ci siamo mai imbattuti nel corso della nostra ricerca in partiture ma sempre ed esclusivamente in trascrizioni in parti staccate. Questo potrebbe spiegare parte degli errori: è evidente che, in una stesura delle singole parti senza un testo precedente di partenza che permetta di verticalizzare anche visivamente, per esempio, lo svolgersi dell’armonia, è più che probabile che anche un bravissimo revisore possa fare degli errori. Dobbiamo inoltre tener presente che alcuni strumenti avevano accordature particolari, e questo poteva complicare non poco la situazione. La cosa divertente nell’ascolto comparato del Guglielmo Tell originale e della sua trascrizione (che viene attribuita a Sedlak, ma su questo io personalmente non posso avere delle certezze) è che si incomincia a sentire qualche cosa che non dà più la sensazione del modello di partenza. Si sente fortemen144 te e nettamente, con un certo disagio peraltro, che nell’originale la musica sta andando fortemente avanti, nella sua carica di enorme potenzialità emotiva, espressiva, con una enfatizzazione che va verso il Romanticismo; al contrario la versione per la Harmoniemusik rivela essere questa una formazione nata quasi cento anni prima e che comincia ad avere il tempo contato. Abbiamo visto che in Boemia e in Moravia, grazie a una grande tradizione di strumenti a fiato, la tradizione continuò più a lungo nel tempo ma in realtà gli epigoni estetico-musicali di questo tipo di formazione vanno necessariamente collocati nella prima metà dell’Ottocento. Dagli immediati raffronti delle due opere – la trascrizione e l’originale – emerge immediatamente proprio un forte senso di disagio che è dato proprio dall’incapacità dell’ottetto di fiati di riprodurre l’impetuosa creatività e l’enorme carica di modernità che il Guglielmo Tell sprigionava. Guglielmo Tell, come sapete, per l’epoca fu considerata l’opera quasi di un nuovo Rossini, che andava molto più avanti di quanto in precedenza aveva fatto sentire. (esempio audio: Rossini, Guglielmo Tell) Ora una riflessione mi viene da fare dopo questo ascolto: quanto sono importanti queste trascrizioni per la prassi esecutiva? Personalmente credo che la domanda che possa incuriosire di più un musicista sia questa. Una volta acclarato il fatto che la trascrizione esista, che si inserisca in un certo contesto storico, sociale, economico, ecc., che abbia un suo valore artistico complessivo, per me musicista e interprete moderno che non suona il clarinetto o il fagotto o l’oboe, quale può essere l’utilità derivante dalla conoscenza di queste trascrizioni? Qual è la lezione che da loro possa apprendere? A mio parere il terreno che si apre è un terreno sconfinato, ed è quello della prassi esecutiva. Faccio un esempio. Sappiamo della curiosa attenzione per le voci secondarie da parte della scuola pianistica a cominciare dal 1830 circa fino alla fine del secolo. Si aveva il vezzo molto curioso di andare a scovare e valorizzare, nell’esecuzione di un brano, non la voce principale ma le voci nascoste. Un paradosso, ovviamente, ai nostri occhi, che però viene pienamente confermato dall’ascolto delle più vecchie registrazioni dei grandi pianisti del passato stilisticamente legati alla prassi ottocentesca. Ebbene, quando noi assistiamo a questi strani capovolgimenti, per cui a un certo punto una parte tende a scomparire e un’altra assume un ruolo principale, mi viene sempre da chiedermi se, di fatto, questa prassi esecutiva legata agli strumenti dell’epoca e a un impasto sonoro e timbrico che non può coincidere con quello attuale, sia tale da giustificare eventualmente un tipo di trascrizione che proprio questo aspetto vada a sottolineare. Un esempio concreto. L’interpretazione del Guglielmo Tell ascoltata è diretta da Muti. Muti ne realizza giustamente, trascorsi ben cento anni di storia della musica e dell’interpretazione, una lettura fortemente enfatizzata verso il moderno. Questo aspetto quindi ci appare come dominante nell’opera rossiniana. Ma questa idea può essere ritenuta realmente credibile e più attendibile rispetto, invece, a quella di una esecuzione estremamente classicistica, come forse era stato fatto la sera della prima all’Opera di Vienna? In altre parole, la trascrizione, lineare, pura e rétro, va considerata la copia astratta e limitata nella sua diversità di una partitura o piuttosto una copia fedele e concreta del modo di eseguire la partitura? Secondo me, questo è il dubbio più interessante. Penso infatti che molti elementi riguardanti la corretta conoscenza e pratica della prassi esecutiva possano derivare proprio dalle trascrizioni. CARLO MARINELLI Data la funzione che assumevano, non potevano essere pura trascrizione. Quello che poteva succedere con D’Anglebert o con Rameau non può più succedere con la Harmoniemusik; è una questione di uso pratico, quindi si riferisce direttamente al modo di eseguire, non strettamente alla partitura. 145 CORRADO NICOLA DE BERNART Sono d’accordo. Queste trascrizioni assumono una grande nuova vita, che è sostanzialmente quella di fornirci un potenziale campo di indagine utile per la storia della prassi esecutiva e dell’interpretazione. Potremmo anche dividerci in fautori di esecuzioni filologicamente pure, anche da un punto di vista timbrico e strumentale, e non fautori di questo tipo di esecuzioni; ma resta fermo il fatto che il campo di interesse, a questo punto, cessa di essere l’ottetto di fiati o la diffusione dell’opera, per divenire, secondo me, le concrete modalità di pratica e prassi esecutive. Nel secondo ascolto, per esempio, si notano delle cose ancor più interessanti. (esempio audio: Rossini, Guglielmo Tell) La musica nasce, si evolve, cambia, soprattutto considerando questi elementi. Il linguaggio dell’opera, così come si evolve, da un certo punto non può più essere trascrivibile per questo tipo di formazione e, da questo punto di vista, comporta il declino di questa formazione strumentale. Nel Novecento, sia pure con le dovute differenze rispetto ai suoi precedenti storici, ritornerà in auge. Diverso è il discorso della banda, di cui parleremo in altra sede: anche la banda continua a trascrivere. CARLO MARINELLI Sì, ma è già cambiata; e attraverso cosa è passata? Qual è il ponte di passaggio tra l’uno e l’altro tipo di formazione? L’organo è il ponte delle trascrizioni che portano alla banda, che divulga in chiesa ma anche nella