Gazzetta F O R E N S E Bimestrale Anno 3 – Novembre-Dicembre 2009 direttore responsabile Roberto Dante Cogliandro comitato di direzione Almerina bove Corrado d’ambrosio Alessandro jazzetti redazione capo redattore Sergio Carlino redazione gazzetta forense Valeria D’Antò, Melania DuratuRo, Anna Eliseo, Imma Monteforte, Caterina VAlia editore Denaro Libri Srl Piazza dei Martiri, 58 – 80121 Napoli proprietario Associazione: Nemo plus iuris comitato di redazione Andrea Alberico Antonio ArdituRO Clelia Buccico Carlo Buonauro Sergio Carlino Raffaele Cantone Domenico De Carlo Mario de Bellis Andrea Dello Russo Catello MARESCA Daniele Marrama Maria Pia Nastri Donato PALMIERI Patrizia Parisi Giuseppe Pedersoli Angelo Pignatelli Ermanno Restucci Francesco Romanelli Raffaele Rossi Angelo Scala Mariano Valente comitato scientifico Fernando Bocchini Antonio Buonajuto Aurelio Cernigliaro Lorenzo Chieffi Giuseppe Ferraro Gennaro MARASCA Aniello PALUMBO Antonio Panico Giuseppe Riccio Giuseppe Tesauro Renato Vuosi n. registraz. tribunale N. 21 del 13/03/2007 stampa Cangiano Grafica – Napoli SOMMARIO editoriale Deflazionare la giustizia con costi elevati: arma spuntata 9 Roberto Dante Cogliandro Notaio diritto e procedura civile Il procedimento sommario di cognizione 13 Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli Dall’azione collettiva risarcitoria all’azione di classe 19 Aldo Corvino Dottore in giurisprudenza Donazione indiretta 22 Nota a Cass., sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 Alessandro Zampaglione Avvocato L’onore della persona: tra realtà e opera di fantasia 27 Nota a Trib. Napoli, sez. I-bis, 24 giugno 2009 ord., Giud. L. Tricomi Chiara Ianniruberto Avvocato Rassegna di legittimità 34 A cura di Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli Donato Palmieri Avvocato Rassegna di merito 37 A cura di Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli Mario De Bellis Donato Palmieri Avvocati diritto e procedura penale Inerzia e Proclami 47 Giuseppe Riccio Ordinario di procedura penale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” La compatibilità costituzionale del terzo scudo fiscale 50 italiano tra profili operativi e prassi premiale Felice Carbone Avvocato Domenico Bellobuono Commercialista Rassegna di legittimità 63 A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Andrea Alberico Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università degli studi di Napoli “Federico II” Rassegna di merito A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Giuseppina Marotta Avvocato 68 diritto amministrativo Nota a T.A.R. Campania‑Napoli, sez. I, 24 settembre 2009, n. 5058 77 Lucio Perone Avvocato Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti 87 pubblici di lavori, servizi e forniture (D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) A cura di Almerina Bove Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania diritto tributario Alcune note sulla frode fiscale 95 Nadia Di Massa Dottoranda di Ricerca in Diritto Tributario presso la facoltà di Economia della SUN Osservatorio di giurisprudenza tributaria Gli effetti della sentenza C. 132/06 sul condono fiscale; la parola alle Sezioni Unite 105 A cura di Raffaele Cantone Magistrato presso il Massimario della Cassazione diritto internazionale Rassegna di giurisprudenza comunitaria e internazionale 115 A cura di Francesco Romanelli Avvocato e Specialista in diritto ed economia delle Comunità europee questioni A cura di Mariano Valente, Magistrato DIRITTO CIVILE Rifiuto del coacquisto da parte di coniuge in comunione legale dei beni Flora Caputo Dottore in giurisprudenza 121 DIRITTO PENALE Peculato 123 Chiara Cucinella Dottore in giurisprudenza DIRITTO AMMINISTRATIVO Tutela dei controinteressati comproprietari di bene immobile 125 Chiara Cucinella Dottore in giurisprudenza DIRITTO TRIBUTARIO Procedimento monitorio civilistico per l’adempimento di obblighi di fare tributari 126 Massimo Tupone Avvocato recensioni Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà. Il vento non sa leggere 131 di F. Lucarelli e L. Paura, Napoli, 2008 A cura di Giovanni Perlingieri Professore ordinario presso la Seconda Università di Napoli Giustizia della funzione normativa e sindacato diffuso di legittimità 143 di Raffaele Manfrellotti, Jovine Editore, 2008 A cura di Chiara Cucinella Dottoressa in giurisprudenza L’avvio del procedimento di Vincenzo Galatro e Aldo Sgro, Giuffrè, 2009 A cura di Valeria D’Antò Avvocato 144 Gazzetta F O R E N S E Soluzioniperglioperatorideldiritto Il Denaro libri pratica e autorevole autorevole 5 buone ragioni per abbonarsi Offerta di lancio • Autorevolezza due comitati, uno scientifico e uno di redazione, che si avvalgono dell’esperienza di operatori di alto valore professionale del settore Giustizia , come docenti universitari, magistrati, avvocati e notai per assicurare un elevato livello di approfondimento ad ogni pubblicazione. 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Questo nel settore civile, mentre in quello penale si sta cercando di ancorare l’eccesiva durata dei processi alle cosiddette prescrizioni. Strumenti entrambi validi ma se supportati altresì da una completa e generale riforma del sistema processuale della giustizia; altrimenti tali misure rischiano di essere semplicemente tampone o di emergenza ma che poi alla lunga non risolveranno il problema che è storico e che rischia d’incancrenire il sistema giudiziario italiano nel suo complesso. Già altre volte nel recente passato si è intervenuti con provvedimenti tampone che dopo poco si sono rilevati inutili e dannosi per la collettività. Mi riferisco in particolare alla legge “svuota carceri” messa in atto dall’allora ministro Mastella. Tale provvedimento infatti se da un lato ha fatto respirare gli affollatissimi istituti penitenziari italiani, dall’altro si è dimostrato inefficace nel medio periodo, ove infatti le carceri si sono presto riaffollate facendo vivere al sistema lo stesso problema di sempre: l’esigenza di costruire nuovi istituti penitenziari più moderni e degni di un paese civile e moderno come il nostro. Se oltre la metà dei detenuti presenti nei carceri italiani è di nazionalità straniera qualche problema di politica sociale ed estera pur c’è ed allora meglio affrontare lo scarso numero dei centri di prima accoglienza o di ripartenza per i paesi d’origine che quello degli indulti inutili e palliativi per i carcerati. Le misure appena licenziate dal governo in materia civile e quelle che saranno licenziate nei prossimi giorni rischiano di essere le ennesime misure tampone che finiscono per non risolvere il cancro della giustizia italiana: ossia i tempi lunghi ed ipergarantisti delle varie fasi del processo. Il contributo unificato anche per il processo del lavoro rischia di far pagare i danni della nostra malata giustizia alla classe sociale più debole in questo periodo di crisi economica: quella dei lavoratori. Questi infatti dovranno anche loro sopportare dei costi d’ingresso alla giustizia lavoristica che sin dagli anni settanta del secolo scorso si erano ribaltati sulla giustizia nel suo complesso, esonerando il lavoratore da ulteriori sacrifici in una materia spesso prima d’interesse sociale e poi giuridico. Dal mese di gennaio 2010 cessano infatti molte esenzioni in varie materie, con ciò riscrivendosi buona parte degli articoli del Testo unico delle spese di giustizia (D.Lgs. 115/2002). Il maggior introito per le casse della giustizia servirà a finanziare un piano straordinario per lo smaltimento delle cause civili arretrate. Questo è l’intento del governo in carica e non ci resta che aspettare le successive mosse. Mosse che in materia di processo penale saranno sicuramente i ricorsi alle prescrizioni brevi in modo da cancellare numerosi processi mai iniziati o in essere e che lasceranno senza condanna o assoluzione presunti rei. Insomma una nuova telenovella del variegato mondo della giustizia italiana che non arriverà certamente lontano senza una visione riformista organica e completa. Chi vivrà vedrà! diritto e procedura Civile Il procedimento sommario di cognizione 13 Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli Dall’azione collettiva risarcitoria all’azione di classe 19 Aldo Corvino Dottore in giurisprudenza Donazione indiretta 22 Nota a Cass., sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 Alessandro Zampaglione Avvocato L’onore della persona: tra realtà e opera di fantasia 27 Nota a Trib. Napoli, sez. I-bis, 24 giugno 2009, ord., Giud. L. Tricomi Chiara Ianniruberto Avvocato Rassegna di legittimità 34 A cura di Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli Rassegna di merito A cura di Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli Mario De Bellis Donato Palmieri Avvocati 37 civile Donato Palmieri Avvocato F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e ● Il procedimento sommario di cognizione ● Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli 2 0 0 9 13 Sommario: Premessa – 1. Ambito di applicazione – 2. Atti introduttivi – 3. Ipotesi di impossibilità di emanazione dell’ordinanza – 4. Cumulo processuale – 5. Istruzione sommaria – 6. Decisione – 7. Appello – 8. Osservazioni critiche. Premessa La riforma del 2009 ha introdotto, con gli artt. 702 bis-702 quater c.p.c., un procedimento sommario di cognizione, alternativo a quello ordinario, ma con la medesima finalità di tutela dichiarativa. L’art. 702 quater, infatti, espressamente afferma che l’ordinanza sommaria (purché – ovviamente – non impugnata) “produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c”.; da ciò emerge che trattasi di un istituto del tutto parallelo agli altri procedimenti sommari, dai quali diverge per alcuni profili strutturali, ma non nel risultato1. 1. Ambito di applicazione L’ambito di applicazione del nuovo procedimento coincide con le cause attribuite alla decisione monocratica del Tribunale (art. 702-bis c.p.c.): restano quindi escluse le controversie che, ex art. 50-bis c.p.c., sono attribuite alla decisione del Tribunale in composizione collegiale. È importante evidenziare che, al contrario di quanto accade per il decreto ingiuntivo e per la convalida di sfratto, ogni tipo di domanda può essere proposta nelle forme del rito sommario2. Possono essere proposte, quindi, domande di mero accertamento, di condanna e costitutive; il procedimento sommario può avere ad oggetto qualunque petitum mediato ed immediato, purché la controversia non sia affidata alla decisione del collegio. Il rito sommario si applica, peraltro, solo alle controversie soggette al rito ordinario e di competenza del tribunale. Infatti, per l’ipotesi in cui il giudice ritenga necessaria una istruzione piena, l’art. 702-ter, comma 3, c.p.c. prevede che venga fissata l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.: ora, questa udienza si ha solo nel processo di rito ordinario di primo grado innanzi al tribunale. Si deve, pertanto, escludere che possa essere trattata con il rito sommario: a) la causa di competenza del tribunale in grado di appello, in quanto ad essa si applicano le norme del processo di appello, incompatibili con quelle in esame; civile Gazzetta 1 Cfr. F.P.Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2009, p. 111. In letteratura, sul procedimento sommario di cognizione: G. Balena, La nuova (pretesa) riforma della giustizia civile, in // giusto processo civile, 2009; G. Balena, // procedimento sommario di cognizione, in Foro it., 2009, V; R. Caponi, Un modello ricettivo delle prassi migliori: il procedimento sommario di cognizione (artt. 702-bis ss. c.p.c.), in Foro it., 2009, V.. 2F.P.Luiso, op. cit.,p. 111. 14 D i r i t t o e p r o c e d u r a b) la controversia di competenza del giudice di pace, in quanto nel relativo procedimento non è prevista l’udienza ex art. 183 c.p.c.; c) la controversia assoggettata ad un rito speciale (lavoro, locazioni, sanzioni amministrative, etc.), ancora una volta perché non esiste una udienza disciplinata ex art. 183 c.p.c3. 2. Atti introduttivi La fase introduttiva – fatta salva l’utilizzazione del ricorso anziché della citazione – coincide con quella del processo a cognizione piena: il ricorso deve contenere gli stessi elementi della citazione (con l’ovvia esclusione della fissazione della data dell’udienza). Il ricorso, con il decreto di fissazione dell’udienza, deve essere notificato al convenuto almeno trenta giorni prima della data fissata per lo svolgimento dell’udienza, e il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima della data stessa. L’art. 702-bis, IV comma, c.p.c. ripete sostanzialmente quanto previsto dall’art. 167 c.p.c.; è possibile anche la chiamata di un terzo in causa4. È vero che l’art. 702-bis, V comma, c.p.c. parla solo di “chiamata in garanzia”, ma pare ragionevole ritenere che il legislatore abbia inteso, con tale espressione, richiamare l’intero art. 106 c.p.c., non essendovi ragione per escludere la chiamata per comunanza di causa. In realtà, l’art. 702-bis c.p.c. delinea una fase introduttiva del procedimento sommario che coincide con quella del processo a cognizione piena, posto che, ex art. 702-ter, comma 3, c.p.c., alla prima udienza, si può avere un mutamento del rito sommario in rito a cognizione piena, senza regressione del processo agli atti introduttivi. È quindi naturale che questi ultimi debbano coincidere con quelli del processo a cognizione piena, altrimenti una regressione del processo, in caso di mutamento di rito, non potrebbe essere evitata5. Vi è semmai da notare che, ove si abbia il passaggio dal rito sommario al rito a cognizione piena, il convenuto avrà visto sacrificato il termine a difesa proprio dell’art. 163-bis c.p.c., in quanto, per una scelta insindacabile dell’attore e per questi non onerosa in alcuna direzione, avrà avuto a disposizione solo venti giorni per compiere le stesse attività per le quali, normalmente, ha ottanta giorni a disposizione. Il procedimento è disciplinato dall’art. 702-ter c.p.c., che contiene le disposizioni più rilevanti dell’istituto in 3 Ibidem, p. 112. A. Carratta, in C. Mandrioli, A. Carratta, Come cambia il processo civile, Torino, 2009, p. 135 ss. 4 Ibidem. 5 Ibidem, p. 113. C. Consolo, Una buona «novella» al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al dì là della sola dimensione processuale, in Corr. giur., 2009, p. 737 ss., p. 742 s.; C. Consolo, La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima lettura, in Corr. giur., 2009, p. 883 ss. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E esame: i lineamenti fondamentali sono quelli del proce­ dimento sommario. Il procedimento sommario è un processo di cognizione, struttural­mente diverso, ma identico nel risultato al processo a cognizione piena. In effetti, i presupposti processuali generali, propri del processo dichia­rativo, valgono anche per il procedimento sommario: ad essi si ag­g iunge il presupposto processuale speciale, proprio dell’istituto in esame, che è costituito dall’appartenenza della controversia alla deci­sione monocratica del tribunale. Parallelamente, poiché gli effetti dell’ordinanza prevista dall’art. 702-ter, comma 5, c.p.c., sono gli effetti di una sentenza di uguale contenuto, la disciplina generale del processo dichiarativo vale anche per il procedi­ mento sommario. 3. Ipotesi di impossibilità di emanazione dell’ordinanza Le ipotesi, nelle quali il procedimento non può portare all’emanazione dell’ordinanza prevista dall’art. 702ter, comma 5, c.p.c., sono raggruppate dal legislatore, nei primi quattro commi dell’art. 702-ter c.p.c.: a) Incompetenza. In primo luogo, il tribunale adito può essere incompetente: in tal caso (comma primo), esso pronuncia ordinanza dichiarativa di incompetenza. La ragione per la quale il legislatore disciplina espressa­mente solo una delle molteplici fattispecie di chiusura in rito del processo, sta nella contestuale modifica che la riforma ha introdotto in relazione ai provvedimenti sulla competenza, che hanno la forma dell’ordinanza anziché quella della sentenza6. Se, invece, il giudice ritiene di essere carente di giurisdizione, o che la controversia sia devoluta ad arbitri, o che vi sia un difetto di legittimazione, etc., lo dichiarerà con ordinanza, se sarà seguita la via del rito sommario, o con sentenza, se si avrà la trasformazione del rito ex art. 702 ter, III comma, c.p.c; b) Inammissibilità. Se la domanda appartiene alla competenza del tribunale adito, ma deve essere decisa collegialmente, il giudice, con ordinanza non impugnabile, la dichiara inammissibile. In realtà, poiché non sembra sussistere in tal caso un diritto ad una decisione sommaria, si ritiene che l’ordinanza di inammissibilità sia insuscettibile di controllo, analogamente a quanto accade per il decreto di cui all’art. 640 c.p.c7. Nell’ipotesi inversa, quando, cioè, il giudice pronuncia con rito sommario su una controversia che appartie- 6 Ibidem. P. G. De Marchi, Il nuovo processo civile, Milano, 2009, p. 403 ss.; R. Giordano, in R. Giordano, A. Lombardi, Il nuovo processo civile, Roma, 2009, p. 551 ss. 7 Ibidem, p. 114. F. P. Luiso, Il procedimento sommario di cognizione, in www.judicium.it. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e ne alla decisione collegiale del tribunale, impugnata l’ordinanza, la corte di appello, che dovesse dichiarare sussistente un tale errore, deve chiudere in rito il processo, come avrebbe dovuto fare il giudice di primo grado. Se, infatti, il vizio è tale da non consentire una decisione di merito in primo grado, ovviamente esso non consente una decisione di merito neppure in appello: non vi è alcun motivo per il quale il difetto processuale abbia in appello un trattamento diverso da quello che avrebbe dovuto avere in primo grado. c) Istruzione ordinaria. Se per decidere la controversia è necessaria “un’istruzione non sommaria”, il giudice fissa l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c., con ordinanza non impugnabile, quindi non modificabile né revocabile. Se tale scelta è nel senso che la causa deve essere istruita in via ordinaria, nessun controllo è possibile; l’ordinanza non può essere modificata o revocata nel corso del processo di primo grado, ed ovviamente nessuna censura può essere avanzata con l’atto di appello8. 4. Cumulo processuale Con riferimento alla domanda riconvenzionale, ai sensi dell’art. 702-ter, comma 2, c.p.c., se la domanda, oggetto della riconven­zionale, deve essere decisa dal collegio, il giudice la dichiara inammis­sibile; ai sensi dell’art. 702-ter, comma 4, c.p.c., se la causa relativa alla domanda riconvenzionale richiede un’istruzione non sommaria, il giu­d ice ne dispone la separazione dalla principale, e fissa per essa l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c. Il principio che si ricava dalle due disposizioni normative sopra indicate non è quello del simultaneus processus, ma quello della separazione. In presenza dì cause, sia pur connesse, ma delle quali alcune non possono per ragioni di diritto (perché a decisione collegiale) o per ragioni di fatto (perché necessitano di un’istruzione non somma­ria) essere decise con il rito sommario, la scelta del legislatore, in linea di principio, non è quella del cumulo con scelta di un rito ex art. 40 c.p.c., ma la separazione. Quanto previsto espressamente per la do­manda riconvenzionale deve essere esteso anche alle altre ipotesi di cumulo. Questa soluzione può tuttavia porre problemi in caso di connes­sione forte o per pregiudizialità, perché qui il sistema deve garantire, a chi la richiede, la coerenza fra le decisioni. L’unica soluzione pensabile è che, in caso di cumulo per connes­sione forte, e quindi di cumulo non separa- 8 Ibidem, p. 115. S. Menchini, L’ultima «idea» del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in www.judicium.it. 2 0 0 9 15 bile, la necessità di istruzione non sommaria di una delle cause, comporta il mutamento del rito, da sommario in rito a cognizione piena, per tutte9. 5. Istruzione sommaria Alla decisione sommaria è dedicato l’art. 702-ter, comma 5, c.p.c., secondo il quale «il giudice, sentite le parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provvedimento richiesto, e provvede con ordinanza all’accoglimento o al rigetto delle domande». L’art. 702-ter, V comma, c.p.c., per descrivere l’istruzione sommaria, ri­porta le stesse espressioni utilizzate dall’art. 669-sextes, comma 1, c.p.c. a proposito dell’istruzione cautelare, con la seguente differenza: qui si parla di “atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provve­dimento richiesto”, mentre li’ si parla di “atti di istruzione indispensa­bili in relazione ai presupposti e ai finì del provvedimento richiesto”. La diversità è significativa: nel procedimento cautelare, per ovvie ragioni di celerità, occorre limitare l’istruzione agli atti indispensabili; e l’istruzione va calibrata in relazione al tipo di periculum in mora e, correlativamente, al tipo di effetti che il provvedimento cautelare deve produrre per ovviare a tale periculum10. Qui, invece, l’istruzione attiene ai fatti rilevanti con riferimento all’oggetto della domanda. Una prima conclusione è possibile: anzitutto, il procedimento sommario è tale per le modalità dell’istruzione, e non per l’oggetto, che corrisponde in tutto e per tutto a quello che sarebbe stato l’oggetto di un processo a cognizione piena se, invece del ricorso, fosse stata proposta una citazione. In secondo luogo, l’istruzione ha ad oggetto i fatti rilevanti, e dunque è sommaria non perché parziale (in quanto appunto tutti i fatti rilevanti sono oggetto di istruzione), ma perché non segue le regole del secondo libro del c.p.c., e dunque è deformalizzata, come accade per il processo cautelare. Il punto più delicato ed incerto del nuovo procedimento sommario sta proprio nel comprendere quali siano le condizioni che possono giustificare un’istruzione non regolata dalle norme, ma rimessa alle scelte del giudice. Nel processo cautelare, la deformalizzazione dell’istruzione è funzionale alla necessità di una decisione veloce, ed è perfettamente coerente con l’inesistenza di un giudicato, sicché quanto è stato acqui­sito sommariamente in quella sede può essere replicato, nei 9 Ibidem, p. 116. G. Olivieri, Il procedimento sommario di cognizione (primissime brevi note), in www.judicium.it; G. Olivieri, Al debutto il rito sommario di cognizione, in Guida al diritto, n. 28 del 2009. 10 Ibidem, p. 117. civile Gazzetta 16 D i r i t t o e p r o c e d u r a modi della cognizione piena, all’interno del giudizio di merito11. Qui, invece, ab­biamo un provvedimento che può portare al giudicato, e dunque il senso di un’istruzione deformalizzata deve essere cercato in un’altra direzione. Probabilmente, dovrebbe essere la sempli­cità dell’istruzione ad essere decisiva. Quindi, con il rito sommario possono essere trattate le cause “semplici”: vuoi perché la domanda è manifestamente fondata o infondata (analogamente a quanto accade per la decisione in camera di consiglio nel giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 375 n. 5 c.p.c.), vuoi perché si tratta di documentazione di puro diritto o documentazione istruita, vuoi perché vi siano uno solo o pochi fatti controversi da istruire, e le prove sono di facile assunzione. 6. Decisione L’ordinanza di accoglimento o di rigetto è suscettibile di produrre gli effetti di cui all’art. 2909 c.c., se non appellata. Essa (art. 702-ter, comma 6, c.p.c.) è provvisoriamente esecutiva, e costituisce titolo per la iscrizione dell’ipoteca giudiziale, e per la trascrizione (più frequentemente per l’annotazione, in quanto la tra­scrizione della sentenza è fenomeno relativamente raro: art. 2651 c.c.)12. Ovviamente, il giudice provvede sulle spese del processo (art. 272-ter, comma 7, c.p.c.). L’ordinanza sommaria è suscettibile di appello, nel termine breve di trenta giorni, decorrente non solo dalla notificazione, ma anche dalla comunicazione, se effettuata antecedentemente alla notificazione. In mancanza (patologica) della comunicazione sextes che deve avvenire con la trasmissione del testo integrale dell’ordinanza: art. 134 c.p.c. sextes si applica il termine lungo di sei mesi ex art. 327, comma 1, c.p.c. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E per l’ammissibilità delle nuove prove è prevista alternativamente: a) nella rilevanza delle stesse; b) nella dimostrazione che la parte non le ha potute proporre nel corso del processo di primo grado per causa a lei non imputabile. In secondo luogo, quanto previsto nell’ultima frase dell’art. 702-quater c.p.c. (“Il presidente del collegio può delegare l’assunzione dei mezzi istruttori ad uno dei componenti del collegio”), dimostra che l’attività istruttoria nell’appello avverso un’ordinanza sommaria è pre­v ista dal legislatore come più frequente che nell’appello ordinario, altrimenti non si sarebbe sentita la necessità di prevedere una delega istruttoria. Dunque, nelle intenzioni del legislatore siamo in presenza di un appello “aperto”13. In terzo e fondamentale luogo, i procedi­menti sommari di cognizione – idonei quindi a produrre un giudi­ cato né più né meno come il processo a cognizione piena – intanto sono conformi alle previsioni costituzionali, in quanto possa sempre essere chiesta ed ottenuta la conversione del processo sommario in processo a cognizione piena. Ebbene, sembra evidente che, al di là degli elementi esegetici sopra indicati, l’appello avverso un’ordinanza sommaria debba essere costruito come un giudizio di primo grado a cognizione piena, pena la incompatibilità del processo sommario con i principi costituzionali. 7. Appello Secondo l’art. 702-quater c.p.c., in appello «sono ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene rilevanti ai fini della decisione, ovvero la parte dimostra di non aver potuto proporli nel corso del procedimento sommario per causa ad essa non imputabile». Questa disposizione fa sorgere alcuni problemi, eppure è centrale per dare al procedimento sommario un corretto inquadra­mento dal punto di vista del sistema. Innanzitutto, occorre sottolineare che l’art 702-quater c.p.c. cade in un vizio logico; infatti, la fattispecie 8. Osservazioni critiche In realtà, non vi è dubbio che una analisi critica dell’istituto de quo vada effettuata cercando il dialogo con le esperienze europee, per tracciare le linee di una possibile armonizzazione. In una prospettiva europea, guadagna particolare attenzione l’idea di accelerare la tutela giurisdizionale, attraverso un processo a cognizione piena ma elastico, che affidi lo svolgimento preferibile nel caso concreto, alle determinazioni discrezionali del giudice14. In ogni ordinamento si ritrova un processo «ordinario», con le seguenti caratteristiche15: a) esso è atipico quanto a diritti che ne possono costituire l’oggetto; b) esso disciplina il contraddittorio nel modo più complesso nell’ordinamento di riferimento; c) il provvedimento finale è dotato del maggior grado di stabilità nell’ordinamento di riferimento; d) esso serve tendenzialmente solo a stabilire chi ha torto e chi ha ragione tra le parti. Nei vari ordinamenti 11 Ibidem. 12 Ibidem, p, 118. Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge a costo zero (note a prima lettura), Foro it., 2009, V, 221. 13 Ibidem, p. 119. 14 R. Caponi, Un nuovo modello di trattazione a cognizione piena: il procedimento sommario ex art. 702-bis c.p.c., in www.judicium.it, p. 5. 15 Ibidem, p. 7. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e di riferimento, il processo ordinario è sempre un processo a cognizione piena. Il problema riguarda quindi la distinzione tra i procedimenti sommari, da un lato, e, dall’altro lato, i modelli di trattazione della causa più semplici rispetto a quello ordinario (a cominciare dal procedimento contumaciale), nonché i processi speciali di cognizione. La difficoltà della distinzione risiede nel fatto che, frequentemente, i modelli di trattazione semplificati e i processi speciali di cognizione abbinano, alla funzione di accertare definitivamente chi ha ragione e chi ha torto tra le parti, finalità ulteriori che sono in tutto o in parte comuni anche ai procedimenti sommari: economia dei giudizi, l’urgenza del provvedere, neutralizzazione dell’abuso del processo. Questa delimitazione del campo problematico è confermata da una prospettiva europea16. Nel ri­volgere la propria attenzione alla possibilità di accelerare la tutela giurisdizionale dei diritti, lo studioso del processo civile interessato a fotografare le varie esperienze europee per tracciare le linee di una possibile armonizzazione, è sollecitato a studiare contestualmente, esprimendosi secondo un modo di pensare italiano, sia i procedimenti sommari (cautelari e non cautelari), sia i processi speciali a cognizione piena, sia i modelli di trattazione e di decisione, che costituiscono varianti rispetto al corso normale del processo ordinario tra parti costituite in giudizio. Emerge, quindi, un’ampia nozione di «procedimento speciale», che, sotto il profilo strutturale, inquadra i procedimenti che hanno una disciplina diversa da quella del processo ordinario di cognizione tra parti attive in giudizio17. Sotto il profilo funzionale, le differenze di regolamentazione sono rivolte ad assicurare una tutela giurisdizionale dei diritti accelerata e processualmente più economica del corso normale del rito ordinario. Tale prospettiva induce a rimeditare quei criteri distintivi tra processi a cognizione piena e procedimenti sommari, i quali fanno perno più sull’assetto particolare dell’ordinamento da cui proviene l’osservatore, che sull’esigenza di individuare una soluzione armonizzante sul piano europeo. Se applichiamo questa impostazione metodologica, non si tarderà a scoprire che maggiori possibilità di dialogo con le altre esperienze europee avrà un criterio che faccia perno prima sulle funzioni specifiche cui ri- 16 Ibidem. Ricci, La riforma del processo civile, Torino, 2009, p. 103 ss. 17 Rispettando questa impostazione, la definizione proposta abbraccia, oltre ai procedimenti sommari, processi speciali a cognizione piena: procedure d’urgence a jour fixe nell’esperienza francese; fast track nell’esperienza inglese; juicio verbal nell’esperienza spagnola. Abbraccia poi anche i procedimenti e le sentenze contumaciali: jugement par défaut, judgment by default. 2 0 0 9 17 sponde la tutela sommaria, rispetto alla funzione di accertamento del diritto dedotto in giudizio propria del processo ordinario, e poi inserisca procedimenti che hanno una disciplina diversa da quest’ultimo tra i procedimenti a cognizione piena oppure tra i procedimenti sommari, a seconda che nella loro destinazione prevalga la funzione di accertare semplicemente chi ha ragione e chi ha torto tra le parti, rispetto ad altre specifiche funzioni, che sono in tutto o in parte comuni anche ai procedimenti sommari. Infatti, sulle esigenze di conseguire economia processuale, di provvedere con urgenza, di neutralizzare l’abuso del processo e sugli strumenti processuali per realizzarle, si può magnificamente sviluppare un discorso in comune con le altre esperienze europee. In altri termini, è preferibile definire i processi a cognizione piena muovendo dalla definizione delle finalità dei procedimenti sommari, e non viceversa18. In relazione al nuovo procedimento sommario di cognizione, occorre chiedersi quale sia il reale significato da attribuire all’aggettivo “sommario”: se, cioè, la nuova forma di tutela debba essere sistematicamente collocata nell’ambito delle tutele sommarie (non cautelari), accanto al procedimento per decreto ingiuntivo ed al procedimento per convalida di licenza o di sfratto. Benché l’inserimento nel libro IV del c.p.c. sembrerebbe offrire argomenti in questo senso, a ben vedere, ostano, alla collocazione all’interno del sistema delle tutele sommarie non cautelari, una serie di ragioni oltremodo decisive19. In primo luogo, alla luce del più generale disegno che ha ispirato questa riforma del 2009, il procedimento in esame è stato assunto come uno dei tre modelli processuali al quali il legislatore delegato dovrà fare riferimento, per incardinare “i procedimenti civili di natura contenziosa autonomamente regolati dalla legislazione speciale”, e, in particolare, quei “procedimenti, anche in camera di consiglio, in cui sono prevalenti caratteri di semplificazione della trattazione e dell’istruzione della causa”. Inoltre, per questo procedimento, è stata espressamente esclusa “la possibilità di conversione nel rito ordinario”; ciò è da intendere nel senso che gli atti e i relativi provvedimenti esauriscono il primo grado di giudizio e, al pari delle sentenze, sono sottoposti al controllo solo da parte del giudice d’appello. In sostanza, i principi di delega, nella parte in cui richiamano i caratteri (prevalenti) di “semplificazione della trattazione e dell’istruzione della causa, nonché l’impossibilità di conversione nel rito ordinario”, rendono evidente la volontà di introdurre un nuovo modello 18 R. Caponi, op. cit., p. 9. 19G. Arieta, Il rito semplificato di cognizione, in www.judicium.it, p. 1. civile Gazzetta 18 D i r i t t o e p r o c e d u r a semplificato di procedimento, da utilizzare in alternativa al rito ordinario, per la trattazione di controversie su diritti soggettivi che presentino caratteristiche oggettive compatibili con un rito semplificato, da decidersi con provvedimento idoneo al giudicato sostanziale. La delega sulla revisione dei riti si colloca nel perimetro dei processi di revisione idonei al giudicato sostanziale: aver richiamato, come uno dei tre modelli di riferimento, il procedimento “sommario”, sta a significare che quest’ultimo si colloca al di fuori delle tutele sommarie. Ciò posto, funzione di tale procedimento sembra essere quella di consentire l’accelerazione dell’esercizio dei poteri cognitivi decisori, con la formazione di un accertamento idoneo al giudicato sostanziale, previa selezione, da parte del giudice, della singola controversia ritenuta, caso per caso, compatibile con la decisione semplificata. In questo senso, la formazione anticipata del titolo esecutivo (che ha la stessa valenza di provvisorietà della sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva ex lege) appare una conseguenza della scelta selettiva e della equiparazione della decisione semplificata alla sentenza di primo grado20. Ne segue che il procedimento sommario di cognizione, ex artt. 702-bis ss. c.p.c., è in realtà un processo a cognizione piena, poiché nella sua destinazione prevale la funzione di accertare definitivamente chi ha ragione e chi ha torto tra le parti21, rispetto alle funzioni che sono proprie dei procedimenti sommari, ma sono completamente assenti dal profilo legislativo di questo istituto22. 20 Ibidem, p. 2. 21 R. Caponi, op. cit., p. 10. 22 B. Sassani, R. Tiscini, Prime osservazioni sulla legge 18 giugno 2009, n. 69, in www.judicium.it; F. Tommaseo, II procedimento sommario di cognizione, in Previdenza forense, 2009. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E F O R E N S E ● Dall’azione collettiva risarcitoria all’azione di classe ● Aldo Corvino Dottore in giurisprudenza n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 19 SOMMARIO: 1. Azione di classe – 2. Legittimazione ad agire – 3. Meccanismo di determinazione della classe – 4. Oggetto del giudizio – 5. In attesa della giurisprudenza 1. Azione di classe L’Art. 49 della L. 23 luglio 2009 n. 99 che istituisce e disciplina l’azione di classe, modificando l’art. 140 bis del codice del consumo, è entrato in vigore il primo gennaio 2010. Si è così concluso il travagliato iter iniziato con l’approvazione della finanziaria 2008, che prevedeva per la prima volta, con l’introduzione dell’art. 140 bis, uno strumento di tutela collettiva risarcitoria1. Tali azioni, con le più diverse varianti riscontrabili nei sistemi adottati in altri paesi, hanno la funzione di consentire che una pluralità di diritti soggettivi, il più delle volte di modesto valore, vengano fatti valere con un’unica azione2. Si pensi ai danni cagionati agli utenti a causa del black out; oppure a quelli cagionati agli assicurati dall’aumento dei premi causato da un’accordo di cartello; oppure, ancora, ai danni causati a tutti gli acquirenti da un prodotto difettoso. In tali casi, in mancanza di uno strumento di tutela collettiva risarcitoria sarebbe stato necessario per i singoli esercitare azioni individuali. L’azione di classe tutela: a) i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione identica, inclusi i diritti relativi a contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del codice civile; b) i diritti identici spettanti ai consumatori finali di un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto contrattuale; c) i diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali. Per l’esercizio di tali diritti è ora disponibile per i consumatori, in aggiunta alle ordinarie azioni individua- 1La legge finanziaria 2008 (L. 24 dicembre 2007 n. 244) ha istituito e disciplinato per la prima volta nel nostro ordinamento uno strumento di tutela collettiva risarcitoria introducendo nel corpo del codice del consumo l’art. 140 bis, rubricato “azione collettiva risarcitoria”. Il comma 447 della legge finanziaria per il 2008 prevedeva originariamente che tale azione entrasse in vigore dal mese di giugno 2008. Successivamente, l’art. 36 del decreto-legge 25 giugno 2008, n.112 ha previsto che tale disciplina entrasse in vigore dal primo gennaio 2009. L’art.19 del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207 (c.d. decreto milleproroghe) ha posticipato il termine al primo luglio 2009. Infine, il decreto-legge 1 luglio 2009, n.78 ha nuovamente posticipato l’entrata in vigore al primo gennaio 2010. La disciplina dell’azione collettiva risarcitoria, tuttavia, è mai entrata in vigore poiché la L. 23 luglio 2009, n. 99 ha riformulato l’art. 140 bis del codice del consumo istituendo l’azione di classe, in vigore dal primo gennaio 2010. 2 Per quanto riguarda le funzioni degli strumenti di tutela collettiva risarcitoria, vedi, tra gli altri, Giussani, Azioni collettive risarcitorie nel processo civile, Il Mulino, 2008, 29 ss.. civile Gazzetta 20 D i r i t t o e p r o c e d u r a li, la possibilità di far valere i propri diritti con “l’azione di classe”. In particolare, ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa, è legittimato ad agire in giudizio proponendo la domanda con atto di citazione, notificato anche all’ufficio del pubblico ministero. La competenza spetta al tribunale ordinario avente sede nel capoluogo di regione in cui ha sede l’impresa, ma sono previsti alcuni accorpamenti3. È previsto che la prima udienza abbia ad oggetto la decisione circa l’ammissibilità della domanda. La domanda è dichiarata inammissibile quando è manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi ovvero quando il giudice non ravvisa l’identità dei diritti individuali tutelabili ai sensi del comma 2, nonché quando il proponente non appare in grado di curare adeguatamente l’interesse della classe. La ratio di tale disposizione va ricercata nell’intenzione di evitare azioni infondate, e non sembra potersi ipotizzare il contrasto con l’art. 24 Cost. dal momento che questo garantisce l’azione individuale dei singoli, mentre l’azione di classe rappresenta una tutela aggiuntiva apprestata dall’ordinamento. Nel caso in cui la domanda sia ritenuta ammissibile il Tribunale fissa termini e modalità della più opportuna pubblicità, ai fini della tempestiva adesione degli appartenenti alla classe, fissando altresì un termine perentorio, non superiore a centoventi giorni dalla scadenza di quello per l’esecuzione della pubblicità, entro il quale gli atti di adesione devono essere depositati in cancelleria. Se all’esito della trattazione il Tribunale accoglie la domanda pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile, le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme. Le questioni problematiche concernono: la legittimazione ad agire, il meccanismo di determinazione della classe e l’oggetto del giudizio. 3Il quarto comma dell’art. 140-bis del codice del consumo prevede che: “La domanda è proposta al tribunale ordinario avente sede nel capoluogo della regione in cui ha sede l’impresa, ma per la Valle d’Aosta è competente il tribunale di Torino, per il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia è competente il Tribunale di Venezia, per le Marche, l’Umbria, l’Abruzzo e il Molise è competente il Tribunale di Roma e per la Basilicata e la Calabria è competente il Tribunale di Napoli”. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E 2. Legittimazione ad agire Per quanto riguarda la legittimazione il legislatore dell’azione di classe ha operato una scelta sostanzialmente diversa rispetto alla disciplina precedente. Difatti, mentre l’azione collettiva risarcitoria approvata con la legge finanziaria per il 2008 attribuiva la legittimazione ad agire alle associazioni riconosciute ed alle associazione e comitati adeguatamente rappresentativi degli interessi fatti valere, la recente modifica prevede che possa agire “ciascun componente della classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui partecipa”. Le soluzioni che si riscontrano negli altri ordinamenti vanno dall’attribuzione della legittimazione ad ogni singolo danneggiato alla legittimazione limitata alle associazioni riconosciute. La scelta operata dalla nuova normativa è diversa dalla precedente, non tanto per quanto riguarda la legittimazione dei singoli, tenuto conto che già la precedente normativa apriva uno spiraglio a questa soluzione potendo un comitato essere formato anche da due persone appartenenti alla classe4, ma per l’eliminazione delle associazioni dal novero dei legittimati ad agire che potrebbe comportare una minore efficacia dello strumento di tutela collettiva. 3. Meccanismo di determinazione della classe Per quanto riguarda la determinazione della classe, i sistemi adottati da altri ordinamenti sono caratterizzati dalla contrapposizione tra meccanismi di opt- in ed opt-out5 . Nel caso di opt-out il proponente deduce in giudizio da subito i diritti di tutti i danneggiati e chi non vuole partecipare al giudizio collettivo ha l’onere di comunicare la propria volontà di esserne escluso. Viceversa, il meccanismo di opt-in prevede che, dopo la proposizione dell’azione da parte dell’attore collettivo, chi desideri avvalersi di detta tutela lo deve comunicare. Sia il precedente art. 140 bis che la disciplina vigente prevedono il meccanismo di opt-in, ma con la sostanziale differenza che, mentre nella precedente formulazione l’adesione era consentita fino all’udienza di precisazione delle conclusioni in grado d’appello, dando luogo a cospicui problemi interpretativi, la nuova versione prevede che con l’ordinanza con cui ammette l’azione il giudice fissa un termine perentorio entro il quale gli atti di adesione devono essere depositati in cancelleria. 4 Così, con riferimento al testo precedente, Chiarloni, Il nuovo art. 140 bis del codice del consumo: azione di classe o azione collettiva?, in www.judicium.it, §5. 5Il modello di riferimento di diritto comparato, la class action statunitense, prevede un meccanismo di opt-out. Vedi, tra tutti, lo studio di Consolo, Class Action fuori dagli USA? in Riv. dir. civ., 1993, 609. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e 4. Oggetto del giudizio La questione più spinosa, infine, è quella relativa all’identificazione dell’oggetto del giudizio. Ènecessario che sia chiaro cosa viene dedotto dall’attore nel processo collettivo e su cosa il giudice è tenuto a pronunciarsi. Proprio su questo punto il testo precedentemente approvato con la legge finanziaria 2008 presentava numerose ambiguità. Nel disciplinare simili strumenti è necessario bilanciare valori difficilmente conciliabili. Da un lato, per garantire un alto tasso di tutela ai danneggiati sarebbe necessario affrontare anche le questioni personali nel processo collettivo in modo da permettere la liquidazione dei singoli crediti risarcitori all’esito di questo; dall’altro, si pone l’esigenza di non rendere eccessivamente complesso un processo che si presta ad aggregare un numero indefinito di pretese e quindi di questioni personali da risolvere. Con riguardo alla precedente normativa, alcuni Autori6 hanno sostenuto che il processo collettivo avrebbe dovuto accertare solo la questione comune relativa all’illiceità della condotta del convenuto; altri7 hanno sostenuto che si sarebbe dovuta accertare l’esistenza dei singoli diritti, ad eccezione della mera quantificazione, rimandata ad altra sede. Con riferimento al testo precedente era tuttavia chiaro che, avendo previsto il legislatore la possibilità di aderire all’azione collettiva fino all’udienza di precisazione delle conclusioni in grado d’appello, non era possibile che con l’adesione venissero dedotti in giudizio nuovi diritti e nuove questioni personali. Sarebbe stato possibile, quindi, accertare nel processo collettivo unicamente la questione comune relativa all’illiceità della condotta del convenuto, mentre, sarebbe stato necessario per i singoli proporre giudizi individuali c.d. di completamento per vedersi liquidati i propri crediti dopo l’esame delle questioni personali. La nuova disciplina dell’azione di classe, invece, prevede un soluzione chiaramente orientata nel senso di permettere al processo collettivo (rectius: di classe) di affrontare anche le questioni personali e di arrivare ad una sentenza di condanna del convenuto8. 6 Bove, L’oggetto del processo “collettivo” dall’azione inibitoria all’azione risarcitoria (art.140 e 140 bis del codice del consumo), in www.judicium.it; Chiarloni, Il nuovo art. 140 bis del codice del consumo: azione di classe o azione collettiva?, in www.judicium.it. 7 Giussani, L’azione collettiva risarcitoria nell’art. 140 bis C. cons., in Riv. Dir. Proc., 2008, 1238, il quale sostiene che nel processo collettivo devono sollevarsi anche le eccezioni personali incompatibili con l’accertamento della responsabilità del convenuto. 8 Così, F. Santagada, La conciliazione dell’azione collettiva risarcitoria: note a margine di una proposta di riforma dell’Art. 140 bis cod. consumo, in www.judicium.it. Diversamente, Caponi, La riforma della “class action”. Il nuovo testo dell’art. 140 bis cod. cons. nell’emendamento governativo, in www.judicium.it, ritiene che l’azione di classe, come l’azione collettiva risarcitoria, sia un giudizio ad assetto variabile. 2 0 0 9 21 Infatti, la nuova normativa dispone che ciascun componente della classe “può agire per l’accertamento della responsabilità e per la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni”. E successivamente precisa che “se accoglie la domanda, il tribunale pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’articolo 1226 c.c., le somme definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme”. In conclusione, il processo di classe sarà senza dubbio più lungo e complesso di un’azione individuale dal momento che il giudice potrebbe dover decidere su numerosissimi diritti soggettivi e conseguentemente su questioni personali inerenti all’an, come la prescrizione, oppure al quantum, ma, sarà comunque gestibile dal momento che il giudice potrà avere un quadro cognitivo della situazione in un tempo ragionevole, essendo previsto un termine più breve per le adesioni. 5. In attesa della giurisprudenza Sembra che in tal modo possa raggiungersi quel risultato che un Autore9 aveva chiarito con una metafora sostenendo che l’introduzione di uno strumento di tutela collettiva risarcitoria “equivale all’introduzione, in una città in cui il trasporto urbano sia compiuto solo da taxi, della possibilità di offrire anche il trasporto in autobus”. Difatti, come è evidente che l’autobus è funzionale sia ad un aumento della mobilità complessiva che ad una riduzione del numero dei mezzi in circolazione, allo stesso modo con l’azione di classe dovrebbero aumentare le possibilità di accesso alla giustizia e, nello stesso tempo, dovrebbe diminuire l’impatto del contenzioso seriale sul sistema giustizia in quanto si riducono le iniziative giudiziali individuali e la ripetizione di attività giurisdizionale. civile Gazzetta 9 Giussani, Il consumatore come parte debole nel processo civile tra esigenze di tutela e prospettive di riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2005, 536 ss.; Id., Modelli extraeuropei di tutela collettiva risarcitoria, in Riv. trim. dir. proc. Civ., 2007, 1258 ss.. 22 D i r i t t o ● Donazione indiretta Nota a Cass., sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 ● Alessandro Zampaglione Avvocato e p r o c e d u r a Gazzetta c i v i l e F O R E N S E Cass. sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983 DONAZIONE – DONAZIONE INDIRETTA – RILIEVO DELL’ANIMUS DONANDI – FATTISPECIE La S.C., in una fattispecie nella quale gli eredi di una defunta chiedevano il rimborso alla cointestataria di un libretto di risparmio del 50 per cento della somma portata dal libretto, da quest’ultima incassata per intero, ha enunciato il principio per cui la possibilità che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari – è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’ “animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della liberalità. *** […Omissis…] Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 18.7.1987 Z.G., Z.A.M., T.A. in proprio e quale procuratore speciale di TA.Gi., T.R. e T.G. convenivano in giudizio dinanzi al Pretore di Cividale S.F. chiedendone la condanna a restituire loro – quali eredi della zia Z.M. – la somma capitale di L. 42.504.450, pari alla metà del saldo portato dal libretto di risparmio n. (OMISSIS) acceso presso la Banca Popolare di Cividale e cointestato alla S. ed a Z.M.. Gli attori assumevano che quest’ultima, deceduta il (OMISSIS), era in realtà l’unica proprietaria del denaro depositato in tale libretto, che la S. aveva estinto nove giorni prima della morte della Z. trattenendosi l’intero importo di L. 85.008.900 (frutto esclusivamente di risparmi della loro parente), e che la cointestazione di esso con la S. aveva avuto il solo scopo di facilitare alla Z., persona anziana, i relativi prelievi. Costituitasi in giudizio la convenuta chiedeva il rigetto della domanda attrice rilevando che Z.M. era stata assunta fin dal (OMISSIS) quale collaboratrice domestica dai propri genitori e che – cessato tale rapporto di lavoro nel (OMISSIS) per il raggiungimento dei limiti pensionistici – era comunque rimasta a vivere in casa S., ricevendo l’assistenza morale e materiale di cui aveva bisogno; proprio in relazione a ciò la Z. aveva contribuito, sia pure parzialmente, al proprio mantenimento, versando delle somme di denaro sul libretto cointestato ad entrambe; pertanto la S. deduceva di essere stata autorizzata dalla stessa Z. a prelevare il denaro depositato sul libretto, affinchè quella parte dei suoi risparmi fosse il corrispettivo dell’assistenza materiale e morale ricevuta nel corso degli anni. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e Interveniva poi volontariamente in giudizio Z.L. quale coerede di Z.M. aderendo alla domanda attrice. Il Tribunale di Udine con sentenza del 24.12.2001, ritenuta l’insussistenza di idonee prove in ordine alla configurabilità di una donazione indiretta effettuata dalla Z. in favore della convenuta, condannava quest’ultima alla restituzione in favore degli attori della somma capitale di L. 42.504.450, con gli interessi legali alla domanda. Proposto gravame da parte della S. cui resistevano G. ed Z.A.M., A., G., R. e TA.Gi. mentre Z.L. restava contumace, la Corte di Appello di Trieste con sentenza del 24.1.2004 ha rigettato l’impugnazione. Per la cassazione di tale sentenza la S. ha proposto un ricorso articolato in due motivi cui Z.G., Z.A. M., T.A., T.G., T.R. e TA.Gi. hanno resistito con controricorso; la ricorrente ha successivamente depositato una memoria. Motivi della decisione Con il primo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 769 e 770 c.c., e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver escluso che la fattispecie in esame – costituita dal versamento da parte della Z. di tutte le proprie sostanze su di un libretto bancario, dalla successiva cointestazione di esso anche al nome della S. e dal materiale affidamento di tale libretto alla medesima – non fosse qualificabile né come liberalità d’uso ai sensi dell’art. 770 c.c., comma 2, né come donazione indiretta ex art. 769 c.c., da parte della prima in favore della seconda. La S. assume che la Corte territoriale non ha sufficientemente considerato che dall’esame delle deposizioni testimoniali era emersa la continua assistenza per più di trenta anni assicurata alla Z. dall’esponente garantendole anche un alloggio accogliente e gratuito; era inoltre risultato che la Z. aveva espresso ripetutamente la volontà di lasciare tutti i suoi averi, costituiti esclusivamente dal denaro depositato su un libretto bancario, alla S.; il fatto quindi che nell’anno (OMISSIS), ovvero molti anni dopo l’apertura del libretto, la Z. avesse deciso di cointestarlo alla S. che ne aveva l’esclusiva disponibilità non poteva che rappresentare una concreta espressione di tale intento donativo. La ricorrente inoltre rileva che la sufficienza della prova addotta dall’esponente in ordine alla sussistenza nella fattispecie di una donazione avrebbe dovuto essere valutata, sul piano probatorio, in relazione al fatto che la Z. aveva, quali successori, parenti di grado non stretto (ovvero figli di fratelli) e che il rapporto intrattenuto con essi era alquanto superficiale e sporadico; pertanto era del tutto comprensibile che la Z., in assenza di discendenti diretti, avesse ritenuto sufficiente la cointestazione del libretto ed il suo affidamento alla S. al fine di beneficiare quest’ultima. La censura è infondata. 2 0 0 9 23 Il giudice di appello ha premesso in linea di fatto che Z. M., nata nel (Omissis) e rimasta nubile, era stata assunta quale collaboratrice familiare dai genitori della S. restando ad abitare nella loro casa, e che ella dal (Omissis), hanno della morte della madre dell’attuale ricorrente, era sempre stata accudita da quest’ultima che si era prodigata nella sua assistenza materiale e morale; tuttavia la Corte territoriale, conformemente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, ha escluso che la Z. con il suo comportamento avesse voluto effettuare una donazione indiretta in favore della S.. In proposito la sentenza impugnata ha rilevato come elementi pacifici in causa che la metà della somma di denaro depositata nel libretto cointestato alla S. ed alla Z. fosse di proprietà di quest’ultima, che l’aveva in buona parte depositata in epoca antecedente alla cointestazione del libretto stesso, avvenuta circa cinque anni prima del decesso della “de cuius” (ovvero quando costei, ormai invalida, non essendo più in grado di provvedere ai versamenti della sua modesta pensione ed ai relativi prelievi, provvide ad avvalersi della collaborazione fornitale dalla S.); la cointestazione del libretto, quindi, non costituiva prova che la Z. avesse inteso beneficiare la S. per l’assistenza e le cure ricevute da quest’ultima, considerato che comunque anche la Z. contribuiva con la propria pensione, almeno in parte, alle relative spese; in altri termini la S. non aveva fornito la prova, secondo l’assunto del giudice di appello, di un atto volontario e spontaneo di disposizione patrimoniale in suo favore da parte della Z. in considerazione dell’assistenza materiale e morale da quest’ultima ricevuta. Tale convincimento è immune dai profili di censura sollevati dai ricorrenti in quanto frutto di un accertamento di fatto sorretto da logica e congrua motivazione in ordine alla insussistenza della prova dell’”animus donandi” da parte della Z. in favore della S. della metà della somma di danaro depositata sul libretto cointestato alle due donne. Al riguardo è opportuno osservare che erroneamente la ricorrente richiama – a sostegno del suo assunto secondo cui la cointestazione di un libretto bancario e la disponibilità di esso da parte di uno dei due cointestatari darebbe luogo ad una liberalità d’uso o ad una donazione indiretta – la sentenza di questa Corte 10.4.1999, n. 3499; come invero è agevole constatare dalla lettura della relativa motivazione di tale pronuncia, la possibilità che costituisca donazione indiretta la cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito, qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei cointestatari, è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’”animus donandi” consistente nell’accertamento che, al momento della cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro civile Gazzetta 24 D i r i t t o e p r o c e d u r a scopo che quello di liberalità, ipotesi invero esclusa nella fattispecie dal giudice di appello. Ciò premesso, si rileva che per il resto la censura della ricorrente si esaurisce inammissibilmente in una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, trascurando in proposito la competenza esclusiva demandata al giudice di merito anche con riferimento alla sussistenza sia dei presupposti per il ricorso alle presunzioni sia dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione (vedi “ex multis” Cass. 4.05.2005 n. 9225). Con il secondo motivo la ricorrente, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che, in assenza di prova circa la pretesa donazione, metà della somma prelevata dalla S. continuava ad essere di proprietà della Z. e quindi era entrata a far parte dell’asse ereditario. La S. assume che in realtà il riferimento all’asse ereditario era erroneo, presupponendo quest’ultimo la sussistenza di un “relictum” nella specie escluso dal fatto che, per effetto del prelievo dell’intero deposito da parte dell’esponente, alla data di apertura della successione nessuna sostanza apparteneva alla “de cuius”. La censura è infondata. In proposito la Corte territoriale ha ritenuto l’infondatezza del motivo di appello diretto ad escludere la legittimazione attiva degli attori quali eredi della Z. ed a prospettare semmai una responsabilità restitutoria della S. ex art. 2043 c.c., mancando del tutto la prova che la Z., qualche giorno prima di morire, avesse incaricato la S. di prelevare dal libretto la somma ivi depositata, cosicché la Z. ne era comunque comproprietaria e conseguentemente tale somma era entrata a far parte dell’asse ereditario. Tale argomentazione è corretta, posto che, una volta esclusa la ricorrenza nella specie di una donazione da parte della Z. a beneficio della S. di metà della somma di denaro depositata nel libretto di risparmio ad esse cointestato, è evidente che il suddetto importo era rimasto di proprietà della Z. stessa e che quindi alla sua morte costituiva oggetto del relativo asse ereditario. Il ricorso deve pertanto essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E *** Nota a sentenza 1. Il fatto Una anziana signora che, per anni, ha prestato servizio, come domestica, in casa di una famiglia e dopo il pensionamento ha continuato a convivere con i suoi datori di lavoro, pochi anni prima della morte, cointestava il proprio libretto di risparmio anche alla figlia della sua originaria datrice di lavoro. Pochi giorni prima della morte dell’anziana domestica, la cointestataria del libretto prelevava l’intera somma depositata sullo stesso. Successivamente alla morte della domestica, i suoi eredi (nipoti ex fratre) chiedevano la restituzione, alla cointestataria del libretto, della metà delle somme su di esso depositate, adducendo che la metà di quel danaro, essendo stato di proprietà della de cuius, era caduto in successione e, quindi, non essendoci alcun testamento, loro erano i suoi eredi legittimi. Sia il Tribunale che la Corte di Appello davano ragione agli eredi legittimi, sulla base della considerazione che la mera cointestazione di un conto corrente o di un libretto di deposito non costituisce necessariamente una donazione indiretta, a meno che non venga provata la sussistenza dell’animus donandi. 2. Causa della donazione e spirito di liberalità La sentenza in commento ci dà la possibilità di affrontare, seppur in maniera succinta e senza pretesa di completezza, una delle questioni più interessanti ed affascinanti del diritto civile, quella della causa della donazione e, più in generale, quella della causa del contratto. Su questi argomenti la dottrina si è prodigata a scrivere migliaia e migliaia di pagine, ma nonostante ciò, allo stato attuale, non sembra essere pervenuta a conclusioni condivise. L’analisi della problematica in questione deve necessariamente partire dall’art. 769 c.c., il quale definisce la donazione come «il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa una obbligazione». Il problema principale che la dottrina e la giurisprudenza si pongono, sin dall’entrata in vigore del codice civile (ma anche sotto il vigore del codice civile del 1865), è quello di individuare con certezza la causa della donazione. In ordine a tale questione le teorie che sono state proposte sono varie. Alcuni autori1 hanno sostenuto che la donazione sia 1 Così Gorla, Il contratto, II, Milano, 1954, pag. 146; Sacco-De Nova, Il contratto, Torino, 1993, I, pag. 649; Sacco, Il contratto, in Trattato Vassalli, VI, t. 2, Torino, 1975, pag. 588, il quale afferma che la forma solenne della donazione costituirebbe un surrogato della causa. Seguono l’impostazione di Gorla, anche Marini, Il modus come elemento accidentale del negozio giuridico, Milano, 1981, F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e acausale, affermando che la donazione contrattuale, ossia il contratto tipico di liberalità, non presenta una causa che possa distinguersi dai suoi elementi costitutivi. In altre parole, i sostenitori di tale impostazione ritengono che la causa della donazione sia l’arricchimento di un soggetto, con impoverimento di un altro, effettuato con spirito di liberalità, cioè nella consapevolezza di non esservi tenuto. Infatti, la donazione, essendo un contratto privo di causa, sarebbe assoggettato dall’ordinamento alle forme della donazione. Questa impostazione, che trova il suo capostipite moderno in Gorla, afferma che il mero spirito di liberalità non sarebbe di per sé sufficiente a giustificare un’attribuzione patrimoniale, di conseguenza diventa necessario ricorrere alle forme solenni delle donazioni. 2 Da qui, pertanto, nasce la concezione negativa di donazione; in buona sostanza, per Gorla, costituisce donazione ogni dare ed ogni promessa di dare che non siano compiuti per una prestazione valutabile in termini economici.3 In tale prospettiva, quindi, ogni volta che manchi una causa sufficiente a giustificare un’attribuzione, l’unica alternativa consiste nel ricorrere allo schema formale delle donazioni.4 Così ragionando, però, si confondono gli elementi costitutivi della donazione con la sua causa, la quale, trattandosi di un contratto, è un suo requisito fondamentale (art. 1325, n. 2, c.c.). Infatti, se si condividesse la tesi dell’acausalità, si ammetterebbe la cittadinanza nel nostro ordinamento di un trasferimento astratto di ricchezza. Di conseguenza, essendo la donazione un contratto e dovendo questo avere necessariamente una causa, bisogna affermare che anche la donazione deve essere causale. Altri autori5 e buona parte della giurisprudenza6 affermano (teoria c.d. soggettiva) che la causa della donazione sia l’animus donandi, da intendersi come la volon- 2 3 4 5 6 pag. 37 ss.; Pellicanò, Causa del contratto e circolazione dei beni, Milano, 1981, pag. 21. Questa tesi è riepilogata da Gallo, in La donazione, I grandi temi diretto da Bonilini, Torino, 2001, pag. 499. Gorla, op.cit., pag. 101; Gallo, op. cit., pag. 499. Gallo, op. cit., pag. 499. Biondi, Le donazioni, in Trattato Vassalli, XII, 4, Torino 1961, p. 426, il quale prima analizza gli elementi costitutivi della donazione, individuandoli nell’arricchimento e nello spirito di liberalità, cioè nella volontà di arricchire senza esservi tenuto, e poi sottolinea che, nel contratto tipico di donazione, non c’è una causa che possa distinguersi dai suoi elementi costitutivi. Ciò, secondo l’A., non significa che la donazione sia acausale, ma che la causa non è altro che liberalità, elevata a contratto tipico, qualora presenti i requisiti stabiliti dalla legge. Con formula enfatica, il Biondi (pag. 423) sostiene che la causa della donazione sarebbe «superfetazione dell’atto tipico di donazione». Cass. 11.03.1996, n. 2001, Giust. civ., 1996, I, pag. 2297; Cass. 9.04.1980, n. 2273; Cass. 13.05.1980, n. 3147, Giust. civ., 1980, I, pag. 2515; App. Torino, 9.05.1980, G.I., 1981, I, 2, pag. 19. 2 0 0 9 25 tà del donante di arricchire il donatario, impoverendosi, nella consapevolezza di non esservi tenuto. Tale tesi non è condivisibile, in quanto confonde la causa della donazione con la volontà del donante. Infatti, viene messo in evidenza che l’animus donandi è la causa a parte donantis7, mentre la causa di un contratto deve essere comune ad entrambe le parti. Probabilmente, qui, data la netta prevalenza della volontà del donante rispetto a quella del donatario, si confonde la volontà di quello con la causa del contratto di donazione, che, ripetiamo, deve essere comune alle parti. Altra dottrina8, probabilmente preferibile, afferma che la causa della donazione debba essere vista da un punto di vista oggettivo (teoria c.d. oggettiva); pertanto, essa consisterebbe nell’arricchimento del donatario con relativo impoverimento del donante, restando al di fuori di essa lo spirito di liberalità, in quanto elemento soggettivo riferibile soltanto al donante e non al donatario. Infatti, come già affermato, dovendo essere la causa comune ad entrambe le parti in essa non può essere ricompresso lo spirito di liberalità. A questo punto, però, sorge spontaneo chiedersi che ruolo abbia tale spirito di liberalità nell’ambito della donazione. La risposta può ritrovarsi nella distinzione tra causa ed elementi costitutivi della donazione, ove la prima, intesa in senso oggettivo, è l’impoverimento del donante con arricchimento del donatario, i secondi sono questi ultimi con l’aggiunta dello spirito di liberalità. Riepilogando, quindi, gli elementi costitutivi della figura in esame sono l’impoverimento, l’arricchimento e lo spirito di liberalità. Infatti, la causa consiste nella funzione economico– individuale che il contratto è in grado di svolgere. E la funzione della donazione consiste, per l’appunto, nell’arricchire un soggetto depauperandone un altro. Nella causa della donazione si ha quasi un nesso di sinallagmaticità tra arricchimento ed impoverimento. Ora, se la causa è quella che si è appena individuata, appare evidente che lo spirito di liberalità è cosa ben diversa da essa. Infatti, lo spirito di liberalità9 consiste nella consapevolezza del donante di effettuare un’attribuzione patrimoniale senza esservi giuridicamente obbligato.10 In tale prospettiva, di conseguenza, l’animus 7 Lycia Gardani Conturi-Lisi, Comm. al Codice Civile ScialojaBranca, artt. 769-809, Bologna-Roma, 1976. 8 Andrea Torrente, La donazione, in Trattato Cicu-Messineo, Milano 1956. 9 L’espressione “spirito di liberalità” proviene, storicamente, dalla giurisprudenza romana, a sua volta influenzata dalla filosofia stoica, che distingueva la nozione di liberalitas in contrapposizione a quella di necessitas (in tal senso si veda Casulli, Donazione (dir. civ.), Enc. Dir., XIII, Milano, 1964, pag. 968). 10 Jemolo, Lo spirito di liberalità (riflessioni su una nozione istituzionale), in Studi in onore di Vassalli, II, Torino, 1960, pag. 973 ss.; Palazzo, Le donazioni (artt. 769-809), Il cod. civ. Commentario Schlesinger, Milano, 1991, pag. 5. civile Gazzetta 26 D i r i t t o e p r o c e d u r a donandi si distingue dallo spirito di liberalità, in quanto esso consiste proprio nella volontà, a parte donantis, di arricchire il donatario senza esservi tenuto. L’animus donandi, però, è una colorazione in senso soggettivo della gratuità, non nel senso che esso s’identifica con la causa della donazione11, ma nel senso che esso serve a distinguere un contratto gratuito da una vera e propria donazione. Infatti un contratto gratuito, se non è caratterizzato dall’animus donandi, non potrà mai essere qualificato donazione. Tale impostazione trova la sua conferma nell’art. 770 c.c., che prevede le due figure della donazione rimuneratoria (I comma) e della liberalità d’uso (II comma). Infatti, la prima delle due figure previste dalla norma in esame è considerata, a ragione, dal Legislatore come vera e propria donazione, in quanto in essa sono presenti tutti gli elementi previsti dall’art. 769 c.c., anche se lo spirito di liberalità risulta compresso. Ciò in quanto il donante è libero di decidere in ordine all’opportunità di effettuare il negozio, può determinare come vuole l’oggetto della donazione, ma non può sceglierne il beneficiario, poiché egli è individuato da un evento (riconoscenza, meriti, servizi resi al donante). La limitazione dello spirito di liberalità comporta la disapplicazione di alcune norme, quali l’art. 437 c.c. sugli alimenti e gli articoli in tema di revocazione per ingratitudine e per sopravvenienza di figli, stante il disposto dell’art. 805 c.c.. L’irrevocabilità è giustificata dalla rilevanza del motivo rimuneratorio, che ha compresso lo spirito di liberalità in ordine al destinatario della donazione. La seconda norma (art. 770, comma 2, c.c.) prevede la liberalità d’uso, cioè quella che si suole fare in occasione di servizi resi o in conformità agli usi. In tal caso, il Legislatore afferma che il negozio in esame non è donazione, quindi non gli si applica tutta la relativa disciplina. La ragione di tale esclusione va ricercata sempre nello spirito di liberalità che, quale elemento costitutivo della donazione, non è presente nella liberalità d’uso. Infatti, in essa il disponente si determina al compimento dell’atto in adempimento di una consuetudine sociale, la quale, sebbene non coercibile, è sentita dal membro di una collettività come obbligatoria. Nella liberalità in esame l’alienante non ha nessuna discrezionalità in ordine alla scelta del beneficiario, all’opportunità dell’atto e all’entità della prestazione, che sono tutti determinati in relazione alle consuetudini. Pertanto, si può affermare che la disciplina applicabile ad un negozio gratuito dipende dalla presenza in esso dello spirito di liberalità e dalla sua gradazione. 11 Perché, si ripete, in esso è compreso anche lo spirito di liberalità, che non partecipa della causa della donazione. