Gazzetta
F O R E N S E
Bimestrale
Anno 3 – Novembre-Dicembre 2009
direttore responsabile
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n. registraz. tribunale
N. 21 del 13/03/2007
stampa
Cangiano Grafica – Napoli
SOMMARIO
editoriale
Deflazionare la giustizia con costi elevati:
arma spuntata
9
Roberto Dante Cogliandro
Notaio
diritto e procedura civile
Il procedimento sommario di cognizione
13
Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Dall’azione collettiva risarcitoria all’azione di classe 19
Aldo Corvino
Dottore in giurisprudenza
Donazione indiretta
22
Nota a Cass., sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983
Alessandro Zampaglione
Avvocato
L’onore della persona: tra realtà e opera di fantasia 27
Nota a Trib. Napoli, sez. I-bis, 24 giugno 2009 ord., Giud. L. Tricomi
Chiara Ianniruberto
Avvocato
Rassegna di legittimità
34
A cura di Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Donato Palmieri
Avvocato
Rassegna di merito
37
A cura di Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Mario De Bellis
Donato Palmieri
Avvocati
diritto e procedura penale
Inerzia e Proclami
47
Giuseppe Riccio
Ordinario di procedura penale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
La compatibilità costituzionale del terzo scudo fiscale 50
italiano tra profili operativi e prassi premiale
Felice Carbone
Avvocato
Domenico Bellobuono
Commercialista
Rassegna di legittimità
63
A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli
Andrea Alberico
Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università degli studi di Napoli “Federico II”
Rassegna di merito
A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli
Giuseppina Marotta
Avvocato
68
diritto amministrativo
Nota a T.A.R. Campania‑Napoli,
sez. I, 24 settembre 2009, n. 5058
77
Lucio Perone
Avvocato
Rassegna di giurisprudenza sul Codice dei contratti 87
pubblici di lavori, servizi e forniture
(D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania
diritto tributario
Alcune note sulla frode fiscale
95
Nadia Di Massa
Dottoranda di Ricerca in Diritto Tributario presso la facoltà di Economia della SUN
Osservatorio di giurisprudenza tributaria
Gli effetti della sentenza C. 132/06
sul condono fiscale; la parola alle Sezioni Unite
105
A cura di Raffaele Cantone
Magistrato presso il Massimario della Cassazione
diritto internazionale
Rassegna di giurisprudenza comunitaria
e internazionale
115
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e Specialista in diritto ed economia delle Comunità europee
questioni
A cura di Mariano Valente, Magistrato
DIRITTO CIVILE
Rifiuto del coacquisto da parte di coniuge
in comunione legale dei beni
Flora Caputo
Dottore in giurisprudenza
121
DIRITTO PENALE
Peculato
123
Chiara Cucinella
Dottore in giurisprudenza
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Tutela dei controinteressati comproprietari
di bene immobile
125
Chiara Cucinella
Dottore in giurisprudenza
DIRITTO TRIBUTARIO
Procedimento monitorio civilistico
per l’adempimento di obblighi di fare tributari
126
Massimo Tupone
Avvocato
recensioni
Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà
e sussidiarietà. Il vento non sa leggere
131
di F. Lucarelli e L. Paura, Napoli, 2008
A cura di Giovanni Perlingieri
Professore ordinario presso la Seconda Università di Napoli
Giustizia della funzione normativa
e sindacato diffuso di legittimità
143
di Raffaele Manfrellotti, Jovine Editore, 2008
A cura di Chiara Cucinella
Dottoressa in giurisprudenza
L’avvio del procedimento
di Vincenzo Galatro e Aldo Sgro, Giuffrè, 2009
A cura di Valeria D’Antò
Avvocato
144
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
●
Deflazionare la giustizia
con costi elevati:
arma spuntata
● Roberto Dante Cogliandro
Notaio
2 0 0 9
9
La parola d’ordine è ormai tagliare e scoraggiare l’accesso alla
giustizia con costi elevati o con le cosiddette prescrizione.
La medicina utilizzata dal governo in carica per decongestionare
l’enorme carico pendente dinanzi ai tribunali italiani è ormai chiara:
si cerca di introdurre costi ovunque in modo da scoraggiare quasi il
ricorso al giudizio e favorire semmai la via conciliativa.
Questo nel settore civile, mentre in quello penale si sta cercando
di ancorare l’eccesiva durata dei processi alle cosiddette prescrizioni.
Strumenti entrambi validi ma se supportati altresì da una completa e generale riforma del sistema processuale della giustizia; altrimenti tali misure rischiano di essere semplicemente tampone o di emergenza ma che poi alla lunga non risolveranno il problema che è storico e che rischia d’incancrenire il sistema giudiziario italiano nel suo
complesso.
Già altre volte nel recente passato si è intervenuti con provvedimenti tampone che dopo poco si sono rilevati inutili e dannosi per la
collettività. Mi riferisco in particolare alla legge “svuota carceri”
messa in atto dall’allora ministro Mastella. Tale provvedimento infatti se da un lato ha fatto respirare gli affollatissimi istituti penitenziari
italiani, dall’altro si è dimostrato inefficace nel medio periodo, ove
infatti le carceri si sono presto riaffollate facendo vivere al sistema lo
stesso problema di sempre: l’esigenza di costruire nuovi istituti penitenziari più moderni e degni di un
paese civile e moderno come il nostro. Se oltre la metà dei detenuti presenti nei carceri italiani è di nazionalità straniera qualche
problema di politica sociale ed estera pur c’è ed allora meglio affrontare lo scarso numero dei centri di prima accoglienza o di ripartenza
per i paesi d’origine che quello degli indulti inutili e palliativi per i
carcerati. Le misure appena licenziate dal governo in materia civile e
quelle che saranno licenziate nei prossimi giorni rischiano di essere le
ennesime misure tampone che finiscono per non risolvere il cancro
della giustizia italiana: ossia i tempi lunghi ed ipergarantisti delle varie
fasi del processo.
Il contributo unificato anche per il processo del lavoro rischia di
far pagare i danni della nostra malata giustizia alla classe sociale più
debole in questo periodo di crisi economica: quella dei lavoratori.
Questi infatti dovranno anche loro sopportare dei costi d’ingresso
alla giustizia lavoristica che sin dagli anni settanta del secolo scorso si
erano ribaltati sulla giustizia nel suo complesso, esonerando il lavoratore da ulteriori sacrifici in una materia spesso prima d’interesse sociale e poi giuridico.
Dal mese di gennaio 2010 cessano infatti molte esenzioni in varie
materie, con ciò riscrivendosi buona parte degli articoli del Testo
unico delle spese di giustizia (D.Lgs. 115/2002). Il maggior introito
per le casse della giustizia servirà a finanziare un piano straordinario
per lo smaltimento delle cause civili arretrate.
Questo è l’intento del governo in carica e non ci resta che aspettare le successive mosse.
Mosse che in materia di processo penale saranno sicuramente i
ricorsi alle prescrizioni brevi in modo da cancellare numerosi processi mai iniziati o in essere e che lasceranno senza condanna o assoluzione presunti rei.
Insomma una nuova telenovella del variegato mondo della giustizia italiana che non arriverà certamente lontano senza una visione
riformista organica e completa.
Chi vivrà vedrà!
diritto e procedura
Civile
Il procedimento sommario di cognizione
13
Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Dall’azione collettiva risarcitoria
all’azione di classe
19
Aldo Corvino
Dottore in giurisprudenza
Donazione indiretta
22
Nota a Cass., sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983
Alessandro Zampaglione
Avvocato
L’onore della persona: tra realtà e opera di fantasia 27
Nota a Trib. Napoli, sez. I-bis, 24 giugno 2009, ord., Giud. L. Tricomi
Chiara Ianniruberto
Avvocato
Rassegna di legittimità
34
A cura di Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Rassegna di merito
A cura di Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Mario De Bellis
Donato Palmieri
Avvocati
37
civile
Donato Palmieri
Avvocato
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
●
Il procedimento sommario
di cognizione
● Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
2 0 0 9
13
Sommario: Premessa – 1. Ambito di applicazione – 2. Atti introduttivi – 3. Ipotesi di impossibilità di
emanazione dell’ordinanza – 4. Cumulo processuale – 5. Istruzione sommaria – 6. Decisione – 7. Appello – 8. Osservazioni critiche.
Premessa
La riforma del 2009 ha introdotto, con gli
artt. 702 bis-702 quater c.p.c., un procedimento sommario di cognizione, alternativo a quello ordinario, ma
con la medesima finalità di tutela dichiarativa.
L’art. 702 quater, infatti, espressamente afferma che
l’ordinanza sommaria (purché – ovviamente – non impugnata) “produce gli effetti di cui all’art. 2909 c.c”.;
da ciò emerge che trattasi di un istituto del tutto parallelo agli altri procedimenti sommari, dai quali diverge
per alcuni profili strutturali, ma non nel risultato1.
1. Ambito di applicazione
L’ambito di applicazione del nuovo procedimento
coincide con le cause attribuite alla decisione monocratica del Tribunale (art. 702-bis c.p.c.): restano quindi
escluse le controversie che, ex art. 50-bis c.p.c., sono
attribuite alla decisione del Tribunale in composizione
collegiale.
È importante evidenziare che, al contrario di quanto
accade per il decreto ingiuntivo e per la convalida di
sfratto, ogni tipo di domanda può essere proposta nelle
forme del rito sommario2.
Possono essere proposte, quindi, domande di mero
accertamento, di condanna e costitutive; il procedimento sommario può avere ad oggetto qualunque petitum
mediato ed immediato, purché la controversia non sia
affidata alla decisione del collegio.
Il rito sommario si applica, peraltro, solo alle controversie soggette al rito ordinario e di competenza del
tribunale.
Infatti, per l’ipotesi in cui il giudice ritenga necessaria
una istruzione piena, l’art. 702-ter, comma 3, c.p.c. prevede che venga fissata l’udienza di cui all’art. 183 c.p.c.:
ora, questa udienza si ha solo nel processo di rito ordinario di primo grado innanzi al tribunale.
Si deve, pertanto, escludere che possa essere trattata
con il rito sommario:
a) la causa di competenza del tribunale in grado di appello, in quanto ad essa si applicano le norme del processo di appello, incompatibili con quelle in esame;
civile
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1 Cfr. F.P.Luiso, Diritto processuale civile, Milano, 2009, p. 111. In
letteratura, sul procedimento sommario di cognizione: G. Balena, La
nuova (pretesa) riforma della giustizia civile, in // giusto processo civile, 2009; G. Balena, // procedimento sommario di cognizione, in
Foro it., 2009, V; R. Caponi, Un modello ricettivo delle prassi migliori: il procedimento sommario di cognizione (artt. 702-bis ss. c.p.c.),
in Foro it., 2009, V..
2F.P.Luiso, op. cit.,p. 111.
14
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
b) la controversia di competenza del giudice di pace, in
quanto nel relativo procedimento non è prevista
l’udienza ex art. 183 c.p.c.;
c) la controversia assoggettata ad un rito speciale (lavoro, locazioni, sanzioni amministrative, etc.), ancora una volta perché non esiste una udienza disciplinata ex art. 183 c.p.c3.
2. Atti introduttivi
La fase introduttiva – fatta salva l’utilizzazione del
ricorso anziché della citazione – coincide con quella del
processo a cognizione piena: il ricorso deve contenere
gli stessi elementi della citazione (con l’ovvia esclusione
della fissazione della data dell’udienza).
Il ricorso, con il decreto di fissazione dell’udienza,
deve essere notificato al convenuto almeno trenta giorni
prima della data fissata per lo svolgimento dell’udienza,
e il convenuto deve costituirsi almeno dieci giorni prima
della data stessa.
L’art. 702-bis, IV comma, c.p.c. ripete sostanzialmente quanto previsto dall’art. 167 c.p.c.; è possibile
anche la chiamata di un terzo in causa4.
È vero che l’art. 702-bis, V comma, c.p.c. parla solo
di “chiamata in garanzia”, ma pare ragionevole ritenere
che il legislatore abbia inteso, con tale espressione, richiamare l’intero art. 106 c.p.c., non essendovi ragione
per escludere la chiamata per comunanza di causa.
In realtà, l’art. 702-bis c.p.c. delinea una fase introduttiva del procedimento sommario che coincide con
quella del processo a cognizione piena, posto che, ex
art. 702-ter, comma 3, c.p.c., alla prima udienza, si può
avere un mutamento del rito sommario in rito a cognizione piena, senza regressione del processo agli atti introduttivi.
È quindi naturale che questi ultimi debbano coincidere con quelli del processo a cognizione piena, altrimenti una regressione del processo, in caso di mutamento di rito, non potrebbe essere evitata5.
Vi è semmai da notare che, ove si abbia il passaggio
dal rito sommario al rito a cognizione piena, il convenuto avrà visto sacrificato il termine a difesa proprio
dell’art. 163-bis c.p.c., in quanto, per una scelta insindacabile dell’attore e per questi non onerosa in alcuna
direzione, avrà avuto a disposizione solo venti giorni per
compiere le stesse attività per le quali, normalmente, ha
ottanta giorni a disposizione.
Il procedimento è disciplinato dall’art. 702-ter c.p.c.,
che contiene le disposizioni più rilevanti dell’istituto in
3 Ibidem, p. 112. A. Carratta, in C. Mandrioli, A. Carratta, Come
cambia il processo civile, Torino, 2009, p. 135 ss.
4 Ibidem.
5 Ibidem, p. 113. C. Consolo, Una buona «novella» al c.p.c.: la riforma del 2009 (con i suoi artt. 360 bis e 614 bis) va ben al dì là della
sola dimensione processuale, in Corr. giur., 2009, p. 737 ss., p. 742
s.; C. Consolo, La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri
profili significativi a prima lettura, in Corr. giur., 2009, p. 883 ss.
c i v i l e
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F O R E N S E
esame: i lineamenti fondamentali sono quelli del proce­
dimento sommario.
Il procedimento sommario è un processo di cognizione, struttural­mente diverso, ma identico nel risultato
al processo a cognizione piena.
In effetti, i presupposti processuali generali, propri
del processo dichia­rativo, valgono anche per il procedimento sommario: ad essi si ag­g iunge il presupposto
processuale speciale, proprio dell’istituto in esame, che
è costituito dall’appartenenza della controversia alla
deci­sione monocratica del tribunale.
Parallelamente, poiché gli effetti dell’ordinanza prevista dall’art. 702-ter, comma 5, c.p.c., sono gli effetti
di una sentenza di uguale contenuto, la disciplina generale del processo dichiarativo vale anche per il procedi­
mento sommario.
3. Ipotesi di impossibilità di emanazione dell’ordinanza
Le ipotesi, nelle quali il procedimento non può portare all’emanazione dell’ordinanza prevista dall’art. 702ter, comma 5, c.p.c., sono raggruppate dal legislatore,
nei primi quattro commi dell’art. 702-ter c.p.c.:
a) Incompetenza.
In primo luogo, il tribunale adito può essere incompetente: in tal caso (comma primo), esso pronuncia ordinanza dichiarativa di incompetenza.
La ragione per la quale il legislatore disciplina
espressa­mente solo una delle molteplici fattispecie di
chiusura in rito del processo, sta nella contestuale modifica che la riforma ha introdotto in relazione ai provvedimenti sulla competenza, che hanno la forma dell’ordinanza anziché quella della sentenza6.
Se, invece, il giudice ritiene di essere carente di giurisdizione, o che la controversia sia devoluta ad arbitri,
o che vi sia un difetto di legittimazione, etc., lo dichiarerà con ordinanza, se sarà seguita la via del rito sommario, o con sentenza, se si avrà la trasformazione del
rito ex art. 702 ter, III comma, c.p.c;
b) Inammissibilità.
Se la domanda appartiene alla competenza del tribunale adito, ma deve essere decisa collegialmente, il giudice, con ordinanza non impugnabile, la dichiara inammissibile.
In realtà, poiché non sembra sussistere in tal caso un
diritto ad una decisione sommaria, si ritiene che l’ordinanza di inammissibilità sia insuscettibile di controllo,
analogamente a quanto accade per il decreto di cui
all’art. 640 c.p.c7.
Nell’ipotesi inversa, quando, cioè, il giudice pronuncia con rito sommario su una controversia che appartie-
6 Ibidem. P. G. De Marchi, Il nuovo processo civile, Milano, 2009, p.
403 ss.; R. Giordano, in R. Giordano, A. Lombardi, Il nuovo processo civile, Roma, 2009, p. 551 ss.
7 Ibidem, p. 114. F. P. Luiso, Il procedimento sommario di cognizione,
in www.judicium.it.
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
ne alla decisione collegiale del tribunale, impugnata
l’ordinanza, la corte di appello, che dovesse dichiarare
sussistente un tale errore, deve chiudere in rito il processo, come avrebbe dovuto fare il giudice di primo grado.
Se, infatti, il vizio è tale da non consentire una decisione di merito in primo grado, ovviamente esso non
consente una decisione di merito neppure in appello: non
vi è alcun motivo per il quale il difetto processuale abbia
in appello un trattamento diverso da quello che avrebbe
dovuto avere in primo grado.
c) Istruzione ordinaria.
Se per decidere la controversia è necessaria “un’istruzione non sommaria”, il giudice fissa l’udienza di cui
all’art. 183 c.p.c., con ordinanza non impugnabile,
quindi non modificabile né revocabile.
Se tale scelta è nel senso che la causa deve essere
istruita in via ordinaria, nessun controllo è possibile;
l’ordinanza non può essere modificata o revocata nel
corso del processo di primo grado, ed ovviamente nessuna censura può essere avanzata con l’atto di appello8.
4. Cumulo processuale
Con riferimento alla domanda riconvenzionale, ai
sensi dell’art. 702-ter, comma 2, c.p.c., se la domanda,
oggetto della riconven­zionale, deve essere decisa dal
collegio, il giudice la dichiara inammis­sibile; ai sensi
dell’art. 702-ter, comma 4, c.p.c., se la causa relativa
alla domanda riconvenzionale richiede un’istruzione
non sommaria, il giu­d ice ne dispone la separazione
dalla principale, e fissa per essa l’udienza di cui
all’art. 183 c.p.c.
Il principio che si ricava dalle due disposizioni normative sopra indicate non è quello del simultaneus
processus, ma quello della separazione.
In presenza dì cause, sia pur connesse, ma delle quali alcune non possono per ragioni di diritto (perché a
decisione collegiale) o per ragioni di fatto (perché necessitano di un’istruzione non somma­ria) essere decise con
il rito sommario, la scelta del legislatore, in linea di
principio, non è quella del cumulo con scelta di un rito
ex art. 40 c.p.c., ma la separazione.
Quanto previsto espressamente per la do­manda riconvenzionale deve essere esteso anche alle altre ipotesi
di cumulo.
Questa soluzione può tuttavia porre problemi in
caso di connes­sione forte o per pregiudizialità, perché
qui il sistema deve garantire, a chi la richiede, la coerenza fra le decisioni.
L’unica soluzione pensabile è che, in caso di cumulo
per connes­sione forte, e quindi di cumulo non separa-
8 Ibidem, p. 115. S. Menchini, L’ultima «idea» del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in www.judicium.it.
2 0 0 9
15
bile, la necessità di istruzione non sommaria di una
delle cause, comporta il mutamento del rito, da sommario in rito a cognizione piena, per tutte9.
5. Istruzione sommaria
Alla decisione sommaria è dedicato l’art. 702-ter,
comma 5, c.p.c., secondo il quale «il giudice, sentite le
parti, omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno
agli atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto
del provvedimento richiesto, e provvede con ordinanza
all’accoglimento o al rigetto delle domande».