piazza, perché la chiesa è una piazza chiusa; poi viene la banda che suona nella piazza. CORRADO NICOLA DE BERNART Sono d’accordo. Ma proseguiamo con gli ascolti. (esempio audio: Rossini, Guglielmo Tell) C’è una parte cantata, la gran massa del coro; c’è anche la grande massa dell’orchestra però tutto rimane contenuto e, chiaramente, risalta di momento in momento tra tutto qualcosa di più importante. Non so se notavate, per esempio, che il taglio dato all’entrata di ogni parte è quello tipico di noi strumentisti: quando si entra, lo si fa con molta decisione, mentre quando deve entrare la seconda parte ci si ritrae un passo indietro, in modo che la nuova entrata sia molto chiara. Si è fatto così per decenni anche per le fughe di Bach, poi finalmente ci si è resi conto che il contrappunto ha nella sovrapposizione e fusione paritetica il suo senso, e che alla fine si devono sentire dieci parti che suonano tanto, e non sempre una sola principale che suona di più rispetto alle altre. Nella trascrizione per Harmoniemusik questo ruolo principale non è più tanto presente; si potrebbe pensare che ciò accada perché ci sono solo otto strumenti e non cento, ma secondo me non è così, è invece un fatto di prassi esecutiva. Questo gioco di diverso livellamento è un gioco di prassi esecutiva, perché evidentemente questa idea di chiarezza assoluta che noi, con il semplificato spirito moderno, vogliamo a tutti i costi trovare in questo brano, probabilmente poteva non essere l’elemento determinante da ricercare all’epoca. L’equilibrio fra l’orchestra e il coro in scena forse non era poi così raffinato come attualmente capita di sentire alla Scala di Milano o in registrazione. È altamente probabile che, se io avessi l’occasione di sentire il Guglielmo Tell in un piccolo teatro di provincia, ne avrei una idea più consona all’originale storico che non se ascoltassi il raffinato ma artificioso equilibrio messo in piedi da Muti. Passiamo adesso all’ascolto del prossimo brano. 146 (esempio audio: Rossini, Guglielmo Tell) È un messaggio armonico più che un messaggio melodico? Io, tutto sommato, penso di sì; per semplificare al massimo, si potrebbe dire che si avverte più una verticalità che un’orizzontalità in questa trascrizione dell’originale. Il brano che stiamo per ascoltare è invece la «Danza», che tutti conosciamo e che, forse, è il brano più noto del Guglielmo Tell. (esempio audio: Rossini, Guglielmo Tell, Danza, atto III, scena II) Nel prossimo caso, ad esempio, mi pare che sia frainteso dagli esecutori lo spirito del brano rossiniano. PAOLO RAVAGLIA Frainteso in modo indegno! CORRADO NICOLA DE BERNART Sono d’accordo, e questo possiamo dirlo in modo abbastanza netto: si trasforma quella che è una danza da teatro in una sorta di saltellante frivolezza molliccia, con un effetto molto sgradevole che sentirete direttamente. In poche parole, viene secondo me completamente frainteso lo spirito della musica di Rossini. E non parlo della trascrizione ma dell’esecuzione della trascrizione. (esempio audio: Rossini, Guglielmo Tell, Danza, atto III, scena II; trascrizione) Ascoltiamo il «Passo a sei». (esempio audio: Rossini, Guglielmo Tell, «Passo a sei», atto I, n. 5) Non capisco la scelta interpretativa, perché la danzabilità di questo brano viene cancellata, perché si cerca di farne un’esecuzione sofisticata e metafisica ma non più «reale». PAOLA BERNARDI C’è qualcuno che vuole fare domande, prima di chiudere la serata? CARLO MARINELLI Più che una domanda devo fare una considerazione. Questa sera sono particolarmente entusiasta. Da parte mia, era un po’ calato l’entusiasmo per questa ricerca che portiamo avanti da tanti anni, ma questa sera sono venute fuori delle cose talmente meravigliose che ho l’impressione netta che scopriremo tante altre cose. La mia conclusione è allora questa: questa serata, così come l’avete organizzata, ha avuto una riuscita talmente buona che mi ha riacceso gli entusiasmi sulla ricerca. PAOLA BERNARDI Vi ringraziamo e vi preghiamo di venire puntuali domani, perché dopo l’esecuzione, la Harmonie dovrà partire per un concerto a Viterbo. (applausi) 147 martedì 3 dicembre 1996 ore 16.30 SALA DELLE STIGMATE (Largo Argentina) PAOLA BERNARDI Buona sera a tutti. Quella che avete davanti a voi è una Harmoniemusik o musique d’harmonie, cioè un gruppo di fiati che verso la metà del Settecento divulgava l’opera soprattutto in Austria e in Boemia. Non è il primo anno che noi ci interessiamo della Harmoniemusik: abbiamo visto Grétry, Paisiello, Mozart, Martín y Soler, Sarti e tanti altri autori. Si trattava però sempre di trascrizioni per otto strumenti, senza le due trombe e il contrabbasso. Poi pian piano l’organico si è allargato. La Harmoniemusik, come vi dicevo, portava all’esterno delle corti, nelle strade, nelle piazze un repertorio che divulgava l’opera. Gli strumentisti erano le prime parti dei fiati delle orchestre di corte che si riunivano per questa ulteriore attività e il trascrittore era quasi sempre uno di essi. Le opere prese in esame quest’anno sembra che siano state tutte trascritte da Václav Sedlak, clarinettista del principe del Liechtenstein e attivo a Vienna. A Vienna all’epoca c’erano due grandi Harmonie, una che faceva capo all’imperatore e una che faceva capo, appunto, al principe del Liechtenstein. Ascolteremo quest’anno trascrizioni dal Fidelio di Beethoven, nella stesura finale del 1814, rappresentato per la prima volta a Vienna, dal Freischütz di Weber, che ha avuto la prima rappresentazione nel 1821 a Berlino, dal Guglielmo Tell di Rossini, rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1829. Direi di cominciare subito andando in ordine cronologico e facendovi ascoltare, dal Fidelio di Beethoven, il quartetto del primo atto: Marcellina, Fidelio, cioè Leonora travestita da uomo, Rocco, il papà di Marcellina, e Jaquino, innamorato di Marcellina. C’è un intreccio d’amore alquanto curioso, perché Fidelio è in realtà una donna travestita. Beethoven scrive questo quartetto su una melodia semplicissima che si muove parallelamente. Semplicissima l’armonia, semplicissima la struttura: sembra che tutto sia fermo, che nulla si muova dal punto di vista musicale. Eppure in questa atmosfera di serenità, come dicevo ieri, ci sono quattro stati d’animo: uno è l’amore sereno di Marcellina, mentre sereno non è affatto Fidelio, perché comincia a capire che Marcellina