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E A questo punto della trattazione, si può accertare un secondo punto fermo: la donazione ha una sua causa, distinta dai suoi elementi costitutivi. Invero, la causa della donazione non lascia molto soddisfatti, in quanto essa è sicuramente molto generica ed evanescente, ma di questo il legislatore era perfettamente cosciente. Infatti, esso ha ritenuto che la causa, così come individuata, non fosse da sola sufficiente a reggere la donazione, in quanto occorreva un elemento più oggettivo per giustificare l’attribuzione patrimoniale senza corrispettivo, il quale è stato individuato nella forma. A tal fine il codice prevede due distinte forme, necessarie per dar vita ad una valida donazione, quella solenne con l’atto pubblico ed i testimoni (art. 782 c.c.) e quella reale (art. 783 c.c.), con il suo spiccato simbolismo. Entrambe le forme hanno la funzione di rendere effettivamente cosciente il donante sull’importanza dell’attribuzione che sta effettuando a favore del donatario, in quanto essa comporta un impoverimento senza alcun corrispettivo. In virtù delle motivazioni su esposte, si può dire che lo spirito di liberalità può subire delle compressioni, tali da diversificare la disciplina applicabile al negozio. Si è già detto che lo spirito di liberalità è la consapevolezza da parte del donante di effettuare un’attribuzione patrimoniale al donatario senza esservi costretto, ma si può aggiungere che la sua presenza è ciò che colora un negozio, in cui vi è l’impoverimento di una parte e l’arricchimento di un’altra, come donazione, con la relativa applicazione della disciplina contenuta negli artt. 769 e ss. c.c.. Bisogna aggiungere, infine, che la donazione, considerata in senso oggettivo, è considerata una causa residuale, in quanto, ove lo spostamento patrimoniale non sia sorretto da altra causa, bisogna verificare la presenza dello spirito di liberalità; qualora questo sia presente, ci si troverà dinnanzi ad una donazione, la quale dovrà, però, essere sorretta dal formalismo suo tipico, al contrario, se lo spirito di liberalità fosse assente, cioè se non emergesse la volontà del disponente di avvantaggiare la controparte, impoverendosi, nella consapevolezza di non esservi tenuto, non si potrà parlare di donazione, bensì di trasferimento senza causa. Pertanto, in tale ultima ipotesi, il trasferimento di ricchezza non potrà dirsi realizzato, in quanto nel nostro sistema vige il principio della necessaria causalità degli spostamenti patrimoniali (arg. ex artt. 2033 e 2041 c.c.). F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e ● L’onore della persona: tra realtà e opera di fantasia Nota a Trib. Napoli, sez. I-bis, 24 giugno 2009, ord., Giud. L. Tricomi ● Chiara Ianniruberto Avvocato 2 0 0 9 27 Trib. Napoli, sez. I bis, 24 giugno 2009, ord., Giud. L. Tricomi Il giudice designato, dott. Laura Tricomi, - a scioglimento della riserva di cui al verbale d’udienza in data 19.5.2009, assunta con termine per deposito note fino al 28.05.09; - letto il ricorso depositato il 06.04.2009 con il quale *** *** ha chiesto ex art. 700 c.p.c.: • Ordinare al sig. ***, in qualità di sceneggiatore e regista, ai sigg. *** e ***, quali cosceneggiatori, nonché alla ***, in persona del responsabile p.t., alla ***, in persona del legale rapp. p.t., ed alla ***, in persona del legale rapp. p.t., in quanto società produttrici, di astenersi dal programmare e diffondere su tutto il territorio nazionale il film “***” fissando, altresì, a carico degli stessi una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata o per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento; • In via subordinata, ordinare ad essi resistenti di eliminare dal film tutte le scene in cui è rappresentato il caporedattore de ***, identificabile con ***, con conseguente pregiudizio al suo onore, alla reputazione ed all’identità personale, • Ovvero, in via più gradata, ordinare agli stessi resistenti l’apposizione nei titoli di testa del film, di un comunicato con il quale precisare che il personaggio di *** è di pura fantasia; • Ordinare, in ogni caso agli stessi resistenti di pubblicare, a proprie spese, sul quotidiano “***” e su un quotidiano di tiratura nazionale il suddetto comunicato; • Emettere ogni altro provvedimento utile o necessario a tutela dei diritti all’onore, alla reputazione ed all’identità personale vantati dal ricorrente; condannare tutti i resistenti al pagamento delle spese della fase di giudizio ed emettere i provvedimenti di legge per il prosieguo dei giudizio, - lette le memorie depositate dalle parti costituite con la quale si chiedeva il rigetto dell’istanza e, in via subordinata, la fissazione di una cauzione; - espletata l’attività istruttoria sommaria e visionato il film, precedentemente consegnato dalla difesa della *** ed altri su supporto informatico, in contraddittorio tra le parti; - letti i verbali d’udienza, gli atti e tutti i documenti prodotti Osserva Innanzi tutto vanno esaminate le questioni preliminari, tutte da respingere. Litisconsorzio Necessario In via preliminare va dato atto che il ricorso non è stato notificato a *** e che il ricorrente ha rinunciato alla proposizione del ricorso nei suoi confronti, che pertanto è improcedibile in parte qua. A seguito di tale rinuncia i difensori dei resistenti hanno sollevato un’eccezione di improcedibilità in rela- civile Gazzetta 28 D i r i t t o e p r o c e d u r a zione al prospettato litisconsorzio necessario del resistente ***: tale eccezione è infondata e va respinta. Risulta infatti ininfluente, nella fattispecie in esame, inerente ad un giudizio risarcitorio ex art. 2043 cc, il richiamo all’art 44 della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941 n.633 ) che individua i coautori dell’opera cinematografica. Come affermato dalla S.C. “Ove un’opera cinematografica abbia arrecato un danno illecito, tutti i soggetti che, ai sensi dell’art. 44 della l. 22.04.1941 n.633, vanno considerati coautori di detta opera, sono solidalmente tenuti ai risarcimento del danno, in considerazione del precetto specifico emergente, in tema di responsabilità extracontrattuale, dall’art. 2055 c.c., valutato in correlazione con il principio fondamentale dell’imputazione soggettiva del fatto illecito stabilito dalla norma generale di cui all’art. 2043 c.c.” (C. Cass., Sez. III, sent. 12.02.08 n. 3267). Tuttavia la solidarietà passiva, nel caso in esame non incide sul litisconsorzio, giacché “la responsabilità solidale per fatto illecito non determina un litisconsorzio necessario, potendo il danneggiato, a tutela del suo diritto agire, per conseguire il risarcimento dei darmi, anche nei confronti di uno solo dei soggetti responsabili, poiché le situazioni giuridiche degli stessi, salvo per quanto attiene al vincolo di solidarietà derivante dalla legge (art. 2055 cod. civ.), sono tra loro autonome e indipendenti.” (C. Cass., Sez. Unite, sent. 25.02.1970, n 443). In buona sostanza, nel caso in esame, non è controverso il diritto d’autore tra più coautori (o pretesi tali) dell’opera, ed il preteso terzo danneggiato ben può agire anche solo nei confronti di alcuni degli autori. Competenza In merito alla competenza è stato eccepito dai resistenti *** l’incompetenza territoriale del Tribunale di Napoli, a favore del Tribunale di Roma, luogo di produzione dell’opera cinematografica, sulla falsariga di quanto previsto per le opere su carta in relazione al luogo dì pubblicazione. Tale eccezione è infondata in quanto l’attività di produzione del film non è assimilabile a quella di pubblicazione. Difetto di legittimazione passiva La difesa della *** ha eccepito il proprio difetto di legittimazione passiva, affermando di non essere distributrice del film. Tale eccezione è infondata e va respinta in quanto, a prescindere dalla posizione del soggetto distributore del film, sicuramente il produttore svolge un ruolo centrale nella realizzazione di un’opera cinematografica ed inoltre, ai sensi dell’art.45 della legge sul diritto d’autore, “l’esercizio dei diritti di utilizzazione economica dell’opera cinematografica spetta a chi ha organizzatola produzione stessa, nei limiti indicati dai successivi articoli” e ai sensi dell’art. 46 “L’esercizio dei diritti di utilizzazione economica, spettante al produttore, ha per oggetto c i v i l e Gazzetta F O R E N S E lo sfruttamento cinematografico dell’opera prodotta”. Va pertanto affermata la legittimazione passiva del soggetto o dei soggetti che hanno prodotto il film in esame. Nullità e/o inammissibilità del ricorso La difesa della *** ha eccepito la nullità e/o inammissibilità del ricorso perché proposto strumentalmente in relazione ad una domanda di merito avente contenuto inibitorio. Ha affermato che, stante l’inammissibilità della domanda di merito inibitoria per violazione del principio di tassatività delle azioni a contenuto inibitorio, doveva ritenersi inammissibile la invocata tutela cautelare inibitoria. Tale eccezione è infondata e va respinta. Costituisce uno dei presupposti per il ricorso alla procedura d’urgenza ex art.700 c.p.c. la possibilità di poter far valere il diritto azionato con una azione ordinaria, proprio in vista della quale si richiedono i provvedimenti di urgenza idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito. Nel ricorso è indicato che la causa di merito avrà ad oggetto • la richiesta di inibizione della programmazione e della diffusione del film su tutto il territorio nazionale, • o, in subordine, l’eliminazione delle scene in cui è rappresentato Il caporedattore de ***, identificabile con il ricorrente, con conseguente pregiudizio al suo onore, alla reputazione ed alla identità personale, ovvero, in via gradata, l’apposizione nel titoli di testa di un comunicato che escluda la riferibilità alla persona dei ricorrente del personaggio di ***, nonché la richiesta di risarcimento dei danni, patrimoniali e morali conseguenti alla diffusione della pellicola, da liquidarsi in via equitativa. Orbene sulla scorta della disamina del ricorso ritiene il Giudicante che il ricorrente abbia soddisfatto non solo l’onere di indicare il giudizio di merito rispetto al quale si pone come strumentale la tutela cautela, ma abbia anche individuato l’azione risarcitoria a contenuto non inibitorio, che rende ammissibile il ricorso al procedimento ex art.700 c.p.c.. Presupposti della tutela cautelare richiesta. Fumus boni iuris Quanto al fumus boni iuris, ritiene il giudicante che, allo stato e sulla scorta dell’istruttoria sommaria svolta, non sussistano elementi sufficienti ad integrare tale presupposto e, conseguentemente, il ricorso vada rigettato. Nel considerare il merito della controversia si deve osservare che il nucleo della decisione è costituito in via preliminare dalla riferibilità oggettiva del personaggio di *** alla persona del ricorrente. – Nei suoi atti il ricorrente ***, dopo un’ampia premessa sulle sue personali qualità professionali di gior- F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e nalista, che lo avevano condotto a “grandi soddisfazioni nonché riconoscimenti di altissimo profilo”, che queste erano state “di colpo mortificate” dalla proiezione del film “***”, assume quanto segue. • In tale film, proiettato in anteprima nazionale al *** il ***, vengono ripercorsi gli ultimi quattro mesi di vita del giornalista ***, brutalmente assassinato a Napoli il ***, nel corso dei quali era stato impegnato quale “abusivo” presso la redazione del *** di ***, in particolare come inviato a ***, e successivamente chiamato a lavorare presso la sede napoletana del giornale. La storia narrata contiene numerosissimi riferimenti a fatti storici realmente accaduti, con indicazione esplicita dei protagonisti di quei fatti (ad esempio ***, ***, ***, ***); invece “altri personaggi, sebbene individuabili ed identificabili in maniera certa, data la loro collocazione storica, ambientale e relazionale, vengono rappresentati sullo schermo con nomi di fantasia: uno per tutti, li caporedattore *** della redazione di ***, altri non è che il nostro *** *** (fol. 6 del ricorso). • II capo redattore viene rappresentato come un personaggio ostile all’attività di inchiesta sui clan camorristici di *** ed intento esclusivamente ad ostacolare ogni attività di cronista, ovvero di “giornalista -impiegato”, in contrapposizione alla figura di “giornalista – giornalista’ e che “l’intera redazione del quotidiano napoletano del circondario sud viene miseramente rappresentata nel film in esame come uno squallido ufficio in cui lavorano lo scontroso e pavido direttore, un fotografo tossicodipendente ed una leziosa collega che, indisturbata, si dedica durante l’orario di lavoro, al manicure ed a telefonate personali” (fol.7). Precisa inoltre di avere sofferto per “la meschina immagine di sé ritratta nel film, nel quale la sua reputazione e la sua identità personale professionale sono ingiustamente discreditate, mediante una rappresentazione di fatti – per quel che lo concerne – destituita di ogni verità” (fol.12). Sulla specifica e preliminare questione relativa alla riconoscibilità del ricorrente nel personaggio dei caporedattore ***, il ricorrente offre i seguenti elementi, pur riconoscendo “che il caporedattore reca un nome diverso da quello reale e che le sue fattezze fisiche non consentano un immediato riferimento allo ***” (fol 5): 1) l’identificazione dello *** nel caporedattore ***, avvenuta ad opera di altri suoi colleghi – ***, ***, *** – che avevano espresso nei suoi confronti solidarietà ed amarezza per l’ingiusta diffamazione subita; 2) la circostanza che lui *** *** sia stato l’unico caporedattore di ***, per il periodo in cui questi ha lavorato come inviato de *** a ***. A fronte di tali argomenti la difesa di ***, ***, *** 2 0 0 9 29 e ***, nonché la difesa di *** contestano la sussistenza del presupposto del fumus boni juris, affermando: • che il film non è un “film-verità” con un intento documentaristico, né gli autori avevano intenzione di rappresentare tutte le persone che nella vita reale avevano avuto, a vario titolo rapporti professionali o amicali con ***; • che il personaggio di *** è di pura fantasia e nello stesso non é possibile identificare il ricorrente, che gli autori non hanno mai conosciuto e che lo stesso ricorrente afferma essere diverso da sé sia nell’aspetto fisico, che nella personalità; • che quand’anche dovesse essere possibile riconoscere nel personaggio di *** il ricorrente, non si potrebbe rinvenire alcuna diffamazione e/o lesione all’onore o all’identità personale del ricorrente. La difesa della *** e della *** sostengono le medesime posizioni con argomenti analoghi. Orbene, rileva il G.I. che l’unico elemento segnalato nel ricorso come elemento di identificabilità del ricorrente nel personaggio di *** è la circostanza che li ricorrente avesse svolto le funzioni di caporedattore di ***, nel periodo in cui questi era inviato a ***, così come il personaggio di ***. *** è uno dei numerosi personaggi, sia reali che di fantasia, che fanno da contorno alla figura del protagonista ***, nella struttura della sceneggiatura, la cui presenza è limitata a cinque scene del film, per apparizioni complessive di circa cinque minuti, distribuite nell’arco dell’ intera opera della durata di circa un’ora e quarantacinque minuti. Tanto premesso ritiene il giudicante innanzi tutto che il film non possa essere considerato un “film verità”: ***, in vita, non era un personaggio famoso, ma un giovane impegnato ad intraprendere la carriera di giornalista partendo dal gradino più basso (più volte tutte le persone ascoltate hanno riferito, con una terminologia certamente ambigua, che era “un abusivo”), destinato a diventare “famoso” dopo la sua tragica morte. Solo a seguito della sua scomparsa venne intrapreso il difficile cammino (sia pure su strade differenti) degli investigatori e degli estimatori del suo lavoro per ripercorrere a ritroso la sua vita, ed in particolare l’ultimo periodo, nel tentativo di ricostruire le complesse dinamiche personali e sociali confluite nel grave episodio delittuoso che lo vide vittima innocente. Si deve pertanto ritenere che la vita quotidiana. le esperienze, gli incontri di *** non siano stati consegnati, durante la sua vita, alla Storia, ma siano appartenuti alla dimensione privata di un giovane, impegnato e fortemente motivato che aveva iniziato a confrontarsi, in ragione della professione intrapresa, con la difficile realtà campana di quei tempi. Ne consegue che risulta sicuramente credibile la affermazione che il film sia costruito attraverso la narra- civile Gazzetta 30 D i r i t t o e p r o c e d u r a zione di fatti storici realmente avvenuti, come la strage di *** e l’arresto di *** – questi si consegnati alla Storia anche da *** con i suoi significativi articoli –, ma anche attraverso la creazione di personaggi e situazioni di fantasia emblematiche della realtà sociale dell’epoca e funzionali alle esigenze narrative. Tanto ritenuto va comunque affermato che, pur sulla base di parametri di giudizio meno rigorosi di quelli utilizzati per la rappresentazione documentaristica o per la cronaca di fatti della nostra storia recente, anche una rappresentazione romanzata, per il contenuto informativo che si accompagna al contenuto artistico – creativo dell’opera, può essere fonte di effetti lesivi dell’onore di una persona, tanto più se essa sia destinata ad ampia diffusione, come avviene per i film; tuttavia perché ciò si verifichi è necessario che il personaggio oggetto della rappresentazione drammatica abbia una valenza univoca di riconoscibilità. Ritiene il giudicante che il personaggio di *** per le modalità concrete in cui è inserito nel contesto narrativo e per come ricorre nell’opera, è idoneo ad escludere l’univoca riferibilità della stesso alla persona del ricorrente. Se infatti l’indice di riconoscibilità della persona del ricorrente *** *** nel personaggio di *** è colto dal ricorrente nel solo fatto che lo stesso sia stato redattore capo di *** in quel periodo, va tuttavia evidenziata che tale unica circostanza non è sufficiente a parere di questo giudicante ad assicurare la valenza univoca di riconoscibilità. Innanzi tutto va osservato che, nell’ambito di un film in cui è protagonista anche la professione di “giornalista” ed il modo di intendere tale professione, è naturale che vi sia la figura di un caporedattore (così come anche una redazione ed un giornale), per cui la sola coincidenza dello svolgimento di tale funzione tra realtà e fantasia, in assenza di ulteriori, circostanziati e specifici elementi di riferimento non è sufficiente a consentire di identificare il personaggio *** con il ricorrente. La univoca ed oggettiva riferibilità di un personaggio ad una persona reale va desunta infatti dalla sovrapposizione (anche parziale) tra gli elementi personali che abbiano un forte potenziale individualizzante della specifica persona reale (che si ritiene diffamata), elementi che, mostrando almeno in parte il suo patrimonio personale, fatto di personalità, carattere, percorso professionale, attività, scelte compiute nella vita, episodi della vita, relazioni intraprese e di quant’altro fa si che ogni persona si connoti e si distingua da tutte le altre, ne consentano l’identificazione con il personaggio. Va inoltre sottolineato – proprio per evidenziare la carenza di elementi a sostegno della tesi del ricorrente – che questi, pur esponendo con dovizia di particolari il suo percorso professionale, non ha offerto alcuna elemento di connessione tra lo stesso e la storia personale e professionale di *** se non la mera circostanza c i v i l e Gazzetta F O R E N S E di esserne stato il caporedattore), e non ha dedotto alcunché nemmeno in ordine alle specifiche vicende con le quali, nel film, si intreccia la vita tragicamente spezzata di ***, la circostanza poi che il ricorrente – come ha affermato – abbia ritenuto negli anni di mantenere il riserbo in merito ai suo rapporto con *** e non abbia avuto contatti con gli autori dei film, conferma che nemmeno aliunde sono riscontrabili elementi a sostegno della sua tesi. In buona sostanza il ricorrente non ha offerto alcun elemento a conferma del suo assunto in ordine alla riconoscibilità. Né tale contributo è giunto dalle informazioni sommariamente assunte; tutti infatti hanno affermato di non riconoscere nel caporedattore filmico il collega ***, limitandosi solo a porre in luce, da un lato la coincidenza tra la funzione di caporedattore di *** svolta dal ricorrente e dal personaggio di ***, e dall’ altro le differenze caratteriali e professionali tra i due, in relazione al caso in esame va tuttavia precisato che non ricorre solo la mancanza di elementi positivi di univoca identificabilità tra personaggio e persona, ma va sottolineato che ricorre anche la presenza di elementi negativi di difformità, incontestati, e segnatamente: - la diversa collocazione della redazione a ***, e non a ***; - la composizione della redazione con altri personaggi, emblematici di situazioni e rapporti che *** si trovava ad affrontare nella propria esperienza di vita ( (amico fotografo tossicodipendente, la segretaria priva di interesse per il lavoro di redazione}, non riscontrati nella realtà; - la mancanza di somiglianza fisica tra il personaggio ed il ricorrente. Pertanto, allo stato, la domanda cautelare deve essere respinta in quanto il personaggio di ***, per le modalità concrete con cui ricorre nell’ opera cinematografica *** non è univocamente ed oggettivamente riferibile alla persona del ricorrente. Restano assorbiti tutti gli altri profili relativi ai fumus boni juris. Periculum in mora I! rigetto del ricorso per i motivi esposti esonera il giudicante dalla disamina del presupposto del periculum. […Omissis…] ••• Nota ad ordinanza Il caso oggetto della ordinanza riguarda il caporedattore di un quotidiano che, a seguito della proiezione di un film sugli ultimi quattro mesi della vita di un giornalista ucciso da un’organizzazione criminale, chiedeva che il film venisse ritirato o quantomeno che venissero tagliate alcune scene in quanto la sua reputazione F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e era stata fortemente lesa dalla presenza di un personaggio identificabile con la sua persona. Essendo stato contestato dalle parti intimate il contenuto diffamatorio della rappresentazione caricaturale e grottesca del personaggio configurato dal caporedattore, nonché delle scene e di alcuni dialoghi tra lo stesso e quello raffigurante il giornalista ucciso, il giudice adito ha rigettato il ricorso. Tra le varie questioni affrontate dal provvedimento in commento meritano di essere segnalate quelle che riguardano la possibilità di identificare nel caporedattore descritto nel film il soggetto ricorrente, per i fatto che egli era addetto alla struttura operativa alla quale collaborava il giornalista. Occorre partire dal rilievo che, dopo un iniziale contrasto di opinioni, può dirsi sostanzialmente condivisa la teoria monista dei diritti della personalità, nel senso che la protezione dell’ordinamento giudico si rivolge alla persona umana nel suo complesso come valore unitario: in altri termini, i diritti della personalità non sono altro che degli aspetti di una situazione giuridica soggettiva attiva che hanno un valore assoluto e possono essere fatti valere erga omnes1. Non è contestato che rientra tra i diritti della personalità il diritto all’onore per cui ogni manifestazione di pensiero pur se libera deve essere contemperata con la tutela del menzionato bene. Si pone però a questo punto il problema della ricerca del giusto equilibrio tra due valori – entrambi tutelati dalla Costituzione – ossia il diritto inviolabile dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2) e il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo di diffusione (art. 21). Di qui la necessità, a tal proposito, di distinguere i vari modi secondo i quali questa libertà possa esplicarsi allorquando le vicende personali o il modo di essere e di manifestarsi di un soggetto costituisca l’oggetto di un qualsiasi mezzo di diffusione al pubblico. In proposito2 si è distinto tra cronaca, opera storiografica, opera biografica, opera narrativa di fantasia. Per cronaca si intende la diffusione di una notizia di un fatto di interesse pubblico da qualsiasi ragione determinata (di giustizia, di polizia, di arte, etc.). In questo 1 La tesi pluralistica fu a suo tempo sostenuta da De Cupis, I diritti della personalità, Milano, 1982; la teoria monista Gianpiccolo, La tutela giuridica della persona umana e il cd. diritto alla riservatezza in Riv. trim.dir. proc. civ. 1958, 465. Quanto alla giurisprudenza Cass. 20 aprile 1963 n.990 in Giust.civ. 1963, I, 1280, teoria questa condivisa dalla successiva giurisprudenza di legittimità, tra cui Cass. 10 maggio 2001, n. 6507 in Giust. civ. 2001, I, 2644. Sul punto vedi anche Crippa, Il diritto all’oblio:alla ricerca di un’autonoma definizione in Giust. civ. 1997, I, 1990; Messinetti, voce Personalità(diritti della) in Enc. dir. 23, Milano 1963, 355). 2 Schermi, Il diritto assoluto della personalità ed il rispetto della verità, in Giust.civ. 1966, I, 1252. 2 0 0 9 31 caso colui che diffonde la notizia non può andare al di là del limite di chiarire le ragioni del fatto traendone le conclusioni morali, sociali o politiche che siano strettamente funzionali alla verità del fatto senza indugiare in commenti, osservazioni che si traducano in una alterazione della verità. Al riguardo è stato affermato che il diritto di cronaca non è altro che il diritto di informare il pubblico su fatti di interesse generale e che la lesione dell’onore e della reputazione altrui non si realizza quando la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce legittimo esercizio del diritto di cronaca, in quanto ricorrano: la verità oggettiva della notizia pubblicata, l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza), la correttezza formale dell’esposizione (cosiddetta continenza). Da ultimo si è detto che il giudice ha il compito di esaminare e valutare le notizie nel contesto complessivo dell’articolo in cui sono riportate3. Nell’opera storiografica si ha la narrazione di vicende inquadrate in un complesso di circostanze in un determinato contesto storico ed ambientale. In tal caso si tratta dell’esposizione di un fatto del quale vengono posti in evidenza le relazioni tra più vicende e, quindi, la narrazione è relativa ad una singola persona inserita in una determinata realtà, che in qualche modo abbia influenzato il modo di essere del protagonista. Anche in questo caso l’opera storiografica non può prescindere dalla verità delle vicende realmente accadute e del reale modo in cui queste si sono verificate senza che l’immaginazione possa apportare delle deformazioni alle stesse. Opera biografica è la narrazione e descrizione di una singola persona in una determinata collettività e che ha acquistato notorietà per questioni di vario genere. Con tale esposizione si tende ad individuare e spiegare le caratteristiche personali, le idealità e tutto quanto possa servire a delineare nel modo più completo la persona al quale l’opera si riferisce. La differenza tra opera storiografica e opera biografica è che in quest’ultima viene in rilievo il profilo della singola persona di modo che la esposizione della collettività è funzionale a descriverla meglio se ed in quanto serva a delinearne la personalità. Anche nell’opera biografica si impone il rispetto della verità sia nella descrizione della personalità, del carattere, dei sentimenti, degli ideali al fine di far conoscere la personalità per quanto si è realmente manifestata nelle vicende della sua vita. Per questa ragione l’esposizione di una personalità travisata o la narrazione di vicende e di eventi non veri o deformati intanto rilevano ai fini di una pretesa risarcitoria in quanto offrono un’immagine del soggetto alterata. Diversa da tutte queste è l’opera narrativa di fantasia che si ha allorquando la stessa trae spunto da un fatto realmente accaduto che viene dall’autore recepita 3 Cass. 19 luglio 2004, n. 13346, in Giust. civ., 2005, I, 3074. civile Gazzetta 32 D i r i t t o e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E e rielaborata. Proprio perché il fatto storico è stato solo l’occasione per stimolare l’autore a costruire una certa trama, il risultato ottenuto può non essere il frutto di una combinazione di fatti realmente accaduti e di fatti immaginati, in quanto i primi vengono in qualche modo trasfigurati dalla fantasia dell’artista, così da costituire una realtà esistente solo a seguito di questa elaborazione ed avulsa dal dato meramente storico. In questo caso, in linea di principio, non si dovrebbe avere un conflitto fra diritto della personalità e libertà dell’arte, perché “la creatura in cui l’atto estetico si obiettiva è autonoma: la vicenda, rivissuta attraverso il temperamento dell’artista, perde ogni contatto con la realtà, l’arte non è storia, né ha la pretesa di esserlo”4. Orbene, se l’arte non è cronaca, nondimeno si pone il problema se l’artista, nell’ipotesi di rielaborazione di un fatto accaduto, debba attenersi alla verità dei fatti, che hanno sollecitato la sua creatività o possa essere libero di creare, a sua volta, una nuova realtà. È stato allora sostenuto che la narrazione artistica incontra gli stessi limiti che valgono per qualsiasi manifestazione del pensiero, per cui il dilemma deve essere risolto nel senso da ultimo richiamato. Ed infatti, in una fattispecie, che sotto alcuni versi richiama quella che ha dato origine al provvedimento in commento, la Cassazione5 ha testualmente affermato che nel nostro ordinamento non si rinviene disposizione alcuna che “sancisca la assoluta corrispondenza della rappresentazione dei fatti alla verità storica” in quanto la funzione “essenzialmente creativa dell’arte” si estrinseca attraverso un originale modo di esprimersi dell’artista, con la composizione di elementi reali ed immaginari, con l’unico limite che, per mezzo di questa operazione, non venga ad essere lesa l’onorabilità dei soggetti coinvolti nella narrazione, in modo da travisare la sostanza della persona, attraverso una valutazione globale del modo in cui, nell’intera rappresentazione, questa venga descritta. Altro aspetto del problema, allora, è la individuazione della linea di confine tra opera di pura fantasia ed una delle categorie, in precedenza indicate, in quanto anche la prima – allorquando prenda spunto da un fatto storico – può integrare, al di là di una formale denominazione il carattere, ad esempio, di opera biografica. È stato giustamente posto in evidenza che quando la narrazione artistica prende spunto in maniera evidente dalla vita reale devono in ogni caso essere posti dei limiti in quanto anche in simili fattispecie vanno rispettati quei diritti della persona che il vigente ordinamento riconosce. Sotto questo profilo vi è, dunque, un diritto inviolabile a veder ricostruita la propria figura di uomo senza travisamenti e deformazioni fantastiche. Orbene, seguendo l’opinione prospettata in qualche contributo sul punto6 il criterio da seguire non è quello quantitativo, ma il modo secondo il quale l’artista abbia rielaborato una vicenda storica (con specifico riferimento ad un personaggio), in modo da trasfigurare la realtà (anche relativa ad un singolo protagonista della vicenda narrata) in guisa che ne venga fuori una realtà creata, che vive di vita propria. Ove questo avvenga, l’autore, che abbia descritto la figura di un singolo soggetto in maniera diversa dalla realtà, semmai anche allo scopo di esaltare la figura del protagonista, non è tenuto a rispettare la realtà storica, ma deve essere ritenuto libero di dare spazio alla propria fantasia senza che da questo possa dirsi lesa la onorabilità di un soggetto, che in ipotesi, ritenga di identificarsi in quello descritto in maniera fantasiosa. Questa tesi della valutazione globale dell’opera non è condivisa da chi7 nega la possibilità che sia rimessa al giudice una valutazione complessiva circa la corrispondenza della figura rappresentata a quella reale per l’estrema difficoltà di un tale giudizio umano e non giuridico in quanto, trattandosi di un diritto della personalità, non può non avere una tutela reale il soggetto al quale siano state attribuite la paternità di azioni non compiute ed il fardello di colpe non commesse. In questo contrasto di opinioni più convincente appare la prima delle teorie esposte in quanto ben può essere riconosciuta al giudice la sensibilità e la capacità di valutare complessivamente le azioni riferibili al soggetto rappresentato, anche se in qualche modo alterate nella rappresentazione artistica, in quanto ciò che conta è l’ immagine del personaggio proposta al pubblico e da questo recepita. È evidente, allora, che in situazioni del genere non può avere spazio alcuna pretesa risarcitoria. Nel caso esaminato il tribunale ha puntualmente applicato tali principi avendo ritenuto che il film, pur traendo spunto dalla vita del giornalista e da fatti storici realmente accaduti, riporta circostanze del tutto inventate che sono servite agli autori per presentare il personaggio nella sua quotidianità di uomo e di giovane professionista, e che, pertanto, costituiscono licenze artistiche assolutamente necessarie allorquando si realizzi non un film di cronaca o un film verità, che si basi cioè esclusivamente sulle vicende giudiziarie documentate, ma un film che, pur prendendo spunto da alcuni fatti di cronaca, attraverso la creazione di una serie di personaggi e situazioni di contrasto funzionali alle esigenze del dramma, dia vita ad una vera e propria opera 4 Giampiccolo, op. cit. 5 Cass. 31maggio 1966 n. 1446, in Giust.civ., 1966,I,1250 ed in Foro it. 1967,I, 592. 6 Schermi, op.cit., 1269. 7 Magrone Furlotti, Diritto di cronaca e tutela della personalità in Foro it. 1967, I, 593. Gazzetta F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 33 civile letteraria da giudicare soltanto sul piano artistico. In particolare il giudice ha rilevato che, nell’intento di tratteggiare il lavoro di giornalista del protagonista, all’interno di una redazione, è stato necessario costruire anche un personaggio che interpretasse la figura di caporedattore costruita come in contrasto con il giovane giornalista proprio in quanto rivolta ad esaltarne le qualità di coraggio e di amore per la professione. Sotto altro profilo il tribunale con l’ordinanza in commento ha ritenuto l’inesistenza di “elementi positivi di univoca identificabilità tra personaggio e persona”, valorizzando alcuni elementi (diversa indicazione della localizzazzione della redazione e della sua composizione; assenza di somiglianza fisica tra il personaggio raffigurato nel film al quale, tra l’altro, è stato attribuito un nome di fantasia, assolutamente diverso da quello della parte ricorrente, diversità di nomi riferita a tutti gli altri personaggi del film, ad eccezione del protagonista), che, nella specie, non permettono di riconoscere nel personaggio rappresentato il soggetto ricorrente. Una problematica simile è stata già affrontata in alcune decisioni di giudici di merito8, i quali hanno ritenuto che perché si verifichi una lesione del diritto dell’onore all’interno di una rappresentazione romanzata di fatti di cronaca è necessario che il personaggio oggetto della rappresentazione drammatica abbia una valenza univoca di riconoscibilità. In tale pronuncia, come nel caso esaminato dal provvedimento del tribunale di Napoli, pur essendovi alcuni elementi che potevano far riconoscere nella parte ricorrente il soggetto rappresentato, ne è stata comunque esclusa la identificabilità per un insieme di circostanze, che non potevano con sufficiente univocità far convergere nella stessa persona finzione e realtà. 8Trib. Roma, 25 settembre 2006, in Foro it., 2006, I, 3510. 34 D i r i t t o ● Rassegna di legittimità ● A cura di Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli Donato Palmieri Avvocato e p r o c e d u r a c i v i l e Gazzetta F O R E N S E AMMINISTRAZIONE PUBBLICA – AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA – OBBLIGAZIONI E CONTRATTI – COMODATO – SIMULAZIONE – NULLITÀ – COMPETENZA DELLE COMMISSIONI TRIBUTARIE (art. 1344 c.c.; art. 2 D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546) 1. Vige nel sistema tributario un generale principio antielusivo, rinvenibile nel divieto di abuso del diritto, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un vantaggio, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili tali da giustificare il ricorso a siffatti strumenti. Con particolare riferimento alle imposte sui redditi, il principio in oggetto trova fondamento nei canoni costituzionali di capacità contributiva e di progressività della imposizione e, traducendosi nel disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l’applicazione di disposizioni di carattere fiscale, non contrasta con il principio della riserva di legge. Il negozio posto in essere dal contribuente al fine di procurarsi un indebito vantaggio tributario, sarà, pertanto, inopponibile all’amministrazione finanziaria. L’Amministrazione finanziaria, pertanto, è legittimata a dedurre la simulazione (assoluta o relativa) del negozio giuridico posto in essere dai privati nonché l’eventuale nullità dello stesso per frode alla legge, secondo il disposto dell’art. 1344 c.c.. Il giudice può sempre rilevare d’ufficio eventuali cause di nullità dei contratti, la cui validità ed opponibilità all’Amministrazione finanziaria abbia costituito oggetto dell’attività assertoria del ricorrente. 2. Il giudice tributario è compente ad accertare in via incidentale la natura di atto simulato del contratto di comodato in quanto nel processo tributario in forza dell’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992, che è espressione di un principio generale vigente anche prima che la disposizione venisse novellata, il giudice può sempre rilevare d’ufficio eventuali cause di nullità di atti, la cui validità ed opponibilità all’Amministrazione abbia costituito oggetto dell’attività assertoria del ricorrente. Cass., Sez. Un., 26 giugno 2009, n. 15029 CONTRATTO DI LOCAZIONE- LOCAZIONE DI COSE – RINNOVAZIONE TACITA – EQUO CANONE – PATTI CONTRARI ALLA LEGGE (legge 9 dicembre 1998, n. 431; legge 27 luglio 1978, n. 392; legge 9 dicembre 1998 n. 431) Nell’ipotesi di pendenza alla data di entrata in vigore della L. 9 dicembre 1998, n. 431, di un contratto di locazione ad uso abitativo con canone convenzionale ultralegale rispetto a quello c.d. equo previsto dagli artt. 12 ss. L. 27 luglio 1978, n. 392, qualora sia intervenuta la sua rinnovazione tacita ai sensi dell’art. 2, comma 6, della stessa legge n. 431 del 1998, il conduttore, nonostante l’abrogazione dell’art. 79, L. n. 392 del 1978 – verificatasi per effetto della cessazione della sua ultrattività fino F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e al momento della rinnovazione per il periodo in corso, cui allude l’art. 14, comma 5, L. n. 431 del 1998 -, può esercitare l’azione prevista dall’art. 79 suddetto, diretta a rivendicare l’applicazione, al contratto, del canone legale e la sua sostituzione imperativa, ai sensi dell’art. 1339 c.c., al pregresso canone convenzionale illegittimamente pattuito, fin dall’origine. Tale sostituzione, in ipotesi di accoglimento dell’azione, dispiega i suoi effetti anche con riferimento al periodo successivo alla rinnovazione tacita avvenuta nella vigenza della legge n. 431 del 1998. Cass., sez. III, 5 giugno 2009, n. 12996 FALLIMENTO – RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE – CAUSE DI PRELAZIONE – PRIVILEGI – EFFICACIA – IN GENERE – DEL PRIVILEGIO SPECIALE RISPETTO AL PEGNO ED ALLE IPOTECHE – CONTRATTO PRELIMINARE TRASCRITTO – MANCATA ESECUZIONE – PRIVILEGIO SPECIALE SUL BENE IMMOBILE IN FAVORE DEL CREDITO DEL PROMISSARIO ACQUIRENTE – PREVALENZA SULL’IPOTECA, AI SENSI DELL’Art. 2748, Comma 2, C. C. – ESCLUSIONE – FONDAMENTO – CONSEGUENZE IN CASO DI FALLIMENTO DEL PROMITTENTE VENDITORE E DI RISOLUZIONE DEL CONTRATTO AD OPERA DEL CURATORE FALLIMENTARE – CREDITO ASSISTITO DA IPOTECA ISCRITTA PRIMA DELLA TRASCRIZIONE DEL PRELIMINARE – PREVALENZA (artt. 2745, 2748 e 2775-bis; art. 72 legge fallimentare) Nell’ambito della formazione dello stato passivo e dell’ordine e grado del soddisfacimento dei creditori fallimentari, la formalità ipotecaria iscritta a garanzia del mutuo fondiario acceso dal costruttore prevale sulla trascrizione del contratto preliminare in favore del promissario acquirente e del relativo privilegio speciale accordato dalla legge, à mente dell’art. 2748 c.c.. Il privilegio speciale sul bene immobile, che assiste (ai sensi dell’art. 2775-bis c.c.) i crediti del promissario acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645bis c.c., siccome subordinato ad una particolare forma di pubblicità costitutiva (come previsto dall’ultima parte dell’art. 2745 c.c.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza del privilegio sull’ipoteca, sancita, se non diversamente disposto, dal secondo comma dell’art. 2748 c.c., e soggiace agli ordinari principi in tema di pubblicità degli atti. Ne consegue che, nel caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell’immobile scelga lo scioglimento del contratto preliminare (ai sensi dell’art. 72 della legge fall.), il conseguente credito del promissario acquirente – nella specie, avente ad oggetto la restituzione della caparra versata contestualmente alla stipula del contratto preliminare – benché assistito da privilegio speciale, deve essere collocato con grado inferiore, in sede di riparto, rispetto a quello dell’istituto di credito che, precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull’immobile stesso ipoteca a 2 0 0 9 35 garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice. Cass., Sez. Un., 1 ottobre 2009, n. 21045 FAMIGLIA – MATRIMONIO – RAPPORTI PATRIMONIALI TRA CONIUGI – FONDO PATRIMONIALE – COSTITUZIONE – IN GENERE – FORMA – OPPONIBILITÀ AI TERZI – ANNOTAZIONE A MARGINE DELL’ATTO DI MATRIMONIO – NECESSITÀ – TRASCRIZIONE DEL VINCOLO – FUNZIONE DI PUBBLICITÀ NOTIZIA – CONOSCENZA “ALIUNDE” DA PARTE DEI TERZI – IRRILEVANZA – FONDAMENTO (artt. 162, 167 e 2647 c.c.) La costituzione del fondo patrimoniale di cui all’art. 167 c.c. è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 c.c., circa le forme delle convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella del quarto comma, che ne condiziona l’opponibilità ai terzi all’annotazione del relativo contratto a margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 c.c.., resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito altrimenti della costituzione del fondo. (Nella specie, le Sez.Un.hanno confermato la sentenza di merito che – in presenza di un atto di costituzione del fondo patrimoniale trascritto nei pubblici registri immobiliari, ma annotato a margine dell’atto di matrimonio successivamente all’iscrizione di ipoteca sui beni del fondo medesimo – aveva ritenuto che l’esistenza del fondo non fosse opponibile al creditore ipotecario). Il fondo patrimoniale costituisce una convenzione fra i coniugi soggetta al regime di pubblicità dettato dall’art. 162 c.c.. Conseguentemente, ai fini della opponibilità ai terzi della segregazione dei beni, la convenzione deve essere annotata in margine dell’atto di matrimonio rappresentando la formalità della trascrizione una pubblicità-notizia. Cass, Sez. Un., 13 ottobre 2009, n. 21658 GIURISDIZIONE CIVILE – CONFLITTI – DI GIURISDIZIONE – CONFLITTO REALE – DENUNCIABILITÀ IN OGNI TEMPO – SUSSISTENZA – CONSEGUENZE – PROVVEDIMENTI ORIGINANTI IL CONFLITTO NEGATIVO – INDIVIDUAZIONE – DECISIONI ARGOMENTATE SULLA DECLINATORIA DI GIURISDIZIONE – NECESSITÀ – PROVVEDIMENTO DI CONFERMA INDIRETTA EMESSO DAL GIUDICE DI SECONDO GRADO – IRRILEVANZA (artt. 360, 362, 366 e 369 c.p.c.) Il conflitto reale, positivo o negativo, di giurisdizione è denunciabile in ogni tempo e, dunque, anche nel caso in cui una od entrambe le decisioni siano ancora impugnabili ovvero siano state già impugnate nel merito, necessitando che, unitamente al ricorso per cassazione che denunci il conflitto, sia depositata, a pena di improcedibilità (art. 369 cod. proc. civ.), copia auten- civile Gazzetta 36 D i r i t t o e p r o c e d u r a tica dei provvedimenti che lo hanno determinato, in quanto indispensabili a risolvere la questione di giurisdizione, con l’annullamento dell’una o dell’altra delle statuizioni in contrasto. Ne consegue che, nell’ipotesi di conflitto negativo, i provvedimenti che hanno determinato il conflitto stesso vanno individuati in quelli che hanno argomentato la declaratoria di difetto di giurisdizione, indipendentemente dalla relativa ed indiretta conferma derivante dalla decisione del giudice di secondo grado investito di questioni diverse da quella di giurisdizione. (Nella specie, le S.U. hanno individuato le sentenze originanti il conflitto negativo di giurisdizione in quelle del giudice ordinario e del giudice amministrativo che, in primo grado, avevano espressamente declinato la rispettiva giurisdizione, escludendo che, a tal riguardo, potesse rilevare la sopravvenuta sentenza di secondo grado del Consiglio di Stato, giacché questa non si era pronunciata sulla giurisdizione, ma soltanto sull’eccezione di giudicato formulata dall’appellante. Cass., Sez. Un., 5 ottobre 2009, n. 21196 MORTE O LESIONE DEL CONGIUNTO – LIQUIDAZIONE E VALUTAZIONE – COMPENSATIO LUCRI CUM DAMNO La vedova del lavoratore deceduto a seguito di sinistro stradale ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale parentale da lucro cessante anche qualora percepisca la rendita da parte dell’INAIL, non potendo trovare applicazione in tal caso il principio della compensatio lucri cum danno, in considerazione del diverso titolo giustificativo delle erogazioni in questione. Cass., sez. III, 15 ottobre 2009, n. 21897 USI CIVICI – IMPUGNAZIONI – RICORSO PER CASSAZIONE – DECISIONE EMESSA DALLA CORTE DI APPELLO – RICORSO PER CASSAZIONE – TERMINE – DECORRENZA – NOTIFICA DELLA SENTENZA AD ISTANZA DI PARTE – INIDONEITÀ – COMUNICAZIONE DEL DISPOSITIVO A CURA DELLA CANCELLERIA – NECESSITÀ – FONDAMENTO – ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE – ESCLUSIONE – COMUNICAZIONE EX Art. 133 C.P.C. ESEGUITA CON NOTIFICA TRAMITE UFFICIALE GIUDIZIA- c i v i l e Gazzetta F O R E N S E RIO – IDONEITÀ AI SENSI DELL’Art. 7 DELLA LEGGE N. 1078 DEL 1930 – SUSSISTENZA – FONDAMENTO (legge 10 luglio 1930 n. 1078; art. 133 c.p.c.) Ai sensi dell’art. 8 della legge 10 luglio 1930 n. 1078, il ricorso per cassazione avverso la sentenza della corte d’appello, emessa sul reclamo avverso le decisioni dei commissari regionali per la liquidazione degli usi civici, deve proporsi nel termine di quarantacinque giorni dalla notificazione della medesima, tale dovendosi considerare, a norma dell’art. 2 della citata legge, la notificazione a mezzo del servizio postale del dispositivo della sentenza a cura della cancelleria, mentre la notifica della stessa ad istanza delle parti non è idonea a modificare la sequenza cronologica voluta dalla legge; siffatta disciplina, non abrogata dal vigente codice di procedura civile, non è in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., perché la diversità trova giustificazione nelle peculiarità del procedimento in materia di usi civici ed è comunque consentita un’adeguata possibilità di difesa. In tema di ricorso per cassazione contro le sentenze delle sezioni specializzate per gli usi civici delle corti d’appello, ai fini del decorso del termine breve di quarantacinque giorni di cui agli artt. 7 e 8 della legge 10 luglio 1930, n. 1078, la comunicazione del dispositivo della sentenza ai sensi dell’art. 133 cod. proc. civ., ove eseguita mediante notifica a mezzo di ufficiale giudiziario, deve ritenersi idonea anche ai fini dell’art. 7 cit., in considerazione della identità di contenuto, senza che in senso contrario possa invocarsi che la comunicazione ex art. 133 cit. ha come destinatario il procuratore costituito, mentre quella ex art. 7 cit. avrebbe come destinataria la parte personalmente, in quanto in entrambe le disposizioni il destinatario della comunicazione (art. 133, secondo comma, cod. proc. civ.) o dell’invio del dispositivo (art. 7 legge n. 1078 del 1930) viene identificato nella parte, ed è principio generale che nel corso del procedimento le comunicazioni e le notificazioni si fanno non alla parte personalmente, ma al procuratore costituito. Cass., Sez. Un., 5 ottobre 2009, n. 21193 F O R E N S E ● Rassegna di merito ● A cura di Corrado d’Ambrosio Magistrato presso il Tribunale di Napoli Mario De Bellis Donato Palmieri Avvocati n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 37 Bilancio società in accomandita semplice – obbligo comunicazione ai soci – termine per l’impugnazione (artt. 2320 e 2361 c.c.) In riferimento al termine per l’impugnazione del bilancio della s.a.s. ed in merito alla decorrenza di esso, l’art. 2320, comma 3, c.c. in tema di soci accomandanti si limita a prevedere che “in ogni caso essi hanno diritto di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto dei profitti e delle perdite e di controllarne l’esattezza consultando libri ed altri documenti”. La previsione della comunicazione ai soci accomandanti del bilancio e non già del rendiconto, come nelle altre società personali (art. 2261 c.c.), si concilia con la natura della s.a.s. e con le funzioni degli accomandanti, esclusi dalla gestione della società fruendo della limitazione della responsabilità per le obbligazioni sociali. Il divieto di immistione degli accomandanti è stato dal legislatore contemperato con il potere di controllo ad essi spettante, che si materializza nel diritto indisponibile di avere comunicazione del bilancio e di controllarne l'esattezza, nonché di impugnare giudizialmente il bilancio stesso, provocando un sindacato di legittimità di esso. Nella distribuzione dei poteri spettanti agli accomandatari rispetto agli accomandanti, l’approvazione del bilancio è un atto che spetta, invece, istituzionalmente solo ai soci accomandatari e non agli accomandanti, traducendosi tale atto in un'ingerenza nella gestione non consentita ai soci accomandanti. App. Napoli, Sez. I, 17 settembre 2009, Pres. F. Del Porto; Cons. L. Orilia; Cons. Rel. R. Pezzullo. DICHIARAZIONE GIUDIZIALE DI PATERNITÀ E MATERNITÀ NATURALI – PROVE (art. 269 c.c.) In tema di dichiarazione giudiziale di paternità, l’art. 269, comma 4, c.c. – secondo il quale la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra questa ed il preteso padre all’epoca del concepimento non costituiscono prova della paternità naturale – non esclude che tali circostanze, nel concorso di altri elementi, anche presuntivi, possano essere utilizzati a sostegno del proprio convincimento dal giudice di merito. App. Napoli, Sez. Persona e Famiglia, 3 giugno 2009, Pres. V. Trione; Cons. A. Viciglione; Cons. Rel. A. Casoria ESECUZIONE – CONDOMINIO – NOTIFICA DECRETO INGIUNTIVO (artt. 654 e 479 c.p.c.) In tema di esecuzione nei confronti di un condomino fondata su decreto ingiuntivo notificato all’amministratore nella sua qualità di legale rappresentante, si deve ritenere che, eseguita la notifica del decreto monitorio nei confronti dell’amministratore del condominio, questa deve considerarsi effettuata in favore di tutti i condomini rappresentati (spettando all’ammini- civile Gazzetta 38 D i r i t t o e p r o c e d u r a stratore il compito di rendere edotti i singoli condomini). Pertanto trova applicazione anche in questo caso la norma di cui all’art. 654 cit. che, al fine di semplificare l’inizio del procedimento esecutivo, in deroga all’art. 479 c.p.c., esclude la necessità di una nuova notifica del titolo esecutivo al condomino esecutato. Trib. Napoli, Sez. V, 11 marzo 2009, Giud. L. Pica INABILITÀ DI ORDINE FISICO E PSICHICO – INDIGENZA – PRESTAZIONI DI CUI ALLA LEGGE N. 328/2000 (art. 2 Legge 8 novembre 2000 n. 328; art. 128 Decreto Legislativo 31 marzo 1998 n. 112) L’attuazione dei programmi e delle disposizioni contenute nella legge 8.11.2000 n. 328 – legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali – non solo è conforme al quadro normativo sovranazionale ma la sua mancata attuazione si pone in contrasto con i principi dell’Unione Europea in tema di lotta all’esclusione sociale ed alla povertà. Pertanto i cittadini che si trovino nelle condizioni di indigenza e di inabilità di ordine fisico e psichico, previste espressamente dall’art. 2 di tale legge hanno diritto ad usufruire delle prestazioni previste dal terzo comma di tale norma. Trib. Napoli, Sez. Lavoro e Previdenza, 22 aprile 2009, Giud. L. D'ancona INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA – CONFLITTO D’INTERESSE – RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE (art. 27 Reg. Consob in attuazione dell’art. 21 T.U.F.) La responsabilità in cui incorre l’intermediario finanziario che compia operazioni in conflitto di interessi quando dovrebbe astenersene configura un ipo- c i v i l e Gazzetta F O R E N S E tesi di responsabilità contrattuale, in quanto si tratta di una vera e propria responsabilità da non coretto adempimento degli obblighi legali facenti parte integrante del rapporto contrattuale di intermediazione finanziaria. Adeguata spia di tale situazione di conflitto di interesse si rinviene nella qualità, in capo allo stesso intermediario (o di società del gruppo), di emittente o di collocatore dei titoli negoziati. Trib. Napoli, Sez. III, 10 febbraio 2009, Pres. E. Baldini; Giud. M. Magliulo; Rel. R. Sabato OBBLIGAZIONI E CONTRATTI – RISOLUZIONE DEL CONTRATTO PER INADEMPIMENTO (art. 1453 ss. c.c.) La volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio, ma può essere implicitamente contenuta in altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto. App. Napoli, Sez. III, 16 luglio 2009, Pres. M. Piiantadosi; Cons. C. Gabriele; Cons. Rel. V. Migliucci USUCAPIONE – ONERE DELLA PROVA (artt. 1158 ss. c.c.; art. 2967 c.c.) Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene affermando di averlo usucapito, deve dare la prova, ex art. 2967 c.c., di tutti gli elementi costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi, non solo del corpus ma anche dell’animus. App. Napoli, Sez. I, 2 ottobre 2009, Pres. e Rel. F. S. Azzariti Fumaroli; Cons. E. Vitale; Cons. L. Orilia F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e In evidenza LA QUALIFICA DI DIRIGENTE – IL LICENZIAMENTO – IL CONTRATTO DI LAVORO A PROGETTO – REQUISITI (art. 69 del D.Lgs. n. 276/03) Il tratto caratterizzante della figura del dirigente è rappresentato dall’esercizio di un potere ampiamente discrezionale che incide sull’andamento dell’intera azienda o che attiene a un autonomo settore produttivo della stessa, non essendo per converso necessaria la preposizione dell’intera azienda. L’espressione “giustificatezza”, utilizzata dall’art. 19 del CCNL per i Dirigenti di Aziende Industriali con riferimento alla motivazione del licenziamento, non corrisponde al concetto legale di giustificato motivo, posto che, comunque, rispetto al dirigente resta un’area di libera recedibilità del datore di lavoro, va intesa nel senso che il licenziamento del dirigente è ingiustificato ogni volta che il datore di lavoro esercita il proprio diritto di recesso violando il principio fondamentale di buona fede che presiede all’esecuzione dei contratti ex art. 1375 c.c. A norma dell’art. 69 del D.Lgs. n. 276/03 il rapporto tra le parti deve essere considerato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quando il programma o progetto, invece di essere individuato come realizzazione di un preciso e circostanziato piano di lavoro o risultato, consista semplicemente nella messa a disposizione dell’attività lavorativa del collaboratore ed è quindi da ritenersi assolutamente generico. Il progetto non può semplicemente coincidere con il concreto espletamento dell’attività aziendale genericamente intesa ma deve caratterizzarsi e connotarsi puntualmente rispetto ad essa, seppure evidentemente coordinandosi ed armonizzandosi con l’attività aziendale complessivamente intesa, e, in ogni caso, deve essere necessariamente predeterminato ed elaborato per iscritto in modo e in termini sufficienti ad individuare il risultato che il prestatore deve dare e che il committente si attende. Trib. Napoli, Sez. Lavoro, Giud. F. Scelza, 20 ottobre 2009 […Omissis…] Svolgimento del processo Con ricorso depositato in data 8‑5‑05 il ricorrente in epigrafe esponeva: • che, a seguito di qualificate esperienze lavorative nel corso delle quali era stato impegnato con compiti direttivi e responsabilità tecniche, veniva contattato dalla ****S.P.A., società dedita ad attività di ricerca scientifica e di raccolta di informazioni ambientali, territoriali e sanitarie, alla quale occorreva un responsabile dell’Organizzazione Generale, Tecnica e del Personale; • di aver sottoscritto in data 17‑3‑03 un contratto di 2 0 0 9 39 lavoro occasionale per una durata di tre mesi, con un compenso di euro 2.582,50 mensili; • di essere stato inserito, con una propria stanza, nella struttura direttiva, sita in Napoli al Centro Direzionale, con pieno potere decisionale, dovendo rispondere del suo operato al solo Amministratore Delegato, impartendo direttive a tutti i dipendenti, parteci****do al Consigli di Amministrazione, curando i rapporti con i sindacati; • che la sua presenza in azienda era quotidiana, per non meno di nove ore al giorno, per cinque giorni alla settimana; • di aver sottoscritto, senza mai interrompere la prestazione lavorativa, un nuovo contratto con la ****. S.P.A. dal 1‑7‑03 al 31‑12‑03, con un compenso maggiorato ad euro 4.000,00; • che in data 8‑1‑04, senza mai aver sospeso la prestazione lavorativa, veniva invitato a firmare un contratto di lavoro “a progetto” per l’anno 2004, senza che fosse previsto alcun progetto, con compenso di euro 5.000,00 mensili, poi corretto ad euro 6.200,00 mensili; • di aver fruito di 15 giorni di ferie l’anno, nel corso del mese di agosto; • che l’Amministratore Delegato riduceva i suoi compensi del 50% a decorrere dal luglio 2004, ed in data 31‑12‑04 lo invitava oralmente a non recarsi più in azienda. Tanto premesso, il ricorrente chiedeva al Giudice adito di accertare e dichiarare che dal 1‑4‑03 al 31‑12‑04 l’attività svolta per la società resistente ha avuto natura subordinata ed è stata propria della qualifica dirigenziale, ed inoltre di accertare e dichiarare l’inesistenza, o l’invalidità, o comunque l’inefficacia del recesso dal rapporto di lavoro del 31‑12‑04; per l’effetto, condannare la **** S.P.A. al pagamento, come da prospetto contabile sub IIIa del ricorso, di euro 106.649,50 per differenze paga, mensilità aggiuntive e indennità sostitutiva ferie, oltre accessori come per legge, ed alla somma di euro 70.000,00 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, euro 253.750,00 a titolo di indennità supplementare, euro 18.795,00 a titolo di T.F.R., o in alternativa dichiarare il rapporto di lavoro ancora in corso, con diritto a vedersi riconoscere tutte le retribuzioni successive al dicembre 2004. In subordine chiedeva riconoscersi in suo favore il trattamento economico e normativo derivante dal contratto collettivo per i dirigenti di aziende industriali, e riconoscere l’illegittimità della decurtazione di stipendio effettuata dal luglio 2004 dalla **** S.P.A., e conseguentemente condannare la Società resistente al pagamento in suo favore, come da prospetto contabile sub IIIb, di euro 35.453,96, oltre accessori, per differenze paga, mensilità aggiuntive e indennità sostitutiva ferie, ed inoltre al pagamento di euro 53.733,00 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, euro 194.783,00 a titolo di indennità civile Gazzetta 40 D i r i t t o e p r o c e d u r a supplementare ed euro 12.498,23 a titolo di T.F.R., oltre accessori, o in alternativa dichiarare il rapporto di lavoro ancora in corso, con diritto a vedersi riconoscere tutte le retribuzioni successive al dicembre 2004. In ulteriore subordine chiedeva riconoscersi in suo favore il trattamento economico e normativo previsto dal contratto collettivo per i dirigenti di aziende commerciali, e conseguentemente condannare la società resistente al pagamento, come da prospetto contabile sub IIIc, della somma di euro 42.103,68, oltre accessori, per differenze paga, mensilità aggiuntive e indennità sostitutiva ferie, ed inoltre al pagamento di euro 43.400,00 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, euro 173.600,00 a titolo di indennità supplementare, euro 12.388,05 a titolo di T.F.R., oltre accessori, o in alternativa dichiarare il rapporto di lavoro ancora in corso, con diritto a vedersi riconoscere tutte le retribuzioni successive al dicembre 2004. In subordine a tutto quanto prima, chiedeva dichiararsi l’illegittimità e/o nullità della decurtazione di stipendio effettata dal luglio 2004 dalla **** S.P.A., e per l’effetto condannare la Società al pagamento in suo favore della somma di euro 18.600,00 oltre accessori. Con memoria difensiva depositata il 30‑1‑06 si costituiva la società resistente in epigrafe, eccependo in via preliminare la nullità del ricorso, per non essere state compiutamente descritte le mansioni svolte dal ricorrente, e per la genericità dei conteggi allegati. Quanto al merito, chiedeva il rigetto delle avverse domande perché infondate, ribadendo la carenza dei requisiti della subordinazione, e proponeva domanda riconvenzionale chiedendo la condanna del ricorrente al risarcimento dei danni da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., da determinarsi equitativamente. In corso di causa, fallito il tentativo di conciliazione, il Giudice interrogava liberamente le parti, e procedeva all’escussione dei testi ****, ****, ****, ****. All’udienza del 20‑10‑09 il Giudice decideva la causa dando pubblica lettura del dispositivo. Motivi della decisione Preliminarmente va respinta l’eccezione di nullità del ricorso sollevata da parte resistente, in quanto il ricorso contiene tutti gli elementi di fatto e di diritto necessari per identificare sia il petitum che la causa petendi; anche i conteggi appaiono redatti analiticamente e con precisa indicazione degli elementi posti alla base dei calcoli. Quanto al merito, la domanda proposta in ricorso appare fondata e meritevole di accoglimento. Il ricorrente ha prestato la propria attività lavorativa per la **** S.P.A. in virtù di due successivi contratti “di consulenza”, il primo dal 1‑4‑03 al 30‑6‑03 ed il secondo dal 1‑7‑03 al 31‑12‑03, nei quali è specificato che “tale incarico avrà natura di lavoro autonomo occasionale”, e di un contratto di lavoro a progetto relativo a tutto l’anno 2004. È incontestato che fra i tre contratti non vi è stata alcuna soluzione di continuità. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E La difesa del **** sostiene che la prestazione lavorativa del ricorrente non ha avuto carattere occasionale, per quel che concerne i primi due contratti, ma continuativo, ed ha interessato aspetti decisionali inerenti settori strategici della Società, quali l’organizzazione del personale, i rapporti con i sindacati, la presentazione alla P.A. di progetti inerenti l’attività di tutela ambientale propria della Società resistente. Per quel che concerne il terzo contratto, sostiene la mancanza assoluta dell’indicazione del progetto da realizzare. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, il tratto caratterizzante della figura del dirigente è rappresentato dall’esercizio di un potere ampiamente discrezionale che incide sull’andamento dell’intera azienda o che attiene a un autonomo settore produttivo della stessa, non essendo per converso necessaria la preposizione dell’intera azienda. (Cass. 11/7/2007 n. 15489). La qualifica di dirigente spetta al prestatore di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, è preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale, ovvero a una branca o a un settore autonomo di essa, ed è investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono, sia pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo e un orientamento al governo complessivo all’azienda. (Cass. 22/12/2006 n. 27464). Le risultanze della prova testimoniale espletata in corso di causa consentono di affermare che il ricorrente, nel periodo dal 1‑4‑03 al 31‑12‑04, è stato stabilmente e continuativamente inserito nell’organizzazione della società resistente, ed ha svolto mansioni dirigenziali, nel senso precisato dalla riferita giurisprudenza di legittimità, nonostante il nomen iuris di cui ai contratti sopra indicati. Tutti i testi escussi hanno dichiarato che per tutto il predetto periodo al **** è stata assegnata una stanza, dotata di mobilio, personal computer e telefono. Particolarmente rilevanti appaiono le deposizioni dei testi **** e ****, il primo consulente della ****. fin dalla sua costituzione (con contratto ancora in corso all’epoca della deposizione testimoniale), ed il secondo dipendente della Società resistente con funzioni di Rappresentante Sindacale Aziendale e Segretario Nazionale del sindacato “Lavoratori in lotta per il sindacato di classe”. Entrambi i testi hanno affermato che la presenza in azienda del ricorrente era continua, confermando gli orari indicati in ricorso. Quanto all’attività svolta dal ****, i predetti testi hanno affermato che elaborava progetti in materia ambientale e li sottoponeva all’approvazione della Provincia, presentandoli, e sollecitandone la liquidazione. Si occupava inoltre della gestione del personale, organizzando i turni feriali, e delle relazioni sindacali, parteci****do alle riunioni, ed è stato promotore, insieme agli stessi sindacati, del passaggio dell’azien- F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e da dal CCNL Commercio al CCNL Federambiente. Partecipava, inoltre ai Consigli di Amministrazione. Il teste ****, in particolare, ha precisato che: “L’Amministratore Delegato della **** ci diceva che per i rapporti sindacali era incaricato il ricorrente; egli è stato quindi l’interlocutore principale per la **** dei sindacati finché è rimasto in azienda. Il Dott. **** partecipava sempre alle riunioni sindacali rappresentando l’azienda. … Quando i lavoratori interessavano noi sindacalisti di un problema lavorativo, ne discutevamo con il ****”. Tali circostanze, peraltro, trovano conferma nei verbali di riunioni sindacali prodotti da parte ricorrente, nei quali il ricorrente risulta sempre presente. Deve rilevarsi che i predetti testi hanno riferito circostanze di fatto apprese direttamente, in virtù dei ruoli che all’epoca dei fatti di causa avevano presso la Società resistente. Non così gli altri due testi, dei quali uno, ****, dipendente prima addetto al protocollo e poi, dal luglio 2004, autista del presidente della Società, evidentemente non ha mai potuto conoscere direttamente le vicende relative al ricorrente, se non per sentito dire. L’altro, ****, dipendente della **** dal 12‑1‑2004, all’epoca dei fatti di causa addetto alla segreteria, si è limitato ad affermare che il ricorrente era un consulente della Società resistente, senza essere in grado di descriverne le effettive mansioni. Le descritte risultanze istruttorie confermano quindi che il ricorrente è stato, fin dal 1‑4‑03, data della stipula del primo contratto, stabilmente inserito nell’organizzazione aziendale della **** S.P.A., nell’ambito della quale ricopriva un ruolo rilevante, essendo dotato di autonomia e potere decisionale, e rispondendo del suo operato soltanto all’Amministratore della Società. Peraltro, è circostanza incontestata che il ricorrente abbia sempre ricevuto un emolumento fisso mensile, e che non vi fossero in azienda altri dipendenti con mansioni dirigenziali che si occupassero di gestione del personale, rapporti con i sindacati, e di tutte le altre attività sopra descritte cui era preposto il ****. Infatti la stessa difesa della Società resistente nella memoria difensiva con cui si è costituita in giudizio ha precisato di non aver mai avuto alle sue dipendenze alcun dipendente con mansioni di dirigente. Quindi tra le parti si è instaurato fin dall’inizio un rapporto di lavoro subordinato, non avendo l’attività svolta dal **** alcun carattere di occasionalità, contrariamente a quanto scritto nei contratti del 17‑3‑03 e del 30‑6‑03. L’attività è continuata, senza interruzione e con le medesime caratteristiche, fino al 31‑12‑04. In aggiunta alle considerazioni già esposte, deve inoltre rilevarsi come il contratto di lavoro a progetto stipulato tra le parti, relativo all’anno 2004, sia privo del requisito di cui alla lettera b) dell’art. 62 Dlgs. 276/03, ovvero della compiuta “indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuata nel suo contenuto caratterizzante”. 2 0 0 9 41 Al riguardo il contratto prevede, all’art. 1: “La società stipulante conferisce al Dr. Antonio ****, che accetta, l’incarico di organizzare e supportare la segreteria dell’Amministratore Delegato della ****, in modo da ottimizzare il servizio e le attività espletate”. Appare quindi conferito al ricorrente un mero incarico di “organizzazione di segreteria”, in forma generica, senza l’indicazione di un vero e proprio progetto, che presuppone l’indicazione di un preciso risultato da raggiungere, eventualmente con una scansione dei tempi e modi di realizzazione. Questo comporta le conseguenze di cui all’art. 69 del Dlgs. 276/03, che così dispone: “1. I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto. 2. Qualora venga accertato dal giudice che il rapporto instaurato ai sensi dell’articolo 61 sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti. 3. Ai fini del giudizio di cui al comma 2, il controllo giudiziale e’ limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento della esistenza del progetto, programma di lavoro o fase di esso e non può essere esteso fino al punto di sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”. Sul punto, si veda Trib. Milano 28/8/2008: “Nei contratti di lavoro a progetto, qualora il programma o progetto, invece di essere individuato come realizzazione di un preciso e circostanziato piano di lavoro o risultato, consista semplicemente nella messa a disposizione dell’attività lavorativa del collaboratore lo stesso è da ritenersi assolutamente generico. In tal caso si realizza l’ipotesi di cui all’art. 69 del D.Lgs. n. 276/03, con la conseguenza che il rapporto tra le parti deve essere considerato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”. Ancora Trib. Milano 16/7/2008: “Il progetto, oltre a dover essere necessariamente predeterminato ed elaborato per iscritto in modo e in termini sufficienti ad individuare il risultato che il prestatore deve dare e che il committente si attende, non può evidentemente coincidere con il concreto espletamento dell’attività aziendale genericamente intesa ma deve caratterizzarsi e connotarsi puntualmente rispetto ad essa, seppure evidentemente coordinandosi ed armonizzandosi con l’attività aziendale complessivamente intesa”. Si è già detto, comunque, che dalle risultanze della prova testimoniale espletata l’attività svolta dal ricorrente è apparsa del tutto diversa rispetto a quella indicata nel “contratto a progetto” relativo al 2004. Ritenuta quindi la sussistenza tra le parti di un rap- civile Gazzetta 42 D i r i t t o e p r o c e d u r a porto di lavoro subordinato, deve affermarsi che il ricorrente ha diritto a vedersi riconoscere, quale compenso della sua attività, il trattamento economico previsto dal contratto collettivo per i Dirigenti di Aziende Industriali, applicabile al caso di specie per la natura dell’attività svolta dalla Società resistente. Prendendosi dunque a riferimento gli importi di cui prospetto contabile sub IIIb di cui al ricorso, deve quindi condannarsi parte resistente al pagamento in favore del ricorrente della somma di euro 35.453,96, oltre accessori, per differenze paga, mensilità aggiuntive e indennità sostitutiva ferie. Il ricorrente, inoltre, lamenta anche di aver subito un illegittimo licenziamento. Sul punto parte resistente si è limitata a dedurre che il rapporto di lavoro è cessato allo spirare del termine, in quanto il contratto a progetto stipulato tra le parti prevedeva uno svolgimento relativo a tutto l’anno 2004. Si è già esposto che nel caso di specie il contratto è da ritenersi nullo per mancanza del progetto, e dunque, essendosi instaurato tra le parti un rapporto di lavoro subordinato, il recesso da tale rapporto così come esercitato dalla **** S.P.A. appare non sorretto da adeguata giustificazione, con diritto del **** a ricevere l’indennità supplementare prevista e disciplinata dall’art. 19 del CCNL per i Dirigenti di Aziende Industriali, ritualmente prodotto in atti. Difatti la valutazione della giustificatezza del licenziamento del dirigente deve essere operata sulla base di criteri non integralmente coincidenti con quelli di cui alla L. n. 604/196: l’espressione “giustificatezza” utilizzata nella disposizione contrattuale non corrisponde al concetto legale di giustificato motivo, posto che, comunque, rispetto al dirigente resta un’area di libera recedibilità del datore di lavoro. Ciò significa che il licenziamento del dirigente è ingiustificato ogni volta che il datore di lavoro, come nel caso oggetto del presente giudizio, eserciti il proprio diritto di recesso violando il principio fondamentale di buona fede che presiede all’esecuzione dei contratti ex art. 1375 c.c. (Trib. Milano 22/11/2007) Condividendosi le risultanze del conteggio sub IIIb di cui al ricorso, spettano quindi al ricorrente anche le seguenti somme: euro 53.733,00 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, euro 194.783 a titolo di indennità supplementare, ed euro 12.498,23 a titolo di T.F.R., oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali ex art. 429, III comma, c.p.c. ed art. 150 disp. att. c.p.c. dalla maturazione dei crediti al saldo. Riconosciuta la fondatezza della domanda attorea, deve rigettarsi la domanda di risarcimento dei danni da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., proposta in via riconvenzionale da parte resistente. Le spese processuali seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo. […Omissis…] c i v i l e Gazzetta F O R E N S E Nota a cura di Mario De Bellis Avvocato La pronuncia in oggetto merita una particolare attenzione in quanto analizza i tratti caratterizzanti la figura del dirigente, approfondisce la tematica delle motivazioni del licenziamento di tale categoria di lavoratori ed affronta la problematica della riqualificazione dei contratti di lavoro a progetto. In particolare, in ossequio all’orientamento giurisprudenziale prevalente,ribadisce che il tratto caratterizzante la figura del dirigente è rappresentato dall'esercizio di un potere ampiamente discrezionale che incide sull'andamento dell'intera azienda o che attiene a un autonomo settore produttivo della stessa, non essendo, per converso, necessaria la preposizione dell'intera azienda. Affronta nello specifico la portata dell'espressione "giustificatezza" utilizzata dall’art. 19 del CCNL per i Dirigenti di Aziende Industriali con riferimento alla motivazione del licenziamento, espressione che non corrisponde al concetto legale di giustificato motivo, posto che, comunque, rispetto al dirigente resta un'area di libera recedibilità del datore di lavoro. Tale termine va inteso nel senso che il licenziamento del dirigente è ingiustificato ogni volta che il datore di lavoro esercita il proprio diritto di recesso violando il principio fondamentale di buona fede che presiede all'esecuzione dei contratti ex art. 1375 c.c. La problematica di maggiore interesse della presente pronuncia si rinviene poi nell’analisi della recente categoria dei contratti di lavoro a progetto. Uniformandosi a recenti precedenti della giurisprudenza del Tribunale di Milano, il Giudice del Lavoro di Napoli, con la presente pronuncia, afferma che a norma dell'art. 69 del D.Lgs. n. 276/03 il rapporto tra le parti deve essere considerato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quando il programma o progetto, invece di essere individuato come realizzazione di un preciso e circostanziato piano di lavoro o risultato, consista semplicemente nella messa a disposizione dell'attività lavorativa del collaboratore ed è quindi da ritenersi assolutamente generico. Il progetto non può semplicemente coincidere con il concreto espletamento dell'attività aziendale genericamente intesa ma deve caratterizzarsi e connotarsi puntualmente rispetto ad essa, seppure evidentemente coordinandosi ed armonizzandosi con l'attività aziendale complessivamente intesa, e, in ogni caso, deve essere necessariamente predeterminato ed elaborato per iscritto in modo e in termini sufficienti ad individuare il risultato che il prestatore deve dare e che il committente si attende. Tale sentenza ha quindi il pregio di fornire una linea guida per l’interpretazione del concetto di progetto, affrontando di fatto la riqualificazione dei rapporti di lavoro nascenti da tale tipo di contratto quali rapporti di lavoro subordinato. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e OBBLIGAZIONI E CONTRATTI – COLLEGAMENTO NEGOZIALE – VOLONTÀ DELLE PARTI – PROVA Sussiste collegamento negoziale quando la volontà delle parti di rendere i contratti interdipendenti emerge in maniera espressa o può desumersi dalla sussistenza di un comune regolamento di interessi. Trib. Napoli, Sez. IX, 10 luglio 2009, ord., Giud. B. Calaselice […Omissis…] Letti gli atti, sciolta la riserva di cui al verbale dell’udienza del ***. Rilevato che nel costituirsi, la società intimata si è opposta alla convalida dell’intimato sfratto per morosità sollevando diverse eccezioni (segnatamente la nullità e/o inesistenza della procura alle liti rilasciata alla società intimante, l’inammissibilità della intimazione di sfratto, l’esistenza di una clausola arbitrale, e l’inammissibilità della richiesta di ingiunzione dei canoni scaduti) onde quest’ultimo non può essere convalidato. Ritenuto che, alla luce dell’orientamento costante della Suprema Corte, il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisce in giudizio in rappresentanza di un ente, può essere sanato in qualunque stato e grado del giudizio stesso, con efficacia retroattiva, e tale sanatoria può avere ad oggetto tutti gli atti processuali già compiuti per effetto della costituzione in giudizio in rappresentanza dell’ente, manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator. Rilevato che tanto la ratifica, quanto la conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da un soggetto non abilitato a rappresentare in giudizio la società, trattandosi di un atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi, formali o sostanziali, attinenti a violazione degli articoli 83 e 125 c.p.c. (Cass. 15.9.2008, n. 23670; Cass. ordinanza n. 18132 del 28.8.2007; Cass. 19.6.2007, n. 14260). Ritenuto che, quanto all’eccezione di clausola compromissoria, fra le controversie non deferibili ad arbitri rientrano tutte quelle per le quali è prevista la competenza funzionale ed inderogabile del giudice ordinario, come, in particolare, i procedimenti speciali di convalida di licenza o di sfratto per finita locazione e di sfratto per morosità, previsti dagli artt. 657 e 658 cod. proc civ. che appartengono alla competenza funzionale del giudice ordinario, limitatamente peraltro alla prima fase a cognizione sommaria, non sussistendo invece alcuna preclusione a che nella fase successiva a cognizione piena la causa sia decisa nel merito da arbitri; Ritenuto, dunque, che la deduzione, nella fase sommaria, dell’esistenza di una clausola arbitrale, non priva questo giudice della competenza ad emettere i provvedimenti immediati che appartengono alla prima fase del 2 0 0 9 43 procedimento di sfratto per morosità, ma lo obbliga, una volta chiusa la fase anzidetta, e qualora l’eccezione dovesse rilevarsi fondata, a declinare con sentenza la propria competenza, dichiarando sussistente per il merito quella arbitrale, incombendo poi alle parti di attivarsi per l’effettivo svolgimento del relativo giudizio. Rilevato, altresì, che in ordine alla sussistenza della dedotta morosità la società intimata ha depositato copia di due assegni dell’importo rispettivamente di euro 200.000,00 e di euro 100.000,00, nonchè copia della ricevuta rilasciata alla sig.ra *** in data 26/5/2009. Rilevato che l’eccezione relativa al mancato incasso dell’assegno di euro 200.000,00 formulata all’udienza di convalida dal procuratore della società intimante, stante la mancata copertura dello stesso, appare alla stato – ed impregiudicata ogni ulteriore valutazione nel prosieguo – priva di riscontri; Rilevato che in merito alla dedotta morosità, la stessa non è più persistente nella misura intimata e considerato che con un unico atto di intimazione la società intimante richiede la convalida della sfratto e l’emissione dell’ordinanza di rilascio per tutti e tre gli immobili locati deducendo che trattasi di complesso immobiliare unico. Ritenuto che non emerge allo stato la predetta unicità né il dedotto collegamento funzionale tra gli immobili e negoziale tra i contratti, in quanto non emerge dalla lettura dei contratti di locazione la volontà delle parti volta a concordare che gli stessi siano dipendenti l’uno dall’altro, né emerge un regolamento di interessi comune, anche in considerazione della circostanza che i contratti sono distinti e separati, sono stati stipulati in epoche diverse (peraltro a distanza anche di un numero piuttosto elevato di anni), prevedono ciascuno un canone di locazione diverso relativo al singolo immobile ed inoltre in nessun contratto si dà conto che la locazione è stipulata per soddisfare esigenze connesse a quelle relative alla locazione degli altri immobili. Rilevato che la mancanza della predetta unicità, non avendo il ricorrente fornito elementi di prova sufficienti ad asseverare l’assunto sostenuto, impedisce l’emissione del’ordinanza di rilascio, atteso che non può ritenersi sussistente la mora, allo stato, per tutti e tre gli immobili. Rilevato che non questo giudice imputare il pagamento effettuato all’una piuttosto che all’altra morosità, neppure alla luce di criteri dettati dall’art. 1194 c.c. appalesandosi la necessità di approfondire nel merito la volontà di una imputazione diversa (che peraltro può essere desunta anche da facta concludentia e da elementi presuntivi – rispettivamente si vedano Cass. sent. 1347/78 nonchè Cass. sent. 489/75‑); Considerato, conclusivamente, che l’opposizione proposta merita di essere approfondita nel merito, onde sussistono i giusti motivi di cui all’articolo 665, comma uno, c.p.c., per denegare la chiesta ordinanza provviso- civile Gazzetta 44 D i r i t t o e p r o c e d u r a ria di rilascio e che è necessario disporre il passaggio dalla fase sommaria del procedimento a quella a cognizione piena ed esauriente; Letti ed applicati gli artt. 665, 667, 426 c.p.c. […Omissis…] Nota a cura di Ermanno Restucci Avvocato Sul presupposto che il conduttore era moroso nel pagamento di canoni di locazione, parte locatrice chiedeva convalidarsi lo sfratto per morosità e l’emissione dell’ordinanza di rilascio di tre diversi immobili oggetto di altrettanti contratti di locazione. La conduttrice si opponeva eccependo, tra l’altro, che la morosità non era più persistente nella misura intimata essendo intervenuti dei pagamenti. La richiesta di ordinanza provvisoria di rilascio veniva respinta perché, a causa dei pagamenti effettuati dalla conduttrice, non poteva più ritenersi sussistente la mora per tutti gli immobili oggetto della richiesta e non vi era prova agli atti della sussistenza di un collegamento negoziale tra i contratti, conseguenza di un collegamento funzionale tra gli immobili. La decisione è stata correttamente basata sulla pacifica nozione di collegamento negoziale volontario, quale vincolo tra più contratti, costituito dalle parti nell’esercizio dell’autonomia loro riconosciuta, che, nel rispetto della causa e dell’individualità di ciascuno, indirizza gli stessi al perseguimento di una funzione unitaria che trascende quella dei singoli contratti e investe la fattispecie negoziale nel suo complesso1. Il collegamento tra i contratti, che determina un nesso di interdipendenza tra di essi, si verifica quindi quando è unico è l’interesse perseguito dalle parti 2 attraverso una più ampia operazione. Il Tribunale, con la decisione in commento, si conforma all’opinione prevalente secondo cui il collegamento negoziale va accertato tenendo conto non solo della volontà espressa delle parti3 ma della volontà come obbiettivata nel regolamento di tutti i contraenti4. 1 Cass., Sez. Un., 25 novembre 2008, n. 28053, Guida al dir., 2009, 2, 68. 2 Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 004, 800. 3 Che potrebbero anche non essere le stesse in tutti i contratti: Cass. 97/827; contra Cass. 97/11932. 4 Minoritaria è rimasta l’opinione di chi ritiene che il collegamento tra i contratti concreti sempre, in realtà, un unico contratto: Sacco‑De Nova, Trattato di Diritto Civile, diretto da Sacco, Torino, 1993, p. 461. c i v i l e Gazzetta F O R E N S E diritto e procedura Penale Inerzia e Proclami 47 Giuseppe Riccio Ordinario di procedura penale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” La compatibilità costituzionale del terzo scudo fiscale 50 italiano tra profili operativi e prassi premiale Felice Carbone Avvocato Domenico Bellobuono Commercialista Rassegna di legittimità 63 A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Andrea Alberico Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università degli studi di Napoli “Federico II” A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Giuseppina Marotta Avvocato 68 penale Rassegna di merito F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e ● Inerzia e Proclami ● Giuseppe Riccio Ordinario di procedura penale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” 2 0 0 9 47 1.– La Procedura penale vive da 60 anni stagioni controverse, storicamente condizionate da contrapposte esigenze storico-politico-sociali che ne determinano l’assetto. L’epoca postcostituzionale fu legittimamente caratterizzata da spinte riformiste ed urgenze novellistiche, cioè, da strategie rigeneratrici di un sistema che non poteva ricondursi al finalmente acquisito Statuto democratico. L’epoca odierna è viceversa connotata da conflitti di tutt’altro genere; tutti, però, ruotano intorno al tema-giustizia con specifica attenzione al processo penale, il cui sistema normativo è giunto a connotati di irriconoscibilità. Le cause di tale crisi – si vedrà – sono di diversa natura. Ma va subito notato che l’intreccio tra risalenti problemi sovrastrutturali, di organizzazioni istituzionali, di scarsa (troppo scarsa) attribuzione di risorse di vario genere e temi ordinamentali induce un senso di sconforto e un atteggiamento pessimistico sul “cosa avverrà”. Anche perché, mentre si è d’accordo che la crisi interna al sistema è determinata – non solo – da un continuo profluvio di innesti modificativi estranei alla filosofia codicistica di fine millennio, non si è poi concordi sul metodo e sui contenuti per la soluzione del triste e insopportabile stato di cose, metodo e contenuti su cui si discute ormai da 20 anni, pari pari quelli oggi raggiunti dal Codice. Si discute, ma non si opera. Perciò sembra che questa sia l’epoca di una nuova neutralità, nonostante la diffusa consapevolezza che la Procedura penale abbia perduto dizionario e sintassi. Si assiste inerti al perverso intersecarsi di discordia e immobilismo pressochè permanente comportamento rinunciatario della politica, che annulla i quotidiani proclami di tutte le parti. Per non dire che quel poco che si fà dovrebbe essere evitato, se non altro perché diventa ulteriore causa di crisi del sistema. In questo clima la magistratura legittima, con scansioni ravvicinate, un invasivo diritto giurisprudenziale per far fronte ai bisogni indotti dall’abulia del legislatore in materia di riconoscimento di diritti e/o di attrazione di decisioni assunte in istituzioni europee. Le affermazioni non sono contestabili: sono giornaliere e di tono elevatissimo le denunzie della crisi, escluso ormai alcun fronte ed è elevata la quantità di disegni di legge presentati in Parlamento, già a partire dagli inizi degli anni ’90, con risultati pressochè fallimentari sul piano della effettività ed efficacia della giurisdizione; le une e gli altri confermano il giudizio sulla convinzione secondo cui la crisi è al capolinea. A fronte di tale situazione nelle due precedenti legislature con diversa metodologia e differenti strategie i rispettivi governi (Ministri Castelli e Mastella) hanno messo in campo iniziative modificatrici dell’intero Codice di procedura penale, sostenute da Commissioni tecniche (rispettivamente, Dalia e Riccio), avendo rag- penale Gazzetta 48 D i r i t t o e p r o c e d u r a giunto la certezza che sul terreno normativo nessun rattoppo può frenare il disfacimento ordinamentale. Non così nell’attuale legislatura: il nuovo Governo è sicuro che il “ritocco” di taluni settori salverà il Paese dalla crisi di democrazia, indotta dalla crisi della giurisdizione. La sequenza degli eventi produce sull’addetto ai lavori (come si usa dire) due inziali impatti – la dissonanza all’interno della stessa area politica di strategie differenti; la incapacità (o la nolontà) di continuare l’opera intrapresa nella precedentelegislatura; – e pone la domanda del perché il bisogno di riforma del Codice politicamente avvertito come indiffereribile è affidato ad interventi novellistici, pur in presenza di un incontestabile aggravemento della crisi causato proprio dall’ulteriore frantumazione del sistema ad opera, appunto, di modifiche settoriali. La risposta – non semplice, né univoca –, se non può essere quella della mancanza di volontà di risolvere la crisi, non può che attestarsi su errori di analisi, peraltro, palesi nelle relazioni che accompagnano i diversi disegni di legge parlamentari e/o governativi. Contemporaneamente si rileva che energie e risorse utilmente spese nelle precedenti legislature (sulla “Bozza-Riccio” – che tenne conto del precedente “ProgettoDalia” – si sono pronunziate le Istituzioni giudiziarie del Paese) sono accantonate sul falso presupposto che quanto fatto ieri non può valere oggi per la diversa area politica di Governo: vecchia abitudine ed insano alibi, coltivati sin dall’inizio degli anni ’60, che manifesta la caratura di chi è aduso a sottoporre le risorse tecniche ai bisogni di parte, per cui giudica di parte l’opera di chi ha preso a misura del proprio agire i bisogni della collettività. 2. – Di quell’intreccio di cause, strutturali e non, va detto che col tempo sono mutate le priorità; nel senso che oggi appaiono indifferibili le riforme sovrastrutturali tanto quanto quelle strutturali, essendo, le prime, irrinunziabile sostegno alla rifondazione del sistema processuale; e ciò non solo perchè – come disse negli anni ’80 l’allora Ministro Vassalli–, nessuno è così ingenuo da ritenere che la riforma del Codice possa risolvere, da solo, i problemi della Giustizia. Oggi sono coessenziali alla riforma del Codice, per lo meno, la revisione dei territori dei circondari, la rivisitazione delle funzioni del giudice di pace, la individuazione di un organismo cui affidare la attuazione dei criteri di priorità, la predisposizione dell’ufficio del processo ed altro, revisioni ordinamentali e organizzative indispensabili per i primi passi verso il superamento della crisi. Tra le cause di crisi interna all’ordinamento processuale – senza ampliare eccessivamente l’analisi – appaiono centrali: l’ampliamento delle fonti comunitarie, che creano nuove esigenze legislative mai attuate nel nostro Paese; le risoluzioni del Consiglio d’Europa che in più p e n a l e Gazzetta F O R E N S E occasioni ha richiamato l’Italia ad adeguare la normativa interna a quella comunitaria e/o della CEDU; la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che non ha perso occasione per condannare lo Stato per i “vizi” del processo contumaciale e per la irragionevole durata del processo, alla cui giurisprudenza si adegua, spesso in modo acritico, la Corte di cassazione; i contrasti giurisprudenziali interni che mettono in pericolo l’uguaglianza di trattamento, talvolta a causa di vizi dommatici, molto più spesso per il persistere di vuoti normativi; il bisogno della “completabilità” delle indagini preliminari che ha fatto da sfondo alla legge Carotti e che ha fronteggiato il bisogno di conoscenza del processo; epperò essa ha certamente aggravato una crisi risalente, determinando ulteriori insopportabili stasi processuali; l’entrata in vigore dell’art. 111 Cost., che modifica la filosofia di sistema approdando al “processo di parti” e alla “centralità della giurisdizione” e che, contestualmente, riconosce i “tempi del processo” quale elemento virtuoso con cui far fronte alla efficienza della giurisdizione e alla certezza ed effettività della pena. Un così vasto terreno di crisi; un così colorito panorama, se, per un verso, dimostra la “debolezza” del sistema, più significativamente denunzia i limiti di strategie “tampone”… Perciò, nella scorsa legislatura si ritenne non corrispondente ai bisogni riformistici la scelta metodologica operata dal compianto prof. Dalia, che preferì scrivere il Codice senza ricorso alla legislazione delegata, tecnica preferita, invece, dal precedente Governo proprio per la vastità dell’opera, nonostante essa fosse inspiegabilmente contestato dall’Avvocatura – (l’Accademia – intesa come rappresentanza – sembra non avere parere sul punto) – ed ora contraddittoriamente praticata dal Governo, che vi ricorre per modifiche disciplinari di semplice soluzione, non per settori strategici del processo (cfr. ddl. Alfano). Perciò, si ha l’impressione, che l’attuale Governo si muova senza un’approfondita analisi e senza una visione strategica del problema. Eppure, le ragioni che militano a favore della leggedelega, quale unico strumento capace di riscrivere, razionalmente, percorsi processuali efficienti nel rispetto delle garanzie dell’individuo, sono valide ed incontestabili ancora oggi e non solo perché facilitano i lavori parlamentari: una cosa è discutere direttive “politiche” di una determinata vicenda legislativa, altra cosa è interessarsi di testi normativi specifici, che, pur inerenti ad un particolare settore, devono rivelare immediatamente i punti di razionalità che li coniugano ad altri settori connessi e/o collegati. E poi, i vizi di razionalità di un’opera che agisce direttamente sulle discipline è quotidianamente testimoniato dalla storia parlamentare e dall’attività giudiziaria, spesso accadendo che la modifica di un segmento normativo e/o l’inserimento di un emendamento alterano definitivamente senso e filosofia del pur parziale intervento. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e Peraltro, il dimostrato mutamento della filosofia costituzionale richiede un nuovo approccio al sistemaprocesso e la pratica di linee di efficienza complessiva del “pianeta-Giustizia”, dovendo l’opera riformista riguardare modelli e “finestre” di giurisdizione durante le indagini; il sistema delle prove per far fronte alla tipizzazione di nuovi mezzi “invasivi” delle libertà della persona; la rilevabilità dei vizi di competenza, degli atti, delle sanzioni processuali, delle notificazioni, queste, anche al fine di eliminare il processo in contumacia; e, tutto, ciò nell’ottica della realizzazione della “ragionevole durata del processo”. Insomma, bisogna restituire al sistema razionalità ed al Codice un assetto capace di riconiugare tempi e garanzie, secondo la filosofia del “giusto processo”, obiettivo che non può raggiungersi agendo sui settori. Deve essere delega, infine, per le radicali scelte politiche a cui è chiamato il Parlamento per rinnovare la fiducia nel sistema accusatorio e nella struttura a fasi disomogenee (azione vs giudizio) disegnata dal Codice di fine anni ’80 che resta modello irrinunciabile) e, contestualmente, per aprire la strada a nuove originalità strutturali ed a maggiori razionalità sistemiche, cioè, ad un reale e moderno “processo di parti”. 3. – Il miglior sostegno all’idea di metodo ora dichiarato come insostituibile viene proprio dalla sintesi del ddl Alfano, che dichiara di voler realizzare la ragionevole durata nel processo, ma in sostanza ne aggrava i tempi con riforme di settore tra loro contraddittorie e con tessuti normativi che ne tradiscono la ratio. I pochi esempi che qui possono essere fatti evidenziano siffatte distonie. La pretesa garantista della collegialità cautelare, il riconoscimento della “naturalità” della Corte di Assise anche per il giudizio abbreviato, la testuale abolizione dell’udienza camerale in sede di archiviazione e di avviso di conclusione delle indagini, la semplificazione procedimentale dei processi a citazione diretta, la limitazione probatoria di certi atti (le sentenze) e dei poteri di ammissione delle prove, sono situazioni tra loro intrinsecamente dissonanti, quando non antitetiche, per cui è pressochè impossibile individuare il filo conduttore della manovra. Come si vede si contrastano tentativi di ampliamento delle garanzie e “cenni” di riduzione dei tempi processuali affidati, soprattutto, alla riforma di avvisi, comunicazioni, notificazioni, opera certamente virtuosa – come l’uso di tecniche telematiche nel processo – ma incomplete e inefficaci se non si creano i presupposti normativi per capovolgere l’onere di conoscenza nel e del processo. Al dunque, traspare l’impressione che assiomi teorici prevalgono sui bisogni del processo e che ci si muova senza razionalità, privilegiando apparenti istanze garan- 2 0 0 9 49 tiste (la collegialità; i nuovi poteri probatori) o esigenze di rapidità (citazioni dirette, archiviazione e avviso), che collidono con l’altra linea e che si realizzano senza i presupposti procedimentali su cui costruire siffatte nuove strade processuali e le linee di razionalità che reciprocamente legittimino le une e le altre. Per semplificare: la collegialità (reale, effettiva) è senza dubbio un valore della giurisdizione; ma non ci si chiede se essa sia tale nella specifica fattispecie e – all’opposto e contraddittoriamente – perché si restringano ulteriormente gli spazi di garanzia nei giudizi monocratici. Certo. La collegialità è l’elemento di tranquillità nella valutazione delle vicende cautelari; ma essa richiede la conseguenziale abolizione del riesame ed il preventivo ascolto dei soggetti “da colpire”, per evitare il rischio che il provvedimento cautelare collegiale crei pregiudizio, reintroducendo il dibattimento sulla prova non per la prova: il giudizio cautelare di sei giudici di merito e di cinque giudici di legittimità è valutazione “tombale” in termini di colpevolezza; a meno che non si voglia introdurre un contraddittorio sistema di riduzione del ricorso ai “controlli” e, quindi, di limitazione delle garanzie. Ancor più serio e preoccupante il tema sul piano dell’organizzazione giudiziaria, dal momento che quel tipo di collegialità richiede la totale revisione dei territori dei circondari, i cui proclami sono seguiti da inerzia operativa. Parimenti; semplificare i procedimenti per citazione diretta affidandone la responsabilità investigativa alla polizia giudiziaria significa scavare un più profondo solco nel principio di uguaglianza, indipendentemente da valutazioni di opportunità circa la “responsabilità” delle indagini. Peraltro, la istituzione di un “reciproco controllo” tra pubblico ministero e polizia giudiziaria e la previsione di indagini parallele dei due poteri rompe gli equilibri del processo, lasciano trasparire la vera intenzione del legislatore e facendo intravedere pericolose sovrapposizioni investigative: così il processo corre il rischio di un definitivo fallimento, del quale è difficile pensare che il proponente non si renda conto. In questo contesto si ha l’impressione che il Paese viva una “nuova emergenza” sul piano culturale e politico. Essa propone al giurista – ma soprattutto alla Politica – una sfida affascinante e contemporaneamente dura, quella di avviare un nuovo processo di acculturamento sui valori condivisi, liberando il campo da scorie del passato, da atteggiamenti vetero-illuministi lontani dai reali bisogni del Paese, da bizantinismi di superficie incapaci di cogliere gli stretti interstizi entro cui incuneare la scelta migliore e più razionale, non quella più conveniente, seguendo l’”etica della responsabilità” non quella della “rappresentanza”. penale Gazzetta 50 D i r i t t o ● La compatibilità costituzionale del terzo scudo fiscale italiano tra profili operativi e prassi premiale ● Felice Carbone Avvocato Domenico Bellobuono Commercialista e p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Dopo sette anni, dalla prima versione del provvedimento denominato “scudo fiscale”, è stato convertito in legge, con 270 voti favorevoli, 250 contrari e 2 astenuti, il D.L. n. 103/2009 (disposizioni correttive del decreto legge “anticrisi”) che ha reso dal 15 settembre 2009 operativo il terzo scudo fiscale italiano1. Secondo i compilatori, tale strumento rientra nella categorie delle norme di contrasto alla detenzione di attività detenute irregolarmente nei cosiddetti ‘paradisi fiscali’ ed incentiva il rimpatrio fisico dei capitali che potrebbero essere impiegati nell’economia nazionale in un periodo di profonda crisi. Una lettura “giornalistica” del provvedimento lo segnala come l’ennesimo sofisma erariale per fare cassa. Certo è che esso è compatibile con il sistema costituzionale perché “non è di per sé irragionevole che la normativa di condono fiscale persegua i soli contingenti e concorrenti obiettivi propri di detto condono, cioè ridurre il contenzioso (anche potenziale) con i contribuenti e conseguire un immediato introito finanziario, benché in misura ridotta rispetto a quello astrattamente ricavabile”2. L’occasione dell’intervento normativo è stata l’ intesa raggiunte in sede Ocse di un mutuo scambio di informazioni fiscali che i paesi aderenti devono fornirsi. Sono 62 gli Stati che si sono riuniti per discutere di 1 Nel presentare il terzo scudo fiscale, il ministro italiano delle finanze Giulio Tremonti ha dichiarato che “Il vero beneficio è chiudere la caverna di Alì Babà. È inutile fare la lotta all’evasione se non si chiudono i paradisi fiscali”. 2 Corte Costituzionale con ord. n. 109 anno 2009 ha statuito che “è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, nella parte in cui prevede l’esclusione, ad ogni effetto, della punibilità per i reati tributari in esso elencati, nel caso di perfezionamento della definizione dei processi verbali di constatazione da cui risultano i reati medesimi, sollevata, per irragionevolezza della disciplina denunciata per diversità di trattamento rispetto al condono degli abusi edilizi, in riferimento all’art. 3 Cost. Il rimettente pone a raffronto ipotesi di condono che, pur determinando lo stesso effetto estintivo del reato, restano eterogenee, perché, mentre la normativa sul condono edilizio – anche nel caso in cui esso sia disposto per ragioni contingenti di natura finanziaria – esige necessariamente un peculiare bilanciamento con una pluralità di interessi costituzionalmente protetti (quali, ad esempio, il governo del territorio, la tutela del paesaggio, dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali), il condono fiscale, invece, è essenzialmente diretto a soddisfare l’interesse costituzionale all’acquisizione delle disponibilità finanziarie necessarie a sostenere le pubbliche spese, incentivando la definizione semplificata e spedita delle pendenze fiscali mediante il parziale pagamento del debito tributario; sicché la rilevata diversità degli interessi costituzionali coinvolti in ciascuno dei due menzionati tipi di condono esclude che la normativa sul condono fiscale debba rispettare le medesime condizioni di ragionevolezza individuate dalla giurisprudenza della Corte per le leggi di condono edilizio e dunque non è di per sé irragionevole che la normativa di condono fiscale persegua i soli contingenti e concorrenti obiettivi propri di detto condono, cioè ridurre il contenzioso (anche potenziale) con i contribuenti e conseguire un immediato introito finanziario, benché in misura ridotta rispetto a quello astrattamente ricavabile. In tema di condono fiscale, v. citate sentenze n. 416 del 2000; n. 321 del 1995, n. 172 del 1986, n. 33 del 1981; ordinanze n. 402 del 2005, n. 550 del 2000, n. 361 del 1992.”. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e come implementare gli standard internazionali sullo scambio di informazioni a fini fiscali, oggetto di accordi indispensabili per far uscire i paesi non collaborativi dalla black list. Questi standard comportano l’obbligo di tenere rilevazioni affidabili e consentire l’accesso alle informazioni sul titolare effettivo dei beni e sulle transazioni bancarie. Il modello Ocse di trattato contro le doppie imposizioni (articolo 26, paragrafo 5) non consente allo stato destinatario della richiesta di informazioni, di eccepire che le notizie sono coperte dal segreto bancario o fiduciario3. La normativa rappresenta l’ennesima opportunità per regolarizzare la propria posizione fiscale4. Occorre tenere in debita considerazione la portata della nuova disposizione contenuta nell’articolo 12 del decreto in base alla quale, in attuazione delle intese raggiunte tra gli Stati aderenti all’OCSE in materia di emersione di attività economiche e finanziarie detenute in Paesi aventi regimi fiscali privilegiati e in deroga ad ogni vigente disposizione di legge, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenute, in violazione dei predetti vincoli, in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato oggettivamente individuati nei decreti ministeriali del 4 maggio 1999 e del 21 novembre 2001 (anche se con riferimento soltanto a talune tipologie di enti e società), si considerano costituiti da redditi sottratti ad imposizione in Italia (cd.evasione). Le disposizioni, contenute nello scudo fiscale, si rivolgono alle persone fisiche e agli altri soggetti fiscalmente residenti nel territorio dello Stato che, anteriormente al 31 dicembre 2008, hanno esportato o detenuto all’estero capitali e attività in violazione dei vincoli valutari e degli obblighi tributari sanciti dalle disposizioni sul cosiddetto “monitoraggio fiscale” – vale a 2 0 0 9 51 3Il commentario apriva con le riserve dell’Austria e della Svizzera, che limitano la deroga al segreto bancario a casi precisi e suscettibili di una pena detentiva. Ma ora questi stati hanno ritirato la riserva e hanno iniziato a scrivere alle controparti per rinegoziare gli accordi in funzione del nuovo articolo 26. Bisogna innanzitutto individuare la natura delle attività all’estero, occorre riflettere principalmente, sulle cause che le hanno portate fuori dal paese di residenza dell’effettivo titolare. E per questo confronto si deve individuare quale sia questo paese: di qui l’intensificazione della lotta alle residenze estere fittizie. Quanto ai motivi dell’esportazione di capitali, sono ormai superati quelli connessi all’instabilità della lira, al rischio politico e all’imposta di successione. Lo scudo del 2001 fu accompagnato dall’esenzione di questo tributo, ma le aliquote e le franchigie ora vigenti, a seguito del ripristino dell’imposta, sono ragionevoli e sensibilmente inferiori a quelle pressoché espropriative vigenti prima delle modifiche, in parte già intervenute nel 2000. dire dalle norme contenute nel decreto legge 28 giugno 1990, n. 167, convertito dalla legge 4 agosto 1990, n. 227, comprese quelle relative al trasporto al seguito ora contenute nell’articolo 3 del decreto legislativo 19 novembre 2008, n. 195 – nonché degli obblighi di dichiarazione dei redditi imponibili di fonte estera. Con lo scudo, quindi, si può far emergere denaro e attività di natura finanziaria e patrimoniale attraverso il cosiddetto Rimpatrio o la cosiddetta Regolarizzazione. La regolarizzazione è tuttavia consentita esclusivamente nel caso in cui le attività siano detenute in Paesi dell’Unione Europea, nonché in Paesi che consentono un effettivo scambio di informazioni in via amministrativa. L’emersione delle predette attività – sia nel caso di rimpatrio che in quello della regolarizzazione – produce effetti estintivi delle violazioni di natura tributaria e previdenziale relativamente agli importi dichiarati, con riferimento ai periodi di imposta per i quali non sono ancora scaduti i termini per l’accertamento, ed estingue le relative sanzioni amministrative. L’emersione inoltre preclude nei confronti del dichiarante e dei soggetti solidalmente obbligati ogni accertamento tributario e contributivo per i periodi d’imposta che hanno termine al 31 dicembre 2008, limitatamente agli imponibili rappresentati dalle somme o altre attività costituite all’estero e oggetto di rimpatrio o regolarizzazione. Per coloro che decidono di usufruire dello scudo fiscale, come nelle precedenti edizio­ni, è garantito l’anonimato. Inoltre, il ricor­so allo scudo fiscale non può costituire ele­mento utilizzabile a sfavore del contribuen­ te, in ogni sede amministrativa o giudizia­ria (civile, amministrativa o tributaria), in via autonoma o addizionale, a meno che non siano in corso procedimenti alla data del 05 agosto 2009. Lo scudo, quindi, prevede l’ampia riservatezza, anche nel tempo, dei dati e delle notizie comunicati agli intermediari relativi alle attività oggetto di emersione. Tali informazioni sono, infatti, coperte per legge da un elevato grado di segretezza, essendo preclusa espressamente la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di venirne a conoscenza, ad eccezione dei casi in cui sia lo stesso contribuente a fornirle nel proprio interesse. Per regolarizzare la propria posizione il contribuente è tenuto al versamento di un’imposta straordinaria sulle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008 e all’effettuazione degli adempimenti richiesti per il rimpatrio o la regolarizzazione nell’arco temporale che va dal 15 settembre al 15 dicembre 20095. 4 Introdotta con l’articolo 13-bis del decreto legge l° luglio 2009, n. 78, in sede di conversione dalla legge 3 agosto 2009, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal decreto legge 3 agosto 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141 (di seguito “decreto”), 5 Ai fini degli effetti dell’emersione, nonché delle modalità di effettuazione della stessa, i commi 4 e 5 dell’articolo 13-bis del decreto penale Gazzetta 52 D i r i t t o e p r o c e d u r a Il contribuente, per beneficiare delle premialità dello scudo ter, è tenuto al versamento di una somma pari al 50 per cento – comprensiva di interessi e sanzioni e senza il diritto allo scomputo di eventuali ritenute o crediti – di un rendimento lordo presunto in ragione del 2 per cento annuo per i cinque anni precedenti il rimpatrio o la regolarizzazione, senza possibilità di scomputo di eventuali perdite. Relativamente alle attività oggetto di rimpatrio, i contribuenti che abbiano presentato la dichiarazione riservata sono esonerati dall’obbligo di indicare le medesime attività nella dichiarazione annuale dei redditi (modulo RW). L’esonero della compilazione del modulo RW è previsto anche per le attività oggetto di regolarizzazione ma solo con riferimento alla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta 2009 (Unico 2010). I destinatari delle disposizioni concernenti l’emersione delle attività detenute all’estero sono quelli interessati dalla normativa sul “monitoraggio fiscale” che riguarda la necessità di compilare il quadro RW, in determinati casi: a) se siano stati effettuati trasferimenti (non al seguito) da o verso l’estero di denaro, certificati in serie o di massa o titoli effettuati attraverso soggetti non residenti in Italia, senza l’intervento di intermediari residenti che, nel corso dell’anno, complessivamente considerati, abbiano superato l’importo di 10mila euro. Si tratta delle cosiddette “operazioni correnti” da indicare nella sezione I del quadro RW. In questa sezione devono essere indicati solo i trasferimenti da e verso l’estero e non anche quelli che avvengono estero su estero; si deve trattare di trasferimenti per cause diverse dagli investimenti esteri e dalle attività estere di natura finanziaria (articolo 2 del decreto legge 167/90). Un esempio è quello della provenienza estera di denaro a seguito della vendita di quote di partecipazioni da parte di una persona fisica residente in Italia a un compratore estero, senza l’operato di intermediari residenti. Non vanno, invece, indicate nella sezione I, ma nelle sezioni II e III, l’apertura e la movimentazione di un conto corrente all’estero in quanto si tratta di trasferimenti sull’estero; b) se siano stati detenuti al termine del periodo d’imposta, per un ammontare complessivo superiore a 10mila euro, investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria, attraverso cui possono fanno espresso rinvio agli articoli 11, 13, 14, 15, 16, 17, 19, commi 2 e 2-bis, 20, comma 3, del decreto legge 25 settembre 2001, n. 350, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 409, e successive modificazioni, e al decreto legge 22 febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73, demandando ad un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate le relative disposizioni di attuazione e gli adempimenti anche dichiarativi connessi all’adesione all’istituto. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E essere conseguiti rediti di fonte estera imponibili in Italia. Si tratta, quindi, di indicare la consistenza di tali investimenti e attività al 31 dicembre anche se nell’anno non si sono avute movimentazioni. Ovviamente, gli investimenti e le attività finanziarie da indicare nel quadro RW devono essere detenuti all’estero ma devono anche essere produttivi di reddito estero imponibile in Italia. In assenza di un reddito imponibile di fonte estera non può esistere alcun obbligo di RW. È quindi fondamentale disporre di una definizione della locuzione di redditi di fonte estera imponibili in Italia che dalla interpretazione giurisprudenziale si considerano di fonte estera i redditi corrisposti da soggetti non residenti, nonché i redditi derivanti da beni che si trovano al di fuori del territorio dello Stato. Va precisato che, diversamente, non sussiste l’obbligo di compilazione del quadro RW per gli investimenti e le attività all’estero, in base all’articolo 4, comma 4, del decreto legge 167/90, per: a) i certificati in serie o di massa e i titoli affidati in gestione o in amministrazione agli intermediari residenti (banche, Sim, società fiduciarie e altri intermediari professionali indicati nell’articolo 1 del decreto 167/90); b) i contratti conclusi con il loro intervento, anche in qualità di controparti; c) i depositi e i conti correnti; a condizione che i redditi derivanti tali attività estere di natura finanziaria siano riscossi attraverso l’intervento degli intermediari. Si tratta di cause di esonero dalla compilazione del quadro RW, in quanto l’obbligo di rilevazione dell’operazione sussiste in capo all’intermediario che interviene nella conclusione del contratto o nella conclusione del contratto o nella riscossione delle imposte. I soggetti interessati devono essere fiscalmente residenti nel territorio dello Stato. A tal fine, con riguardo alle persone fisiche, si deve fare riferimento alla nozione contenuta nell’articolo 2, comma 2, del TUIR, in base alla quale si considerano residenti “le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai sensi del codice civile”. Inoltre, come stabilito dal successivo comma 2-bis del medesimo articolo 2 del TUIR, si considerano altresì residenti, salvo prova contraria del contribuente, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze. In attesa dell’emanazione del citato decreto, si considerano residenti i cittadini emigrati in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato individuati dal D.M. 4 maggio 1999 (cosiddetta “black lisi”). F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e Ne consegue che, anche tali soggetti, ricorrendone i presupposti, rientrano nell’ambito soggettivo di applicazione delle disposizioni in commento. In tal caso è necessario manifestare all’intermediario il proprio status di residente italiano, rinunciando pertanto alla possibilità di fornire la prova contraria di cui al citato comma 2-bis dell’articolo 2 del TUIR. Si ritiene che i contribuenti la cui residenza fiscale in Italia sia determinata in base ad accordi internazionali ratificati in Italia e che prestano in via continuativa attività lavorative presso organismi comunitari, non siano soggetti all’obbligo di compilazione del modulo RW in relazione alle disponibilità costituite all’estero mediante l’accredito degli stipendi o altri emolumenti derivanti da tali attività lavorative. Si ritengono altresì esclusi dal medesimo obbligo i residenti nel comune di Campione d’Italia in relazione alle disponibilità detenute presso istituti elvetici in base alle disposizioni valutarie specificamente riferite al predetto territorio. Tale esclusione è limitata alle disponibilità derivanti da redditi di lavoro, da trattamenti pensionistici, nonché da altre attività lavorative svolte direttamente in Svizzera da soggetti residenti nel suddetto Comune. Per le società semplici, le associazioni e gli enti non commerciali, gli articoli 5, comma 3, lettera d), e 73, comma 3, del TUIR stabiliscono che si considerano residenti i soggetti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato. Il requisito della residenza nel territorio dello Stato deve sussistere per il periodo d’imposta in corso alla data di presentazione della cosiddetta “dichiarazione riservata” (2009). Considerato che, ai sensi dell’articolo 2 del TUIR, il requisito della residenza si acquisisce ex tunc nel corso del periodo d’imposta nel quale si verifica il collegamento territoriale rilevante ai fini fiscali, si deve ritenere che possano essere inclusi nel novero dei soggetti interessati tutti coloro che, pur non risultando residenti nel territorio dello Stato alla data di presentazione della dichiarazione riservata, vengano ad acquisire successivamente a tale data detto requisito in quanto, ad esempio, abbiano inteso stabilire nel territorio dello Stato, per la maggior parte del periodo d’imposta, il proprio domicilio o la residenza ai sensi del codice civile. Tuttavia, per poter usufruire dell’emersione delle attività detenute all’estero, rimane fermo il presupposto del mancato adempimento delle disposizioni sul monitoraggio fiscale nei periodi d’imposta nei quali essi erano residenti in Italia. In ogni caso è preclusa la possibilità di usufruire delle disposizioni relative all’emersione delle attività detenute all’estero per i soggetti che abbiano osservato 2 0 0 9 53 le disposizioni sul “monitoraggio fiscale”, ma abbiano violato unicamente gli obblighi di dichiarazione annuale dei redditi di fonte estera. In considerazione della finalità del provvedimento, che è quella di consentire l’emersione di attività comunque riferibili al contribuente detenute al di fuori del territorio dello Stato, essa è ammessa non soltanto nel caso di possesso diretto delle attività da parte del contribuente, ma anche nel caso in cui le predette attività siano intestate a società fiduciarie o siano possedute dal contribuente per il tramite di interposta persona. La stessa circolare n. 99/E del 20016, con riferimento alla possibilità di regolarizzare attività detenute all’estero tramite un trust, ha indicato, a titolo di esempio, quali casi di interposizione, il “trust revocabile (per cui il titolare va identificato nel disponente o settlor) ovvero un trust non discrezionale nei casi in cui il titolare può essere identificato nel beneficiario”. Successivamente, con riferimento al trust revocabile, la circolare n. 48/E del 6 agosto 2007 ha precisato che in questa particolare tipologia di tale istituto “il disponente si riserva la facoltà di revocare l’attribuzione dei diritti ceduti al trustee o vincolati nel trust (nel caso in cui il disponente sia anche trustee), diritti, che, con l’esercizio della revoca rientrano nella sua sfera patrimoniale. È evidente come in tal caso non si abbia un trasferimento irreversibile dei diritti e, soprattutto, come il disponente non subisca una permanente diminuzione patrimoniale. Questo tipo di trust… ai fini delle imposte sui redditi non dà luogo ad un autonomo soggetto passivo d’imposta cosicché i suoi redditi sono tassati in capo al disponente”. Peraltro, la risoluzione 17 gennaio 2003, n. 8/E, già prima dell’introduzione della normativa nazionale in materia di imposizione del reddito prodotto dai trust, ha precisato che la condizione necessaria affmché un trust possa essere qualificato soggetto passivo ai fini delle imposte `sui redditi è che il potere del trustee nell’amministrare i beni in possesso del trust, e ad esso affidati dal disponente, sia effettivo. Al contrario, qualora il potere e il controllo sui beni siano riservati al disponente (settlor), il trust dovrà essere considerato come non operante dal punto di vista dell’imposizione diretta. Allo stesso modo, in presenza di un trust irrevocabile nel quale il trustee è di fatto 6 Come precisato nella circolare 4 dicembre 2001, n. 99/E, relativamente alla nozione di “interposta persona”, la questione non può essere risolta in modo generalizzato, essendo direttamente connessa alle caratteristiche e alle modalità organizzative del soggetto interposto. In tale sede, a titolo esemplificativo, è stato chiarito che si deve considerare soggetto fittiziamente interposto “una società localizzata in un Paese avente fiscalità privilegiata, non soggetta ad alcun obbligo di tenuta delle scritture contabili, in relazione alla quale lo schermo societario appare meramente formale e ben si può sostenere che la titolarità dei beni intestati alla società spetti in realtà al socio che effettua il rimpatrio”. penale Gazzetta 54 D i r i t t o e p r o c e d u r a privato dei poteri dispositivi sui beni attribuiti al trust che risultano invece esercitati dai beneficiari, il trust deve essere considerato come non operante in quanto fittiziamente interposto nel possesso dei beni. In buona sostanza si tratta di ipotesi in cui le attività facenti parte del patrimonio del trust continuano ad essere a disposizione del settlor oppure rientrano nella disponibilità dei beneficiari. A titolo esemplificativo, sono da ritenere fittiziamente interposti: • trust che il disponente (o il beneficiario) può far cessare liberamente in ogni momento, generalmente a proprio vantaggio o anche a vantaggio di terzi; • trust in cui il disponente è titolare del potere di designare in qualsiasi momento se stesso come beneficiario; • trust in cui il disponente (o il beneficiario) è titolare di significativi poteri in forza dell’atto istitutivo, in conseguenza dei quali il trustee, pur dotato di poteri discrezionali nella gestione ed amministrazione del trust, non può esercitarli senza il suo consenso; • trust in cui il disponente è titolare del potere di porre termine anticipatamente al trust, designando se stesso e/o altri come beneficiari (cosiddetto “trust a termine”); • trust in cui il beneficiario ha diritto di ricevere anticipazioni di capitale dal trustee. In tali casi la dichiarazione di emersione deve essere presentata dal soggetto (disponente o beneficiario) che è l’effettivo possessore dei beni. Diversamente, i trust non fittiziamente interposti, ricompresi tra i soggetti di cui all’articolo 73, comma 1, lettera c), del TUIR, essendo tenuti agli adempimenti previsti per tali soggetti dal decreto legge n. 167 del 1990, qualora non abbiano osservato le disposizioni in questo contenute, possono utilizzare le modalità indicate nell’articolo 13-bis in commento per l’emersione delle attività da essi irregolarmente detenute all’estero. Dunque la dichiarazione di emersione deve essere presentata dal trustee in qualità di soggetto tenuto ad assolvere tutti gli adempimenti fiscali del trust. È, inoltre, opportuno precisare che per trust residenti si devono intendere anche quelli la cui residenza nel territorio dello Stato viene determinata ai sensi dell’articolo 73, comma 3, del TUIR (cosiddetti “trust esterovestiti”), vale a dire i trust istituiti in Paesi che non consentono un adeguato scambio di informazioni, con almeno un beneficiario e uno dei disponenti fiscalmente residenti in Italia, e i trust istituiti nei predetti Stati quando, successivamente alla costituzione, un soggetto residente trasferisca a favore del trust la proprietà di un bene immobile o di diritti reali immobiliari ovvero costituisca a favore del trust dei vincoli di destinazione degli stessi beni e diritti. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Nel caso di trust trasparente non fittiziamente interposto, tenuto conto delle modalità di attribuzione del reddito da esso prodotto, si ritiene che gli effetti della dichiarazione di emersione presentata dal trustee si producano in capo ai beneficiari nei limiti e con esclusivo riferimento ai redditi attribuiti per trasparenza dal trust medesimo. Fra i soggetti che possono presentare la dichiarazione di emersione sono da comprendere gli eredi. L’emersione può riguardare anche attività detenute in comunione da più soggetti. In tal caso, la dichiarazione riservata deve essere presentata da ciascuno dei soggetti interessati per la quota parte di propria competenza. Il comma 7-bis dell’articolo 13-bis del decreto stabilisce che possono effettuare il rimpatrio o la regolarizzazione anche le imprese estere controllate o collegate di cui agli articoli 167 e 168 del T.U.I.R.(controlled foreign company – C.F.C.) Gli articoli 167 e 168 del Tuir dispongono quindi l’applicazione della tassazione per traspa­renza in capo ai soci italiani dei redditi pro­dotti da società di paesi della black-list di cui si detiene il controllo o una quota non inferiore al 20 per cento. La norma, però, può esse­re disapplicata mediante interpello preven­tivo dimostrando, alternativamente, che la Cfc svolge una attività industriale o com­merciale effettiva nello stesso mercato del­lo stato in cui ha sede, ovvero che i redditi prodotti sono comunque tassati in uno sta­to a fiscalità ordinaria. Prima delle modifiche introdotte dal D.L. 103/2009, i contribuenti persone fisiche che detengono partecipazioni in Cfc (di controllo, o di collegamento), di cui hanno, omesso l’indicazione nel modello RW, si in­ terrogavano sulle conseguenze derivanti dal loro rimpatrio o regolarizzazione. Non era chiaro se, e in che misura, lo scudo fisca­le potesse coprire anche dalla mancata di­chiarazione dei redditi prodotti dalla Cfc, i quali nulla hanno a che vedere con le attivi­tà emerse. Il nuovo comma 7-bis della norma sullo scudo, pone rimedio a queste problemati­che consentendo di attivare lo scudo anche sulle Cfc. Viene previsto che l’emersione (rimpatrio o regolarizzazione) può essere attuata dalla società estera partecipata di cui agli articoli 167 e 168 del Tuir, con effetti di copertura che si producono, nei limiti de­gli importi emersi, in capo ai rispettivi soci7. Dunque se l’emersione viene effettuata da parte della Cfc l’oggetto della dichiarazione riservata dovrebbero essere, almeno così pare dal dato letterale della nor­ma il dena­ro, le attività finanziarie e le altre attività possedute dalla società, e non le azioni o quote emesse dalla stessa Cfc detenute dai soci italiani, in questo caso oc- 7 È evidente che lo scudo è possibile se la violazione del monitoraggio è stata commessa dai soci della Cfc e non dal­la partecipata, la quale, in quanto soggetto non residente, non era tenuta alla compila­zione del quadro RW. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e corre che i soci controfirmino la dichiarazione, attestando l’esistenza del possesso all’estero in viola­zione della norme sul monitoraggio già al 31 dicembre 2008. Ne consegue che l’’emersione della Cfc produce effetti di co­pertura direttamente sui soci, nei limiti de­gli importi rimpatriati o regolarizzati. Per cui il socio beneficerà della preclusione accertativi in ordine alle attività detenute presuntivamente all’estero8. Rimane invece aperto il problema delle cosiddette holding estero vestite, localizza­te extrablack-list (e dunque non Cfc), perle quali l’emersione del controllo da parte di soci italiani può far scattare il requisito di residenza presunta nel nostro paese, con ef­fetti non chiari sulla eventuali omissioni compiute dalla società negli anni fino al 2008. Pertanto, possono essere oggetto di rimpatrio anche i titoli e le altre attività finanziarie emesse da soggetti residenti in Italia, purché siano detenuti all’estero in violazione delle disposizioni in materia di monitoraggio fiscale, nonché le attività finanziarie e il denaro detenuti presso le filiali estere di banche o di altri intermediari residenti in Italia. Il rimpatrio può avere ad oggetto anche talune attività patrimoniali con le modalità successivamente indicate. L’operazione di regolarizzazione, invece, ha per oggetto le somme di denaro, le altre attività finanziarie sopra elencate, nonché gli investimenti esteri di natura non finanziaria, quali, ad esempio, gli immobili e i fabbricati. situati all’ estero, gli oggetti preziosi, le opere d’arte e gli yacht, detenuti a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008 in un Paese, europeo o in altro Paese che garantisce un effettivo scambio di informazioni fiscali in via amministrativa. Anche con riferimento alle attività diverse da quelle finanziarie il presupposto per la regolarizzazione è la violazione delle disposizioni relative al “monitoraggio fiscale”. Al riguardo si ricorda che, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legge n. 167 del 1990, l’obbligo di compilazione del modulo RW della dichiarazione dei redditi riguarda le persone fisiche, gli enti non commerciali e le società semplici ed associazioni equiparate ai sensi dell’articolo 5 del TUIR, fiscalmente residenti nel territorio dello Stato, che al termine del periodo d’imposta detengono investimenti all’estero ovvero attività estere di natura finanziaria di ammon- 8 Un altro aspetto da chiarire, sempre qua­lora venga confermata l’interpretazione let­terale della norma secondo cui è la Cfc a rimpatriare i propri beni e non i soci a rimpa­triare la Cfc, riguarda la posizione fiscale di queste ultime e cioè se debbano formare an­ch’esse oggetto di rimpatrio o quantomeno di regolarizzazione senza oneri (in quanto coperti dall’imposta pagata dalla Cfc). Un ulteriore effetto dello scudo della Cfc, questo assolutamente chiaro, è costitui­to dal venir meno, fino all’esercizio chiuso al 31 dicembre 2008, dell’obbligo di tassazio­ne per trasparenza dei redditi della società estera da parte dei soci (di controllo odi col­legamento) italiani. Viene così rimosso il principale ostacolo che si frapponeva all’emersione delle Cfc, obiettivo che pote­va forse ottenersi con modalità applicative più semplici e chiare. 2 0 0 9 55 tare complessivo superiore a euro 10.000, attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia. In particolare, sulla base delle interpretazioni finora fornite sull’argomento, si ricorda che le attività di natura finanziaria devono essere sempre indicate nel modulo RW in quanto produttive in ogni caso di redditi di fonte estera imponibili in Italia. A titolo esemplificativo, sono oggetto di segnalazione le seguenti attività finanziarie: • attività i cui redditi sono corrisposti da soggetti non residenti, tra cui, ad esempio, le partecipazioni al capitale o al patrimonio di soggetti non residenti, le obbligazioni estere e i titoli similari, i titoli non rappresentativi di merce e i certificati di massa emessi da non residenti (comprese le quote di OICR esteri), le valute estere rivenienti da depositi e conti correnti, i titoli pubblici italiani emessi all’estero, depositi e conti correnti bancari costituiti all’estero indipendentemente dalle modalità di costituzione (ad esempio, accrediti di stipendi, di pensione o di compensi); • contratti di natura finanziaria stipulati con controparti non residenti, tra cui, ad esempio, finanziamenti, riporti, pronti contro termine e prestito titoli, nonché polizze di assicurazione sulla vita e di capitalizzazione sempreché il contratto non sia concluso per il tramite di un intermediario finanziario italiano o le prestazioni non siano pagate attraverso un intermediario italiano; • contratti derivati e altri rapporti finanziari se i relativi contratti sono conclusi al di fuori del territorio dello Stato, anche attraverso l’intervento di intermediari, in mercati regolamentati; • metalli preziosi allo stato grezzo o monetato detenuti all’estero. Come accennato, le attività sopra elencate devono essere sempre indicate nel modulo RW, Sezione II, per effetto della loro fruttuosità ope legis, qualunque sia la loro origine (ad esempio, acquisizione per effetto di donazione o successione). Vanno, inoltre, indicate nella medesima Sezione le attività finanziarie italiane detenute all’estero – ossia, ad esempio, i titoli pubblici ed equiparati emessi in Italia, le partecipazioni in soggetti residenti ed altri strumenti finanziari emessi da soggetti residenti – soltanto nel periodo di imposta in cui la cessione o il rimborso delle stesse ha realizzato plusvalenze imponibili. Si ricorda che gli obblighi di dichiarazione non sussistono, invece, per le attività finanziarie affidate in gestione o in amministrazione alle banche, alle SIM, alle società fiduciarie, alla società Poste italiane e agli altri intermediari professionali per i contratti conclusi attraverso il loro intervento, anche in qualità di controparti, nonché per i depositi e i conti correnti, a condizione che i redditi derivanti da tali attività estere di natura finanziaria siano riscossi attraverso l’intervento degli intermediari stessi. penale Gazzetta 56 D i r i t t o e p r o c e d u r a Detto esonero sussiste anche nel caso di mancato esercizio delle opzioni di cui agli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 21 novembre 1997, n. 461. Con riferimento, invece, agli investimenti all’estero di natura non finanziaria, essi devono essere indicati nel modulo RW soltanto nel periodo d’imposta in cui hanno prodotto redditi imponibili in Italia. Pertanto, nel caso ad esempio degli immobili situati all’estero, gli stessi devono essere indicati nel modulo RW relativo al periodo d’imposta in cui sono dati in locazione ovvero formano oggetto di cessione imponibile in Italia. Inoltre, vanno indicati gli immobili che sono assoggettati ad imposte sui redditi nello Stato estero anche se tenuti a disposizione, come accade, ad esempio, in Spagna. Di contro, non deve essere indicato nel modulo RW l’immobile tenuto a disposizione in un Paese che non ne prevede la tassazione ai fini delle imposte sui redditi (come ad esempio in Francia). Infatti, in tal caso l’immobile non è produttivo di redditi imponibili neanche in Italia ai sensi dell’articolo 70, comma 2, del TUIR e, pertanto, il contribuente, non avendo violato le norme sul “monitoraggio fiscale”, non può accedere alla procedura di emersione. Tuttavia, in questa fattispecie le violazioni degli obblighi inerenti il “monitoraggio fiscale” potrebbero essersi verificate precedentemente, per esempio, all’atto del trasferimento all’estero delle somme utilizzate per l’acquisto dell’immobile ovvero in precedenti periodi di imposta nei quali il contribuente abbia locato l’immobile. In tali casi, anche se il presupposto (omessa compilazione del modulo RW) non è attuale, il contribuente può comunque accedere allo scudo fiscale. Tra gli investimenti all’estero da indicare nel modulo RW vi rientrano anche gli oggetti preziosi, le opere d’arte e gli yacht nel periodo d’imposta in cui sono impiegati in attività produttive di redditi imponibili in Italia. È il caso, ad esempio, della locazione di imbarcazioni, opere d’arte, oggetti preziosi. L’obbligo di compilazione del modulo RW riguarda, oltre che le consistenze dei predetti investimenti ed attività detenuti all’estero al termine del periodo d’imposta, anche i trasferimenti da, verso e sull’estero che nel corso del periodo d’imposta hanno interessato i suddetti investimenti ed attività, se l’ammontare complessivo dei movimenti effettuati nel corso del medesimo periodo, computato tenendo conto anche dei disinvestimenti, sia stato superiore a euro 10.000. Quest’obbligo sussiste anche se al termine del periodo d’imposta i soggetti interessati non detengono investimenti all’estero né attività estere di natura finanziaria, in quanto a tale data è intervenuto il disinvestimento o l’estinzione dei rapporti finanziari, e qualunque sia la modalità con cui sono stati effettuati i trasferimenti (attraverso intermediari residenti, attraverso intermediari non residenti o in forma diretta tramite trasporto al seguito). Fermo restando quanto finora precisato, si fa presente che l’esigenza di rendere più incisivi i presidi posti in ambito internazionale a tutela del corretto assolvimento degli obblighi tributari impone una revisione p e n a l e Gazzetta F O R E N S E dell’interpretazione della disposizione recata nell’articolo 4 del decreto legge n. 167 del 1990 nella parte in cui connota gli investimenti all’estero da indicare nel modulo RW come quelli “… attraverso cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia… “In particolare, per tener conto della suddetta esigenza, si ritiene che la riportata previsione normativa vada da ora in poi intesa come riferita non solo a fattispecie di effettiva produzione di redditi imponibili in Italia ma anche ad ipotesi in cui la produzione dei predetti redditi sia soltanto astratta o potenziale. Pertanto, a partire dalla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in corso, i contribuenti saranno tenuti ad indicare nel modulo RW non soltanto le attività estere di natura finanziaria ma anche gli investimenti all’estero di altra natura, indipendentemente dalla effettiva produzione di redditi imponibili in Italia. Esemplificando, quindi, dovranno essere sempre indicati anche gli immobili tenuti a disposizione, gli yacht, gli oggetti preziosi e le opere d’arte anche se non produttivi di redditi. In ogni caso non è consentito rimpatriare o regolarizzare le attività che alla data del 31 dicembre 2008 erano detenute in Italia. Conseguentemente non rientrano tra le attività regolarizzabili il denaro e le attività finanziarie che, pur costituite all’estero, per esempio quale corrispettivo di una prestazione lavorativa, e ivi detenute in violazione degli obblighi del “monitoraggio fiscale”, sono state trasferite in Italia prima della predetta data. Gli intermediari abilitati sono: 1. banche italiane; 2. società di intermediazione mobiliare (SIM) di cui all’articolo 1, comma 1, lettera e), del testo unico della finanza, approvato con il decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (TUF); 3. società di gestione del risparmio (SGR) previste dall’articolo 1, comma 1, lettera o), del TUF, limitatamente alle attività di gestione su base individuale di portafogli di investimento per conto terzi9. L’operazione di regolarizzazione è tuttavia condizionata alla circostanza che le attività finanziarie e patrimoniali siano detenute, a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008, in un Paese dell’Unione Europea o in un Paese aderente all’accordo sullo Spazio Economico Europeo (SEE) che garantiscono un “effet- 9 Al riguardo si fa presente che, a seguito delle modifiche apportate all’articolo 33 del TUF dal decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 274, le SGR possono svolgere, a decorrere dal 22 ottobre 2003, attività di custodia e amministrazione di strumenti finanziari non solo con riferimento ad una gestione individuale di portafoglio, ma anche in relazione alle quote di OICR dalle stesse istituiti; - società fiduciarie di cui alla legge 23 novembre 1939, n. 1966; - agenti di cambio iscritti nel ruolo unico previsto dall’articolo 201 del TUF; - poste Italiane S.p.A.; - stabili organizzazioni in Italia di banche e di imprese di investimento non residenti F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e tivo” scambio di informazioni fiscali in via amministrativa. La decisione di aderire alla “sanatoria fiscale” dovrebbe prendere le mosse da una preventiva analisi dell’attività dete­nuta all’estero e della sua ubicazione, al fine di determinare quali capitali si posso­no continuare a tenere fuori dal territo­rio italiano e quelli che, al contrario, devo­no essere necessariamente rimpatriati. In ogni caso, un’attenta valutazione è ne­cessaria per consentire al contribuente diprendere coscienza delle scelte che do­vrà porre in essere e dell’impatto econo­mico che dovrà sopportare in relazione sia al rispetto delle disposizioni nazionali sia di quelle straniere ove risultano loca­lizzate le attività da far “rientrare”. La regolarizzazione non è altresì consentita per le attività detenute in Paesi extra UE, quali, ad esempio, la Svizzera, Montecarlo e San Marino, per le quali è prevista esclusivamente la possibilità del rimpatrio. Tuttavia, tenuto conto della disposizione di cui all’articolo 56 del trattato 25 marzo 1957 istitutivo della Comunità europea, che vieta qualsiasi restrizione ai movimenti di capitale non solo tra Stati membri, ma anche tra Stati membri e paesi terzi, si deve ritenere possibile la regolarizzazione delle attività detenute anche nei Paesi extra UE con i quali è in atto un effettivo scambio di informazioni secondo il recente standard ONU/OCSE. Pertanto, in aggiunta ai Paesi della UE e alla Norvegia e all’Islanda, la regolarizzazione è consentita da tutti i Paesi dell’OCSE che non hanno posto riserve alla possibilità di scambiare informazioni bancarie. Si tratta, in particolare, dei seguenti Paesi: Australia, Canada, Corea del Sud, Giappone, Messico, Nuova Zelanda, Stati Uniti e Turchia. Per l’individuazione del Paese di detenzione delle attività da regolarizzare rileva quello in cui le attività erano detenute alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto (5 agosto 2009). Nel caso in cui le attività finanziarie siano detenute, invece, in cassette di sicurezza, si ritiene che l’operazione di regolarizzazione possa essere effettuata soltanto previo effettivo deposito delle attività stesse presso l’intermediario estero tenuto a rilasciare la predetta documentazione. La responsabilità in ordine alla veridicità e provenienza della certificazione ricade esclusivamente sull’interessato e sul soggetto che l’ha rilasciata, che ne rispondono a tutti gli effetti di legge. Se la regolarizzazione afferisce investimenti e attività di natura diversa da quella finanziaria non è richiesta la certificazione da parte degli intermediari non residenti (anche se detti investimenti ed attività siano detenute in cassette di sicurezza). Tuttavia, in mancanza della documentazione attestante il costo di acquisto, al fine di rendere attendibile il valore delle predette attività, si ritiene necessario che esso sia comprovato da un’apposita perizia di stima che deve essere conservata a cura del contribuente ma non 2 0 0 9 57 obbligatoriamente allegata alla dichiarazione riservata. Gli intermediari incaricati di ricevere le dichiarazioni riservate provvedono a svolgere i medesimi adempimenti previsti per il rimpatrio, richiamati nel successivo paragrafo 9, ad eccezione delle deroghe specificamente previste per il rimpatrio. Con riferimento alle operazioni di regolarizzazione, gli intermediari sono tenuti, come per il rimpatrio, all’effettuazione delle rilevazioni previste dall’articolo 1, commi 1 e 2, del decreto legge n. 167 del 1990, ma devono anche effettuare le comunicazioni di cui al comma 3 del medesimo articolo non previste, invece, per le operazioni di rimpatrio. Per perfezionare gli effetti dell’emersione, è dovuta un’imposta straordinaria, che tiene conto anche degli interessi e delle sanzioni, pari al 50 per cento del rendimento presunto delle attività rimpatriate o regolarizzate. Il rendimento si presume maturato nella misura del 2 per cento annuo per i cinque anni precedenti l’operazione di emersione. In sostanza, quindi, l’imposta è pari al 5 per cento delle attività indicate nella dichiarazione riservata. Si tratta di una presunzione assoluta che non tiene conto del periodo di effettiva detenzione all’estero delle attività che si intende rimpatriare o regolarizzare né del reale rendimento conseguito. Tale presunzione esplica effetti esclusivamente ai fini della determinazione dell’imposta straordinaria e non incide sugli altri profili applicativi della normativa sullo scudo fiscale. Supponendo, ad esempio, che sia effettuato il rimpatrio di una somma pari a € 1.000.000 il cui rendimento lordo presunto è pari a € 20.000 per ciascun anno (per un totale di € 100.000 nei cinque anni precedenti), ne consegue che l’imposta straordinaria dovuta è pari a € 50.000. Non è consentito lo scomputo di eventuali perdite, né il riconoscimento di ritenute o crediti, anche per imposte eventualmente subite all’estero. Tale imposta, inoltre, non costituisce per il contribuente un importo deducibile né compensabile, ai fini di alcuna imposta, tassa o contributo. È appena il caso di precisare che l’imposta straordinaria va commisurata all’importo indicato nella dichiarazione riservata delle attività detenute in data non successiva al 31 dicembre 2008 e non va applicata ai rendimenti realizzati a decorrere dal 1° gennaio 2009 e fino alla data di presentazione della dichiarazione riservata, sui quali sono dovute le ordinarie imposte, anche attraverso l’intervento degli intermediari. Come accennato, ai fini dell’operazione di emersione, il contribuente è tenuto a redigere una dichiarazione riservata e a consegnarla all’intermediario che riceve in deposito le somme e le altre attività finanziarie o che è incaricato della regolarizzazione10. 10 L’Agenzia delle Entrate da ultimo ha inviato una lettera informativa a circa 25 mila contribuenti che nel 2008 hanno effettuato movimenti finanziari verso l’estero per oltre 50 mila euro. penale Gazzetta 58 D i r i t t o e p r o c e d u r a L’effettivo pagamento dell’imposta straordinaria produce effetti preclusivi di accertamento L’adesione allo scudo fiscale prevede l’inibizione dei poteri di accertamento degli uffici in materia tributaria, previdenziale e penale, nonché l’estinzione delle sanzioni relative alla disponibilità delle attività emerse. In particolare,limitatamente agli imponibili rappresentati dalle somme o altre attività costituite all’estero e oggetto di rimpatrio o regolarizzazione, è inibita l’attività di accertamento tributario e contributivo relativa ai periodi d’imposta che hanno termine al 31 dicembre 2008. Ciò vale non soltanto per le attività esportate dall’Italia, ma anche per quelle comunque costituite direttamente al di fuori del territorio dello Stato, a fronte, per esempio, del conseguimento di un reddito erogato all’estero. La preclusione dell’attività di accertamento si riferisce in ogni caso a presupposti verificatisi fino al 31 dicembre 2008. È altresì preclusa l’attività di accertamento nei con- La comunicazione informativa non va sottovalutata in quanto derivano da informazioni acquisite attraverso strumenti informatici e costituiscono, quindi, elementi informativi che sono concretamente a disposizione delle autorità fiscali, che potranno in qualsiasi momento utilizzarli per attivare controlli sul destinatario. Quanto allo scudo, inviti, questionari e richieste ai contribuenti risultano preclusivi solo se sono, in modo circostanziato, riferiti a dati ed elementi che, non solo in via astratta, consentano all’amministrazione di verificare ipotesi accertabili. Le lettere di questi giorni non sono di questa natura, in quanto oltre a non circostanziare le ipotesi che darebbero luogo alla violazione, non richiedono al contribuente un’attività di risposta che consentirebbe al fisco di verificare ipotesi che diano luogo a accertamenti. La lettera ricorda gli obblighi dichiarativi, sia relativi ai redditi di fonte estera tassabili in Italia (per il principio della «worldwide taxation») sia in riferimento alle attività finanziarie suscettibili di produrre redditi all’estero superiori a 10 mila euro e imponibili in Italia. Con la lettera l’Agenzia vuole ricordare anche le sanzioni previste per le violazioni a tali adempimenti: dal 133 al 266% della maggiore imposta per la mancata indicazione dei redditi esteri, che sale a un importo tra il 160 e il 320% in caso di omissione della dichiarazione. Spazio, quindi, al giro di vite contro i paradisi fiscali recato dalla manovra estiva (D.L. n. 78/2009), che ha aumentato le sanzioni (fino al 480%) e introdotto una presunzione relativa di evasione per i redditi e gli investimenti non dichiarati e detenuti nei paradisi fiscali. Anche la regolarizzazione diviene un consiglio che l’ente preposto alle Entrate vuole ricordare al contribuente che sana la propria posizione prima che gli 007 del fisco scoprono il soggetto destinatario, in secondo momento, delle sanzioni applicative, in ossequio al principio di lotta all’evasione transfrontaliera che l’Agenzia sta da qualche mese fortemente potenziando. A differenza di quanto hanno fatto in parte le 40 mila lettere analoghe recapitate dalle Entrate il mese scorso relative alle residenze all’estero, questa comunicazione ha un mero effetto informativo, non precludendo dunque in alcun modo la possibilità di accedere allo scudoter. Risposta del contribuente. La lettera non richiede alcuna risposta da parte del contribuente. Tuttavia, qualora egli non si riconosca tra i soggetti che hanno movimentato più di 50 mila euro con l’estero nel 2008, dovrà segnalarlo, anche per consentire le opportune verifiche sulla correttezza delle segnalazioni degli operatori finanziari. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E fronti dei soggetti obbligati in via solidale con il contribuente11 (ad es. eredi12 e donatari). Mentre gli effetti della dichiarazione riservata non si producono automaticamente nei confronti di soggetti che detengono attività all’estero in comunione con altri soggetti qualora soltanto questi ultimi abbiano effettuato le operazioni di emersione per cui occorre che ciascuno dei soggetti interessati presenti una distinta dichiarazione di emersione per la quota parte di propria competenza. Gli accertamenti sono preclusi anche con riferimento a tributi diversi dalle imposte sui redditi, sempreché si tratti di accertamenti relativi ad “imponibili” che siano riferibili alle attività oggetto di emersione. A tal fine si precisa che la preclusione opera automaticamente, senza necessità di prova specifica da parte del contribuente, in tutti i casi in cui sia possibile, anche astrattamente, ricondurre gli imponibili accertati alle somme o alle attività costituite all’estero oggetto di rimpatrio. Ne discende che, l’effetto preclusivo dell’accertamento può essere opposto, ad esempio, in presenza di contestazioni basate su ricavi e compensi occultati. L’effetto preclusivo dell’accertamento può essere opposto anche nei confronti di accertamenti di tipo “sintetico”, come nell’ipotesi di contestazione di un maggior reddito complessivo riferibile anche astrattamente alle attività oggetto di emersione. Di converso, gli effetti della dichiarazione riservata non possono essere fatti valere a tali fini qualora l’accertamento abbia ad oggetto elementi che nulla hanno a che vedere con attività per le quali si è usufruito del regime di emersione, come nel caso, ad esempio, di rilievi sulla competenza di oneri e in altre ipotesi in cui non possa configurarsi in astratto una connessione tra i maggiori imponibili accertati e le attività emerse. Al riguardo si precisa che il contribuente che intende opporre agli organi competenti gli effetti preclusivi ed estintivi delle operazioni di emersione deve farlo in sede di inizio di accessi, ispezioni e verifiche ovvero entro i trenta giorni successivi a quello in cui l’interessato ha formale conoscenza di un avviso di accertamento o di rettifica o di un atto di contestazione di violazioni tributarie, compresi gli inviti, i questionari e le richieste di cui agli articoli 51, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e all’articolo 32 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. 11 La norma estende la preclusione degli accertamenti anche ai predetti soggetti se e in quanto tenuti all’obbligazione tributaria in dipendenza degli imponibili accertati in capo al contribuente che ha presentato la dichiarazione riservata. 12 Nel caso in cui la dichiarazione riservata sia stata presentata dagli eredi, essi godono della preclusione degli accertamenti tributari relativi ai redditi del de cuius per i quali sono solidalmente obbligati. Tuttavia, in caso di rimpatrio, le attività non godono della riservatezza in capo agli eredi. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e La speciale “copertura” assicurata dalle operazioni di emersione opera – fino a concorrenza degli importi esposti nella dichiarazione riservata – sui maggiori imponibili accertati, rappresentati dalle somme o dalle attività rimpatriate o regolarizzate. In tal caso, gli organi di accertamento determinano l’eventuale maggiore imposta dovuta su un ammontare pari alla differenza tra l’importo che sarebbe stato imponibile in assenza delle operazioni in questione e quello del denaro e delle altre attività dichiarate. L’eventuale eccedenza dell’importo rimpatriato o regolarizzato rispetto a quello accertato può essere utilizzato, fino a concorrenza, a copertura di maggiori imponibili accertati in occasione di successivi ulteriori accertamenti, semprechè sussista l’astratta riferibilità tra i maggiori imponibili accertati e le attività emerse. Con riferimento alle operazioni di emersione effettuate dalle imprese estere controllate o collegate di cui agli articoli 167 e 168 del TUIR, si fa presente che gli importi regolarizzati o rimpatriati dalle CFC producono l’effetto di copertura in capo al partecipante nei limiti della quota da questi detenuta nella società. L’importo così determinato copre anche i redditi conseguiti dalla CFC imputabili per trasparenza al partecipante stesso. Ai sensi del comma 4 dell’articolo 13-bis del decreto (che richiama gli articoli 14 e 15 del decreto legge n. 350 del 2001), le operazioni di emersione non producono gli effetti previsti qualora, alla data di presentazione della dichiarazione riservata, la violazione sia stata già constatata ovvero siano iniziati accessi, ispezioni e verifiche o altre attività di accertamento tributario e contributivo nei confronti del contribuente ovvero siano stati emanati nei confronti del medesimo avvisi di accertamento o di rettifica o atti di contestazione di violazioni tributarie, compresi i predetti inviti, questionari e richieste. Ne discende che le operazioni di emersione non producono effetti con riferimento all’anno o agli anni ai quali si riferisce l’attività di controllo e quindi non possono operare a copertura dei maggiori imponibili eventualmente accertati. Tuttavia, tali effetti possono essere opposti qualora per lo stesso anno l’Amministrazione finanziaria abbia successivamente avviato un’ulteriore attività di controllo. A tali fini, occorre tener presente che non deve essere considerata una causa ostativa alla produzione degli effetti dell’emersione la comunicazione derivante dalla liquidazione delle imposte in base alle dichiarazioni presentate dai contribuenti, effettuata dall’Amministrazione finanziaria né quella derivante dal controllo formale delle medesime dichiarazioni. L’avvio di un’attività di controllo nei confronti di una società di persone e di un soggetto ad essa equiparato (associazione) preclude la produzione degli effetti dello scudo fiscale in capo al socio/associato relativamente ai redditi della società imputabili a quest’ultimo. Chiaramente non è ravvisabile alcuna causa ostativa 2 0 0 9 59 qualora il socio/associato rimpatri o regolarizzi, successivamente all’inizio di un’attività istruttoria nei confronti della società/associazione, attività personali detenute o costituite all’estero non correlabili ai redditi che gli derivano per trasparenza dalla società/associazione. Gli intermediari non devono comunicare all’Amministrazione finanziaria i dati e le notizie inerenti ai conti di deposito che accolgono il denaro e le attività finanziarie rimpatriate. Non devono essere altresì comunicati i dati relativi ai conti di sub deposito nei quali sono immessi denaro e attività finanziarie rimpatriate dal contribuente per il tramite di altri intermediari finanziari che sono impossibilitati a gestire direttamente i conti relativi all’attività svolta a favore della propria clientela. Su tali conti, tuttavia, potranno essere depositati esclusivamente le attività rimpatriate di cui alle dichiarazioni riservate prodotte dai contribuenti interessati, restando escluso qualunque ulteriore accredito, tranne quello riguardante somme derivanti dall’alienazione delle attività rimpatriate, fino a concorrenza dell’importo indicato nella dichiarazione riservata e salvo quanto chiarito di seguito in ordine agli atti di disposizione delle attività rimpatriate. Tale condizione, naturalmente, va verificata confrontando il corrispettivo di cessione delle attività finanziarie con l’ammontare complessivo delle attività rimpatriate. Allo stesso modo, entro il predetto limite, si ritiene che potranno essere accreditate le attività finanziarie acquisite dall’interessato con l’utilizzo del denaro rimpatriato o derivante dall’alienazione delle attività rimpatriate ovvero anche tramite operazioni di permuta dei titoli rimpatriati. Al riguardo, si fa presente che le attività finanziarie in tal modo acquisite devono essere valorizzate secondo i criteri ordinariamente applicabili ai fini dell’attribuzione del costo fiscalmente riconosciuto alle partecipazioni, titoli e agli altri strumenti finanziari suscettibili di produrre redditi diversi di natura finanziaria. Il regime della riservatezza dei predetti conti si ritiene applicabile, oltre l’importo indicato nella dichiarazione riservata, anche ai redditi di capitale e alle plusvalenze derivanti dal denaro e dalle attività finanziarie rimpatriate realizzati anche successivamente al perfezionamento dell’operazione di emersione, a condizione che si tratti di proventi assoggettati a tassazione definitiva (ritenute alla fonte a titolo d’imposta o imposta sostitutiva) da parte dell’intermediario depositario. Con riferimento, invece, ai redditi sottoposti a ritenuta d’acconto, il regime della riservatezza riguarda esclusivamente i redditi conseguiti fino alla data di presentazione della dichiarazione riservata sempreché il contribuente abbia esercitato l’opzione di cui all’articolo 14, comma 8, del decreto legge n. 350 del 2001. In caso di trasferimento tra intermediari del denaro e delle altre attività finanziarie oggetto di rimpatrio, ri- penale Gazzetta 60 D i r i t t o e p r o c e d u r a mane fermo il regime della riservatezza, sempreché il nuovo rapporto sia intestato al medesimo contribuente. L’intermediario che effettua il trasferimento deve rilasciare apposita comunicazione al successivo intermediario al fine di attestare l’ammontare per il quale vige il regime della riservatezza cui è tenuto l’intermediario che riceve il trasferimento a decorrere dalla data di ricezione della comunicazione. A fronte della deroga ai poteri di controllo degli uffici dell’Amministrazione, rimangono valide le cautele volte ad evitare che gli intermediari e, tramite questi, gli stessi contribuenti possano utilizzare le disposizioni di deroga per ostacolare i controlli dell’Amministrazione con riferimento ad informazioni diverse da quelle riguardanti le operazioni di rimpatrio. È stabilito, quindi, che qualora l’intermediario non si limiti a garantire la riservatezza dei dati e delle notizie con riferimento esclusivamente alle operazioni di emersione, lo stesso è tenuto a fornire all’Amministrazione finanziaria non solo i dati relativi alle predette operazioni ma anche quelli inerenti ad operazioni diverse. Si fa presente inoltre che, relativamente alle attività oggetto di rimpatrio e di regolarizzazione, i contribuenti che abbiano presentato la dichiarazione riservata sono esonerati dall’obbligo di indicare le medesime attività nella dichiarazione dei redditi (modulo RW) relativa al periodo d’imposta in corso alla data di presentazione della dichiarazione riservata. Si evidenzia che l’effettuazione delle operazioni di emersione consente di evitare, in caso di successivo accertamento della detenzione di attività all’estero in violazione degli obblighi di segnalazione previsti dalla disciplina sul “monitoraggio fiscale”, la presunzione introdotta dal citato articolo 12 del decreto in base alla quale gli investimenti e le attività finanziarie detenute in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato si considerano costituiti mediante redditi sottratti ad imposizione in Italia. Ai sensi del comma 3 dell’articolo 13-bis del decreto, le operazioni di emersione non possono in ogni caso costituire elemento utilizzabile a sfavore del contribuente in ogni sede amministrativa o giudiziaria, civile, amministrativa ovvero tributaria, in via autonoma o addizionale, con esclusione dei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto legge n. 103 del 2009 (4 ottobre 2009). Ai soli fini tributari, si ritiene che tale divieto valga con riferimento non solo ai procedimenti direttamente riferibili al contribuente che ha effettuato le operazioni di emersione, ma anche a quelli concernenti soggetti riconducibili al contribuente stesso in qualità di dominus. Pertanto, ad esempio, le operazioni di rimpatrio o di regolarizzazione effettuate dal dominus di una società di capitali non possono essere utilizzate ai fini dell’avvio o nell’ambito di un’attività di controllo fiscale nei confronti della medesima società. p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Allo stesso modo le operazioni di emersione non determinano accertamenti nei confronti dei soggetti interposti attraverso i quali il contribuente ha detenuto all’estero le attività rimpatriate o regolarizzate. Si tratta, in definitiva, di una disposizione che non agisce sul piano degli effetti dell’emersione, disciplinati dal comma 4 dell’articolo 13-bis del decreto e in precedenza esaminati, ma che mira ad evitare che lo scudo possa essere utilizzato a sfavore del contribuente ai fini dell’accertamento di violazioni tributarie per le quali non valgono gli effetti dello scudo stesso. La tutela penale Con riferimento agli effetti penali delle operazioni di emersione, si evidenzia che l’effettivo pagamento dell’imposta straordinaria dovuta sulle attività rimpatriate o regolarizzate rende non punibili i reati indicati nell’articolo 8, comma 6, lettera c), della legge 27 dicembre 2002, n. 289. Il legislatore ha previsto per coloro che aderiscono allo scudo fiscale l’applicazione di effetti premiali anche in materia penale. Si tratta, comunque, di una copertura che non si estende a tutti i reati tributari ed a quelli che ad essi sono collegati, ma che offre una garanzia solida di non punibilità per gran parte degli illeciti penali tributari13. Nel testo iniziale della norma la copertura penale era stata limitata ai soli reati di dichiarazione infedele e omessa dichiarazione (articolo 4 e 5 del D.lgs n. 74/2000), ma, nella formulazione definitiva della norma la copertura è stata estesa a tutti i reati coperti dai precedenti condoni14 ovvero: dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture e/o altri documenti inesistenti (art. 2 del D.lgs 74/2000), dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art.3 del D.lgs n. 74/2000), dichiarazione infedele (art. 4 del cit. d.lgs); omessa dichiarazione dei redditi (art. 5 del cit. D.lgs) occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 del cit. Dlgs). Di converso restano senza “protezione” i seguenti reati tributari: emissione di fatture false, sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, condotte di omesso versamento delle ritenute e dell’Iva (per un ammontare superiore a 50.000 euro), indebita compensazione, riciclaggio di proventi illeciti, impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita15. 13 Allo scopo di favorire un adesione massiccia allo scudo fiscale il legislatore, nella fase della formulazione definitiva delle norme, ha esteso l’allargamento dell’esclusione di effetti penali per coloro che decidono di usare lo scudo. 14 Tale allargamento è stato fortemente criticato dai primi commentatori i quali hanno liquidato la scelta del legislatore come una amnistia mascherata. 15 Lo scudo fiscale si pone in contrasto con la sentenza della Corte di Cassazione n. 20068 del 18 settembre 2009 che ha espresso il principio secondo cui non è ammissibile una rinuncia dell’amministrazione all’accertamento dell’Iva, cosa che si verificherebbe come conseguenza dell’adesione alla procedura di emersione. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e La non punibilità è estesa ad altri reati, commessi per eseguire o nascondere i reati prece­denti, tra cui: • fal­sità materiale, • falsità ideolo­gica in atto pubblico, • falsità nelle scritture private, • sop­pressione e occultamento di atti • false comunica­zioni sociali. Il provvedimento riguarda in tal modo anche le società estere controllate (spesso situate in paradisi fiscali), verso cui confluiscono i capitali sommersi. L’esclusione della punibilità, non essendo connessa, come nel provvedimento del 2002, ad un condono anche dei redditi prodotti all’estero, non ha portata generale ma opera limitatamente Condizione necessaria per l’esclusione della punibilità è l’assenza di un procedimento penale già in corso alla data di presentazione della dichiarazione riservata. Perché i reati siano non punibili occorre però l’esistenza di un collegamento causale, come si desume dalla formulazione dell’articolo 8, comma 6, lettera c), della. legge 289/02, che precisa che l’esclusione della punibilità scatta «quando tali reati siano stati commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari, ovvero, per conseguirne il profitto e siano riferiti alla stessa pendenza o situazione tributaria». Per quanto riguarda, in particolare, il falso in bilancio, il richiesto collegamento con lo scudo fiscale fasi che l’estinzione riguardi soltanto quelle falsità che si risolvono in un’evasione d’imposta penalmente rilevante e non riguardi, invece, quelle che da esso sono svin- La Corte nella citata sentenza fa riferimento alla pronuncia della Corte di Giustizia delle Comunità europee in causa C-132/06 resa a seguito della procedura d’infrazione aperta dalla Commissione europea contro l’Italia, ai sensi dell’art. 228 del Trattato CE, sugli articoli 8 e 9 della legge n. 282 del 27 dicembre 2002 per contrasto con gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva comunitaria in materia di Iva nonché in contrasto con l’art. 10 del suddetto Trattato. La Corte di Giustizia ha precisato come ogni eccezione alla regola dell’effettiva applicazione e percezione dell’Iva, si traduce da un lato, in un grave di pregiudizio a scapito di imprese tanto italiane che di altri Stati membri, dall’altro in una grave lesione del principio una “sana concorrenza” all’interno del mercato comune. Se infatti gli Stati beneficiano di una certa discrezionalità nell’utilizzare i mezzi per garantire il rispetto degli obblighi a carico dei contribuenti, tale libertà incontra un limite nell’obbligo di garantire una riscossione effettiva delle risorse proprie della Comunità e nella necessità di “non creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti… sia all’interno di uno degli Stati che all’interno di tutti loro”. Secondo la Corte di Cassazione, l’assoluta indisponibilità da parte degli Stati membri -affermata dai Giudici comunitari- di una puntuale applicazione della disciplina comunitaria in materia di Iva, comporta che anche misure di tenore diverso dal cosiddetto condono tombale incorrono in tale rigoroso divieto [M. Villani. Il nuovo scudo fiscale ter]. Il governo per superare tali obiezioni ha sostenuto che “lo scudo fiscale, nei limiti delle attività regolarizzate, protegge anche dagli accertamenti IVA, poiché non implica una rinuncia generale ed indiscriminata alla riscossione dell’imposta, non può considerarsi una misura di condono contraria alla normativa comunitaria (Risposta al question time dei parlamentari interroganti da parte del sottosegretario all’economia Daniele Folgora). 2 0 0 9 61 colate (come l’ipervalutazione di poste del bilancio per non perdere affidamenti bancari). Lo scudo deve essere effettuato personalmente perchè non è previsto per le società: per esempio dall’amministratore della società per estinguere i suoi illeciti arricchimenti, rilevanti a titolo di reato tributario a lui riferibile. Ai sensi del comma 7 dell’art. 14 del D.L. 250 del 2001, lo scudo fiscale non produce effetti estintivi in ordine ai reati per i quali gli interessati hanno avuto conoscenza formale del procedimento penale che normalmente si verifica o con la notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, ex art. 415-bis c.p.p., o nell’ipotesi della notifica di un atto c.d. garantito ovvero notifica di un sequestro o di una perquisizione oppure avviso dell’informazione di garanzia16. Atteso che la legge nulla dice in ordine all’estensione degli effetti premiali si pone,, il problema dell’estensione ai concorrenti della causa estintiva (per esempio, al socio che ha concorso alla realizzazione dell’illecito o al consulente tecnico del contribuente). A tal riguardo si deve ricorrere all’ articolo 182 c.p. che dispone «salvo che la legge disponga altrimenti, l’estinzione del reato o della pena ha effetto soltanto per coloro ai quali la causa di estinzione si riferisce». Dunque può beneficiare della causa estintiva l’esecutore diretto del reato (non è prevista un’eccezione, ma poiché questi ha pagato, non sarebbe logico che lo Stato pretendesse un secondo pagamento da parte del concorrente: per l’erario si tratterebbe di un illecito arricchimento). In ordine alla compatibilità costituzionale della norma non va taciuto che la Corte costituzionale (con la sentenza n. 19 del 1995) aveva ammesso l’estensione al concorrente nel caso di scudo effettuato dalla società17. 16 Va evidenziato come la disciplina della non punibilità, in adesione all’accesso allo scudo fiscale, rinvia all’art. 8, comma 6, lett. c) della legge n. 289/02 che, in sede interpretativa aveva statuito il momento preclusivo all’accertamento e alla contestazione all’esercizio dell’azione penale della quale il contribuente ha formale conoscenza, ovvero: avviso di fissazione dell’udienza preliminare, avviso dei fissazione di giudizio immediato, notifica del decreto penale di condanna. 17 La Corte ha scritto “alla luce dei canoni ermeneutici secondo cui, in generale, tra le possibili interpretazioni della norma va seguita quella conforme a Costituzione, e, in particolare, in materia di amnistia, benché il legislatore goda di ampia discrezionalita’ nella scelta del criterio di distinzione fra reati amnistiabili e non, occorre pur sempre muovere dal presupposto che egli abbia voluto escludere sperequazioni normative fra attivita’ criminose omogenee che non troverebbero alcuna plausibile giustificazione, deve ritenersi che nel provvedimento di clemenza previsto dall’art. 1 del Dpr. n. 23 del 1992, per i reati in materia di imposte dirette e di imposta sul valore aggiunto, sia compreso, quando il contribuente abbia definito la pendenza con il fisco secondo le disposizioni del titolo VI della legge 30 dicembre 1991, n. 413, anche il caso del concorrente nel reato non contribuente. Ne’ a cio’ e’ di ostacolo la lettera della legge, giacche’, pur essendo l’amnistia condizionata alla presentazione della dichiarazione integrativa a alla definizione del periodo di imposta ad opera del contribuente o di chiunque vi abbia interesse, l’oggettivita’ di tale presupposto non consente di affermare che il legislatore abbia voluto limi- penale Gazzetta 62 D i r i t t o e p r o c e d u r a In sede di prime applicazioni, l’Agenzia delle entrate con la circolare n. 43/E/09 ha precisato che diventano punibili in tutti i casi in cui è avviata un procedimento di cui l’interessato abbia avuto formale conoscenza alla data di presentazione della dichiarazione riservata. L’interpretazione, coerente, con i precedenti in materia, sembra restrittiva in quanto fa riferimento all’avvio del procedimento penale (iscrizione nel registro degli indagati) e non all’esercizio dell’azione penale. La causa di esclusione prevede due distinti requisiti l’avvio del procedimento penale e la formale conoscenza, da parte del contribuente interessato dell’avvio del procedimento (che corrisponde alla notifica di qualsiasi atto inerente l’attuazione delle garanzie difensive18) principio già condiviso dalla giurisprudenza formatasi in vigenza dello scudo precedente19 tare a chi abbia posto in essere detti adempimenti la causa di estinzione del reato e quindi gli effetti che, sul piano penale, conseguono alla definizione del rapporto tributario. Va quindi respinta la censura di incostituzionalita’ avanzata sul contrario assunto che anche quando il contribuente se ne avvantaggiasse, il concorrente nel reato estraneo al rapporto tributario fosse escluso dall’amnistia. (Non fondatezza della questione di legittimita’ costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 1, commi 1 e 2, d.P.R. 20 gennaio 1992, n. 23). – Sui limiti della discrezionalita’ del legislatore riguardo ai criteri di distinzione tra reati amnistiabili e non, v. Sent. n. 59/1980. red.: S.P” 18 Il regime della riservatezza non opera in presenza di procedimenti penali atteso che gli intermediari sono obbligati a fornire dati e notizie idonei a formare fonti di prova per l’attività di contrasto al riciclaggio ed a tutti gli altri reati non coperti dallo scudo in particolar modo alla normativa di contrasto ai delitti di stampo mafioso e o terrorristico. 19 Infatti è stato chiarito che “in tema di reati finanziari, la non applicabilità dell’esclusione della punibilità prevista dal cosiddetto condono fiscale di cui alla l. 289/2002 in caso di esercizio dell’azione penale della quale il contribuente abbia avuto formale conoscenza entro la data di presentazione della dichiarazione per la definizione automatica, si determina anche soltanto con la conoscenza da parte del legale rappresentante della persona giuridica, non essendo necessaria la cd. doppia conoscenza formale in caso di incriminazione dei legali rappresentanti di società in relazione a reati ascrivibili alle società medesime (Cass., Sez. III, sent. n. 2896 del 18 ottobre 2006, ud. del 18 ottobre 2006), C.L. (rv. 235642). p e n a l e Gazzetta F O R E N S E F O R E N S E ● Rassegna di legittimità ● A cura di Alessandro Jazzetti Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Andrea Alberico Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università degli studi di Napoli “Federico II” n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 63 Atti e provvedimenti del giudice – Declaratoria immediata di determinate cause di non punibilità – Sussistenza di una causa di estinzione del reato – Pronuncia di sentenza assolutoria nel merito – Condizioni In presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 comma secondo, c.p.p. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione “ictu oculi”, che a quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento. SS.UU, sentenza 28 maggio 2009, n. 35490, Rv. 244274; Pres. Gemelli T., Est. Romis V., Rel. Romis V., Imp. Tettamanti., P.M. Ciani G. (Parz. Diff.). (Annulla in parte senza rinvio, App. L’Aquila, 20 ottobre 2004). Azione penale – Notizie di reato – Registro – Iscrizione della notizia di reato – Obblighi del pubblico ministero – Individuazione In tema di iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., il pubblico ministero, non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto di cui abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato, è tenuto a provvedere alla iscrizione della “notitia criminis” senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo. Ugualmente, una volta riscontrati, contestualmente o successivamente, elementi obiettivi di identificazione del soggetto cui il reato è attribuito, il pubblico ministero è tenuto a iscriverne il nome con altrettanta tempestività. SS.UU, sentenza 24 settembre 2009, n. 40538, Rv. 244378; Pres. Gemelli T., Est. Macchia A., Rel. Macchia A., Imp. Lattanti, P.M. Palombarini G. (Parz. Diff.). (Annulla in parte con rinvio, Trib. lib. Napoli, 10 marzo 2009). Azione penale – Notizie di reato – Registro – Ritardata iscrizione della “notitia criminis” con il nome dell’indagato – Potere di retrodatazione del giudice – Esclusione – Conseguenze Il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel registro delle notizie di reato, il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che al G.i.p. sia consentito stabilire una diversa decorrenza, sicché gli eventuali ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nome della persona cui il reato è attribui- penale Gazzetta 64 D i r i t t o e p r o c e d u r a to, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall’art. 407, comma terzo, c.p.p., fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del P.M. che abbia ritardato l’iscrizione. (Fattispecie di ordinanza di misura coercitiva sottoposta a riesame). SS.UU, sentenza 24 settembre 2009, n. 40538, Rv. 244378; Pres. Gemelli T., Est. Macchia A., Rel. Macchia A., Imp. Lattanti, P.M. Palombarini G. (Parz. Diff.). (Annulla in parte con rinvio, Trib. lib. Napoli, 10 marzo 2009). Competenza – Competenza per connessione – Effetti – Sulla competenza per territorio – pluralità di reati connessi – Impossibilità di individuare il luogo in cui è stato commesso il reato più grave – Criteri di individuazione del giudice competente – Regole fissate dall’art. 9, commi secondo e terzo, c.p.p. – Possibilità – Riferimento in ordine decrescente ai restanti reati in ordine di gravità – Necessità La competenza per territorio, nel caso in cui non sia possibile individuare, a norma degli artt. 8 e 9, comma primo, c.p.p., il luogo di commissione del reato connesso più grave, spetta al giudice del luogo nel quale risulta commesso, in via gradata, il reato successivamente più grave fra gli altri reati; quando risulti impossibile individuare il luogo di commissione per tutti i reati connessi, la competenza spetta al giudice competente per il reato più grave, individuato secondo i criteri suppletivi indicati dall’art. 9, commi secondo e terzo, c.p.p.. SS.UU., sentenza 16 luglio 2009, n. 40537, Rv. 244330; Pres. Gemelli T., Est. Franco A., Rel. Franco A., Imp. Confl. comp. in proc. Orlandelli, P.M. Ciani G. (Conf.) (Dichiara competenza). Difesa e difensori – Colloqui del difensore – Differimento – Potere d’ufficio del giudice – Esclusione Il giudice delle indagini preliminari può disporre il differimento del colloquio dell’indagato con il difensore soltanto su richiesta del pubblico ministero. (Fattispecie in cui il giudice aveva differito il colloquio all’esito dell’udienza di convalida del fermo). Cass., Sez. VI, sentenza 17 settembre 2009, n. 39941, Rv. 244265; Pres. De Roberto G., Est. Ippolito F., Rel. Ippolito F., Imp. Di Nardo e altro, P.M. Galati G. (Conf.). (Rigetta, Trib. Napoli, 19 maggio 2009). Diritto internazionale – Trattati e convenzioni internazionali – Unione europea – Decisioni quadro – Obbligo di interpretazione conforme – Interpretazione “in malam partem” della norma penale nazionale – Esclusione – Fattispecie in tema di confisca per equivalente L’obbligo del giudice di interpretare il diritto nazio- p e n a l e Gazzetta F O R E N S E nale conformemente al contenuto delle decisioni quadro adottate nell’ambito del titolo VI del Trattato sull’Unione europea non può legittimare l’integrazione della norma penale interna quando una simile operazione si traduca in una interpretazione in “malam partem”. (In applicazione di tale principio, la Corte ha escluso che la disciplina in tema di confisca contenuta nella decisionequadro del Consiglio dell’Unione Europea 2005/212/ GAI del 24 febbraio 2005 possa essere utilizzata per estendere la confisca per equivalente di cui all’art. 322 ter primo comma c.p. anche al profitto del reato). SS.UU., sentenza 25 giugno 2009, n. 38691, Rv. 244191; Pres. Gemelli T., Est. Fiale A., Rel. Fiale A., Imp. Caruso, P.M. Palombarini G. (Diff.). (Annulla senza rinvio, Trib. lib. Roma, 09 luglio 2008). Impugnazioni – Cassazione – Motivi di ricorso – In genere – Vizio di motivazione – Rilevabilità in presenza di una causa di estinzione del reato – Esclusione In presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva. (In motivazione, la S.C. ha affermato che detto principio trova applicazione anche in presenza di una nullità di ordine generale). SS.UU., sentenza 28 maggio 2009, n. 35490, Rv. 244275; Pres. Gemelli T., Est. Romis V., Rel. Romis V., Imp. Tettamanti, P.M. Ciani G. (Parz. Diff.). (Annulla in parte con rinvio, App. L’Aquila, 20 ottobre 2004). Misure cautelari – Personali – Provvedimenti – Ordinanza del giudice – Requisiti – Motivazione – Tempo trascorso dal reato – Rilevanza in punto di motivazione – Fattispecie In tema di misure cautelari, il riferimento in ordine al “tempo trascorso dalla commissione del reato” di cui all’art. 292, comma secondo, lett. c) c.p.p., impone al giudice di motivare sotto il profilo della valutazione della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al tempo intercorrente tra tale momento e la decisione sulla misura cautelare, giacché ad una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento delle esigenze cautelari. (Fattispecie di ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa in relazione a fatti commessi più di tre anni prima). SS.UU., sentenza 24 settembre 2009, n. 40538, Rv. 244377; Pres. Gemelli T., Est. Macchia A., Rel. Macchia A., Imp. Lattanzi. P.M. Palombarini G. (Parz. Diff.). (Annulla in parte con rinvio, Trib. lib. Napoli, 10 marzo 2009). F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e Misure cautelari – Reali – In genere – Sequestro funzionale alla successiva confisca “per equivalente” di cui all’art. 3 2 2 ter comma primo c.p. – og­getto – equivalente del profitto – legittimità – esclusione – fattispecie in tema di peculato In tema di peculato, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca “per equivalente” disciplinata dall’art. 322 ter, comma primo c.p., può essere disposto, in base al testuale tenore della norma, soltanto per il prezzo e non anche per il profitto del reato. SS.UU., sentenza 25 giugno 2009, n. 38691, Rv. 244189; Pres. Gemelli T., Est. Fiale A., Rel. Fiale A., Imp. Caruso. P.M. Palombarini G. (Diff.). (Annulla senza rinvio, Trib. lib. Roma, 09 luglio 2008). Nullità – Nullità di ordine generale – Nullità a regime intermedio – Deducibilità – Imputato con due difensori – Omesso avviso di udienza ad uno solo di essi – Nullità a regime intermedio – Sanatoria – Mancata tempestiva deduzione – Condizioni per la deducibilità – Presenza dell’imputato – necessità – Esclusione. La nullità a regime intermedio, derivante dall’omesso avviso dell’udienza a uno dei due difensori dell’imputato, è sanata dalla mancata proposizione della relativa eccezione a opera dell’altro difensore comparso, pur quando l’imputato non sia presente. (In motivazione la Corte ha precisato che è onere del difensore presente, anche se nominato d’ufficio in sostituzione di quello di fiducia regolarmente avvisato e non comparso, verificare se sia stato avvisato anche l’altro difensore di fiducia ed il motivo della sua mancata comparizione, eventualmente interpellando il giudice). SS.UU., sentenza 16 luglio 2009, n. 39060, Rv. 244187; Pres. Gemelli T., Est. Rotella M., Rel. Rotella M., Imp. Aprea. P.M. Ciani G. (Conf.). (Rigetta, App. Napoli, 22 maggio 2006). Nullità – Nullità di ordine generale – Nullità a regime intermedio – Deducibilità – Assenza di uno dei due difensori di fiducia – Presenza dell’altro difensore – Sufficienza agli effetti della valida costituzione del rapporto processuale – Termine per eccepire la nullità – Individuazione La nullità di ordine generale a regime intermedio, derivante dall’omesso avviso ad uno dei due difensori di fiducia, deve essere eccepita a opera dell’altro difensore al più tardi immediatamente dopo gli atti preliminari, prima delle conclusioni qualora il procedimento non importi altri atti, in quanto il suo svolgersi (in udienza preliminare, riesame cautelare o giudizio) presume la rinuncia all’eccezione. (In motivazione la Corte ha ulteriormente affermato che non è possibile far valere successivamente l’interesse dell’imputato non comparso ad 2 0 0 9 65 essere assistito anche dal difensore non avvisato, in quanto tale interesse non è riconoscibile in sede di impugnazione del provvedimento conclusivo del giudice). SS.UU., sentenza 16 luglio 2009, n. 39060, Rv. 244187; Pres. Gemelli T., Est. Rotella M., Rel. Rotella M., Imp. Aprea. P.M. Ciani G. (Conf.). (Rigetta, App. Napoli, 22 maggio 2006). Persona giuridica – Società – In genere – Responsabilità da reato degli enti – Costituzione dell’ente nel procedimento a suo carico – Rappresentante legale imputato del reato presupposto – Incompatibilità – Nomina di un nuovo rappresentate – Necessità – Conferimento al rappresentante di poteri limitati al processo – Legittimità In tema di responsabilità da reato degli enti, la persona giuridica, non potendo costituirsi nel procedimento a suo carico attraverso il proprio rappresentante legale, qualora questi sia indagato o imputato del reato presupposto, deve provvedere alla sostituzione del rappresentante legale divenuto incompatibile ovvero nominarne altro con poteri limitati alla sola partecipazione al suddetto procedimento. Cass., Sez. VI, sentenza 19 giugno 2009, n. 41398, Rv. 244406; Pres. De Roberto G., Est. Fidelbo G., Rel. Fidelbo G., Imp. Caporello. P.M. Galati G. (Parz. Diff.). (Rigetta, Trib. Padova, 1 dicembre 2008). Persona giuridica – Società – In genere – Responsabilità da reato degli enti – Esercizio dei diritti di difesa – Formale costituzione dell’ente – Necessità – Esclusione In tema di responsabilità da reato degli enti, i diritti di difesa, con esclusione degli atti difensivi cosiddetti personalissimi, possono essere esercitati in qualunque fase del procedimento dal difensore nominato d’ufficio, anche qualora la persona giuridica non si sia costituita ovvero quando la sua costituzione debba considerarsi inefficace a causa dell’incompatibilità del rappresentante legale perché indagato o imputato del reato presupposto. Cass., Sez. VI, sentenza 19 giugno 2009, n. 41398, Rv. 244406; Pres. De Roberto G., Est. Fidelbo G., Rel. Fidelbo G., Imp. Caporello. P.M. Galati G. (Parz. Diff.). (Rigetta, Trib. Padova, 1 dicembre 2008). Persona giuridica – Società – In genere – Responsabilità da reato degli enti – Rappresentanza dell’ente nel procedimento a suo carico – Rappresentante legale dell’ente indagato per il reato presupposto – Incompatibilità – Illegittimità costituzionale – Manifesta infondatezza È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 39 D.Lgs. n. 231 del 2001, sollevata per la violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., penale Gazzetta 66 D i r i t t o e p r o c e d u r a nella parte in cui impedisce all’ente di partecipare al procedimento a suo carico con il proprio rappresentante legale, quando questi risulti essere imputato del reato presupposto della responsabilità dell’ente medesimo. Cass., Sez. VI, sentenza 19 giugno 2009, n. 41398, Rv. 244406; Pres. De Roberto G., Est. Fidelbo G., Rel. Fidelbo G., Imp. Caporello. P.M. Galati G. (Parz. Diff.). (Rigetta, Trib. Padova, 1 dicembre 2008). Persona giuridica – Società – In genere – Responsabilità da reato degli enti – Rappresentante legale dell’ente imputato del reato presupposto – Divieto assoluto di rappresentare l’ente nel procedimento – Sussistenza – Facoltà di nominare il difensore di fiducia dell’ente – Esclusione In tema di responsabilità da reato degli enti, il rappresentante legale incompatibile, perché indagato o imputato del reato presupposto, non può provvedere neppure alla nomina del difensore di fiducia dell’ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dall’art. 39 D.Lgs. n. 231 del 2001. Cass., Sez. VI, sentenza 19 giugno 2009, n. 41398, Rv. 244406; Pres. De Roberto G., Est. Fidelbo G., Rel. Fidelbo G., Imp. Caporello. P.M. Galati G. (Parz. Diff.). (Rigetta, Trib. Padova, 1 dicembre 2008). Prove – Mezzi di prova – Testimonianza – Incompatibilità – In genere – Persona offesa del reato di calunnia – Suo esame nel procedimento a carico del proprio accusatore – Veste sussumibile È incompatibile con l’ufficio di testimone la persona, già denunciata per la commissione di un fatto reato, che venga esaminata, su tale fatto, come persona offesa nel procedimento di calunnia nei confronti del proprio accusatore dovendo essa assumere, in relazione al collegamento probatorio tra i due reati, la veste di imputato di reato connesso o, ricorrendone le condizioni, di testimone assistito. Cass., Sez. VI, sentenza 28 maggio 2009, n. 32841, Rv. 244448; Pres. De Roberto G., Est. Conti G., Rel. Conti G., Imp. Erler. P.M. Febbraro G. (Diff.). (Annulla con rinvio, App. Trieste, 17 Maggio 2006). Rapporti giurisdizionali con autorità straniere – Mandato di arresto europeo – Consegna per l’estero – Provvedimento restrittivo: sentenza di condanna – Mancata acquisizione – Conseguenze In tema di mandato di arresto europeo, è legittima la decisione di consegna in forza di un M.A.E. esecutivo anche se non sia stata allegata o acquisita in via integrativa la copia della sentenza di condanna a pena detentiva che ha dato luogo alla richiesta, qualora la documentazione in atti contenga tutti gli elementi co- p e n a l e Gazzetta F O R E N S E noscitivi necessari e sufficienti per la decisione stessa. Cass., Sez. F, sentenza 01 settembre 2009, n. 33600, Rv. 244388; Pres. Silvestri G., Est. Silvestri G., Rel. Silvestri G., Imp. Paraschivu. P.M. Delehaye E. (Conf.). (Rigetta, App. Trieste, 30 luglio 2009). Reati contro la pubblica amministrazione – Delitti – Dei pubblici ufficiali – Corruzione – Per un atto dell’ufficio o del servizio – Attività amministrativa discrezionale – Sussistenza del reato – Condizioni Si configura il delitto di corruzione impropria e non quello di corruzione propria in relazione ad un atto adottato dal pubblico ufficiale nell’ambito di attività amministrativa discrezionale, soltanto qualora sia dimostrato che lo stesso atto sia stato determinato dall’esclusivo interesse della P.A. e che pertanto sarebbe stato comunque adottato con il medesimo contenuto e le stesse modalità anche indipendentemente dalla indebita retribuzione. Cass., Sez. Vi, sentenza 09 luglio 2009, n. 36083, Rv. 244258; Pres. Lattanzi G., Est. Ippolito F., Rel. Ippolito F., Imp. Mussoni e altri. P.M. Di Casola C. (Conf.). (Rigetta, App. Milano, 04 novembre 2008). Reati contro la pubblica amministrazione – Delitti – Dei pubblici ufficiali – Peculato – in genere – Mancanza di danno patrimoniale per la P.A. – Irrilevanza – Reato – Configurabilità – Fattispecie: appropriazione di somme dell’ente in compensazione di crediti vantati dall’agente Il peculato si consuma nel momento in cui ha luogo l’appropriazione della “res” o del danaro da parte dell’agente, la quale, anche quando non arreca, per qualsiasi motivo, danno patrimoniale alla P.A., è comunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato dall’art. 314 c.p. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato. (Fattispecie nella quale il ricorrente, concessionario di un pubblico servizio, aveva sostenuto di aver trattenuto le somme incassate per conto dell’ente, per soddisfare un proprio diritto di credito, vantato nei confronti di quest’ultimo, ricorrendo a una sorta di autoliquidazione). SS.UU., Sentenza 25 giugno 2009, n. 38691, Rv. 244190; Pres. Gemelli T., Est. Fiale A., Rel. Fiale A., Imp. Caruso. P.M. Palombarini G. (Diff.). (Annulla senza rinvio, Trib. lib. Roma, 09 luglio 2008). Reato – Circostanze – Aggravanti comuni – Danno patrimoniale di rilevante gravità – Delitto tentato – Applicazione – Possibilità – Limiti – Fattispecie La circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità può essere ravvisata anche nel de- Gazzetta F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 67 penale litto tentato, quando le modalità del fatto criminoso siano idonee a fornire concrete e univoche indicazioni sull’entità del pregiudizio che si sarebbe determinato nel caso in cui l’azione delittuosa fosse stata portata a compimento. (Fattispecie relativa ad un’ipotesi di tentata truffa aggravata). Cass., Sez. F, sentenza 13 agosto 2009, n. 33408, Rv. 244353; Pres. Rotundo V., Est. Piccialli P., Rel. Piccialli P., Imp. Hudorovich e altro. P.M. Montagna A. (Conf.). (Dichiara inammissibile, App. Brescia, 14 ottobre 2008). 68 D i r i t t o ● p r o c e d u r a p e n a l e Gazzetta F O R E N S E Codice penale Rassegna di merito ● A cura di Alessandro Jazzetti e Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli Giuseppina Marotta Avvocato Concorso di reati: violenza sessuale e sequestro di persona – AmmissibilitÀ È pacificamente riconosciuto in giurisprudenza il concorso tra il reato di violenza sessuale e quello di sequestro di persona nel caso in cui – come quello oggetto del presente processo – il tempo nel quale la vittima era stata privata della propria libertà di movimento, era di gran lunga superiore a quelle necessario per commettere la violenza sessuale. Ed invero, la Cassazione ha da sempre specificato che il reato di sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p. concorre con quello di violenza sessuale di cui all’art. 609 c.p. nel caso in cui la privazione della libertà non si esaurisca nel tempo occorrente a commettere il delitto contro la libertà sessuale, ma si prolunghi prima o dopo la costrizione necessaria a compiere gli atti sessuali. Tribunale di Napoli, coll. E, sez. XI, Sentenza 09 luglio 2009, n. 10160; Pres. dr. Fabio Viparelli, Giudice dott.ssa Angela Paolelli, Est. dott.ssa Eliana Albanese. Concorso di reati: utilizzo di carta di credito falsa – Truffa: sussistenza del primo reato Quanto all’utilizzo di una carta di credito falsificata per l’acquisto della merce deve rilevarsi che il fatto debba essere qualificato a norma dell’art.55 D.Lvo n. 231.07 ritenendosi, ome stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazioni con sentenza del 28.3.01, che nella specie la truffa resti assorbita, nella fattispecie di cui all’art. 55 cit. non estraneo alla tutela del patrimonio individuale di cui all’art. 640 c.p.. Tribunale di Napoli, Sez. XIII, G.I.P. dr. Alabisio, sentenza 23 settembre 2009, n. 2070. CONCORSO DI PERSONE NEL REATO: PRESUPPOSTI L’attività costitutiva del concorso di persone nel reato può assumere forme diverse e che anche la semplice presenza, purchè non meramente casuale, sul luogo della esecuzione del reato è sufficiente a integrare gli estremi della partecipazione criminosa, quante volte sia servita a fornire all’autore del fatto stimolo all’azione o un maggior senso di sicurezza ella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa. Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Concetta Cristiano, sentenza 16 settembre 2009, n. 11708. Falso ideologico commesso da p.u. – Condotta punibile Integra la fattispecie di cui all’art. 479 c.p. la falsa attestazione del notificatore circa il soggetto nei cui confronti sarebbe avvenuta la notifica della cartella esattoriale. Tribunale di Napoli, G.M. dr. Giovanni Vinciguerra, sentenza 14 luglio 2009, n. 10470. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e Falso ideologico: falsa attestazione di presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo – Insussistenza del reato. Non integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, in quanto trattasi di documenti che non hanno natura di atto pubblico, ma di mera attestazione del dipendente inerente il rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, documenti che, peraltro, non contengono manifestazioni dichiarative o di volontà riferibili alla P.A. Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Paola Borrelli, sentenza 29 settembre 2009, n. 1375. Falsità ideologica commessa da privato: procedimento di condono edilizio – Obbligo di attestare il vero nella domanda – Esclusione Il delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico ex art. 483 c.p., unisce chiunque “attesta falsamente al p.u. fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”. In dottrina e giurisprudenza tuttavia, si afferma che, perché sussista il reato, vi è la necessità che incomba sull’attestante un preciso dovere giuridico di esporre la verità, stabilito in modo indubbio, esplicitamente o implicitamente, dalla legge che regola l’atto di cui si tratta. Deve invero, escludersi che dall’art. 483 c.p. possa desumersi un generale obbligo di veridicità nelle attestazioni che i privati fanno ai p.u., esteso, quindi anche ai fatti la cui menzione sia puramente facoltativa. Senonchè in tema di procedimenti di condono, un tale dovere veritatis susssiste esclusivamente con riferiemnto alla formazione della dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà” previsto e regolato dall’art. 47 co. 1 T.U. di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28/12/2000 n. 445. Infatti, in tal caso, di un eventuale falso deve rispondere il dichiarante in relazione al preesistente obbligo di attestare il vero, senza che occorra la prova del dolo specifico, essendo sufficiente il dolo generico per la configurazione del reato. Onde non è la domanda in sanatoria in sé a dovere attestare cose conformi al vero, ma l’allegata dichiarazione rilasciata ex DPR 445/2000. Tribunale di Nola, G.M. dott. Alfonso Scermino, sentenza 18 novembre 2009, n. 1728. Invasione arbitraria di edifici: occupazione di case popolari -Elementi costitutivi Il reato di cui agli artt.633-639 bis c.p. sanziona la condotta del soggetto che “invada” arbitrariamente, in assenza di autorizzazioni e non necessariamente con violenza o con forza fisica, terreni o edifici altrui (elemento oggettivo), allo scopo di esercitare su di essi una signoria di fatto. Quanto all’elemento psicologico, la 2 0 0 9 69 norma richiede il dolo specifico ovverossia il fine di trarne profitto e la consapevolezza di occupare arbitrariamente e non momentaneamente l’immobile contro la volontà del proprietario o legittimo possessore, di altro soggetto legittimato. L’occupazione “sine titulo” di un alloggio costruito dall’Istituto Autonomo Case Popolari integra gli estremi del reato di cui all’art. 633 cod. pen. anche nel caso in cui l’occupante si sia autodenunciato onde ottenere la regolarizzazione della propria posizione, ed abbia corrisposto regolarmente il canone di locazione. “Non sussiste rapporto di specialità, a norma dell’art. 9 L. n. 689 del 1981, tra il reato di cui all’art. 633 c.p.. e l’illecito amministrativo previsto dall’art. 26, comma quarto, L. n. 513 del 1977, che sanziona l’occupazione di un alloggio di edilizia popolare senza le autorizzazioni necessarie. L’illecito amministrativo, infatti, non è diretto a salvaguardare l’inviolabilità del patrimonio immobiliare pubblico o privato nei confronti di atti diretti a violare il rapporto esistente tra i beni ed i loro possessori e prescinde dall’arbitrarietà delle condotte degli autori, ma ha come fine impedire il consolidarsi di talune situazioni in contrasto con la legittima distribuzione degli alloggi agli aventi diritto attraverso comportamenti di mera occupazione, che possono anche essere soltanto irregolari. Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Diana Bottillo, sentenza 4 maggio 2009. Invasione di edifici – Bene protetto – Presupposti ed elementi costitutivi La condotta tipica del reato di invasione di edifici consiste nell’introdursi dall’esterno in un immobile altrui, del quale non si abbia il possesso o la detenzione. Infatti, il bene – interesse protetto dalla norma, non va individuato unicamente nel diritto di proprietà altrui, ma anche nel possesso, ossia in una relazione di fatto esistente tra il soggetto e la cosa, compromessa dalla condotta illecita dell’autore del reato che, “invito domino” e quindi “arbitrariamente” sostituisce il proprio possesso a quello preesistente, escludendolo in tutto o in parte. Ne deriva che quando un soggetto sia, già in possesso del bene e tale possesso eserciti in via pacifica e continuativa, indipendentemente dalla titolarità del diritto, manca l’estremo dell’accesso o della penetrazione e quindi la possibilità di ritenere integrata la condotta materiale del reato di cui agli artt. 633 e 639 cp. Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Daniela Critelli, sentenza 26 ottobre 2009, n. 1575. Invasione di edifici: esclusione dal novero dei reati omissivi – Elemento materiale del reato. La condotta punita dall’art. 633 c.p. concerne la invasione di edifici altrui: ne consegue che laddove penale Gazzetta 70 D i r i t t o e p r o c e d u r a manchi la prova che, mediante l’inserimento nel manufatto di attrezzi e materiali che non vi fossero già collocati, si sia realizzata tale condotta, il reato va escluso. Né la riconducibilità del comportamento dell’imputato alla fattispecie delittuosa potrebbe essere operato attraverso una forzata interpretazione della norma, trasformando la condotta, di natura inequivocabilmente commissiva, in un reatio omissivo, consistente nella mcnata rimozione dei materiali. Tale conclusione è confortatan dal rilievo che l’elemento materiale del reato in argomento non è costituito dall’occupazione (che è una delle finalità ilelcite dell’invasione) ma dall’invasione, ossia dall’esterno nell’altrui immobile senza la quale il reato non può dirsi perfezionato. Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Paola Borrelli, sentenza 10 novembre 2009, n. 1683, Lesioni volontarie – Tentato omicidio: presupposti – Differenze tra i due reati – Criteri di accertamento della prova dell’animus necandi Nel reato di lesioni volontarie, l’azione esaurisce la sua carica offensiva nell’evento prodotto, mentre nel delitto di tentato omicidio vi è un quidpluris che, andando al di là dell’evento realizzato, tende ed è idoneo a causarne uno più grave, non riuscendo a cagionarlo per cause estranee alla volontà dell’agente. Quanto all’elemento psicologico, la prova dell’animus necandi – ove manchino esplicite ammissioni dell’imputato – è di natura essenzialmente indiretta, rimessa al prudente apprezzamento del Giudice, dovendosi desumere l’intenzione omicida, attraverso un procedimento logico d’induzione, da parametri esterni oggettivi, quali i mezzi usati, la direzione e l’intensità dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioi1i di tempo e di luogo che favoriscano l’azione cruenta. I connotati stessi della condotta obiettivamente indicativi del fine perseguito dall’agente, nonché da tutti quegli elementi che, secondo l’id quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico. Si tratta dunque di determinare, con giudizio di fatto, se la fattispecie concreta sia da ricondurre a quella di lesioni personali, che si distingue da quella in contestazione per la differente, minore potenzialità lesiva dell’azione ed il diverso atteggiamento psichico dell’agente. Tribunale di Napoli, Sezione IV, sentenza 10 luglio 2009, n. 10624; Pres. dr. Concetta Cristiano, Giudici a latere dr. Giovanni Vinciguerra, Est. dr. Maria Rosaria Salzano. Minaccia: l’attribuzione di apostata rivolta ad una donna islamica (ovvero essere cristiana e non musulmana come vorrebbe apparire) integra il reato di minaccia implicita di morte Il mondo islamico riprova fortemente la conversione in fede cristiana di chi dovrebbe appartenere a fede isla- p e n a l e Gazzetta F O R E N S E mica: e tale era certamente la p.o., siccome cittadina marocchina e facente parte di un organo a connotazione politico – religiosa musulmana. In vari stati islamici – compreso lo stato del Marocco (di certo al tempo della commissione del reato per cui è giudizio) – la conversione religiosa in altra fede (apostasia), compresa la cattolica, è punito con la pena di morte. Ora, considerato quanto sopra detto sul contesto in cui si inserisce la “proclamazione di disvelata cristianità” in capo alla p.o. da parte dell’imputato, non può dubitarsi che detta proclamazione ebbe lo scopo di additare la p.o. come apostata: colei che prima si era indicata come buona musulmana, adesso è indicata addirittura come una cristiana. L’Islam annovera come conseguenza di ciò la morte, e non può negarsi che essa fosse minacciata dall’imputato, in ragione del contesto di lettere in cui si inseriva la frase. Il tenore delle lettere rendeva infatti evidente che l’imputato era comunque un devoto musulmano, e tanto basta per far sì che – trattandosi di reato di pericolo – le sue parole fossero dotate di credibilità, e che quindi vi fosse il pericolo che lui o altri per lui (Cass. 8275/86 Sorgou), potessero poi attuare le conseguenze (pena di morte) che quel giudizio di riprovazione (proveniente da fedele dell’islam) induceva. Trattandosi di reato di pericolo, importa che la condotta del soggetto sia obiettivamente idonea a prospettare un male ingiusto – a prescindere dal fatto che la p.o. si sia sentita effettivamente coartata. (Cass. 47739/08 Giuliani): e questa situazione di obiettivo pericolo, in ragione delle cennate caratteristiche della religione islamica, deve dirsi sussistente. Come sussistente è il dolo, che richiede solo la coscienza e volontà di prospettare un male ingiusto diretto ad intimidire non importando l’effettivo proposito di tradurre in atto il male minacciato. (Cass. 7382/85 Dessi). Ebbene, l’imputato, come detto è un credente islamico, e dunque non poteva non sapere che l’apostata è passibile di morte secondo la legge islamica. Pronunciando quella frase, egli intendeva riprovare la p.o., al contempo volendo avvertirla di ciò cui poteva andare incontro per il suo essere cristiana. Tribunale di Bologna, G.M. dr. Alessandro Gnani, sentenza 18 giugno 2009, n. 1652. Resistenza a pubblico ufficiale: elementi costitutivi – Presupposti Integra il reato di cui all’art. 337 c.p. la condotta posta in essere dall’imputato caratterizzata da azioni di attiva e violenta resistenza nei confronti degli agenti operanti, oggettivamente ostative del loro operato, sviluppatesi specificainente nel compiere reiterate e brusche inanovre alla guida della propria autovettura al fine di eludere il controllo e di darsi alla firga, perseguendo tale fine anche a costo di attentare all’incolurnita fisica di uno dei verbalizzanti, presente a piedi sulla strada e cagionando a quest’ultimo lesioni personali giudicate guaribili in giorni venti, salvo coinplicazioni. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e L’elemento psicologico del reato, poi si concreta nella coscienza e volontà dell’agente di precludere con la propria condotta minacciosa o violenta l’atto di ufficio ritenuto pregiudizievole per i propri interessi. Tribunale di Napoli, Sezione IV, sentenza 10 luglio 2009, n. 10624; Pres. dr. Concetta Cristiano, Giudici a latere dr. Giovanni Vinciguerra, Est. dr. Maria Rosaria Salzano. Resistenza a pubblico ufficiale – Lesioni volontarie: concorso di reati – Ammissibilità Va correttamente configurato il concorso del reato di resistenza con quello di lesioni perché il primo assorbe soltanto un minimo di violenza che può integrare il delitto di percosse e non gli atti che, esorbitando tali limiti, siano causa di lesioni. Tribunale di Napoli, Sezione IV, sentenza 10 luglio 2009, n. 10624; Pres. dr. Concetta Cristiano, Giudici a latere dr. Giovanni Vinciguerra, Est. dr. Maria Rosaria Salzano. Tentato omicidio: dolo eventaule – Inconciliabilità L’ atteggiamento volitivo sotto la forma del dolo eventuale non appare conciliabile con il tentativo di omicidio. Ciò sulla base del tenore letterale del disposto di cui all’art. 56 c.p., che, nel richiedere l’inequivoca direzione degli atti idonei a cagionare l’evento, presuppone ex se un preciso atto interno, consistente nella volontà di conseguire il prefigurato risultato delittuoso. Invero, “quando l’evento voluto non sia comunque realizzato, la valutazione del dolo deve avere luogo esclusivamente sulla base dell’effettivo volere dell’autore, ossia della volontà univocamente orientata alla consumazione del reato, senza possibilità di fruizione di gradate accettazioni del rischio, consentite soltanto in caso di evento materialmente verificatosi”. Tribunale di Napoli, Sezione IV, sentenza 10 luglio 2009, n. 10624; Pres. dr. Concetta Cristiano, Giudici a latere dr. Giovanni Vinciguerra, Est. dr. Maria Rosaria Salzano. Truffa aggravata ai danni dell’ente comunale: presupposti – Sussistenza La condotta dell’imputato, che facendo registrare l’uscita attraverso il badge passato da un ignoto collega in un orario posteriore rispetto a quello nel quale si era allontanato dagli uffici comunali, integra gli artifici e raggiri tesi ad indurre in errore l’amministrazione comunale circa l’entità della sua effettiva permanenza in ufficio, ciò concretamente rappresentando un insieme di atti idonei in modo non equivoco ad ottenere l’ingiusto profitto rappresentato dal conseguimento di una retribuzione anche per la porzione di tempo non trascorsa al lavoro. Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Paola Borrelli, sentenza 29 settembre 2009, n. 1375. 2 0 0 9 71 Procedura penale Competenza per territorio: criteri sussidiari – Applicabilià Il disposto dell’art. 9 c.p.p., statuisce che laddove la competenza non può essere determinata ai sensi dell’art.8 c.p.p., trovano applicazione le regole suppletive di cui al richiamato art. 9 c.p.p. poste tra loro in ordine decrescente. Nel caso in cui non è noto né il luogo di consumazione del reato, né il luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione o dell’omissione occorre necessariamente far riferimento al criterio residuale in successione del luogo di residenza, dimora o domicilio dell’imputato. Al riguardo, appare incontrovertibile -stante l’uso dell’avverbio “successivamente” contenuto nel comma 2° dell’art.9 c.p.p.- che il riferimento alla residenza, dimora o domicilio dell’imputato è posto in ordine gerarchico e che la competenza va determinata in base al luogo di residenza, dimora o domicilio conosciuti al momento di commissione o accertamento del fatto-reato e non già in base alla residenza del momento in cui viene esercitata l’azione penale (residenza che ben potrebbe nel frattempo essere mutata specie laddove il procedimento è regredito e vi è stato nuovo esercizio dell’azione penale come nel caso di specie). Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Diana Bottillo, ordinanza 06 luglio 2009, proc.pen. n.11/09 R.G. Dib. Prove: utilizzabilità di verbali delle deposizioni già rese in dibattimento innanzi a giudice diverso Le modalità attraverso cui ciascun esame è stato condotto – chiedendo al teste se ricordasse e confermasse quanto riferito in precedenza innanzi a diverso Giudice, e prendendo atto della risposta positiva fornita da ciascuno – determinano la piena utilizzabilità del contennuto dei verbali delle deposizioni già rese; ciò risponde sia ad una logica di economia processuale e di non dispersione dei mezzi di prova, coniugata nel pieno rispetto del principio del contraddittorio e dell’oralità del dibattimento – garantiti dalla circostanza che le parti hanno avuto la possibilità di esaminare e controesaminare nuovamente il testimone dinanzi al nuovo giudicante – sia ad un principio giurisprudenziale che non registra pronunzie di segno contrario. Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Paola Borrelli, sentenza 27 ottobre 2009, n. 1591. Sentenza: pronuncia assolutoria ai sensi dell’art. 530 co. 2 c.p.p. – Condizioni e presupposti La regola di giudizio di cui all’art. 530 co. 2 – cioè il dovere per il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova della resposnabilità, – è dettata esclusivamente, per il normale esito del processo sfociante in una sentenza emessa dal giudice al compimento penale Gazzetta 72 D i r i t t o e p r o c e d u r a dell’attività dibattimentale con piena valutazione di tutto il complesso probatorio acquisitosi in atti. Tale regola, di contro, non può trovare applicazione in presenza di causa estintiva di reato operante già all’inizio di un giudizio dibattimnetale. In una situazione del genere vale la regola di cui all’art. 129 c.p.p. in base alla quale in presenza di causa estintiva del reato, l’inizio di prova ovvero la prova incompleta in ordine alla resposanbilità dell’imputato non viene equiparata alla mancanza di prova ma, per pervenire ad un proscioglimento nel merito, soccorre la diversa regola di giudizio, per la quale deve “positivamente” emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato per quanto contestatogli. Tribunale di Nola, G.M. dott. Alfonso Scermino, sentenza 18 novembre 2009, n. 1728. Valutazione della prova: testimonianza della persona offesa – Indagine sulla credibilità intrinseca ed estrinseca – Criteri Occorre premettere in diritto che in adesione ad un costante orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass. pen. sent. 1 aprile 1991 imp. Bertone, in Arch. nuova proc. pen. 1992, 622 e Cass. Pen. sent. 28 febbraio 1992, imp. Simula e più recentemente Cass. pen. sez. 111 sentenza 28 novembre 2002 – 23 gennaio 2003 n. 3162 proprio in tema di reati sessuali), quando sia difficile ottenere nel processo testimonianze dirette, per essersi i fatti svolti fuori della presenza altrui, il giudice può attingere la verità dalle dichiarazioni del soggetto passivo, il quale per legge riveste anche la qualità di testimone, anche se in questo caso maggiore deve essere lo scrupolo nella rigorosa valutazione delle dichiarazioni del teste, della costanza ed uniformità dell’accusa, delle circostanze e modalità dell’accaduto e di tutto quanto possa concorrere ad assicurare il controllo della attendibilità della sua testimonianza. Appare, pertanto, evidente che la deposizione della persona offesa dal reato, costituita o meno parte civile, pur non potendo quest’ultima essere equiparata – quanto al grado di attendibilità soggettiva – al testimone estraneo, potrebbe – in ipotesi – essere da sola assunta quale fonte di prova ove, però, venga sottoposta ad una intensa ed approfondita indagine positiva sulla sua credibilità intrinseca, con riguardo alla coerenza e precisione, accompagnata da un controllo sulla credibilità soggettiva di chi l’ha resa. Ed invero, in tema di valutazione della prova, qualora si tratti della testimonianza della persona offesa, che ha sicuramente interesse verso l’esito del giudizi, bisogna vagliare le sue dichiarazioni con ogni opportuna cautela, cioè compiere un esame particolarmente penetrante e rigoroso attraverso una conferma di altri elementi probatori talché essa può essere assunta, da sola, come fonte di prova, unicamente se venga sotto- p e n a l e Gazzetta F O R E N S E posta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva. Tribunale di Napoli, coll. E, Sez. XI, sentenza 17 settembre 2009, n. 10160; Pres. dr. Fabio Viparelli – Giudice dott.ssa Angela Paolelli, Est. dott.ssa Eliana Albanese Leggi penali speciali Bancarotta fraudolenta documentale elemento sogg.: dolo generico Per la fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale d cui alla seconda ipotesi dell’art. 216 co. 1 n. 2 L.F. è richiesta la sussistenza del dolo generico, ovvero la consapevolezza che la confusa tenuta della contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione delle vicende del patrimonio o del movimento degli affari. Tale locuzione connota la condotta e non la volontà dell’agente, perché la finalità dell’agente è riferita ad un elemento costitutivo della stessa fattispecie oggettiva, (impossibilità di ricostruire il patrimonio e gli affari dell’impresa) anziché ad un elemento ulteriore, non necessario per la consumazione del reato, qual è il pregiudizio per i creditori, sicchè è da escludere che configuri il dolo specifico che è invece necessario per l’integrazione delle fattispecie di sottrazione, distruzione o falsificazione dei libri e delle scritture contabili. Corte di Appello di Napoli, Sez. III, sentenza 24 settembre 2009, n. 5560; Pres. dott. Pasquale Troise, Consiglieri Rel. dott. Domenico Zeuli, dott. Roberto Vescia. Patrocinio per i non abbienti: false dichiarazioni in merito alle condizioni soggettive per l’ammissione al beneficio. (art.95 d.p.r.115/2002) Il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002 sanziona specificamente le falsità o le omissioni nelle dichiarazioni o nelle comunicazioni per l’attestazione delle condizioni di reddito in vista dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Il reato è integrato non già da qualsivoglia infedele attestazione ma dalle dichiarazioni con cui l’istante affermi, contrariamente al vero, di avere un reddito inferiore a quello fissato dalla legge come soglia di ammissibilità, ovvero neghi o nasconda mutamenti significativi del reddito dell’anno precedente, tali cioè da determinare il superamento di detta soglia. Di conseguenza, il delitto di cui al richiamato art.95 è speciale rispetto al reato di falso di cui all’art. 483 c.p., con la conseguenza che i due reati non sono in rapporto di concorso formale. Ne consegue che integrano il delitto le false indicazioni o le omissioni anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussisten- F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e za delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio. Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Diana Bottillo, sentenza 6 luglio 2009 Patrocinio per i non abbienti: reato di cui all’art. 95 dPR 115 – elemento soggettivo Quanto all’elemento psicologico del reato, è sufficiente il dolo generico, ovverossia la coscienza e volontà della falsificazione della dichiarazione o della falsa attestazione, posto che le norme in materia di falso di cui l’art.95 costituisce un’ipotesi speciale, mira a tutelare la veridicità in astratto degli atti stessi a prescindere dalle effettive conseguenze dannose ed indipendentemente da fini di vantaggio o di danno che si propone l’agente, di talchè il delitto è perfezionato anche quando la falsità sia compiuta con la convinzione di non arrecare un danno ovvero senza l’intenzione di conseguire un profitto. Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Diana Bottillo, sentenza 6 luglio 2009. Stupefacenti: circostanza attenuante della lieve entità – Presupposti e condizioni L’attenuante della lieve entità può essere riconosciuta quando il fatto ha il carattere della minima o trascurabile offensività del bene giuridico tute1ato. In particolare secondo un principio ermeneutico consolidato: “Il giudice è tenuto a valutare tutti gli elementi della norma, quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze) e quelli concernenti l’oggetto materiale del reato (quantità e qualità dello stupefacente), dovendo in conseguenza negare l’attenuante quando anche uno solo di tali elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di lieve entità. Nella fattispecie era stata ritenuta correttamente negata l’attenuante in caso di detenzione e vendita di diverse tipologie di stupefacenti, tali da dimostrare che lo spaccio era diretto ad un cospicuo e 2 0 0 9 73 variegato numero di consumatori.Altro principio interpretativo è quello secondo il quale l’attenuante deve escludersi quando il quantitativo ceduto non sia modico e le modalità dell’azione denotino professionalità, organizzazione di mezzi anche rudimentale o continuità nella condotta. Tribunale di Napoli, GUP dr. E. de Gregorio, sentenza 25 settembre 2009, n. 14918. Stupfecenti: detenzione ai fini di spaccio – Requisiti Elementi idonei a dimostrare la detenzione a fini di spaccio, possono essere costituiti dal quantitativo non modesto della sostanza stupefacente, nonché dalle modalità di confezionamento e di occultamento della sostanza, unitamente alla illiceità della detenzione anche all’ interno dell’ abitazione di un quantitativo consistente di lidocaina (gr. 438,36), sostanza utilizzabile per il taglio della cocaina, nonché il rinvenimento di strumenti atti al confezionamento (bilancia di precisione, utensili e coltelli, che presentavano tracce di cocaina). Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Concetta Cristiano, sentenza 16 settembre 2009, n. 11708. Stupefacenti: spaccio – ipotesi di lieve entità di cu all’art. 73 co. V dPR 309/90 – configurabilità Come risulta dall’art. 74 co. 6 dPR 9.10.1990 n. 309, anche la cessione,continuativa a terzi di sostanze stupefacenti può integrare il fatto di lieve entità di cui al quinto comma dell’art. 73 dello stesso DPR, avuto riguardo alla quantità e qualità della sostanza detenuta e spacciata, da accertarsi con riguardo al principio attivo, alla complessità ed all’ ampiezza dell’organizzazione, al numero ed alla qualità dei soggetti coinvolti, nonché più in generale ad ogni altro profilo della vicenda che, secondo il giudizio discrezionale ma motivato del giudice di merito, appaia idoneo ad incidere sulla entità del fatto. Tribunale di Napoli, G.M. dr. Giovanni Vinciguerra, sentenza 21 luglio 2009, n. 10814. penale Gazzetta diritto Amministrativo Nota a T.A.R. Campania‑Napoli, sez. I, 24 settembre 2009, n. 5058 77 Lucio Perone Avvocato Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture 87 (D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) amministrativo A cura di Almerina Bove Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e ● Nota a T.A.R. Campania‑Napoli sez. I, 24 settembre 2009, n. 5058 ● Lucio Perone Avvocato 2 0 0 9 77 T.A.R. Campania – Napoli, sez. I, 24 settembre 2009 n. 5058 Sul ricorso numero di registro generale 3555 del 2008, proposto da: G*** S.a.s. del Geom. D.S. & C., …(omissis)… contro • Comune di ***, …(omissis)…; • Prefettura – u.t.g. di ***, Ministero dell’Economia e delle Finanze e Ministero della Difesa, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli […Omissis…] per l’annullamento quanto al ricorso introduttivo: a) dell’informativa antimafia della Prefettura di XXX prot. n. 1535/12b.16/ANT/AREA 1^ del 19 marzo 2008 e di tutti gli atti in essa richiamati, e segnatamente: 1) della nota Cat. Q2/ANT/B.N. datata 29 gennaio 2007 della Questura di XXX; 2) della nota n. 1000/DPA/2007/MA datata 12 marzo 2007 della Questura di XXX; 3) della nota n. 0245049/1-3 “P” datata 3 aprile 2007 del Comando Provinciale Carabinieri di XXX; 4) della nota n. 9657 datata 3 settembre 2007 del Comando Nucleo Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di XXX; 5) della nota n. 10430/GICO/3° C.O./RUB. datata 24 maggio 2007 del G.I.C.O. della Guardia di Finanza di Napoli; 6) della nota n. 125/NA/H7 di prot. 6824 datata 6 novembre 2007 della Direzione Investigativa Antimafia di Napoli; 7) del verbale del Gruppo Ispettivo Antimafia della Prefettura di XXX datato 7 marzo 2008, contenente le risultanze delle verifiche antimafia disposte nei confronti della società ricorrente; 8) della segnalazione del C.E.D. del Dipartimento della P.S. del Ministero dell’Interno datata 17 marzo 2008; b) della nota del Comune di XXX prot. n. 38894 del 15 aprile 2008, avente ad oggetto la “Comunicazione di avvio del procedimento di risoluzione del contratto n. 20945 rep. del 29.11.2006 per lavori di riqualificazione ambientale Piazza I Maggio in San Benedetto di XXX e Piazza Tredici in YYY”; c) di ogni altro atto o provvedimento preordinato, connesso e conseguente, comunque lesivo del diritto della ricorrente; quanto all’atto per motivi aggiunti: d) degli atti già impugnati con il ricorso introduttivo; e) del la not a del la Prefet t u ra d i X X X prot. n. 1535/12B.16/ANT/Area 1^ del 26 giugno 2008, avente ad oggetto “Ricorso al T.A.R.. Campania proposto da “G*** s.a.s. del geom. D.S. e C.” c/ Prefettura di XXX”; f) della nota del Comune di XXX prot. n. 97663 del 17 ottobre 2006, con la quale sono state richieste informazioni antimafia sul conto della società ricorrente; g) del decreto della Prefet t u ra di X X X prot. n. 1535/12B.16/ANT/AREA I del 12 febbraio 2007, con il quale il Gruppo Ispettivo Antimafia è stato amministrativo Gazzetta 78 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o incaricato di compiere le verifiche antimafia sul conto della società ricorrente; h) della nota del Comune di XXX prot. n. 33867 del 1° aprile 2008, con la quale è stata trasmessa l’informativa antimafia; i) di ogni altro atto o provvedimento preordinato, connesso e conseguente, comunque lesivo del diritto della ricorrente. […Omissis…] Fatto La società ricorrente, affidataria dei lavori di riqualificazione ambientale della Piazza I Maggio in San Benedetto di XXX e della Piazza Tredici in Tredici, espone di essere stata destinataria della nota del Comune di XXX prot. n. 38894 del 15 aprile 2008, recante la comunicazione di avvio del procedimento di risoluzione del relativo contratto, a cagione dell’emissione, da parte della Prefettura di XXX, dell’informativa prot. n. 1535/12b.16/ANT/AREA 1^ del 19 marzo 2008, in cui si evidenziava la sussistenza a suo carico delle cause interdittive di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 490/1994, inerenti al pericolo di infiltrazione mafiosa. Avverso tale informativa prefettizia, gli atti procedimentali in essa confluenti e le conseguenti determinazioni comunali (tutti meglio in epigrafe individuati), insorge la ricorrente anche mediante la proposizione di motivi aggiunti, chiedendone l’annullamento sulla scorta di censure attinenti ai seguenti vizi: violazione degli artt. 2, 3, 24, 27, 41, 97 e 113 della Costituzione; violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 7, 21 quinquies e sexies, della legge n. 241 del 7 agosto 1990, dell’art. 4 del D.Lgs. n. 490 dell’8 agosto 1994, degli artt. 1, 9, 10 ed 11 del d.P.R. n. 252 del 3 giugno 1998, dell’art. 1 septies del decreto legge n. 629 del 6 settembre 1982, dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 12 aprile 2006; violazione della circolare del Ministero dell’Interno n. 559 del 18 dicembre 1998; eccesso di potere sotto svariati profili, tra cui difetto di motivazione, ingiustizia manifesta, assoluto difetto di istruttoria, errore sui presupposti, illogicità e contraddittorietà. La Prefettura – U.T.G. di XXX e le altre amministrazioni ministeriali intimate, costituitesi in giudizio, instano nella propria memoria difensiva per il rigetto del ricorso. Ad analoga conclusione giunge il Comune di XXX nella sua memoria di costituzione. La ricorrente ha prodotto ulteriore memoria difensiva, con la quale ribadisce le proprie ragioni. Il ricorso, infine, è stato trattenuto per la decisione all’udienza pubblica del 28 gennaio 2009. Diritto 1. Con il gravame in trattazione, come integrato dai motivi aggiunti, la società ricorrente intende contestare la legittimità dell’informativa interdittiva emessa nei suoi confronti e degli atti della relativa serie procedi- Gazzetta F O R E N S E mentale, nonché delle conseguenti determinazioni del Comune di XXX finalizzate alla risoluzione dell’appalto per i lavori di riqualificazione ambientale indicati in narrativa. 