L’art. 702-ter, V comma, c.p.c., per descrivere l’istruzione sommaria, ri­porta le stesse espressioni utilizzate
dall’art. 669-sextes, comma 1, c.p.c. a proposito
dell’istruzione cautelare, con la seguente differenza: qui
si parla di “atti di istruzione rilevanti in relazione all’oggetto del provve­dimento richiesto”, mentre li’ si parla di
“atti di istruzione indispensa­bili in relazione ai presupposti e ai finì del provvedimento richiesto”.
La diversità è significativa: nel procedimento cautelare, per ovvie ragioni di celerità, occorre limitare
l’istruzione agli atti indispensabili; e l’istruzione va calibrata in relazione al tipo di periculum in mora e,
correlativamente, al tipo di effetti che il provvedimento
cautelare deve produrre per ovviare a tale periculum10.
Qui, invece, l’istruzione attiene ai fatti rilevanti con
riferimento all’oggetto della domanda.
Una prima conclusione è possibile: anzitutto, il procedimento sommario è tale per le modalità dell’istruzione, e non per l’oggetto, che corrisponde in tutto e per
tutto a quello che sarebbe stato l’oggetto di un processo
a cognizione piena se, invece del ricorso, fosse stata
proposta una citazione.
In secondo luogo, l’istruzione ha ad oggetto i fatti
rilevanti, e dunque è sommaria non perché parziale (in
quanto appunto tutti i fatti rilevanti sono oggetto di
istruzione), ma perché non segue le regole del secondo
libro del c.p.c., e dunque è deformalizzata, come accade
per il processo cautelare.
Il punto più delicato ed incerto del nuovo procedimento sommario sta proprio nel comprendere quali
siano le condizioni che possono giustificare un’istruzione non regolata dalle norme, ma rimessa alle scelte del
giudice.
Nel processo cautelare, la deformalizzazione
dell’istruzione è funzionale alla necessità di una decisione veloce, ed è perfettamente coerente con l’inesistenza di un giudicato, sicché quanto è stato acqui­sito
sommariamente in quella sede può essere replicato, nei
9 Ibidem, p. 116. G. Olivieri, Il procedimento sommario di cognizione
(primissime brevi note), in www.judicium.it; G. Olivieri, Al debutto
il rito sommario di cognizione, in Guida al diritto, n. 28 del 2009.
10 Ibidem, p. 117.
civile
Gazzetta
16
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
modi della cognizione piena, all’interno del giudizio di
merito11.
Qui, invece, ab­biamo un provvedimento che può
portare al giudicato, e dunque il senso di un’istruzione
deformalizzata deve essere cercato in un’altra direzione.
Probabilmente, dovrebbe essere la sempli­cità dell’istruzione ad essere decisiva.
Quindi, con il rito sommario possono essere trattate le cause “semplici”: vuoi perché la domanda è manifestamente fondata o infondata (analogamente a quanto accade per la decisione in camera di consiglio nel
giudizio di cassazione ai sensi dell’art. 375 n. 5 c.p.c.),
vuoi perché si tratta di documentazione di puro diritto
o documentazione istruita, vuoi perché vi siano uno
solo o pochi fatti controversi da istruire, e le prove sono
di facile assunzione.
6. Decisione
L’ordinanza di accoglimento o di rigetto è suscettibile di produrre gli effetti di cui all’art. 2909 c.c., se non
appellata.
Essa (art. 702-ter, comma 6, c.p.c.) è provvisoriamente esecutiva, e costituisce titolo per la iscrizione
dell’ipoteca giudiziale, e per la trascrizione (più frequentemente per l’annotazione, in quanto la tra­scrizione
della sentenza è fenomeno relativamente raro:
art. 2651 c.c.)12.
Ovviamente, il giudice provvede sulle spese del processo (art. 272-ter, comma 7, c.p.c.).
L’ordinanza sommaria è suscettibile di appello, nel
termine breve di trenta giorni, decorrente non solo dalla notificazione, ma anche dalla comunicazione, se effettuata antecedentemente alla notificazione.
In mancanza (patologica) della comunicazione sextes
che deve avvenire con la trasmissione del testo integrale
dell’ordinanza: art. 134 c.p.c. sextes si applica il termine lungo di sei mesi ex art. 327, comma 1, c.p.c.
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per l’ammissibilità delle nuove prove è prevista alternativamente:
a) nella rilevanza delle stesse;
b) nella dimostrazione che la parte non le ha potute
proporre nel corso del processo di primo grado per
causa a lei non imputabile.
In secondo luogo, quanto previsto nell’ultima frase dell’art. 702-quater c.p.c. (“Il presidente del collegio può delegare l’assunzione dei mezzi istruttori ad
uno dei componenti del collegio”), dimostra che l’attività istruttoria nell’appello avverso un’ordinanza
sommaria è pre­v ista dal legislatore come più frequente che nell’appello ordinario, altrimenti non si sarebbe sentita la necessità di prevedere una delega istruttoria.
Dunque, nelle intenzioni del legislatore siamo in
presenza di un appello “aperto”13.
In terzo e fondamentale luogo, i procedi­menti sommari di cognizione – idonei quindi a produrre un giudi­
cato né più né meno come il processo a cognizione piena – intanto sono conformi alle previsioni costituzionali, in quanto possa sempre essere chiesta ed ottenuta la
conversione del processo sommario in processo a cognizione piena.
Ebbene, sembra evidente che, al di là degli elementi
esegetici sopra indicati, l’appello avverso un’ordinanza
sommaria debba essere costruito come un giudizio di
primo grado a cognizione piena, pena la incompatibilità del processo sommario con i principi costituzionali.
7. Appello
Secondo l’art. 702-quater c.p.c., in appello «sono
ammessi nuovi mezzi di prova e nuovi documenti quando il collegio li ritiene rilevanti ai fini della decisione,
ovvero la parte dimostra di non aver potuto proporli nel
corso del procedimento sommario per causa ad essa non
imputabile».
Questa disposizione fa sorgere alcuni problemi, eppure è centrale per dare al procedimento sommario un
corretto inquadra­mento dal punto di vista del sistema.
Innanzitutto, occorre sottolineare che l’art 702-quater c.p.c. cade in un vizio logico; infatti, la fattispecie
8. Osservazioni critiche
In realtà, non vi è dubbio che una analisi critica
dell’istituto de quo vada effettuata cercando il dialogo
con le esperienze europee, per tracciare le linee di una
possibile armonizzazione.
In una prospettiva europea, guadagna particolare
attenzione l’idea di accelerare la tutela giurisdizionale,
attraverso un processo a cognizione piena ma elastico,
che affidi lo svolgimento preferibile nel caso concreto,
alle determinazioni discrezionali del giudice14.
In ogni ordinamento si ritrova un processo «ordinario», con le seguenti caratteristiche15:
a) esso è atipico quanto a diritti che ne possono costituire l’oggetto;
b) esso disciplina il contraddittorio nel modo più
complesso nell’ordinamento di riferimento;
c) il provvedimento finale è dotato del maggior grado di stabilità nell’ordinamento di riferimento;
d) esso serve tendenzialmente solo a stabilire chi ha
torto e chi ha ragione tra le parti. Nei vari ordinamenti
11 Ibidem.
12 Ibidem, p, 118. Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora
una legge a costo zero (note a prima lettura), Foro it., 2009, V,
221.
13 Ibidem, p. 119.
14 R. Caponi, Un nuovo modello di trattazione a cognizione piena: il
procedimento sommario ex art. 702-bis c.p.c., in www.judicium.it,
p. 5.
15 Ibidem, p. 7.
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di riferimento, il processo ordinario è sempre un processo a cognizione piena.
Il problema riguarda quindi la distinzione tra i procedimenti sommari, da un lato, e, dall’altro lato, i modelli di trattazione della causa più semplici rispetto a
quello ordinario (a cominciare dal procedimento contumaciale), nonché i processi speciali di cognizione.
La difficoltà della distinzione risiede nel fatto che,
frequentemente, i modelli di trattazione semplificati e i
processi speciali di cognizione abbinano, alla funzione
di accertare definitivamente chi ha ragione e chi ha
torto tra le parti, finalità ulteriori che sono in tutto o in
parte comuni anche ai procedimenti sommari: economia
dei giudizi, l’urgenza del provvedere, neutralizzazione
dell’abuso del processo.
Questa delimitazione del campo problematico è
confermata da una prospettiva europea16.
Nel ri­volgere la propria attenzione alla possibilità di
accelerare la tutela giurisdizionale dei diritti, lo studioso del processo civile interessato a fotografare le varie
esperienze europee per tracciare le linee di una possibile armonizzazione, è sollecitato a studiare contestualmente, esprimendosi secondo un modo di pensare italiano, sia i procedimenti sommari (cautelari e non cautelari), sia i processi speciali a cognizione piena, sia i
modelli di trattazione e di decisione, che costituiscono
varianti rispetto al corso normale del processo ordinario
tra parti costituite in giudizio.
Emerge, quindi, un’ampia nozione di «procedimento
speciale», che, sotto il profilo strutturale, inquadra i
procedimenti che hanno una disciplina diversa da quella del processo ordinario di cognizione tra parti attive
in giudizio17.
Sotto il profilo funzionale, le differenze di regolamentazione sono rivolte ad assicurare una tutela giurisdizionale dei diritti accelerata e processualmente più
economica del corso normale del rito ordinario.
Tale prospettiva induce a rimeditare quei criteri distintivi tra processi a cognizione piena e procedimenti
sommari, i quali fanno perno più sull’assetto particolare dell’ordinamento da cui proviene l’osservatore, che
sull’esigenza di individuare una soluzione armonizzante
sul piano europeo.
Se applichiamo questa impostazione metodologica,
non si tarderà a scoprire che maggiori possibilità di
dialogo con le altre esperienze europee avrà un criterio
che faccia perno prima sulle funzioni specifiche cui ri-
16 Ibidem. Ricci, La riforma del processo civile, Torino, 2009, p. 103
ss.
17 Rispettando questa impostazione, la definizione proposta abbraccia,
oltre ai procedimenti sommari, processi speciali a cognizione piena:
procedure d’urgence a jour fixe nell’esperienza francese; fast track
nell’esperienza inglese; juicio verbal nell’esperienza spagnola. Abbraccia poi anche i procedimenti e le sentenze contumaciali: jugement
par défaut, judgment by default.
2 0 0 9
17
sponde la tutela sommaria, rispetto alla funzione di
accertamento del diritto dedotto in giudizio propria del
processo ordinario, e poi inserisca procedimenti che
hanno una disciplina diversa da quest’ultimo tra i procedimenti a cognizione piena oppure tra i procedimenti
sommari, a seconda che nella loro destinazione prevalga
la funzione di accertare semplicemente chi ha ragione e
chi ha torto tra le parti, rispetto ad altre specifiche funzioni, che sono in tutto o in parte comuni anche ai
procedimenti sommari.
Infatti, sulle esigenze di conseguire economia processuale, di provvedere con urgenza, di neutralizzare
l’abuso del processo e sugli strumenti processuali per
realizzarle, si può magnificamente sviluppare un discorso in comune con le altre esperienze europee.
In altri termini, è preferibile definire i processi a
cognizione piena muovendo dalla definizione delle finalità dei procedimenti sommari, e non viceversa18.
In relazione al nuovo procedimento sommario di
cognizione, occorre chiedersi quale sia il reale significato da attribuire all’aggettivo “sommario”: se, cioè, la
nuova forma di tutela debba essere sistematicamente
collocata nell’ambito delle tutele sommarie (non cautelari), accanto al procedimento per decreto ingiuntivo ed
al procedimento per convalida di licenza o di sfratto.
Benché l’inserimento nel libro IV del c.p.c. sembrerebbe offrire argomenti in questo senso, a ben vedere,
ostano, alla collocazione all’interno del sistema delle
tutele sommarie non cautelari, una serie di ragioni oltremodo decisive19.
In primo luogo, alla luce del più generale disegno che
ha ispirato questa riforma del 2009, il procedimento in
esame è stato assunto come uno dei tre modelli processuali al quali il legislatore delegato dovrà fare riferimento, per incardinare “i procedimenti civili di natura
contenziosa autonomamente regolati dalla legislazione
speciale”, e, in particolare, quei “procedimenti, anche
in camera di consiglio, in cui sono prevalenti caratteri
di semplificazione della trattazione e dell’istruzione
della causa”.
Inoltre, per questo procedimento, è stata espressamente esclusa “la possibilità di conversione nel rito ordinario”; ciò è da intendere nel senso che gli atti e i relativi provvedimenti esauriscono il primo grado di giudizio e, al pari delle sentenze, sono sottoposti al controllo solo da parte del giudice d’appello.
In sostanza, i principi di delega, nella parte in cui
richiamano i caratteri (prevalenti) di “semplificazione
della trattazione e dell’istruzione della causa, nonché
l’impossibilità di conversione nel rito ordinario”, rendono evidente la volontà di introdurre un nuovo modello
18 R. Caponi, op. cit., p. 9.
19G. Arieta, Il rito semplificato di cognizione, in www.judicium.it,
p. 1.
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semplificato di procedimento, da utilizzare in alternativa al rito ordinario, per la trattazione di controversie su
diritti soggettivi che presentino caratteristiche oggettive
compatibili con un rito semplificato, da decidersi con
provvedimento idoneo al giudicato sostanziale.
La delega sulla revisione dei riti si colloca nel perimetro dei processi di revisione idonei al giudicato sostanziale: aver richiamato, come uno dei tre modelli di
riferimento, il procedimento “sommario”, sta a significare che quest’ultimo si colloca al di fuori delle tutele
sommarie.
Ciò posto, funzione di tale procedimento sembra
essere quella di consentire l’accelerazione dell’esercizio
dei poteri cognitivi decisori, con la formazione di un
accertamento idoneo al giudicato sostanziale, previa
selezione, da parte del giudice, della singola controversia
ritenuta, caso per caso, compatibile con la decisione
semplificata.
In questo senso, la formazione anticipata del titolo
esecutivo (che ha la stessa valenza di provvisorietà della
sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva ex
lege) appare una conseguenza della scelta selettiva e
della equiparazione della decisione semplificata alla
sentenza di primo grado20.
Ne segue che il procedimento sommario di cognizione, ex artt. 702-bis ss. c.p.c., è in realtà un processo a
cognizione piena, poiché nella sua destinazione prevale
la funzione di accertare definitivamente chi ha ragione e
chi ha torto tra le parti21, rispetto alle funzioni che sono
proprie dei procedimenti sommari, ma sono completamente assenti dal profilo legislativo di questo istituto22.
20 Ibidem, p. 2.
21 R. Caponi, op. cit., p. 10.
22 B. Sassani, R. Tiscini, Prime osservazioni sulla legge 18 giugno 2009,
n. 69, in www.judicium.it; F. Tommaseo, II procedimento sommario
di cognizione, in Previdenza forense, 2009.
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●
Dall’azione collettiva
risarcitoria all’azione
di classe
● Aldo Corvino
Dottore in giurisprudenza
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SOMMARIO: 1. Azione di classe – 2. Legittimazione
ad agire – 3. Meccanismo di determinazione della classe – 4. Oggetto del giudizio – 5. In attesa della giurisprudenza
1. Azione di classe
L’Art. 49 della L. 23 luglio 2009 n. 99 che istituisce
e disciplina l’azione di classe, modificando l’art. 140 bis
del codice del consumo, è entrato in vigore il primo
gennaio 2010. Si è così concluso il travagliato iter iniziato con l’approvazione della finanziaria 2008, che prevedeva per la prima volta, con l’introduzione dell’art. 140 bis,
uno strumento di tutela collettiva risarcitoria1.
Tali azioni, con le più diverse varianti riscontrabili
nei sistemi adottati in altri paesi, hanno la funzione di
consentire che una pluralità di diritti soggettivi, il più
delle volte di modesto valore, vengano fatti valere con
un’unica azione2. Si pensi ai danni cagionati agli utenti
a causa del black out; oppure a quelli cagionati agli assicurati dall’aumento dei premi causato da un’accordo di
cartello; oppure, ancora, ai danni causati a tutti gli acquirenti da un prodotto difettoso. In tali casi, in mancanza di uno strumento di tutela collettiva risarcitoria
sarebbe stato necessario per i singoli esercitare azioni
individuali.
L’azione di classe tutela:
a) i diritti contrattuali di una pluralità di consumatori e utenti che versano nei confronti di una stessa impresa in situazione identica, inclusi i diritti relativi a
contratti stipulati ai sensi degli articoli 1341 e 1342 del
codice civile;
b) i diritti identici spettanti ai consumatori finali di
un determinato prodotto nei confronti del relativo produttore, anche a prescindere da un diretto rapporto
contrattuale;
c) i diritti identici al ristoro del pregiudizio derivante
agli stessi consumatori e utenti da pratiche commerciali
scorrette o da comportamenti anticoncorrenziali.
Per l’esercizio di tali diritti è ora disponibile per i
consumatori, in aggiunta alle ordinarie azioni individua-
1La legge finanziaria 2008 (L. 24 dicembre 2007 n. 244) ha istituito e
disciplinato per la prima volta nel nostro ordinamento uno strumento di tutela collettiva risarcitoria introducendo nel corpo del codice
del consumo l’art. 140 bis, rubricato “azione collettiva risarcitoria”.
Il comma 447 della legge finanziaria per il 2008 prevedeva originariamente che tale azione entrasse in vigore dal mese di giugno 2008.
Successivamente, l’art. 36 del decreto-legge 25 giugno 2008, n.112
ha previsto che tale disciplina entrasse in vigore dal primo gennaio
2009. L’art.19 del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 207 (c.d. decreto milleproroghe) ha posticipato il termine al primo luglio 2009.
Infine, il decreto-legge 1 luglio 2009, n.78 ha nuovamente posticipato l’entrata in vigore al primo gennaio 2010. La disciplina dell’azione
collettiva risarcitoria, tuttavia, è mai entrata in vigore poiché la L. 23
luglio 2009, n. 99 ha riformulato l’art. 140 bis del codice del consumo istituendo l’azione di classe, in vigore dal primo gennaio 2010.
2 Per quanto riguarda le funzioni degli strumenti di tutela collettiva risarcitoria, vedi, tra gli altri, Giussani, Azioni collettive risarcitorie nel
processo civile, Il Mulino, 2008, 29 ss..
civile
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li, la possibilità di far valere i propri diritti con “l’azione
di classe”. In particolare, ciascun componente della
classe, anche mediante associazioni cui dà mandato o
comitati cui partecipa, è legittimato ad agire in giudizio
proponendo la domanda con atto di citazione, notificato anche all’ufficio del pubblico ministero. La competenza spetta al tribunale ordinario avente sede nel capoluogo di regione in cui ha sede l’impresa, ma sono previsti alcuni accorpamenti3.
È previsto che la prima udienza abbia ad oggetto la
decisione circa l’ammissibilità della domanda. La domanda è dichiarata inammissibile quando è manifestamente infondata, quando sussiste un conflitto di interessi ovvero quando il giudice non ravvisa l’identità dei
diritti individuali tutelabili ai sensi del comma 2, nonché
quando il proponente non appare in grado di curare
adeguatamente l’interesse della classe. La ratio di tale
disposizione va ricercata nell’intenzione di evitare azioni infondate, e non sembra potersi ipotizzare il contrasto
con l’art. 24 Cost. dal momento che questo garantisce
l’azione individuale dei singoli, mentre l’azione di classe
rappresenta una tutela aggiuntiva apprestata dall’ordinamento.
Nel caso in cui la domanda sia ritenuta ammissibile
il Tribunale fissa termini e modalità della più opportuna pubblicità, ai fini della tempestiva adesione degli
appartenenti alla classe, fissando altresì un termine
perentorio, non superiore a centoventi giorni dalla scadenza di quello per l’esecuzione della pubblicità, entro
il quale gli atti di adesione devono essere depositati in
cancelleria.