si innamora di lui o, meglio, di lei, e quindi è piuttosto preoccupato; Rocco, che invece è molto contento dell’amore tra i due, e Jaquino, che invece è disperato perché Marcellina ama un altro. Quattro stati d’animo, dunque, che Beethoven ci dà sotto forma di estrema semplicità, sia melodica sia armonica. Prego. (esecuzione dal vivo: Beethoven, Fidelio, Quartetto Marcellina-Leonora-Rocco-Jaquino «Mi sento sì strana», atto I, scena IV; trascrizione Sedlak) (applausi) Il direttore della Harmonie poteva scegliere di utilizzare o meno il contrabbasso. A noi è sembrato giusto inserirlo per un maggior peso della parte del basso, naturalmente, su cui far levitare anche le altre parti; direi che il timbro del contrabbasso è necessario. L’esistenza della parte del basso è un po’ in dubbio però, quando viene annunciata la trascrizione di Sedlak in un giornale di Vienna, si dice che egli aveva trascritto l’opera di Beethoven per nove voci. Per il secondo pezzo cambiamo totalmente atmosfera. È un’aria «concreta», per così dire, in quanto si tratta dell’aria dove Rocco fa il panegirico del danaro: senza danaro non si fa niente, senza danaro non si ha potenza, senza danaro non si ha amore, ecc.; Rocco è una tipica figura da Singspiel, rappresenta il personaggio maturo che comincia a ragionare in termini più concreti. Quest’aria è costruita, dal punto di vista musicale, in tanti tasselli: due quarti, sei ottavi, quindi binario, ternario, binario, ternario e binario. È trascritta interamente, stesse tonalità, stesse battute, con una sola modifica: nel momento in cui si passa nel tempo ternario, l’originale dice «un po’ più mosso», mentre la trascrizione di Sedlak «un po’ meno mosso». Evidentemente l’articolazione del violino è più rapida, 151 mentre invece l’articolazione dei fiati è più lenta; il trascrittore avvisa che si deve andare più lentamente. (esecuzione dal vivo: Beethoven, Fidelio, Aria di Rocco «Se non s’ha dell’oro appresso», atto I, scena IV; trascrizione Sedlak) (applausi) Quest’aria ci porta indietro, è molto settecentesca. Il canto di Rocco era tutto affidato al fagotto, e questo gli dà un’aria molto ironica e, soprattutto, settecentesca. Andiamo avanti. Si complicano le cose (conoscete tutti la trama del Fidelio), e finalmente, nella cella, Florestano e la moglie si incontrano e, dopo tante vicende, si riconoscono. E c’è questo finale. Sedlak nella sua trascrizione si ferma qui, non trascrive il vero finale, perché abbiamo visto che tante complicanze ne ostacolavano la realizzazione. Si riconoscono, si chiamano, si abbracciano, è insomma un inno alla gioia. Ancora una volta troviamo nei finali di Beethoven un inno alla gioia: le ultime parole sono «Oh grazie a te, Dio, per questa gioia!». È a questo punto che Sedlak termina la trascrizione. È il grande duetto tra Leonora e Florestano. (esecuzione dal vivo: Beethoven, Fidelio, Duetto Leonora-Florestano «Oh Gioia indicibile», atto II, scena V; trascrizione Sedlak) (applausi) Grazie per questo bel Beethoven che ci avete fatto sentire. Cedo ora la parola a Paolo Ravaglia. PAOLO RAVAGLIA Lavorare con un gruppo di fiati, cercando di eseguire nel migliore dei modi, cercando di trovare delle soluzioni adeguate a dei problemi di interpretazione che si rifanno a un originale per voci e orchestra, non è naturalmente una cosa facile. In funzione di questa considerazione, vorrei chiarire bene queste difficoltà puntando il dito, per colpe ma anche per meriti, sulle qualità musicali degli strumentisti. A suo tempo queste trascrizioni venivano eseguite da musicisti spesso dilettanti, ma ciò che indica la parola «dilettanti» è molto diverso da quello che intendiamo oggi. Questo termine si riferiva a musicisti di una qualità superiore rispetto a quella odierna. In sostanza, i dilettanti di allora erano persone che avevano una discreta preparazione musicale e, soprattutto, sicuramente erano frequentatori di teatro, perché conoscevano queste partiture molto bene: conoscendo bene gli originali, potevano trascrivere (non tutti di loro, naturalmente, ma qualcuno) queste partiture. E per lo stesso motivo potevano farlo in maniera non precisissima: queste trascrizioni, questi manoscritti che ci siamo trovati davanti erano dei brogliacci, una copia spesso irta di errori, come noi sappiamo bene, perché le prove che abbiamo fatto spesso sono state utilizzate per cercare di correggerli. In sostanza, si tratta di cose scritte in fretta con particolari tecnici che erano sfasati rispetto a una verticalità della partitura, per cui c’era una corona messa di qua, una corona messa dall’altra parte, delle figurazioni ripetute eccessive, battute in più e, spesso, battute in meno, i segni dinamici «forte», «piano», non perfettamente coincidenti, spostamenti – una battuta in più all’oboe e una in meno nel fagotto, una in più nel clarinetto –. Insomma tanti elementi di disordine che indicano che questi lavori erano bene o male scritti in fretta ma comunque poi eseguite bene. Ci sono molte cronache dell’epoca, testimonianze di compositori, come lo stesso Mozart, che si riferivano ad esecuzioni di musiche eseguite in maniera egregia, probabilmente anche a memoria, da suonatori che potevano essere sia dilettanti sia, come ha accennato la signora Bernardi prima, dei professionisti, nel senso di strumentisti pagati dalla nobiltà 152 del periodo e che lavoravano quotidianamente su queste partiture cercando di fare del loro meglio. Ad ogni modo, nelle partiture che ci siamo trovati di fronte quest’anno, rispetto a quelle degli anni precedenti che si riferivano a Grétry, Mozart, Martín y Soler, Sarti e altri compositori del Settecento, ci sono stati dei problemi di interpretazione maggiori soprattutto in Rossini e in Weber, autori che sentirete adesso; problemi non indifferenti, perché la musica romantica era decisamente più difficile da eseguire rispetto a quella del cosiddetto periodo classico. Questo con particolare riferimento alle dinamiche ma anche agli attacchi, quindi a fattori prettamente tecnici. Sono più frequenti i cambiamenti di tempo; ci sono anche altri particolari tecnici, come corone, nuance di diverso tipo, in più che vanno prese in considerazione e rendono (speriamo oggi di non crearvi dei problemi, perché sono cose veramente difficili) queste partiture estremamente difficili. Questo tecnicamente. Poi filologicamente, nel senso spicciolo del termine, c’è