2. Prima di procedere allo scrutinio delle censure articolate nel ricorso, è opportuno precisare, in punto di fatto, che l’informativa in questione trae linfa sia dagli accertamenti compiuti autonomamente dalle forze di polizia sia dalle valutazioni espresse congiuntamente dalle medesime in sede di riunione del G.I.A. – Gruppo Ispettivo Antimafia (cfr. verbale del 7 marzo 2008). Tale attività istruttoria ha evidenziato il pericolo infiltrativo rappresentato dalla figura dei soci (accomandante ed accomandatario) e del responsabile tecnico, che sono stati ritenuti permeabili agli ambienti mafiosi essenzialmente per le seguenti circostanze: a) frequentazione del socio accomandatario con soggetto gravato da precedenti di polizia per truffa aggravata al fine di conseguire erogazioni pubbliche nonché sottoposto a procedimento di prevenzione antimafia ai sensi della legge n. 575/1965, seppur conclusosi favorevolmente per l’interessato in data 30 settembre 2003; b) rapporti di cointeressenza societaria del socio accomandante con altro personaggio parimenti sottoposto a procedimento di prevenzione antimafia ai sensi della legge n. 575/1965; c) controlli effettuati più volte nel 2004 sull’autovettura di proprietà del responsabile tecnico, in occasione dei quali sono stati individuati come occupanti due pluripregiudicati affiliati al clan camorristico dei Casalesi; d) due dipendenti su tre della società con pregiudizi di polizia per vari reati, tra cui violazione di sigilli, violazione della legge sugli stupefacenti, truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche, rapina, porto abusivo e detenzione di armi. 3. Tanto premesso, si può dare ingresso allo scrutinio delle censure formulate avverso i provvedimenti impugnati, evidenziando che la ricorrente si duole innanzitutto della violazione dell’art. 1 del d.P.R. n. 252/1998, in quanto l’amministrazione comunale avrebbe indebitamente chiesto il rilascio delle informazioni prefettizie per un contratto il cui importo si attesta ad € 84.957,20, ossia al di sotto dei limiti di valore fissati dalla norma per l’applicabilità della disciplina in tema di documentazione antimafia. La censura non merita condivisione. Come correttamente eccepito dalla difesa erariale, il protocollo d’intesa stipulato tra la Prefettura ed il Comune di XXX ha esteso il dovere di richiedere le informazioni antimafia a tutte le tipologie di appalti, indipendentemente dal loro importo. Tale accordo, che trova la sua fonte legittimante direttamente nell’art. 15 della legge n. 241/1990 e che non è stato impugnato in F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e questa sede, fornisce adeguata copertura alla richiesta di informazioni espletata nel caso specifico. 3.1 La ricorrente lamenta, altresì, che “i provvedimenti impugnati sono assolutamente privi di motivazione” anche allo scopo di consentire l’esercizio del diritto di difesa, giacché l’atto di avvio del procedimento di risoluzione non renderebbe disponibile l’informativa presupposta ed i relativi accertamenti di polizia, né richiamerebbe in maniera espressa le argomentazioni tratte dagli atti della serie procedimentale, in violazione della disciplina normativa sulla motivazione per relationem. Comunque, ad avviso della ricorrente, anche se si volesse ritenere sufficiente, ai fini della legittimità della relatio, la mera indicazione degli estremi (numero e data) dell’atto richiamato, nella fattispecie sarebbe carente anche tale requisito, contenendo l’atto di avvio in questione un generico riferimento al mancato rilascio dell’informativa favorevole senza alcuna ulteriore specificazione, nemmeno in ordine alla tipologia della stessa (tipica od atipica). La censura non si palesa convincente. L’amministrazione comunale ha assolto congruamente il suo onere motivazionale, facendo riferimento per relationem, nel corpo dell’atto iniziale del procedimento di risoluzione, alle informazioni rilasciate dall’autorità prefettizia, tenuto conto che può essere comunque ritenuta legittima la comunicazione antimafia che, come quella di specie, omette di citare testualmente i singoli atti dell’istruttoria operando un mero richiamo agli stessi (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 29 febbraio 2008 n. 756 ed 11 settembre 2001 n. 4724); d’altronde, l’espressa indicazione della fonte regolatrice del correlativo potere (art. 10 del d.P.R. n. 252/1998) tratteggia chiaramente la figura dell’informativa tipica, senza che possa originarsi confusione con il diverso istituto dell’informativa atipica o supplementare, disciplinata da normativa a parte (art. 1 septies del d.l. n. 629/1982). Inoltre, si osserva che non può essere lamentata la mancata disponibilità dell’informativa prefettizia e degli accertamenti condotti dagli organi di polizia. Infatti, il concetto di disponibilità, di cui all’art. 3 della legge n. 241/1990, comporta non che l’atto amministrativo menzionato per relationem debba essere unito imprescindibilmente al documento o che il suo contenuto debba essere riportato testualmente nel corpo motivazionale, bensì che esso sia reso disponibile a norma di legge, vale a dire che possa essere acquisito utilizzando il procedimento di accesso ai documenti amministrativi, laddove concretamente esperibile. In sostanza, detto obbligo determina che la motivazione per relationem del provvedimento debba essere portata nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, con la conseguenza che in tale ipotesi è sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell’atto richiamato, mentre non è necessario che lo 2 0 0 9 79 stesso sia allegato o riprodotto, dovendo essere messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte (cfr. T.A.R. Campania Napoli, Sez. III, 21 febbraio 2002 n. 1002). Si aggiunge che nel caso di specie, rientrando gli atti istruttori dell’informativa prefettizia nei documenti sottratti all’accesso in virtù dell’art. 3 del D.M. 10 maggio 1994 n. 415 (cfr. T.A.R. Campania Salerno, Sez. I, 10 luglio 2007 n. 818), correttamente l’amministrazione ha ritenuto di non accludere i rapporti informativi riguardanti la posizione della società ricorrente. 3.2 Quest’ultima, nel rilevare la violazione dell’art. 11 del d.P.R. n. 252/1998 e della normativa in materia di autotutela, denuncia l’insufficiente valutazione dell’interesse pubblico ed il difetto di motivazione in ordine alla prospettata risoluzione del contratto di appalto, dal momento che, in caso di informativa interdittiva successiva alla stipula del contratto, la legge contemplerebbe solo la facoltà e non l’obbligo di risoluzione, esercitabile a seguito di apprezzamenti discrezionali di cui la stazione appaltante dovrebbe dare adeguato conto. In particolare, secondo la tesi della ricorrente, il procedimento di risoluzione in questione non potrebbe prescindere dalla doverosa ponderazione, da evidenziare in sede motivazionale, dell’interesse pubblico alla prosecuzione del rapporto contrattuale (specie laddove, come nel presente caso, questo sia in fase ultimativa) e, comunque, dell’interesse privato consolidatosi medio tempore a fronte dell’esercizio del potere di autotutela. La tesi non ha pregio. In presenza di informative tipiche successive, come quella di specie, le determinazioni amministrative in ordine alla recisione dei contratti d’appalto in corso assumono di regola carattere vincolato, non potendo l’ordinamento tollerare, per evidenti ragioni di ordine pubblico e di tutela dell’amministrazione dai condizionamenti della criminalità organizzata, la sopravvivenza di rapporti contrattuali con imprese interessate da tentativi di infiltrazione mafiosa. L’unico margine di discrezionalità della stazione appaltante rimane circoscritto alla valutazione di opportunità, per l’interesse pubblico, che prosegua il rapporto contrattuale già instaurato, allorché tale rapporto perduri da un cospicuo lasso di tempo e sussistano concrete e stringenti ragioni che rendano del tutto sconveniente per l’amministrazione l’interruzione della fornitura, del servizio o dei lavori oggetto del contratto revocando. Pertanto, la motivazione dovrà essere ampia e dettagliata quando l’amministrazione ritenga (eccezionalmente) di valorizzare tali circostanze, ma non quando intenda aderire alla portata inibitoria dell’informativa prefettizia. In quest’ultimo caso, invero, a giustificare l’adozione del provvedimento di revoca è sufficiente il mero rinvio alla misura interdittiva, come si è puntualmente verificato nella presente evenienza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 dicembre 2005 n. 7619; T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, amministrativo Gazzetta 80 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o 4 maggio 2007 n. 4739; T.A.R. Calabria Catanzaro, Sez. II, 12 febbraio 2007 n. 38). Infine, non può essere invocata nella fattispecie l’applicabilità della normativa in materia di autotutela, trattandosi dell’esercizio di un potere regolato da un’apposita disciplina, non riconducibile allo ius poenitendi della singola amministrazione ma piuttosto alla salvaguardia di preminenti interessi pubblici. 3.3 La ricorrente deduce che le acquisizioni istruttorie a carico dei componenti della compagine sociale sarebbero smentite dai negativi certificati dei carichi pendenti e del casellario giudiziale in possesso dei medesimi, con conseguente difetto assoluto di istruttoria. La doglianza non può essere condivisa. Il Collegio si limita ad osservare che, a termini dell’art. 10, comma 7, del d.P.R. n. 252/1998, le informative antimafia possono ben fondarsi su accertamenti che prescindono dalle notizie di carattere processuale destinate a confluire nelle certificazioni in parola, e che danno conto di situazioni di pericolo infiltrativo poste anche al di sotto del penalmente rilevante, come meglio sarà precisato in seguito. 3.4 Con altra censura viene essenzialmente stigmatizzata la contraddittorietà fra l’informativa interdittiva e la favorevole certificazione antimafia rilasciata dalla Camera di Commercio ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. n. 252/1998. Anche tale censura non convince. Parte ricorrente tende erroneamente ad assimilare sul piano giuridico due fattispecie, certificazione antimafia della Camera di Commercio (di cui agli artt. 6 e 9 del d.P.R. n. 252/1998) ed informativa prefettizia (di cui al successivo art. 10), le quali sono preordinate ad assolvere a funzioni diverse, consistenti rispettivamente nell’accertamento della sussistenza o meno delle situazioni ostative di cui all’art. 10 della legge 31 maggio 1965 n. 575 (decadenza, sospensione o divieto, determinati dalla definitiva applicazione di misure di prevenzione antimafia, da sentenze penali di condanna o da altri provvedimenti giudiziari), e nell’acquisizione di notizie inerenti ai tentativi di infiltrazione mafiosa. Ne deriva che il certificato camerale munito dell’apposita dicitura antimafia (al pari delle comunicazioni prefettizie alle quali è assimilato per legge) è idoneo a garantire l’insussistenza delle sole situazioni ostative contemplate dall’art. 10 della legge n. 575/1965, ma giammai può estendere la sua portata fino ad assicurare l’inesistenza di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, accertati mediante ulteriori indagini istruttorie, il cui esito è riportato nell’informativa prefettizia. Invero, le valutazioni demandate alla competenza della Prefettura, al fine di verificare l’assenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, involgono profili non coincidenti con quelli posti a base della certificazione came- Gazzetta F O R E N S E rale e possono comportare per la ditta interessata che l’informativa prefettizia si colori sfavorevolmente anche a fronte di una favorevole certificazione antimafia. Pertanto, la circostanza che il certificato camerale rechi la dicitura antimafia, volta ad attestare l’inesistenza delle situazioni ostative di cui all’art. 10 della legge n. 575/1965, non può assumere alcun rilievo per inferire l’illogicità o la contraddittorietà della diversa ed autonoma situazione ostativa rappresentata dai tentativi di infiltrazione mafiosa, descritti nell’informativa prefettizia. 3.5 La ricorrente lamenta, inoltre, che la nota della Questura di XXX Cat. Q2/ANT/B.N. del 29 gennaio 2007, sulla cui scorta la Prefettura ha inteso avviare gli accertamenti antimafia – e nella quale, pur riportando alcune circostanze indizianti, si riferiva che in ordine alla società interessata non “si rinvengono elementi che facciano desumere il pericolo di infiltrazioni mafiose, né risultano notizie relative a soggetti residenti nel territorio dello Stato che possano condizionare le scelte e indirizzi della stessa” – avrebbe dovuto comportare, in virtù della non rilevante gravità degli elementi citati a supporto, l’emissione di un’informativa atipica anziché di una tipica, dando margine alla stazione appaltante di compiere “un esame autonomo e discrezionale dei fatti posti alla base dell’informativa”. La censura deve essere disattesa. Il Collegio si limita ad osservare che le valutazioni dell’autorità di polizia in questione devono essere ragionevolmente intese nel senso dell’insussistenza di evidenti pericoli di infiltrazione mafiosa e della rimessione ai competenti organi prefettizi della significatività, nell’ambito di un quadro istruttorio più ampio, di indizi comunque non escludenti la possibile permeabilità dell’impresa agli interessi della criminalità organizzata. Invero, il G.I.A., nella riunione del 7 marzo 2008, ha ritenuto di poter valorizzare in un’ottica complessiva i vari elementi indizianti forniti dagli organi di polizia, individuando negli stessi il supporto fattuale per l’emanazione di un’interdittiva antimafia tipica. 3.6 Con altra articolata censura, la ricorrente denuncia che l’interdittiva impugnata sarebbe minata da vizi istruttori per errore sui presupposti, oltre ad essere fondata su sospetti e congetture non assistiti da riscontri fattuali, nonché riferiti in semplici informative di polizia non seguite dall’attivazione dei conseguenti procedimenti di repressione e controllo, in violazione delle norme costituzionali e della circolare ministeriale menzionate in narrativa. In particolare, si evidenzia in gravame che entrambi i soggetti ritenuti collegati ai componenti della compagine sociale sono stati prosciolti, con decreti del giudice penale passati in giudicato, dai procedimenti di prevenzione antimafia intentati a loro carico. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e Inoltre, quanto ai controlli espletati sull’autovettura di proprietà del responsabile tecnico, si oppone che quest’ultimo è cognato di uno dei due affiliati al clan camorristico e che l’autovettura è stata utilizzata da tale pericoloso personaggio solo “nell’ambito di un normalissimo rapporto familiare che non può essere certo elemento per ritenere infiltrata la società ricorrente, totalmente estranea a tale episodio”; tra l’altro i controlli sarebbero scarsamente significativi perché effettuati in epoca risalente. Infine, con riguardo ai dipendenti afflitti dai pregiudizi penali, si rileva a contrario che: a) tale personale non è impiegato in funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione della società; b) non essendovi una “norma che obbliga una ditta privata a chiedere al proprio lavoratore il certificato dei carichi pendenti o l’estratto del casellario giudiziario” la ricorrente non avrebbe mai potuto essere informata di tali pendenze; c) l’impiego di personale con precedenti penali non costituirebbe fattore indicativo di legami con gli ambienti malavitosi e si confarebbe ai principi di solidarietà sociale espressi nella legge n. 193/2000, tendente a favorire l’attività lavorativa dei detenuti. La doglianza, come complessivamente elaborata, non è meritevole di condivisione. La giurisprudenza che si è occupata della materia (cfr. per tutte T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 8 novembre 2005 n. 18714) ha avuto modo di sottolineare che i tratti caratterizzanti l’istituto dell’informativa prefettizia, di cui agli artt. 4 del D.Lgs. n. 490/1994 e 10 del d.P.R. n. 252/1998, ruotano intorno ai seguenti concetti: - si tratta di una tipica misura cautelare di polizia, preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale e che prescinde dall’accertamento in sede penale di uno o più reati connessi all’associazione di tipo mafioso; non occorre né la prova di fatti di reato, né la prova dell’effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa, né la prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi; - è sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se tale scopo non si è in concreto realizzato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 maggio 2005 n. 2796 e 13 ottobre 2003 n. 6187); - tale scelta è coerente con le caratteristiche fattuali e sociologiche del fenomeno mafioso, che non necessariamente si concreta in fatti univocamente illeciti, potendo fermarsi alla soglia dell’intimidazione, dell’influenza e del condizionamento latente di attività economiche formalmente lecite; - la formulazione generica, più sociologica che giuridica, del tentativo di infiltrazione mafiosa rilevante ai fini del diritto comporta l’attribuzione al Prefetto di un ampio margine di accertamento e di apprezzamento; 2 0 0 9 81 - l’ampia discrezionalità di apprezzamento riservata al Prefetto genera, di conseguenza, che la valutazione prefettizia è sindacabile in sede giurisdizionale solo in caso di manifesti vizi di eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 17 maggio 2006 n. 2867 e n. 1979/2003). Si è ritenuto inoltre, con riguardo alle informative di cui all’art. 10, comma 7, lettera c), del d.P.R. n. 252/1998 (tra le quali rientra quella di specie), che, essendo fondate le medesime su valutazioni discrezionali non ancorate a presupposti tipizzati, i tentativi di infiltrazione mafiosa possono essere desunti anche da parametri non predeterminati normativamente; tuttavia, onde evitare il travalicamento in uno “stato di polizia” e per salvaguardare i principi di legalità e di certezza del diritto, si è precisato che non possono reputarsi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale, occorrendo l’individuazione di idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di concrete connessioni o collegamenti con la criminalità organizzata (cfr. T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. III, 13 gennaio 2006 n. 38; T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 19 gennaio 2004 n. 115). In particolare, con riferimento agli elementi di fatto idonei a sorreggere l’impianto probatorio delle informative de quibus, la giurisprudenza ha sottolineato che in tali ipotesi il Prefetto, anziché limitarsi a riscontrare la sussistenza di specifici elementi (come avviene per gli accertamenti eseguiti ai sensi dell’art. 10, comma 7, lettere a) e b), del d.P.R. n. 252/1998), deve effettuare la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni; pertanto, si può ravvisare l’emergenza di tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé privi dell’assoluta certezza – quali una condanna non irrevocabile, l’irrogazione di misure cautelari, collegamenti parentali e/o frequentazioni con soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti – ma che, nel loro insieme, siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta, agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo condizionata per la presenza, nei centri decisionali, di soggetti legati ad organizzazioni mafiose (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 agosto 2006 n. 4737; Consiglio di Stato, Sez. V, 3 ottobre 2005 n. 5247; T.A.R. Lazio Roma, Sez. II, 9 novembre 2005 n. 10892). In sintesi, mutuando al riguardo le parole del massimo giudice amministrativo, si può ben affermare che la norma introduttiva dell’informativa prefettizia “si spiega nella logica di una anticipazione della soglia di dife- amministrativo Gazzetta 82 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o sa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità organizzata, in guisa da prescindere da soglie di rilevanza probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità dell’impresa affidataria dei lavori complessivamente intesa. […] E tanto specie se si pone mente alla circostanza prima rimarcata che le cautele antimafia non obbediscono a finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, rispetto alla quale sono per legge rilevanti fatti e vicende anche solo sintomatici ed indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali.” (così Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2867/2006 cit.). 3.7 Orbene, calando i superiori insegnamenti giurisprudenziali al caso concreto, deve essere sconfessata la tesi della ricorrente volta ad evidenziare la carenza dei presupposti giustificativi dell’impugnata informativa prefettizia ed il connesso errore istruttorio. Al contrario, le valutazioni della Prefettura di XXX risultano sorrette da un quadro indiziario sufficientemente preciso e concordante, che non trae forza da semplici sospetti o congetture ma risulta ben tratteggiato nelle note informative degli organi di polizia, in relazione alle quali si presenta generica e sfornita di ogni evidenza probatoria la lamentela attorea inerente alla mancata attivazione dei conseguenti procedimenti di repressione e controllo. Nel dettaglio, si presenta correttamente argomentata, da parte dell’autorità prefettizia e di quella di polizia, la sussistenza degli elementi di fatto da cui sono stati desunti i tentativi di infiltrazione mafiosa, atteso che nel caso di specie gli accertamenti condotti sulla ricorrente, pur non facendo palesare situazioni di effettiva e conclamata infiltrazione mafiosa, hanno dato conto della presenza di circostanze poste alla soglia, giuridicamente rilevante, dell’intimidazione, dell’influenza e del condizionamento latente dell’attività d’impresa da parte delle organizzazioni criminali. È innegabile, infatti, che sull’autovettura di proprietà del responsabile tecnico della società siano stati più volte controllati, nel corso del 2004, due pregiudicati affiliati alla criminalità organizzata e che tale autovettura fosse (anche) nella disponibilità di uno di tali soggetti, cognato dello stesso responsabile tecnico. Tale circostanza assurge ad indice della frequentazione, anche minima, esistente tra il referente dell’impresa ed il malavitoso, cementata, come riconosce la medesima ricorrente, dalla coltivazione del rapporto familiare. La frequentazione giustificata dal rapporto di parentela (o affinità) non attenua il rischio di infiltrazioni mafiose, ma semmai lo consolida, potendo essere tratto dagli orientamenti della giurisprudenza il principio che se è vero che il rapporto di parentela non costituisce in sé indizio sufficiente del tentativo di infiltrazione mafiosa, è altrettanto vero che tale tentativo deve ritenersi sussistente quando al dato dell’appartenenza Gazzetta F O R E N S E familiare si accompagni la frequentazione, la convivenza o la comunanza di interessi con il malavitoso, tali da palesare, pertanto, la contiguità con gli ambienti della criminalità (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 29 febbraio 2008 n. 756, 27 giugno 2007 n. 3707 e 2 maggio 2007 n. 1916). Inoltre, la rilevanza, all’interno dell’organizzazione aziendale, della figura del responsabile tecnico implica che il pericolo infiltrativo non possa non trasmettersi all’impresa nel suo complesso. Si aggiunge che l’attualità degli elementi indizianti, da cui trarre la sussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa, permane fino all’intervento di fatti nuovi, ulteriori rispetto ad una precedente valutazione di presenza di tentativi siffatti, che evidenzino il venir meno della situazione di pericolo; in altri termini, il rischio di inquinamento mafioso si può considerare superato non tanto e non solo per il trascorrere di un considerevole lasso di tempo dall’ultima verifica effettuata senza che sia emersa alcuna evenienza negativa, quanto anche per il sopraggiungere di fatti positivi, idonei a dar conto di un nuovo e consolidato operare dei soggetti a cui è stato ricollegato il pericolo, che persuasivamente e fattivamente dimostri l’inattendibilità della situazione rilevata in precedenza (orientamento ormai diffuso in giurisprudenza: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 12 giugno 2007 n. 3126 e 28 febbraio 2006 n. 851). Il predetto criterio subisce un temperamento solo nel caso in cui gli elementi di fatto, raccolti dalle forze di polizia, siano talmente risalenti nel tempo da non poter essere più considerati intrinsecamente idonei a supportare il giudizio di pericolo, anche per effetto di sopravvenienze quali la cessazione dell’attività imprenditoriale o l’esaurimento di determinati fenomeni organizzativi criminali (cfr. T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 18 maggio 2005 n. 6504). Orbene, nel caso di specie, persiste l’attualità degli elementi individuati a carico della ricorrente non solo perché non sono emersi eventi nuovi di segno contrario, valutabili da parte dell’autorità prefettizia, ma anche perché i fatti da cui sono stati desunti i tentativi di infiltrazione mafiosa si collocano in un periodo temporale non remoto (circa 5 anni addietro), in relazione ad un’organizzazione criminale che ha mantenuto intatta la sua forza intimidatrice. 3.8 Né sono trascurabili, al riguardo, i pregiudizi di polizia imputati ai dipendenti della società. Si osserva, innanzitutto, che l’estraneità alle cariche sociali dei predetti non costituisce congruo elemento per escludere una possibile influenza delle associazioni mafiose nella gestione aziendale, dal momento che il condizionamento delle scelte imprenditoriali può avvenire indipendentemente dall’acquisizione di ruoli di responsabilità. In secondo luogo, il pericolo di infiltrazioni mafiose assume connotazione oggettiva e prescinde dall’eventua- F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e le consapevolezza, in capo agli organi datoriali, dei singoli indizi gravanti sui dipendenti. Infine, nel caso specifico, il numero dei lavoratori pregiudicati (due su tre) e la tipologia dei reati contestati non possono non assurgere ad ulteriori indici della permeabilità della società alle influenze della malavita organizzata. Infatti, è vero che le ipotesi di reato ascritte ai dipendenti non sono formalmente connesse con il fenomeno associativo di stampo mafioso, ma è pur vero che le stesse, per la loro pericolosità sociale (si tratta nella specie di rapina, porto abusivo e detenzione di armi, violazione della legge sugli stupefacenti) acquistano comunque significatività in relazione al contesto territoriale di riferimento, nel quale la criminalità organizzata rappresenta l’approdo finale delle carriere delinquenziali ed il collettore ultimo dei proventi illeciti. Né sono invocabili, allo scopo di giustificare l’impiego di personale con pregiudizi, i principi contenuti nella legge n. 193/2000, che è testo normativo che si riferisce specificamente all’inserimento lavorativo della diversa categoria delle “persone detenute o internate negli istituti penitenziari” e che, comunque, non inibisce la portata indiziante di alcuni precedenti penali ai fini delle cautele antimafia in tema di appalti pubblici. 3.9 Le considerazioni sopra svolte rivestono ruolo assorbente nell’individuazione del pericolo di infiltrazioni mafiose e rendono ininfluenti le contestazioni attoree volte a sminuire la rilevanza indiziante delle rimanenti circostanze addotte dagli organi di polizia (sottoposizione a procedimenti di prevenzione antimafia di due soggetti ritenuti in collegamento con i soci). Infatti, pur essendo intervenuti i relativi provvedimenti giurisdizionali di proscioglimento, soccorre in merito il fondamentale principio giurisprudenziale secondo il quale, quando un provvedimento sia fondato su una pluralità di ragioni, tutte egualmente idonee a sorreggerne la parte dispositiva, l’eventuale illegittimità di uno dei motivi presi in considerazione dall’amministrazione non è sufficiente ad inficiare il provvedimento stesso (cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, 27 settembre 2004 n. 6301). 3.10 Parte ricorrente chiude il corredo delle doglianze formulate con un’ultima censura, articolata nella memoria conclusiva depositata il 21 gennaio 2009, con la quale prospetta, in relazione alla posizione dei dipendenti colpiti da pregiudizi, un presunto contrasto con le informazioni contenute nelle certificazioni del casellario giudiziale e dei carichi pendenti. La censura è inammissibile poiché è contenuta in atto difensivo non notificato alle controparti, in dispregio delle regole del contraddittorio. 4. In conclusione, resistendo i provvedimenti impugnati a tutte le censure prospettate, il ricorso, come in- 2 0 0 9 83 tegrato dai motivi aggiunti, deve essere respinto per infondatezza. Sussistono giusti motivi, attesa la delicatezza delle questioni trattate, per compensare integralmente tra le parti le spese e gli onorari di giudizio. […Omissis…]. ••• Nota a sentenza Sommario: Premessa – 1. I fatti che hanno dato origine alla controversia in esame – 2. Le statuizioni del T.A.R. – Considerazioni conclusive. Premessa Il T.A.R. Campania – Napoli, I Sezione, con la sentenza n. 5058/2009, chiamata a giudicare della legittimità degli atti di risoluzione di un contratto per effetto di una informativa antimafia adottata dalla competente Prefettura nei riguardi di una società affidataria di lavori pubblici, ha, fra l’altro, stabilito: a) che, in presenza di un protocollo di intesa che preveda una norma ad hoc, le pubbliche amministrazioni devono procedere alla richiesta di informative antimafia anche nel caso di appalti di valore inferiore alla soglia comunitaria; b) che, in materia di risoluzione del contratto conseguente a informativa antimafia interdittiva, l’onere motivazionale è soddisfatto mediante il mero richiamo alla informativa stessa, non essendo al riguardo necessaria l’allegazione del provvedimento prefettizio; c) che, in caso di informative antimafia interdittive, è necessario un ampio obbligo motivazionale soltanto nel caso in cui la pubblica amministrazione ritenga di non aderire alla portata inibitoria della informativa prefettizia; d) che, nel caso di specie, l’informativa interdittiva adottata dalla competente Prefettura era legittima non esponendosi a nessuna delle censure formulate dalla società ricorrente. 1. I fatti che hanno dato origine alla controversia in esame Una società affidataria di alcuni lavori di riqualificazione ambientale (peraltro, di valore inferiore alla soglia comunitaria), essendo stata destinataria di una informativa interdittiva della Prefettura territorialmente competente, diveniva destinataria, previa osservanza delle formalità procedimentali previste dall’art. 7 della legge 241/1990, di un provvedimento di risoluzione del contratto di appalto. Tale provvedimento (adottato, ovviamente, dalla stazione appaltante) veniva impugnato dalla suddetta società dinanzi al T.A.R. Campania – Napoli unitamente alla informativa antimafia interdittiva adottata dal competente Ufficio Territoriale di Governo (U.T.G.). Il ricorso al T.A.R. mirava, da un lato, ad ottenere amministrativo Gazzetta 84 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o la declaratoria di inapplicabilità agli appalti c.d. sotto soglia delle norme in tema di informative antimafia, dall’altro lato, a censurare il provvedimento di risoluzione del contratto nella parte in cui aveva omesso di allegare il provvedimento prefettizio e, dall’altro lato, infine, a denunciare la illegittimità della informativa adottata dal competente U.T.G. 2. Le statuizioni del T.A.R. Il T.A.R. Campania – Napoli, con la sentenza in esame, rigettava il ricorso, ritenendo che nessuna delle censure formulate dalla società ricorrente fosse meritevole di positiva valutazione. In particolare, in merito alla prima questione posta (ovvero quella della applicabilità della normativa antimafia anche nel caso di appalti c.d. sotto soglia), i giudici napoletani hanno “liquidato” la questione, osservando che la stazione appaltante aveva stipulato con la competente Prefettura un protocollo di intesa che espressamente estendeva i “controlli antimafia” anche agli appalti “sotto soglia”. Ebbene, ad avviso del T.A.R., non essendo tale accordo (adottato ai sensi dell’art. 15 della legge 241/1990) stato oggetto di specifica impugnativa da parte della società ricorrente, la doglianza formulata era da ritenersi priva di pregio. Sul punto, la sentenza, ad avviso dello scrivente, è condivisibile, dando applicazione a un recente precedente giurisprudenziale del Consiglio di Stato che, analizzando una fattispecie non del tutto identica alla presente, aveva avuto modo di affermare che l’art. 10 (del d.P.R. 252/1998) “non pone un divieto assoluto di richiedere informazioni per gli appalti sottosoglia comunitaria” (Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 240). Il Consiglio di Stato, in quell’occasione, in particolare, era stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità di una clausola di un bando di gara che prevedeva, nonostante si fosse in presenza di un appalto sotto soglia, l’obbligo della stazione appaltante di acquisire, ai fini della stipula del contratto, l’informativa antimafia. Ebbene, i giudici di Palazzo Spada, esaminando tale clausola del bando, pervennero alla conclusione che essa fosse legittima proprio in considerazione del fatto che la previsione dell’art. 10 sopra richiamato non era vincolante e tassativa e, dunque, non poteva precludere alla stazione appaltante la possibilità di estendere i controlli antimafia anche agli appalti sottosoglia comunitaria. Se, dunque, il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima la clausola del bando che estende anche agli appalti sottosoglia i controlli antimafia, è evidente, come osservato dal T.A.R. Campania – Napoli con la sentenza in esame, la correttezza dell’azione amministrativa posta in essere dalla stazione appaltante che, nel momento in cui ha ricevuto la informativa antimafia interdittiva, ha immediatamente proceduto alla risoluzione del Gazzetta F O R E N S E contratto di appalto senza compiere alcuna ulteriore valutazione in merito alle ragioni di pubblico interesse che giustificavano la interruzione del rapporto contrattuale. Difatti, se i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto che le stazioni appaltanti possono legittimamente prevedere (nell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale) l’estensione dei controlli antimafia anche agli appalti sottosoglia comunitaria, è del tutto evidente che la stipula di un protocollo di intesa (avente valore di accordo ex art. 15 della legge 241/1990) con la competente Prefettura che espressamente prevedeva tale estensione, imponeva alla stazione appaltante di eseguire i controlli de quibus e, dunque, in presenza di informativa interdittiva procedere alla risoluzione del contratto di appalto. Al riguardo, andando anche oltre rispetto a quanto statuito dal T.A.R. (il quale, si ripete, si è limitato a rilevare l’omessa impugnazione della norma del protocollo di intesa che estendeva la verifica in questione anche ad appalti di valore inferiore alla soglia comunitaria), potrebbe ritenersi che, laddove l’accordo de quo fosse stato in parte qua impugnato, la stazione appaltante abbia legittimamente esercitato i poteri di controllo previsti dalla normativa antimafia. In secondo luogo, il T.A.R., non condividendo la censura formulata dalla società ricorrente, ha escluso che si potesse configurare un difetto motivazionale in ragione del fatto che al provvedimento impugnato non era allegata l’informativa antimafia, essendosi la stazione appaltante semplicemente limitata a riportare i dati di riferimento della stessa. Sul punto, in particolare, i giudici napoletani hanno osservato – aderendo a un principio oramai pressoché consolidato (si veda, sul punto, Cons. Stato, Sez. VI, 4 maggio 2009, n. 2773) – che “nel caso di provvedimento motivato per relationem, non occorre necessariamente che l’atto richiamato dalla motivazione debba essere portato nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, essendo invece sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell’atto richiamato, dovendo essere l’atto stesso messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte”. In terzo luogo, il T.A.R. non ha condiviso la censura formulata dalla società ricorrente laddove mirava a denunciare un presunto difetto motivazionale, consistente nell’insufficiente richiamo alla informativa antimafia anche in considerazione della omessa valutazione dell’interesse pubblico sotteso alla statuizione di risoluzione contrattuale. Il collegio napoletano ha, infatti, ancora una volta ribadito che “in presenza di informative tipiche, le determinazioni amministrative in ordine alla rescissione dei contratti d’appalto in corso assumono di regola carattere vincolato, non potendo l’ordinamento tollerare, per evidenti ragioni di ordine pubblico e di tutela F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e dell’Amministrazione dai condizionamenti della criminalità organizzata, la sopravvivenza di rapporti contrattuali con imprese interessate da tentativi di infiltrazione mafiosa. L’unico margine di discrezionalità della stazione appaltante rimane circoscritto alla valutazione di opportunità, per l’interesse pubblico, che prosegua il rapporto contrattuale già instaurato, allorché tale rapporto perduri da un cospicuo lasso di tempo e sussistano concrete e stringenti ragioni che rendano del tutto sconveniente per l’amministrazione l’interruzione della fornitura, del servizio o dei lavori oggetto del contratto revocando; pertanto, la motivazione dovrà essere ampia e dettagliata quando l’Amministrazione ritenga (eccezionalmente) di valorizzare tali circostanze, ma non quando intenda aderire alla portata inibitoria dell’informativa prefettizia. In quest’ultimo caso, invero, a giustificare l’adozione del provvedimento di revoca è sufficiente il mero rinvio alla misura interdittiva”. Il T.A.R., in sostanza, in maniera ancora una volta del tutto condivisibile e in linea con l’evoluzione giurisprudenziale formatasi sul tema, ha ritenuto che nel caso di informative antimafia interdittive in tanto è richiesta una rigorosa motivazione soltanto nel caso in cui la stazione appaltante ritenga che sussistano condizioni (eventualmente anche di interesse pubblico, in ragione, fra l’altro, del tempo trascorso dalla stipula del contratto) per non procedere alla risoluzione del contatto. Per intenderci, dunque, le p.a., in presenza di informative interdittive, devono con un atto tipicamente vincolato procedere alla risoluzione del contratto senza dovere adottare motivazioni articolate. Un obbligo motivazionale (che non può, dunque, limitarsi al mero richiamo alla informativa antimafia, sufficiente, si ripete, in caso di scioglimento del vincolo contrattuale) sussiste, infatti, soltanto nel caso in cui vengano ravvisate ragioni di pubblico interesse che giustifichino la prosecuzione del rapporto contrattuale. Il T.A.R., infine, nel rigettare i restanti motivi di ricorso (attinenti, per così dire, al “merito” delle questioni sollevate dalla società ricorrente), ha ritenuto che l’informativa antimafia adottata dalla locale prefettura non poteva essere smentita né dai negativi certificati dei carichi pendenti e del casellario giudiziale esibiti dalla società ricorrente in giudizio (e dai quali emergeva la assenza di condanne e/o procedimenti penali per i fatti contestati dal competente U.T.G.), da un lato, né dalla dichiarazione (di assenza di controindicazioni antimafia) contenuta in calce al certificato camerale della stessa società destinataria della informativa interdittiva della Prefettura. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, il T.A.R. ha escluso che si potesse rilevare una contraddittorietà della informativa antimafia interdittiva (in relazione, cioè, alle risultanze del certificato camerale) in considerazione del fatto che “le valutazioni demandate alla competenza della Prefettura, al fine di verificare l’as- 2 0 0 9 85 senza di tentativi di infiltrazione mafiosa, involgono profili non coincidenti con quelli posti a base della certificazione camerale e possono comportare per la ditta interessata che l’informativa prefettizia si colori sfavorevolmente anche a fronte di una favorevole certificazione antimafia. Pertanto, la circostanza che il certificato camerale rechi la dicitura antimafia, volta ad attestare l’inesistenza delle situazioni ostative di cui all’art. 10 della legge n. 575/1965, non può assumere alcun rilievo per inferire l’illogicità o la contraddittorietà della diversa ed autonoma situazione ostativa rappresentata dai tentativi di infiltrazione mafiosa, descritti nell’informativa prefettizia”. Riguardo, invece, alla prima questione (cioè quella del rapporto fra certificati penali e informative antimafia) il T.A.R. ha posto la propria decisione (negativa per la società ricorrente) sulla circostanza che la norma introduttiva dell’informativa prefettizia “si spiega nella logica di una anticipazione della soglia di difesa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto della criminalità organizzata, in guisa da prescindere da soglie di rilevanza probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità dell’impresa affidataria dei lavori complessivamente intesa. […] E tanto specie se si pone mente alla circostanza prima rimarcata che le cautele antimafia non obbediscono a finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, rispetto alla quale sono per legge rilevanti fatti e vicende anche solo sintomatici ed indiziari, al di là dell’individuazione di responsabilità penali.” (così Cons. Stato, Sez. VI, sent. n. 2867/2006, cit.). In sostanza, secondo il T.A.R. (e sul punto i precedenti richiamati nella sentenza in esame, anche del Consiglio di Stato, sono chiarissimi) la mancanza di una condanna penale non vale ad escludere la legittimità di una informativa antimafia, atteso che, ai fini della sua adozione, non occorre né la prova del reato né tanto meno quella della effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa né ancora quella del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi. La Prefettura, quindi, in base a tali principi, potrà adottare una informativa antimafia interdittiva – anche eventualmente anticipando quelli che potrebbero essere gli scenari di un eventuale successivo giudizio penale – anche in presenza di un quadro indiziario preciso e concordante che dia prova del pericolo di condizionamento mafioso nella gestione amministrativa della società. Ovviamente, tale potere (anche al fine di evitare che si sconfini nella creazione e legittimazione di uno “Stato di Polizia”), sebbene particolarmente ampio, proprio in virtù di quanto sopra evidenziato, in nome dei principi di legalità e di certezza del diritto, non potrà essere mai fondato su semplici sospetti o mere congiunture, amministrativo Gazzetta 86 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o dovendo essere sorretto, come specificamente segnalato dal T.A.R. Campania – Napoli con la sentenza in esame, da “idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rilevatori di concrete connessioni o collegamenti con la crimaniltà organizzata”. Considerazioni conclusive La pronuncia del T.A.R. Campania – Napoli, dunque, pur affrontando questioni molto interessanti (anche in ordine all’ambito di applicazione dei controlli antimafia che possono essere esercitati dalle stazioni appaltanti), si pone sostanzialmente in linea con la rigorosa evoluzione giurisprudenziale formatasi (peraltro, soprattutto “grazie” al collegio napoletano) sul tema delle informative antimafia interdittive e sui poteri di risoluzione del contratto che possono essere esercitati dalle stazioni appaltanti. In definitiva, viene ancora una volta ribadito il po- Gazzetta F O R E N S E tere (del tutto vincolato) delle stazioni appaltanti, anche nel caso di appalti sottosoglia, di procedere alla automatica risoluzione del contratto in presenza di informative antimafia interdittive. Ovviamente, poi, escluso che sia sindacabile la scelta della stazione appaltante di interrompere il rapporto contrattuale in presenza di informative antimafia interdittive, la verifica di legittimità demandata ai giudici amministrativi si sposta completamente sul provvedimento prefettizio; provvedimento che, come si va sempre più spesso ad affermare in giurisprudenza, gode di una discrezionalità sempre più ampia, i cui limiti sono semplicemente costituiti dalla osservanza dei principi di legalità e di certezza del diritto. Solo la violazione di tali principi, in conclusione, rende illegittime le determinazioni della competente prefettura e, di conseguenze, quelle delle stazioni appaltanti che determinano la interruzione del rapporto contrattuale. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e ● Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.) ● A cura di Almerina Bove Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania 2 0 0 9 87 ANNULLAMENTO DELL’AGGIUDICAZIONE ED EFFETTI SUL CONTRATTO IN CORSO CON L’AGGIUDICATARIA Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n.7387 (Codice dei contratti, artt. 244 e 245) Ove l’aggiudicazione venga annullata su ricorso del secondo classificato in quanto frutto della erronea applicazione della legge di gara, all’annullamento si aggiunge l’affermazione della responsabilità della pubblica amministrazione. Ove il contratto, peraltro, sia già stato stipulato e ne sia iniziata l’esecuzione, in sede di giudizio relativo all’aggiudicazione non è consentito caducare il contratto (secondo l’insegnamento della Plenaria e delle Sezioni Unite), dovendosi piuttosto riconoscere il risarcimento del danno per equivalente nella misura del mancato utile per la parte di appalto già eseguita fino alla data di comunicazione o, se anteriore, notificazione della decisione di annullamento. Il mancato utile è quello effettivo quale si desume dall’offerta presentata in gara. In capo all’Amministrazione deriva, inoltre, l’obbligo di adottare, in esecuzione della pronuncia di annullamento, i pertinenti provvedimenti in ordine al contratto in corso, al fine dell’aggiudicazione dell’appalto alla ricorrente e del suo subentro nel rapporto contrattuale, nel rispetto delle condizioni della originaria gara e dell’offerta ivi formulata dalla stessa. CALCOLO DELLA SOGLIA DI ANOMALIA DELLE OFFERTE – INAMMISSIBILITà DI ARROTONDAMENTI, IN ASSENZA DI ESPRESSA PREVISIONE IN TAL SENSO NELLA LEX SPECIALIS (Codice dei contratti, art.86) Consiglio di Stato, sez. V, 12 novembre 2009, n.7042 Laddove la lex specialis si limiti a prescrivere l’indicazione dei ribassi delle offerte sino alla terza cifra decimale, senza formulare regole speciali afferenti alla determinazione della soglia di anomalia, l’arrotondamento previsto per i ribassi delle offerte non può trovare applicazione nei calcoli successivi per la determinazione della soglia di anomalia. Ciò in quanto, da un lato, la formulazione delle offerte e il calcolo della soglia di anomalia costituiscono fasi ontologicamente e teleologicamente diverse, tra le quali è non dato intravedere alcun rigido collegamento; dall’altro, l’arrotondamento dei ribassi offerti ha il solo scopo di assicurare la loro omogeneità (che può risultare più comoda, ancorché non necessaria, atteso che si possono confrontare anche valori dotati di un numero diverso di decimali), mentre ben diversa è la realtà dei calcoli successivi, che contengono quozienti e che quindi possono comportare un numero di decimali anche elevato, con la conseguenza che l’introduzione dell’arrotondamento rischierebbe di falsarne il risultato. Poiché nella delicata fase di individuazione dell’offerta più bassa e di esclusione delle offerte ricadenti automaticamente oltre la soglia di anomalia ogni arrotondamento costituisce una deviazione dalle regole matematiche da applicare in via automatica, deve ritenersi che gli amministrativo Gazzetta 88 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o arrotondamenti siano consentiti solo se espressamente previsti dalle norme speciali della gara. CAUZIONE PROVVISORIA – RICHIESTA DI SVINCOLO – COSTITUISCE COMPORTAMENTO INCOMPATIBILE CON LA VOLONTà DI CONSEGUIRE L’AGGIUDICAZIONE E DETERMINA, PERTANTO, LA INAMMISSIBILITà DEL RICORSO AVVERSO L’AGGIUDICAZIONE AD ALTRA PARTECIPANTE Consiglio di Stato, sez. V, 12 novembre 2009, n. 7055 (Codice dei contratti, artt.75; 245) La richiesta, senza alcuna riserva, dello svincolo della cauzione provvisoria costituisce comportamento volto a riacquistare la disponibilità delle somme destinate a garantire la serietà dell’offerta del ricorrente e si pone, pertanto, in contrasto, per facta concludentia, con la volontà di conseguire l’aggiudicazione definitiva del servizio. Ne deriva che il partecipante alla gara che abbia chiesto lo svincolo della cauzione è carente di interesse a ricorrere avverso l’aggiudicazione. COMMISSIONE DI GARA – NATURA E LIMITI, SOSTANZIALI E TEMPORALI, DELLE FUNZIONI Consiglio di Stato, sez. V, 12 novembre 2009, n.7042 (Codice dei contratti, art.11) La commissione di gara è un organo straordinario e temporaneo dell’amministrazione aggiudicatrice (C.d.S., sez. IV, 4 febbraio 2003, n. 560; C.G.A., 6 settembre 2000, n. 413; e non già una figura organizzativa autonoma e distinta rispetto ad essa, C.d.S., sez. V, 14 aprile 1997, n. 358), la cui attività acquisisce rilevanza esterna solo in quanto recepita e approvata dagli organi competenti della predetta amministrazione appaltante. Essa svolge, invero, compiti di natura essenzialmente tecnica, con funzione preparatoria e servente, rispetto all’amministrazione appaltante, essendo investita della specifica funzione di esame e valutazione delle offerte formulate dai concorrenti, finalizzata alla individuazione del miglior contraente possibile, attività che si concreta nella c.d. aggiudicazione provvisoria. La funzione di detta commissione si esaurisce soltanto con l’approvazione del suo operato da parte degli organi competenti dell’amministrazione appaltante e, cioè, con il provvedimento di c.d. aggiudicazione definitiva: nel periodo intercorrente tra tali atti non può fondatamente negarsi il potere della stessa commissione di riesaminare nell’esercizio del potere di autotutela il procedimento di gara già espletato, anche riaprendo il procedimento di gara per emendarlo da errori commessi e da illegittimità verificatesi, anche in relazione all’eventuale illegittima ammissione o esclusione dalla gara di un’impresa concorrente. Tale potere di riesame può essere esercitato anche indirettamente, informando cioè del dubbio di legittimità del proprio stesso operato il competente organo dell’amministrazione appaltante investito del potere di approvazione degli atti di gara ed invitandolo, pertanto, Gazzetta F O R E N S E a sospendere il procedimento finalizzato all’aggiudicazione definitivo e a rimettere gli atti alla stessa commissione di gara per il riesame delle questioni dubbie. ENTI SENZA SCOPO DI LUCRO – POSSONO PARTECIPARE ALLA GARA, OVE SVOLGANO ATTIVITà ECONOMICA Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n.7387 (Codice dei contratti, art. 34) L’art. 34, D.Lgs. n. 163/2006 va interpretato in chiave comunitariamente compatibile, tenendo presente che secondo il diritto comunitario il fine di lucro non è essenziale per la definizione di un soggetto come operatore economico. Conformemente a quanto espresso dalla Corte di Giustizia CE (C. giust. CE, sez. III, 29 novembre 2007 C- 119/06) ed alle pronunce di questo Consesso (C.d.S., sez. VI, 16 giugno 2009 n. 3897; C.d.S., sez. VI, 30 giugno 2009 n. 4236), deve ritenersi che l’assenza di fini di lucro non esclude che l’ente eserciti un’attività economica e costituisca impresa ai sensi delle disposizioni del trattato relative alla concorrenza, in guisa che può partecipare alla gare pubbliche. GIUDIZIO IMMEDIATO IN ESITO ALL’UDIENZA CAUTELARE – 1. NATURA, PRESUPPOSTI E REGIME DELL’EVENTUALE APPELLO – 2. L’ERRORE DEL GIUDICE DI PRIME CURE IN ORDINE AI PRESUPPOSTI NON DETERMINA L’ANNULLAMENTO CON RINVIO Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n. 7387 (Codice dei contratti, artt. 244, 245) 1. Tra le due diverse possibili soluzioni esegetiche, quella secondo cui i presupposti del giudizio immediato in esito all’udienza cautelare (art. 21, l. Tar) coincidono esattamente con quelli previsti per il giudizio immediato in generale (situazione manifesta, ai sensi dell’art. 26, l. Tar), e la tesi secondo cui il giudizio immediato in esito all’udienza cautelare può aversi anche in presenza di situazioni non manifeste, merita condivisione la seconda. La definizione immediata della lite nel merito in esito all’udienza cautelare non è, invero, ancorata alla “semplicità” delle questioni, trattandosi invece di facoltà che il giudice può sempre esercitare, anche a fronte di liti complesse, purché contraddittorio e istruttoria siano completi; trattasi dunque di istituto di carattere generale, che risponde al principio di economia processuale e ragionevole durata del processo. Il rinvio operato dall’art. 21, l. Tar, all’art. 26, della medesima legge non va, dunque, inteso come rinvio al presupposto della “situazione manifesta”, ma come rinvio alla disciplina della forma della decisione. La “forma semplificata”- la quale attiene alla veste esteriore della sentenza, non al suo contenuto, e non implica sconti sul piano della completezza dell’esame degli atti di causa e dell’esaustività della motivazione sui punti essenziali – può essere considerata un istituto generale del processo amministrativo e del processo in generale, risalente addirittura al r.d. n. 642/1907 (a tenore del quale, art. 65, la sentenza F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e reca “una succinta esposizione dei motivi di fatto e di diritto”) e ormai espressamente codificato anche nel processo civile (art. 118, co. 1, disp. att. c.p.c., come novellato dalla l. n. 69/2009: “la motivazione della sentenza consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”). Essa non è, pertanto, ontologicamente differente dalla doverosa sinteticità a cui il giudice è tenuto in qualsiasi provvedimento giurisdizionale, non diversamente dalla doverosa sinteticità a cui sono tenuti anche tutti gli scritti di parte, e tanto in ossequio ai più generali principi di economia processuale, lealtà, esigenza di celere svolgimento dei giudizi con omissione di atti e attività inutili. Anche ove, in via di mera ipotesi, si aderisse alla tesi secondo cui il giudizio immediato in esito all’udienza cautelare presuppone una situazione manifesta, è comunque assorbente la considerazione, già fatta dalla giurisprudenza di questo Consesso, che, poiché nel disegno della legge l’iniziativa della definizione immediata appartiene esclusivamente al giudice – tanto che può decidere in mancanza della costituzione delle parti ed anche contro la loro volontà – la sua scelta deve intendersi quale espressione di una valutazione di opportunità insindacabile in appello, fermo il limite del rispetto del principio del contraddittorio (C.d.S., sez. V, 11 luglio 2008 n. 3480; C.d.S., sez. V, 13 febbraio 2009 n. 824). 2. Sicché, ove il giudice definisca il giudizio in via immediata in mancanza del presupposto della c.d. “situazione manifesta”, tale mancanza, dedotta come motivo di appello, non comporta la regressione del giudizio in prime cure, ostandovi il disposto dell’art. 35, l. Tar che individua una serie tassativa di cause di annullamento con rinvio, fra le quali non è contemplata quella in esame. In particolare, deve escludersi che ricorra l’ipotesi del vizio di procedura o di forma della sentenza impugnata; al più, infatti, l’erronea percezione del presupposto della “situazione manifesta” può assimilarsi ad un error in iudicando che, come tale, impone al Consiglio di Stato di trattenere la causa per la decisione ex art. 35, co. 3, l. Tar (C.d.S., sez. V, 11 luglio 2008 n. 3480). REQUISITI DI ORDINE GENERALE – 1. INDIVIDUAZIONE DEI SOGGETTI TENUTI ALLE RELATIVE DICHIARAZIONI – 2. INDIVIDUAZIONE DELLE MODALITà SOSTITUTIVE DI DICHIARAZIONE Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n. 7380 (Codice dei contratti, art38) 1. Sulla portata e sulla “causale” dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163/2006 appare al Collegio pienamente condivisibile il più recente approdo rappresentato dalla decisione n. 523/2007, improntato ad una interpretazione (non già inammissibilmente estensiva ma) sostanzialistica della disposizione in oggetto, secondo cui destinatari del precetto normativo sono non soltanto gli amministratori ma tutti coloro che, titolari del potere 2 0 0 9 89 di rappresentanza della persona giuridica, sono comunque in grado di trasmettere, con il proprio comportamento, la riprovazione dell’ordinamento nei riguardi della loro personale condotta, al soggetto rappresentato” (C.d.S., sez. V, 15 gennaio 2008, n. 36). 2. La giurisprudenza amministrativa ha in passato affermato il principio per cui “è ammissibile, in sede di gara pubblica, sostituire il certificato del casellario giudiziale con una dichiarazione resa ai sensi dell’art. 2 d.P.R. 20 ottobre 1998 n. 403, che può riguardare anche soggetti diversi dal dichiarante, purché si abbia conoscenza diretta del relativo stato; la sottoscrizione della dichiarazione non deve essere autenticata ma è sufficiente che sia resa innanzi al responsabile del procedimento oppure accompagnata dalla copia informale di un documento di identità del sottoscrittore” (C.d.S., sez. V, 02 luglio 2001, n. 3602, principio confermato dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato con la decisione n. 7473/2003). Da un canto, però, tale “surroga” deve attenere a fatti e circostanze dei quali il dichiarante abbia diretta conoscenza e, sotto altro profilo, la giurisprudenza di merito successiva tende a limitare tale applicazione alle pubbliche gare del precetto di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 47 del D.P.R. n. 445/2000 alle ipotesi in cui il legale rappresentante dell’impresa non possa altrimenti produrre una autodichiarazione proveniente dal soggetto cui i fatti asseverati si riferiscono, perché questi non vuole o non può renderla (si veda sul punto la decisione del T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV, 04 novembre 2005, n. 1995 riguardante la posizione di un soggetto cessato dalla carica, laddove si è evidenziato che le dichiarazioni sono da ques’ultimo rese non nel proprio interesse, bensì nell’interesse dell’Impresa concorrente – che in mancanza di esse dev’essere esclusa, dal momento che la normativa che le prevede è di ordine pubblico – facendone discendere che, per evitare l’esclusione, il legale rappresentante dell’Impresa interessata abbia l’onere di rendere le dichiarazioni in questione in sua vece). REQUISITI DI PARTECIPAZIONE ALLA GARA IN RELAZIONE ALL’OGGETTO DELL’APPALTO ED AL CD. VOCABOLARIO COMUNE DEGLI APPALTI. Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n.7387 (Codice dei contratti, artt. 34; 64, co. 4; allegato II) L’allegato II al D.Lgs. n. 163/2006 reca l’elenco dei servizi oggetto dei pubblici appalti, i quali sono divisi in categorie generali numerate progressivamente e aventi un nome generale e onnicomprensivo. I servizi appartenenti a ciascuna categoria generale vengono poi specificati mediante indicazione del numero di riferimento CPC e CPV. In particolare, per CPV si intende il vocabolario comune degli appalti, contenuto nel regolamento CEE n. 2195/2002, più volte modificato. Il vocabolario comune degli appalti serve ad individuare l’oggetto dell’appalto, che nei bandi comunitari di amministrativo Gazzetta 90 d i r i t t o a m m i n i s t r at i v o appalti di servizi deve essere, appunto, identificato facendo riferimento ad una categoria e ad uno o più numeri della nomenclatura CPV. In particolare, l’art. 64, co. 4, D.Lgs. n. 163/2006 dispone che il bando di gara contiene, tra l’altro, “le informazioni di cui all’allegato IX A”. A sua volta l’allegato IX-A indica il contenuto minimo e tipico dei bandi, statuendo che negli appalti di servizi si devono indicare: “categoria del servizio e sua descrizione. Numero(i) di riferimento della nomenclatura”. Nella classificazione CPV, sono elencati analiticamente i servizi riconducibili a ciascuna categoria generale, e a ciascun servizio è attribuito un numero di identificazione. Merita condivisione l’orientamento secondo cui, poiché difficilmente vi è una esatta corrispondenza terminologica tra servizio da affidare e oggetto sociale quale risulta dal certificato della Camera di commercio, ciò che rileva ai fini della partecipazione è la presenza, sotto il profilo sostanziale, delle attività cui è riconducibile il servizio posto a gara (C.d.S., sez. VI, 13 maggio 2008 n. 2218); tuttavia, laddove la lex specialis richieda espressamente la iscrizione per una determinata categoria, deve ritenersi esclusa la partecipazione a soggetti iscritti per categoria diversa. È consentito all’Amministrazione ampliare sia le categorie cui è riconducibile l’appalto, sia, e soprattutto, i relativi requisiti di partecipazione. È, peraltro, preclusa la partecipazione alla gara laddove, pur nel silenzio del bando in ordine alla necessaria iscrizione per una determinata categoria, vi sia una radicale diversità tra servizi oggetto della gara e servizi indicati nell’oggetto sociale, da individuarsi sul piano sostanziale e non meramente formale. RIAPERTURA DEL PROCEDIMENTO DI GARA VOLTO AD EMENDARE VIZI – NON COSTITUISCE NUOVO PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO E NON NECESSITA DI COMUNICAZIONE DELL’ AVVIO DEL PROCEDIMENTO E DELLE SUCCESSIVE ATTIVITà DELLA COMMISSIONE, MA SOLTANTO DELLA DATA IN CUI LA COMMISSIONE PROCEDERà AL RIESAME Consiglio di Stato, sez. V, 12 novembre 2009, n. 7042 (Codice dei contratti, art.11) La riapertura del procedimento di gara ai fini dell’esercizio del potere di autotutela volto ad eliminare illegittimità precedentemente verificatesi non costituisce un nuovo procedimento amministrativo, essendo unico il procedimento di gara per la scelta del contraente nei pubblici appalti che ha inizio con il bando di gara e si conclude solo con l’aggiudicazione definitiva. Ne deriva che – sempre che non sia già intervenuto il provvedimento di aggiudicazione definitiva – non è necessaria la comunicazione della riapertura del procedimento di gara e delle successive attività della commissione ma solo la comunicazione della data in cui la commissione Gazzetta F O R E N S E procede al riesame, indispensabile ai fini del rispetto dei principi di pubblicità e trasparenza che pure devono presiedere allo svolgimento delle pubbliche gare. RICORSO PRINCIPALE AVVERSO L’AGGIUDICAZIONE E RICORSO INCIDENTALE PROMOSSO DALL’AGGIUDICATARIA – INDIVIDUAZIONE DELL’ORDINE LOGICO DI TRATTAZIONE DEI RICORSI – CONSEGUENZE DELLA RIFORMA DELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO CHE ABBIA OMESSO DI ESAMINARE IL RICORSO PRINCIPALE IN SEGUITO ALL’ACCOGLIMENTO DEL RICORSO INCIDENTALE Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n.7380 (Codice dei contratti, artt. 244, 245) Conformemente a quanto affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione n. 11/2008, deve ritenersi che “per i principi della parità delle parti e di imparzialità del giudice, quando le due uniche imprese ammesse alla gara abbiano ciascuna impugnato l’atto di ammissione dell’altra, la scelta in merito all’ordine di trattazione tra appello principale e appello incidentale non può avere rilievo decisivo sull’esito della lite. Pertanto la fondatezza del ricorso incidentale, esaminato preliminarmente, non preclude l’esame di quello principale, né la fondatezza del ricorso principale, esaminato preliminarmente, preclude l’esame di quello incidentale, poiché entrambe le imprese sono titolari dell’interesse minore e strumentale all’indizione di una ulteriore gara”. L’omesso esame delle censure veicolate con il ricorso principale di primo grado, pertanto, e pur a seguito dell’esame prioritario, e dell’accoglimento, delle impugnazioni incidentali, configura statuizione inesatta e che merita riforma. La esattezza dell’intuizione contenuta nella decisione della Adunanza Plenaria appare, tra l’altro, indubitabile anche alla luce della ulteriore considerazione del fatto che la pedissequa applicazione del principio della portata paralizzante sul ricorso principale spiegato dall’accoglimento del ricorso incidentale rischierebbe di attribuire portata irrimediabile all’inesatto operato della stazione appaltante. A fronte di vizi delle domande di partecipazione ad una gara che attingessero tutte le aspiranti (cui conseguirebbe la necessità di escludere tutte le partecipanti, e provvedere a rieditare la gara d’ appalto), infatti, dalla determinazione dell’amministrazione che, non cogliendo tali vizi, aggiudicasse la gara all’una, piuttosto che all’altra, scaturirebbe – sul versante processuale – un ineliminabile pregiudizio in capo alla non aggiudicataria, ed una ingiusta rendita di posizione in capo alla prescelta aggiudicataria. La prima, infatti, avendo interesse a gravare la statuizione che ha aggiudicato all’altra la gara, resterebbe esposta al ricorso incidentale dell’aggiudicataria la quale, pur magari versando in situazione di irregolarità pari o financo maggiormente significativa della prima, F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e potrebbe incidentalmente dedurre i vizi che attingevano la posizione della impugnante e resterebbe immune dalla verifica giudiziale dei vizi attingenti la propria posizione, in quanto il ricorso principale sarebbe dichiarato inammissibile. Né coglie nel segno la obiezione per cui la situazione tratteggiata non differisce dalla eventualità in cui nessuna impugnazione venga proposta avverso la gara medesima (anche in tale evenienza la aggiudicataria ricaverebbe un ingiusto privilegio dall’errore della stazione appaltante che non rilevò i vizi attingenti la propria posizione): il processo amministrativo, infatti, seppure improntato al principio dispositivo, persegue il 2 0 0 9 91 fine di pervenire ad una statuizione conforme a giustizia, anche nel superiore interesse dell’amministrazione, che rilevi i vizi dell’azione amministrativa, ove offerti alla cognizione giudiziale, ed al contempo garantisca la parità processuale delle parti, che risulterebbe irrimediabilmente pregiudicata da un diverso modus procedendi. All’erronea declaratoria della inammissibilità dell’impugnazione principale non segue l’annullamento con rinvio della appellata decisione, non ricorrendo l’ipotesi di “difetto di procedura o vizio di forma” di cui all’art. 35 della L. n. 1034/1971 (si veda, ex multis, sul punto C.d.S., sez. V, 23 aprile 1998, n. 474). amministrativo Gazzetta diritto Tributario Alcune note sulla frode fiscale 95 Nadia Di Massa Dottoranda di Ricerca in Diritto Tributario presso la facoltà di Economia della SUN Osservatorio di giurisprudenza tributaria A cura di Raffaele Cantone Magistrato presso il Massimario della Cassazione 105 tributario Gli effetti della sentenza C. 132/06 sul condono fiscale; la parola alle Sezioni Unite F O R E N S E ● Alcune note sulla frode fiscale ● Nadia Di Massa Dottoranda di Ricerca in Diritto Tributario presso la facoltà di Economia della SUN n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 95 Sommario: 1. La definizione della frode fiscale – 2. Excursus legislativo – 3. Il principio di specialità – 4. Differenziazione fra la frode fiscale e l’elusione – 5. La legge delega n. 205/1999 – 6. Le dichiarazioni fraudolente nel D.Lgs. n. 74/2000 – 7. Fattispecie residuali prive del carattere della fraudolenza – 8. I delitti in materia di documenti e pagamento di imposte – 9. Le circostanze attenuanti – 10. Giurisprudenza significativa in materia di reati tributari – 11. Cenni ai rapporti tra processo penale e giudizio tributario – 12. “Tax planning”. 1. La definizione della frode fiscale Una problematica divenuta sempre più attuale è quella della frode fiscale, soprattutto alla luce dei repentini tracolli finanziari intervenuti con sempre maggiore frequenza. Va rilevato che la legge non ha mai fornito un’esplicita definizione del concetto di frode fiscale, tuttavia si è concordi nel ravvisare tale figura quando un soggetto, con artifici e raggiri, induce in errore altri, procurando a se stessi o ad altri un vantaggio ingiusto e, quindi, un danno ingiusto alla vittima in questione. Si configura un illecito vero e proprio, avendosi una concreta violazione della norma tributaria. La frode fiscale, quale reato tributario, era precedentemente disciplinata dall’art. 4 L. n. 516/1982 (c.d. “Manette agli evasori”), che nello specifico distingueva sette condotte criminose riconducibili alla figura in oggetto, con la frode più grave riportata alla lett. f) dell’articolo citato. Obiettivo della norma era impedire che i contribuenti, mediante espedienti artificiosi, potessero evadere i tributi a danno dell’Erario. Come si vedrà nel corso della dissertazione, la riforma dei reati tributari del 2000 ha operato un cambio completo di visuale, restringendo la materia delle fattispecie di punibilità soltanto a condotte caratterizzate da alta offensività e dal dolo specifico di evasione, direttamente correlate, sia oggettivamente che soggettivamente, alle lesioni degli interessi fiscali. È interessante l’individuazione di specifiche frodi1, che ormai costellano il panorama economico a respiro nazionale ed internazionale: le frodi interne (poste in essere a danno della società dai suoi dipendenti e dai suoi amministratori) e quelle esterne (realizzate da soggetti esterni alla società); le corporate fraud (frodi interne compiute dai vertici aziendali) e le white collar crime (anch’esse classificabili come frodi interne, ma poste in essere dai dipendenti); le frodi off the book (quelle che lasciano traccia nell’ambito delle rilevazioni cintabili) e le frodi on the book (in cui, invece, la rilevazione conta- 1 G. Laganà, P. Gallo Riva, D. Mastromarchi, Come nascono le frodi societarie, come scoprirle, come prevenirle, Il Sole 24 Ore, 2005. tributario Gazzetta 96 d i r i t t o bile è corretta, mentre è scorretto il comportamento a monte). È stato giustamente osservato che è impossibile configurare con precisione l’estensione del fenomeno2, sicché i danni subiti dalle aziende sono in realtà superiori rispetto a quelli dichiarati. Il legislatore, nel corso degli anni, ha più volte cercato di porre rimedio a tale situazione, ma spesso con risultati deludenti. Esiti positivi sono scaturiti grazie alla riforma del 2000 citata, che ha introdotto un sistema incentrato su un ristretto numero di ipotesi di natura delittuosa, caratterizzate dal dolo specifico di evasione. Il fulcro del nuovo impianto va individuato in tre tipologie criminose, ossia la “dichiarazione fraudolenta” (artt. 2 e 3 D.Lgs. n. 74/00), la “dichiarazione infedele” (art. 4) e la “omessa dichiarazione” (art. 5). 