Se all’esito della trattazione il Tribunale accoglie la
domanda pronuncia sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’articolo 1226 del codice civile, le somme
definitive dovute a coloro che hanno aderito all’azione
o stabilisce il criterio omogeneo di calcolo per la liquidazione di dette somme.
Le questioni problematiche concernono: la legittimazione ad agire, il meccanismo di determinazione della
classe e l’oggetto del giudizio.
3Il quarto comma dell’art. 140-bis del codice del consumo prevede
che: “La domanda è proposta al tribunale ordinario avente sede nel
capoluogo della regione in cui ha sede l’impresa, ma per la Valle
d’Aosta è competente il tribunale di Torino, per il Trentino-Alto
Adige e il Friuli-Venezia Giulia è competente il Tribunale di Venezia,
per le Marche, l’Umbria, l’Abruzzo e il Molise è competente il Tribunale di Roma e per la Basilicata e la Calabria è competente il
Tribunale di Napoli”.
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2. Legittimazione ad agire
Per quanto riguarda la legittimazione il legislatore
dell’azione di classe ha operato una scelta sostanzialmente diversa rispetto alla disciplina precedente. Difatti, mentre l’azione collettiva risarcitoria approvata con
la legge finanziaria per il 2008 attribuiva la legittimazione ad agire alle associazioni riconosciute ed alle associazione e comitati adeguatamente rappresentativi
degli interessi fatti valere, la recente modifica prevede
che possa agire “ciascun componente della classe, anche
mediante associazioni cui dà mandato o comitati cui
partecipa”. Le soluzioni che si riscontrano negli altri
ordinamenti vanno dall’attribuzione della legittimazione ad ogni singolo danneggiato alla legittimazione limitata alle associazioni riconosciute. La scelta operata
dalla nuova normativa è diversa dalla precedente, non
tanto per quanto riguarda la legittimazione dei singoli,
tenuto conto che già la precedente normativa apriva uno
spiraglio a questa soluzione potendo un comitato essere
formato anche da due persone appartenenti alla classe4,
ma per l’eliminazione delle associazioni dal novero dei
legittimati ad agire che potrebbe comportare una minore efficacia dello strumento di tutela collettiva.
3. Meccanismo di determinazione della classe
Per quanto riguarda la determinazione della classe,
i sistemi adottati da altri ordinamenti sono caratterizzati dalla contrapposizione tra meccanismi di opt- in ed
opt-out5 . Nel caso di opt-out il proponente deduce in
giudizio da subito i diritti di tutti i danneggiati e chi non
vuole partecipare al giudizio collettivo ha l’onere di
comunicare la propria volontà di esserne escluso. Viceversa, il meccanismo di opt-in prevede che, dopo la
proposizione dell’azione da parte dell’attore collettivo,
chi desideri avvalersi di detta tutela lo deve comunicare.
Sia il precedente art. 140 bis che la disciplina vigente
prevedono il meccanismo di opt-in, ma con la sostanziale differenza che, mentre nella precedente formulazione l’adesione era consentita fino all’udienza di precisazione delle conclusioni in grado d’appello, dando
luogo a cospicui problemi interpretativi, la nuova versione prevede che con l’ordinanza con cui ammette
l’azione il giudice fissa un termine perentorio entro il
quale gli atti di adesione devono essere depositati in
cancelleria.
4 Così, con riferimento al testo precedente, Chiarloni, Il nuovo
art. 140 bis del codice del consumo: azione di classe o azione collettiva?, in www.judicium.it, §5.
5Il modello di riferimento di diritto comparato, la class action statunitense, prevede un meccanismo di opt-out. Vedi, tra tutti, lo studio
di Consolo, Class Action fuori dagli USA? in Riv. dir. civ., 1993,
609.
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4. Oggetto del giudizio
La questione più spinosa, infine, è quella relativa
all’identificazione dell’oggetto del giudizio. Ènecessario
che sia chiaro cosa viene dedotto dall’attore nel processo collettivo e su cosa il giudice è tenuto a pronunciarsi.
Proprio su questo punto il testo precedentemente approvato con la legge finanziaria 2008 presentava numerose
ambiguità.
Nel disciplinare simili strumenti è necessario bilanciare valori difficilmente conciliabili. Da un lato, per
garantire un alto tasso di tutela ai danneggiati sarebbe
necessario affrontare anche le questioni personali nel
processo collettivo in modo da permettere la liquidazione dei singoli crediti risarcitori all’esito di questo; dall’altro, si pone l’esigenza di non rendere eccessivamente
complesso un processo che si presta ad aggregare un
numero indefinito di pretese e quindi di questioni personali da risolvere.
Con riguardo alla precedente normativa, alcuni Autori6 hanno sostenuto che il processo collettivo avrebbe
dovuto accertare solo la questione comune relativa
all’illiceità della condotta del convenuto; altri7 hanno
sostenuto che si sarebbe dovuta accertare l’esistenza dei
singoli diritti, ad eccezione della mera quantificazione,
rimandata ad altra sede.
Con riferimento al testo precedente era tuttavia
chiaro che, avendo previsto il legislatore la possibilità di
aderire all’azione collettiva fino all’udienza di precisazione delle conclusioni in grado d’appello, non era possibile che con l’adesione venissero dedotti in giudizio
nuovi diritti e nuove questioni personali.
Sarebbe stato possibile, quindi, accertare nel processo collettivo unicamente la questione comune relativa
all’illiceità della condotta del convenuto, mentre, sarebbe stato necessario per i singoli proporre giudizi individuali c.d. di completamento per vedersi liquidati i propri
crediti dopo l’esame delle questioni personali.
La nuova disciplina dell’azione di classe, invece,
prevede un soluzione chiaramente orientata nel senso di
permettere al processo collettivo (rectius: di classe) di
affrontare anche le questioni personali e di arrivare ad
una sentenza di condanna del convenuto8.
6 Bove, L’oggetto del processo “collettivo” dall’azione inibitoria
all’azione risarcitoria (art.140 e 140 bis del codice del consumo), in
www.judicium.it; Chiarloni, Il nuovo art. 140 bis del codice del
consumo: azione di classe o azione collettiva?, in www.judicium.it.
7 Giussani, L’azione collettiva risarcitoria nell’art. 140 bis C. cons., in
Riv. Dir. Proc., 2008, 1238, il quale sostiene che nel processo collettivo devono sollevarsi anche le eccezioni personali incompatibili con
l’accertamento della responsabilità del convenuto.
8 Così, F. Santagada, La conciliazione dell’azione collettiva risarcitoria:
note a margine di una proposta di riforma dell’Art. 140 bis cod.
consumo, in www.judicium.it. Diversamente, Caponi, La riforma
della “class action”. Il nuovo testo dell’art. 140 bis cod. cons.
nell’emendamento governativo, in www.judicium.it, ritiene che
l’azione di classe, come l’azione collettiva risarcitoria, sia un giudizio
ad assetto variabile.
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21
Infatti, la nuova normativa dispone che ciascun
componente della classe “può agire per l’accertamento
della responsabilità e per la condanna al risarcimento
del danno e alle restituzioni”. E successivamente precisa
che “se accoglie la domanda, il tribunale pronuncia
sentenza di condanna con cui liquida, ai sensi dell’articolo 1226 c.c., le somme definitive dovute a coloro che
hanno aderito all’azione o stabilisce il criterio omogeneo
di calcolo per la liquidazione di dette somme”.
In conclusione, il processo di classe sarà senza dubbio più lungo e complesso di un’azione individuale dal
momento che il giudice potrebbe dover decidere su numerosissimi diritti soggettivi e conseguentemente su
questioni personali inerenti all’an, come la prescrizione,
oppure al quantum, ma, sarà comunque gestibile dal
momento che il giudice potrà avere un quadro cognitivo
della situazione in un tempo ragionevole, essendo previsto un termine più breve per le adesioni.
5. In attesa della giurisprudenza
Sembra che in tal modo possa raggiungersi quel risultato che un Autore9 aveva chiarito con una metafora
sostenendo che l’introduzione di uno strumento di tutela collettiva risarcitoria “equivale all’introduzione, in
una città in cui il trasporto urbano sia compiuto solo da
taxi, della possibilità di offrire anche il trasporto in
autobus”. Difatti, come è evidente che l’autobus è funzionale sia ad un aumento della mobilità complessiva
che ad una riduzione del numero dei mezzi in circolazione, allo stesso modo con l’azione di classe dovrebbero aumentare le possibilità di accesso alla giustizia e,
nello stesso tempo, dovrebbe diminuire l’impatto del
contenzioso seriale sul sistema giustizia in quanto si
riducono le iniziative giudiziali individuali e la ripetizione di attività giurisdizionale.
civile
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9 Giussani, Il consumatore come parte debole nel processo civile tra
esigenze di tutela e prospettive di riforma, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
2005, 536 ss.; Id., Modelli extraeuropei di tutela collettiva risarcitoria, in Riv. trim. dir. proc. Civ., 2007, 1258 ss..
22
D i r i t t o
●
Donazione indiretta
Nota a Cass., sez. II,
12 novembre 2008, n. 26983
● Alessandro Zampaglione
Avvocato
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Cass. sez. II, 12 novembre 2008, n. 26983
DONAZIONE – DONAZIONE INDIRETTA – RILIEVO DELL’ANIMUS DONANDI – FATTISPECIE
La S.C., in una fattispecie nella quale gli eredi di
una defunta chiedevano il rimborso alla cointestataria
di un libretto di risparmio del 50 per cento della somma portata dal libretto, da quest’ultima incassata per
intero, ha enunciato il principio per cui la possibilità
che costituisca donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei
cointestatari – è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’ “animus donandi”, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel
momento della cointestazione, altro scopo che quello
della liberalità.
***
[…Omissis…]
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 18.7.1987 Z.G.,
Z.A.M., T.A. in proprio e quale procuratore speciale di
TA.Gi., T.R. e T.G. convenivano in giudizio dinanzi al
Pretore di Cividale S.F. chiedendone la condanna a restituire loro – quali eredi della zia Z.M. – la somma
capitale di L. 42.504.450, pari alla metà del saldo portato dal libretto di risparmio n. (OMISSIS) acceso presso la Banca Popolare di Cividale e cointestato alla S. ed
a Z.M..
Gli attori assumevano che quest’ultima, deceduta il
(OMISSIS), era in realtà l’unica proprietaria del denaro
depositato in tale libretto, che la S. aveva estinto nove
giorni prima della morte della Z. trattenendosi l’intero
importo di L. 85.008.900 (frutto esclusivamente di risparmi della loro parente), e che la cointestazione di
esso con la S. aveva avuto il solo scopo di facilitare alla
Z., persona anziana, i relativi prelievi.
Costituitasi in giudizio la convenuta chiedeva il rigetto della domanda attrice rilevando che Z.M. era stata
assunta fin dal (OMISSIS) quale collaboratrice domestica dai propri genitori e che – cessato tale rapporto di
lavoro nel (OMISSIS) per il raggiungimento dei limiti
pensionistici – era comunque rimasta a vivere in casa S.,
ricevendo l’assistenza morale e materiale di cui aveva
bisogno; proprio in relazione a ciò la Z. aveva contribuito, sia pure parzialmente, al proprio mantenimento,
versando delle somme di denaro sul libretto cointestato
ad entrambe; pertanto la S. deduceva di essere stata
autorizzata dalla stessa Z. a prelevare il denaro depositato sul libretto, affinchè quella parte dei suoi risparmi
fosse il corrispettivo dell’assistenza materiale e morale
ricevuta nel corso degli anni.
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Interveniva poi volontariamente in giudizio Z.L.
quale coerede di Z.M. aderendo alla domanda attrice.
Il Tribunale di Udine con sentenza del 24.12.2001,
ritenuta l’insussistenza di idonee prove in ordine alla
configurabilità di una donazione indiretta effettuata
dalla Z. in favore della convenuta, condannava quest’ultima alla restituzione in favore degli attori della somma
capitale di L. 42.504.450, con gli interessi legali alla
domanda.
Proposto gravame da parte della S. cui resistevano
G. ed Z.A.M., A., G., R. e TA.Gi. mentre Z.L. restava
contumace, la Corte di Appello di Trieste con sentenza
del 24.1.2004 ha rigettato l’impugnazione.
Per la cassazione di tale sentenza la S. ha proposto
un ricorso articolato in due motivi cui Z.G., Z.A. M.,
T.A., T.G., T.R. e TA.Gi. hanno resistito con controricorso; la ricorrente ha successivamente depositato una
memoria.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente, denunciando
violazione e falsa applicazione degli artt. 769 e 770 c.c.,
e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata
per aver escluso che la fattispecie in esame – costituita
dal versamento da parte della Z. di tutte le proprie sostanze su di un libretto bancario, dalla successiva cointestazione di esso anche al nome della S. e dal materiale affidamento di tale libretto alla medesima – non
fosse qualificabile né come liberalità d’uso ai sensi
dell’art. 770 c.c., comma 2, né come donazione indiretta ex art. 769 c.c., da parte della prima in favore della
seconda.
La S. assume che la Corte territoriale non ha sufficientemente considerato che dall’esame delle deposizioni testimoniali era emersa la continua assistenza per più
di trenta anni assicurata alla Z. dall’esponente garantendole anche un alloggio accogliente e gratuito; era
inoltre risultato che la Z. aveva espresso ripetutamente
la volontà di lasciare tutti i suoi averi, costituiti esclusivamente dal denaro depositato su un libretto bancario,
alla S.; il fatto quindi che nell’anno (OMISSIS), ovvero
molti anni dopo l’apertura del libretto, la Z. avesse deciso di cointestarlo alla S. che ne aveva l’esclusiva disponibilità non poteva che rappresentare una concreta
espressione di tale intento donativo.
La ricorrente inoltre rileva che la sufficienza della
prova addotta dall’esponente in ordine alla sussistenza
nella fattispecie di una donazione avrebbe dovuto essere valutata, sul piano probatorio, in relazione al fatto
che la Z. aveva, quali successori, parenti di grado non
stretto (ovvero figli di fratelli) e che il rapporto intrattenuto con essi era alquanto superficiale e sporadico;
pertanto era del tutto comprensibile che la Z., in assenza di discendenti diretti, avesse ritenuto sufficiente la
cointestazione del libretto ed il suo affidamento alla S.
al fine di beneficiare quest’ultima.
La censura è infondata.
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Il giudice di appello ha premesso in linea di fatto che
Z. M., nata nel (Omissis) e rimasta nubile, era stata
assunta quale collaboratrice familiare dai genitori della
S. restando ad abitare nella loro casa, e che ella dal
(Omissis), hanno della morte della madre dell’attuale
ricorrente, era sempre stata accudita da quest’ultima che
si era prodigata nella sua assistenza materiale e morale;
tuttavia la Corte territoriale, conformemente a quanto
ritenuto dal giudice di primo grado, ha escluso che la Z.
con il suo comportamento avesse voluto effettuare una
donazione indiretta in favore della S..
In proposito la sentenza impugnata ha rilevato come
elementi pacifici in causa che la metà della somma di
denaro depositata nel libretto cointestato alla S. ed alla
Z. fosse di proprietà di quest’ultima, che l’aveva in buona parte depositata in epoca antecedente alla cointestazione del libretto stesso, avvenuta circa cinque anni
prima del decesso della “de cuius” (ovvero quando costei, ormai invalida, non essendo più in grado di provvedere ai versamenti della sua modesta pensione ed ai
relativi prelievi, provvide ad avvalersi della collaborazione fornitale dalla S.); la cointestazione del libretto,
quindi, non costituiva prova che la Z. avesse inteso
beneficiare la S. per l’assistenza e le cure ricevute da
quest’ultima, considerato che comunque anche la Z.
contribuiva con la propria pensione, almeno in parte,
alle relative spese; in altri termini la S. non aveva fornito la prova, secondo l’assunto del giudice di appello, di
un atto volontario e spontaneo di disposizione patrimoniale in suo favore da parte della Z. in considerazione
dell’assistenza materiale e morale da quest’ultima ricevuta.
Tale convincimento è immune dai profili di censura
sollevati dai ricorrenti in quanto frutto di un accertamento di fatto sorretto da logica e congrua motivazione
in ordine alla insussistenza della prova dell’”animus
donandi” da parte della Z. in favore della S. della metà
della somma di danaro depositata sul libretto cointestato alle due donne.
Al riguardo è opportuno osservare che erroneamente la ricorrente richiama – a sostegno del suo assunto
secondo cui la cointestazione di un libretto bancario e
la disponibilità di esso da parte di uno dei due cointestatari darebbe luogo ad una liberalità d’uso o ad una
donazione indiretta – la sentenza di questa Corte
10.4.1999, n. 3499;
come invero è agevole constatare dalla lettura della
relativa motivazione di tale pronuncia, la possibilità che
costituisca donazione indiretta la cointestazione, con
firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro
depositata presso un istituto di credito, qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere
appartenuta ad uno solo dei cointestatari, è legata all’apprezzamento dell’esistenza dell’”animus donandi” consistente nell’accertamento che, al momento della cointestazione, il proprietario del denaro non avesse altro
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scopo che quello di liberalità, ipotesi invero esclusa
nella fattispecie dal giudice di appello.
Ciò premesso, si rileva che per il resto la censura
della ricorrente si esaurisce inammissibilmente in una
diversa valutazione delle risultanze istruttorie, trascurando in proposito la competenza esclusiva demandata
al giudice di merito anche con riferimento alla sussistenza sia dei presupposti per il ricorso alle presunzioni sia
dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come
fonti di presunzione (vedi “ex multis” Cass. 4.05.2005
n. 9225).
Con il secondo motivo la ricorrente, deducendo violazione di legge e vizio di motivazione, censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che, in assenza di
prova circa la pretesa donazione, metà della somma
prelevata dalla S. continuava ad essere di proprietà della Z. e quindi era entrata a far parte dell’asse ereditario.
La S. assume che in realtà il riferimento all’asse ereditario era erroneo, presupponendo quest’ultimo la
sussistenza di un “relictum” nella specie escluso dal
fatto che, per effetto del prelievo dell’intero deposito da
parte dell’esponente, alla data di apertura della successione nessuna sostanza apparteneva alla “de cuius”.
La censura è infondata.
In proposito la Corte territoriale ha ritenuto l’infondatezza del motivo di appello diretto ad escludere la
legittimazione attiva degli attori quali eredi della Z. ed
a prospettare semmai una responsabilità restitutoria
della S. ex art. 2043 c.c., mancando del tutto la prova
che la Z., qualche giorno prima di morire, avesse incaricato la S. di prelevare dal libretto la somma ivi depositata, cosicché la Z. ne era comunque comproprietaria
e conseguentemente tale somma era entrata a far parte
dell’asse ereditario.
Tale argomentazione è corretta, posto che, una volta
esclusa la ricorrenza nella specie di una donazione da
parte della Z. a beneficio della S. di metà della somma
di denaro depositata nel libretto di risparmio ad esse
cointestato, è evidente che il suddetto importo era rimasto di proprietà della Z. stessa e che quindi alla sua
morte costituiva oggetto del relativo asse ereditario.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
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*** Nota a sentenza
1. Il fatto
Una anziana signora che, per anni, ha prestato servizio, come domestica, in casa di una famiglia e dopo il
pensionamento ha continuato a convivere con i suoi
datori di lavoro, pochi anni prima della morte, cointestava il proprio libretto di risparmio anche alla figlia
della sua originaria datrice di lavoro. Pochi giorni prima
della morte dell’anziana domestica, la cointestataria del
libretto prelevava l’intera somma depositata sullo stesso.