la necessità di ricreare ma non nel totale sonoro, perché è impossibile farlo, la partitura originale che comprende voci, orchestra, coro, per pervenire ad una rievocazione del colore generale dell’opera presa in considerazione. Il compito della armonizzazione a otto voci è proprio quello di dare il massimo della fedeltà possibile, introdurre al colore dell’opera, e la Harmonie, suonando per le strade, nelle feste e nei convivi dava l’opportunità al pubblico di conoscere questi lavori, le ouverture delle opere (vi faremo sentire quella del Freischütz, Il franco cacciatore, di Karl Maria von Weber), e le arie invogliando la gente ad andare al teatro e ascoltare l’opera intera. In altre parole, si realizzava un’operazione pubblicitaria, oltre che offrire un momento di divertimento puro e semplice per chi suonava e per chi ascoltava. La prima cosa che ascoltiamo dal Freischütz è l’ouverture, un pezzo bellissimo nella sua forma originale ma altrettanto bello nella versione armonizzata a undici voci. Per quanto riguarda l’opera di Weber, ci avvaliamo anche della partecipazione delle due trombe che danno un colore maggiore alla trascrizione. La trascrizione è, molto probabilmente, di Václav Sedlak, clarinettista, come ha già accennato la signora Bernardi, della corte del principe del Liechtenstein e bravissimo trascrittore. Trascrisse un gran numero di opere e contribuì con il suo lavoro al prolungato affermarsi della moda dell’esecuzione di musica per Harmonie nelle principali capitali europee. Contribuì introducendo la trascrizione dell’opera romantica nel repertorio che, fino a quel momento, comprendeva solo trascrizioni delle principali opere degli autori del Settecento. Non sempre i brani che venivano trascritti rimanevano nella stessa identica tonalità del brano originale; questo perché i problemi degli strumenti di allora non erano indifferenti. Non erano strumenti come quelli che vedete oggi: gli oboi avevano poche chiavi, i corni meno ancora, come il fagotto e il clarinetto d’altronde che avevano molte meno chiavi di quanto non ne abbiano adesso. Puntualizzo che la chiave è un meccanismo semplice o complesso di leve che permette di aprire fori lontani a quelli che le dita possono raggiungere. Per cui, molto spesso, i brani venivano trasportati in altre tonalità, per permettere a questi strumenti più primitivi (ma non per questo meno interessanti di quelli che conosciamo oggi), di eseguire questi brani senza eccessive difficoltà, perché più alterazioni si mettono in chiave e più difficile diveniva per essi suonare. Vi auguro buon ascolto. (esecuzione dal vivo: Weber, Der Freischütz, ouverture; trascrizione Sedlak) (applausi) Le parti più belle, che sono anche le più difficili (e io, purtroppo, le ho scelte), sono due terzetti, uno dal primo e uno dal secondo atto, il primo di Max, Cuno e Caspar, col coro «Oh, diese Sonne», brano bellissimo, con degli intrecci di frasi e con le voci affidate tendenzialmente a precisi strumenti (un’altra caratteristica della Harmoniemusik). In questo caso, una delle voci principali è quella del basso e, naturalmente, 153 è compito del basso portarla in primo piano. Nell’altro terzetto abbiamo le voci di Aennchen e di Agathe, le due principali protagoniste, e che vengono affidate all’oboe e al clarinetto. Questo piccolo discorso è per introdurre una cosa molto importante: nel complesso di Harmonie ogni coppia di strumenti ha una sua funzione. Non c’entra niente se nell’originale il solo veniva affidato a un tale strumento per le sue particolarità timbriche: nella prassi trascrittiva per Harmonie di fiati ogni strumento ha la sua funzione. La voce principale è quella dell’oboe, che tendenzialmente fa le voci del tenore e del soprano, l’altra voce principale è quella del clarinetto; andando avanti nel tempo il clarinetto assume una funzione che poi sarà quella principale, come avviene anche nella banda odierna, cioè quella di fare la parte dei violini. E questa è un’ipotesi che mi sembra sufficientemente consolidata dai fatti. Chi ha trascritto questo brano era un clarinettista: quando mai si è visto un clarinettista affidare la sua parte a un altro strumento? A meno che non ci fosse una motivazione ben precisa, cioè quella appunto di rispettare una gerarchia nella suddivisione delle parti. Completando il discorso, agli oboi viene affidata la parte principale, ai clarinetti un’altra parte principale ma sempre subordinata o dialogante con l’oboe, il primo della coppia; ai corni funzione di colore e di supporto ritmico, assieme ai fagotti; le trombe, naturalmente, a completamento. Come accennato prima dalla signora Bernardi, il contrabbasso o, anche, se non era disponibile, il controfagotto o, addirittura, il serpentone, che era uno strumento stranissimo a forma di esse (sul quale per ora non ci soffermiamo per problemi di tempo e di competenze di discorso), doveva fornire la funzione di 16 piedi, quindi di rafforzo del basso, quando ciò veniva richiesto, perché in molte trascrizioni la parte del contrabbasso non è prevista. Questo, comunque, non vuol dire che non potesse essere usato in egual modo, soprattutto se i fagottisti erano non particolarmente abili; ma non è questo certo il nostro caso, perché abbiamo dei fagottisti bravissimi. Il terzetto si sviluppa in maniera abbastanza omogenea: c’è un ingresso del fagotto come parte solista che rende molto bene la parte di Max che ha i soliti problemi di donne, per cui è molto arrabbiato; poi c’è il coro per contrasto, al quale partecipano i clarinetti e i corni che invece, tendono ad addolcire molto la situazione. Weber amava molto questi due strumenti, clarinetto e corno, per i quali ha composto dei concerti bellissimi. È probabile che, comunque, il trascrittore non abbia voluto cambiare questo colore che sicuramente risulta anche meno originale, perché questo impasto di clarinetti e corni nella parte che riguarda il coro è molto interessante. Una cosa interessante che ho notato in questa trascrizione è una maggiore precisione e un modo particolare di scrivere diverso rispetto agli altri esempi considerati. Qui abbiamo anche dei recitativi, per quanto brevi, ben trascritti. Il terzetto si snoda attraverso tre numeri di trascrizione, quando, invece, nell’originale è un numero unico di opera. Questo vuol dire che forse questi singoli numeri potevano essere eseguiti separatamente, oppure con