2. Excursus legislativo Il legislatore tributario, per colmare i vuoti del sistema sanzionatorio penale tributario dell’inizio del Novecento, emanò la nota L. n. 4/1929, recante le “Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie”. Tuttavia tale legge, non contenendo specifiche ipotesi di reato, ha comportato un frequente rinvio alle disposizioni del c.p. e del c.p.p. Tra i suoi articoli, rilevano il primo, contenente il principio di fissità della legge penale tributaria, secondo cui le disposizioni della legge non sono abrogabili o modificabili da leggi posteriori riguardanti i singoli tributi, se non con dichiarazione espressa del legislatore; l’art. 20, relativo al principio di ultrattività, per cui le disposizioni in esame si applicano ai fatti posti in essere quando tali disposizioni sono in vigore, sebbene esse siano state abrogate o modificate al tempo della loro applicazione; l’art. 21 riguardante il principio della pregiudiziale tributaria, secondo cui l’azione penale poteva avere luogo solo dopo l’accertamento tributario. La legge del 1929 si è, però, rivelata inefficace a combattere l’evasione e la frode fiscale, proprio in considerazione dell’effetto paralizzante della pregiudiziale tributaria, che comportava una concreta impossibilità dell’esercizio dell’azione penale a causa dei notevoli tempi occorrenti per la definizione dell’accertamento tributario. Si è così giunti, all’inizio degli anni ‘80, ad un nuovo intervento normativo, il cui frutto è stato il D.L. n. 429/1982, convertito in L. n. 516/1982, recante le “Norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto” (c.d. legge 2 P. Dell’Anno, I reati tributari in materia di imposte dirette ed Iva, Giuffrè, Milano, 1992, p. 178. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E “Manette agli evasori”). Tale impianto aveva previsto l’abolizione sia della pregiudiziale tributaria, sia del principio di fissità della legge penale finanziaria; aveva introdotto il c.d. principio del doppio binario; aveva tipicizzato le fattispecie criminose, riferite non più all’entità del tributo, ma a comportamenti prodromici all’evasione3. Le ipotesi di reato erano distinte, da un lato, in contravvenzioni, come l’omessa o irregolare tenuta e conservazione delle scritture contabili, e, dall’altro, in delitti, quale la frode fiscale di cui all’art. 4 L. n. 516/82 e l’omesso versamento di ritenute effettivamente operate. Si trattava di una nuova strategia repressiva rispetto alla previgente legislazione: nello specifico, si tendeva ad assimilare, ai fini penali, le imposte dirette e l’imposta sul valore aggiunto, nonché a configurare nuovi modelli di reato delineati in modo tale da escludere accertamenti complessi ad opera del giudice penale4. Diatribe dottrinali e giurisprudenziali hanno riguardato l’art. 4, n. 7, L. n. 516/1982, che puniva la condotta del titolare di redditi di lavoro autonomo o di impresa che, allo scopo di evadere le imposte sui redditi o l’imposta sul valore aggiunto ovvero di conseguire o consentire l’evasione o un indebito rimborso, redigeva le scritture contabili obbligatorie, la dichiarazione annuale dei redditi ovvero il bilancio o rendiconto ad essa allegato, “dissimulando” componenti positivi o simulando componenti negativi di reddito, alterando il risultato della dichiarazione. L’attenzione è stata posta soprattutto sulla parte relativa alla “dissimulazione ed alla simulazione”5, chiedendosi se con tali termini si doveva intendere il semplice occultamento di componenti positivi e la falsa esposizione di componenti negativi o invece fossero necessari artifici e raggiri. Se ne è occupata anche la Corte Costituzionale, prima, con sentenza n. 247/1989, e, successivamente, con sentenza n. 35/1991, ponendo fine alle discussioni ed affermando che: “L’art. 4, n. 7, è incostituzionale nella parte in cui prevede che la dissimulazione di componenti positivi o la simulazione di componenti negativi del reddito debba concretarsi in forme artificiose”. A seguito della suddetta pronuncia della Consulta, il legislatore penale tributario si rese conto che la situazione era favorevole per un’ulteriore rivisitazione della normativa, avutasi con la L. n. 154/1991, di conversione del D.L. n. 83/1991, che ha depenalizzato fattispecie meramente formali di minore importanza, alleviando il 3 F. Gallo, Tecnica legislativa e interesse protetto nei nuovi reati tributari: considerazioni di un tributarista, in Giurisprudenza commerciale, 1984. 4 D’Avirro-Nannucci, I reati nella legislazione tributaria, Padova, 1984. 5 Traversi, I reati tributari in materia di imposte dirette ed Iva, Milano, Ipsoa, 1986. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 97 sovraccarico degli uffici giudiziari, nonché riformulato le fattispecie delittuose afferenti la frode fiscale6. Le singole ipotesi di reato erano: l’omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi o dell’Iva (art. 1, co. 1); l’omessa o infedele fatturazione o annotazione di corrispettivi ai fini delle imposte sui redditi o ai fini dell’Iva (art. 1, co. 2, lett. a e b); l’infedele dichiarazione dei redditi (art.1, co. 2, lett. c), a cui non erano applicabili le misure cautelari; l’omessa tenuta o conservazione di scritture contabili obbligatorie (art.1, co. 6, prima parte) per il termine normativamente prescritto; l’irregolare tenuta di scritture contabili obbligatorie (art. 1, co. 6, seconda parte); l’omessa dichiarazione del sostituto d’imposta (art. 2, co. 1); l’omesso versamento di ritenute effettivamente operate e non certificate (art. 2, co. 2); l’omesso versamento di ritenute certificate (art. 2, co. 3); la stampa o fornitura senza autorizzazione di stampati per la compilazione di documenti di accompagnamento dei beni viaggianti o delle ricevute fiscali e acquisto, detenzione o uso di stampati irregolari (art. 3, co. 1); l’omessa annotazione di stampati per la compilazione di documenti di accompagnamento dei beni viaggianti o delle ricevute fiscali (art. 3, co. 2), con non applicabilità delle misure cautelari; la frode fiscale per rilascio o utilizzazione di documenti contraffatti o alterati (art. 4, co. 1, lett. a), per la quale erano previsti l’applicazione delle misure cautelari e l’arresto in flagranza di reato; la frode fiscale per distruzione o occultamento di scritture o documenti contabili (art. 4, co. 1, lett. b), a cui pure erano applicabili le misure cautelari e l’arresto in flagranza di reato; la frode fiscale per falsa indicazione dei percipienti negli elenchi nominativi o nella dichiarazione annuale del sostituto d’imposta (art. 4, co. 1, lett. c), con applicabilità delle misure cautelari e previsione dell’arresto in flagranza di reato; la frode fiscale per emissione o utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti o recanti l’indicazione dei corrispettivi o dell’iva in misura superiore a quella reale o l’indicazione di nomi diversi da quelli reali (art. 4, co. 1, lett. d); la frode fiscale per rilascio e uso di certificati del sostituto d’imposta con indicazione di somme diverse da quelle effettivamente corrisposte (art. 4, co. 1, lett. e) e la frode fiscale per utilizzazione di documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero o per altri comportamenti fraudolenti (art. 4, co. 1, lett. f), a cui pure erano applicabili le misure cautelari e l’arresto in flagranza di reato. 3. Il principio di specialità Tra le maggiori novità che si riscontrano nella riforma intervenuta nel 2000, rileva l’introduzione del principio di specialità7, utilizzato in ambito penale, oltre ai criteri di sussidiarietà e consunzione, per risolvere l’istituto del conflitto apparente di norme. Il criterio di specialità è espressamente contenuto nell’art. 15 c.p., che dispone: “Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”. L’analisi del principio suesposto va operata considerando anche quello di legalità, che ha riconosciuto la preminenza assoluta della legge scritta ed è nato per contrapporsi all’Ancien Régime, in cui la legge promanava dal Re per mezzo del magistrato suo funzionario. Corollario naturale del principio di legalità è la riserva di legge, che individua nella legge l’unica fonte in materia penale. Al riguardo va appoggiata la natura relativa e non assoluta di tale riserva, ritenendo possibile il concorso di fonti normative diverse dalla legge purché, come ha affermato la Consulta “sia una legge dello Stato a indicare con sufficiente specificazione i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa” (sent. n. 26/1966 Corte Cost.). Cosicché le precipue decisioni concernenti l’incriminazione restano monopolio del Legislatore, mentre la fonte normativa secondaria può specificare il contenuto già delineato dalla legge. È d’uopo ricordare che l’accoglimento del principio di specialità non costituisce un’assoluta novità, poiché, in origine, l’art. 3 L. n. 4/1929, recante “Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie”, aveva stabilito che l’irrogazione di una pena pecuniaria era possibile soltanto laddove il fatto non costituisse già reato. Il sistema sanzionatorio tributario ha poi subito un’evoluzione, superando il divieto di cumulo degli illeciti, grazie ad interventi settoriali, che hanno trovato conferma nell’art.10 L. n. 516/1982, secondo cui potevano coesistere sanzioni penali ed amministrative incidenti sullo stesso fatto, ponendosi in difformità rispetto al principio di cui all’art. 9 L. n. 689/19818. Ci si avvale del principio in esame in tutte le branche dell’ordinamento giuridico, per regolare il concorso o conflitto di norme che disciplinano un medesimo fatto. 6 B. Santamaria, Le modifiche alla L.n. 516/1982 apportate dal D.L. 83/1991, in Fisco n. 26/1991, p. 4329. 7 C. Buccico, Frode fiscale e falso in bilancio. Una ricostruzione sistematica, Jovene, Napoli, 2005, p. 10. 8L’art. 9, co.1, L. n. 689/1981 così recita: “Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale”. tributario Gazzetta 98 d i r i t t o Il suddetto concorso diventa apparente perché fra le norme giuridiche, che sembrano coesistenti, soltanto una risulta concretamente applicabile. L’interprete deve individuare quale regola giuridica possa ritenersi speciale rispetto alle altre. Il principio di specialità è sancito anche dall’art. 19 del D.Lgs. 74/2000, ma in una maniera scarna, che implica l’applicazione di volta in volta alle fattispecie concrete. Tuttavia, la mera applicazione del principio in oggetto al caso concreto avrebbe potuto inficiare la funzione dissuasiva della pena e tale questione emerge dal secondo comma dell’art. 19 citato, nonché dalla relazione governativa, in cui si legge: “All’affermazione del principio di specialità non deve peraltro seguire una perdita di deterrenza del sistema nel suo complesso. Preoccupazioni su questo versante si connettono, per vero, all’eventualità che, in determinati frangenti, il potenziale autore di una violazione tributaria possa considerare maggiormente temibile una sanzione amministrativa pecuniaria di elevato ammontare. Siffatto timore appare pregnante, in verità, soprattutto in riferimento ai fatti commessi nell’ambito di società o altri enti a fronte della possibilità di sottrarre all’applicazione delle sanzioni amministrative il titolare sostanziale dell’interesse, riversando la responsabilità penale su meri prestanome”. Il secondo comma del citato art. 19 risponde, quindi, ad una logica di sistema, volendo evitare che il medesimo fatto sia punito due volte in capo allo stesso soggetto, come illecito amministrativo e come illecito penale. Va sottolineato che, attraverso il principio di specialità, il legislatore delegato ha ribadito l’intento di riservare al diritto penale tributario una funzione sussidiaria tesa a reprimere esclusivamente le condotte maggiormente offensive per l’Erario9. 4. Differenziazione fra la frode fiscale e l’elusione L’elusione fiscale, denominata anche “tax avoidence”, è una categoria logica, non essendo definita nel nostro ordinamento, che si configura in presenza di un aggiramento di una norma fiscale, volto esclusivamente a ridurre o evitare l’onere tributario, ma senza uscire dai confini della liceità (non è “contra legem”, è “extra legem”). Essa si sostanzia in una condotta diretta ad utilizzare strumentalmente le carenze dell’ordinamento, in modo tale da non far nascere in tutto o in parte un’obbligazione tributaria. Trattandosi di un fenomeno lecito, l’elusione non può essere sanzionata né amministrativamente, né penalmente, tuttavia va operata un’azione di contrasto per consentire il rispetto dell’art. 53 Cost., secondo cui: 9 B. Santamaria, Diritto tributario. Parte generale: fonti, principi costituzionali, accertamento e ispezioni, riscossione, sistema sanzionatorio, processo tributario, Milano, Giuffrè, 2008, p. 331. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”. Va rimarcata la totale differenza dell’elusione rispetto alla frode fiscale, che, invece, integra un illecito vero e proprio. Il reato tributario della frode fiscale era disciplinato dall’art. 4 L. n. 516/1982, che individuava sette ipotesi criminose. Con il successivo intervento della riforma del 2000, le ipotesi ritenute penalmente rilevanti sono state soltanto quelle caratterizzate da alta offensività e da dolo specifico di evasione. Nell’art. 16 D.Lgs. 74/00, si mette in dubbio che l’elusione possa avere rilevanza penale, recitando “non dà luogo a fatto punibile la condotta di chi avvalendosi della procedura d’interpello…si è uniformato…”. È invece indubbio che non può farsi rientrare negli articoli 1, 2 e 3 del decreto citato. L’elusione non scatta con un generico vantaggio tributario, occorrendo che esso si accompagni ad un uso distorsivo dei “buchi”presenti nelle norme e nel sistema tributario, altrimenti si dovrebbe parlare di tale istituto per ogni atto di pianificazione fiscale da parte del contribuente. Chi elude non fa altro che portare ad estreme conseguenze una finalità di riduzione del carico tributario, che in sé è legittima ed accettabile, ma che, relativamente alle modalità di realizzazione ed in rapporto al contesto in cui opera, finisce per determinare effetti distorsivi sul sistema economico-sociale. Laddove non si abbia la violazione di norme antielusione, non si può parlare di elusione10. Nei vari ordinamenti nazionali, per contrastare ed arginare fenomeni di frode e di elusione, sono utilizzati tipi di approccio diversi. Nel nostro Paese hanno sempre prevalso norme di tipo casistico, mentre altrove si è agito in ragione delle diverse condizioni e tradizioni giuridiche. 5. La legge delega n. 205/1999 Prima della nota riforma dei reati tributari nel 2000, si è avuto un vivace iter parlamentare. In particolare, il disegno di legge ad iniziativa parlamentare C1850 del 1996, relativo al conferimento di delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori, riguardava la sostituzione delle sanzioni penali di cui alla L. n. 516/1982 con sanzioni amministrative, con esclusione delle fattispecie di frode fiscale rientranti nell’art. 4 della citata legge. Successivamente, tale disegno è decaduto e sono stati posti in essere altri provvedimenti, fino a giungere al disegno di legge n. 1850, che ha trovato applicazione normativa nella L. 25 giugno 1999, n. 205, recante “Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario”. 10 P. Adonnino, Rivista di diritto tributario 2/2000, p. 242. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e La ratio del nuovo impianto sanzionatorio penale tributario ha previsto un ristretto numero di fattispecie delittuose, connotate dal dolo specifico del fine di evasione o di indebito rimborso ed aventi ad oggetto dichiarazioni annuali fraudolente, l’emissione di documenti falsi, l’omessa presentazione di dichiarazioni annuali, le dichiarazioni annuali infedeli, la sottrazione al pagamento, l’occultamento o la distruzione di documenti contabili. Va rimarcato che l’art. 6 della legge delega n. 205/99 ha abolito il principio dell’ultrattività delle norme penali tributarie di cui all’art. 20 della suesposta L. n. 4/1929. D’altra parte tale principio era stato spesso oggetto di contrastanti posizioni dottrinali e giurisprudenziali. Al riguardo si ricordi che molti studiosi ne hanno contestato la legittimità costituzionale, ritenendo violati gli artt. 3 e 25 Cost. Tuttavia la Consulta, in più occasioni11, ne ha affermato la legittimità costituzionale, sostenendo il pieno potere da parte del legislatore di disciplinare in maniera differente le varie situazioni a seconda della loro rilevanza, con norme volte a garantire che il rispetto delle disposizioni finanziarie e fiscali non sia sminuito con la speranza di mutamenti legislativi futuri. 6. Le dichiarazioni fraudolente nel D.Lgs. n. 74/2000 Il diritto penale tributario delineato dalla L. n. 516/82 era senza dubbio in contrasto con i principi di offensività e determinatezza (v. art. 25, co.2, Cost.; art. 1 c.p). Il D.Lgs. n. 74/00 ha invece delineato un sistema organico, introducendo un ristretto numero di fattispecie di carattere delittuoso, nonché prevedendo per le ipotesi di cui agli artt. 3, 4 e 5 una soglia di rilevanza penale, espressione di un concreto danno all’Erario derivante dall’evasione. Il decreto di riforma ha eliminato le violazioni meramente formali e preparatorie a monte, come le omesse fatturazioni o le irregolarità nella tenuta delle scritture contabili. I delitti in materia di dichiarazione, contenuti nel Capo I del Titolo II del decreto citato, costituiscono senza dubbio l’asse portante del nuovo sistema punitivo. La fattispecie criminosa di maggiore gravità è la “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” di cui all’art. 2 D.Lgs. n. 74/2000, che recupera alcuni elementi costitutivi presenti nell’art. 4, lettere d) ed f), L. n. 516/1982, unendo la condotta di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e l’ipotesi di redazione di dichiarazioni fiscali fondate su documenti attestanti fatti materiali non veri e, dunque, evitando, a differenza del si- 11Sentenza n. 164 del 6 giugno 1974; sentenza n. 30 del 5 maggio 1979. 2 0 0 9 99 stema precedente, che il contribuente possa essere punito due volte a fronte di un’unica lesione del bene tutelato. “Chiunque” può porre in essere tale reato, sicché soggetti attivi possono essere amministratori, liquidatori, rappresentanti e contribuenti, compresi quelli non obbligati alla tenuta delle scritture contabili. La condotta del reato in esame, considerato reato di pericolo, è commissiva e consiste nell’indicare, in una delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o all’imposta sul valore aggiunto, elementi passivi (oneri, spese, minusvalenze, ecc.) fittizi ed inesistenti, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. È competente per il reato in esame il tribunale del luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale e, laddove quest’ultimo sia all’estero, la competenza è del giudice del luogo di accertamento del reato. Va evidenziato che per il delitto in oggetto non è richiesto il superamento di alcuna soglia quantitativa, sicché le componenti negative “gonfiate” con falsa documentazione possono riguardare anche importi minimi. L’intento del legislatore di abbandonare la logica dei comportamenti prodromici, colpendo soltanto le condotte effettivamente lesive dell’Erario, si evince dal contenuto dell’art. 6 D.Lgs. n. 74/00, che esclude la punibilità a titolo di tentativo per i reati tributari di cui agli artt. 2 e 3 del decreto citato. Altro reato tributario caratterizzato dal carattere fraudolento è quello previsto dall’art. 3 D.Lgs. n. 74/2000, rubricato“Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” ed avente come precipuo elemento costitutivo la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie; sicché soggetti attivi sono tutti coloro che, ai sensi dell’art. 13 del D.P.R. n. 600/1973, sono obbligati alla loro tenuta. L’oggetto materiale del reato in esame non è di facile individuazione e ciò scaturisce dalla volontà del legislatore di tenere ampia la categoria degli strumenti delineando la fattispecie criminosa come residuale rispetto a quella di cui all’art. 2, che si avvale di fatture o documenti falsi. Ne deriva che fanno parte dell’oggetto materiale del reato di cui all’art. 3 tutti quegli elementi, diversi dalle fatture e dai documenti falsi, idonei a supportare una condotta rappresentata nelle scritture contabili obbligatorie e di natura fraudolenta. Elemento soggettivo è sempre il dolo specifico, ossia il fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto. È importante sottolineare che, mentre nel reato ex art. 2 la diminuzione della base imponibile deve avvenire mediante l’incremento degli elementi negativi di reddito e tali elementi devono essere supportati da falsa fatturazione o documentazione, nel reato ex art. 3, invece, la base imponibile può essere inficiata sia sotto il profilo tributario Gazzetta 100 d i r i t t o degli elementi attivi che passivi ed occorrono altri mezzi fraudolenti. 7. Fattispecie residuali prive del carattere della fraudolenza Oltre alle fattispecie di dichiarazione fraudolenta di cui agli artt. 2 e 3 D.Lgs. n. 74/2000, il legislatore ha disciplinato alcune ipotesi residuali scevre del carattere della fraudolenza. Si tratta, innanzitutto, della “Dichiarazione infedele”, prevista dall’art. 4 del decreto citato12 , che tutela, in via diretta, l’interesse patrimoniale dell’Erario, venendo punite quelle condotte da cui deriva effettivamente l’evento del danno; sicché è d’uopo che la condotta infedele accertata ed attribuita al contribuente sia qualitativamente tale da arrecare un danno sostanziale all’amministrazione. La norma in esame si riferisce esplicitamente ad un reato di evento così come la dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici ex art.3. Va invece tenuto distinto il caso di cui all’art. 2, relativamente al quale è opinione prevalente ci si trovi in presenza di un reato di pericolo, poiché la condotta si realizza nel momento della presentazione di una dichiarazione nella quale sono stati indicati elementi passivi fittizi, in conseguenza dell’utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. L’elemento psicologico nella dichiarazione infedele rimane lo stesso, come per le dichiarazioni fraudolente: il dolo specifico del “fine di evadere le imposte sui redditi o le imposte sul valore aggiunto”. La rilevanza del dolo specifico va a differenziare i comportamenti dei contribuenti, da un lato, sanzionando soltanto quelli diretti a realizzare tale evento evasivo, dall’altro, escludendo le presentazioni infedeli derivanti da comportamenti privi della volontà di evadere verso cui è sufficiente la mera sanzione amministrativa. Un’alt ra fat tispecie residuale è l’“O m essa dichiarazione”di cui all’art. 5 del decreto citato13. Tale articolo dispone che rispondono del reato in oggetto soltanto coloro che, essendo stati individuati come soggetti passivi d’imposta e obbligati alla presentazione della dichiarazione dei redditi o IVA, evadono integralmente l’imposta a loro carico. Da un punto di vista penale, può parlarsi di omessa dichiarazione solo quando sono trascorsi i novanta giorni dal termine ultimo per l’adempimento dell’obbligo fiscale. Il delitto in esame configura un illecito omissivo proprio, essendo riferibile solo ai soggetti obbligati alla presentazione delle dichiarazioni in materia di imposte dirette e di IVA14. Mancando anche nella fattispecie ex 12 B. Santamaria, op. ult. cit., p. 357 e ss. 13 B. Santamaria, op. ult. cit.., p. 366 e ss. 14I soggetti attivi cui si fa riferimento sono individuati dal D.P.R. n. 600/1973 e dal D.P.R. n. 633/1972. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E art. 5, come in quella ex art. 4, i mezzi fraudolenti, la condotta posta in essere risulta meno insidiosa, sicché la sanzione applicata è equivalente e, quindi, si punisce in modo meno grave rispetto ai reati di dichiarazione fraudolenta. Sono applicabili le circostanze attenuanti di cui agli artt. 13 (pagamento del debito tributario) e 14 D. Lgs. n. 74/2000 (riparazione dell’offesa nel caso di estinzione per prescrizione del debito tributario), la cui applicazione implica la diminuzione di pena fino alla metà, nonché l’inapplicabilità delle pene accessorie. Sotto il profilo processuale, la competenza spetta al tribunale del luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale e, se il domicilio è all’estero, è competente il giudice del luogo di accertamento del reato. Va poi considerata l’ipotesi della dichiarazione formalmente presentata, ma il cui contenuto sia inidoneo a qualsivoglia determinazione di imponibile o di imposta. In tal caso, si distingue se l’inidoneità del contenuto è totale e allora la dichiarazione è considerata omessa; se non è assoluta, si ritiene che la dichiarazione sia valida. 8. I delitti in materia di documenti e pagamento di imposte Accanto alle principali figure di reato di cui agli artt. 2, 3, 4 e 5, che riguardano la dichiarazione, vi sono tre fattispecie definibili strumentali in materia di documenti e di pagamento di imposte (artt. 8, 10, 11 D.Lgs. n. 74/2000), che sono egualmente insidiose per gli interessi dell’Erario15. Tutte le fattispecie in esame sono disciplinate dal Titolo II, Capo II, D.Lgs. n. 74/00 e si concretizzano nei comportamenti di chi emette fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di chi occulta o distrugge documenti contabili di cui è obbligatoria la conservazione in modo da rendere impossibile la ricostruzione dei redditi o del volume di affari, di chi svolge attività fraudolente idonee a determinare l’inefficacia della riscossione coattiva per sottrarsi al pagamento delle imposte sui redditi o sull’Iva. L’“Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, disciplinata dall’art. 8 cit., concerne una condotta per così dire speculare alla dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o documenti per operazioni inesistenti di cui all’art. 2 cit.. Mentre nell’ipotesi di cui all’art. 8 è sanzionato colui che emette il documento, nel caso di cui all’art. 2 il soggetto in questione riceve ed utilizza in dichiarazione il documento fiscale. Con riferimento alla tipologia di documenti che possono integrare un’operazione inesistente, occorre considerare soltanto quelli “aventi rilievo probatorio a fini fiscali”; sicché sono compresi anche i c.d. “scontrini parlanti”, le schede carburanti, le note di credito e di debito, le fatture e le autofatture. Il soggetto attivo del reato in esame può essere qualunque contribuente anche 15 B. Santamaria, op. ult. cit, p. 379 e ss. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e se non obbligato alla tenuta delle scritture contabili. In tema di fatturazione per operazioni inesistenti, è d’uopo ricordare i casi di concorso di persone nel reato tra il contribuente che emette il documento e colui che lo utilizza. Il D.Lgs. n. 74/2000 ha affrontato la questione nell’art. 9, escludendo, in deroga all’art. 110 c.p.16, la configurabilità del concorso dell’emittente nel delitto di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore e, specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato di emissione. È esclusa la partecipazione al concorso anche di eventuali soggetti intermediari, ossia di chi si vada a posizionare fra emittente ed utilizzatore, ad esempio fungendo da tramite per l’ottenimento della fattura falsa. L’“Occultamento o distruzione di documenti contabili”è invece previsto dall’art. 10 D.Lgs. n. 74/2000, secondo cui, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da impedire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari. La norma è volta a tutelare il corretto esercizio della funzione di accertamento fiscale e, affinché possa consumarsi il reato, non sono sufficienti la distruzione e l’occultamento, occorrendo l’impossibilità di ricostruire i redditi o il volume di affari. Non rilevano poi penalmente tutte le ipotesi in cui le scritture contabili non sono rinvenute, come in caso di smarrimento o incendio. È da segnalare l’inciso dell’articolo in esame che recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”, da cui si evince l’esclusione dell’ipotesi del concorso del reato di cui all’art.10 con quello di bancarotta fraudolenta documentale, che è più grave e risulta prevalente. La terza fattispecie da analizzare è prevista dall’art. 11 D.Lgs. n. 74/2000 ed è la “Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte”, per cui è punito chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative concernenti dette imposte, alieni simultaneamente o compia altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. È interessante osservare che per la configurazione del reato in esame è sufficiente la mera idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione, senza che occorra il verificarsi dell’evento. Al pari del delitto di cui all’art. 10, anche per questa fattispecie criminosa è escluso il concorso con il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale. 16L’art. 110 c.p. recita: “Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti”. 2 0 0 9 101 9. Le circostanze attenuanti La legge delega n. 205/1999 ha conferito all’Esecutivo un mandato per introdurre nel sistema sanzionatorio una sorta di meccanismi premiali, idonei a favorire il risarcimento del danno17. Il D.Lgs. n. 74/2000 ha così previsto due circostanze attenuanti, che sono applicabili alle suesposte fattispecie criminose, dalle dichiarazioni fraudolente alla sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Si tratta del “Pagamento del debito tributario” di cui all’art. 13 del decreto citato e della “Riparazione dell’offesa nel caso di estinzione per prescrizione del debito tributario” di cui all’art. 14 del medesimo decreto di riforma. Le due disposizioni introducono nel sistema processuale penale due circostanze attenuanti ad effetto speciale. In particolare, la nuova disciplina individua nell’accertamento con adesione, nella conciliazione giudiziale, nel ravvedimento operoso ed in altri istituti i meccanismi premiali, utilizzabili in sede di procedimento penale per indurre il contribuente, indagato o imputato, a versare l’imposta evasa. In altri termini, il contribuente chiamato a rispondere penalmente per uno dei reati di cui al Titolo II D.Lgs. n. 74/00, attivandosi prima della dichiarazione di apertura del dibattito di primo grado, potrà giovarsi dei vari istituti premiali suddetti, per ottenere un’abbattimento della pena principale “fino alla metà” e l’inapplicabilità tout court delle pene accessorie. La prima delle due circostanze attenuanti, ossia il pagamento del debito, scatta nel momento in cui i debiti tributari vengono estinti attraverso il pagamento, “anche a seguito delle procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”. Il secondo comma dell’art. 13 del decreto di riforma sancisce che il risarcimento deve riguardare anche le sanzioni amministrative previste per la violazione delle norme tributarie, sebbene le stesse non siano applicabili all’imputato grazie al principio di specialità. L’art. 14 del decreto citato, disciplinante la seconda circostanza attenuante, stabilisce che il soggetto imputato possa essere ammesso a pagare, sempre prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, una somma a titolo di “equa riparazione” del danno recato all’interesse pubblico tutelato dalla norma violata. Spetta al giudice valutare la congruità della somma proposta dal contribuente. È ovvio che il pagamento di per sé non presuppone un’ammissione di responsabilità da parte del contribuente imputato, sicché l’ultimo comma dell’articolo in esame prevede espressamente che, in caso di assoluzione o di proscioglimento, la somma versata gli vada restituita. Il decreto di riforma del 2000 ha mirato, con i sue- 17 B. Santamaria, op. ult. cit., p. 322 e ss. tributario Gazzetta 102 d i r i t t o sposti artt. 13 e 14, a favorire il pentimento del contribuente, nonché ad eliminare il danno prodotto allo Stato con il mancato pagamento delle imposte. Dunque anche l’applicazione della sanzione penale non può essere esonerata dalla logica dell’adempimento spontaneo. Il nuovo impianto penale tributario, spostando la rilevanza penale dai c.d. comportamenti prodromici al momento della presentazione della dichiarazione annuale prevista ai fini delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, dà al contribuente l’opportunità di pagare l’imposta dovuta, evitando di diventare indagato o imputato in un processo penale. 10. Giurisprudenza significativa in materia di reati tributari La sezione III penale della Corte di Cassazione, con sentenza n. 3057 del 21 gennaio 2008, in ordine al reato di cui all’art. 10 D.Lgs. n. 74/00, ha affermato che è elemento essenziale di quest’ultimo l’impossibilità di ricostruire i redditi o il volume d’affari; sicché risulta del tutto irrilevante che la ricostruzione delle operazioni non documentate sia possibile aliunde, ad es. mediante riscontri ed accertamenti incrociati. Secondo la Suprema Corte, appoggiata dalla dottrina maggioritaria, la figura in esame è volta a tutelare l’interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente. Va poi segnalata la posizione giurisprudenziale che, fin dalla sentenza del Trib. di Rimini nel 2000, ha risolto la problematica del rapporto fra il reato di bancarotta fraudolenta documentale ex art. 216, n. 2, Legge fallimentare (L. n. 267/1942) ed il delitto di frode fiscale di cui all’art. 4 L. n. 516/1982, ora corrispondente all’art. 10 D.Lgs. 74/00. Si tratta di una vexata quaestio, da cui sono emerse distinte posizioni sia a livello giurisprudenziale sia a livello dottrinale. Da un lato, si è appoggiata la tesi di un concorso apparente di norme, con assorbimento dell’ipotesi di frode fiscale in quella della bancarotta fraudolenta documentale, in applicazione del principio di specialità di cui all’art. 15 c.p. Dall’altro, si è negata la possibilità di un tale concorso di norme penali. Tuttavia la questione ha trovato definitiva soluzione nell’art. 10 D.Lgs. n. 74/00, laddove dispone: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”, così escludendo il concorso e prevedendo la prevalenza del reato di bancarotta fraudolenta documentale. 11. Cenni ai rapporti fra processo penale e giudizio tributario Nel corso degli anni ’70 e ’80, la regola, condivisa dalla Corte Costituzionale, era la pregiudizialità, per cui l’azione penale poteva essere promossa soltanto dopo l’accertamento definitivo in sede amministrativa. Tale regola creava non pochi problemi, dal momento che era sufficiente presentare un ricorso contro l’avviso di accertamento dell’ufficio fiscale per rimandare l’esercizio dell’azione penale, con conseguente lungaggine dei t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E processi tributari e con un deterrente penale quasi del tutto inesistente18. Una svolta si è avuta nel 1982, grazie ad un intervento normativo che ha modificato strutturalmente la nozione di reato fiscale, incentrando l’attenzione sulle condotte prodromiche all’evasione. Sicuramente il legislatore del 2000 ha perso l’opportunità di regolare in forma più compiuta una materia oggetto di molteplici interpretazioni nel passato. Gli accertamenti spettanti al giudice penale e a quello tributario sembrano oggi sovrapponibili. Da un lato, il D.Lgs. n. 74/2000 ha abbandonato la ratio di cui alla L. n. 516/1982, tesa a perseguire penalmente i comportamenti prodromici all’evasione, dando enorme rilevanza a fattispecie di danno da evasione; dall’altro, non ha ripristinato una qualsivoglia forma di pregiudiziale tributaria19, confermando e rafforzando l’autonomia del processo penale e del giudizio tributario. Cosicché non ci si può esimere dall’avere dubbi circa l’affidamento di accertamenti complessi in una materia tecnicamente complessa e in continuo divenire ad un giudice non specializzato, ossia al giudice penale ordinario. L’art. 20 D.Lgs. n. 74/2000 stabilisce che: “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”. In sostanza, tale norma sancisce la piena e reciproca autonomia (c.d. regime del doppio binario) fra procedimento amministrativo di accertamento e processo tributario, da un lato, ed il processo penale, dall’altro, escludendo qualsiasi rapporto di pregiudizialità fra procedimenti nell’uno e nell’altro caso (ossia pregiudiziale tributaria al processo penale o pregiudiziale penale al giudizio tributario), in linea con la scelta già perseguita dal legislatore nel 1982. Come già rilevato, la pregiudiziale tributaria era contemplata dall’art. 21, co.3, L. 7 gennaio del 1929, n. 4, secondo cui il processo penale poteva iniziare solo dopo la conclusione del processo tributario, salvo il caso di mancata impugnazione dell’avviso di accertamento. La pregiudiziale è stata abolita dall’art. 13 L. n. 516/1982, rendendo il 18 B. Tinti, Un regalo al partito degli evasori, in Il Sole-24 Ore del 176-1999, in cui afferma: “La delega per le modifiche al sistema penale tributario rappresenta con certezza il più grosso regalo agli evasori mai confezionato dal nostro legislatore fin dal 1972, quando entrò trionfante nell’ordinamento la pregiudiziale tributaria. Per dieci anni gli evasori dormirono sonni tranquilli poiché la repressione dell’evasione era di fatto affidata esclusivamente al processo amministrativo che dopo una decina d’anni si concludeva in commissione tributaria con una drastica riduzione delle pretese del Fisco”. 19 Per effetto della “pregiudiziale tributaria” l’azione penale non poteva essere iniziata prima che l’accertamento fosse divenuto definitivo (art. 21 della L. n. 7 gennaio 1929, n. 4). F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e processo penale libero da ogni condizionamento. Inoltre, dal testo dell’art. 12 della legge citata (abrogato dall’art. 25, co.1, lett. d, D.Lgs. n. 74/00) risultavano i seguenti principi: il divieto di sospensione del procedimento tributario, durante la pendenza di quello penale, in deroga a quanto previsto dall’art.3, commi 2 e 3, c.p.p. abrogato, nel senso che il giudice tributario era libero di disporre la sospensione del procedimento ove ritenesse che, ai fini della soluzione della controversia, fosse utile attendere l’esito del processo penale; l’efficacia del giudicato penale nel processo tributario sui fatti materiali che erano stati oggetto del giudicato penale; la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di integrare, modificare o regolare gli accertamenti già notificati sulla scorta dei fatti materiali accertati nel processo penale e, se il termine per l’accertamento non era ancora scaduto, detta Amministrazione doveva procedere ad accertamento. Il decreto di riforma del 2000 ha confermato il divieto di sospensione del processo tributario durante la pendenza di quello penale, cosicché i due giudizi sono indipendenti, si svolgono parallelamente, quando vi è contemporanea pendenza, e sono potenzialmente in grado di pervenire a valutazioni autonome relativamente alla stessa situazione di fatto oggetto di giudizio, che possono essere non soltanto differenziate ma anche contrastanti 20. Non è poi ammessa la sospensione del dibattimento penale, in attesa della risoluzione della controversia aperta dinanzi al giudice tributario. In particolare, dal momento che nel giudizio tributario sono presenti limitazioni probatorie, non ricorrerebbe la condizione di sospendibilità di cui all’art. 479 c.p.p., che conferisce il potere discrezionale di sospendere il processo penale in attesa del giudicato civile o amministrativo nel caso di risoluzione di questioni di particolare complessità. Inoltre, l’art. 2 c.p.p. prevede che le questioni risolte in via incidentale dal giudice penale non hanno efficacia 20 F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, p. 313, il quale sottolinea: “Data l’indipendenza dei due processi, può dunque accadere che su uno stesso fatto, giudicato penale ed accertamento tributario siano contrastanti. Ciò è la conseguenza naturale del fatto che l’imposta, ai fini strettamente tributari, dipende, innanzitutto, dall’avviso di accertamento e, poi, dall’iniziativa processuale del contribuente e dalle vicende del processo tributario. La vicenda penalistica segue tutt’altro percorso, dipende dall’iniziativa del pubblico ministero e si sviluppa secondo regole probatorie e criteri di giudizio diversi da quelli tributari. Giudicato penale e giudicato tributario possono essere dunque diversi, sia perché giudici diversi operano in modo indipendente, sia per una molteplicità di fatto e di diritto. In linea di fatto può accadere che il pubblico ministero, nel processo penale, assuma prove (ad es., mediante rogatorie all’estero), di cui non dispone l’amministrazione finanziaria; inoltre, il processo penale ammette prove (in specie quelle testimoniali) che non sono ammesse nel processo tributario. Infine possono essere diverse le regole di giudizio: ad es., il giudice tributario deve osservare regole presuntive che non hanno invece cittadinanza nel processo penale”. 2 0 0 9 103 rilevante in nessun altro processo. A differenza del precedente art. 12 L. n. 516/1982, che, nella seconda parte del primo comma, sanciva: “La sentenza irrevocabile di condanna o di proscioglimento pronunciata in seguito a giudizio relativo a reati previsti in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto ha autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale”, la nuova norma non riconosce alcuna autorità di cosa giudicata alla sentenza penale di condanna o di proscioglimento. Ne deriva la piena applicazione dell’art. 654 c.p.p., secondo cui: “La sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia nel giudicato civile o amministrativo, quando in questo si controverte intorno a un diritto o a un interesse legittimo il cui riconoscimento dipendente dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa”. Il giudicato formatosi all’esito del processo tributario, invece, “è suscettibile unicamente di costituire uno degli elementi che il giudice penale può prendere in con side razion e n ell a for m azion e del proprio convincimento”21. Il regime adottato del doppio binario presenta il duplice vantaggio di evitare un’eccessiva dilatazione dei tempi delle decisioni e di rispettare le differenze, sul piano probatorio, tra l’ambito penale e quello amministrativo. Tuttavia la materia in esame non risulta di agevole interpretazione, sia considerando il nuovo ruolo attribuito all’evasione dell’imposta nell’ambito di molteplici fattispecie criminose tipiche, quale la dichiarazione fraudolenta, che grava il giudice penale di questioni di natura squisitamente tributaria, sia tenendo conto che l’abrogazione del Titolo I e in particolare dell’art. 13 L. n. 516/1982 solleva la questione dibattuta se, con l’abrogazione di una norma abrogatrice, riprendano vita le norme già precedentemente abolite. Il successivo art. 21, presupponendo rapporti di reciproca autonomia fra l’ordinamento penale e quello amministrativo, delinea un modello procedimentale che, da un lato, considera il principio di specialità e, dall’altro, impedisce la decorrenza dei termini di decadenza o di prescrizione a danno dell’Amministrazione finanziaria. Infatti il comma 1 prevede che l’ufficio finanziario irroga comunque, ossia a prescindere dall’inizio del processo penale, le sanzioni amministrative relative alle violazioni tributarie oggetto di notizia di reato. 21 Così S. Dovere, I nuovi reati tributari. Commento al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, p. 117. tributario Gazzetta 104 d i r i t t o 12. “Tax planning” A completamento della trattazione in esame, va considerato il “tax planning”, ossia la pianificazione fiscale22. Il contribuente tenta di sottrarsi agli obblighi tributari non soltanto attraverso la frode e l’elusione fiscale. Esistono altre strategie, come il “tax planning”, che si concretizza nell’attività di una persona fisica o giuridica tesa ad organizzare le proprie attività produttive di reddito, in modo tale che la base imponibile dichiarata risulti la minore possibile. In altri termini, si è in presenza di un’ottimizzazione del costo fiscale delle attività del contribuente, che si risolve in un’applicazione legittima della normativa tributaria, caratterizzata da obiettivi funzionali come la determinazione della convenienza economica dei crediti e dei debiti d’imposta. Da tale attività si evince una strumentalizzazione voluta delle disposizioni tributarie, perseguendo l’applicazione del regime più favorevole al contribuente. Si deve sottolineare che la liceità di una pianificazione fiscale, tendente a ridurre il più possibile il carico fiscale, è ormai generalmente riconosciuta se ciò non implica una violazione diretta o indiretta degli obblighi tributari. La pianificazione fiscale non è una condotta da valutare negativamente in assoluto, anche alla luce del principio di libertà di iniziativa economica sancito nell’art. 41 Cost., sia quando tale risparmio è consentito da lacune o imperfezioni normative, sia se è originato da scelte tra più opzioni di uguale dignità offerte dalla normativa fiscale. Cosicché l’autonomia contrattuale può lecitamente determinare un risparmio fiscale (“tax saving”), ovvero realizzare un risparmio intollerabile (“tax non compliance”), integrando una violazione delle norme tributarie23. È ovvio che le scelte, operate dal contribuente nell’ambito dell’autonomia contrattuale, sono accettabili soltanto se ricadono entro i confini di liceità del sistema normativo. La questione fondamentale resta differenziare l’uso della normativa dall’abuso di essa. 22 F. Carriolo, L’elusione fiscale. Pianificazione fiscale e abuso delle norme tributarie, operazioni straordinarie e transnazionali, Il Sole 24 ore. 23 P. Pistone, Abuso del diritto ed elusione fiscale, 1995, p. 7. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e ● Osservatorio di giurisprudenza tributaria Gli effetti della sentenza C. 132/06 sul condono fiscale; la parola alle Sezioni Unite ● A cura di Raffaele Cantone Magistrato presso il Massimario della Cassazione 105 2 0 0 9 Cass., sez. trib, ord. 23 giugno 2009, n. 22517 Pres.: F. Miani Canevari ; Est.: M. Bertuzzi TRIBUTI (IN GENERALE) – CONDONO FISCALE – CORTE DI GIUSTIZIA CE – SENTENZA 17 LUGLIO 2008, IN CAUSA C-132/06 – Artt. 7 ED 8 DELLA LEGGE 27 DICEMBRE 2002 N. 289 – CONTRASTO CON GLI Artt. 2 E 22 DELLA DIRETTIVA N. 77/388/CEE – SUSSISTENZA – PORTATA DELLA DECISIONE – EFFETTI SULL’Art. 16 DELLA L. N. 289 DEL 2002 – QUESTIONE DI MASSIMA RILEVANZA RIMESSA ALLE SEZIONI UNITE (art. 8, 9 e 16 l. 27 dicembre 2002, n. 289; Art. 2, 22 Direttiva Consiglio CEE, 17 maggio 1977 n. 77/388/ CEE; Art. 10, 226, 228, 249 Trattato CE) Va rimessa alle Sezioni Unite la questione se, in conseguenza della sentenza della Corte di Giustizia Europea C-132/06 che ha ritenuto in contrasto con la VI direttiva in materia di IVA gli artt. 8 e 9 della l. n. 289 del 2002, sia ancora da considerarsi vigente l’art. 16 della medesima legge, nella parte in cui prevede la sospensione dei termini di impugnazione, relativi ai giudizi promossi avverso gli avvisi di accertamento e rettifica adottati per il recupero dell’IVA. *** […Omissis…] Fatto e Diritto Con atto notificato a mezzo posta l’11.1.2005, il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno proposto ricorso, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 29/35702 del 14.5.2002, con cui la Commissione tributaria regionale del Piemonte aveva accolto il ricorso presentato dalla s.n.c. ***; per l’annullamento di due avvisi di rettifica che, per gli anni di imposta 1995 e 1996, sottoponevano a tassazione a fini iva operazioni non contabilizzate dalla società, irrogando le corrispondenti sanzioni. La società intimata ha notificato controricorso e proposto, a sua volta, ricorso incidentale, affidato ad un solo motivo. Alla pubblica udienza del 15 ottobre 2009, il Procuratore Generale ha chiesto in via principale che la causa venga rimessa per la decisione alle Sezioni Unite della Corte, rappresentando che, a seguito della recente giurisprudenza comunitaria, appare dubbia l’applicabilità nei processi tributari promossi avverso atti impositivi in materia di iva della disposizione di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16, comma 6 che ha disposto la sospensione del termine per la proposizione del ricorso per Cassazione dal 1 gennaio 2003 al 30 giugno 2004, con la conseguenza che, nel caso di specie, il ricorso principale dovrebbe ritenersi inammissibile perché tardivo. Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima sentenza. In ordine all’interrogativo sollevato dal Procuratore Generale, osserva il Collegio che con la sentenza 17 lu- tributario Gazzetta 106 d i r i t t o glio 2008 (causa C – 132/06) la Corte di Giustizia CE, nel decidere una procedura di infrazione a carico dell’Italia, ha statuito la contrarietà delle disposizioni sul condono fiscale contenute nella L. n. 289 del 2002, artt. 8 e 9 al sistema di imposta comune sul valore aggiunto. Nella specie, la Corte di Giustizia ha affermato che l’estensione del condono alle violazioni in materia di iva rappresenta “una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuale nel corso di una serie di periodi di imposta” e che la normativa nazionale costituisce una violazione degli obblighi degli Stati membri previsti dagli artt. 2 e 22 della Sesta Direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/3888, in materia di armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema comune di imposta sul valore aggiunto, nonchè dell’art. 10, che prevede l’obbligo degli Stati di conformarsi alle misure adottate dalle istituzioni della Comunità europea. Con riferimento a tale pronuncia, questa Corte, con la recente sentenza 18 settembre 2009, n. 20069, ha già avuto modo di confermare il proprio indirizzo circa l’immediata efficacia nell’ambito de diritto interno delle pronunce della Corte di Giustizia, quale fonte del diritto comunitario, ancorché adottate in esito a procedura d’infrazione, con conseguente obbligo del giudice nazionale di darvi immediata applicazione d’ufficio (Cass. S.U. 19 dicembre 2006, n. 26948; si veda pure: Cass. n. 4066 del 2005, secondo cui la pronuncia della Corte di Giustizia che dichiara uno Stato membro inadempiente agli obblighi comunitari ad esso imposti comporta il divieto assoluto di applicare il regime legale ritenuto illegittimo). Tanto precisato, è noto che la previsione relativa alla sospensione dei termini di impugnazione di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, trova la sua collocazione normativa nell’ambito delle disposizioni di legge che prevedono la facoltà per i contribuenti di definire le liti fiscali pendenti avvalendosi del condono. La disapplicazione della norme sul condono di cui alla L. n. 289 del 2002 alle infrazioni fiscali in materia di iva, conseguente alla menzionata sentenza della Corte di Giustizia CE, pone quindi il quesito se la sospensione dei termini di impugnazione prevista dalla L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, debba o meno applicarsi ai giudizi promossi avverso gli avvisi di accertamento e di rettifica adottali per il recupero dell’iva. La questione, peraltro, non può dirsi di piana ed agevole soluzione. A favore della non applicabilità della sospensione del termine milita invero l’argomento testuale della L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, che espressamente dispone la suddetta sospensione “Per le liti fiscali che possono essere definite ai sensi del presente articolo… “, cioè mediante condono. A ciò può aggiungersi, sul piano sistematico, che la stessa previsione della sospensione dei termini t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E processuali appare un sicuro corollario delle prescrizioni che hanno introdotto il condono fiscale, mostrandosi essa funzionale alla possibilità concreta degli Uffici finanziari di esaminare le istanze di condono. In senso contrario, tuttavia, può essere valorizzata la definizione di “lite pendente” fornita dal comma 3, lett. a) del medesimo art. di legge, nella cui nozione rientrano senz’altro le controversie in discussione. In favore della applicazione della sospensione dei termini potrebbero inoltre essere invocati tanto l’esigenza di tutelare l’affidamento che tale disposizione ha suscitato tra le parti processuali, quanto il principio, pure di carattere generale, secondo cui le cause di inammissibilità in campo processuale, in quanto precludenti la tutela giurisdizionale di merito, sono di stretta interpretazione ed applicazione. Se si accoglie tale prospettiva, l’ipotesi ricostruttiva delle disposizioni in materia incise dalla pronuncia della Corte europea che sembra preferibile, in quanto più rispondente a queste esigenze, sembra quella di circoscrivere l’efficacia dell’arresto della Corte di Giustizia nell’ambito suo proprio, che e indiscutibilmente quello della non condonabilità, da parte della legge dei singoli Stati, delle violazioni in materia di iva, escludendo, per contro, che da essa possano derivare effetti e ricadute ulteriori su altre e diverse disposizioni della legge nazionale che, pur disciplinando aspetti della stessa materia o comunque connessi ad essa, non intaccano il principio affermato. La questione sollevata, infine, appare di particolare importanza anche in ragione del gran numero di ricorsi per Cassazione che prevedibilmente le parti, sia pubbliche che private, hanno proposto tenendo conto e facendo affidamento sulla sospensione del termine di impugnazione prevista dalla disposizione in esame, nei cui confronti, pertanto, si proporrà l’identica questione. Alla luce di tali considerazioni, il Collegio, rinvenendo nel caso in esame un questione di massima di particolare importanza, ritiene di dover rimettere i ricorsi al Primo Presidente affinché valuti l’opportunità che essi siano decisi dalle Sezioni Unite della Corte. […Omissis…] ••• Nota ad ordinanza 1. Con l’ordinanza in epigrafe riportata la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione ha investito le Sezioni Unite per verificare se, in conseguenza della sentenza della Corte di Giustizia Europea C-132/06 del 17 luglio 2008, che ha ritenuto in contrasto con la direttiva comunitaria in materia di IVA, 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE (c.d. VI direttiva), gli artt. 8 e 9 della l. n. 289 del 2002 (disposizioni riguardanti il condono in materia di IVA), sia ancora da considerarsi vigente l’art. 16 della medesima legge, nella parte in cui prevede F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e la sospensione dei termini di impugnazione, relativi ai giudizi promossi avverso gli avvisi di accertamento e rettifica adottati per il recupero dell’IVA. 2. Può essere utile ripercorrere brevemente il ragionamento attraverso cui la Cassazione giunge a ritenere indispensabile l’intervento della Suprema Nomofilichia. L’ordinanza premette che, con la sentenza del 17 luglio 2008 (causa C‑132/06), la Corte di giustizia della Comunità Europea, nel decidere a seguito di procedura di infrazione a carico dell’Italia, ha ritenuto in contrasto con la cd. VI direttiva comunitaria le disposizioni sul condono contenute negli artt. 8 e 9 della l. n. 289/02. Ricorda, sempre in via preliminare, che la medesima Sezione tributaria, in diversa composizione collegiale, ha ritenuto (sentenza n. 20069 del 17 settembre 2009) immediatamente efficace, nel diritto interno, la pronuncia della Corte Europea di Lussemburgo sopra citata, con conseguente obbligo del giudice nazionale darvi immediata applicazione, anche di ufficio. Siccome nel caso in esame, l’Agenzia delle Entrate, nel presentare il ricorso per Cassazione, aveva beneficiato della sospensione dei termini di impugnazione prevista da altro articolo (l’art.16) della medesima legge n. 289, la Corte si chiede se la disapplicazione delle norme sul condono, contenute negli art. 8 e 9, conseguenti all’intervento del giudice comunitario, faccia venir meno anche la disciplina in materia di sospensione dei termini, disciplina evidentemente connessa alla possibilità di fruire del provvedimento di definizione agevolata. Secondo l’ordinanza in esame alla domanda potrebbero essere date due risposte, entrambe plausibili ma dalle conseguenze opposte. A favore della caducazione delle disposizioni in materia di sospensione dei termini militerebbe sia un argomento testuale, contenuto nel comma 6 dell’art. 16 della legge citata, che riconosce la sospensione “per le liti che possono essere definite ai sensi del presente articolo” sia un argomento sistematico, in quanto la previsione di natura procedurale è funzionale alla possibilità degli Uffici finanziari di esaminare e decidere sulle istanze di condono e, quindi, è un corollario delle prescrizioni in materia proprio di condono; disapplicate queste ultime, non avrebbe senso far rimanere in vita le prime. A sostegno della tesi contraria, invece, può farsi leva sia sulla definizione di “lite pendente” fornita dalla lett. a) del comma 3 dell’art. 16, nella cui nozione rientrano le controversie in discussione sia sull’esigenza di tutelare l’“affidamento” che tale disposizione ha suscitato fra le parti processuali sia sul principio, pure di carattere generale, secondo cui le cause di inammissibilità in campo processuale sono di stretta interpretazione ed applicazione. 2 0 0 9 107 In quest’ottica alla sentenza del giudice comunitario andrebbe riconosciuta un’efficacia circoscritta solo nel suo ambito specifico, senza che da essa si possano far derivare effetti e ricadute su norme diverse ed ulteriori. L’alternativa ermeneutica prospettata impone, secondo i giudici della Sezione Tributaria, un intervento dirimente delle Sezioni Unite, atteso che la questione si appalesa come di particolare rilevanza in relazione al numero di ricorsi per Cassazione che le parti sia pubbliche che private hanno presentato, facendo affidamento sulla sospensione dei termini di impugnazione. 3. Siccome il tema specifico oggetto dell’intervento delle Sezioni Unite non è strettamente collegato con la questione specifica affrontata dalla Corte Europea, ma è correlato soltanto agli effetti e alla portata del decisum nel diritto interno, basterà, qui di seguito, limitarsi ad una breve sintesi del contenuto della sentenza C‑132/061. Pochi mesi dopo l’entrata in vigore della legge n. 289/02, la Commissione Europea avviò la procedura prevista dall’art. 226 del Trattato CE (c.d. “procedura di infrazione”) nei confronti dello Stato italiano per incompatibilità degli artt. 8 («Integrazione degli imponibili per gli anni pregressi») e 9 («Definizione automatica per gli anni pregressi») della legge da ultimo citata con norme del Trattato e della c.d. sesta direttiva in materia di IVA. In particolare, la disposizione del Trattato ritenuta violata è l’art. 10 che testualmente afferma:“Gli Stati membri adottano tutte le misure di carattere generale e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati dagli atti delle Istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest’ultima nell’adempimento dei propri compiti. Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente Trattato”. Le norme della direttiva in materia IVA, 17 maggio 1977 n. 77/388/CEE, con cui si individua il contrasto sono, invece, gli artt. 2 (secondo cui “sono soggette all’IVA le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del Paese da un soggetto passivo che agisce in quanto tale, nonché le importazioni di beni”) e 22 (in particolare, il punto 4, secondo cui “Ogni soggetto passivo deve presentare una 1 C. giust. Eur., 17 luglio 2008, C-132/06, in GT-Riv. giur. trib., 2008, p. 937, con nota di Tinelli, Condono IVA e normativa conunitaria; id. in Riv. dir. trib., 2008, p. 323 con nota di Falsitta, I condoni fiscali IVA come provvedimenti di natura agevolativa violatori del principio di neutralità del tributo ; id. in Corr. trib., 2008, p. 2667, con nota di De Mita, Incompatibile per la Corte UE il condono IVA con la normativa comunitaria; id. in Giur. it, 2009, p. 239 con nota di Marello, La Corte di giustizia censura il condono IVA: le ricadute di un’importante decisione. tributario Gazzetta 108 d i r i t t o dichiarazione entro un termine che dovrà essere stabilito dagli stati membri…”, il punto 5, secondo cui “Ogni soggetto passivo deve pagare l’importo netto dell’IVA al momento della presentazione periodica. Gli Stati membri possono tuttavia stabilire un’altra scadenza per il pagamento di questo importo o per la riscossione di acconti provvisori”, il punto 8, secondo cui “… gli stati membri hanno la facoltà di stabilire altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e ad evitare le frodi”). Lo Stato Italiano, nell’ambito della procedura precontenziosa, respinse gli addebiti, ritenendo, fra l’altro, che le disposizioni individuate dalla Commissione non avessero alcun effetto né sugli obblighi dei contribuenti né sugli elementi costitutivi dell’imposta, ma riguardassero soltanto gli ambiti del controllo e della riscossione, in relazione ai quali i singoli Stati membri dispongono di un ampio potere discrezionale. In data 7 marzo 2006 la Commissione, evidentemente non ritenendo sufficienti le giustificazioni dell’Italia, proponeva ricorso alla Corte di Giustizia. Recependo sostanzialmente anche la richiesta dell’avvocato generale Sharpston del 25 ottobre 2007 (2), con la sentenza del 17 luglio 2008 i Giudici Comunitari hanno accolto in toto il ricorso della Commissione. Nella motivazione che accompagna la pronuncia (si vedano in particolare i par. da 37 a 53), i Giudici Comunitari, riprendendo gran parte degli argomenti della Commissione, osservano come il sistema comune in materia di IVA – imposta che, si ricorda, concorre alla formazione del gettito dell’Unione – imponga ad ogni Stato membro di adottare tutte le misure più idonee affinché il tributo in esame venga integralmente riscosso. Quale logico corollario di tale affermazione fanno derivare l’incompatibilità con la Direttiva citata di quelle norme che possano pregiudicare la riscossione effettiva dell’imposta o introdurre differenze significative nel trattamento dei soggetti passivi. Secondo la Corte effetti di tal tipo conseguono dalla normativa sul condono, avendo lo Stato italiano, con gli artt. 8 e 9 della legge n. 289 del 2002, di fatto rinunciato all’accertamento delle operazioni imponibili ed alla riscossione della relativa imposta, a fronte del pagamento da parte dei contribuenti, che decidono di aderire al condono, di una somma «non equivalente» all’imposta effettivamente dovuta. I giudici europei, dopo avere stigmatizzato il condono quale istituto che di fatto favorisce i contribuenti 2 Avvocato generale UE, conclusioni 25 ottobre 2007, causa C-132/06, Avv. Sharpston, in Corr. trib., 2007, p. 3677, con nota di Corso, L’avvocato generale UE delinea il contrasto tra condoni IVA 2002 e normativa comunitaria. Nella nota l’Autore è particolarmente critico rispetto alla contestazione mossa dalla Commissione Europea all’Italia, che “considera debole in diritto (o almeno contraddittoria” tanto da che “punta sull’etico”. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E colpevoli di frode (in termini espliciti l’affermazione è contenuta nel par. 47), concludono dichiarando l’inadempimento dello Stato italiano agli obblighi imposti dagli artt. 2 e 22 della sesta direttiva nonché dall’art. 10 del Trattato CE. 4. Il giorno stesso della pubblicazione della decisione, il Ministro dell’Economia diffuse un comunicato stampa con il quale, oltre a prendere atto del contenuto della decisione della Corte di giustizia ed escludere l’adozione in futuro di provvedimenti “del tipo oggetto della sentenza”, volle, soprattutto, rassicurare i contribuenti che avevano aderito al condono circa l’impossibilità di poter procedere ad azioni di accertamento con riferimento alle annualità per le quali si era aderito allo strumento premiale, precisando che “sempre per quanto riguarda il passato è, a parere del Governo, un principio valido, tanto nel diritto interno quanto nel diritto comune, quello della decadenza dell’azione amministrativa. L’ultimo anno oggetto della sentenza risulta essere in specie decaduto al 31 dicembre 2007”3. In dottrina, invece, la sentenza, da subito oggetto di interesse e di numerosi commenti, è stata accolta in modo non unanime. Alcuni autori, in modo critico, hanno rilevato come in molti passaggi la Corte Europea sia stata particolarmente frettolosa nel valutare l’incompatibilità di alcuni aspetti del condono del 2002, giungendo, persino, a ritenere che essa si fosse anche arrogata poteri di sindacato legislativo che andavano al di là dei suoi stessi poteri, previsti dal Trattato 4. Altri commentatori, invece, hanno plaudito alla decisione del giudice comunitario, ritenendo sia corretta la statuizione di illegittimità del condono alla luce della VI direttiva sia positivo l’effetto che, quantomeno nell’immediato futuro, dovrebbe derivarne e cioè l’impossibilità di emanare nuovi provvedimenti indulgenziali5. Quasi tutti i primi commentatori, però, sono parsi concordi nell’evidenziare come la sentenza della Corte di Giustizia si sia limitata ad accertare un inadempimento al Trattato da parte dello stato Italiano, con l’emanazione degli artt. 8 e 9 della l. n. 289 del 2002, mentre nessuna conseguenza sul piano pratico sarebbe derivata, non potendo essa incidere né sulla validità del condono né tantomeno sull’eventuale ripetibilità delle somme versate dai contribuenti6. 3 Il comunicato è riportato da Leoni, I giudici comunitari bocciano il condono IVA, in Riv. dott. comm., 2008, p. 1018. 4 In questo Tinelli, Condono IVA e normativa comunitaria, cit., p. 944; molto critico era pure apparso Corso, L’avvocato generale UE delinea il contrasto, cit., p. 3678 nel commento la richiesta dell’avvocato generale Sharpton. 5 Marello, La Corte di giustizia censura il condono IVA, cit., 243; De Mita, Incompatibile per la Corte UE il condono, cit., 2672. 6 Così, De Mita, Incompatibile per la Corte UE il condono, cit., 2674, F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 109 5. Ben diversa, invece, è stata la strada percorsa dalla giurisprudenza. In due casi (almeno noti), la Sezione tributaria della Corte di Cassazione si è occupata degli effetti della sentenza C-132/06 e non solo ha dato per scontato che la decisione della Corte Europea avesse come conseguenza la non applicabilità degli articoli 8 e 9 della l. n. 289/02 ma si è spinta in là, disapplicando anche, di ufficio, le analoghe disposizioni di precedenti provvedimenti indulgenziali. Nella prima pronuncia7, essendo stata chiamata la Corte a decidere su di una complessa vicenda di due domande di condono presentate, rispettivamente ai sensi della l. n. 413 del 1991 e del d.l. n. 41 del 1995, avverso un unico avviso di irrogazione di sanzioni, la Corte si è espressa in questo senso: In materia di IVA, qualora sia stato emesso, per irregolarità formali, avviso di irrogazione di sanzioni, non impugnato dal contribuente, e questi abbia presentato due domande di condono fiscale, una in pendenza dei termini di impugnazione (ai sensi degli artt. 44 e ss. della legge 30 dicembre 1991, n. 413) l’altra dopo la scadenza degli stessi (ex art. 19-bis del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito nella legge 22 marzo 1995, n. 85), nella causa avente ad oggetto l’impugnazione della cartella esattoriale successivamente notificata è superfluo verificare se, mancando il diniego espresso sulla prima domanda di condono, la stessa sia ancora pendente e la seconda sia per tale motivo ammissibile; gli artt. 44 e ss. della legge n. 413 cit. vanno infatti disapplicati per contrasto con gli artt. 2 e 22 della direttiva 77/388/ CEE, del Consiglio, del 17 maggio 1977, coerentemente con quanto affermato dalla Corte di Giustizia (con sentenza del 17 luglio 2008, causa C-132/06) in riferimento all’omologa disciplina di cui agli artt. 7 ed 8 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, per avere la Repubblica Italiana, anche con tali norme, previsto “una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta”. Pertanto, non dovendosi prendere in considerazione la prima domanda di condono, l’accertamento è divenuto definitivo e la seconda domanda è inammissibile. Nella motivazione, per sostenere l’affermazione secondo cui la sentenza della Corte Europea può spiegare effetti anche su norme diverse da quelle oggetto del “giudizio di infrazione”, si sostiene molto stringatamente che “come affermato dalla Corte di Giustizia (fra le altre, nella sentenza del 6 ottobre 1982 resa nel procedimento CILFIT e Ministero della sanità) sebbene il 6. Molto più articolato e complesso è il ragionamento della Cassazione che viene posto a fondamento di due sentenze, sostanzialmente “gemelle”, depositate nella stessa giornata e con una motivazione del tutto coincidente 9. La controversia in entrambi i casi origina da un ricorso per Cassazione presentato dall’Agenzia per le Entrate con cui si chiede di cassare, per vari motivi, sentenze che avevano annullato provvedimenti dell’Amministrazione di diniego di richieste di definizione della controversia, ai sensi della l. n. 413 del 1991. La Corte senza assolutamente prendere in considerazione i motivi di ricorso dell’Amministrazione, di ufficio, da atto che è intervenuta la sentenza della Corte di Giustizia C-132/06 e ritiene di poter estendere gli effetti demolitori di quella anche alla fattispecie in esame di definizione di una lite pendente, ex art. 44, l. n. 413 del 1991. Il principio espresso dalla Corte è del seguente tenore: In tema di condono fiscale, la sentenza della Corte di Giustizia CE 17 luglio 2008, in causa C-132/06 – secondo la quale la Repubblica Italiana è venuta meno agli obblighi di cui agli artt. 2 e 22 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388 CEE, in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative all’ I.V.A., per avere previsto, con gli artt. 7 ed 8 della legge 27 dicembre 2002 n. 289, una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, così pregiudicando seriamente il corretto funzionamento del sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto – ha una portata generale, estesa a qualsiasi misura nazionale, sia essa di carattere legislativo o amministrativo, con la quale lo Stato mem- Marello, La Corte di giustizia censura il condono IVA, cit., 242; Tinelli, Condono IVA e normativa comunitaria, cit., p. 946; Falsitta, I condoni fiscali IVA, cit., 339; Leoni, I giudici comunitari bocciano il condono IVA, cit, 1018. 7 Cass., sez. trib., 24 luglio 2009, 17371 CED Cass,.n. 609294. 8 La sentenza della Corte di giustizia a cui si fa riferimento è C. giust. Eur., 16 ottobre 1982, Cilfit, C-283/81. 9 Ci si riferisce a Cass., sez. trib., 18 settembre 2009, n. 20068, CED Cass. n.. 609804 e Cass., sez. trib. 18 settembre 2009, n. 20069, non massimata e citata nel corpo dell’ordinanza in epigrafe. Trattato obblighi i giudici nazionali di ultima istanza a sottoporre alla Corte qualsiasi questione interpretativa dinanzi ad essa sollevata, l’autorità dell’interpretazione data dalla Corte fa venir meno la causa di tale obbligo allorché la questione sia sostanzialmente identica ad altra questione sollevata in relazione ad analoga fattispecie che sia già stata decisa”8. Da tale considerazione, poi, si fa derivare la regola che “per l’immediata operatività nell’ordinamento interno delle pronunce della Corte di Giustizia e la identità delle questioni poste dalla normativa di riferimento, [deve] considerar[si] illegittima – per contrasto con gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388 CEE – [anche ] la disciplina posta in materia di condono IVA dalla legge 413/91”. tributario Gazzetta 110 d i r i t t o bro rinunci in modo generale o indiscriminato, all’accertamento e/o alla riscossione di tutto o parte dell’imposta dovuta, oltre che delle sanzioni per la relativa violazione, trattandosi di misure di carattere dissuasivo e repressivo, la cui funzione è quella di determinare il corretto adempimento di un obbligo nascente dal diritto comunitario. Tale incompatibilità riguarda, quindi, anche la cd. definizione agevolata delle controversie tributarie pendenti, prevista dall’art. 16 della legge n. 289 del 2002 e dagli artt. 44 e ss. della legge 30 dicembre 1991, n. 413, la quale non si limita ad introdurre criteri che consentano una definizione transattiva delle liti fiscali pendenti, ma comporta una rinuncia dell’Amministrazione finanziaria, attraverso una misura generale limitata nel tempo, all’accertamento, rimesso al giudice tributario, sulla pretesa fiscale, con conseguente disapplicazione di tali norme ed inapplicabilità delle correlate misure di condono. Per motivi di brevità, in questa sede può essere sufficiente riportare due soli snodi della particolarmente diffusa motivazione; un primo quando la Cassazione afferma, in primo luogo, che “La sentenza della Corte di giustizia …enuncia una serie di principi fondamentali in materia di applicazione e riscossione dell’I.V.A. che portano ad escludere la legittimità nel sistema comunitario di meccanismi di condono che attribuiscano al contribuente la possibilità di sottrarsi all’accertamento con il pagamento di una somma priva di un collegamento effettivo con la imposta sul valore aggiunto dovuta in un normale sistema di controllo ed esazione conforme alla normativa fissata dalla Comunità in materia di I.V.A.”. Un secondo, quando aggiunge poco più avanti che “La portata dei principi affermati dalla citata pronuncia è tale che non deve ritenersi compatibile con la disciplina comunitaria in materia di I.V.A. alcuna misura nazionale, sia essa di carattere legislativo o amministrativo, con la quale lo Stato membro rinunci in modo generale ed indiscriminato all’accertamento e/o alla riscossione di tutto o parte dell’imposta dovuta.”. 