Successivamente alla morte della domestica, i suoi eredi
(nipoti ex fratre) chiedevano la restituzione, alla cointestataria del libretto, della metà delle somme su di esso
depositate, adducendo che la metà di quel danaro, essendo stato di proprietà della de cuius, era caduto in
successione e, quindi, non essendoci alcun testamento,
loro erano i suoi eredi legittimi.
Sia il Tribunale che la Corte di Appello davano ragione agli eredi legittimi, sulla base della considerazione
che la mera cointestazione di un conto corrente o di un
libretto di deposito non costituisce necessariamente una
donazione indiretta, a meno che non venga provata la
sussistenza dell’animus donandi.
2. Causa della donazione e spirito di liberalità
La sentenza in commento ci dà la possibilità di affrontare, seppur in maniera succinta e senza pretesa di
completezza, una delle questioni più interessanti ed affascinanti del diritto civile, quella della causa della donazione e, più in generale, quella della causa del contratto. Su questi argomenti la dottrina si è prodigata a
scrivere migliaia e migliaia di pagine, ma nonostante ciò,
allo stato attuale, non sembra essere pervenuta a conclusioni condivise.
L’analisi della problematica in questione deve necessariamente partire dall’art. 769 c.c., il quale definisce la
donazione come «il contratto col quale, per spirito di
liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a
favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la
stessa una obbligazione».
Il problema principale che la dottrina e la giurisprudenza si pongono, sin dall’entrata in vigore del codice
civile (ma anche sotto il vigore del codice civile del 1865),
è quello di individuare con certezza la causa della donazione. In ordine a tale questione le teorie che sono state
proposte sono varie.
Alcuni autori1 hanno sostenuto che la donazione sia
1
Così Gorla, Il contratto, II, Milano, 1954, pag. 146; Sacco-De
Nova, Il contratto, Torino, 1993, I, pag. 649; Sacco, Il contratto, in
Trattato Vassalli, VI, t. 2, Torino, 1975, pag. 588, il quale afferma
che la forma solenne della donazione costituirebbe un surrogato
della causa. Seguono l’impostazione di Gorla, anche Marini, Il modus come elemento accidentale del negozio giuridico, Milano, 1981,
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acausale, affermando che la donazione contrattuale,
ossia il contratto tipico di liberalità, non presenta una
causa che possa distinguersi dai suoi elementi costitutivi.
In altre parole, i sostenitori di tale impostazione ritengono che la causa della donazione sia l’arricchimento
di un soggetto, con impoverimento di un altro, effettuato con spirito di liberalità, cioè nella consapevolezza di
non esservi tenuto. Infatti, la donazione, essendo un
contratto privo di causa, sarebbe assoggettato dall’ordinamento alle forme della donazione.
Questa impostazione, che trova il suo capostipite
moderno in Gorla, afferma che il mero spirito di liberalità non sarebbe di per sé sufficiente a giustificare
un’attribuzione patrimoniale, di conseguenza diventa
necessario ricorrere alle forme solenni delle donazioni. 2
Da qui, pertanto, nasce la concezione negativa di donazione; in buona sostanza, per Gorla, costituisce donazione ogni dare ed ogni promessa di dare che non siano
compiuti per una prestazione valutabile in termini economici.3
In tale prospettiva, quindi, ogni volta che manchi una
causa sufficiente a giustificare un’attribuzione, l’unica
alternativa consiste nel ricorrere allo schema formale
delle donazioni.4
Così ragionando, però, si confondono gli elementi
costitutivi della donazione con la sua causa, la quale,
trattandosi di un contratto, è un suo requisito fondamentale (art. 1325, n. 2, c.c.). Infatti, se si condividesse la
tesi dell’acausalità, si ammetterebbe la cittadinanza nel
nostro ordinamento di un trasferimento astratto di ricchezza.
Di conseguenza, essendo la donazione un contratto
e dovendo questo avere necessariamente una causa, bisogna affermare che anche la donazione deve essere
causale.
Altri autori5 e buona parte della giurisprudenza6 affermano (teoria c.d. soggettiva) che la causa della donazione sia l’animus donandi, da intendersi come la volon-
2
3
4
5
6
pag. 37 ss.; Pellicanò, Causa del contratto e circolazione dei beni,
Milano, 1981, pag. 21.
Questa tesi è riepilogata da Gallo, in La donazione, I grandi temi
diretto da Bonilini, Torino, 2001, pag. 499.
Gorla, op.cit., pag. 101; Gallo, op. cit., pag. 499.
Gallo, op. cit., pag. 499.
Biondi, Le donazioni, in Trattato Vassalli, XII, 4, Torino 1961, p.
426, il quale prima analizza gli elementi costitutivi della donazione,
individuandoli nell’arricchimento e nello spirito di liberalità, cioè
nella volontà di arricchire senza esservi tenuto, e poi sottolinea che,
nel contratto tipico di donazione, non c’è una causa che possa distinguersi dai suoi elementi costitutivi. Ciò, secondo l’A., non significa
che la donazione sia acausale, ma che la causa non è altro che liberalità, elevata a contratto tipico, qualora presenti i requisiti stabiliti
dalla legge. Con formula enfatica, il Biondi (pag. 423) sostiene che
la causa della donazione sarebbe «superfetazione dell’atto tipico di
donazione».
Cass. 11.03.1996, n. 2001, Giust. civ., 1996, I, pag. 2297; Cass.
9.04.1980, n. 2273; Cass. 13.05.1980, n. 3147, Giust. civ., 1980, I,
pag. 2515; App. Torino, 9.05.1980, G.I., 1981, I, 2, pag. 19.
2 0 0 9
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tà del donante di arricchire il donatario, impoverendosi,
nella consapevolezza di non esservi tenuto.
Tale tesi non è condivisibile, in quanto confonde la
causa della donazione con la volontà del donante. Infatti, viene messo in evidenza che l’animus donandi è la
causa a parte donantis7, mentre la causa di un contratto
deve essere comune ad entrambe le parti. Probabilmente, qui, data la netta prevalenza della volontà del donante rispetto a quella del donatario, si confonde la volontà
di quello con la causa del contratto di donazione, che,
ripetiamo, deve essere comune alle parti.
Altra dottrina8, probabilmente preferibile, afferma
che la causa della donazione debba essere vista da un
punto di vista oggettivo (teoria c.d. oggettiva); pertanto,
essa consisterebbe nell’arricchimento del donatario con
relativo impoverimento del donante, restando al di fuori di essa lo spirito di liberalità, in quanto elemento
soggettivo riferibile soltanto al donante e non al donatario. Infatti, come già affermato, dovendo essere la
causa comune ad entrambe le parti in essa non può essere ricompresso lo spirito di liberalità.
A questo punto, però, sorge spontaneo chiedersi che
ruolo abbia tale spirito di liberalità nell’ambito della
donazione.
La risposta può ritrovarsi nella distinzione tra causa
ed elementi costitutivi della donazione, ove la prima,
intesa in senso oggettivo, è l’impoverimento del donante con arricchimento del donatario, i secondi sono
questi ultimi con l’aggiunta dello spirito di liberalità.
Riepilogando, quindi, gli elementi costitutivi della
figura in esame sono l’impoverimento, l’arricchimento
e lo spirito di liberalità. Infatti, la causa consiste nella
funzione economico– individuale che il contratto è in
grado di svolgere. E la funzione della donazione consiste, per l’appunto, nell’arricchire un soggetto depauperandone un altro. Nella causa della donazione si ha
quasi un nesso di sinallagmaticità tra arricchimento ed
impoverimento.
Ora, se la causa è quella che si è appena individuata,
appare evidente che lo spirito di liberalità è cosa ben
diversa da essa. Infatti, lo spirito di liberalità9 consiste
nella consapevolezza del donante di effettuare un’attribuzione patrimoniale senza esservi giuridicamente obbligato.10 In tale prospettiva, di conseguenza, l’animus
7
Lycia Gardani Conturi-Lisi, Comm. al Codice Civile ScialojaBranca, artt. 769-809, Bologna-Roma, 1976.
8 Andrea Torrente, La donazione, in Trattato Cicu-Messineo, Milano 1956.
9 L’espressione “spirito di liberalità” proviene, storicamente, dalla
giurisprudenza romana, a sua volta influenzata dalla filosofia stoica,
che distingueva la nozione di liberalitas in contrapposizione a quella
di necessitas (in tal senso si veda Casulli, Donazione (dir. civ.), Enc.
Dir., XIII, Milano, 1964, pag. 968).
10 Jemolo, Lo spirito di liberalità (riflessioni su una nozione istituzionale), in Studi in onore di Vassalli, II, Torino, 1960, pag. 973 ss.;
Palazzo, Le donazioni (artt. 769-809), Il cod. civ. Commentario
Schlesinger, Milano, 1991, pag. 5.
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donandi si distingue dallo spirito di liberalità, in quanto esso consiste proprio nella volontà, a parte donantis,
di arricchire il donatario senza esservi tenuto.
L’animus donandi, però, è una colorazione in senso
soggettivo della gratuità, non nel senso che esso s’identifica con la causa della donazione11, ma nel senso che
esso serve a distinguere un contratto gratuito da una
vera e propria donazione. Infatti un contratto gratuito,
se non è caratterizzato dall’animus donandi, non potrà
mai essere qualificato donazione.
Tale impostazione trova la sua conferma nell’art. 770
c.c., che prevede le due figure della donazione rimuneratoria (I comma) e della liberalità d’uso (II comma).
Infatti, la prima delle due figure previste dalla norma
in esame è considerata, a ragione, dal Legislatore come
vera e propria donazione, in quanto in essa sono presenti tutti gli elementi previsti dall’art. 769 c.c., anche se lo
spirito di liberalità risulta compresso. Ciò in quanto il
donante è libero di decidere in ordine all’opportunità di
effettuare il negozio, può determinare come vuole l’oggetto della donazione, ma non può sceglierne il beneficiario, poiché egli è individuato da un evento (riconoscenza, meriti, servizi resi al donante).
La limitazione dello spirito di liberalità comporta la
disapplicazione di alcune norme, quali l’art. 437 c.c.
sugli alimenti e gli articoli in tema di revocazione per
ingratitudine e per sopravvenienza di figli, stante il disposto dell’art. 805 c.c.. L’irrevocabilità è giustificata
dalla rilevanza del motivo rimuneratorio, che ha compresso lo spirito di liberalità in ordine al destinatario
della donazione.
La seconda norma (art. 770, comma 2, c.c.) prevede
la liberalità d’uso, cioè quella che si suole fare in occasione di servizi resi o in conformità agli usi.
In tal caso, il Legislatore afferma che il negozio in
esame non è donazione, quindi non gli si applica tutta
la relativa disciplina. La ragione di tale esclusione va
ricercata sempre nello spirito di liberalità che, quale
elemento costitutivo della donazione, non è presente
nella liberalità d’uso. Infatti, in essa il disponente si
determina al compimento dell’atto in adempimento di
una consuetudine sociale, la quale, sebbene non coercibile, è sentita dal membro di una collettività come obbligatoria.
Nella liberalità in esame l’alienante non ha nessuna
discrezionalità in ordine alla scelta del beneficiario,
all’opportunità dell’atto e all’entità della prestazione,
che sono tutti determinati in relazione alle consuetudini.
Pertanto, si può affermare che la disciplina applicabile ad un negozio gratuito dipende dalla presenza in
esso dello spirito di liberalità e dalla sua gradazione.
11 Perché, si ripete, in esso è compreso anche lo spirito di liberalità, che
non partecipa della causa della donazione.
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A questo punto della trattazione, si può accertare un
secondo punto fermo: la donazione ha una sua causa,
distinta dai suoi elementi costitutivi.
Invero, la causa della donazione non lascia molto
soddisfatti, in quanto essa è sicuramente molto generica
ed evanescente, ma di questo il legislatore era perfettamente cosciente. Infatti, esso ha ritenuto che la causa,
così come individuata, non fosse da sola sufficiente a
reggere la donazione, in quanto occorreva un elemento
più oggettivo per giustificare l’attribuzione patrimoniale senza corrispettivo, il quale è stato individuato nella
forma.
A tal fine il codice prevede due distinte forme, necessarie per dar vita ad una valida donazione, quella
solenne con l’atto pubblico ed i testimoni (art. 782 c.c.)
e quella reale (art. 783 c.c.), con il suo spiccato simbolismo. Entrambe le forme hanno la funzione di rendere
effettivamente cosciente il donante sull’importanza
dell’attribuzione che sta effettuando a favore del donatario, in quanto essa comporta un impoverimento senza
alcun corrispettivo.
In virtù delle motivazioni su esposte, si può dire che
lo spirito di liberalità può subire delle compressioni,
tali da diversificare la disciplina applicabile al negozio.
Si è già detto che lo spirito di liberalità è la consapevolezza da parte del donante di effettuare un’attribuzione patrimoniale al donatario senza esservi costretto, ma
si può aggiungere che la sua presenza è ciò che colora
un negozio, in cui vi è l’impoverimento di una parte e
l’arricchimento di un’altra, come donazione, con la relativa applicazione della disciplina contenuta negli
artt. 769 e ss. c.c..
Bisogna aggiungere, infine, che la donazione, considerata in senso oggettivo, è considerata una causa residuale, in quanto, ove lo spostamento patrimoniale non
sia sorretto da altra causa, bisogna verificare la presenza dello spirito di liberalità; qualora questo sia presente,
ci si troverà dinnanzi ad una donazione, la quale dovrà,
però, essere sorretta dal formalismo suo tipico, al contrario, se lo spirito di liberalità fosse assente, cioè se non
emergesse la volontà del disponente di avvantaggiare la
controparte, impoverendosi, nella consapevolezza di
non esservi tenuto, non si potrà parlare di donazione,
bensì di trasferimento senza causa. Pertanto, in tale
ultima ipotesi, il trasferimento di ricchezza non potrà
dirsi realizzato, in quanto nel nostro sistema vige il
principio della necessaria causalità degli spostamenti
patrimoniali (arg. ex artt. 2033 e 2041 c.c.).
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
●
L’onore della persona:
tra realtà e opera
di fantasia
Nota a Trib. Napoli, sez. I-bis,
24 giugno 2009, ord., Giud. L. Tricomi
● Chiara Ianniruberto
Avvocato
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Trib. Napoli, sez. I bis, 24 giugno 2009, ord., Giud. L. Tricomi
Il giudice designato, dott. Laura Tricomi,
- a scioglimento della riserva di cui al verbale d’udienza in data 19.5.2009, assunta con termine per deposito
note fino al 28.05.09;
- letto il ricorso depositato il 06.04.2009 con il quale *** *** ha chiesto ex art. 700 c.p.c.:
• Ordinare al sig. ***, in qualità di sceneggiatore e
regista, ai sigg. *** e ***, quali cosceneggiatori, nonché alla ***, in persona del responsabile p.t., alla ***,
in persona del legale rapp. p.t., ed alla ***, in persona del legale rapp. p.t., in quanto società produttrici,
di astenersi dal programmare e diffondere su tutto il
territorio nazionale il film “***” fissando, altresì, a
carico degli stessi una somma dovuta per ogni violazione o inosservanza successivamente constatata o
per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento;
• In via subordinata, ordinare ad essi resistenti di eliminare dal film tutte le scene in cui è rappresentato
il caporedattore de ***, identificabile con ***, con
conseguente pregiudizio al suo onore, alla reputazione ed all’identità personale,
• Ovvero, in via più gradata, ordinare agli stessi resistenti l’apposizione nei titoli di testa del film, di un
comunicato con il quale precisare che il personaggio
di *** è di pura fantasia;
• Ordinare, in ogni caso agli stessi resistenti di pubblicare, a proprie spese, sul quotidiano “***” e su un quotidiano di tiratura nazionale il suddetto comunicato;
• Emettere ogni altro provvedimento utile o necessario
a tutela dei diritti all’onore, alla reputazione ed
all’identità personale vantati dal ricorrente; condannare tutti i resistenti al pagamento delle spese della
fase di giudizio ed emettere i provvedimenti di legge
per il prosieguo dei giudizio,
- lette le memorie depositate dalle parti costituite con
la quale si chiedeva il rigetto dell’istanza e, in via
subordinata, la fissazione di una cauzione;
- espletata l’attività istruttoria sommaria e visionato
il film, precedentemente consegnato dalla difesa
della *** ed altri su supporto informatico, in contraddittorio tra le parti;
- letti i verbali d’udienza, gli atti e tutti i documenti
prodotti
Osserva
Innanzi tutto vanno esaminate le questioni preliminari, tutte da respingere.
Litisconsorzio Necessario
In via preliminare va dato atto che il ricorso non è
stato notificato a *** e che il ricorrente ha rinunciato
alla proposizione del ricorso nei suoi confronti, che pertanto è improcedibile in parte qua.
A seguito di tale rinuncia i difensori dei resistenti
hanno sollevato un’eccezione di improcedibilità in rela-
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D i r i t t o
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p r o c e d u r a
zione al prospettato litisconsorzio necessario del resistente ***: tale eccezione è infondata e va respinta.
Risulta infatti ininfluente, nella fattispecie in esame,
inerente ad un giudizio risarcitorio ex art. 2043 cc, il
richiamo all’art 44 della legge sul diritto d’autore (L.
22.04.1941 n.633 ) che individua i coautori dell’opera
cinematografica.
Come affermato dalla S.C. “Ove un’opera cinematografica abbia arrecato un danno illecito, tutti i soggetti che, ai sensi dell’art. 44 della l. 22.04.1941 n.633,
vanno considerati coautori di detta opera, sono solidalmente tenuti ai risarcimento del danno, in considerazione del precetto specifico emergente, in tema di responsabilità extracontrattuale, dall’art. 2055 c.c., valutato
in correlazione con il principio fondamentale dell’imputazione soggettiva del fatto illecito stabilito dalla norma
generale di cui all’art. 2043 c.c.” (C. Cass., Sez. III, sent.
12.02.08 n. 3267). Tuttavia la solidarietà passiva, nel
caso in esame non incide sul litisconsorzio, giacché “la
responsabilità solidale per fatto illecito non determina
un litisconsorzio necessario, potendo il danneggiato, a
tutela del suo diritto agire, per conseguire il risarcimento dei darmi, anche nei confronti di uno solo dei soggetti responsabili, poiché le situazioni giuridiche degli
stessi, salvo per quanto attiene al vincolo di solidarietà
derivante dalla legge (art. 2055 cod. civ.), sono tra loro
autonome e indipendenti.” (C. Cass., Sez. Unite, sent.
25.02.1970, n 443).
In buona sostanza, nel caso in esame, non è controverso il diritto d’autore tra più coautori (o pretesi tali)
dell’opera, ed il preteso terzo danneggiato ben può agire anche solo nei confronti di alcuni degli autori.
Competenza
In merito alla competenza è stato eccepito dai resistenti *** l’incompetenza territoriale del Tribunale di
Napoli, a favore del Tribunale di Roma, luogo di produzione dell’opera cinematografica, sulla falsariga di
quanto previsto per le opere su carta in relazione al
luogo dì pubblicazione. Tale eccezione è infondata in
quanto l’attività di produzione del film non è assimilabile a quella di pubblicazione.
Difetto di legittimazione passiva
La difesa della *** ha eccepito il proprio difetto di
legittimazione passiva, affermando di non essere distributrice del film.
Tale eccezione è infondata e va respinta in quanto, a
prescindere dalla posizione del soggetto distributore del
film, sicuramente il produttore svolge un ruolo centrale
nella realizzazione di un’opera cinematografica ed inoltre, ai sensi dell’art.45 della legge sul diritto d’autore,
“l’esercizio dei diritti di utilizzazione economica dell’opera cinematografica spetta a chi ha organizzatola produzione stessa, nei limiti indicati dai successivi articoli” e
ai sensi dell’art. 46 “L’esercizio dei diritti di utilizzazione economica, spettante al produttore, ha per oggetto
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lo sfruttamento cinematografico dell’opera prodotta”.