un ordine invertito nell’ambito generale della trascrizione rispetto all’originale. Per i clarinetti viene richiesto un cambio di strumenti. Esistono clarinetti in do, clarinetti in si bemolle, clarinetti in la. Allora gli strumentisti avevano la necessità, quando proprio era impossibile cambiare, nell’andamento dello stesso brano, la tonalità del brano originale, di sostituire rapidamente lo strumento. Nei primi anni dell’Ottocento, di solito, i clarinetti principali che venivano usati erano tre. Nel nostro caso, quello in la non serve; è quello in si bemolle che serve per almeno l’80% della trascrizione, e un 20% è affidato al clarinetto in do, che era un clarinetto più piccolo, con un timbro più brillante. La questione timbrica è fondamentale: gli strumenti tagliati in tonalità diverse davano una diversa risposta timbrica e di colore, uno più brillante, uno più nostalgico, uno invece più suadente. Nel complesso si tratta di una trascrizione composita, con tempi diversi, affrontata e trascritta in maniera veramente egregia. È molto probabile che, anche se il nome di Sedlak non appare nel manoscrit154 to, sia veramente sua, perché è stata fatta con una grande perizia: sappiamo che questo trascrittore era molto bravo. Allora, terzetto Max-Cuno-Caspar, con coro, «Oh, diese Sonne». Buon ascolto. (esecuzione dal vivo: Weber, Der Freischütz, Terzetto Max-Cuno-Caspar «Oh, diese Sonne», atto I, scena II; trascrizione Sedlak) (applausi) Questo terzetto apparteneva al primo atto. L’altro terzetto che eseguiamo proviene dal secondo atto, ed è tra Agathe, Max e Aennchen. In questo terzetto le voci dei tre protagonisti vengono abilmente suddivise tra gli strumenti principali. Purtroppo manca gran parte del terzo atto; sembra strano, perché non c’era alcun problema apparente che ostasse ad una trascrizione: l’opera è stata trascritta per un 70%. Probabilmente vi sono dei brani dell’opera che non destavano un interesse particolare; dopo aver sentito una parte strumentale come l’ouverture, forse un altro episodio strumentale veniva ritenuto superfluo e vari brani non possono essere trascritti per la loro estrema complessità e la loro intima relazione con la forma scenica. Ad esempio la «scena della gola del lupo», che è così complicata (bellissima, tra l’altro), realmente non si può ridurre a una mera esecuzione strumentale. Manca, ad esclusione dell’ultimo pezzo che poi eseguiremo, il «Coro dei cacciatori», una gran parte dell’ultimo atto, e questo è un peccato, perché ci sono delle arie interessanti che potevano essere eseguite, anche non in questa sede, ma per eventuali concerti in altra sede. Tornando al terzetto, è molto bello e anche in questo caso, come nel gruppo dei tre numeri precedenti, c’è una suddivisione diversa nella trascrizione rispetto all’originale: mentre l’originale è un numero d’opera unico, qui abbiamo tre numeri uniti insieme in maniera magistrale. Ripeto, questo a dimostrazione della professionalità di Sedlak come trascrittore. Oltre tutto il Freischütz, Singspiel romantico per eccellenza, è un’opera di forte tensione emotiva e psicologica. Il libretto ha una struttura molto chiara di lotta tra il bene e il male e dominano stati d’animo forti che debbono assolutamente essere resi, anche se il rapporto timbrico della trascrizione rispetto all’originale cambia di molto, perché non possono essere valorizzate al cento per cento tensioni psicologiche che solamente in una scena con dei cantanti e un’orchestra si possono dare. Vi è comunque una buona resa di colore, a testimonianza ancora che la trascrizione è fatta bene. Questo è l’ultimo mio intervento. Ora ascolteremo questo terzetto dal secondo atto e subito dopo il «Coro dei cacciatori» dall’ultimo atto: è l’unica trascrizione dall’ultimo atto. (esecuzione dal vivo: Weber, Der Freischütz, Terzetto Agathe-Aennchen-Max «Cosa? Dove? Che orrore!», atto II, scena III; trascrizione Sedlak) (esecuzione dal vivo: Weber, Der Freischütz, «Coro dei cacciatori», atto III, scena VI; trascrizione Sedlak) (applausi) CORRADO NICOLA DE BERNART A questo punto passiamo al Guglielmo Tell di Rossini. Ieri ne abbiamo già parlato e abbiamo messo a confronto vari brani tratti dall’originale e dalla trascrizione. Voglio ricordare qualcosa. La trascrizione è databile con una certa sicurezza, a differenza di quasi tutte le musiche che abbiamo ascoltato questa sera e su cui abbiamo lavorato negli anni passati. Abbiamo scoperto, studiando le musiche che ci sono state inviate da Brno, che ogni singola parte di ogni singolo strumentista era controfirmata da una diversa persona che vi apponeva non solo la data, appunto quella del 1831, ma vi aggiungeva una breve dichiarazione di avere riveduto e ricopiato la propria parte perso155 nalmente. Questo ci porta a credere che ogni singolo strumentista non solo traesse dalla partitura originale la parte del proprio strumento, ma che inoltre vi intervenisse attivamente ad arrecare le modifiche che ritenesse più opportune. Questo si inquadra nell’ottica che autori di queste trascrizioni fossero non veri e propri compositori ma personaggi come Sedlak, ad esempio. Strumentisti certamente molto bravi, ottimi conoscitori del proprio strumento, ma non tanto competenti da esserlo altrettanto riguardo le tecniche e le problematiche esecutive di altri strumenti. Abbiamo detto che questa parte viene da Brno, e ancora una volta troviamo conferma di questa area centro-europea quale luogo di sviluppo di questo filone, dalla Boemia alla Moravia, con un ulteriore allargamento a tutti i territori austriaci e tedeschi e, più marginalmente, ad altri territori europei. L’organizzazione del mondo musicale, nell’ambito di questi territori, era molto più poliedrica e molto più sfaccettata di quello che noi oggi possiamo pensare. Ad esempio, il teatro di Brno, che era pur sempre un teatro «di provincia», perché non era certo al livello dell’importante Teatro dell’Opera di Praga o del Teatro dell’Opera di Vienna, svolgeva nei primi anni dell’Ottocento una notevole e varia attività e portava in scena a getto continuo e con estrema rapidità, rispetto alle date di prime esecuzioni in altre zone europee, non solo molti lavori di autori di scuola boema, come Jan Krtitel Vanhal ma anche e forse principalmente le opere di tutti i più grandi operisti attivi all’epoca. Fidelio fu rappresentato, come lo furono quasi tutte le opere di