7. Malgrado tale ultima decisione sia stata accolta favorevolmente da una parte della dottrina 10, è lecito nutrire dubbi sulla correttezza delle affermazioni contenute nelle sentenze riportate, che non paiono in linea con i principi generali che presidiano il diritto comunitario. In particolare, la Corte in entrambi i casi scrutinati 10 In questo senso, Dominici, Gli effetti dell’incompatibilità con il diritto comunitario dei condoni IVA, in Corr. trib., 2009, 3422. Secondo l’Autore la sentenza della Corte di Cassazione potrebbe legittimare i contribuenti alla ripetizione delle somme versate e potrebbe avere conseguenze persino sul c.d. scudo fiscale; rileva, infatti, che “sembra indiscutibile che la rinuncia dello Stato al potere di accertamento limitatamente ai valori <scudati>, nonché i criteri di determinazione dell’importo da corrispondere per fruire della protezione dello scudo, configgano radicalmente con detti principi”. t r i b u ta r i o Gazzetta F O R E N S E sembra non porsi affatto il problema di quale debba essere il valore di una sentenza della Corte di Giustizia europea pronunciata a seguito di contestata infrazione e si comporta, quasi, come se ci si trovasse al cospetto di una sentenza demolitoria della Corte Costituzionale. La Corte Costituzionale11 e la dottrina12 sono, invece, assolutamente concordi nell’affermare che le statuizioni della Corte di giustizia delle Comunità Europee emesse a seguito di procedura di infrazione hanno lo stesso valore ed efficacia della norme comunitarie cui ineriscono. Sarebbe stato, quindi, indispensabile da parte della Sezione tributaria preliminarmente verificare se le disposizioni della VI direttiva in materia di IVA, sulla cui scorta è stata ritenuta l’infrazione, avessero o meno i caratteri per poter essere considerate self executing. E qui per evitare che il discorso possa diventare particolarmente lungo, basterà ricordare come il tema sia considerato dagli studiosi fra i più spinosi e complessi. 11 Così C. Cost., 11 luglio 1989, n. 389, in Foro it., 1991, I, c. 1076 nella cui motivazione ebbe a dire esplicitamente che “poiché … spetta alla Corte di Giustizia assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del… trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di Giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritativamente il significato con le proprie sentenze e per tal via ne determina, in via definitiva, l’ampiezza ed il contenuto delle possibilità applicative. Quando questo principio viene riferito a una norma comunitaria avente effetti diretti – vale a dire una norma dalla quale i soggetti operanti all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio – non v’è dubbio che la precisazione o l’integrazione del significato normativo compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa efficacia delle disposizioni interpretate”. In termini analoghi, anche C. Cost. 18 aprile 1991, n. 168 in Foro it., 1992, I, c. 660, con nota di Daniele, Corte Costituzionale e direttive comunitarie e C. cost. 13 luglio 2007, n. 284, in Giur. Cost., 2007, p. 2780 con nota di Guazzarotti, Competizioni fra giudici nazionali e intervento della Corte di Giustizia. Va, però, ricordato come parte della dottrina sia perplessa rispetto all’idea di riconoscere alle sentenze della Corte il valore di valore normativo, evidenziando, infatti, che “il giudice, a differenza del legislatore, non fissa una regola per ipotetici casi futuri, ma per un caso concreto ed attuale; così, Ghera, Pregiudiziale comunitaria, pregiudiziale costituzionale e valore di precedente delle sentenze interpretative della Corte di Giustizia, in Giur. Cost., 2000, p. 1214. 12 Secondo Mastroianni, Le norme comunitarie non direttamente efficaci costituiscono parametri di costituzionalità delle leggi interne?, in Giur. Cost. 2006, p. 3523 “anche l’intervento di una sentenza della corte di giustizia, sia in sede di interpretazione della direttiva medesima sia in sede di accertamento della violazione da parte di uno Stato membro, dell’obbligo di dar i corretta esecuzione, non è capace di modificare la natura della fonte oggetto di intervento e dunque di correggere il <vizio> di origine: la direttiva rimane improduttiva di effetti diretti nei rapporti orizzontali, e la sentenza ex art. 226 CE comporta in concreto le sole conseguenze indicate dalle norme del Trattato (vale a dire un’eventuale successiva condanna della Corte di Giustizia nei confronti dello Stato inadempiente), non senza offrire solide basi per un’eventuale azione risarcitoria”. Negli stessi termini, anche, ex plurimis, Tesauro, Diritto comunitario, Padova, 2008. F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e In linea di principio si può affermare che una direttiva non trasposta (in tutto, in parte e/o non correttamente) in una legge nazionale può avere efficacia direttamente nell’ordinamento giuridico nazionale solo in presenza di specifiche condizioni. In primo luogo, deve avere un contenuto precettivo sufficientemente chiaro e preciso, tale da non essere condizionato all’emanazione di atti ulteriori 13. Quanto, invece, ai soggetti nei cui confronti essa può essere applicata, la giurisprudenza comunitaria afferma che essa potrà essere fatta valere soltanto nei c.d. rapporti “verticali”, vale a dire nei confronti dello Stato, allo scopo, quindi, di tutelare i diritti dei singoli nei confronti di questo 14. Non sarebbe, invece, consentita l’operazione inversa, vale a dire l’’invocazione, da parte dell’Amministrazione pubblica di una direttiva non recepita a danno di un privato (c.d. effetti diretti verticali “inversi”). Tale conclusione si impone per due motivi; in primo luogo, per ragioni di certezza del diritto: il privato non è tenuto a conoscere la presenza di una direttiva non recepita, a maggior ragione se detta conoscenza gli viene preclusa dal comportamento del suo legislatore; in secondo luogo, perché, nel caso degli effetti verticali inversi, non vale la motivazione che giustifica l’applicazione diretta delle direttive in favore del privato, cioè la necessità di evitare che lo Stato possa trarre vantaggio da un suo inadempimento15. 13 Così C. giust. Eur. del 17 ottobre 1989, Carpaneto Piacentino, C-231/87 e 129/88, punto 30, secondo cui “ogniqualvolta delle disposizioni di una direttiva appaiano, quanto al loro contenuto, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere richiamate, in mancanza di provvedimenti di attuazione adottati nei termini, per opporsi a qualsiasi norma di diritto interno non conforme alla direttiva, ovvero in quanto sono atte a definire diritti che i singoli possono far valere nei confronti dello Stato”. 14 Così C. giust. Eur. 26 febbraio 1986, Marshall, C- 152-8, punto 48: “Quanto all’argomento secondo il quale una direttiva non può essere fatta valere nei confronti di un singolo, va posto in rilievo che, secondo l’art.189 del Trattato, la natura cogente della direttiva sulla quale è basata la possibilità di farla valere dinanzi al giudice nazionale, esiste solo nei confronti dello “stato membro cui e rivolta”. Ne consegue che la direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e che una disposizione di una direttiva non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso”. 15 Secondo C. giust. Eur. 7 gennaio 2004, Delena Wells C-201/02, infatti, “occorre rilevare che il principio della certezza del diritto osta a che le direttive possano creare obblighi a carico dei singoli. Nei confronti di questi ultimi, le disposizioni di una direttiva possono generare solo diritti” (così, punto 56); La giurisprudenza della Corte europea ha cercato di riconoscere gli effetti diretti in modo più ampio possibile, ammettendo l’invocabilità della direttiva non soltanto nei confronti dello Stato in senso stretto ma anche verso enti territoriali, autorità che offrono servizi sanitari pubblici e più in generale organismi che siano stati incaricati di prestare servizi di interesse pubblico, disponendo di poteri di natura pubblicistica; così, C. giust. Eur. 26 febbraio 1986, C- 152-84 cit. e C. giust. Eur. 14 settembre 2000, Telecom Italia, C-343/98 (all. n. 25), punto 23. 2 0 0 9 111 La direttiva, infine, non può essere invocata nell’ambito di rapporti tra i privati (effetto cd orizzontale)16. Nei due casi sopra riferiti, invece, applicando i principi giuridici contenuti nella sentenza della Corte di Lussemburgo C. -132/06 in modo sfavorevole al contribuente, la Cassazione sembrerebbe aver, di fatto, riconosciuto alla direttiva sottostante “effetti verticali inversi”, considerati vietati dalla giurisprudenza pacifica della Corte di giustizia europea. 8. Il compito che attende le Sezioni Unite è, quindi, particolarmente impegnativo, perché per risolvere il quesito specifico sottopostogli – e cioè se debba considerarsi anche non applicabile la disposizione in materia di termini processuali contenuta nell’art. 16 della l. n.289/02 – dovrà necessariamente fare chiarezza su temi ormai di quotidiano impatto sulla giustizia italiana, visti la particolare “invasività” del diritto e della giurisprudenza comunitaria. Potranno, ci si augura, essere posti punti fermi su quali debbano essere gli effetti nel diritto interno delle sentenze della Corte di Giustizia e delle direttive non trasposte correttamente. tributario Gazzetta 16 Il principio è affermato pacificamente anche nella giurisprudenza italiana; così, Cass., sez. I, 20 marzo 1996 n. 2369, CED Cass,.n. 496459 secondo cui “La direttiva del Consiglio CEE 20 dicembre 1985, n. 577, in materia di vendite fuori dei locali commerciali – la quale, pur contenendo norme incondizionate e sufficientemente precise circa la determinazione dei beneficiari ed il termine entro cui esercita il diritto di recesso, non può considerarsi operante nei rapporti tra i privati (ma soltanto in quelli tra i singoli e lo Stato membro, al quale la direttiva è indirizzata) prima dell’emanazione del provvedimento interno di attuazione (in Italia, il d. lgs. n. 50 del 1992) – deve considerarsi collocata tra le fonti del diritto rilevanti nell’ordinamento italiano fin dal momento in cui scade il termine per l’attuazione senza che avvenga il formale recepimento; con la conseguenza che di essa, ancorché non sia ancora idonea a disciplinare immediatamente i rapporti tra i privati, deve tenersi conto nella configurazione dei principi regolatori della materia della tutela del consumatore nella conclusione dei contratti di vendita mobiliare con un operatore commerciale, stipulati al domicilio del primo (nella specie, la S.C. ha confermato la decisione del conciliatore che aveva ritenuto conforme ad equità applicare i principi della richiamata direttiva comunitaria, benché all’epoca dei fatti questa non fosse stata ancora recepita nell’ordinamento italiano)”. Negli stessi termini anche Cass., sez. I, 9 novembre 2006, n. 23937, e Cass. sez. I, 16 ottobre 2006, n. 22125, ivi, n. 592784. diritto Internazionale Rassegna di giurisprudenza comunitaria e internazionale 115 internazionale A cura di Francesco Romanelli Avvocato e Specialista in diritto ed economia delle Comunità europee Gazzetta F O R E N S E ● 2 0 0 9 115 Corte di Giustizia dell’Unione Europea ● A cura di Francesco Romanelli Avvocato e Specialista in diritto ed economia delle Comunità europee Sentenza della Corte (Settima Sezione), 12 novembre 2009 (Causa C-12/09) Inadempimento di uno Stato – Direttiva 2006/17/ CE – Prescrizioni tecniche per la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di tessuti e cellule umani – Omessa trasposizione entro il termine impartito L’Italia è stata condannata dalla Corte per il mancato tempestivo e corretto recepimento della direttiva della Commissione 8 febbraio 2006, 2006/17/CE, che attua la direttiva 2004/23/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda determinate prescrizioni tecniche per la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di tessuti e cellule umani. Sentenza della Corte (Ottava Sezione) 17 dicembre 2009 (C‑586/08) Riconoscimento di diplomi – Nozione di “professione regolamentata” – Selezione di un numero predeterminato di persone attraverso una valutazione comparativa che attribuisce un titolo di limitata validità temporale – Idoneità scientifica nazionale – Docente universitario (Direttiva 2005/36/CE) Nel procedimento C‑586/08, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con decisione 9 luglio 2008, la Corte ha statuito che: La professione di docente universitario non costituisce una professione regolamentata. La circostanza che l’accesso ad una professione sia riservato ai candidati selezionati mediante una procedura diretta ad ottenere un numero predeterminato di persone sulla base di una valutazione comparativa dei candidati piuttosto che mediante l’applicazione di criteri assoluti e che conferisce un titolo la cui validità temporale è strettamente limitata non implica che tale professione sia una professione regolamentata ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 7 settembre 2005, 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. Tuttavia, gli artt. 39 CE e 43 CE impongono che le qualifiche acquisite in altri Stati membri siano riconosciute per il loro giusto valore e siano debitamente prese in considerazione nell’ambito di tale procedura In seguito allo svolgimento di attività universitarie iniziate nel 1991, il ricorrente, cittadino italiano, ha ottenuto nel 2005 l’«Habilitation» (facultas legendi) per la materia Oceanografia, nonché la «Lehrbefugnis» (venia legendi) presso la Facoltà di Scienze geofisiche dell’Università di Amburgo (Germania). Detti titoli confermano la sua idoneità all’insegnamento universitario in qualità di professore ordinario («Ordinarius») internazionale Rassegna di giurisprudenza comunitaria e internazionale n o v e m b r e • d i c e m b r e 116 D i r i t t o I n t e r n a z i o n a l e nel sistema di istruzione superiore tedesco. Chiesto il riconoscimento in Italia delle qualifiche che aveva acquisito in Germania, al fine di essere iscritto nell’elenco dei possessori dell’ISN, il ricorrente si è sentito respingere la propria domanda dal Ministero italiano dell’Università che ha contestato l’equivalenza tra la «Lehrbefugnis» rilasciata in Germania e l’ISN propria del sistema universitario italiano, precisando che il decreto legislativo n. 206/2007 non è applicabile in quanto la professione di docente universitario non costituisce una professione regolamentata in Italia, perché riguarda il personale assunto attraverso una procedura di selezione cui è possibile partecipare senza che sia richiesto il possesso di un titolo di studio determinato. Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, investito della questione, ha sottoposto alla Corte il seguente quesito: «Se i principi comunitari di eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione di persone e servizi tra Stati membri della Comunità [europea], e di reciproco riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli, di cui agli artt. 3, n. 1, lett. c), [CE] e 47, n. 1, [CE], e le disposizioni contenute nella direttiva 2005/36 […] ostino a una normativa interna, come […] il decreto legislativo n. 206/2007, che esclude i docenti universitari dall’ambito delle professioni regolamentate ai fini del riconoscimento di qualifiche professionali». Sentenza della Corte (Prima Sezione) 17 dicembre 2009 (C‑227/08) Tutela dei consumatori – Contratti negoziati fuori dei locali commerciali – Diritto di recesso – Obbligo d’informazione da parte del commerciante – Nullità del contratto – Misure appropriate (Direttiva 85/577/CEE – Art. 4) Nel procedimento C‑227/08, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dall’Audiencia Provincial de Salamanca (Spagna), con decisione 20 maggio 2008, la Corte ha statuito che: L’art. 4 della direttiva del Consiglio 20 dicembre 1985, 85/577/CEE, per la tutela dei consumatori in caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali non osta a che un giudice nazionale dichiari d’ufficio la nullità di un contratto rientrante nell’ambito di applicazione di tale direttiva a causa della circostanza che il consumatore non era stato informato del suo diritto di recesso, anche qualora detta nullità non sia mai stata fatta valere dal consumatore dinanzi ai giudici nazionali competenti. La ricorrente aveva acquistato della merce fuori dai locali commerciali. A seguito del mancato pagamento del prezzo, la venditrice aveva chiesto ed ottenuto dal Tribunale di Salamanca l’emissione di un decreto ingiuntivo per il pagamento del prezzo, degli interessi e delle spese. Proposto gravame, la Corte d’Appello provinciale, ritenendo che il contratto fosse nullo perché l’acqui- Gazzetta F O R E N S E rente non era stata informata della facoltà di recesso, ma che né in primo grado né in appello la ricorrente avesse eccepito tale nullità, sul presupposto della non rilevabilità di ufficio di essa, ha posto alla Corte il seguente quesito: «Se l’art. 153 CE, letto in combinato disposto con gli artt. 3 CE e 95 CE, con l’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché con la direttiva] e in particolare con l’art. 4 di quest’ultima, debba essere interpretato nel senso che consente al giudice investito del ricorso d’appello avverso la sentenza di primo grado di dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto rientrante nell’ambito di applicazione della suddetta direttiva, qualora risulti che tale nullità non è mai stata eccepita in alcun momento dal consumatore convenuto, né nell’ambito dell’opposizione al procedimento ingiuntivo, né in sede di udienza, né nel ricorso di appello». Sentenza della Corte (Settima Sezione) 12 novembre 2009 (C-12/09) Inadempimento di uno Stato – Prescrizioni tecniche per la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di tessuti e cellule umani – Omessa trasposizione entro il termine impartito (Direttiva 2006/17/CE) Nel procedimento C-12/09, avente ad oggetto la richiesta di condanna dell’Italia da parte della Commissione Europea per la mancata tempestiva trasposizione nel diritto nazionale della direttiva della Commissione 8 febbraio 2006, 2006/17/CE, che attua la direttiva 2004/23/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda determinate prescrizioni tecniche per la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di tessuti e cellule umani, la Corte ha dichiarato: La Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi che ad essa incombono in forza dell’art. 7, n. 1, primo comma, della direttiva 2006/17. Il caso è, come spesso accade, paradossale, scaduto il termine per la trasposizione nel diritto nazionale di una direttiva, la Commissione, in assenza di qualsiasi informazione relativa ai provvedimenti adottati dalla Repubblica italiana per assicurare il recepimento della direttiva stessa nel proprio ordinamento giuridico interno, ha avviato il procedimento per inadempimento di cui all’art. 226 CE intimando a tale Stato membro, di presentare le proprie osservazioni. Non avendo ottenuto risposta, la Commissione, ha emesso un parere motivato con cui ha invitato la Repubblica italiana ad adottare i provvedimenti necessari per il recepimento della direttiva 2006/17 entro due mesi a decorrere dal ricevimento di tale parere motivato. Finalmente, la Repubblica italiana ha risposto al detto parere motivato comunicando alla Commissione che, ai fini di tale recepimento, il Consiglio dei Ministri, successivamente alla notifica del parere motivato, aveva adottato uno schema di decreto legislativo, il quale doveva essere Gazzetta F O R E N S E n o v e m b r e • d i c e m b r e sottoposto per i prescritti pareri alla Conferenza «StatoRegioni» e alla competente commissione parlamentare, per cui l’approvazione definitiva delle disposizioni necessarie al detto recepimento era prevista per il 1° agosto 2008. La Commissione ha deciso quindi di ricorrere alla Corte per far dichiarare l’inadempimento dell’Italia. Nel controricorso, la Repubblica italiana non ha contestato l’inadempimento fatto valere, precisando che l’iter legislativo diretto ad assicurare il recepimento non fosse ancora concluso. Secondo costante giurisprudenza comunitaria, l’esistenza del contestato inadempimento deve essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato e che i mutamenti intervenuti in seguito non possono essere presi in considerazione dalla Corte (v., in particolare, sentenza 17 gennaio 2008, causa C‑152/05, Commissione/Germania, Racc. pag. I‑39, punto 15 e la giurisprudenza ivi menzionata). Peraltro, uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini prescritti da una direttiva (in particolare, sentenza 28 giugno 2007, causa C‑235/04, Commissione/Spagna, Racc. pag. I‑5415, punto 55). 2 0 0 9 117 ressi dovuti sino alla data della sentenza della Corte, detratti gli indennizzi già corrisposti. La sentenza della Grande Camera stabilisce, a parziale modifica della decisione appellata, che l’adeguatezza dell’indennizzo deve valutarsi senza far riferimento alle varie circostanze atte a ridurne il valore, come il decorso di un considerevole lasso di tempo, deducendo l’importo ottenuto al livello nazionale e la differenza con il valore di mercato all’epoca dell’accessione invertita; tale valore dovrà essere convertito in valuta corrente per eliminare gli effetti dell’inflazione. In più gli interessi dovranno essere pagati su tale importo al tasso legale sul capitale progressivamente rivalutato. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Con la sentenza in commento, è stato definito l’appello proposto avverso la sentenza del 21 ottobre 2008 con la quale era stata dichiarata la violazione dell’art. 1 del protocollo n. 1 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in caso di occupazione acquisitiva e, abbandonato l’usuale metodo di calcolo dell’equo indennizzo basato sul valore di mercato della terra, aggiornato per tener conto dell’inflazione e rivalutato per tener conto del valore degli edifici realizzati dall’autorità espropriante, era stato adottato un nuovo metodo basato sul valore di mercato della proprietà alla data in cui il ricorrente aveva la legale certezza di aver perso il diritto di proprietà, somma da incrementare con gli inte- internazionale Sentenza della Corte (Grande Camera) 22 dicembre 2009 convenzione europea dei diritti dell’uomo – Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali emendato dal Protocollo n. 11 – protezione della proprietà (art. 1). In ipotesi di accessione invertita, i proprietari illegittimamente privati del bene hanno diritto ad ottenere il pieno valore di mercato della proprietà al tempo dello spossessamento e non al momento della sentenza che dichiari l’avvenuta espropriazione acquisitiva, importo rivalutato all’attualità per tener conto degli effetti dell’inflazione. questioni A cura di Mariano Valente, Magistrato DIRITTO CIVILE Rifiuto del coacquisto da parte di coniuge in comunione legale dei beni 121 Flora Caputo Dottore in giurisprudenza DIRITTO PENALE Peculato 123 Chiara Cucinella Dottore in giurisprudenza DIRITTO AMMINISTRATIVO Tutela dei controinteressati comproprietari di bene immobile 125 Francesca Bonito Avvocato DIRITTO TRIBUTARIO Massimo Tupone Avvocato 126 questioni Procedimento monitorio civilistico per l’adempimento di obblighi di fare tributari F O R E N S E ● DIRITTO CIVILE Rifiuto del coacquisto da parte di coniuge in comunione legale dei beni Quali sono le novità introdotte dal D.Lgs. 142/08 in materia di stima dei conferimenti in natura? ● Flora Caputo Dottore in giurisprudenza La questione del c.d. “rifiuto del coacquisto” inerisce all’ammissibilità di una dichiarazione negoziale contestuale all’atto di acquisto, con cui un coniuge in regime di comunione legale dei beni impedisce che il bene oggetto dell’acquisto cada in comunione, in assenza dei presupposti ex art. 179 c.c. Il dato di partenza è costituito senza dubbio dalla sentenza della Cassazione del 2 giugno 1989, n. 2688, in cui si afferma la validità di una siffatta dichiarazione, ammettendosi una deroga al disposto di cui all’art. 177 lett. a) c.c., per volontà concorde dei coniugi, resa nella forma richiesta per le convenzioni matrimoniali. Il coniuge che non abbia interesse alla caduta in comunione di un determinato bene ha il potere di rendere una dichiarazione negoziale dismissiva (una vera e propria rinunzia all’acquisto), sia in omaggio al generale principio nemo locupletari potest invito, e sia perché, ex art. 2647 c.c., è espressamente previsto che i coniugi possano derogare in parte – con apposita convenzione in forma pubblica – alla disciplina della comunione legale. La conseguenza più immediata è che nelle ipotesi di deviazione una tantum dalla disciplina della comunione ci si trova di fronte ad un “disallineamento” tra le risultanze n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 dell’atto di matrimonio e l’effettivo regime patrimoniale vigente tra i coniugi, essendo un bene soggetto di fatto a due diversi statuti, uno valido per i rapporti interni, l’altro per quelli esterni, con inevitabili conseguenze per la tutela dei terzi. La tesi dell’ammissibilità del c.d. rifiuto del coacquisto viene portata alle estreme conseguenze negli anni successivi, quando si ammette l’intervento (in presenza di un accordo dei coniugi anche fuori delle ipotesi dell’art. 179 c.c.) purché in relazione ad un acquisto concluso con l’impiego di denaro proveniente dal lavoro proprio del coniuge che sta comprando, o, più genericamente, personale (Cass. 18 agosto 1994, n. 7437). Un tale indirizzo, tuttavia, finendo con il ridurre ai minimi termini il significato della comunione legale, rendendola, nella pratica, un regime patrimoniale contenente solo un programma di massima suscettibile di continui adattamenti e modellabile in base alle esigenze manifestate dai coniugi ad nutum, ha fatto progressivamente emergere, sin dalla fine degli anni Novanta, l’opposta tesi restrittiva, fondata su una concezione più rigorosa della famiglia e del regime di comunione legale, cui attribuire un’importanza sociale tale da tradursi in un vincolo insormontabile di indisponibilità per le parti. Tra le prime pronunce in questo senso vi è la numero 9355 del 23 settembre 1997, con cui la Suprema Corte chiarisce che i beni acquistati con i proventi dell’attività separata di uno dei coniugi entrano subito in comunione e di pieno diritto, senza che sia possibile escluderli con la dichiarazione di cui all’art. 179 lett. f) c.c., applicabile solo all’acquisto mediante utilizzo dei proventi della vendita di beni personali. Gradatamente si giunge ad interpretare l’art. 179 c.c. come norma eccezionale non suscettibile di interpretazione analogica: le ipotesi in cui vi può essere esclusione dalla comunione legale di un bene, da attuarsi sempre attraverso una convenzione matrimoniale che rispetti 121 i requisiti di forma e di sostanza imposti ex artt. 161 e 210 c.c., sono tassativamente elencate e devono rispettare i presupposti oggettivi previsti dalla legge (Cass. 27 febbraio 2003, n. 2954). La qualità di bene “personale” e la conseguente esclusione dalla comunione, nel caso di cui all’articolo 179, comma 1, lettera f) c.c., non conseguono, cioè, per il semplice fatto che il bene sia stato acquistato con denaro proprio di uno dei coniugi essendo piuttosto necessario, affinché tale esclusione abbia luogo, che l’acquisto sia stato effettuato con denaro proveniente dalla vendita di beni personali (Cass. n. 9355 del 1997 cit.) o mediante la permuta con altri beni personali (Cass. 8 febbraio 1993, n. 1556). In secondo luogo, la partecipazione al contratto del coniuge (formalmente) non acquirente, ed il suo eventuale assenso esplicito all’acquisto personale da parte dell’altro, non sono considerati dalla legge, rettamente interpretata, elementi di per sé sufficienti ad escludere l’acquisto dalla comunione coniugale. Il consenso non può costituire efficace rinunzia alla comunione neppure nel caso dell’articolo 179, comma 2 c.c., allorché l’esclusione dipenda non dalla rinunzia del coniuge, ma dal carattere “personale” del bene (comma 1) e dal fatto (comma 2) che detto carattere risulti espressamente dall’atto di acquisto, quando abbia partecipato alla stipula anche il coniuge non acquirente. Laddove i coniugi abbiano scelto il regime di comunione legale, rectius quando ex art. 159 c.c. non ne abbiano scelto uno alternativo, i coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio (art. 215 c.c.) od anche instaurare fra loro un regime di comunione convenzionale, modificando quello tipico (art. 210 c.c.); ma tali convenzioni, oltre a soggiacere a determinate forme (art. 162 c.c.), riguardano sempre il regime patrimoniale complessivo della fa- questioni Gazzetta 122 miglia (hanno cioè carattere “programmatico”) e non possono essere limitate a beni specifici, compresi nella comunione legale. In pratica i coniugi possono programmare di vivere in comunione, possono programmare di vivere in una comunione legale corretta – ad esempio escludendo tutti gli immobili in Campania – ma non possono escludere con un unico atto un solo bene (c.d. convenzioni dispositive) La tesi restrittiva avanzata dagli ermellini nel 2003, testé esposta, non è però stata esente da critiche: dover tutelare il coniuge più debole anche contro la sua volontà liberamente espressa – e spesso contro i suoi stessi interessi – in nome di un interesse superiore di natura pubblicistica può sembrare una scelta anacronistica; una interpretazione di questo tipo rende ancor più rigide norme che invece andrebbero rese più elastiche, e costringe i coniugi alla stipula di convenzioni matrimoniali spesso non volute e non rispondenti alla effettiva regolamentazione degli interessi familiari. Inoltre, si è detto, se le parti possono derogare totalmente al regime patrimoniale legale, a maggior ragione possono impedire la verificazione degli effetti di tale regime rispetto ad un singolo atto di acquisto. Sotto questo profilo, il secondo comma dell’art. 179 si porrebbe accanto all’art. 159, rientrando, cioè, tra le possibilità offerte alla autonomia privata di rendere inoperante il regime patrimoniale legale. Nella pratica i casi possono essere due: a) atti contenenti la dichiarazione generica, rilasciata dal coniuge acquirente, che il denaro impiegato per l’acquisto è suo personale, confermato magari dall’altro coniuge; b) atti contenenti la dichiarazione del coniuge acquirente che dichiara di essere coniugato in regime di comunione, ma che l’acquisto viene effettuato con denaro proveniente dalla vendita di beni suoi personali (o acquisiti q u e s t i o n i con lo scambio di beni suoi personali) ai sensi dell’articolo 179, lett. f), c.c. e quindi escluso dalla comunione legale, come l’altro coniuge presente in atto riconosce e conferma. La sentenza della Cassazione da ultimo citata sembrerebbe riferirsi solo al caso sub a). L’ultimo indirizzo giurisprudenziale, quindi, interpreta in modo restrittivo le norme sulla comunione legale (e soprattutto l’art. 179 c.c.), sia in un’ottica di tutela degli interessi della famiglia, che di tutela dell’affidamento dei terzi che potrebbero rimanere danneggiati a causa dei problemi in tema di pubblicità. La Corte di Cassazione, successivamente, ha affrontato funditus il problema della natura giuridica della dichiarazione resa dal coniuge escluso, e della necessarietà o meno della contestualità dello stesso all’atto di acquisto (Cass. 24 settembre 2004, n. 19250). La dichiarazione in parola, si è detto, ha mero valore di dichiarazione di scienza, cui è assegnata sostanzialmente una funzione di controllo della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge per l’esclusione del bene dalla comunione (si affida, cioè, al coniuge interveniente la verifica della personalità del bene), principalmente in funzione di tutela dell’affidamento dei terzi. Vien da sé che, stante questa ricostruzione, la dichiarazione debba essere necessariamente contestuale all’atto di acquisto, al contrario di quanto si era affermato in passato, quando la tesi predominante non riteneva essenziale la dichiarazione in commento – surrogabile con altri mezzi di prova – ma essenziale era solo la certezza della provenienza del denaro. Tale ultimo assunto, si fa notare, è stato ripreso da una recente sentenza (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1197) che sottolinea l’automatismo della surrogazione reale laddove ricorrano i presupposti oggettivi stabiliti dalla legge. La dichiarazione di cui all’art. 179 c.c. ha, inoltre, valore di Gazzetta F O R E N S E testimonianza privilegiata, che fonda una presunzione juris et de iure di esclusione della contitolarità dell’acquisto, che può essere rimossa nei ristretti limiti di cui all’art. 2732 c.c. (Cass. 6 marzo 2008, n. 6120). Tutto quanto fin qui detto è stato di recente ribadito dagli ermellini con una sentenza a Sezioni Unite (Cass. SS.UU. 28 ottobre 2009, n. 22755) in cui si è definitivamente stabilito che nel nostro ordinamento non trova cittadinanza alcuna il c.d. rifiuto del coacquisto. Allo stato, ergo, l’unica possibilità per i coniugi che vogliano escludere un bene dalla comunione è la stipulazione di una comunione convenzionale (a carattere necessariamente programmatico); l’intervento in atto del coniuge non acquirente per effettuare la dichiarazione di cui all’art. 179 c.c. serve solo a confermare la sussistenza dei presupposti per cui un bene acquistato in pendenza di matrimonio in regime di comunione legale non vi ricade. L’affermata natura ricognitiva, che conferma il principio di indisponibilità del diritto alla comunione legale (già enunciato nelle sentenze del 2003 e del 2004), sussiste ogniqualvolta la dichiarazione sia resa da un coniuge per riconoscere che il corrispettivo dell’acquisto compiuto dall’altro è pagato col trasferimento di altri beni già personali, e non quando serva per esprimere condivisione dell’intento dell’altro coniuge, ad esempio, di destinare alla propria attività personale il bene che si sta acquistando; inoltre, quando la natura personale del bene viene dichiarata solo in ragione di una sua futura destinazione sarà l’effettività della stessa a determinarne l’esclusione dalla comunione, e non certo la pur condivisa dichiarazione di intenti dei coniugi circa la sua destinazione. La certezza nella circolazione dei beni risulta, pertanto, prevalente rispetto all’interesse del coniuge a realizzare la surrogazione reale tra prezzo ricavato dalla vendita di un bene personale e nuovo acquisto immobiliare (alla luce della n o v e m b r e • d i c e m b r e F O R E N S E sentenza del 2006 citata, tale automatismo rimarrebbe operante, però, nei casi di acquisti mobiliari). Nei confronti dei terzi l’unico soggetto deputato a verificare la sussistenza dei presupposti oggettivi della norma è, perciò, il coniuge escluso; la dichiarazione è ricognitiva dei presupposti per la “personalità” dell’acquisto, rilevante sia nei rapporti interni che in quelli esterni. Tale meccanismo può essere derogato, a ben vedere, solo nell’ipotesi di permuta di bene personale ove le esigenze di certezza possono ben ritenersi soddisfatte sulla base delle risultanze del sistema della continuità delle trascrizioni. La dichiarazione de qua è, quindi, elemento costitutivo della fattispecie di esclusione, condizione necessaria ancorché non sufficiente che deve essere contestuale all’atto per poter perfezionare l’esclusione del bene (immobile o mobile registrato) dalla comunione, come sembra confermato dal dato letterale dell’art. 179 c.c. che richiede espressamente l’intervento del coniuge. Concludendo, è solo la natura effettivamente personale del bene a poterne determinare l’esclusione dalla comunione, e l’intervento adesivo del coniuge non acquirente ha la sola – necessaria – funzione di riconoscimento dei presupposti di quella limitazione, ove effettivamente esistenti. La dichiarazione svolge il compito di necessaria documentazione di natura personale del bene, unico presupposto sostanziale della sua esclusione, cosicché se esso non dovesse effettivamente sussistere è sempre possibile per il coniuge interveniente agire in giudizio per l’accertamento della situazione effettiva (che presupporrà la revoca della dichiarazione – confessione, entro i citati limiti di cui all’art. 2732 c.c.). Va da sé, infine, che un eventuale accertamento dell’insussistenza dei presupposti oggettivi richiesti dalla legge, salvi gli effetti della trascrizione della domanda giudiziale, non è opponibile al terzo acquirente di buona fede. 2 0 0 9 ● DIRITTO PENALE Peculato La riutilizzazione da parte del custode cimiteriale di lapidi ed ornamenti mortuari altrui, in assenza di richiesta di restituzione da parte del proprietario successivamente alla estumulazione della salma, è condotta idonea ad integrare il delitto di peculato? ● Chiara Cucinella Dottore in giurisprudenza La trattazione della questione in oggetto prende spunto da una vicenda processuale relativa al caso di un custode cimiteriale accusato di peculato, per essersi impossessato di lapidi marmoree e arredi funerari al fine di rivenderli a persone diverse dagli originari proprietari, dopo che questi ultimi, in seguito alla estumulazione della salma, avevano mostrato il loro disinteresse verso tali res. Il P.M., all’esito delle indagini preliminari, formulava richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell’indagato: il custode, quale esercente di pubblico servizio e nella disponibilità delle lapidi e degli arredi funerari di cui si impossessava e che rivendeva, veniva accusato del reato di peculato ex art. 314 c.p. Il G.U.P. (Tribunale di Napoli, G.u.p. ufficio 41°, sent. n.l.p. dep. 19 m a g g io 2 0 0 8 , n . 178 69 R.G.G.I.P), a seguito della richiesta di rinvio a giudizio, emetteva sentenza di non luogo a procedere. Premesso che, com’è noto, l’organo giudicante, nell’esaminare la richiesta di rinvio a giudizio, deve tendere a paralizzare l’iniziativa della pubblica accusa quando il fondamento dell’accusa non sia idoneo a confermare la sua validità nel 123 successivo giudizio, nel decidere in ordine al caso sottoposto al suo esame, il G.u.p. ha considerato, in maniera analitica, la fattispecie ast rat t a co sì come de s c r it t a dall’art. 314, co. 1° c.p., e non ha riscontrato la sussumibilità del caso concreto in tale fattispecie ritenendo assente l’elemento dell’altruità delle res oggetto di appropriazione richiesto dalla fattispecie tipica L’art. 314 c.p., che descrive il reato di peculato, inquadra la fattispecie quale reato di danno, perché richiede l’offesa del bene tutelato e non la mera esposizione a pericolo e di mera condotta, di tal che si perfeziona con l’esecuzione dell’azione illecita. Il reato di peculato rientra nella categoria dei reati plurioffensivi dunque è sufficiente, per la sua integrazione, la lesione del bene indicato dal legislatore come oggetto di tutela penale. Questo implica che l’eventuale mancanza di un danno patrimoniale conseguente all’appropriazione, non esclude la configurabilità del reato, atteso che rimane pur sempre leso dalla condotta dell’agente l’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione. L’art. 314, co. 1° c.p., nel descrivere la fattispecie, pone in evidenza la necessità dell’esistenza di determinati presupposti: in primo luogo il soggetto attivo dell’illecito penale deve essere un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio ( reato proprio); in secondo luogo il soggetto deve essere nella disponibilità del bene oggetto di appropriazione. L’elemento oggettivo del reato di peculato si concreta con l’appropriazione e ciò avviene quando il denaro o la cosa mobile altrui sono sottratti alla pubblica amministrazione e posti nella disponibilità ed a profitto dell’autore del fatto o di altri. In sostanza la condotta appropriativa si realizza con l’interversione del titolo del possesso nel pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico servizio i quali cominciano, così, a questioni Gazzetta 124 comportarsi uti domini nei confronti delle cose altrui. L’elemento soggettivo è rappresentato dal dolo generico, che deve essere inteso come coscienza e volontà di appropriarsi di un bene di proprietà altrui, del quale si è avuta la piena disponibilità per ragioni di servizio o d’ufficio. Nel caso che ci occupa, il G.U.P. analizza prima la qualifica del soggetto attivo: l’indagato, quale custode del cimitero, integra la qualifica di incaricato di pubblico servizio così come richiesto dall’art. 314 c.p.. Passa, poi, all’analisi della condotta descritta nella fattispecie nella sua accezione oggettiva: l’esercente del pubblico servizio è nella disponibilità delle res. Quello che però risulta mancante ai fini dell’integrazione della fattispecie è “l’elemento dell’altruità della cosa oggetto di appropriazione, la consapevolezza di tale altruità e la volontà di appropriarsene al fine di trarne profitto”. Si afferma, infatti, che non può essere contestato il reato di peculato ad un esercente di pubblico servizio che si appropri, avendone la disponibilità per ragione del proprio ufficio, di res derelictae, ovvero di beni abbandonati – con animus dereliquendi – dal legittimo proprietario, o di cui il legittimo proprietario si sia disinteressato in maniera assoluta, dimostrando, per facta concludentia, la volontà di disfarsene. Alla luce di questi canoni ermeneutici, il G.U.P. ritiene di poter qualificare come res derelictae le lapidi e gli ornamenti mortuari, di cui il custode si sarebbe appropriato. Sulla base delle risultanze probatorie emergeva, infatti, che i parenti, al momento dell’esumazione dei propri cari, alla quale essi stessi erano presenti, avevano lasciato che il custode portasse via le lapidi o gli altri arredi, senza chiederne la restituzione né al momento, né successivamente, dimostrando, con tale comportamento, di non avere nessun interesse alla loro restituzione. Il G.U.P. ha ritenuto che le cose q u e s t i o n i erano state abbandonate dai legittimi proprietari e, pertanto, la fattispecie concreta difettava dell’elemento dell’altruità della cosa richiesta dalla norma. La sentenza in esame è stata confermata anche dalla Suprema Corte (Cass. sez. VI, 21 aprile 2009, n. 833), che ha rigettato il ricorso per cassazione presentato dal P.m. Dall’esame della fattispecie presa in esame, può in conclusione trarsi il seguente principio di diritto: il reato di peculato presuppone che la res di cui si impossessa il soggetto attivo sia altrui e che l’imputato abbia la consapevolezza di appropriarsi di una cosa altrui per trarne profitto. Sul piano dell’elemento soggettivo si realizza il mutamento dell’atteggiamento psicologico dell’agente che alla rappresentazione di essere possessore della cosa per conto di altri sostituisce quella di possedere per conto proprio (Cass. sez. VI, sentenza n. 381 del 12.12.2000). Già in passato la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata in conformità al principio di diritto enunciato dalla sentenza di non luogo a procedere del G.U.P. del Tribunale di Napoli (cass. Pen., sez. VI, 25.09.1997, n. 8621). Al riguardo, la Suprema Corte distingue due ipotesi: non costituiscono res nullius né res derelictae gli oggetti rinvenuti sulle salme o nel terreno utilizzato per la sepoltura, giacchè sono presuntivamente appartenuti alle persone decedute o a coloro che hanno inteso testimoniare nei confronti delle medesime il loro affetto ed onorarne la memoria. Lasciare un oggetto sul corpo della persone deceduta inoltre sottende una specifica destinazione che il proprietario voleva dargli, risultante per facta concludentia. Diverso è invece il caso in cui la persona legittimata, pur posta in condizione di intervenire alle operazioni di riesumazione o informata del rinvenimento di cose che potrebbero appartenerle, non si presenti ovvero ponga in essere un compor- Gazzetta F O R E N S E tamento manifestante inequivoco di disinteresse verso gli oggetti rinvenibili o rinvenuti. In questo secondo caso, ricorrendo tali condizioni, ad avviso della Suprema Corte, potrebbe ragionevolmente desumersi che sussista quel animus dereliquendi richiesto dall’art. 923 c.c. e l’impossibilità del configurarsi del reato di peculato (sulla base di tali presupposti, la Corte ha ritenuto la sussistenza del reato di peculato perché l’imputato aveva spogliato la salma di oggetti preziosi lasciati dai parenti sul corpo della persona deceduta, beni che non andavano qualificati come res derelictae). Tornando alla fattispecie concretamente posta all’attenzione del G.u.p. del Tribunale di Napoli, premesso che, com’è noto, l’indagine dell’interprete nel valutare l’esistenza o meno di un fatto costituente reato è trifasica, dovendosi indagare prima sull’esistenza del fatto come tipico, cioè accertando se quel fatto storico corrisponda alla descrizione normativa, poi sull’assenza di cause di giustificazione e, infine, sul giudizio di colpevolezza o responsabilità in capo al singolo autore, quando nella fattispecie di reato di peculato manca l’altruità della res oggetto del reato deve escludersi la sussistenza della fattispecie stessa arrestandosi alla prima fase, per l’insussistenza del fatto tipico; tale valutazione esclude la sussistenza del reato, senza necessità di prendere in considerazione l’elemento soggettivo. Con riferimento alla sentenza di non luogo a procedere esaminata, il G.u.p. oltre ad escludere la sussistenza del reato per la mancanza dell’elemento oggettivo, affronta anche l’aspetto dell’elemento soggettivo, ponendo seri dubbi sull’esistenza dello stesso elemento psicologico in capo al soggetto agente, affermando che comunque manca la prova della consapevolezza di appropriarsi di beni altrui contro la volontà dei legittimi proprietari; questo in linea con la qualificazione delle res come derelictae. F O R E N S E ● DIRITTO AMMINISTRATIVO Tutela dei controinteressati comproprietari di bene immobile Il modello italiano di tutela del patrimonio culturale. La problematica dell’inquadramento dei comproprietari di un immobile oggetto di vincolo culturale tra i controinteressati, nel giudizio annullatorio del provvedimento impositivo del vincolo. ● Francesca Bonito Avvocato L’attuale legislazione speciale di tutela dei Beni Culturali (D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), è informata al presupposto fondamentale – anche alla luce della tutela del patrimonio storico-artistico sancita dall’art. 9 Cost. – di disporre l’appartenenza al demanio o al patrimonio indisponibile dello Stato delle cose che, a seconda se immobili o mobili, “presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” (in tal senso cfr. l’art. 10 del D.Lgs. cit.). In applicazione di tale principio la Cassazione penale, sez. III, con la sentenza n. 19714 del 22.05.2007 ha sancito testualmente che: “Tutti gli oggetti d’interesse artistico, storico o archeologico, sin dalla loro scoperta, sono di proprietà dello Stato. Il loro impossessamento, sia che provenga da scavo sia da rinvenimento fortuito è previsto dalla legge come reato e dunque il loro possesso si deve ritenere illegittimo a meno che il detentore non dimostri di averli legittimamente acquistati”. Gli istituti in cui si articola il nuovo codice, entrato in vigore il 1 maggio 2004, contribuiscono a for- n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 mare quello che oggi viene definito “diritto dei beni culturali”. Le funzioni amministrative connesse alla materia dei beni culturali vengono ripartite tra attività di tutela ed attività di valorizzazione del bene oggetto di vincolo. Accanto ad esse si è gradualmente delineata la nuova categoria della gestione, che, per volontà del legislatore, ha assunto dignità autonoma. L’attuale disciplina è stata dettata naturalmente dall’esigenza di sottrarre i beni tutelati ai rischi di distruzione o di pregiudizievole modificazione. Le conseguenze pratiche che inevitabilmente si verificherebbero in caso di una gestione poco accorta – salvo poter divenire un’ipotesi di vero e proprio disastro storico-archeologico in caso di distruzione del bene oggetto di vincolo – hanno imposto una disciplina della “cultura del bello” riordinata e semplificata. Si riscontrano tre tipi di procedimenti per giungere alla individuazione dell’interesse culturale di un bene. Difatti è possibile che lo Stato attribuisca a un bene uno spiccato interesse per legge (basti pensare, a scopo esemplificativo, alla città di Venezia); che si proceda ad una individuazione indiretta del valore culturale tramite limiti individuali, qualitativi (l’art. 142 ha recepito il d.l. 27 giugno 1985, n. 312 che testualmente recita “…sono sottoposte alle disposizioni del codice per il loro interesse paesaggistici:…i territori costieri…i vulcani, le zone di interesse archeologico individuate alla data di entrata in vigore del codice”; oppure che il riconoscimento dell’interesse culturale avvenga per il tramite di un provvedimento amministrativo ad hoc. La normativa italiana, sintetizzata nel nuovo codice, utilizza tutti e tre i sistemi, anche se un maggior rilievo è conferito al riconoscimento dell’interesse culturale mediante l’adozione di un atto amministrativo (così Lumetti in Rass. avv. Stato, n. I, Roma 2006, pag. 334 ss.). Al riguardo, occorre tener pre- 125 sente che il concetto di patrimonio culturale evoca un insieme di beni appartenenti non solo allo Stato ma anche al privato, il quale, partecipando alla valorizzazione del patrimonio culturale, può ricavare anche benefici fiscali ed economici. Tali benefici possono concretizzarsi sia in contributi statali per le spese sostenute per gli interventi di conservazione, sia in sgravi fiscali. È fuor di dubbio, infatti, che nel Belpaese il turismo culturale ricopra un rilievo essenziale anche per l’economia, di conseguenza si tracciano i contorni di una nuova nozione di bene culturale inteso come risorsa e ricchezza. In applicazione di tali principi recentemente il T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, n. 3091 del 05.06.2009 ha affermato che “i comproprietari di un immobile sottoposto a vincolo storico culturale possono essere controinteressati rispetto al relativo provvedimento impositivo, così da dover essere evocati nel giudizio con il quale un altro comproprietario abbia proceduto all’impugnazione di quest’ ultimo” (cfr. in tal senso T.A.R. Abr u z zo Pe s c a ra n. 576 del 26.06.2002; T.A.R. Campania Nap o l i , s e z . VII , o r d . C o l l . n. 874/2008). Al riguardo, la richiamata giurisprudenza ha evidenziato che occorre tener presente che se l’immobile oggetto di vincolo appartiene a più proprietari, è possibile che mentre per alcuni il provvedimento risulti un ostacolo alla libera fruizione della proprietà privata, per altri costituisca un utile mezzo per tutelare e preservare il bene nel tempo – in conformità appunto alla precipua funzione del provvedimento di cui si è detto – oltre che per potersi avvalere dei ricordati benefici fiscali ed economici. Ne consegue che, non potendo stabilire a priori quale posizione sia da attribuire ai vari proprietari di porzioni dell’immobile oggetto di vincolo, sarà onere degli interessati che vogliano instaurare un contraddittorio corretto, notificare nel ter- questioni Gazzetta 126 mine di decadenza di 60 giorni, in applicazione dell’art. 21 delle Legge 1034/197, il ricorso tanto all’organo che ha emanato il provvedimento, quanto ai controinteressati o ad almeno uno di essi, salvo l’obbligo di integrazione con ulteriori notifiche che siano ordinate dal Tribunale Amministrativo Regionale. Analogo obbligo è previsto dalla normativa in subiecta materia anche per la notifica dei motivi aggiunti sempre a pena di inammissibilità. Si rammenta che il principio del contraddittorio, esaltato nel processo amministrativo, determina che se la domanda giudiziale non è stata notificata ai controinteressati ai quali l’atto direttamente si riferisce, la sentenza eventualmente emessa è inefficace nei confronti degli stessi, risulta inutiliter data. La completezza del contraddittorio risponde, infatti, all’esigenza che la decisione venga pronunciata nei confronti di tutti i soggetti interessati al rapporto dedotto in giudizio e a cui possano derivare effetti, diretti o indiretti, dal provvedimento conclusivo. Al riguardo, occorre considerare che la giurisprudenza, al fine di non aggravare il compito del ricorrente di individuare i controinteressati, riconosce detta qualità quando ricorrono due elementi: uno detto “formale” scaturente dalla esplicita indicazione – nominativa o di facile individuazione – del soggetto all’interno del provvedimento; l’altro detto “sostanziale” discendente dal riconoscimento in capo al controinteressato di un interesse di natura eguale o contraria alla conservazione del provvedimento impugnato (in tal senso Consiglio di Stato, sez. V, 18.11.2004 n 7544; T.A.R. Lazio, sez. I, 09.08.2005, n. 6157). Il T.A.R. Campania Napoli, sez. VII, n. 3091 del 05.06.2009, ha rilevato che nel caso di immobile sottoposto a vincolo storico-culturale l’individuazione dei controinteressati (o di almeno uno di essi) è permessa dall’indicazione dell’elenco nominativo dei proprietari inte- Gazzetta q u e s t i o n i ressati nella comunicazione di avvio del procedimento, nonché dalle indicazioni contenute nella relazione storico-artistica del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e dalla planimetria catastale allegata al decreto di vincolo; di conseguenza l’omissione della notifica deve essere sanzionato con la sanzione di inammissibilità del ricorso. Sul punto, il Tribunale Amministrativo Regionale ha altresì osservato che la costituzione spontanea di uno dei proprietari dell’immobile si cui grava il provvedimento impositivo non ha effet to sanante dell’omessa notifica, poiché gli effetti della inammissibilità del ricorso si sono prodotti già allo scadere del termine di 60 giorni previsto dalla Legge per l’impugnazione del provvedimento amministrativo (cfr. in tal senso Consiglio di Stato, sez. V, n. 5863 del 7 settembre 2004; Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2991 del 30 maggio 2003; T.A.R. Lazio, Roma, n. 1057 del 03.02.2009; T.A.R. Campania, Napoli n. 10698 del 10.08.2005; T.A.R. Basilicata, n. 1008 del 06.12.2002; T.A.R. Lazio, Roma n. 5576 del 18.06.2002; T.A.R. Lazio, Roma n. 488 del 12.05.1990). F O R E N S E ● DIRITTO TRIBUTARIO Procedimento monitorio civilistico per l’adempimento di obblighi di fare tributari Se il lavoratore autonomo, commissionato d’opera, può ricorrere al procedimento monitorio ex artt. 633 ss. c.p.c., al fine di ottenere le certificazioni del versamento delle ritenute di acconto da parte del sostituto d’imposta. ● Massimo Tupone Avvocato Se discernere tra la materia del contendere rientrante nella competenza del Giudice Ordinario ovvero in quella esclusiva del Giudice Tributario è questione autorevolmente risolta dal legislatore, mediante l’apposita elencazione degli atti “amministrativi” da impugnare secondo le regole del contenzioso tributario, come disciplinato dal D. Lgs. n. 546 del 1992 ed in particolare dall’art. 19 del medesimo decreto, meno netta è invece la linea di confine qualora la valutazione circa il rito da seguire investa il rimedio di coartazione del contribuente dolosamente, o anche solo colposamente, inerte rispetto agli obblighi che la legge tributaria gli impone. Quanto sovraesposto viene affrontato nella presente problematica, che vede coinvolti due lavoratori autonomi, l’uno appaltatore-committente l’altro commissionario di opere, in una vicenda processuale avente ad oggetto il rilascio delle certificazioni dell’avvenuto versamento della ritenuta d’acconto da operarsi, per obbligo tributario solidale, da parte del cd. sostituto di imposta in occasione del pagamento dei corrispettivi per l’opera intellettuale prestata dal suo commissionario. F O R E N S E La problematica ha la sua genesi nella circostanza del fatto storico, considerato dal legislatore, della presenza di pagamenti per corrispettivi operati dal lavoratore autonomo titolare di partita iva in favore di altro “soggetto iva”, di per sé fonte dell’obbligo tributario al versamento della ritenuta d’acconto IRPEF ai sensi dell’art. 25, comma 1, D.P.R. 600/1973 e ss. mod. Fatto, questo, che espone colui che effettua il pagamento dei corrispettivi, quanto chi riceve, alla responsabilità solidale nei confronti dell’Erario, ben potendo quest’ultimo agire conseguentemente per l’omesso versamento sia nei confronti dell’uno, che dell’altro, in virtù dell’espresso richiamo alla “rivalsa”, come operato dal succitato articolo di legge. Rinviando ad altra sede la problematica inerente alla possibilità o meno per il sostituito di imposta di procedere a scomputare ritenute d’acconto non versate da parte del committente sostituto ed alla relativa casistica affrontata dalla giurisprudenza della Suprema Corte, è da osservare ora che l’ombra dell’eventuale azione di accertamento tributaria è maggiormente incombente qualora si verifichi che, in sede di dichiarazione dei redditi del professionista ricevente il pagamento, quest’ultimo proceda comunque allo scomputo delle ritenute d’acconto che avrebbe dovuto versare il sostituto d’imposta in conseguenza del pagamento dei corrispettivi per l’opera prestata, poi di fatto non versate nei termini previsti. In tal senso, il problema della tutela contributiva del sostituito, necessaria ad arginare la propria responsabilità tributaria in un eventuale successivo accertamento fiscale inerente all’omesso versamento della ritenuta d’acconto da parte del committente-sostituto d’imposta, va affrontato non solo tenendo conto della necessità di evitare l’errato scomputo delle ritenute d’acconto delle quali non conservi documentazione idonea a comprovarne l’avvenuto versamento, ma soprattutto n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 provvedendo ad osservare il preliminare obbligo tributario di richiedere e conservare nella propria contabilità la certificazione attestante l’avvenuto versamento delle ritenute d’acconto che avrebbe dovuto operare per suo conto il sostituto d’imposta, soprattutto a seguito della decurtazione indicata in fattura dell’importo da versarsi a titolo di ritenuta IRPEF. Attività quest’ultima, che va realizzata, nell’eventuale ipotesi contenziosa, anche facendo ricorso agli strumenti giudiziari più opportuni per evitare ogni coinvolgimento del sostituito nelle omissioni tributarie realizzate dal proprio committentesostituto, successivamente accertate e dunque sanzionate. Il problema, che qui si affronta, investe l’analisi degli strumenti giudiziari da impiegare per attenuare il più possibile eventuali esposizioni del contribuente nei confronti degli accertamenti tributari, avendo particolare attenzione al rito processuale da seguire in relazione agli interessi coinvolti. Situazioni soggettive, queste ultime, che saranno non solo quelle evidentemente tributarie, relative alla regolarità della propria posizione contributiva, ma soprattutto di carattere patrimoniale, permettendo, perciò, di radicare la competenza processuale della azione da instaurarsi presso il giudice civile e non tributario. In tal senso, appare ammissibile la possibilità d’impiegare il procedimento monitorio civilistico nelle ipotesi di semplice inerzia ovvero espressa riluttanza, da parte del committente-sostituto d’imposta, alla consegna delle certificazioni dovute ed appositamente richieste per comprovare l’avvenuto versamento delle ritenute d’acconto decurtate dalla sorta capitale della fattura emessa in occasione del pagamento del corrispettivo per l’opera prestata. In linea con quanto ora affermato, va collocata la vicenda, sopra anticipata, conclusasi con la emissione del Decreto Ingiuntivo n. 3710 del 30.07.09.09, con cui il Giudice di Pace di Napoli, in accoglimento del 127 ricorso proposto per il rilascio delle certificazioni de quo, evidentemente da considerarsi “cose mobili determinate” ai sensi e per gli effetti di cui agli art. 633 e ss. c.p.c., ha ingiunto al committente-sostituto d’imposta di “rilasciare le certificazioni delle ritenute di quanto operato, come richiesto dal ricorrente”. L’istanza monitoria sarà da considerarsi meritevole di tutela, dunque di accoglimento, sulla scorta della valutazione inerente alla certezza del diritto del ricorrente, attesa la previsione del corrispondente obbligo tributario gravante sul sostituto d’imposta, di cui all’art. 7 bis, comma 1, D.P.R. 600/1973, come mod., appositamente rubricato “certificazioni dei sostituti d’imposta”, in base al quale coloro “che corrispondono somme e valori soggetti a ritenute alla fonte, devono rilasciare una apposita certificazione unica anche ai fini dei contributi dovuti all’Istituto nazionale per la previdenza sociale attestante l’ammontare complessivo delle dette somme e valori, l’ammontare delle ritenute operate, delle detrazioni di imposta effettuate e dei contributi previdenziali e assistenziali, nonché gli altri dati stabiliti con il decreto di cui all’articolo 8, comma 1, secondo periodo. La certificazione è unica anche ai fini dei contributi dovuti agli altri enti e casse previdenziali”. Ed il diritto dell’istante sarà da considerarsi, oltre che certo e determinato, altresì esigibile, ai fini del ricorso ex artt. 633 e ss. c.p.c., dal momento che, a rigore della norma di cui all’art. 7 bis, comma 2, D.P.R. 6 0 0 / 19 73 , c om e m o d i f i c ato dall’art. 37, comma 10, D.L . 223/2006, “i certificati, sottoscritti anche mediante sistemi di elaborazione automatica, sono consegnati agli interessati entro il 28 febbraio dell’anno successivo a quello in cui i redditi sono stati corrisposti ovvero entro 12 giorni dalla richiesta degli stessi in caso di interruzione del rapporto di lavoro”. E la provvisoria esecutività potrà essere basata sulla evidente circostanza che il ricorrente, nella ipotesi del rifiuto, espresso o questioni Gazzetta 128 tacito, da parte del sostituto d’imposta al rilascio delle richieste certificazioni, potrà dedurne il periculum in mora, inerente al rischio di una propria esposizione alla responsabilità da accertamento dell’omesso versamento degli importi tributari da parte del proprio sostituto tributario, con ogni conseguenza patrimoniale del caso. q u e s t i o n i Gazzetta F O R E N S E RECENSIONI Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà. Il vento non sa leggere 131 di F. Lucarelli e L. Paura, Napoli, 2008 A cura di Giovanni Perlingieri Professore ordinario presso la Seconda Università di Napoli Giustizia della funzione normativa e sindacato diffuso di legittimità 143 di Raffaele Manfrellotti, Jovine Editore, 2008 A cura di Chiara Cucinella Dottoressa in giurisprudenza L’avvio del procedimento 144 A cura di Valeria D’Antò Avvocato recensioni di Vincenzo Galatro e Aldo Sgro, Giuffrè, 2009 F O R E N S E ● Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà. Il vento non sa leggere di F. Lucarelli e L. Paura, Napoli, 2008 ● A cura di Giovanni Perlingieri Professore ordinario presso la Seconda Università di Napoli Sommario: 1. La difesa delle ideologie e l’interpretazione sistematica ed assiologica – 2. (Segue). La qualità degli interpreti quale forma di garanzia del progresso materiale e spirituale della società – 3. (Segue). Il giurista che come il vento non sa leggere – 4. (Segue). L’interpretazione assiologica quale interpretazione sistematica. Il danno alla persona – 5. (Segue). La sovrabbondanza delle regole e l’applicazione diretta dei principi – 6. Conclusioni. 1. La difesa delle ideologie e l’interpretazione sistematica ed assiologica Mi sono chiesto perché un così Illustre giurista, come il Prof. Francesco Lucarelli, abbia chiesto a me di presentare la sua ultima fatica1. E 1 * Lo scritto, con l’aggiunta delle note bibliografiche, riproduce la relazione svolta il 20 marzo 2009 alla Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” in occasione della presentazione del libro di F. Lucarelli e L. Paura, Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà. Il vento non sa leggere, Napoli, 2008. Con il sottotitolo il vento non sa leggere gli Autori si riferiscono all’incapacità dei giuristi di cogliere il senso del dettato costituzionale e di utilizzarlo per risolvere i casi concreti. A tale scopo richiamano i versi di una antica poesia giapponese: «Sul cartello è scritto: non cogliere questi fiori! Ma per il vento è inutile, perché il vento non sa leggere» (cfr. pp. 5 e 11). F. Lucarelli e L. Paura, Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà, cit., pp. 11-244. n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 devo dire che all’inizio la risposta mi sembrava scontata e da ricondurre ad una questione di affetto. Poi leggendo il volume mi è venuto in mente il giorno in cui il Professore si trovava, con la Dott. ssa Paura, in casa editrice per correggere le bozze. In quell’occasione gli feci omaggio di un mio editoriale pubblicato in Rassegna di diritto civile sulla Povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie 2 , stimolato dalle raffinate pagine dell’ultimo libro di Natalino Irti3. Questo mio lavoro tentava di mettere a nudo l’incompatibilità nel pensiero di un Maestro (come Natalino Irti) tra il nichilismo delle opere precedenti4 e la difesa dell’ideologia 5, posto che quest’ultima, a mio parere, presuppone l’abbandono dell’idea nichilistica dell’assenza di punti di riferimento o di direttive superiori ora politiche, ora giuridiche e quindi ermeneutiche. Il mio scritto muoveva da una idea forte6 che con piacere ho ritrovato nel volume che oggi si presenta. Una idea che riguarda, nella diversità dei ruoli, sia il politico sia il giurista e che risulta essenziale al fine di per- 2 G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie: l’insegnamento di Natalino Irti, in Rass. dir. civ., 2008, p. 601 ss.. 3 N. Irti, La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica, Roma-Bari, 2008. 4 N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari, 2004; Id., Il salvagente della forma, RomaBari, 2007. 5 N. Irti, La tenaglia. In difesa dell’ideologia politica, cit., p. 1 ss.. 6 Che trova fondamento nella metodologia espressa dalla c.d. “dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale” espressa da Pietro Perlingieri, sin dalla fine degli anni ’60, non senza difficoltà e critiche oggi dimostrate poco lungimiranti vista la sempre più ampia utilizzazione di questo metodo in dottrina e in giurisprudenza; per un approfondimento di tale prospettiva v. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italocomunitario delle fonti (1984), 3ª ed., Napoli, 2006, passim; Id., La dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale, in Rass. dir. civ., 2007, p. 497 ss., ivi ulteriori riferimenti bibliografici; cfr. anche P. Femia, voce Perlingieri Pietro, in Enciclopedia della persona nel XX secolo a cura di A. Pavan, Napoli, 2009, p. 819 ss. 131 seguire il progresso materiale e spirituale della società (art. 4 Cost.). L’idea secondo la quale il mero pragmatismo porta lontano dalle esigenze della vita reale poiché: a) conduce il politico ad agire senza un fine o un obiettivo abbrac­ciante, ad una ossessiva volontà di riforma, o di riforma della riforma, senza una implicita o esplicita filosofia della vita che caratterizzi l’eventuale riforma7; b) conduce il giurista alla mera esegesi, al nichilismo, al dogmatismo privo di orizzonte culturale e incapace di individuare e attuare lo spirito dell’ordinamento, nonché i suoi valori8. Al contrario l’uno e l’altro, come cittadini, e pur nella diversità dei ruoli e delle funzioni, devono essere «fedeli» alla Repubblica ed alla legalità costituzionale (artt. 54, comma 1 e 117, comma 1, Cost.), nonché garantire il progresso materiale e spirituale della società (art. 4, comma 2, Cost.) e restituire dignità di pensiero alla loro attività9. Per il giurista, in particolare, il «salvagente» – al fine di evitare quelle che Lucarelli chiama «ingiustizie sociali e precarietà delle soluzioni»10 (precarietà proprie della tecno-crazia e tecno-economia e di una “alluvione legislativa” che sempre più favorisce l’introduzione di leggi senza tradizione) – non è nel pragmatismo fine a se stesso e privo di orizzonte culturale (ovvero nel nichilismo)11, ma in una attività ermeneutica sempre sensibile: a) alla funzione della singola regola (funzione che, tra l’altro, può variare ed evolversi alla luce della evoluzione dell’ordinamento12); 7 G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie, cit., p. 602 ss.. 8 G. Perlingieri, o.l.u.c. 9 G. Perlingieri, o.u.c., p. 605. 10 F. Lucarelli, o.c., p. 35. 11 N. Irti, Nichilismo giuridico, cit., p. 1 ss.; Id., Il salvagente della forma, cit., p. 1 ss.. 12 Si pensi all’art. 1175 c.c., introdotto per assecondare l’ideologia fascista, è oggi recensioni Gazzetta 132 b) al bilanciamento tra interessi e valori superiori [secondo un controllo “diffuso” della legalità costituzionale, posto che il principio di legalità (art. 101, comma 2, Cost.) non si risolve nella legge, ma nella legalità costituzionale (art. 54 Cost.), perché il sistema è unitario (art. 117 Cost.)]. Dunque una attenzione dell’interprete al testo interpretato e al contesto di riferimento. Quest’ultimo è costituito dai testi delle altre disposizioni anche gerarchicamente superiori presenti nel sistema e dagli elementi non testuali, come quelli sociali e fattuali. Sí che il «salvagente» per la società civile è sia nella forma (legalità) sia nella sostanza (legittimità), ovvero nella difesa e nell’attuazione dell’ideologia (non personale), ma del sistema italo-comunitario. Questo pone al vertice della gerarchia dei valori normativi la tutela della persona umana e della sua dignità. In questa prospettiva la certezza del diritto è garantita dall’interpretazione sistematica ed assiologica, come da tempo afferma la dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale13. strumento idoneo a valorizzare nei rapporti obbligatori il principio di solidarietà costituzionale (art. 2 Cost.). Così anche l’art. 833 c.c., risultando, nel contesto presente, espressione diretta del principio di solidarietà, si è trasformato da norma eccezionale applicabile al solo diritto di proprietà a norma generale idonea, ad esempio, ad operare analogicamente nei rapporti di credito. 13 Sul punto, oltre ai lavori citati retro alla nota 6, v. anche P. Perlingieri, Valori normativi e loro gerarchia. Una precisazione dovuta a Natalino Irti, in Rass. dir. civ., 1999, p. 787 ss., ora in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori. Problemi del diritto civile, Napoli, 2006, p. 327 ss., ivi ulteriori approfondimenti in saggi e commenti; ma anche Id., Norme costituzionali e rapporti di diritto civile (1980), ora in Id., Scuole, tendenze e metodi. Problemi del diritto civile, Napoli, 1989, p. 109 ss.; cfr. inoltre Id., L’interpretazione come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, ivi, p. 273. Tale metodologia è accolta oggi anche dalla stessa Corte costituziona- r e c e n s i o n i Tale certezza va ricercata: non già nella ripetitività o nella perpetuità della soluzione (espressione del dogmatismo), ma nell’adeguatezza e congruenza della decisione alle esigenze del caso concreto14; non già in un metodo15 logico e della sussunzione, ma nella capacità di argomentare la decisione e motivarla ideologicamente alla luce dei valori normativi e della loro gerarchia (secondo il criterio di ragionevolezza). Non ho l’intenzione di descrivere, capitolo per capitolo, i contenuti del testo anche perché qualsiasi Autore auspica di essere letto non raccontato. Il libro scuote costantemente la sensibilità dell’interprete. Sí che porrò l’attenzione sul ruolo del giudice (leit motiv del volume) e sui problemi del giurista contemporaneo; nonché su alcuni argomenti trattati nel volume come, ad esempio, i temi dell’indennità da esproprio e delle c.dd. class actions. le: sul punto v. Id., Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice, in Interpretazione a fini applicativi e legittimità costituzionale a cura di P. Femia, 7, Collana Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana, Napoli, 2006, p. 20 ss. (ora anche in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori, cit., p. 371 ss.); e dai giudici della Corte. Cfr., per tutti, P. Maddalena, Interpretazione sistematica ed assiologica del diritto, in Giust. civ., 2009, II, p. 65 ss. Invita ad una interpretazione non soltanto logica, ma anche teleologica in modo da assicurare sempre una valutazione comparativa degli interessi anche E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), Milano, 1949, p. 181 ss. 14 G. Perlingieri, Venticinque anni della Rassegna di diritto civile e la «polemica sui concetti giuridici». Crisi e ridefinizione delle categorie, in Aa. Vv., Venticinque anni della Rassegna di diritto civile. Temi e problemi della civilistica contemporanea, Napoli, 2006, p. 552 ss. 15 Metodo giuridico è «il procedimento impiegato dal giurista per trarre dalle fonti le norme giuridiche». Tuttavia se è vero che «non esiste “il” metodo ma “i” metodi, è pur vero che non tutti i metodi sono adeguati e congrui alla realizzazione dei valori di un determinato ordinamento giuridico», P. Perlingieri, Lo studio del diritto e la storia, in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori, cit., p. 542. Gazzetta F O R E N S E Gli Autori muovono da alcune idee di fondo: a) che il diritto non si risolve nella legge. Il diritto è cultura; il diritto è sistema: la soluzione non è conseguenza della legge, ma è conseguenza dell’ordinamento del caso concreto16; b) che il sistema è unitario e la distinzione tra materie (diritto pubblico, privato, commerciale) ha soltanto una funzione didattica ed accademica17, posto che, per un verso, ogni distinzione può diventare controproducente, per altro verso, si riscontrano difficoltà ad individuare i confini tra tali “settori” del diritto. Come da tempo evidenziato dalla dottrina più sensibile18, a rilevare 16 Se «è vero che dov’è una società v’è necessariamente la regola del diritto, è anche vero che il tipo di società, lo stile di vita in essa dominante, le radici religiose, culturali, la stessa educazione del cittadino, le sue tradizioni, il livello di civiltà finiscono con il condizionare il significato, il contenuto, l’attuazione delle norme giuridiche», P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, cit., p. 162, ove si specifica anche il significato da attribuire alla locuzione «ordinamento del caso concreto». Sul rapporto tra diritto e cultura v. anche R. Treves, Diritto e cultura, Torino, 1949, p. 26 s. Prime ricostruzioni si hanno anche in Id., Il diritto come relazione. Saggio critico sul neo-kantismo contemporaneo, Torino, 1934, ora in Id., Il diritto come relazione. Saggi di filosofia della cultura, a cura di A. Carrino, Napoli, 1993, p. 69 ss. «Se all’operatore del diritto non è concesso di partecipare direttamente alla decisione politica, a lui certamente spetta l’attività di interpretazione e applicazione dei testi giuridici secondo l’ideologia di un dato ordinamento (artt. 54, comma 1, e 101, comma 2, Cost.). Il che equivale anche a dire che il diritto è cultura e nel diritto, non soltanto nella singola e spesso sterile disposizione, va ricercata la filosofia della vita che lo caratterizza. Perché ogni cultura, e dunque ogni ordinamento, deve avere una direzione, un fine ideale ed “abbracciante”, una causa; altrimenti una soluzione, politica o giuridica, diventa povera di orizzonte e si trasforma in azione o decisione smarrita nella quotidianità e priva di dignità e ragionevolezza»: G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie, cit., p. 601. 