Va pertanto affermata la legittimazione passiva del
soggetto o dei soggetti che hanno prodotto il film in
esame.
Nullità e/o inammissibilità del ricorso
La difesa della *** ha eccepito la nullità e/o inammissibilità del ricorso perché proposto strumentalmente
in relazione ad una domanda di merito avente contenuto inibitorio. Ha affermato che, stante l’inammissibilità
della domanda di merito inibitoria per violazione del
principio di tassatività delle azioni a contenuto inibitorio, doveva ritenersi inammissibile la invocata tutela
cautelare inibitoria.
Tale eccezione è infondata e va respinta.
Costituisce uno dei presupposti per il ricorso alla
procedura d’urgenza ex art.700 c.p.c. la possibilità di
poter far valere il diritto azionato con una azione ordinaria, proprio in vista della quale si richiedono i provvedimenti di urgenza idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito.
Nel ricorso è indicato che la causa di merito avrà ad
oggetto
• la richiesta di inibizione della programmazione e
della diffusione del film su tutto il territorio nazionale,
• o, in subordine, l’eliminazione delle scene in cui è
rappresentato Il caporedattore de ***, identificabile
con il ricorrente, con conseguente pregiudizio al suo
onore, alla reputazione ed alla identità personale,
ovvero, in via gradata, l’apposizione nel titoli di testa
di un comunicato che escluda la riferibilità alla persona dei ricorrente del personaggio di ***, nonché la
richiesta di risarcimento dei danni, patrimoniali e
morali conseguenti alla diffusione della pellicola, da
liquidarsi in via equitativa. Orbene sulla scorta della
disamina del ricorso ritiene il Giudicante che il ricorrente abbia soddisfatto non solo l’onere di indicare
il giudizio di merito rispetto al quale si pone come
strumentale la tutela cautela, ma abbia anche individuato l’azione risarcitoria a contenuto non inibitorio,
che rende ammissibile il ricorso al procedimento ex
art.700 c.p.c..
Presupposti della tutela cautelare richiesta.
Fumus boni iuris
Quanto al fumus boni iuris, ritiene il giudicante che,
allo stato e sulla scorta dell’istruttoria sommaria svolta,
non sussistano elementi sufficienti ad integrare tale
presupposto e, conseguentemente, il ricorso vada rigettato. Nel considerare il merito della controversia si deve
osservare che il nucleo della decisione è costituito in via
preliminare dalla riferibilità oggettiva del personaggio
di *** alla persona del ricorrente.
– Nei suoi atti il ricorrente ***, dopo un’ampia premessa sulle sue personali qualità professionali di gior-
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nalista, che lo avevano condotto a “grandi soddisfazioni nonché riconoscimenti di altissimo profilo”, che
queste erano state “di colpo mortificate” dalla proiezione del film “***”, assume quanto segue.
• In tale film, proiettato in anteprima nazionale al ***
il ***, vengono ripercorsi gli ultimi quattro mesi di
vita del giornalista ***, brutalmente assassinato a
Napoli il ***, nel corso dei quali era stato impegnato quale “abusivo” presso la redazione del *** di ***,
in particolare come inviato a ***, e successivamente
chiamato a lavorare presso la sede napoletana del
giornale.
La storia narrata contiene numerosissimi riferimenti a fatti storici realmente accaduti, con indicazione
esplicita dei protagonisti di quei fatti (ad esempio ***,
***, ***, ***); invece “altri personaggi, sebbene individuabili ed identificabili in maniera certa, data la loro
collocazione storica, ambientale e relazionale, vengono
rappresentati sullo schermo con nomi di fantasia: uno
per tutti, li caporedattore *** della redazione di ***,
altri non è che il nostro *** *** (fol. 6 del ricorso).
• II capo redattore viene rappresentato come un personaggio ostile all’attività di inchiesta sui clan camorristici di *** ed intento esclusivamente ad
ostacolare ogni attività di cronista, ovvero di “giornalista -impiegato”, in contrapposizione alla figura
di “giornalista – giornalista’ e che “l’intera redazione del quotidiano napoletano del circondario sud
viene miseramente rappresentata nel film in esame
come uno squallido ufficio in cui lavorano lo scontroso e pavido direttore, un fotografo tossicodipendente ed una leziosa collega che, indisturbata, si
dedica durante l’orario di lavoro, al manicure ed a
telefonate personali” (fol.7). Precisa inoltre di avere
sofferto per “la meschina immagine di sé ritratta nel
film, nel quale la sua reputazione e la sua identità
personale professionale sono ingiustamente discreditate, mediante una rappresentazione di fatti – per
quel che lo concerne – destituita di ogni verità”
(fol.12).
Sulla specifica e preliminare questione relativa alla
riconoscibilità del ricorrente nel personaggio dei caporedattore ***, il ricorrente offre i seguenti elementi, pur
riconoscendo “che il caporedattore reca un nome diverso da quello reale e che le sue fattezze fisiche non consentano un immediato riferimento allo ***” (fol 5):
1) l’identificazione dello *** nel caporedattore ***,
avvenuta ad opera di altri suoi colleghi – ***, ***,
*** – che avevano espresso nei suoi confronti solidarietà ed amarezza per l’ingiusta diffamazione subita;
2) la circostanza che lui *** *** sia stato l’unico caporedattore di ***, per il periodo in cui questi ha lavorato come inviato de *** a ***.
A fronte di tali argomenti la difesa di ***, ***, ***
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e ***, nonché la difesa di *** contestano la sussistenza
del presupposto del fumus boni juris, affermando:
• che il film non è un “film-verità” con un intento
documentaristico, né gli autori avevano intenzione
di rappresentare tutte le persone che nella vita reale
avevano avuto, a vario titolo rapporti professionali
o amicali con ***;
• che il personaggio di *** è di pura fantasia e nello
stesso non é possibile identificare il ricorrente, che
gli autori non hanno mai conosciuto e che lo stesso
ricorrente afferma essere diverso da sé sia nell’aspetto fisico, che nella personalità;
• che quand’anche dovesse essere possibile riconoscere
nel personaggio di *** il ricorrente, non si potrebbe
rinvenire alcuna diffamazione e/o lesione all’onore o
all’identità personale del ricorrente.
La difesa della *** e della *** sostengono le medesime posizioni con argomenti analoghi.
Orbene, rileva il G.I. che l’unico elemento segnalato
nel ricorso come elemento di identificabilità del ricorrente nel personaggio di *** è la circostanza che li ricorrente avesse svolto le funzioni di caporedattore di
***, nel periodo in cui questi era inviato a ***, così
come il personaggio di ***.
*** è uno dei numerosi personaggi, sia reali che di
fantasia, che fanno da contorno alla figura del protagonista ***, nella struttura della sceneggiatura, la cui
presenza è limitata a cinque scene del film, per apparizioni complessive di circa cinque minuti, distribuite
nell’arco dell’ intera opera della durata di circa un’ora e
quarantacinque minuti.
Tanto premesso ritiene il giudicante innanzi tutto
che il film non possa essere considerato un “film verità”: ***, in vita, non era un personaggio famoso, ma
un giovane impegnato ad intraprendere la carriera di
giornalista partendo dal gradino più basso (più volte
tutte le persone ascoltate hanno riferito, con una terminologia certamente ambigua, che era “un abusivo”),
destinato a diventare “famoso” dopo la sua tragica
morte.
Solo a seguito della sua scomparsa venne intrapreso
il difficile cammino (sia pure su strade differenti) degli
investigatori e degli estimatori del suo lavoro per ripercorrere a ritroso la sua vita, ed in particolare l’ultimo
periodo, nel tentativo di ricostruire le complesse dinamiche personali e sociali confluite nel grave episodio
delittuoso che lo vide vittima innocente.
Si deve pertanto ritenere che la vita quotidiana. le
esperienze, gli incontri di *** non siano stati consegnati, durante la sua vita, alla Storia, ma siano appartenuti
alla dimensione privata di un giovane, impegnato e
fortemente motivato che aveva iniziato a confrontarsi,
in ragione della professione intrapresa, con la difficile
realtà campana di quei tempi.
Ne consegue che risulta sicuramente credibile la affermazione che il film sia costruito attraverso la narra-
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
zione di fatti storici realmente avvenuti, come la strage
di *** e l’arresto di *** – questi si consegnati alla Storia
anche da *** con i suoi significativi articoli –, ma anche
attraverso la creazione di personaggi e situazioni di
fantasia emblematiche della realtà sociale dell’epoca e
funzionali alle esigenze narrative.
Tanto ritenuto va comunque affermato che, pur sulla base di parametri di giudizio meno rigorosi di quelli
utilizzati per la rappresentazione documentaristica o per
la cronaca di fatti della nostra storia recente, anche una
rappresentazione romanzata, per il contenuto informativo che si accompagna al contenuto artistico – creativo
dell’opera, può essere fonte di effetti lesivi dell’onore di
una persona, tanto più se essa sia destinata ad ampia
diffusione, come avviene per i film; tuttavia perché ciò
si verifichi è necessario che il personaggio oggetto della
rappresentazione drammatica abbia una valenza univoca di riconoscibilità.
Ritiene il giudicante che il personaggio di *** per le
modalità concrete in cui è inserito nel contesto narrativo e per come ricorre nell’opera, è idoneo ad escludere
l’univoca riferibilità della stesso alla persona del ricorrente.
Se infatti l’indice di riconoscibilità della persona del
ricorrente *** *** nel personaggio di *** è colto dal
ricorrente nel solo fatto che lo stesso sia stato redattore
capo di *** in quel periodo, va tuttavia evidenziata che
tale unica circostanza non è sufficiente a parere di questo giudicante ad assicurare la valenza univoca di riconoscibilità.
Innanzi tutto va osservato che, nell’ambito di un film
in cui è protagonista anche la professione di “giornalista” ed il modo di intendere tale professione, è naturale
che vi sia la figura di un caporedattore (così come anche
una redazione ed un giornale), per cui la sola coincidenza dello svolgimento di tale funzione tra realtà e fantasia, in assenza di ulteriori, circostanziati e specifici
elementi di riferimento non è sufficiente a consentire di
identificare il personaggio *** con il ricorrente.
La univoca ed oggettiva riferibilità di un personaggio
ad una persona reale va desunta infatti dalla sovrapposizione (anche parziale) tra gli elementi personali che
abbiano un forte potenziale individualizzante della
specifica persona reale (che si ritiene diffamata), elementi che, mostrando almeno in parte il suo patrimonio
personale, fatto di personalità, carattere, percorso professionale, attività, scelte compiute nella vita, episodi
della vita, relazioni intraprese e di quant’altro fa si che
ogni persona si connoti e si distingua da tutte le altre,
ne consentano l’identificazione con il personaggio.
Va inoltre sottolineato – proprio per evidenziare la
carenza di elementi a sostegno della tesi del ricorrente – che questi, pur esponendo con dovizia di particolari il suo percorso professionale, non ha offerto alcuna
elemento di connessione tra lo stesso e la storia personale e professionale di *** se non la mera circostanza
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di esserne stato il caporedattore), e non ha dedotto alcunché nemmeno in ordine alle specifiche vicende con
le quali, nel film, si intreccia la vita tragicamente spezzata di ***, la circostanza poi che il ricorrente – come
ha affermato – abbia ritenuto negli anni di mantenere il
riserbo in merito ai suo rapporto con *** e non abbia
avuto contatti con gli autori dei film, conferma che
nemmeno aliunde sono riscontrabili elementi a sostegno
della sua tesi.
In buona sostanza il ricorrente non ha offerto alcun
elemento a conferma del suo assunto in ordine alla riconoscibilità.
Né tale contributo è giunto dalle informazioni sommariamente assunte; tutti infatti hanno affermato di
non riconoscere nel caporedattore filmico il collega ***,
limitandosi solo a porre in luce, da un lato la coincidenza tra la funzione di caporedattore di *** svolta dal ricorrente e dal personaggio di ***, e dall’ altro le differenze caratteriali e professionali tra i due, in relazione
al caso in esame va tuttavia precisato che non ricorre
solo la mancanza di elementi positivi di univoca identificabilità tra personaggio e persona, ma va sottolineato
che ricorre anche la presenza di elementi negativi di
difformità, incontestati, e segnatamente:
- la diversa collocazione della redazione a ***, e non
a ***;
- la composizione della redazione con altri personaggi,
emblematici di situazioni e rapporti che *** si trovava ad affrontare nella propria esperienza di vita (
(amico fotografo tossicodipendente, la segretaria
priva di interesse per il lavoro di redazione}, non riscontrati nella realtà;
- la mancanza di somiglianza fisica tra il personaggio
ed il ricorrente.
Pertanto, allo stato, la domanda cautelare deve essere respinta in quanto il personaggio di ***, per le modalità concrete con cui ricorre nell’ opera cinematografica *** non è univocamente ed oggettivamente riferibile alla persona del ricorrente.
Restano assorbiti tutti gli altri profili relativi ai fumus boni juris.
Periculum in mora
I! rigetto del ricorso per i motivi esposti esonera il
giudicante dalla disamina del presupposto del periculum.
[…Omissis…]
••• Nota ad ordinanza
Il caso oggetto della ordinanza riguarda il caporedattore di un quotidiano che, a seguito della proiezione
di un film sugli ultimi quattro mesi della vita di un
giornalista ucciso da un’organizzazione criminale, chiedeva che il film venisse ritirato o quantomeno che venissero tagliate alcune scene in quanto la sua reputazione
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era stata fortemente lesa dalla presenza di un personaggio identificabile con la sua persona. Essendo stato
contestato dalle parti intimate il contenuto diffamatorio
della rappresentazione caricaturale e grottesca del personaggio configurato dal caporedattore, nonché delle
scene e di alcuni dialoghi tra lo stesso e quello raffigurante il giornalista ucciso, il giudice adito ha rigettato il
ricorso.
Tra le varie questioni affrontate dal provvedimento
in commento meritano di essere segnalate quelle che
riguardano la possibilità di identificare nel caporedattore descritto nel film il soggetto ricorrente, per i fatto
che egli era addetto alla struttura operativa alla quale
collaborava il giornalista.
Occorre partire dal rilievo che, dopo un iniziale
contrasto di opinioni, può dirsi sostanzialmente condivisa la teoria monista dei diritti della personalità, nel
senso che la protezione dell’ordinamento giudico si rivolge alla persona umana nel suo complesso come valore unitario: in altri termini, i diritti della personalità non
sono altro che degli aspetti di una situazione giuridica
soggettiva attiva che hanno un valore assoluto e possono essere fatti valere erga omnes1.
Non è contestato che rientra tra i diritti della personalità il diritto all’onore per cui ogni manifestazione di
pensiero pur se libera deve essere contemperata con la
tutela del menzionato bene.
Si pone però a questo punto il problema della ricerca
del giusto equilibrio tra due valori – entrambi tutelati
dalla Costituzione – ossia il diritto inviolabile dell’uomo
sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2) e il diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con ogni mezzo di diffusione (art. 21). Di qui la necessità, a tal proposito, di
distinguere i vari modi secondo i quali questa libertà
possa esplicarsi allorquando le vicende personali o il
modo di essere e di manifestarsi di un soggetto costituisca l’oggetto di un qualsiasi mezzo di diffusione al
pubblico.
In proposito2 si è distinto tra cronaca, opera storiografica, opera biografica, opera narrativa di fantasia.
Per cronaca si intende la diffusione di una notizia di
un fatto di interesse pubblico da qualsiasi ragione determinata (di giustizia, di polizia, di arte, etc.). In questo
1
La tesi pluralistica fu a suo tempo sostenuta da De Cupis, I diritti
della personalità, Milano, 1982; la teoria monista Gianpiccolo, La
tutela giuridica della persona umana e il cd. diritto alla riservatezza
in Riv. trim.dir. proc. civ. 1958, 465. Quanto alla giurisprudenza
Cass. 20 aprile 1963 n.990 in Giust.civ. 1963, I, 1280, teoria questa
condivisa dalla successiva giurisprudenza di legittimità, tra cui Cass.
10 maggio 2001, n. 6507 in Giust. civ. 2001, I, 2644. Sul punto
vedi anche Crippa, Il diritto all’oblio:alla ricerca di un’autonoma
definizione in Giust. civ. 1997, I, 1990; Messinetti, voce
Personalità(diritti della) in Enc. dir. 23, Milano 1963, 355).
2 Schermi, Il diritto assoluto della personalità ed il rispetto della verità, in Giust.civ. 1966, I, 1252.
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caso colui che diffonde la notizia non può andare al di
là del limite di chiarire le ragioni del fatto traendone le
conclusioni morali, sociali o politiche che siano strettamente funzionali alla verità del fatto senza indugiare in
commenti, osservazioni che si traducano in una alterazione della verità.
Al riguardo è stato affermato che il diritto di cronaca non è altro che il diritto di informare il pubblico su
fatti di interesse generale e che la lesione dell’onore e
della reputazione altrui non si realizza quando la diffusione a mezzo stampa delle notizie costituisce legittimo
esercizio del diritto di cronaca, in quanto ricorrano: la
verità oggettiva della notizia pubblicata, l’interesse pubblico alla conoscenza del fatto (cosiddetta pertinenza),
la correttezza formale dell’esposizione (cosiddetta continenza). Da ultimo si è detto che il giudice ha il compito di esaminare e valutare le notizie nel contesto complessivo dell’articolo in cui sono riportate3.
Nell’opera storiografica si ha la narrazione di vicende
inquadrate in un complesso di circostanze in un determinato contesto storico ed ambientale. In tal caso si tratta
dell’esposizione di un fatto del quale vengono posti in
evidenza le relazioni tra più vicende e, quindi, la narrazione è relativa ad una singola persona inserita in una
determinata realtà, che in qualche modo abbia influenzato il modo di essere del protagonista. Anche in questo
caso l’opera storiografica non può prescindere dalla verità delle vicende realmente accadute e del reale modo in
cui queste si sono verificate senza che l’immaginazione
possa apportare delle deformazioni alle stesse.
Opera biografica è la narrazione e descrizione di una
singola persona in una determinata collettività e che ha
acquistato notorietà per questioni di vario genere. Con
tale esposizione si tende ad individuare e spiegare le
caratteristiche personali, le idealità e tutto quanto possa servire a delineare nel modo più completo la persona
al quale l’opera si riferisce. La differenza tra opera storiografica e opera biografica è che in quest’ultima viene
in rilievo il profilo della singola persona di modo che la
esposizione della collettività è funzionale a descriverla
meglio se ed in quanto serva a delinearne la personalità.
Anche nell’opera biografica si impone il rispetto della
verità sia nella descrizione della personalità, del carattere, dei sentimenti, degli ideali al fine di far conoscere
la personalità per quanto si è realmente manifestata
nelle vicende della sua vita. Per questa ragione l’esposizione di una personalità travisata o la narrazione di
vicende e di eventi non veri o deformati intanto rilevano
ai fini di una pretesa risarcitoria in quanto offrono
un’immagine del soggetto alterata.
Diversa da tutte queste è l’opera narrativa di fantasia che si ha allorquando la stessa trae spunto da un
fatto realmente accaduto che viene dall’autore recepita
3 Cass. 19 luglio 2004, n. 13346, in Giust. civ., 2005, I, 3074.
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e rielaborata. Proprio perché il fatto storico è stato solo
l’occasione per stimolare l’autore a costruire una certa
trama, il risultato ottenuto può non essere il frutto di
una combinazione di fatti realmente accaduti e di fatti
immaginati, in quanto i primi vengono in qualche modo
trasfigurati dalla fantasia dell’artista, così da costituire
una realtà esistente solo a seguito di questa elaborazione ed avulsa dal dato meramente storico. In questo caso,
in linea di principio, non si dovrebbe avere un conflitto
fra diritto della personalità e libertà dell’arte, perché “la
creatura in cui l’atto estetico si obiettiva è autonoma: la
vicenda, rivissuta attraverso il temperamento dell’artista, perde ogni contatto con la realtà, l’arte non è storia,
né ha la pretesa di esserlo”4.