Rossini, Bellini, Donizetti e Weber. Lo stesso Weber, peraltro, che è presente dal 1813 al 1816 a Praga come direttore artistico dell’attività del teatro di quella città, diede un ulteriore impulso a portare in scena, nell’attuale area cecoslovacca, la maggior parte dei lavori che venivano rappresentati in Europa. Quindi la conoscenza di questo repertorio, Guglielmo Tell compreso, è una conoscenza diretta, e questo ci spiega come mai si trovino trascrizioni di tutte le opere dell’epoca, nessuna esclusa, e siano rappresentati in pratica tutti gli autori che circolavano nelle varie nazioni europee. Avevo accennato al mondo musicale boemo, che è molto particolare, soprattutto perché vi era già all’epoca una larga diffusione dell’educazione musicale, intesa non solo come conoscenza di massima della musica, ma anche come conoscenza diretta della possibilità tecnica ed esecutiva dei vari strumenti. Tutte le scuole elementari – secondo la nostra classificazione moderna che però, come vedremo in seguito, ha radici antiche – boeme, erano caratterizzate dalla presenza della figura del maestro che doveva assolutamente essere anche un insegnante di musica. Quindi il contatto dell’infanzia con la musica, anche nel più piccolo villaggio, era immediato e diretto. Non è un caso che proprio dalla Boemia sia venuta questa moda degli ensemble di strumenti a fiato: evidentemente, rispetto alle più complesse tecniche esecutive degli strumenti ad arco, i fiati ponevano meno problemi in fase di apprendimento. Avevano meno chiavi e, quindi, si usava una tecnica digitale un po’ meno complessa, e la loro utilizzazione era molto più diffusa poiché si trattava di strumenti poveri, poco costosi e costruibili anche con mezzi molto limitati. Un violino di liuteria ha dei costi e anche delle difficoltà di costruzione molto maggiori rispetto a quelli di un fagotto. Il contatto con gli strumenti a fiato era assolutamente consueto. La teoricizzazione del rapporto tra infanzia e musica, che può apparire molto particolare rispetto a quanto avveniva in altri sistemi di istruzione, ha in quei territori delle origini molto antiche perché già nella metà del Seicento era stato proprio un moravo a scrivere un’opera pedagogica che ha influenzato moltissimo gli schemi educativi dell’infanzia di tutta l’Europa del Settecento. Può essere divertente sapere che la suddivisione delle quattro tipiche fasce di studi, attualmente in vigore, per esempio, nel nostro stato, la fascia elementare, media, media superiore e universitaria, era stata teorizzata appunto alla metà del Seicento da Jan Amos Komensky, che era un didatta, un pedagogo, un filosofo, che fu per molti anni anche in Francia e in Inghilterra. Egli pubblicò una grande opera, conosciuta come «Didactica 156 Magna», in cui teorizzava la suddivisione dell’istruzione in queste quattro fasce e inseriva l’educazione musicale e l’educazione al diretto studio dello strumento musicale come elementi determinanti educativi per la fascia di istruzione che andava dai sei ai dieci anni. Questa impostazione di pensiero fu ampiamente recepita nei territori asburgici, e ciò spiega le differenze abbastanza radicali che esistono a tutt’oggi nei sistemi educativi delle nazioni di lingua tedesca rispetto alla nostra. Tornando al Guglielmo Tell, la trascrizione è del 1831. La prima del Guglielmo Tell a Parigi era stata appena nel 1829. Il Guglielmo Tell, come sappiamo tutti, è l’addio di Rossini al teatro (ma non voglio parlarvi di questo, perché sarebbe un discorso molto complesso) ed è un’opera modernissima. Ieri abbiamo sentito che è un’opera che va molto avanti, tant’è che, quando venne presentata per la prima volta, il pubblico, per certi versi, rimase colpito in senso negativo perché di fatto sentiva un Rossini molto diverso rispetto a quello che precedentemente aveva ascoltato. L’intera opera, senza i tagli che poi successivamente vennero apportati, riducendola dagli originali quattro atti ai tre usuali, praticamente durerebbe intorno alle cinque ore. La trascrizione, che poi venne realizzata, trascrisse molto poco dell’intero corpus: sono trascritti vari brani del primo atto, qualcosa del secondo e qualcosa del quarto. Io ho peraltro un piccolo dubbio. Credo che la trascrizione del Guglielmo Tell si fosse dovuta fare con un po’ di discrezione, più che altro perché il Guglielmo Tell era una delle prime opere portatrici di un grande messaggio nazional-patriottico, di rivolta contro l’oppressione straniera e di rivalsa nazionalistica. In questo caso, per di più, l’oppressore straniero si identificava con gli Asburgo, quindi la faccenda nel complesso era molto delicata. Infatti, quando l’opera venne rappresentata in altre nazioni, spesso cambiò «trama», spesso cambiò personaggi, e la lotta per la libertà veniva sì realizzata, ma contro usurpatori molto poco identificabili e che comunque nulla avessero a che vedere con le case regnanti del luogo. Comunque, di fatto, l’opera incontrò anche problemi di censura. È probabile che anche la trascrizione potesse essere stata alquanto osteggiata. È divertente vedere che essa fu realizzata proprio a Brno e proprio nel 1831, in un periodo cioè estremamente fremente anche nei territori asburgici, dove non furono poche le rivolte per un maggior liberalismo e, soprattutto, per l’affermazione di principi nazionalistici locali contro il potere centrale. Ma così, veramente, ci allontaniamo troppo dalla musica. Vorrei che Paolo Ravaglia annunciasse i brani che verranno eseguiti e ne illustrasse via via l’organico. Sono infatti previsti, oltre alle due trombe, anche per alcuni brani due tromboni e un flauto. Abbiamo selezionato i brani che potevano essere eseguiti con questo tipo di formazione. Il primo dovrebbe essere il «Passo a sei» del primo atto. Il «Passo a sei» è un inserto danzato – ieri ne abbiamo parlato – era un ingresso della danza all’interno dell’opera che, in qualche modo, teneva presenti i gusti dei francesi che adoravano questo tipo di combinazione all’interno del melodramma. Non è un brano molto ampio ma è interessante perché in esso vi è una sezione centrale dove già Rossini nell’originale prevede l’utilizzazione dei fiati e che, quindi, nella trascrizione rimane più o meno similare. Le parti delle altre sezioni sono invece affidate agli archi, per cui abbiamo proprio una netta trasposizione del linguaggio musicale dagli archi ai