17 F. Lucarelli, o.c., pp. 48 ss. e 53. 18 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legali- n o v e m b r e • d i c e m b r e F O R E N S E non è se l’interesse è generale o individuale (distinzione spesso fuorviante) ma se l’interesse è più o meno attuativo di valori fondamentali (come la salute, la famiglia, l’impresa, il lavoro, la dignità umana, il risparmio). Ciò che rileva, anche nel bilanciamento degli interessi19, non è la natura quantitativa dell’interesse tutelato (privato o pubblico), ma il profilo qualitativo dello stesso. «Un interesse della collettività o generale o pubblico non prevale su quello individuale semplicemente perché più ampio: più ampio significa non più importante per il diritto ma soltanto più generale, più astratto, e per il diritto la generalità dell’interesse non va confusa con la gerarchia dei valori»20. L’interesse di molti (interesse pubblico) non sempre, nella gerarchia dei valori, deve prevalere rispetto all’interesse di pochi o del singolo (interesse privato). Queste osservazioni sono rilevanti perché fanno cadere molti tabù nei campi più disparati del diritto civile (si pensi, per fare qualche esempio relativo a temi a me cari, al problema dell’invalidità dei negozi giuridici, all’impossibilità di sussumere ogni atto nullo in una identica e monolitica categoria21, alla responsabilità professionale dei notai 22 , 19 20 21 22 tà costituzionale, cit., p. 134 ss.; Id., Nuovi profili del contratto, in Rass. dir. civ., 2000, p. 545 ss., ora in Id., Il diritto dei contratti tra persona e mercato. Problemi del diritto civile, Napoli, 2003, p. 417 ss. In questa prospettiva v. anche G. Perlingieri, Negozio illecito e negozio illegale. Una incerta distinzione sul piano degli effetti, Napoli, 2003, p. 8 ss. F. Lucarelli, o.c., p. 51. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 137; Id. e P. Femia, Nozioni introduttive e princípi fondamentali del diritto civile, 2ª ed., Napoli, 2004, p. 70 ss.. G. Perlingieri, Negozio illecito e negozio illegale, cit., p. 5 ss.; sulla relatività e la storicità dei concetti e delle categorie v. Id., Venticinque anni della Rassegna di diritto civile e la «polemica sui concetti giuridici». Crisi e ridefinizione delle categorie, cit., p. 552 ss. G. Perlingieri, Funzione notarile e clausole vessatorie. A margine dell’art. 28, l. 2 0 0 9 alle problematiche riguardanti l’acquisto e la rinunzia dell’eredità 23, al patto di famiglia24). Il libro si chiude con la manifestazione di un disagio al quale gli Autori cercano di dare risposta e soluzione. In una pagina si legge «in verità il diritto, di fronte agli occhi attoniti del giurista viene perdendosi» in un insieme sempre «più fitto ed inestricabile di fonti, di leggi, soluzioni, a volte contraddittorie, ed altre meramente virtuali che si aprono l’un l’altra e l’una accanto all’altra in una successione vertiginosa […]; mentre il testo legislativo ripropone nuovi enigmi, mette in ombra le proprie fonti, abolisce le proprie radici»25. Tale presa di coscienza invita il giurista non già a deresponsabilizzarsi o a sentirsi solo, ma anzi a cercare una metodologia che gli consenta di continuare a governare i fenomeni giuridici, anche prescindendo da concetti e categorie spesso in crisi o inadeguate. La metodologia imposta dal nostro sistema giuridico è quella sistematica ed assiologica: «la Costituzione non è un involucro ormai privo di valida sostanza, né l’espressione di un mondo senza futuro»26. In uno Stato sociale di diritto, infatti, può mutare la disposizione con grande velocità, ma l’ideologia del sistema, la tavola dei suoi valori, più che mutare, si evolve, si integra, si arricchisce, si adegua in un gra- 23 24 25 26 16 febbraio 1913, n. 89, in Rass. dir. civ., 2006, p. 840 ss. G. Perlingieri, L’acquisto dell’eredità, in R. Calvo e G. Perlingieri (a cura di), Diritto delle successioni, I, Napoli, 2008, pp. 169 ss. e 327 ss.; Id., L’«acquisto» puro e semplice delle eredità devolute agli enti. Un rilettura degli artt. 473, 485, 487, 488, 493, 527 c.c., in Rass. dir. civ., 2009, p. 102 ss.; Id., L’accettazione dell’eredità dei c.dd. chiamati non delati, in Fam. pers. e succ., 2009, 6, in corso di pubblicazione. G. Perlingieri, Il patto di famiglia tra bilanciamento dei princípi e valutazione comparativa degli interessi, in Rass. dir. civ., 2008, p. 146 ss.. F. Lucarelli, o.c., p. 238. F. Lucarelli, o.c., p. 244. 133 duale processo storico di continuità e discontinuità. L’arbitrarietà si trasforma in discrezionalità controllabile dai valori normativi superiori27. La prospettiva, proposta, impone tuttavia una grande presa di coscienza e responsabilità del giurista, nonché la necessità di comprendere il significato della locuzione: interpretazione sistematica ed assiologica28. 2. (Segue). La qualità degli interpreti quale forma di garanzia del progresso materiale e spirituale della società L’interpretazione sistematica ed assiologica presuppone: a) di attribuire centralità nel sistema non già al codice, ma alla legalità costituzionale, che non è chiusa, ma aperta alle istanze comunitarie e internazionali (artt. 10, 11, 117 cost.): legalità costituzionale, quindi, che non si risolve nel dettato costituzionale; b) di attribuire alle norme costituzionali un significato non soltanto programmatico e promozionale, o meramente ermeneutico, ma precettivo e vincolante quali regole di comportamento e di validità. Queste opererebbero sia tramite l’intermediazione delle regole ordinarie (le quali pertanto dovrebbero essere interpretate ed applicate sempre in modo conforme ai valori normativi superiori secondo la tecnica del combinato disposto), sia direttamente nei rapporti intersoggettivi, in mancanza di una regola specifica; 27 G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie, cit., p. 603. 28 Sul punto cfr. P. Perlingieri, L’interpretazione della legge, come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, cit., p. 297, ove si afferma che l’unità «logica sulla quale fondare la interpretazione sistematica […] è il frutto […] dell’incontro […] fra la teoria dell’interpretazione e l’ordinamento nella sua unitarietà»; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., pp. 159 ss. e 535 ss.; Id., La dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale, in Rass. dir. civ., 2007, p. 497 ss., ivi ulteriori riferimenti bibliografici. recensioni Gazzetta 134 c) di rileggere il significato delle regole ordinarie e la loro natura regolare/eccezionale alla luce del sistema e dei suoi valori 29. Pertanto la norma costituzionale non è una norma politica. Destinatario di essa è tanto il politico quanto il giurista. Ciò in modo da garantire che ogni decisione (politica o giuridica) sia presa secondo il criterio di ragionevolezza. Tuttavia, quello che più preoccupa, e che del resto è alla base della locuzione del sottotitolo del volume in esame (il vento non sa leggere), non è tanto la qualità della legge, ma la qualità degli interpreti 30, i quali spesso rifuggono da interpretazioni adeguatrici o costituzionalmente orientate, ora per inavvertenza, perché considerano le norme costituzionali meramente programmatiche, ora perché convinti di un loro superamento da parte delle norme comunitarie, le quali, al contrario, sempre più sembrano attuare ed integrare i principi costituzionali, attribuendogli, al contempo, nuova linfa. Si pensi all’art. 41 Cost., ed alla c.d. Costituzione economica, che, se riletti anche alla luce delle normativa comunitaria, acquistano nuova linfa e nuova portata31. Il mercato, e l’attuale crisi finanziaria ne ha dato chiara dimostrazione, è statuto nor- 29 Per una applicazione v. P. Perlingieri, Forma dei negozi e formalismo degli interpreti (1987), rist., Napoli, 1999, p. 1 ss.. 30 Tale pericolo è manifestato a più riprese da F. Lucarelli, o.c., pp. 11 ss. e 17 ss.. 31 Sul ruolo dell’art. 41 cost. nel sistema giuridico vigente, cfr. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 471 ss.; V. Buonocore, Iniziativa economica privata e impresa, in Iniziativa economica e impresa nella giurisprudenza costituzionale, a cura di V. Buonocore, 16, Collana Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana, Napoli, 2006, p. 3 ss.; si pensi, in particolare, alla tematica della tutela della concorrenza che è posta in attuazione dell’art. 41 cost., nonché a garanzia del diritto di iniziativa economica; sul tema v., di recente, L. Di Nella, Il diritto della distribuzione commerciale, a cura di L. Di Nella, L. Mezzasoma e V. Rizzo, Napoli, 2008, p. 40 ss. r e c e n s i o n i Gazzetta F O R E N S E mativo, ha bisogno di regole che lo controllino e garantiscano la lealtà e la correttezza dei comportamenti. Da qui l’unitarietà del sistema e la sua flessibilità ermeneutica, caratterizzata proprio dalla qualità delle norme costituzionali le quali non sono chiuse, rigide ed immutabili, ma aperte e flessibili in funzione applicativa. Non si può che concordare con quella dottrina che osserva: meglio una legge mal fatta interpretata da un bravo giurista (che, “a differenza del vento”, sa leggere il sistema e conseguentemente sa attribuire alla legge il senso più ragionevole), che una legge ben fatta interpretata “come il vento”, ovvero dal giurista che non sa leggere32. Ciò che più rileva, quindi, è la qualità degli interpreti e la formazione del giurista. Giova proporre qualche breve esempio per confermare tali osservazioni. Una ipotesi di legge non rigorosa è il patto di famiglia (art. 768-bis e ss. c.c.) introdotto da un legislatore che, ad esempio, sembra utilizzare indifferentemente i termini parte del contratto e partecipazione all’operazione. Tuttavia se l’interprete in funzione applicativa considera alcuni principi di teoria generale del negozio (si pensi al principio di relatività degli effetti e di intangibilità delle sfere giuridiche individuali ex art. 1372 c.c.; al principio di variabilità della struttura; al principio di economia degli atti e delle dichiarazioni) e soprattutto tiene conto degli interessi (anche non patrimoniali) e dei valori che il patto di famiglia intende soddisfare è possibile porre rimedio a molte incertezze ed imprecisioni del dettato letterale33. È possibile quindi trasformare tale discussa fattispecie da monade dell’ordinamento a negozio coerente con il sistema stesso. Per fare ciò, tuttavia, occorre un interprete capace di rifuggire dal sillogismo e dalla sussunzione e da costruzioni astratte (tendenti, ad esempio, ad inquadrare il patto di famiglia ora nella mera donazione, sia pure modale, ora nella mera divisione) insuscettibili di indagare la funzione in concreto perseguita dal negozio34. Viceversa, una ipotesi di legge rigorosa, ma pur sempre non correttamente interpretata, è rappresentata dalle norme in materia di responsabilità civile del codice del 1942. Queste, esempio di rigore e chiarezza, per anni (più di cinquanta) sono state interpretate (e per alcuni versi continuano ad esserlo) senza alcuno sforzo di inquadramento nel sistema giuridico vigente, il quale ha subito una profondo cambiamento con l’entrata in vigore della Carta costituzionale del 1948. Così, in materia di c.d. “danno non patrimoniale” non si è tenuto conto della legalità costituzionale (artt. 54, 101, comma 2, 117, comma 1, Cost.) e della necessità di adeguare il dettato letterale degli artt. 2043 e 2059 c.c. alla gerarchia delle fonti e dei valori normativi, finendo, come vedremo, ora per svilire il danno alla persona, ora per parcellizzarlo in discutibili voci di danno, ora per attribuirgli unitarietà ma senza riconoscere il giusto peso all’art. 2043 c.c. e alla sua atipicità. 32 «La civiltà di un ordinamento sta non tanto nella perfezione formale delle sue leggi quanto nella sensibilità e nella cultura dei suoi interpreti secondo che abbiano o no la consapevolezza dei fondamenti storico-politici degli istituti giuridici ed il gusto di partecipare al dibattito sui grandi temi della civile convivenza non in forma astratta ma immersi nella realtà di ogni giorno», P. Perlingieri, Editoriale, in Rass. dir. civ., 1980, p. 1. Da qui l’obiettivo dell’accademia e la necessità di formare giuristi consapevoli del proprio ruolo. 33 G. Perlingieri, Il patto di famiglia tra bilanciamento dei princípi e valutazione comparativa degli interessi, cit., p. 199 ss.; G. Recinto, Il patto di famiglia, in R. Calvo e G. Perlingieri (a cura di), Diritto delle successioni, I, cit., p. 627 ss. V. anche P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 592; E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (Teoria generale e dogmatica), cit., p. 182 ss. 34 G. Perlingieri, o.u.c., p. 190 s. F O R E N S E Nel primo esempio (patto di famiglia) è possibile riscontrare un legislatore sciatto, ma, al contempo, un giurista dogmatico e nomenclatore il quale non tenta di porre rimedio con ragionevolezza alle innegabili incertezze legislative del dettato letterale. Infatti, per un verso, non va di là dall’esigenza di sussumere il patto di famiglia in una (donazione) o altra categoria (divisione) e, per altro verso, risulta incapace di analizzare la funzione in concreto perseguita da tale fattispecie e così liberarsi dalla sussunzione e dal sillogismo, al fine di analizzare gli interessi e i valori in concreto coinvolti. Nel secondo esempio (danno alla persona), invece, nonostante il chiaro dettato letterale, è possibile riscontrare un giurista che “è andato a vento” e che dimentica, da più di 50 anni, che il 2043 c.c. è norma centrale della responsabilità civile e che gli interessi non patrimoniali nella gerarchia dei valori sono al vertice del sistema giuridico vigente35 e devono essere risarciti qualora lesi in modo 35 P. Perlingieri, Il diritto alla salute quale diritto della personalità, in Rass. dir. civ., 1982, p. 1040 ss., ora in Id., La persona e i suoi diritti. Problemi del diritto civile, Napoli, 2005, p. 121 ss.; Id., L’art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince (nota a Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233), in Rass. dir. civ., 2003, p. 776 ss.; Id., L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona (nota a Cass., Sez. un., 11 novembre 2008, n. 26972), in Rass. dir. civ., 2009, p. 520 ss.; Id., La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Camerino-Napoli, 1972, p. 284. L’art. 2043 c.c. è da intendere non quale sintesi di doveri «specifici» ma piuttosto quale «clausola generale» che di volta in volta, secondo gli interessi protetti e lesi, si riempie di contenuti: S. Pugliatti, Alterum non laedere, in Id., Responabilità civile, II, Milano, 1968, p. 66 s.. In merito si ricordi Cass., Sez. Un., 22 luglio 1999, n. 500, in Nuova giur. civ. comm., 1999, II, p. 357 ss., sulle cui implicazioni, tra gli altri, cfr. G. Oppo, Novità e interrogativi in tema di tutela degli interessi legittimi, in Riv. dir. civ., 2000, I, p. 391 ss.; A. Falzea, Gli interessi legittimi e le situazioni giuridiche soggettive, ivi, p. 679 ss.; F.D. Busnelli, Dopo la sentenza n. 500. La responsabilità civile oltre il «muro» degli interessi legittimi, ivi, p. 335 ss.; Id., Le sezioni unite e il danno non patrimoniale, in Riv. dir. civ., 2009, II, p. 97 ss.. n o v e m b r e • d i c e m b r e 135 2 0 0 9 ingiusto. Infatti se il principio cardine del sistema «è la massima attuazione del valore della persona, è il primato del pieno sviluppo della persona», e della sua dignità, «non si può assolutamente pensare che qualche tecnica o concezione dogmatica preconcetta possa rappresentare un ostacolo per l’attuazione di tale valore. I concetti devono essere utili, adeguati per la realizzazione dei valori»36. Dunque il problema non è tanto nella rigorosità o non rigorosità del legislatore, ma nella qualità degli interpreti, posto che, di là dalla rigorosità del dettato letterale, l’irragionevolezza delle soluzioni spesso è per lo più imputabile alla classe dei giuristi incapaci di ragionare sul dettato normativo e di rifuggire dall’in claris non fit interpretatio o da ogni automatismo meramente logico-razionale. 3. (Segue). Il giurista che come il vento non sa leggere Il discorso cade sul giurista che non ha saputo e tutt’ora non sa leggere. Il Prof. Lucarelli sembra distinguerlo in più categorie, che proveremo ad individuare ed arricchire. V’è il giurista che come il vento: a) ha disatteso il suo ruolo pensandosi creatore del diritto, negli eccessi dell’uso alternativo del diritto (il giurista alternativo o il g i u r i s t a d a ll a s u pe rb i a luciferina)37; b) ha disatteso per 60 anni il dettato costituzionale e ne prospetta oggi il superamento. Sí che lo considera un inutile orpello di- 36 Così P. Perlingieri, Il diritto privato futuro, in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori, cit., p. 279 s., proprio con riferimento al tema dell’interpretazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. da parte della stessa Corte costituzionale. 37 F. Lucarelli, o.c., pp. 68 e 105; né rivalutare le esigenze del caso concreto significa dare luogo all’uso alternativo del diritto perché il giudice deve trovare il giusto compromesso tra fatto e norma (v. anche p. 119). menticando che esso è diritto positivo e che non è statico ma dinamico (il giurista snob o antipositivista)38; c) è affetto da una «malattia» secondo la quale il vero tecnico non può ricorrere ai principi perché il rigore scientifico non può tener conto dei valori, ma deve basarsi su dogmi e categorie più rassicuranti (il giurista nostalgico o dei concetti e delle categorie)39. In tal modo si dimentica che non esiste una legge che non necessita di interpretazione (l’ordinamento non è qualcosa di bello e fatto) – le stesse clausole generali (buona fede, abuso del diritto, ordine pubblico etc.) necessitano di un interprete non dogmatico ma attento e sensibile –, e che qualsiasi scelta, soluzione, decisione (dal latino tagliare) non è mai neutrale, ma è scelta di valore perché impone un bilanciamento di interessi e dunque di valori; d) è affetto da «un’altra malattia»: l’analisi economica del diritto. Questa rappresenta un mero punto di vista ma non l’ideologia del sistema giuridico vigente (il giurista economista-antiposi­tivista)40; e) pensa che la legalità costituzionale si esaurisca nel dettato costituzionale (il giurista chiuso), dimenticando che il sistema, come detto, è aperto. Gli artt. 10, 11 e 117, comma 1, cost. impongono di considerare quali elementi propri della legalità costituzionale e dell’unitario e complesso ordinamento, non soltanto le disposizioni di derivazione comunitarie, ma anche le disposizioni di derivazione locale, le prassi e le convenzioni internazionali. L’interpretazione in tal modo diventa evolutiva. La c.d. Costituzione economica, ad esempio, non può non essere ri- 38 F. Lucarelli, o.c., p. 17. 39 F. Lucarelli, o.c., p. 18. 40 F. Lucarelli, o.l.c. recensioni Gazzetta 136 letta tenendo conto anche degli impulsi e le istanze derivanti dalla normativa comunitaria; f) non conosce il caso concreto41. I pretori romani dicevano dammi il fatto ti darò il diritto. Una decisione giuridica può essere presa soltanto dopo aver individuato tutte le «peculiarità del caso concreto» e le circostanze nel quale è avvenuto. Non esiste un fatto sempre uguale a se stesso42, ma esiste un fatto che si è verificato in un determinato luogo, con determinate circostanze personali, economiche, ambientali (non da un soggetto qualsiasi o da una parte qualsiasi, ma da una persona: età, una professione, un determinato livello culturale etc.). In questo modo quaestio facti e quaestio iuris tornano ad essere le ragioni di ogni approccio ermeneutico, il quale trova nel momento applicativo la sua essenza43. Si pensi tutt’oggi a coloro che applicano con disinvoltura (irragionevole) le norme del consumatore a tutti i contraenti deboli dimenticando che il contraente debole non è una categoria monolitica, ma ha al suo interno esigenze e caratteristiche diverse (consumatore, professionista, imprenditore, risparmiatore); g) prescinde da ogni tecnicismo (il giurista atecnico). Questo è il più pericoloso perché è orientato soltanto su discorsi ideologici e politici. È vero che per decidere bisogna sempre individuare l’ideologia e la ratio della norma e del sistema di riferimento, ma vero è pure che chi non utilizza con rigore le tecniche non è giurista perché le tecniche risultano essenziali per garantire la rigo- 41 Sembra evidenziarlo anche F. Lucarelli, o.c., p. 118, quando osserva che «il significato dei testi normativi dipende dalle “esigenze del caso concreto”». 42 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 618 ss.. 43 P. Perlingieri, Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice, cit., p. 20 ss. r e c e n s i o n i rosità della soluzione. Sí che ideologia e tecnica sono due elementi indissolubili. 4. (Segue). L’interp<retazione assiologica quale interpr Non c’è dubbio, tuttavia, che la giurisprudenza, molto più della prevalente dottrina (ancora restia a riconoscere la legalità costituzionale), oggi è sempre più sensibile ad applicare direttamente i principi nei rapporti soggettivi o ad interpretare le disposizioni ordinarie in modo costituzionalmente orientato. Ciò anche grazie agli insegnamenti della Corte costituzionale, la quale auspica sempre più (attraverso le c.dd. ordinanze di inammissibilità)44 anche da parte del giudice comune un controllo diffuso di costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge, nonché una loro interpretazione adeguata alla legalità costituzionale e comunitaria. La normativa da applicare al caso concreto, infatti, si individua non già tramite mere operazioni logiche o sillogistiche, ma tramite «una difficile e laboriosa operazione di composizione»45 con una conseguente operazione di conformazione ai valori normativi superiori. Tuttavia la c.d. “interpretazione costituzionalmente orientata”, come la “rilettura” delle disposizioni ordinarie “alla luce della Costituzione”, sono formule ambigue che possono ingenerare equivoci. Se con esse si intende dar luogo ad un adeguamento del dettato letterale delle norme ordinarie alle norme superiori nel rispetto del principio di legalità unitariamente inteso e della gerarchia delle fonti nulla quaestio; viceversa non può essere accolta, perché contraria alla stessa gerarchia delle fonti, una metodologia che, pur rivalutando il ruolo delle norme costituzionali, di fatto le 44 P. Perlingieri, o.u.c., p. 35. 45 P. Perlingieri, Il futuro «ius civile» e il ruolo della dottrina, in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori, cit., p. 59 ss.. Gazzetta F O R E N S E continua a considerare – insieme al complesso sistema costituzionale – quali meri canoni ermeneutici; sí che oggetto dell’interpretazione sarebbe sempre e soltanto la disposizione ordinaria sottoposta al controllo di legittimità e allo sforzo di adeguamento e di conformazione al “sistema costituzionale”. Le «norme costituzionali non hanno soltanto valenza ermeneutica; esse sono principi e regole di comportamento, hanno valenza sostanziale e concorrono in via primaria a comporre la normativa del caso concreto»46. Dunque l’interpretazione c.d. adeguatrice o “costituzionalmente orientata” non deve essere svolta con riferimento ad una singola disposizione, perché l’interpretazione assiologica è sempre sistematica, né deve essere realizzata pensando che la soluzione finale possa prescindere dalla conformità o la coerenza con la scala dei valori e con l’ordine giuridico vigente. Pertanto il giurista che, come il vento, non sa leggere è anche chi: ora propone una interpretazione costituzionalmente orientata di singole disposizioni senza provare ad armonizzare le une con le altre e individuare le relazioni di senso (tra regole e) tra regole e principi; ora dimentica che la filosofia della vita che esprime un ordinamento deve sempre trovare corpo nella soluzione del caso concreto in modo da non realizzare soluzioni lesive del principio di legalità costituzionale (artt. 54, 101, comma 2, 117, comma 1, Cost.), nonché irragionevoli per il sistema perché, ad esempio, contrarie al principio di eguaglianza sostanziale47 (art. 3, comma 2, Cost.). È ciò che è accaduto con la recente sentenza della Cassazione a Sezio- 46 P. Perlingieri, L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona, cit., p. 520, nota 2. 47 P. Perlingieri, Legalità ed eguaglianza negli ordinamenti privati, in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori, cit., p. 152 ss.. F O R E N S E ni Unite sul danno alla persona48, che, interpretando in modo “costituzionalmente orientato” soltanto l’art. 2059 c.c. e non anche l’art. 2043 c.c., compie un errore metodologico. Infatti l’interpretazione assiologica deve essere sempre sistematica e non può essere realizzata facendo riferimento ad una singola disposizione, come se questa fosse una monade nel sistema. Tra l’altro, ci si dimentica che la norma centrale in materia di responsabilità civile è il 2043 c.c., mentre il 2059 c.c. è una mera norma di rinvio49. L’interpretazione non si risolve mai nella lettura di una singola disposizione o di un singolo articolo, ma parte da una proposizione linguistica al fine di individuare il collegamento ed il ruolo che essa ha nell’intero sistema50. In questa prospettiva se la Suprema Corte, per un verso, ha fatto dei passi in avanti proprio alla luce di 48 Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, in Rass. dir. civ., 2009, p. 499 ss., con note di P. Perlingieri, L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona e F. Tescione, Per una concezione unitaria del danno non patrimoniale (anche da contratto) oltre l’art. 2059 c.c.; sul danno non patrimoniale da contratto v. anche Id., Il danno non patrimoniale da contratto, Napoli, 2008, p. 15 ss.. 49 P. Perlingieri, Il diritto alla salute quale diritto della personalità, cit., p. 1040 ss.; Id., L’art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince, cit., pp. 776 e 778; Id., Il diritto privato futuro, cit., p. 279 s.; Id., L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona, cit., p. 520 ss. Sul punto cfr. anche V. Scalisi, Lesione della identità personale e danno non patrimoniale, in Riv. dir. civ., 1984, I, p. 433 ss. e spec. p. 444 ss.; Id., Danno alla persona e ingiustizia, in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 147, secondo il quale la prospettiva ermeneutica di ricondurre il danno alla persona all’art. 2059 c.c. presenta il rischio di assoggettare tale danno alla condizione di tipicità che resta pur sempre un requisito ulteriore rispetto ai previsti e consueti elementi caratterizzanti la ordinaria struttura dell’illecito civile, così che interessi e valori della persona umana meritevoli di tutela restino non tutelabili sul piano aquiliano. In tal senso v. anche Id., Le sezioni unite e il danno non patrimoniale, cit., p. 97 ss.. 50 P. Perlingieri, Il diritto privato futuro, cit., p. 280. n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 una interpretazione costituzionalmente orientata (poiché ha dato rilevanza ed unitarietà al danno non patrimoniale, in quanto danno alla persona, osservando giustamente che la persona non si presta a scomposizioni o frazionamenti, si che non è distinguibile o separabile in voci di danni)51, per altro verso, non sembra ragionare correttamente là dove afferma che il danno patrimoniale è atipico, mentre quello alla persona è tipico. Nella prospettiva costituzionale gli interessi non patrimoniali sono al vertice della gerarchia dei valori. Sí che per evitare il risarcimento di danni c.dd. bagattellari (o futili) non giova ricorrere alla categoria della tipicità, ma occorre, diversamente, rivalutare la clausola generale dell’ingiustizia del danno (art. 2043 c.c.)52. Del resto è una contraddizione in termini proporre una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. e non anche dell’art. 2043 c.c., nonché di tutte le disposizioni in materia di responsabilità civile. Né si può considerare il danno alla persona tipico e quello patrimoniale atipico perché verrebbe stravolta la gerarchia dei valori normativi, come se il danno alla persona fosse un danno di serie minore. 51 «Il danno, come tale, è sempre valutato patrimonialmente; è l’interesse leso che può essere non patrimoniale. Tuttavia, sul piano della struttura dell’illecito, il danno alla persona può essere rappresentato come incidente sulla capacità reddituale della persona e, ad un tempo, sulla sua integrità psicofisica, intesa come valore esistenziale che prescinde dalla capacità reddituale. In realtà essi rappresentano un unico danno alla persona. Ciò consente di evitare un insieme di problemi che presuppongono la sussistenza di autonome categorie di danni», P. Perlingieri, L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona, cit., p. 528. 52 P. Perlingieri, Il diritto alla salute quale diritto della personalità, cit., p. 1040 ss.; Id., L’art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince, cit., pp. 776 e 778; Id., Il diritto privato futuro, cit., p. 279 s.; Id., L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona, cit., p. 520 ss.. 137 Tra l’altro il danno è sempre patrimoniale; viceversa, è l’interesse leso che può essere patrimoniale o non patrimoniale53. La conseguenza della prospettiva accennata è che l’art. 2043 c.c. riguarda tanto il c.d. “danno patrimoniale”, quanto il c.d. “danno non patrimoniale” (o danno alla perso- 53 In tal senso v. P. Perlingieri, L’art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince, cit., p. 781; Id., L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona, cit., p. 528; A. Procida Mirabelli di Lauro, Il danno ingiusto (dall’ermeneutica «bipolare» alla teoria generale e «monocentrica» della responsabilità civile), in Riv. crit. dir. priv., 2003, I, p. 9 ss. e II, p. 219 ss.; A. Flamini, Il danno alla persona: danno patrimoniale, danno non patrimoniale, danno morale, in Corti marchigiane, 2005, p. 317 ss.; E.A. Emiliozzi, Il danno alla persona. Profili sistematici e ricostruttivi, Napoli, 2008, p. 49 ss.; C. Perlingieri, Enti e diritti della persona, Napoli, 2008, p. 174; A. Lepore, Responsabilità civile e tutela della «persona-atleta», Napoli, 2009, p. 271 ss.; F.D. Busnelli, Le sezioni unite e il danno non patrimoniale, cit., p. 97 ss. Sul punto ancora confusa si presenta la posizione della giurisprudenza: cfr. la recente Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972, in Rep. Foro. it., 2008, voce Danni, nn. 244-251, la quale, ribadendo la centralità dell’art. 2059 c.c. in tema di danno non patrimoniale, ha inteso definire quest’ultimo come ‘tipico’, limitando la sua applicazione a tre ipotesi: in caso di fatto-reato, ex art. 185 c.p.; di riconoscimento espresso da parte del legislatore di un danno non patrimoniale (come è indicato dalla legge sulla privacy); e di lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione. Sul tema si ricordino, tra le altre, le più recenti Cass., 31 maggio 2003, n. 8827, in Rep. Foro it., 2003, voce Danni civili, nn. 236, 244, 313 e 380 e Cass., 31 maggio 2003, n. 8828, ivi, voce cit., nn. 297, 332, 393 e voce Responsabilità civile, n. 179, commentate ex multis, in Corr. giur., 2003, p. 1017 ss., con nota di M. Franzoni, Il danno non patrimoniale, il danno morale: una svolta per il danno alla persona; in Danno resp., 2003, p. 819 ss., con note di F.D. Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di cassazione e il danno alla persona e di G. Ponzanelli, Ricomposizione dell’universo non patrimoniale: le scelte della Corte di cassazione; in Resp. civ. prev., 2003, p. 675 ss., con note di P. Cendon, Anche se gli amanti si perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass. 8828/2003, di E. Bargelli, Danno non patrimoniale ed interpretazione costituzionale orientata dell’art. 2059 c.c. e di P. Ziviz, E poi non rimase nessuno. recensioni Gazzetta 138 na), purché ingiusti 54 (atipicità), mentre, l’art. 2059 c.c. ha una mera funzione sanzionatoria riferendosi al solo danno morale soggettivo55. Da tali osservazioni emerge il pericolo attuale. Se è vero che finalmente l’interprete di oggi sembra 54 L’«estensione della responsabilità civile si gioca nella rilettura senza pregiudizi dell’art. 2043 c.c. e del suo ruolo di principio normativo secondo Costituzione. Dal diritto di proprietà ai diritti personali di godimento, da questi ai diritti di credito e agli interessi legittimi sino a giungere ai diritti inviolabili dell’uomo e soprattutto al valore della persona: un itinerario della stessa interpretazione applicazione dell’art. 2043 c.c. in conformità al mutato orientamento assiologico dell’ordinamento», P. Perlingieri, L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona, cit., p. 529. In questa prospettiva l’art. 2043 c.c. può assumere diverse funzioni oltre a quella ripristinatoria. Ad es. finalità sanzionatoria è stata ricondotta all’art. 5 del d.lg. 9 ottobre 2002, n. 231, relativo alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Il particolare saggio di interesse starebbe a dimostrare una funzione deterrente diretta a scoraggiare qualsiasi forma di inadempimento: Id., L’art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince, cit., p. 779, nota 13; sul punto v. anche A. Frignani e O. Cagnasso, L’attuazione della direttiva sui ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Contratti, 2003, p. 308 ss. Anche nell’ipotesi di risarcimento di danni per interessi non patrimoniali, la condanna assumerebbe, tra l’altro, una funzione punitiva nei confronti dell’autore dell’illecito: di questa opinione è P. Trimarchi, voce Illecito (dir. priv.), in Enc. dir., XX, 1970, p. 109, nota 63. 55 Così P. Perlingieri, L’art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince, cit., p. 778; Id., L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla persona, cit., p. 520 ss.; C. Perlingieri, Enti e diritti della persona, cit., p. 177 ss.; in tal senso cfr. anche F. D. Busnelli, Le sezioni unite e il danno non patrimoniale, cit., p. 119 s., il quale richiama in senso conforme un lavoro del 2008 di R. Scognamiglio, Danni alla persona e danno morale, in Riv. dir. priv., 2008, p. 24. In questa prospettiva l’art. 2059 c.c. opererebbe non soltanto nel caso previsto dall’art. 185 c.p., ove l’illecito realizza, allo stesso tempo, la consumazione di un reato, ma anche in altre fattispecie. Si pensi alla responsabilità aggravata prevista dall’art. 96 c.p.c., nonché a quella derivante da ingiusta privazione della libertà personale nell’esercizio di funzioni giudiziarie, ai sensi dell’art. 2, l. 13 aprile 1988, n. 117 e dal mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo ex art. 2, l. 24 marzo 2001, n. 89. r e c e n s i o n i convinto dell’idea secondo la quale le norme costituzionali sono precettive e vincolanti, nonché, come tali, incidenti sull’interpretazione delle norme ordinarie e direttamente applicabili ai rapporti di diritto civile, per altro verso, non sembra del tutto consapevole del modo nel quale deve operare l’interpretazione sistematica ed assiologica. In altre parole è importante battersi per proporre delle riforme legislative che possono riguardare anche il codice civile56, ma occorre, altresì, impegnarsi per insegnare ai giuristi l’interpretazione c.d. adeguatrice57 o sistematica ed assiologica. Questa richiede cultura, sensibilità e capacità di analizzare il sistema nel suo complesso, in modo da adeguare la normativa al fatto e così coniugare non già fatto e legge, ma fatto e diritto. Gazzetta F O R E N S E 5. (Segue). La sovrabbondanza delle regole e l’applicazione diretta dei principi In questa prospettiva numerose riforme legislative potrebbero essere evitate. L’interpretazione sistematica ed assiologica, infatti, impone sia l’utilizzo della tecnica dell’interpretazione estensiva della norma ordinaria secondo Costituzione, sia l’applicazione diretta dei principi. Spesso non c’è bisogno di ripetere nelle leggi ordinarie principi già presenti nel sistema e nella Costituzione. Altrimenti si finisce di ribadire pedissequamente, come nelle norme in materia di consumatori, concetti inutilmente ridondanti o già acquisiti, come quello che statuisce che «l’imprenditore deve comportarsi con trasparenza, lealtà e correttezza». Inoltre sovente, per garantire la giustizia del caso concreto, è sufficiente applicare direttamente le norme costituzionali attraverso la tecnica del bilanciamento dei principi. Ad esempio, non c’è necessità di una legge che specifichi espressamente l’esigenza di tutelare e valorizzare l’ambiente e i beni culturali se già un interprete sensibile può rinvenire la tutela dell’ambiente e dei beni culturali nelle norme della Costituzione a tutela della salute e dello sviluppo della persona (artt. 2, 3, 9 e 32 Cost.). Non si garantisce lo sviluppo psicofisico della persona umana (artt. 2, 3 e 32 Cost.) e il progresso materiale e spirituale della società (art. 4, comma 2, Cost.) senza tutelare e valorizzare l’ambiente, inteso come bene unitario, e i beni culturali58. Né il concetto di ambiente può essere disgiunto dal concetto di paesaggio, urbanistica e sanità, in quanto è l’insieme di questi elementi che garantisce lo sviluppo equilibrato dell’uomo. La difficoltà è che per fare ciò che si propone è indispensabile un giurista non dogmatico, allenato al dubbio e sensibile, in quanto, come diceva Emilio Betti, «solo uno spirito di pari livello e congenialmente disposto trova la via per comunicare con lo spirito che gli parla ed è in condizione di comprenderlo in modo adeguato»59. Sono numerosi i casi di soluzioni giuridiche apparentemente incontestate perché frutto del “chiaro dettato normativo” (in claris non fit interpretatio). Queste soluzioni, invece, se riviste sistematicamente ed assiologicamente possono diventare più ragionevoli ed eque alla luce del sistema. Ciò anche superando il broccardo dura lex sed lex, poco sensibile a considerare l’unici- 56 Lo stesso Lucarelli propone giustamente degli interventi in materia di beni culturali e ambientali e aderisce alle soluzioni della commissione Rodotà; F. Lucarelli, o.c., p. 126. 57 P. Perlingieri, Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice, cit., p. 60 ss. 58 Il tema dei beni culturali e dell’ambiente è indicato da L. Paura, in Id. e F. Lucarelli, Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà, cit., p. 140 ss., la quale si sofferma sulla sentenza della Corte cost. n. 641 del 1987. 59 E. Betti, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, Roma, 1987, p. 99. F O R E N S E tà della sistema e la differenza tra legge e diritto. Per confermare tali osservazioni giova proporre qualche esempio coerente ai temi trattati nel volume che si presenta. a) Alla luce del principio di proporzionalità e di ragionevolezza e al fine di garantire il diritto di proprietà, l’indennizzo di esproprio (ex art. 43 Cost.) deve essere, come giustamente ha detto anche recentemente la Corte europea dei diritti dell’uomo, equo, ovvero giusto60, in modo da garantire il ragionevole o «giusto equilibrio tra esigenze di interesse generale e diritto di proprietà»61. Ciò non comporta una necessaria e costante coincidenza tra indennizzo ed effettivo valore del bene, né un indennizzo sempre integrale, ma un ragionevole bilanciamento tra indennizzo, valore venale del bene e sua utilità per il proprietario e la società (indennizzo proporzionale). Perché soltanto così è possibile garantire un «“giusto equilibrio” tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali del­l ’indi­ viduo»62. Questa è una conquista per la quale ci sono voluti più di 60 anni e che si sarebbe potuta raggiungere da tempo semplicemente rivalutando la gerarchia dei valori, la tecnica del bilanciamento dei principi, nonché, in particolare, i principi di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza63, già presenti nel dettato costituzionale (artt. 3, 36, 38, 42, 53, 97 Cost.), e che di certo non avreb- 60 Occorre «recuperare il senso della giustizia, non di quella astratta, ma della giustizia possibile. La giustizia come senso dell’equo, del proporzionato, dell’adeguato, secondo i valori fondanti la comunità», P. Perlingieri, Il bagaglio culturale del giurista, in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori, cit., p. 242. 61 L. Paura, o.c., p. 146. 62 L. Paura, o.c., p. 150. 63 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italocomunitario delle fonti, cit., pp. 238 ss., 265 ss., 289 ss., 535 ss. e 563 ss.. n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 bero consentito indennizzi di esproprio del tutto irrisori. b) Si pensi anche ai nuovi strumenti (le c.dd. azioni collettive inibitorie e risarcitorie) ai quali gli Autori giustamente dedicano particolare attenzione64. Anche tali strumenti richiederanno interpretazioni non dogmatiche e letterali, ma interpretazioni ragionevoli e adeguate agli interessi da tutelare. I dubbi derivanti dalla non chiara e manchevole lettera, in particolare del vecchio testo dell’art. 140 bis cod. cons. ma non completamente risolti dall’introduzione del nuovo testo di legge65, impongono all’interprete un sforzo di rilettura della disposizione alla luce dei principi costituzionali di eguaglianza sostanziale, ragionevolezza e proporzionalità. Proporzionalità s’intende tra interessi da tutelare ed efficacia dello strumento o della tecnica utilizzata. Giova orientare l’attenzione su due problemi non assolutamente considerati dal testo previgente e soltanto in parte risolti dal nuovo testo dell’art. 140 bis cod. cons. Il primo riguarda la legittimazione, ovvero se va riconosciuta la legittimazione attiva ai soli consumatori e la legittimazione passiva ai soli imprenditori. L’art. 140 bis cod. cons. (anche nella nuova formulazione) secondo l’interpretazione comune – e a differenza dell’esperienza americana nella quale l’azione collettiva può essere esperita a prescindere dalle condizioni soggettive delle parti – sem- 64 L. Paura, o.c., p. 177 ss.. 65 Testo introdotto, nel corso della correzione delle bozze di stampa, dall’art. 1, comma 446, della l. recante Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge Finanziaria 2008) e approvato dal Senato della Repubblica il 9 luglio 2009 (cfr. art. 49 ddl 1195/2009 su «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia»). Le disposizioni dell’art. 140 bis cod. cons., nuova formulazione, si applicano agli illeciti compiuti successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge. 139 bra riconoscere l’azione collettiva ai soli consumatori. Questa prospettiva è inaccettabile. La legittimazione attiva non può essere preclusa a priori anche ad altre categorie di contraenti parimenti deboli, come i consumatori, ma non per forza qualificabili come tali. Si pensi ad un soggetto che subisce un danno extracontrattuale e, pertanto, non è qualificabile come consumatore (ex art. 3, comma 1, lett. a, cod. cons.), in quanto non ha un rapporto relazionale e di consumo con l’imprenditore che di fatto gli ha creato il danno. Non si comprende perché un soggetto leso, se titolare di un interesse collettivo, non possa agire attraverso una azione collettiva inibitoria e risarcitoria. Così i cittadini di un paese che subiscono un inquinamento elettromagnetico o subiscono danni provocati dalla colposa immissione di sostanze tossiche da parte di una impresa. Non sono consumatori, subiscono un danno extracontrattuale, ma sono titolari di un interesse collettivo meritevole di tutela66. Tale soluzione può essere raggiunta, a mio parere, pur senza una modifica legislativa, ma sul piano ermeneutico attraverso una interpretazione c.d. adeguatrice67 delle disposizioni in esame. Del resto l’art. 140-bis cod. cons. (vecchio e nuovo testo) discorre non soltanto di consumatori, ma di utenti, e l’utente è chiunque, e in qualsiasi momento, si serva di un bene o di un servizio, anche pubblico, a prescindere se all’interno di un rapporto contrattuale di consumo o con un imprenditore. Allo stesso modo non v’è ragione per non estendere la legittimazione passiva, oltre che agli imprenditori, alla Pubblica amministrazione. 66 Sul punto si rinvia alle osservazioni di F. Rizzo, Azione collettiva risarcitoria e interessi tutelati, Napoli, 2008, p. 213 ss., ivi ulteriori approfondimenti. 67 P. Perlingieri, Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice, cit., p. 66 ss.. recensioni Gazzetta 140 Spesso una soluzione ragionevole non necessita di grandi modifiche legislative, ma di sensibilità nell’adeguare la legge al sistema e trasformare la legge in diritto. Perché la legge è causa vinta, il diritto è causa da vincere, secondo la funzione promozionale che la Costituzione riconosce al diritto stesso e all’interprete (artt. 4, 54, 101, comma 2, Cost.). Il secondo problema riguarda il tema della rappresentatività degli enti esponenziali e l’esigenza di «porre le imprese al riparo da iniziative futili» e ostili, «promosse a scopo ricattatorio, poco trasparenti o fraudolenti, evitando i noti abusi commessi negli Stati uniti»68. Il vecchio testo dell’art. 140-bis, comma 1, cod. cons. stabiliva che erano legittimati ad agire le associazioni presenti nell’elenco governativo ex art. 139 cod. cons. Tale soluzione, se applicata alla lettera, sarebbe stata lesiva degli interessi tutelati e in particolare di quelle associazioni non inserite nell’elenco indicato. A tale atteggiamento, tuttavia, si poteva porre rimedio sul piano ermeneutico posto che l’art. 140-bis, comma 2, cod. cons. recitava: sono legittimati ad agire non soltanto le associazioni presenti nell’elenco governativo (cfr. art. 139 cod. cons.), ma anche le «associazioni e i comitati che sono adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere». Dunque l’interprete non avrebbe dovuto in alcun modo limitarsi agli inutili certificati governativi di legittimazione all’azione, come tali, astratti e generalizzanti e lesivi della libertà di associazione (artt. 2, 18 ccost.), ma avrebbe dovuto, quanto meno, rivalutare il concetto di rappresentatività. Il problema, pertanto, ritornava all’interprete, alle sue capacità e al concetto di rappresentatività, utilizzato dallo stesso art. 140-bis, comma 2, cod. cons. e 68 Così L. Paura, o.c., p. 179, riportando una osservazione di Guido Alpa in un articolo del Sole 24 ore. r e c e n s i o n i da rileggere necessariamente alla luce dei principi di proporzionalità e di adeguatezza. In questa prospettiva la rappresentatività avrebbe consentito di evitare abusi e, dunque, di precludere azioni futili dei consumatori dannose per gli imprenditori e di evitare ingiustificatamente azioni di piccole associazioni non presenti nell’elenco governativo. Il tutto a garanzia e tutela dell’ordine pubblico economico. In altri termini, la rappresentatività e l’adeguatezza dell’ente (quali elementi richiesti dall’art. 140 bis cod. cons. – vecchia formulazione – per proporre l’azione risarcitoria) andavano valutate non già soltanto tramite criteri statici (criteri e parametri predefiniti ex lege dall’autorità governativa), ma attraverso una prospettiva relativa e attenta al caso concreto. Così se l’illecito fosse stato commesso su scala nazionale, la rappresentatività (l’adeguatezza) doveva essere giudicata alla luce di tale livello; viceversa, qualora l’illecito avesse avuto una diffusione più localizzata (a livello soltanto comunale, provinciale o regionale), la rappresentatività doveva misurarsi su un piano diverso. Una associazione poteva essere adeguatamente rappresentativa per tutelare un certo illecito e non un altro. Una valutazione, dunque, non statica (una volta per tutte) secondo criteri predefiniti a livello organizzativo, ma dinamica secondo valutazioni fatte dal giudice nel caso concreto, ma pur sempre rispettose dell’art. 18 Cost.. Il problema è stato soltanto in parte risolto dal nuovo art. 140-bis, comma 1, cod. cons., il quale però sembra aver creato ulteriori problemi. Il nuovo testo, infatti, stabilisce che il potere di azione è dei singoli, che nel caso in cui tendono ad esplicitarla cumulativamente possono farsi promotori dell’iniziativa collettiva o aderire a quella proposta da un altro, oppure da un’associazione o da un comitato. Sí che l’attività delle associazioni dei consumatori o Gazzetta F O R E N S E dei comitati favorisce soltanto un’aggregazione più efficiente delle iniziative individuali, specialmente per le c.dd. small claims. In altre parole l’iniziativa del promotore è diretta a stimolare e gestire cumulativamente singole pretese degli altri soggetti lesi; egli deduce in giudizio fin dall’inizio i singoli diritti (omogenei) al risarcimento e alla restituzione di somme, di cui si affermano titolari i consumatori e gli utenti aderenti alla sua iniziativa. Dunque «i diritti individuali omogenei», ex art. 140-bis, comma 1, cod. cons., si riferiscono a pretese giuridiche lese dal convenuto, uguali e compatte tra di loro e fanno riferimento non ad un interesse collettivo, bensì ad un bene individuale che sorge dopo il verificarsi di un illecito plurioffensivo, che fornisce l’occasione del ricorso alla tutela giurisdizionale dei diritti da parte dei singoli individui. Tale soluzione se risolve a priori alcuni dei problemi indicati (si pensi a quello della rappresentatività degli enti) ne crea altri, poiché il requisito dell’omogeneità, costituisce un quid pluris ed appare criticabile perché, seppure stringe le maglie del ricorso al nuovo strumento di tutela collettiva al fine di evitare azioni futili o abusive, rischia di complicarne la riunione dei procedimenti e, di fatto, l’effettiva esperibilità. La vecchia formulazione, al contrario, consentiva la promozione di una class action in presenza dei casi semplicemente analoghi, rendendo l’intera disciplina, seppure sottoposta ad un attento controllo dell’interprete in funzione applicativa, più duttile e flessibile rispetto al caso concreto. All’interprete, ancóra una volta, il còmpito di saper leggere la disposizione nel modo più adeguato alle istanze da tutelare, sí da bilanciare con ragionevolezza interessi e valori. 6. Conclusioni Consentitemi quindi di concludere dicendo che il Prof. Lucarelli non è un conservatore come si di- F O R E N S E chiara69. Appartiene a quella categoria di giuristi che conoscono il passato, conoscono le fondamenta del sistema e, quindi, propongono una interpretazione attenta alle ideologie del sistema giuridico vigente. La difesa della Costituzione non è un nostalgico ritorno al passato, né una difesa di una ideologia retrograda, ma è rispetto dei valori della civile convivenza che, come tali, non possono non essere il risultato della tradizione. Valori normativi, beninteso, non già meramente scelti o condivisi da gruppi più o meno numerosi, ma imposti dal sistema giuridico vigente e indicati come vincolanti dall’ordinamento stesso. Valori normativi che si evolvono e si adeguano alla realtà sociale senza mai mutare del tutto, in un graduale processo di continuità e discontinuità. Ciò impone di considerare i valori normativi costituzionali quali criteri di misurazione e di valutazione dei fatti in modo da garantire sempre il rispetto della gerarchia delle fonti. Né si può negare che nell’ordinamento italo-comunitario esista un criterio di valutazione assoluto. Nel momento in cui un criterio è posto al vertice di una scala gerarchica, quale norma fondamentale, ed imposto o condiviso non già da un singolo gruppo, ma dall’ordinamento della Repubblica, l’interprete non può, nel momento applicativo, rifuggire da esso violando il principio di legalità (artt. 54, 101, comma 2, 117, comma 1, Cost.). Questo non significa che ogni criterio di valutazione è da considerare eterno. La storia ci ha insegnato che anche i valori si evolvono, tant’è che spesso la morale non coincide con il diritto. Se questo è vero, vero è pure che il criterio costituzionale è il criterio di valutazione o di misurazione vigente, sí che oggi l’interprete non può rifuggire da esso perché così facendo, pur non discostandosi dal dettato letterale di una singola 69 F. Lucarelli, o.c., p. 18. n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 regola ordinaria, finirà per violare il principio di legalità costituzionale e per porsi di là diritto positivo unitariamente inteso. Del resto un criterio di valutazione, pur astrattamente superabile dalla storia, è più duraturo se forte della tradizione storica, della condivisione e della capacità, per come posto, di adeguarsi alle esigenze del caso concreto ed alle nuove istanze della società civile. In astratto, quindi, esistono una molteplicità di criteri di giudizio, sí che ogni uomo ha il suo tempio, ogni uomo sceglie la sua religione e la sua divinità (più o meno lecita che sia), ma la religione di un dato ordinamento è costituita dalla gerarchia dei suoi valori normativi, i quali non sono scelti ma imposti. Da qui la valutazione di ciò che è permesso, di ciò che è lecito e meritevole e di ciò che è vietato. Tali valutazioni non dipendono né dalla legge, né tanto meno dalla volontà personale, ma dal diritto positivo unitariamente inteso. Dunque non v’è politeismo giuridico, ma pluralità di fonti da ricondurre a sistema nel rispetto della gerarchia e della competenza. Pur nella diversità delle fonti (internazionali, transnazionali, comunitarie, locali, statali) di potere e di produzione del diritto (diversità tali da determinare la crisi della legge) il primato della politica si riafferma nel momento applicativo, tramite la prevalenza della soluzione più ragionevole, che, al contempo, è quella più conforme ai valori normativi superiori. Questa prospettiva non consente di discostarsi dalla norma a proprio piacimento, ma impone al giurista di interpretare il dettato letterale di una disposizione (spesso di per sé polisenso) componendolo con altre, in modo da individuare le relazioni di senso tra regole e tra regole e principi, nonché applicare non già la volontà della legge, ma la volontà del sistema giuridico vigente. Questo trova nel momento applicativo la sua unitarietà. Per il giudice, quindi, la divinità non è la propria volontà, né la disposizione, bensì il 141 sistema, ovvero la disposizione interpretata alla luce dell’ordinamento giuridico vigente e dei suoi valori. Non si tratta di seguire una o altra norma, ma di applicare la volontà dell’ordinamento il quale non può essere che la conseguenza di più disposizioni gerarchicamente disposte che trovano nel momento applicativo la loro unitarietà. Diversamente si rischia di assistere ad interpretazioni letterali contrarie alla volontà superiore dell’ordinamento o a consuetudini contra legem. La Costituzione, tuttavia, non si difende con (pur utili)70 appelli o manifesti, né con mere petizioni di principio, ma si difende ora sul piano politico, attraverso non mere riforme ma progetti adeguati alla legalità costituzionale, ora attraverso l’interpretazione c.d. adeguatrice71, delle leggi e degli atti aventi forza di legge, imposta dal principio di legalità. Questo richiede un giudice che deve adeguarsi non soltanto alla singola disposizione, ma all’ordinamento giuridico vigente ed ai suoi valori. Da qui le sempre attuali parole di Calamandrei riportate dal Prof. Lucarelli: «la nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora una programma, un ideale, una speranza, un impegno di un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! […]. È stato detto giustamente che le costituzioni sono delle polemiche […]. Questa polemica, di solito, è una polemica contro il passato, contro il passato recente […]»72. Tuttavia, come indicato dall’art. 3, comma 2, la nostra Costituzione è anche in polemica contro il presente, 70 Cfr. quello del 5 luglio 2008 in F. Lucarelli, o.c., p. 241 ss.. 71 P. Perlingieri, Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice, cit., p. 1 ss. 72 F. Lucarelli, o.c., p. 77; sulla figura di Piero Calamandrei v. le pagine di F. Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile. Miti Leggende Interpretazioni Documenti, Napoli, 2007. recensioni Gazzetta 142 contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare sia attraverso quegli strumenti di legalità, di trasformazione graduale che la Costituzione ha messo a disposizione del legislatore italiano, sia attraverso l’attività dell’interprete, il quale o deve applicare direttamente la Costituzione o deve interpretare ogni disposizione in conformità ad essa, posto che l’art. 101, comma 2, Cost. (principio di legalità) va letto in combinato disposto con gli artt. 54, 117, comma 1, e 4 Cost.. Tale prospettiva conferma che: a) l’utilità della Costituzione non si è per nulla esaurita, anzi è ancora tutta da venire; b) a distanza di 60 anni la responsabilità dei giuristi dogmatici e insensibili alle spinte propulsive della Costituzione è lampante; c) non è più tempo di parlare della Costituzione è tempo di interpretarla in funzione applicativa per risolvere i problemi concreti. Chi ancora pensa che il principio di legalità (art. 101, comma 2, Cost.) si riferisce soltanto alla legge ordinaria, o alla singola disposizione, non rispetta la gerarchia delle fonti, è in polemica con la Costituzione ed è di là dal diritto positivo73, nonché dal processo politico ed economico attuale. È ora di considerare definitivamente abrogato l’art. 12 delle disp. prel. c.c. che propone una fuorviante ed a-sistematica interpretazione per gradi (come auspicato con rara coerenza da oltre trenta anni dalla dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale74), in modo da conti- r e c e n s i o n i nuare a studiare, anche i temi più classici del diritto civile, in una prospettiva diversa e più sensibile agli interessi, ai valori normativi ed alla loro gerarchia. Dunque il problema non sta nello studiare più o meno un istituto, ma nel rileggerlo in chiave moderna e in una prospettiva non soltanto patrimoniale (secondo la c.d. depatrimonializzazione del diritto civile)75. Si pensi ai temi più tradizionali, come il negozio giuridico76 e le servitù coattive77 (ex art. 1052 c.c.), che se riletti in una prospettiva solidaristica e personalistica acquistano immediatamente nuova portata. Così, ad esempio, l’art. 1052, comma 2, c.c. oggi non può non essere riletto in modo conforme alla legalità costituzionale (secondo una interpretazione c.d. adeguatrice) e all’esigenza di garantire lo sviluppo psico-fisico della persona umana (artt. 2, 3, comma 2, 32 e 42, comma 2, Cost.)78. Dunque nel senso che il passaggio coattivo di cui al comma 1 può essere concesso dall’autorità giudiziaria 75 76 77 73 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 542. 74 P. Perlingieri, Produzione scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare (1969), ora in Id., Scuole, tendenze e metodi, cit., p. 6 ss.; Id., Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, cit., p. 111; Id., Profili del diritto civile, 3a ed., Napoli, 1994, p. 17; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 535 ss.; Id., La dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 497 ss., ivi ulteriori riferimenti bibliografici; Id., Interpretazione e sistema dei valori, in Id., L’ordinamen- 78 to vigente e i suoi valori, cit., p. 365 s.; Id. e P. Femia, Nozioni introduttive e princípi fondamentali del diritto civile, cit., p. 166 ss.; P. Femia, voce Perlingieri Pietro, cit., p. 819 ss.. Sulla necessità di superare l’impostazione produttivistica del codice civile, v. P. Perlingieri, Introduzione alla problematica della “proprietà”, Napoli, 1971, p. 70 ss.; Id., “Depatrimonializzazione” e diritto civile, in Rass. dir. civ., 1983, p. 2 ss.; C. Donisi, Verso la “depatrimonializzazione” del diritto privato, ivi, 1980, pp. 644 ss. e 655 ss., ivi ulteriori riferimenti bibliografici. Sul punto v. F. Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, Napoli, 1970, passim. P. Perlingieri, Principio «personalista», «funzione sociale della proprietà» e servitù coattiva di passaggio (nota a Corte cost., 29 aprile 1999, n. 167), in Rass. dir. civ., 1999, p. 688 ss., ora in Id., La persona e i suoi diritti, cit., p. 533 ss. In questa prospettiva il personalismo e il solidarismo costituzionali incidono anche sulle situazioni più propriamente patrimoniali e persino sul «ramo secco delle servitù». L’espressione è di G. Branca, Recensione a P. Perlingieri, Rapporto preliminare e servitù su “edificio da costruire”, in Riv. trim., 1966, p. 671. P. Perlingieri, Principio «personalista», «funzione sociale della proprietà» e servitù coattiva di passaggio, cit., p. 534. Gazzetta F O R E N S E non soltanto per ragioni patrimoniali, ma anche per istanze non patrimoniali, come quella di garantire un adeguato accesso alla via pubblica per i portatori di handicap. È ora, quindi, di abbandonare il broccardo in claris non fit interpretatio79 e di leggere l’art. 101 cost. in combinato disposto con l’art. 54, 117, comma 1, e 4 Cost.80 Perché il giurista «non è un automa pronto automaticamente ad ogni mossa o contromossa (come un giocatore di scacchi)»81, ma il fedele interprete del sistema giuridico e dei suoi valori. Già Seneca nel De tranquillitate animi osservava che «allo Stato non è utile solo chi presenta dei candidati, difende degli accusati, discute di pace o di guerra, ma anche chi educa i giovani; chi, in tanta penuria di buoni insegnamenti, ispira la virtù degli animi; chi cerca di fermare la corsa verso il denaro e il lusso o, almeno, la frena; così facendo costui, anche se in privato, fa un servizio di pubblica utilità»82 , perché – diremmo noi – aiuta ogni cittadino ad agire con dignità, nei limiti del proprio ruolo e delle proprie possibilità, in difesa di una ideologia83 capace di concorrere al progresso materiale e spirituale della società. Per questo io ringrazio e tutti noi dovremmo ringraziare il Prof. Francesco Lucarelli. 79 P. Perlingieri, L’interpretazione come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, cit., p. 273. 80 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 542 s. Cfr. anche Id., Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice, cit., p. 27 s. e 29 ss.. 81 F. Lucarelli, in Id. e L. Paura, Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà, cit., p. 157. 82 L.A. Seneca, La tranquillità dell’animo, trad. it. di G. Manca, Milano, 1993, p. 30. 83 G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie, cit., p. 606. F O R E N S E ● Giustizia della funzione normativa e sindacato diffuso di legittimità di Raffaele Manfrellotti, Jovine, 2008 ● A cura di Chiara Cucinella Dottoressa in giurisprudenza L’opera è divisa in tre parti: nella prima parte espone la preminenza del principio personalista che permea la Costituzione e la conseguente preminenza delle posizioni soggettive costituzionalmente protette. Tale principio è alla base e legittima l’attività pubblica e in particolare l’attività normativa. Nella seconda parte l’autore si sofferma in particolare sulla funzione legislativa identificandola come lo strumento di realizzazione delle situazioni giuridiche soggettive. Nell’ultima parte del lavoro sono oggetto di analisi gli strumenti di tutela delle situazione soggettive lese da norme illegittime e i modi per ricondurre la funzione normativa nel modello costituzionale ogni volta che se ne discosti. L’autore ripropone in modo sintetico ed esaustivo le ragioni politiche e il dibattito svoltosi in sede di Assemblea Costituente che hanno portato all’istituzione di un controllo di costituzionalità sugli atti del Parlamento. In particolare la sfiducia del Costituente nella capacità della magistratura di porsi a salvaguardia dei diritti contro gli abusi del legislatore ha spinto l’Assemblea ad optare per un sindacato di tipo accentrato, sulla scorta del modello austriaco. Il lavoro prosegue con la descrizione del progressivo mutamento del contesto storico in cui opera la Corte Costituzionale che induce a rivedere il suo ruolo. n o v e m b r e • d i c e m b r e 2 0 0 9 Tali cambiamenti sono rappresentati, in primo luogo, dal ruolo sempre più <politico > della Corte, determinato in particolar modo dal sistema elettorale maggioritario, che ha aumentato il potere della poltica. Inoltre i valori della Carta fondamentale fanno ormai parte integrante della cultura del ceto dei giuristi e, in particolare, della magistratura. La stessa Costituzione è un parametro a cui normalmente si richiamano i giudici; allo stesso tempo pare tramontato il mito dell’onnipotenza parlamentare in favore di una concezione del processo inteso come sede in cui rendere giustizia alla persone offesa nei suoi diritti e non in cui dare applicazione alla sovrana volontà del legislatore. Tutti questi elementi dimostrano, ad opinione dell’autore, come siano venute meno le ragioni che consigliavano il monopolio della Corte costituzionale nell’interpretazione e nella realizzazione dei principi fondamentali dell’ordinamento. Più adatta a ricoprire questa funzione, al giorno d’oggi, è la magistratura ordinaria, vincolata più al diritto che all’indirizzo politico. L’autore, attraverso una raffinata e stringente operazione ermeneutica, mostra la legittimità e l’operatività nel nostro sistema di un giudizio diffuso di legittimità costituzionale. Il Manfrellotti propone una lettura delle norme vigenti valorizzando gli elementi di diffusione del sindacato di legittimità sugli atti legislativi presenti nel sistema. In particolare l’autore si sofferma sull’art. 1 L. cost. 1 del 1948 e l’art. 23 co. 2 L n. 87 del 1953: la valutazione preliminare che deve essere fatta dal giudice a quo ai fini della rimessione della questione di legittimità alla Corte Costituzionale è incentrata oltre che sulla manifesta infondatezza e sulla rilevanza della questione anche sulla impossibilità di una interpretazione conforme alla Costituzione della norma ritenuta illegittima. L’interpretazione adeguatrice costituisce il corollario di una conce- 143 zione della Costituzione non limitata a fungere da parametro di validità degli atti, ma soprattutto ad esprimere la tavola di valori cui il sistema giuridico è ispirato; il giudice è chiamato ad applicare la Costituzione ed i diritti che essa esprime indipendentemente dall’intervento della Corte Costituzionale. L’ interpretazione adeguatrice e il sindacato di costituzionalità sono strumenti che operano su piani diversi: il primo rientra nella fisiologia del sistema e attiene all’opera di interpretazione, il secondo è una fase patologica ed eventuale e si attiva sussidiariamente qualora l’interpretazione conforme non potesse essere possibile. Sostiene l’autore che, in ogni caso, la disapplicazione degli atti invalidi non abbisogna di un’espressa previsione normativa a differenza della giurisdizione di annullamento che, invece, deve risultare per tabulas. L’inapplicabilità della norma illegittima è in ogni caso implicita nel nostro sistema giuridico, perché un atto non conforme a diritto, al di là del suo annullamento nelle forme previste dall’ordinamento, può non avere applicazione. La Costituzione contiene numerose disposizioni che affermano implicitamente il dovere di disapplicazione del giudice a quo; in particolare l’art. 54 Cost. nella parte in cui afferma il dovere generale di rispettare la Costituzione e le leggi della Repubblica. Il rispetto per le leggi della Repubblica è dovuto solo in quanto legittime, nel senso le eventuali antinomie debbono essere risolte applicando la Costituzione e non l’atto che la viola. In conclusione l’autore asserisce la necessità di utilizzare nuovi strumenti per la tutela della funzione normativa costituzionalmente orientata, più efficaci rispetto a quelli fino ad oggi impiegati: la via del sindacato di costituzionalità diffuso è parsa all’autore quella più garantista e più agevolmente percorribile nel contesto normativo e socio-politico vigente. recensioni Gazzetta 144 r e c e n s i o n i ● L’avvio del procedimento di Vincenzo Galatro e Aldo Sgro, Giuffrè, 2009 ● A cura di Valeria D’Antò Avvocato La legge 7 agosto 1990 n. 241, modificata dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15, nello stabilire nuovi rapporti tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini, ha disciplinato per la prima volta la materia delle garanzie partecipative al procedimento amministrativo. In questa materia rientra sicuramente l’istituto dell’avvio del procedimento. L’Opera cerca di prospettare soluzioni e sciogliere dubbi che sono sorti a seguito della concreta applicazione del relativo procedimento. A tal fine mette a disposizione del lettore-operatore del diritto una ampia e completa casistica anche alla luce dei numerosi obblighi che oggi hanno le pubbliche amministrazioni. In tale contesto vengono evidenziate le connessioni tra autorità procedenti e soggetti interessati. In particolare vengono messi in evidenza i numerosi e differenti provvedimenti con i quali deve essere integrato e concluso il procedimento amministrativo. Di tal guisa si sottolinea, ove possibile, il conforto della giurisprudenza più recente alle soluzioni prospettate. Ove ciò, invece, non sia possibile gli autori esprimono la loro opinione ragionata sul perché preferire l’una piuttosto che l’altra opinione giurisprudenziale pur sempre esistente. L’Opera fa parte della “Nuova serie” della Collana “Enti Locali” nata con l’obiettivo di approfondire, anche da un punto di vista pratico, i principali problemi degli Enti locali. Tale Collana, e con essa la “Nuova serie”, mira ad ottenere l’apprezzamento e il plauso degli amministratori pubblici e dei professionisti attraverso l’analisi e la soluzione di problemi che purtroppo le frammentarie leggi statali e regionali fanno sorgere. Tale scopo è raggiunto attraverso l’analisi completa dei casi, l’apporto di ricca documentazione sia essa legislativa, dottrinale che giurisprudenziale nonché attraverso una armonica architettura integrata da Problemi e Casi pratici, il tutto redatto in modo fluido e chiaro. Ogni capitolo si apre con la citazione dei riferimenti normativi da tener presente ai fini di una migliore comprensione del testo per poi concludersi con brevi quesiti ai quali segue una sintetica ma chiara e puntuale risposta. Tra l’altro tali quesiti, in ogni capitolo, sono divisi per argomento, rendendo, così, ancor più rapida ed efficace la consultazione dell’Opera. Lapalissiana è la schematicità del testo che prima di analizzare la comunicazione di avvio del procedimento in sé e per sé considerata, spiega, seppur brevemente, in cosa consiste il procedimento amministrativo, sia da un punto di vista tecnico giuridico che secondo le varie teorie elaborate dalla dottrina, divise in concezione formale, funzionale, paragiurisdizionale e teoria eclettica. Segue l’analisi delle varie fasi del procedimento, ovvero la fase dell’iniziativa, la fase dell’istruzione della decisione e la fase dell’integrazione dell’efficacia, seguita dalla conclusione del procedimento. Di seguito, quindi, vari capitoli sulla –comunicazione-, divisi per argomento. Vengono individuati i destinatari della comunicazione, i destinatari indiretti suscettibili di pregiudizio nonché vengono prese in considerazione le ipotesi di esclusione dell’obbligo della comunicazione o comun- Gazzetta F O R E N S E que dell’applicazione delle norme sulla partecipazione. Sono indicate le modalità in cui deve avvenire la comunicazione e specificato quale deve essere il suo contenuto; viene spiegato perché l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento debba intendersi sussistente ogni qual volta l’amministrazione intenda emanare un atto che si presenti sfavorevole per la sfera giuridica del privato, e, a tal proposito, si sofferma l’attenzione su casi particolari quali la revoca dell’incarico di assessore, ovvero la revoca del segretario, del direttore generale, piuttosto che la revoca di incarichi dirigenziali. Apposito capitolo è dedicato alla comunicazione negli atti ablativi, quali l’espropriazione, la requisizione, la confisca, il sequestro, il fermo amministrativo. Sezioni a parte sono riservate, invece, alla comunicazione nell’appalto nonchè in edilizia e urbanistica. Attenzione merita anche il capitolo otto, di particolare e frequente interesse per i cittadini, dedicato alla comunicazione nelle sanzioni amministrative, ivi comprese quelle irrogate dagli enti locali e quelle irrogate in caso di contravvenzioni al Codice della strada. Parte dell’opera è dedicata anche alla comunicazione nei procedimenti concorsuali e disciplinari nonché nei provvedimenti impositivi. Non vengono, infine, dimenticate le varie tipologie di comunicazioni che si palesano nelle ipotesi di dichiarazione di notevole interesse culturale e paesaggistico di aree e immobili, di interventi conservativi e prescrittivi imposti per la tutela dei beni culturali e paesaggistici, di trasferimento di beni culturali mobili, di autorizzazione per la gestione dei rifiuti industriali estrattivi, di correttivo in materia ambientale, di procedimento informatico, di prevenzione e riduzione dell’inquinamento. Gli Autori raggiungono quindi lo scopo di aver redatto un’Opera completa e, soprattutto, pratica.