Orbene, se l’arte non è cronaca, nondimeno si pone
il problema se l’artista, nell’ipotesi di rielaborazione di
un fatto accaduto, debba attenersi alla verità dei fatti,
che hanno sollecitato la sua creatività o possa essere
libero di creare, a sua volta, una nuova realtà. È stato
allora sostenuto che la narrazione artistica incontra gli
stessi limiti che valgono per qualsiasi manifestazione
del pensiero, per cui il dilemma deve essere risolto nel
senso da ultimo richiamato. Ed infatti, in una fattispecie, che sotto alcuni versi richiama quella che ha dato
origine al provvedimento in commento, la Cassazione5
ha testualmente affermato che nel nostro ordinamento
non si rinviene disposizione alcuna che “sancisca la
assoluta corrispondenza della rappresentazione dei
fatti alla verità storica” in quanto la funzione “essenzialmente creativa dell’arte” si estrinseca attraverso un
originale modo di esprimersi dell’artista, con la composizione di elementi reali ed immaginari, con l’unico
limite che, per mezzo di questa operazione, non venga
ad essere lesa l’onorabilità dei soggetti coinvolti nella
narrazione, in modo da travisare la sostanza della
persona, attraverso una valutazione globale del modo
in cui, nell’intera rappresentazione, questa venga descritta.
Altro aspetto del problema, allora, è la individuazione della linea di confine tra opera di pura fantasia
ed una delle categorie, in precedenza indicate, in quanto anche la prima – allorquando prenda spunto da un
fatto storico – può integrare, al di là di una formale
denominazione il carattere, ad esempio, di opera biografica.
È stato giustamente posto in evidenza che quando la
narrazione artistica prende spunto in maniera evidente
dalla vita reale devono in ogni caso essere posti dei limiti in quanto anche in simili fattispecie vanno rispettati quei diritti della persona che il vigente ordinamento
riconosce. Sotto questo profilo vi è, dunque, un diritto
inviolabile a veder ricostruita la propria figura di uomo
senza travisamenti e deformazioni fantastiche.
Orbene, seguendo l’opinione prospettata in qualche
contributo sul punto6 il criterio da seguire non è quello
quantitativo, ma il modo secondo il quale l’artista abbia
rielaborato una vicenda storica (con specifico riferimento ad un personaggio), in modo da trasfigurare la realtà
(anche relativa ad un singolo protagonista della vicenda
narrata) in guisa che ne venga fuori una realtà creata,
che vive di vita propria. Ove questo avvenga, l’autore,
che abbia descritto la figura di un singolo soggetto in
maniera diversa dalla realtà, semmai anche allo scopo
di esaltare la figura del protagonista, non è tenuto a
rispettare la realtà storica, ma deve essere ritenuto libero di dare spazio alla propria fantasia senza che da
questo possa dirsi lesa la onorabilità di un soggetto, che
in ipotesi, ritenga di identificarsi in quello descritto in
maniera fantasiosa.
Questa tesi della valutazione globale dell’opera non
è condivisa da chi7 nega la possibilità che sia rimessa al
giudice una valutazione complessiva circa la corrispondenza della figura rappresentata a quella reale per
l’estrema difficoltà di un tale giudizio umano e non
giuridico in quanto, trattandosi di un diritto della personalità, non può non avere una tutela reale il soggetto
al quale siano state attribuite la paternità di azioni non
compiute ed il fardello di colpe non commesse.
In questo contrasto di opinioni più convincente
appare la prima delle teorie esposte in quanto ben può
essere riconosciuta al giudice la sensibilità e la capacità
di valutare complessivamente le azioni riferibili al soggetto rappresentato, anche se in qualche modo alterate
nella rappresentazione artistica, in quanto ciò che conta
è l’ immagine del personaggio proposta al pubblico e da
questo recepita.
È evidente, allora, che in situazioni del genere non
può avere spazio alcuna pretesa risarcitoria.
Nel caso esaminato il tribunale ha puntualmente
applicato tali principi avendo ritenuto che il film, pur
traendo spunto dalla vita del giornalista e da fatti storici realmente accaduti, riporta circostanze del tutto
inventate che sono servite agli autori per presentare il
personaggio nella sua quotidianità di uomo e di giovane
professionista, e che, pertanto, costituiscono licenze
artistiche assolutamente necessarie allorquando si realizzi non un film di cronaca o un film verità, che si basi
cioè esclusivamente sulle vicende giudiziarie documentate, ma un film che, pur prendendo spunto da alcuni
fatti di cronaca, attraverso la creazione di una serie di
personaggi e situazioni di contrasto funzionali alle esigenze del dramma, dia vita ad una vera e propria opera
4 Giampiccolo, op. cit.
5 Cass. 31maggio 1966 n. 1446, in Giust.civ., 1966,I,1250 ed in Foro
it. 1967,I, 592.
6 Schermi, op.cit., 1269.
7 Magrone Furlotti, Diritto di cronaca e tutela della personalità in
Foro it. 1967, I, 593.
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letteraria da giudicare soltanto sul piano artistico. In
particolare il giudice ha rilevato che, nell’intento di
tratteggiare il lavoro di giornalista del protagonista,
all’interno di una redazione, è stato necessario costruire anche un personaggio che interpretasse la figura di
caporedattore costruita come in contrasto con il giovane giornalista proprio in quanto rivolta ad esaltarne le
qualità di coraggio e di amore per la professione.
Sotto altro profilo il tribunale con l’ordinanza in
commento ha ritenuto l’inesistenza di “elementi positivi di univoca identificabilità tra personaggio e persona”, valorizzando alcuni elementi (diversa indicazione
della localizzazzione della redazione e della sua composizione; assenza di somiglianza fisica tra il personaggio raffigurato nel film al quale, tra l’altro, è stato attribuito un nome di fantasia, assolutamente diverso da
quello della parte ricorrente, diversità di nomi riferita
a tutti gli altri personaggi del film, ad eccezione del
protagonista), che, nella specie, non permettono di riconoscere nel personaggio rappresentato il soggetto
ricorrente.
Una problematica simile è stata già affrontata in
alcune decisioni di giudici di merito8, i quali hanno ritenuto che perché si verifichi una lesione del diritto
dell’onore all’interno di una rappresentazione romanzata di fatti di cronaca è necessario che il personaggio
oggetto della rappresentazione drammatica abbia una
valenza univoca di riconoscibilità.
In tale pronuncia, come nel caso esaminato dal provvedimento del tribunale di Napoli, pur essendovi alcuni
elementi che potevano far riconoscere nella parte ricorrente il soggetto rappresentato, ne è stata comunque
esclusa la identificabilità per un insieme di circostanze,
che non potevano con sufficiente univocità far convergere nella stessa persona finzione e realtà.
8Trib. Roma, 25 settembre 2006, in Foro it., 2006, I, 3510.
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D i r i t t o
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Rassegna
di legittimità
● A cura di Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Donato Palmieri
Avvocato
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AMMINISTRAZIONE PUBBLICA – AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA – OBBLIGAZIONI E CONTRATTI – COMODATO – SIMULAZIONE – NULLITÀ – COMPETENZA DELLE COMMISSIONI
TRIBUTARIE
(art. 1344 c.c.; art. 2 D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546)
1. Vige nel sistema tributario un generale principio
antielusivo, rinvenibile nel divieto di abuso del diritto,
il quale preclude al contribuente il conseguimento di
vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se
non contrastante con alcuna specifica disposizione, di
strumenti giuridici idonei ad ottenere un vantaggio, in
difetto di ragioni economicamente apprezzabili tali da
giustificare il ricorso a siffatti strumenti. Con particolare riferimento alle imposte sui redditi, il principio in
oggetto trova fondamento nei canoni costituzionali di
capacità contributiva e di progressività della imposizione e, traducendosi nel disconoscimento degli effetti
abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere
l’applicazione di disposizioni di carattere fiscale, non
contrasta con il principio della riserva di legge. Il negozio posto in essere dal contribuente al fine di procurarsi
un indebito vantaggio tributario, sarà, pertanto, inopponibile all’amministrazione finanziaria. L’Amministrazione finanziaria, pertanto, è legittimata a dedurre la
simulazione (assoluta o relativa) del negozio giuridico
posto in essere dai privati nonché l’eventuale nullità
dello stesso per frode alla legge, secondo il disposto
dell’art. 1344 c.c.. Il giudice può sempre rilevare d’ufficio eventuali cause di nullità dei contratti, la cui validità ed opponibilità all’Amministrazione finanziaria abbia
costituito oggetto dell’attività assertoria del ricorrente.
2. Il giudice tributario è compente ad accertare in via
incidentale la natura di atto simulato del contratto di
comodato in quanto nel processo tributario in forza
dell’art. 2, comma 3, del D.Lgs. n. 546/1992, che è
espressione di un principio generale vigente anche prima
che la disposizione venisse novellata, il giudice può sempre rilevare d’ufficio eventuali cause di nullità di atti, la
cui validità ed opponibilità all’Amministrazione abbia
costituito oggetto dell’attività assertoria del ricorrente.
Cass., Sez. Un., 26 giugno 2009, n. 15029
CONTRATTO DI LOCAZIONE- LOCAZIONE DI COSE – RINNOVAZIONE TACITA – EQUO CANONE – PATTI CONTRARI ALLA
LEGGE
(legge 9 dicembre 1998, n. 431; legge 27 luglio 1978,
n. 392; legge 9 dicembre 1998 n. 431)
Nell’ipotesi di pendenza alla data di entrata in vigore
della L. 9 dicembre 1998, n. 431, di un contratto di locazione ad uso abitativo con canone convenzionale ultralegale rispetto a quello c.d. equo previsto dagli artt. 12 ss.
L. 27 luglio 1978, n. 392, qualora sia intervenuta la sua
rinnovazione tacita ai sensi dell’art. 2, comma 6, della
stessa legge n. 431 del 1998, il conduttore, nonostante
l’abrogazione dell’art. 79, L. n. 392 del 1978 – verificatasi per effetto della cessazione della sua ultrattività fino
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al momento della rinnovazione per il periodo in corso,
cui allude l’art. 14, comma 5, L. n. 431 del 1998 -, può
esercitare l’azione prevista dall’art. 79 suddetto, diretta
a rivendicare l’applicazione, al contratto, del canone legale e la sua sostituzione imperativa, ai sensi
dell’art. 1339 c.c., al pregresso canone convenzionale
illegittimamente pattuito, fin dall’origine. Tale sostituzione, in ipotesi di accoglimento dell’azione, dispiega i
suoi effetti anche con riferimento al periodo successivo
alla rinnovazione tacita avvenuta nella vigenza della
legge n. 431 del 1998.
Cass., sez. III, 5 giugno 2009, n. 12996
FALLIMENTO – RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE – CAUSE DI
PRELAZIONE – PRIVILEGI – EFFICACIA – IN GENERE – DEL
PRIVILEGIO SPECIALE RISPETTO AL PEGNO ED ALLE IPOTECHE – CONTRATTO PRELIMINARE TRASCRITTO – MANCATA
ESECUZIONE – PRIVILEGIO SPECIALE SUL BENE IMMOBILE IN
FAVORE DEL CREDITO DEL PROMISSARIO ACQUIRENTE – PREVALENZA SULL’IPOTECA, AI SENSI DELL’Art. 2748, Comma 2,
C. C. – ESCLUSIONE – FONDAMENTO – CONSEGUENZE IN
CASO DI FALLIMENTO DEL PROMITTENTE VENDITORE E DI
RISOLUZIONE DEL CONTRATTO AD OPERA DEL CURATORE
FALLIMENTARE – CREDITO ASSISTITO DA IPOTECA ISCRITTA
PRIMA DELLA TRASCRIZIONE DEL PRELIMINARE – PREVALENZA
(artt. 2745, 2748 e 2775-bis; art. 72 legge fallimentare)
Nell’ambito della formazione dello stato passivo e
dell’ordine e grado del soddisfacimento dei creditori
fallimentari, la formalità ipotecaria iscritta a garanzia
del mutuo fondiario acceso dal costruttore prevale
sulla trascrizione del contratto preliminare in favore del
promissario acquirente e del relativo privilegio speciale
accordato dalla legge, à mente dell’art. 2748 c.c..
Il privilegio speciale sul bene immobile, che assiste
(ai sensi dell’art. 2775-bis c.c.) i crediti del promissario
acquirente conseguenti alla mancata esecuzione del
contratto preliminare trascritto ai sensi dell’art. 2645bis c.c., siccome subordinato ad una particolare forma
di pubblicità costitutiva (come previsto dall’ultima
parte dell’art. 2745 c.c.), resta sottratto alla regola generale di prevalenza del privilegio sull’ipoteca, sancita,
se non diversamente disposto, dal secondo comma dell’art. 2748 c.c., e soggiace agli ordinari principi
in tema di pubblicità degli atti. Ne consegue che, nel
caso in cui il curatore del fallimento della società costruttrice dell’immobile scelga lo scioglimento del contratto preliminare (ai sensi dell’art. 72 della legge fall.),
il conseguente credito del promissario acquirente – nella specie, avente ad oggetto la restituzione della caparra versata contestualmente alla stipula del contratto
preliminare – benché assistito da privilegio speciale,
deve essere collocato con grado inferiore, in sede di
riparto, rispetto a quello dell’istituto di credito che,
precedentemente alla trascrizione del contratto preliminare, abbia iscritto sull’immobile stesso ipoteca a
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garanzia del finanziamento concesso alla società costruttrice.
Cass., Sez. Un., 1 ottobre 2009, n. 21045
FAMIGLIA – MATRIMONIO – RAPPORTI PATRIMONIALI TRA
CONIUGI – FONDO PATRIMONIALE – COSTITUZIONE – IN
GENERE – FORMA – OPPONIBILITÀ AI TERZI – ANNOTAZIONE
A MARGINE DELL’ATTO DI MATRIMONIO – NECESSITÀ – TRASCRIZIONE DEL VINCOLO – FUNZIONE DI PUBBLICITÀ NOTIZIA – CONOSCENZA “ALIUNDE” DA PARTE DEI TERZI – IRRILEVANZA – FONDAMENTO
(artt. 162, 167 e 2647 c.c.)
La costituzione del fondo patrimoniale di cui
all’art. 167 c.c. è soggetta alle disposizioni dell’art. 162 c.c.,
circa le forme delle convenzioni matrimoniali, ivi inclusa quella del quarto comma, che ne condiziona l’opponibilità ai terzi all’annotazione del relativo contratto a
margine dell’atto di matrimonio, mentre la trascrizione
del vincolo per gli immobili, ai sensi dell’art. 2647 c.c..,
resta degradata a mera pubblicità-notizia e non sopperisce al difetto di annotazione nei registri dello stato
civile, che non ammette deroghe o equipollenti, restando
irrilevante la conoscenza che i terzi abbiano acquisito
altrimenti della costituzione del fondo. (Nella specie, le
Sez.Un.hanno confermato la sentenza di merito che – in
presenza di un atto di costituzione del fondo patrimoniale trascritto nei pubblici registri immobiliari, ma
annotato a margine dell’atto di matrimonio successivamente all’iscrizione di ipoteca sui beni del fondo medesimo – aveva ritenuto che l’esistenza del fondo non
fosse opponibile al creditore ipotecario).
Il fondo patrimoniale costituisce una convenzione
fra i coniugi soggetta al regime di pubblicità dettato
dall’art. 162 c.c.. Conseguentemente, ai fini della opponibilità ai terzi della segregazione dei beni, la convenzione deve essere annotata in margine dell’atto di
matrimonio rappresentando la formalità della trascrizione una pubblicità-notizia.
Cass, Sez. Un., 13 ottobre 2009, n. 21658
GIURISDIZIONE CIVILE – CONFLITTI – DI GIURISDIZIONE – CONFLITTO REALE – DENUNCIABILITÀ IN OGNI TEMPO – SUSSISTENZA – CONSEGUENZE – PROVVEDIMENTI
ORIGINANTI IL CONFLITTO NEGATIVO – INDIVIDUAZIONE – DECISIONI ARGOMENTATE SULLA DECLINATORIA DI
GIURISDIZIONE – NECESSITÀ – PROVVEDIMENTO DI CONFERMA INDIRETTA EMESSO DAL GIUDICE DI SECONDO GRADO – IRRILEVANZA
(artt. 360, 362, 366 e 369 c.p.c.)
Il conflitto reale, positivo o negativo, di giurisdizione è denunciabile in ogni tempo e, dunque, anche nel
caso in cui una od entrambe le decisioni siano ancora
impugnabili ovvero siano state già impugnate nel merito, necessitando che, unitamente al ricorso per cassazione che denunci il conflitto, sia depositata, a pena di
improcedibilità (art. 369 cod. proc. civ.), copia auten-
civile
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tica dei provvedimenti che lo hanno determinato, in
quanto indispensabili a risolvere la questione di giurisdizione, con l’annullamento dell’una o dell’altra delle
statuizioni in contrasto. Ne consegue che, nell’ipotesi
di conflitto negativo, i provvedimenti che hanno determinato il conflitto stesso vanno individuati in quelli che
hanno argomentato la declaratoria di difetto di giurisdizione, indipendentemente dalla relativa ed indiretta
conferma derivante dalla decisione del giudice di secondo grado investito di questioni diverse da quella di
giurisdizione. (Nella specie, le S.U. hanno individuato
le sentenze originanti il conflitto negativo di giurisdizione in quelle del giudice ordinario e del giudice amministrativo che, in primo grado, avevano espressamente declinato la rispettiva giurisdizione, escludendo che,
a tal riguardo, potesse rilevare la sopravvenuta sentenza di secondo grado del Consiglio di Stato, giacché
questa non si era pronunciata sulla giurisdizione, ma
soltanto sull’eccezione di giudicato formulata dall’appellante.
Cass., Sez. Un., 5 ottobre 2009, n. 21196
MORTE O LESIONE DEL CONGIUNTO – LIQUIDAZIONE E VALUTAZIONE – COMPENSATIO LUCRI CUM DAMNO
La vedova del lavoratore deceduto a seguito di sinistro stradale ha diritto al risarcimento del danno patrimoniale parentale da lucro cessante anche qualora
percepisca la rendita da parte dell’INAIL, non potendo
trovare applicazione in tal caso il principio della compensatio lucri cum danno, in considerazione del diverso
titolo giustificativo delle erogazioni in questione.
Cass., sez. III, 15 ottobre 2009, n. 21897
USI CIVICI – IMPUGNAZIONI – RICORSO PER CASSAZIONE – DECISIONE EMESSA DALLA CORTE DI APPELLO – RICORSO PER CASSAZIONE – TERMINE – DECORRENZA – NOTIFICA
DELLA SENTENZA AD ISTANZA DI PARTE – INIDONEITÀ – COMUNICAZIONE DEL DISPOSITIVO A CURA DELLA CANCELLERIA – NECESSITÀ – FONDAMENTO – ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE – ESCLUSIONE – COMUNICAZIONE EX Art. 133 C.P.C.
ESEGUITA CON NOTIFICA TRAMITE UFFICIALE GIUDIZIA-
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RIO – IDONEITÀ AI SENSI DELL’Art. 7 DELLA LEGGE N. 1078
DEL 1930 – SUSSISTENZA – FONDAMENTO
(legge 10 luglio 1930 n. 1078; art. 133 c.p.c.)