fiati. (esecuzione dal vivo: Rossini, Guglielmo Tell, «Passo a sei», atto I, n. 5; trascrizione) (applausi) Come avete sentito, la trascrizione conserva e, in un certo senso, amplifica, data proprio la differenza di tecnica esecutiva tra gli strumenti, la difficoltà dell’originale. La partitura di Rossini crea per gli archi una certa difficoltà, perché ci sono dei punti abbastanza impegnativi; tale difficoltà nella trascrizione di Sedlak – o di chi per lui, perché in questo caso non sono molto certo che la trascrizione sia sua – viene pratica157 mente conservata; egli non opera alcun tipo di facilitazione, mentre sovente, in altre trascrizioni, ci troviamo di fronte a passaggi che vengono adattati in modo semplificato alla tecnica degli strumenti. In questo caso, per esempio, dai bassi complessi affidati ai fagotti, estremamente veloci, si trascrive esattamente, senza nulla cambiare di ciò che Rossini stesso aveva previsto. Il brano successivo che ascolteremo, che poi Paolo Ravaglia annuncerà, è più interessante perché è la trascrizione di un’aria e la parte del canto viene spezzata fra vari strumenti. Uno o più strumenti gestiscono la linea melodica mentre agli altri viene affidato, in pratica, il compito di accompagnamento. Diciamo che le trascrizioni sono state, da questo punto di vista, molto varie, e lo abbiamo visto, perché ci siamo trovati di fronte a delle strane incongruenze; per esempio, delle voci acute che improvvisamente, invece, vengono affidate a degli strumenti bassi e viceversa, oppure una frase di un certo personaggio che viene proposto prima da uno strumento e, successivamente, nel corso dello stesso brano, da un altro strumento. Non vi era tutto sommato una particolare attenzione ad una costruzione assolutamente rigorosa, ma questo è un po’ connesso a quanto diceva prima Paolo Ravaglia, che cioè l’attribuzione delle parti ai vari strumenti era standardizzata: nel momento in cui, per esempio, ai clarinetti veniva dato il compito di gestire l’accompagnamento di accordi arpeggiati, essi conservavano questo tipo di utilizzazione anche se in un certo punto uno di essi potesse servire per eseguire tre o quattro note della parte del solista di canto. Da questo punto di vista, c’è un apparente disordine; non dobbiamo dimenticare che chi trascriveva per questo tipo di complesso si doveva confrontare con problemi notevoli, date le particolarità e le caratteristiche della Harmonie. Vi volevo dire un’ultima cosa, prima di lasciarvi all’ascolto del prossimo brano. A confronto con l’opera «romantica» o anche con il proto-romanticismo di questi lavori, l’ensemble d’harmonie tende a evidenziare forse i suoi limiti storici, perché la sua pulizia sonora, la sua nitidezza sonora, il suo impasto timbrico cominciano ad essere lontani dal modo di scrivere di autori del periodo ottocentesco. Ieri abbiamo visto, per esempio, che una delle caratteristiche più tipiche che cominciamo a trovare nell’opera del primo Ottocento è l’ampia utilizzazione per gli accompagnamenti di tremoli d’archi. E questa è ovviamente una cosa che gli strumenti a fiato hanno una oggettiva difficoltà a rendere, soprattutto perché la loro nitidezza nell’attacco del suono crea, per così dire, un’aggressività sonora di fondo che rende il tremolo troppo deciso, mentre dovrebbe essere un brusio quasi inavvertibile. Il tremolo invece diviene reale, cioè vi si sentono distintamente le note reali, e questo ovviamente tende a creare delle difficoltà: la parte non è più trascrivibile in quanto tale. Di fatti, come notavamo ieri nell’ascolto, i tremoli si trasformano in accordi fermi, non c’è più il movimento fra le note ma le note rimangono ferme. Sentiamo adesso l’ultimo brano, il brano n. 8, che è l’unico brano trascritto dal quarto atto nelle parti di Brno. Esiste un’incisione discografica che utilizza parti di cui non conosciamo la provenienza che comprende anche altri brani trascritti dal quarto atto. Comunque, nel manoscritto di Brno da noi utilizzato questo è l’unico brano del IV atto, una delle arie più famose del Guglielmo Tell, «O muto asil del pianto». Per inciso, nella partitura originale, per esempio, la prima battuta dovrebbe essere un lunghissimo tremolo che è invece reso con note ferme. Questo per quanto riguarda quello che avevamo detto prima. PAOLO RAVAGLIA Vediamo come viene trasformato questo brano. Buon ascolto. (esecuzione dal vivo: Rossini, Guglielmo Tell, Preludio e Aria Arnoldo «O muto asil del pianto», atto IV, scena I; trascrizione) (applausi) 158 CORRADO NICOLA DE BERNART Dovremmo ancora sentire un brevissimo brano, per il quale volevo spendere due parole. Devo dire che, in questo senso, un mio grandissimo debito di gratitudine va al professor Carlo Marinelli per lo stimolo costante che pone al mio lavoro. Volevo ringraziarlo oggi ancor di più, visto che fra dieci giorni vi sarà per lui una festa molto importante; e anche per noi, che lavoriamo con lui già da diversi anni, questa è una data molto importante! (Happy birthday to you) (applausi) CARLO MARINELLI Grazie infinite a tutti voi. 159 ELENCO ALFABETICO DEI NOMI DI PERSONA CITATI Adam, Adolphe Charles, p. 56 Andreolli, Florindo, p. 78 Andriani, Carmelo, p. 93 Arnold, Samuel James, p. 108 Arrigo, Giulio, p. 93 Artaria, casa editrice, pp. 96, 139, 140 Babell, Charles, pp. 14, 25, 86 Babell, William, pp. 14, 15, 25, 31, 32, 86, 126 Bach, Carl Philipp Emanuel, pp. 15, 54 Bach, Johann Christian, pp. 15, 23, 54 Bach, Johann Sebastian, pp. 19, 22, 61, 99, 146 Beaumont, Jeane-Marie de, p. 73 Beethoven, Ludwig van, pp. 8, 15, 21, 54, 56, 57, 58, 70, 72, 100, 101, 121, 127, 136, 137, 138, 139, 140, 141, 151, 152 Bellini, Vincenzo, pp. 56, 118, 156 Bernardi, Paola, pp. 7, 8, 9, 13, 14, 25, 26, 28, 30, 31, 35, 36, 37, 38, 40, 41, 42, 43, 44, 46, 47, 49, 53, 54, 59, 64, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 72, 74, 77, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 84, 89, 93, 97, 105, 106, 108, 112, 116, 117, 119, 121, 125, 132, 136, 137, 141, 147, 151, 152, 153, 154 Berra, Marco, p. 35 Bis, Hippolyte-Louis-Florent, p. 144 Boccherini, Luigi, p. 95 Bondini, Pasquale, p. 111 Buonaparte, Napoleone, imperatore, pp. 64, 118 Burney, Charles, pp. 22, 23, 29, 58, 73, 79 Cambini, Giovanni Giuseppe, p. 61 Carlo VI d’Asburgo, pp. 17, 63 Carlo (IV?) di Borbone, p. 63 Caterina II, imperatrice di Russia, pp. 35, 38, 55, 64, 66 Cavalieri, Catarina, p. 113 Charpentier, Marc-Antoine, p. 31 Cherubini, Luigi, p. 56 Chopin, Fryderyk, p. 118 Clementi, Muzio, p. 111 Coen, Massimo, p. 74 Conegliano, Emmanuele, pp. 40, 42, 95, 105, 106, 108, 111, 118 Confalonieri, Giulio, p. 67 Cooper, Anthony Ashley, p. 22 Corri, Domenico, pp. 126, 137 Cosimo de’ Medici, p. 63 Cristofori, Bartolomeo, pp. 98, 99 Curtis, Alan, p. 84 Dancourt, Louis Hurtaut, p. 70 D’Anglebert, Jean Henry, pp. 14, 25, 30, 31, 39, 47, 86, 125, 145 Da Ponte, Lorenzo (vide Conegliano, Emmanuele) De Bernart, Corrado Nicola, pp. 9, 13, 14, 16, 21, 25, 29, 30, 31, 37, 43, 46, 49, 53, 57, 64, 65, 66, 71, 78, 80, 82, 84, 85, 89, 93, 96, 98, 100, 105, 106, 109, 110, 112, 113, 116, 121, 127, 128, 131, 132, 133, 135, 140, 144, 146, 147, 155, 159 de Jouy Étienne, (vide Étienne de Jouy, Victor Joseph) Dezède, Nicolas, p. 133 Diderot, Denis, p. 73 Donizetti, Gaetano, pp. 56, 156 Eidelreiht, Joseph, pp. 41, 127 Ehrenfried, H.G., pp. 13, 35, 41, 42, 46 Eszterházy, principi, pp. 15, 70 Étienne de Jouy, Victor Joseph, p. 144 Farnese, Elisabetta, p. 63 Fasano, Renato, pp. 67, 78 Federico II il Grande re di Prussia, p. 17 Filippo V, re di Spagna, p. 63 Francesco di Lorena, p. 63 Furtwängler, Wilhelm, pp. 137, 139, 141 Galuppi, Baldassare, pp. 8, 54, 55, 56, 62, 66, 67, 68, 69, 72, 73, 77, 78, 79, 80, 81, 83, 84, 126 Gardiner, John Eliot, pp. 56, 82 Giardini, Felice, p. 95 Giuseppe II, imperatore, pp. 24, 94, 106, 107, 111, 112, 118, 129 Gluck, Christoph Willibald, pp. 8, 54, 55, 62, 66, 68, 70, 71, 72, 77, 81, 82, 83, 84, 85, 88, 126, 135, 142 Goethe, Johann Wolfgang, pp. 113, 114, 115, 116 Goethe, Katharina Elisabeth (vide Textor, Katharina Elisabeth) Goldoni, Carlo, pp. 42, 79 Gounod, Charles, p. 118 Grétry, André-Ernest-Modeste, pp. 8, 55, 56, 62, 65, 66, 68, 70, 72, 73, 77, 81, 83, 84, 85, 111, 126, 135, 142, 151, 153 Guardasoni, Domenico, pp. 107, 111, 114 Haendel, Georg Friedrich, pp. 7, 13, 14, 15, 31, 53, 55, 57, 61, 86, 93, 110, 125, 126, 132 Hassler, Johann Wilhelm, pp. 20, 62 163 Haydn, Franz Joseph, pp. 19, 56, 70, 95, 113, 130 Hérold, Ferdinand, p. 56 Hickel, Frau von, p. 23 Hickel, Joseph von, pp. 23, 24 Hume, David, p. 16 Komensky, Jan Amos, p. 156 Kredel, p. 107 La Pierre, mademoiselle de, p. 31 Lausch, Lorenz, pp. 28, 133 Le Noble, mademoiselle, p. 31 Levine, Lowell, p. 101 Liechtenstein, Alois, Fürst von, p. 108 Liechtenstein, Giovanni, principe di, pp. 127, 139, 151, 153 Liszt, Ferenc (Franz), p. 86 Locke, John, p. 16 Luigi XIV, re di Francia, pp. 14, 16, 30, 60, 125 Luigi XVI, re di Francia, p. 72 Lulli, Giovanni Battista, pp. 7, 14, 18, 24, 25, 30, 31, 34, 39, 53, 59, 86, 125 Manfrin Marcello, p. 93 Manganelli, Giuseppe, pp. 56, 65 Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, regina di Francia, pp. 66, 72, 73, 84 Maria Teresa d’Asburgo, imperatrice, pp. 17, 63, 94 Marinelli, Carlo, pp. 8, 13, 21, 25, 29, 30, 38, 39, 41, 42, 43, 44, 45, 49, 53, 54, 64, 65, 66, 67, 69, 70, 74, 116, 117, 125, 131, 132, 137, 145, 146, 147, 159 Marmontel, Jean François, pp. 72, 73 Martín y Soler, Vicente, pp. 22, 38, 40, 41, 42, 43, 55, 126, 151, 153 Medici, famiglia, p. 63 Melani, Alessandro, p. 117 Mengotti, fratelli, p. 62 Mercadante, Giuseppe Saverio, p. 118 Mila, Massimo, p. 95 Moffo, Anna, p. 78 Moles, Antonella, p. 31 Molière, Jean-Baptiste (vide Poquelin de Molière, Jean-Baptiste) Monsigny (Monsigner), Pierre-Alexandre, p. 111 Montesquieu, Charles-Louis de Secondat, pp. 16, 71 Moscheles, Ignaz, pp. 118, 140 Mozart, Costanza, (vide Weber, Konstanze) Mozart, Leopold, p. 23 Mozart, Marianna (Nannerl), p. 23 Mozart, Wolfgang Amadè, pp. 8, 9, 15, 19, 21, 22, 23, 24, 26, 27, 28, 29, 30, 35, 38, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 49, 53, 54, 55, 56, 57, 59, 67, 69, 70, 71, 73, 77, 78, 81, 82, 86, 88, 89, 93, 95, 96, 97, 98, 99, 100, 101, 105, 106, 107, 108, 109, 110, 111, 112, 113, 114, 115, 116, 117, 118, 126, 127, 129, 130, 133, 135, 136, 142, 151, 152, 153 Muti, Riccardo, pp. 145, 146 Norrington, Roger, p. 101 Paisiello, Giovanni, pp. 35, 37, 38, 39, 55, 70, 96, 126, 151 Panerai, Rolando, p. 78 Pergolesi, Giovanni Battista, p. 61 Petri, Mario, p. 78 Philidor, François-André, p. 18 Piccinni, Niccolò Vito, p. 72 Pirrotta, Nino, p. 117 Pitti, famiglia, p. 63 Pokorny, Franz Xaver, pp. 28, 135 Poquelin de Molière, Jean-Baptiste, p. 71 Puccini, Giacomo, p. 137 Quantz, Johann Joachim, pp. 20, 62, 129 Rameau, Jean-Philippe, pp. 71, 145 Ramous, Antonio, p. 93 Ravaglia, Paolo, pp. 9, 13, 14, 22, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 35, 36, 37, 39, 41, 42, 43, 46, 49, 53, 54, 55, 56, 64, 65, 68, 69, 70, 72, 74, 77, 80, 81, 83, 84, 86, 87, 121, 127, 128, 131, 132, 136, 137, 140, 141, 147, 152, 157, 158 Righini, Vincenzo, p. 72 Rizzieri, Elena, p. 78 Rossini, Gioachino, pp. 8, 41, 56, 69, 70, 72, 74, 77, 94, 121, 127, 142, 144, 145, 146, 147, 151, 153, 155, 156, 157, 158 Royer, Joseph Nicolas Pancrace, p. 54 Salieri, Antonio, p. 113 Sammartini, Giuseppe, p. 61 Sarti, Giuseppe, pp. 38, 40, 41, 42, 43, 55, 134, 151, 153 Scheidler, Johann David?, p. 108 Schein, Johann Hermann, p. 21 Sedlak, Václav, pp. 72, 127, 136, 137, 138, 139, 140, 142, 143, 144, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157 164 Silbermann, Gottfried, p. 99 Spaeth, Franz Jakob, p. 99 Stadler, Maximilian, pp. 28, 95, 96, 97, 105, 106 Stein, Andreas, pp. 99, 100, 101 Steiner, casa editrice, pp. 108, 140 Steiner, p. 140 Strack, Johann Kilian von, pp. 23, 129 Stumpf, Johann Christian, p. 35 Swieten, Gottfried Freiherr van, p. 94 Telemann, Georg Philipp, pp. 21, 61 Textor, Katharina Elisabeth, pp. 113, 114, 115 Treitschke, Georg Friedrich, pp. 107, 138 Triebensee, Joseph, pp. 28, 29, 35, 36, 41, 72, 86, 127 Tuzzi, Claudio, pp. 93, 98, 101 Uttini, Francesco Antonio Baldassare, p. 67 Vanderhagen, Amand (Jean Frangois Joseph), p. 133 Vanhal, Jan Krtitel, p. 156 Vent, Jan Nepomuk, pp. 26, 27, 28, 29, 35, 36, 37, 39, 40, 41, 42, 43, 45, 46, 56, 72, 83, 86, 94, 112, 126, 127 Verdi, Giuseppe, pp. 74, 118 Vivaldi, Antonio, p. 61 Voltaire, François-Marie Arouet, pp. 16, 17 Wagner, Richard, pp. 95, 137 Washington, George, p. 19 Weber, Carl Maria von, pp. 8, 36, 69, 70, 121, 127, 137, 141, 142, 143, 144, 151, 153, 154, 155, 156 Weber, Konstanze, pp. 106, 107, 113 Wolf-Ferrari, Ermanno, pp. 67, 68, 78, 79, 80, 81 Zurletti, Michelangelo, p. 138 165 Finito di stampare nel luglio 2004