Ai sensi dell’art. 8 della legge 10 luglio 1930 n. 1078,
il ricorso per cassazione avverso la sentenza della corte d’appello, emessa sul reclamo avverso le decisioni
dei commissari regionali per la liquidazione degli usi
civici, deve proporsi nel termine di quarantacinque
giorni dalla notificazione della medesima, tale dovendosi considerare, a norma dell’art. 2 della citata legge,
la notificazione a mezzo del servizio postale del dispositivo della sentenza a cura della cancelleria, mentre la
notifica della stessa ad istanza delle parti non è idonea
a modificare la sequenza cronologica voluta dalla legge; siffatta disciplina, non abrogata dal vigente codice
di procedura civile, non è in contrasto con gli artt. 3 e
24 Cost., perché la diversità trova giustificazione nelle
peculiarità del procedimento in materia di usi civici ed
è comunque consentita un’adeguata possibilità di difesa.
In tema di ricorso per cassazione contro le sentenze
delle sezioni specializzate per gli usi civici delle corti
d’appello, ai fini del decorso del termine breve di quarantacinque giorni di cui agli artt. 7 e 8 della legge
10 luglio 1930, n. 1078, la comunicazione del dispositivo della sentenza ai sensi dell’art. 133 cod. proc. civ.,
ove eseguita mediante notifica a mezzo di ufficiale
giudiziario, deve ritenersi idonea anche ai fini dell’art. 7
cit., in considerazione della identità di contenuto, senza che in senso contrario possa invocarsi che la comunicazione ex art. 133 cit. ha come destinatario il procuratore costituito, mentre quella ex art. 7 cit. avrebbe
come destinataria la parte personalmente, in quanto in
entrambe le disposizioni il destinatario della comunicazione (art. 133, secondo comma, cod. proc. civ.) o
dell’invio del dispositivo (art. 7 legge n. 1078 del 1930)
viene identificato nella parte, ed è principio generale
che nel corso del procedimento le comunicazioni e le
notificazioni si fanno non alla parte personalmente, ma
al procuratore costituito.
Cass., Sez. Un., 5 ottobre 2009, n. 21193
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●
Rassegna
di merito
● A cura di Corrado d’Ambrosio
Magistrato presso il Tribunale di Napoli
Mario De Bellis
Donato Palmieri
Avvocati
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Bilancio società in accomandita semplice – obbligo
comunicazione ai soci – termine per l’impugnazione
(artt. 2320 e 2361 c.c.)
In riferimento al termine per l’impugnazione del bilancio della s.a.s. ed in merito alla decorrenza di esso,
l’art. 2320, comma 3, c.c. in tema di soci accomandanti
si limita a prevedere che “in ogni caso essi hanno diritto
di avere comunicazione annuale del bilancio e del conto
dei profitti e delle perdite e di controllarne l’esattezza
consultando libri ed altri documenti”.
La previsione della comunicazione ai soci accomandanti del bilancio e non già del rendiconto, come nelle
altre società personali (art. 2261 c.c.), si concilia con la
natura della s.a.s. e con le funzioni degli accomandanti,
esclusi dalla gestione della società fruendo della limitazione della responsabilità per le obbligazioni sociali. Il
divieto di immistione degli accomandanti è stato dal
legislatore contemperato con il potere di controllo ad
essi spettante, che si materializza nel diritto indisponibile di avere comunicazione del bilancio e di controllarne
l'esattezza, nonché di impugnare giudizialmente il bilancio stesso, provocando un sindacato di legittimità di
esso. Nella distribuzione dei poteri spettanti agli accomandatari rispetto agli accomandanti, l’approvazione
del bilancio è un atto che spetta, invece, istituzionalmente solo ai soci accomandatari e non agli accomandanti,
traducendosi tale atto in un'ingerenza nella gestione non
consentita ai soci accomandanti.
App. Napoli, Sez. I, 17 settembre 2009, Pres. F. Del
Porto; Cons. L. Orilia; Cons. Rel. R. Pezzullo.
DICHIARAZIONE GIUDIZIALE DI PATERNITÀ E MATERNITÀ
NATURALI – PROVE
(art. 269 c.c.)
In tema di dichiarazione giudiziale di paternità,
l’art. 269, comma 4, c.c. – secondo il quale la sola dichiarazione della madre e la sola esistenza di rapporti tra
questa ed il preteso padre all’epoca del concepimento
non costituiscono prova della paternità naturale – non
esclude che tali circostanze, nel concorso di altri elementi, anche presuntivi, possano essere utilizzati a sostegno
del proprio convincimento dal giudice di merito.
App. Napoli, Sez. Persona e Famiglia, 3 giugno 2009,
Pres. V. Trione; Cons. A. Viciglione; Cons. Rel. A. Casoria
ESECUZIONE – CONDOMINIO – NOTIFICA DECRETO INGIUNTIVO
(artt. 654 e 479 c.p.c.)
In tema di esecuzione nei confronti di un condomino fondata su decreto ingiuntivo notificato all’amministratore nella sua qualità di legale rappresentante, si
deve ritenere che, eseguita la notifica del decreto monitorio nei confronti dell’amministratore del condominio, questa deve considerarsi effettuata in favore di
tutti i condomini rappresentati (spettando all’ammini-
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stratore il compito di rendere edotti i singoli condomini). Pertanto trova applicazione anche in questo
caso la norma di cui all’art. 654 cit. che, al fine di
semplificare l’inizio del procedimento esecutivo, in
deroga all’art. 479 c.p.c., esclude la necessità di una
nuova notifica del titolo esecutivo al condomino esecutato.
Trib. Napoli, Sez. V, 11 marzo 2009, Giud. L. Pica
INABILITÀ DI ORDINE FISICO E PSICHICO – INDIGENZA – PRESTAZIONI DI CUI ALLA LEGGE N. 328/2000
(art. 2 Legge 8 novembre 2000 n. 328; art. 128 Decreto Legislativo 31 marzo 1998 n. 112)
L’attuazione dei programmi e delle disposizioni contenute nella legge 8.11.2000 n. 328 – legge quadro per
la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali – non solo è conforme al quadro normativo
sovranazionale ma la sua mancata attuazione si pone in
contrasto con i principi dell’Unione Europea in tema di
lotta all’esclusione sociale ed alla povertà. Pertanto i
cittadini che si trovino nelle condizioni di indigenza e di
inabilità di ordine fisico e psichico, previste espressamente dall’art. 2 di tale legge hanno diritto ad usufruire delle
prestazioni previste dal terzo comma di tale norma.
Trib. Napoli, Sez. Lavoro e Previdenza, 22 aprile 2009,
Giud. L. D'ancona
INTERMEDIAZIONE FINANZIARIA – CONFLITTO D’INTERESSE – RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE
(art. 27 Reg. Consob in attuazione dell’art. 21 T.U.F.)
La responsabilità in cui incorre l’intermediario finanziario che compia operazioni in conflitto di interessi quando dovrebbe astenersene configura un ipo-
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tesi di responsabilità contrattuale, in quanto si tratta
di una vera e propria responsabilità da non coretto
adempimento degli obblighi legali facenti parte integrante del rapporto contrattuale di intermediazione
finanziaria.
Adeguata spia di tale situazione di conflitto di interesse si rinviene nella qualità, in capo allo stesso intermediario (o di società del gruppo), di emittente o di
collocatore dei titoli negoziati.
Trib. Napoli, Sez. III, 10 febbraio 2009, Pres. E. Baldini; Giud. M. Magliulo; Rel. R. Sabato
OBBLIGAZIONI E CONTRATTI – RISOLUZIONE DEL CONTRATTO PER INADEMPIMENTO
(art. 1453 ss. c.c.)
La volontà di risolvere un contratto per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalla parte in giudizio,
ma può essere implicitamente contenuta in altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto.
App. Napoli, Sez. III, 16 luglio 2009, Pres. M. Piiantadosi; Cons. C. Gabriele; Cons. Rel. V. Migliucci
USUCAPIONE – ONERE DELLA PROVA
(artt. 1158 ss. c.c.; art. 2967 c.c.)
Chi agisce in giudizio per essere dichiarato proprietario di un bene affermando di averlo usucapito, deve
dare la prova, ex art. 2967 c.c., di tutti gli elementi
costitutivi della dedotta fattispecie acquisitiva e, quindi,
non solo del corpus ma anche dell’animus.
App. Napoli, Sez. I, 2 ottobre 2009, Pres. e Rel. F. S.
Azzariti Fumaroli; Cons. E. Vitale; Cons. L. Orilia
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In evidenza
LA QUALIFICA DI DIRIGENTE – IL LICENZIAMENTO – IL CONTRATTO DI LAVORO A PROGETTO – REQUISITI
(art. 69 del D.Lgs. n. 276/03)
Il tratto caratterizzante della figura del dirigente è
rappresentato dall’esercizio di un potere ampiamente
discrezionale che incide sull’andamento dell’intera
azienda o che attiene a un autonomo settore produttivo
della stessa, non essendo per converso necessaria la
preposizione dell’intera azienda.
L’espressione “giustificatezza”, utilizzata dall’art. 19
del CCNL per i Dirigenti di Aziende Industriali con riferimento alla motivazione del licenziamento, non corrisponde al concetto legale di giustificato motivo, posto
che, comunque, rispetto al dirigente resta un’area di libera recedibilità del datore di lavoro, va intesa nel senso che
il licenziamento del dirigente è ingiustificato ogni volta
che il datore di lavoro esercita il proprio diritto di recesso
violando il principio fondamentale di buona fede che
presiede all’esecuzione dei contratti ex art. 1375 c.c.
A norma dell’art. 69 del D.Lgs. n. 276/03 il rapporto tra le parti deve essere considerato un rapporto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato quando il
programma o progetto, invece di essere individuato
come realizzazione di un preciso e circostanziato piano
di lavoro o risultato, consista semplicemente nella messa a disposizione dell’attività lavorativa del collaboratore ed è quindi da ritenersi assolutamente generico. Il
progetto non può semplicemente coincidere con il concreto espletamento dell’attività aziendale genericamente intesa ma deve caratterizzarsi e connotarsi puntualmente rispetto ad essa, seppure evidentemente coordinandosi ed armonizzandosi con l’attività aziendale
complessivamente intesa, e, in ogni caso, deve essere
necessariamente predeterminato ed elaborato per iscritto in modo e in termini sufficienti ad individuare il risultato che il prestatore deve dare e che il committente
si attende.
Trib. Napoli, Sez. Lavoro, Giud. F. Scelza, 20 ottobre
2009
[…Omissis…]
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 8‑5‑05 il ricorrente
in epigrafe esponeva:
• che, a seguito di qualificate esperienze lavorative nel
corso delle quali era stato impegnato con compiti
direttivi e responsabilità tecniche, veniva contattato
dalla ****S.P.A., società dedita ad attività di ricerca
scientifica e di raccolta di informazioni ambientali,
territoriali e sanitarie, alla quale occorreva un responsabile dell’Organizzazione Generale, Tecnica e
del Personale;
• di aver sottoscritto in data 17‑3‑03 un contratto di
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lavoro occasionale per una durata di tre mesi, con
un compenso di euro 2.582,50 mensili;
• di essere stato inserito, con una propria stanza, nella struttura direttiva, sita in Napoli al Centro Direzionale, con pieno potere decisionale, dovendo rispondere del suo operato al solo Amministratore
Delegato, impartendo direttive a tutti i dipendenti,
parteci****do al Consigli di Amministrazione, curando i rapporti con i sindacati;
• che la sua presenza in azienda era quotidiana, per
non meno di nove ore al giorno, per cinque giorni
alla settimana;
• di aver sottoscritto, senza mai interrompere la prestazione lavorativa, un nuovo contratto con la ****.
S.P.A. dal 1‑7‑03 al 31‑12‑03, con un compenso
maggiorato ad euro 4.000,00;
• che in data 8‑1‑04, senza mai aver sospeso la prestazione lavorativa, veniva invitato a firmare un contratto di lavoro “a progetto” per l’anno 2004, senza
che fosse previsto alcun progetto, con compenso di
euro 5.000,00 mensili, poi corretto ad euro 6.200,00
mensili;
• di aver fruito di 15 giorni di ferie l’anno, nel corso
del mese di agosto;
• che l’Amministratore Delegato riduceva i suoi compensi del 50% a decorrere dal luglio 2004, ed in
data 31‑12‑04 lo invitava oralmente a non recarsi più
in azienda.
Tanto premesso, il ricorrente chiedeva al Giudice
adito di accertare e dichiarare che dal 1‑4‑03 al
31‑12‑04 l’attività svolta per la società resistente ha
avuto natura subordinata ed è stata propria della qualifica dirigenziale, ed inoltre di accertare e dichiarare
l’inesistenza, o l’invalidità, o comunque l’inefficacia del
recesso dal rapporto di lavoro del 31‑12‑04; per l’effetto, condannare la **** S.P.A. al pagamento, come da
prospetto contabile sub IIIa del ricorso, di euro
106.649,50 per differenze paga, mensilità aggiuntive e
indennità sostitutiva ferie, oltre accessori come per
legge, ed alla somma di euro 70.000,00 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, euro 253.750,00 a
titolo di indennità supplementare, euro 18.795,00 a titolo di T.F.R., o in alternativa dichiarare il rapporto di
lavoro ancora in corso, con diritto a vedersi riconoscere tutte le retribuzioni successive al dicembre 2004.
In subordine chiedeva riconoscersi in suo favore il
trattamento economico e normativo derivante dal contratto collettivo per i dirigenti di aziende industriali, e
riconoscere l’illegittimità della decurtazione di stipendio
effettuata dal luglio 2004 dalla **** S.P.A., e conseguentemente condannare la Società resistente al pagamento in
suo favore, come da prospetto contabile sub IIIb, di euro
35.453,96, oltre accessori, per differenze paga, mensilità
aggiuntive e indennità sostitutiva ferie, ed inoltre al pagamento di euro 53.733,00 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, euro 194.783,00 a titolo di indennità
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supplementare ed euro 12.498,23 a titolo di T.F.R., oltre
accessori, o in alternativa dichiarare il rapporto di lavoro
ancora in corso, con diritto a vedersi riconoscere tutte le
retribuzioni successive al dicembre 2004.
In ulteriore subordine chiedeva riconoscersi in suo favore il trattamento economico e normativo previsto dal
contratto collettivo per i dirigenti di aziende commerciali,
e conseguentemente condannare la società resistente al
pagamento, come da prospetto contabile sub IIIc, della
somma di euro 42.103,68, oltre accessori, per differenze
paga, mensilità aggiuntive e indennità sostitutiva ferie, ed
inoltre al pagamento di euro 43.400,00 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, euro 173.600,00 a titolo di
indennità supplementare, euro 12.388,05 a titolo di
T.F.R., oltre accessori, o in alternativa dichiarare il rapporto di lavoro ancora in corso, con diritto a vedersi riconoscere tutte le retribuzioni successive al dicembre 2004.
In subordine a tutto quanto prima, chiedeva dichiararsi l’illegittimità e/o nullità della decurtazione di stipendio effettata dal luglio 2004 dalla **** S.P.A., e per
l’effetto condannare la Società al pagamento in suo favore della somma di euro 18.600,00 oltre accessori.
Con memoria difensiva depositata il 30‑1‑06 si costituiva la società resistente in epigrafe, eccependo in via
preliminare la nullità del ricorso, per non essere state
compiutamente descritte le mansioni svolte dal ricorrente, e per la genericità dei conteggi allegati. Quanto al
merito, chiedeva il rigetto delle avverse domande perché
infondate, ribadendo la carenza dei requisiti della subordinazione, e proponeva domanda riconvenzionale
chiedendo la condanna del ricorrente al risarcimento dei
danni da responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., da
determinarsi equitativamente.
In corso di causa, fallito il tentativo di conciliazione,
il Giudice interrogava liberamente le parti, e procedeva
all’escussione dei testi ****, ****, ****, ****.
All’udienza del 20‑10‑09 il Giudice decideva la causa dando pubblica lettura del dispositivo.
Motivi della decisione
Preliminarmente va respinta l’eccezione di nullità del
ricorso sollevata da parte resistente, in quanto il ricorso
contiene tutti gli elementi di fatto e di diritto necessari
per identificare sia il petitum che la causa petendi; anche
i conteggi appaiono redatti analiticamente e con precisa
indicazione degli elementi posti alla base dei calcoli.
Quanto al merito, la domanda proposta in ricorso
appare fondata e meritevole di accoglimento.
Il ricorrente ha prestato la propria attività lavorativa
per la **** S.P.A. in virtù di due successivi contratti “di
consulenza”, il primo dal 1‑4‑03 al 30‑6‑03 ed il secondo dal 1‑7‑03 al 31‑12‑03, nei quali è specificato che
“tale incarico avrà natura di lavoro autonomo occasionale”, e di un contratto di lavoro a progetto relativo a
tutto l’anno 2004.
È incontestato che fra i tre contratti non vi è stata
alcuna soluzione di continuità.
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La difesa del **** sostiene che la prestazione lavorativa del ricorrente non ha avuto carattere occasionale,
per quel che concerne i primi due contratti, ma continuativo, ed ha interessato aspetti decisionali inerenti
settori strategici della Società, quali l’organizzazione del
personale, i rapporti con i sindacati, la presentazione
alla P.A. di progetti inerenti l’attività di tutela ambientale propria della Società resistente.
Per quel che concerne il terzo contratto, sostiene la
mancanza assoluta dell’indicazione del progetto da realizzare.
Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte
di Cassazione, il tratto caratterizzante della figura del
dirigente è rappresentato dall’esercizio di un potere
ampiamente discrezionale che incide sull’andamento
dell’intera azienda o che attiene a un autonomo settore
produttivo della stessa, non essendo per converso necessaria la preposizione dell’intera azienda. (Cass. 11/7/2007
n. 15489). La qualifica di dirigente spetta al prestatore
di lavoro che, come alter ego dell’imprenditore, è preposto alla direzione dell’intera organizzazione aziendale,
ovvero a una branca o a un settore autonomo di essa,
ed è investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e
per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono, sia pure nell’osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo e un orientamento al governo complessivo all’azienda. (Cass. 22/12/2006 n. 27464).
Le risultanze della prova testimoniale espletata in
corso di causa consentono di affermare che il ricorrente,
nel periodo dal 1‑4‑03 al 31‑12‑04, è stato stabilmente
e continuativamente inserito nell’organizzazione della
società resistente, ed ha svolto mansioni dirigenziali, nel
senso precisato dalla riferita giurisprudenza di legittimità, nonostante il nomen iuris di cui ai contratti sopra
indicati.
Tutti i testi escussi hanno dichiarato che per tutto il
predetto periodo al **** è stata assegnata una stanza,
dotata di mobilio, personal computer e telefono.
Particolarmente rilevanti appaiono le deposizioni dei
testi **** e ****, il primo consulente della ****. fin dalla
sua costituzione (con contratto ancora in corso all’epoca
della deposizione testimoniale), ed il secondo dipendente
della Società resistente con funzioni di Rappresentante
Sindacale Aziendale e Segretario Nazionale del sindacato
“Lavoratori in lotta per il sindacato di classe”.
Entrambi i testi hanno affermato che la presenza in
azienda del ricorrente era continua, confermando gli
orari indicati in ricorso. Quanto all’attività svolta dal
****, i predetti testi hanno affermato che elaborava progetti in materia ambientale e li sottoponeva all’approvazione della Provincia, presentandoli, e sollecitandone la
liquidazione. Si occupava inoltre della gestione del personale, organizzando i turni feriali, e delle relazioni
sindacali, parteci****do alle riunioni, ed è stato promotore, insieme agli stessi sindacati, del passaggio dell’azien-
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da dal CCNL Commercio al CCNL Federambiente.
Partecipava, inoltre ai Consigli di Amministrazione.
Il teste ****, in particolare, ha precisato che: “L’Amministratore Delegato della **** ci diceva che per i rapporti sindacali era incaricato il ricorrente; egli è stato
quindi l’interlocutore principale per la **** dei sindacati
finché è rimasto in azienda. Il Dott. **** partecipava
sempre alle riunioni sindacali rappresentando l’azienda.
… Quando i lavoratori interessavano noi sindacalisti di
un problema lavorativo, ne discutevamo con il ****”.
Tali circostanze, peraltro, trovano conferma nei
verbali di riunioni sindacali prodotti da parte ricorrente, nei quali il ricorrente risulta sempre presente.
Deve rilevarsi che i predetti testi hanno riferito circostanze di fatto apprese direttamente, in virtù dei
ruoli che all’epoca dei fatti di causa avevano presso la
Società resistente. Non così gli altri due testi, dei quali
uno, ****, dipendente prima addetto al protocollo e poi,
dal luglio 2004, autista del presidente della Società,
evidentemente non ha mai potuto conoscere direttamente le vicende relative al ricorrente, se non per sentito
dire. L’altro, ****, dipendente della **** dal 12‑1‑2004,
all’epoca dei fatti di causa addetto alla segreteria, si è
limitato ad affermare che il ricorrente era un consulente della Società resistente, senza essere in grado di descriverne le effettive mansioni.
Le descritte risultanze istruttorie confermano quindi
che il ricorrente è stato, fin dal 1‑4‑03, data della stipula del primo contratto, stabilmente inserito nell’organizzazione aziendale della **** S.P.A., nell’ambito della
quale ricopriva un ruolo rilevante, essendo dotato di
autonomia e potere decisionale, e rispondendo del suo
operato soltanto all’Amministratore della Società.
Peraltro, è circostanza incontestata che il ricorrente
abbia sempre ricevuto un emolumento fisso mensile, e
che non vi fossero in azienda altri dipendenti con mansioni dirigenziali che si occupassero di gestione del
personale, rapporti con i sindacati, e di tutte le altre
attività sopra descritte cui era preposto il ****. Infatti
la stessa difesa della Società resistente nella memoria
difensiva con cui si è costituita in giudizio ha precisato
di non aver mai avuto alle sue dipendenze alcun dipendente con mansioni di dirigente.
Quindi tra le parti si è instaurato fin dall’inizio un
rapporto di lavoro subordinato, non avendo l’attività
svolta dal **** alcun carattere di occasionalità, contrariamente a quanto scritto nei contratti del 17‑3‑03 e del
30‑6‑03. L’attività è continuata, senza interruzione e
con le medesime caratteristiche, fino al 31‑12‑04.
In aggiunta alle considerazioni già esposte, deve
inoltre rilevarsi come il contratto di lavoro a progetto
stipulato tra le parti, relativo all’anno 2004, sia privo
del requisito di cui alla lettera b) dell’art. 62 Dlgs.
276/03, ovvero della compiuta “indicazione del progetto o programma di lavoro, o fasi di esso, individuata
nel suo contenuto caratterizzante”.
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41
Al riguardo il contratto prevede, all’art. 1: “La società stipulante conferisce al Dr. Antonio ****, che accetta,
l’incarico di organizzare e supportare la segreteria
dell’Amministratore Delegato della ****, in modo da
ottimizzare il servizio e le attività espletate”. Appare
quindi conferito al ricorrente un mero incarico di “organizzazione di segreteria”, in forma generica, senza
l’indicazione di un vero e proprio progetto, che presuppone l’indicazione di un preciso risultato da raggiungere,
eventualmente con una scansione dei tempi e modi di
realizzazione. Questo comporta le conseguenze di cui
all’art. 69 del Dlgs. 276/03, che così dispone: “1. I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro
subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di
costituzione del rapporto.
2. Qualora venga accertato dal giudice che il rapporto instaurato ai sensi dell’articolo 61 sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le
parti.
3. Ai fini del giudizio di cui al comma 2, il controllo
giudiziale e’ limitato esclusivamente, in conformità ai
principi generali dell’ordinamento, all’accertamento
della esistenza del progetto, programma di lavoro o
fase di esso e non può essere esteso fino al punto di
sindacare nel merito valutazioni e scelte tecniche, organizzative o produttive che spettano al committente”.
Sul punto, si veda Trib. Milano 28/8/2008: “Nei
contratti di lavoro a progetto, qualora il programma o
progetto, invece di essere individuato come realizzazione
di un preciso e circostanziato piano di lavoro o risultato,
consista semplicemente nella messa a disposizione
dell’attività lavorativa del collaboratore lo stesso è da
ritenersi assolutamente generico. In tal caso si realizza
l’ipotesi di cui all’art. 69 del D.Lgs. n. 276/03, con la
conseguenza che il rapporto tra le parti deve essere considerato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”. Ancora Trib. Milano 16/7/2008: “Il
progetto, oltre a dover essere necessariamente predeterminato ed elaborato per iscritto in modo e in termini
sufficienti ad individuare il risultato che il prestatore
deve dare e che il committente si attende, non può evidentemente coincidere con il concreto espletamento
dell’attività aziendale genericamente intesa ma deve caratterizzarsi e connotarsi puntualmente rispetto ad essa,
seppure evidentemente coordinandosi ed armonizzandosi con l’attività aziendale complessivamente intesa”.
Si è già detto, comunque, che dalle risultanze della
prova testimoniale espletata l’attività svolta dal ricorrente è apparsa del tutto diversa rispetto a quella indicata nel “contratto a progetto” relativo al 2004.
Ritenuta quindi la sussistenza tra le parti di un rap-
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porto di lavoro subordinato, deve affermarsi che il ricorrente ha diritto a vedersi riconoscere, quale compenso della sua attività, il trattamento economico previsto
dal contratto collettivo per i Dirigenti di Aziende Industriali, applicabile al caso di specie per la natura dell’attività svolta dalla Società resistente.
Prendendosi dunque a riferimento gli importi di cui
prospetto contabile sub IIIb di cui al ricorso, deve quindi condannarsi parte resistente al pagamento in favore
del ricorrente della somma di euro 35.453,96, oltre accessori, per differenze paga, mensilità aggiuntive e indennità sostitutiva ferie.
Il ricorrente, inoltre, lamenta anche di aver subito un
illegittimo licenziamento.
Sul punto parte resistente si è limitata a dedurre che
il rapporto di lavoro è cessato allo spirare del termine,
in quanto il contratto a progetto stipulato tra le parti
prevedeva uno svolgimento relativo a tutto l’anno
2004.
Si è già esposto che nel caso di specie il contratto è
da ritenersi nullo per mancanza del progetto, e dunque,
essendosi instaurato tra le parti un rapporto di lavoro
subordinato, il recesso da tale rapporto così come esercitato dalla **** S.P.A. appare non sorretto da adeguata giustificazione, con diritto del **** a ricevere l’indennità supplementare prevista e disciplinata dall’art. 19
del CCNL per i Dirigenti di Aziende Industriali, ritualmente prodotto in atti. Difatti la valutazione della giustificatezza del licenziamento del dirigente deve essere
operata sulla base di criteri non integralmente coincidenti con quelli di cui alla L. n. 604/196: l’espressione
“giustificatezza” utilizzata nella disposizione contrattuale non corrisponde al concetto legale di giustificato
motivo, posto che, comunque, rispetto al dirigente resta
un’area di libera recedibilità del datore di lavoro. Ciò
significa che il licenziamento del dirigente è ingiustificato ogni volta che il datore di lavoro, come nel caso
oggetto del presente giudizio, eserciti il proprio diritto
di recesso violando il principio fondamentale di buona
fede che presiede all’esecuzione dei contratti ex art. 1375
c.c. (Trib. Milano 22/11/2007)
Condividendosi le risultanze del conteggio sub IIIb
di cui al ricorso, spettano quindi al ricorrente anche le
seguenti somme: euro 53.733,00 a titolo di indennità
sostitutiva del preavviso, euro 194.783 a titolo di indennità supplementare, ed euro 12.498,23 a titolo di T.F.R.,
oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali ex
art. 429, III comma, c.p.c. ed art. 150 disp. att. c.p.c.
dalla maturazione dei crediti al saldo.
Riconosciuta la fondatezza della domanda attorea,
deve rigettarsi la domanda di risarcimento dei danni da
responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., proposta in
via riconvenzionale da parte resistente.
Le spese processuali seguono la soccombenza e si
liquidano in dispositivo.
[…Omissis…]
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Nota a cura di Mario De Bellis
Avvocato
La pronuncia in oggetto merita una particolare attenzione in quanto analizza i tratti caratterizzanti la
figura del dirigente, approfondisce la tematica delle
motivazioni del licenziamento di tale categoria di lavoratori ed affronta la problematica della riqualificazione
dei contratti di lavoro a progetto.
In particolare, in ossequio all’orientamento giurisprudenziale prevalente,ribadisce che il tratto caratterizzante la figura del dirigente è rappresentato dall'esercizio
di un potere ampiamente discrezionale che incide sull'andamento dell'intera azienda o che attiene a un autonomo
settore produttivo della stessa, non essendo, per converso, necessaria la preposizione dell'intera azienda.
Affronta nello specifico la portata dell'espressione
"giustificatezza" utilizzata dall’art. 19 del CCNL per i
Dirigenti di Aziende Industriali con riferimento alla
motivazione del licenziamento, espressione che non
corrisponde al concetto legale di giustificato motivo,
posto che, comunque, rispetto al dirigente resta un'area
di libera recedibilità del datore di lavoro. Tale termine
va inteso nel senso che il licenziamento del dirigente è
ingiustificato ogni volta che il datore di lavoro esercita
il proprio diritto di recesso violando il principio fondamentale di buona fede che presiede all'esecuzione dei
contratti ex art. 1375 c.c.
La problematica di maggiore interesse della presente
pronuncia si rinviene poi nell’analisi della recente categoria dei contratti di lavoro a progetto.
Uniformandosi a recenti precedenti della giurisprudenza del Tribunale di Milano, il Giudice del Lavoro di
Napoli, con la presente pronuncia, afferma che a norma
dell'art. 69 del D.Lgs. n. 276/03 il rapporto tra le parti
deve essere considerato un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quando il programma o
progetto, invece di essere individuato come realizzazione di un preciso e circostanziato piano di lavoro o risultato, consista semplicemente nella messa a disposizione
dell'attività lavorativa del collaboratore ed è quindi da
ritenersi assolutamente generico. Il progetto non può
semplicemente coincidere con il concreto espletamento
dell'attività aziendale genericamente intesa ma deve
caratterizzarsi e connotarsi puntualmente rispetto ad
essa, seppure evidentemente coordinandosi ed armonizzandosi con l'attività aziendale complessivamente intesa,
e, in ogni caso, deve essere necessariamente predeterminato ed elaborato per iscritto in modo e in termini sufficienti ad individuare il risultato che il prestatore deve
dare e che il committente si attende.
Tale sentenza ha quindi il pregio di fornire una linea
guida per l’interpretazione del concetto di progetto,
affrontando di fatto la riqualificazione dei rapporti di
lavoro nascenti da tale tipo di contratto quali rapporti
di lavoro subordinato.
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
OBBLIGAZIONI E CONTRATTI – COLLEGAMENTO NEGOZIALE – VOLONTÀ DELLE PARTI – PROVA
Sussiste collegamento negoziale quando la volontà
delle parti di rendere i contratti interdipendenti emerge
in maniera espressa o può desumersi dalla sussistenza
di un comune regolamento di interessi.
Trib. Napoli, Sez. IX, 10 luglio 2009, ord., Giud. B.
Calaselice
[…Omissis…]
Letti gli atti, sciolta la riserva di cui al verbale
dell’udienza del ***.
Rilevato che nel costituirsi, la società intimata si è
opposta alla convalida dell’intimato sfratto per morosità sollevando diverse eccezioni (segnatamente la nullità
e/o inesistenza della procura alle liti rilasciata alla società intimante, l’inammissibilità della intimazione di
sfratto, l’esistenza di una clausola arbitrale, e l’inammissibilità della richiesta di ingiunzione dei canoni scaduti)
onde quest’ultimo non può essere convalidato.
Ritenuto che, alla luce dell’orientamento costante
della Suprema Corte, il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisce in giudizio in rappresentanza di un ente, può essere sanato in qualunque
stato e grado del giudizio stesso, con efficacia retroattiva, e tale sanatoria può avere ad oggetto tutti gli atti
processuali già compiuti per effetto della costituzione in
giudizio in rappresentanza dell’ente, manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta
difensiva del falsus procurator.
Rilevato che tanto la ratifica, quanto la conseguente
sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da un soggetto non abilitato a
rappresentare in giudizio la società, trattandosi di un
atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi,
formali o sostanziali, attinenti a violazione degli articoli 83 e 125 c.p.c. (Cass. 15.9.2008, n. 23670; Cass. ordinanza n. 18132 del 28.8.2007; Cass. 19.6.2007,
n. 14260).
Ritenuto che, quanto all’eccezione di clausola compromissoria, fra le controversie non deferibili ad arbitri
rientrano tutte quelle per le quali è prevista la competenza funzionale ed inderogabile del giudice ordinario,
come, in particolare, i procedimenti speciali di convalida di licenza o di sfratto per finita locazione e di sfratto
per morosità, previsti dagli artt. 657 e 658 cod. proc civ.
che appartengono alla competenza funzionale del giudice ordinario, limitatamente peraltro alla prima fase a
cognizione sommaria, non sussistendo invece alcuna
preclusione a che nella fase successiva a cognizione piena la causa sia decisa nel merito da arbitri;
Ritenuto, dunque, che la deduzione, nella fase sommaria, dell’esistenza di una clausola arbitrale, non priva
questo giudice della competenza ad emettere i provvedimenti immediati che appartengono alla prima fase del
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procedimento di sfratto per morosità, ma lo obbliga,
una volta chiusa la fase anzidetta, e qualora l’eccezione
dovesse rilevarsi fondata, a declinare con sentenza la
propria competenza, dichiarando sussistente per il merito quella arbitrale, incombendo poi alle parti di attivarsi per l’effettivo svolgimento del relativo giudizio.
Rilevato, altresì, che in ordine alla sussistenza della
dedotta morosità la società intimata ha depositato copia
di due assegni dell’importo rispettivamente di euro
200.000,00 e di euro 100.000,00, nonchè copia della
ricevuta rilasciata alla sig.ra *** in data 26/5/2009.
Rilevato che l’eccezione relativa al mancato incasso
dell’assegno di euro 200.000,00 formulata all’udienza
di convalida dal procuratore della società intimante,
stante la mancata copertura dello stesso, appare alla
stato – ed impregiudicata ogni ulteriore valutazione nel
prosieguo – priva di riscontri;
Rilevato che in merito alla dedotta morosità, la stessa non è più persistente nella misura intimata e considerato che con un unico atto di intimazione la società intimante richiede la convalida della sfratto e l’emissione
dell’ordinanza di rilascio per tutti e tre gli immobili
locati deducendo che trattasi di complesso immobiliare
unico.
Ritenuto che non emerge allo stato la predetta unicità né il dedotto collegamento funzionale tra gli immobili e negoziale tra i contratti, in quanto non emerge
dalla lettura dei contratti di locazione la volontà delle
parti volta a concordare che gli stessi siano dipendenti
l’uno dall’altro, né emerge un regolamento di interessi
comune, anche in considerazione della circostanza che
i contratti sono distinti e separati, sono stati stipulati in
epoche diverse (peraltro a distanza anche di un numero
piuttosto elevato di anni), prevedono ciascuno un canone di locazione diverso relativo al singolo immobile ed
inoltre in nessun contratto si dà conto che la locazione
è stipulata per soddisfare esigenze connesse a quelle
relative alla locazione degli altri immobili.
Rilevato che la mancanza della predetta unicità, non
avendo il ricorrente fornito elementi di prova sufficienti ad asseverare l’assunto sostenuto, impedisce l’emissione del’ordinanza di rilascio, atteso che non può ritenersi sussistente la mora, allo stato, per tutti e tre gli immobili.
Rilevato che non questo giudice imputare il pagamento effettuato all’una piuttosto che all’altra morosità,
neppure alla luce di criteri dettati dall’art. 1194 c.c.
appalesandosi la necessità di approfondire nel merito la
volontà di una imputazione diversa (che peraltro può
essere desunta anche da facta concludentia e da elementi presuntivi – rispettivamente si vedano Cass. sent.
1347/78 nonchè Cass. sent. 489/75‑);
Considerato, conclusivamente, che l’opposizione
proposta merita di essere approfondita nel merito, onde
sussistono i giusti motivi di cui all’articolo 665, comma
uno, c.p.c., per denegare la chiesta ordinanza provviso-
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ria di rilascio e che è necessario disporre il passaggio
dalla fase sommaria del procedimento a quella a cognizione piena ed esauriente;
Letti ed applicati gli artt. 665, 667, 426 c.p.c.
[…Omissis…]
Nota a cura di Ermanno Restucci
Avvocato
Sul presupposto che il conduttore era moroso nel
pagamento di canoni di locazione, parte locatrice chiedeva convalidarsi lo sfratto per morosità e l’emissione
dell’ordinanza di rilascio di tre diversi immobili oggetto
di altrettanti contratti di locazione.
La conduttrice si opponeva eccependo, tra l’altro, che
la morosità non era più persistente nella misura intimata essendo intervenuti dei pagamenti.
La richiesta di ordinanza provvisoria di rilascio veniva respinta perché, a causa dei pagamenti effettuati
dalla conduttrice, non poteva più ritenersi sussistente la
mora per tutti gli immobili oggetto della richiesta e non
vi era prova agli atti della sussistenza di un collegamento negoziale tra i contratti, conseguenza di un collegamento funzionale tra gli immobili.
La decisione è stata correttamente basata sulla pacifica nozione di collegamento negoziale volontario,
quale vincolo tra più contratti, costituito dalle parti
nell’esercizio dell’autonomia loro riconosciuta, che, nel
rispetto della causa e dell’individualità di ciascuno, indirizza gli stessi al perseguimento di una funzione unitaria che trascende quella dei singoli contratti e investe
la fattispecie negoziale nel suo complesso1.
Il collegamento tra i contratti, che determina un
nesso di interdipendenza tra di essi, si verifica quindi
quando è unico è l’interesse perseguito dalle parti 2 attraverso una più ampia operazione.
Il Tribunale, con la decisione in commento, si conforma all’opinione prevalente secondo cui il collegamento negoziale va accertato tenendo conto non solo della
volontà espressa delle parti3 ma della volontà come obbiettivata nel regolamento di tutti i contraenti4.
1 Cass., Sez. Un., 25 novembre 2008, n. 28053, Guida al dir., 2009,
2, 68.
2 Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 004, 800.
3 Che potrebbero anche non essere le stesse in tutti i contratti:
Cass. 97/827; contra Cass. 97/11932.
4 Minoritaria è rimasta l’opinione di chi ritiene che il collegamento tra
i contratti concreti sempre, in realtà, un unico contratto: Sacco‑De
Nova, Trattato di Diritto Civile, diretto da Sacco, Torino, 1993,
p. 461.
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diritto e procedura
Penale
Inerzia e Proclami
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Giuseppe Riccio
Ordinario di procedura penale presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
La compatibilità costituzionale del terzo scudo fiscale 50
italiano tra profili operativi e prassi premiale
Felice Carbone
Avvocato
Domenico Bellobuono
Commercialista
Rassegna di legittimità
63
A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli
Andrea Alberico
Dottorando di ricerca in Diritto Penale, Università degli studi di Napoli “Federico II”
A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Napoli
Giuseppina Marotta
Avvocato
68
penale
Rassegna di merito
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●
Inerzia e Proclami
● Giuseppe Riccio
Ordinario di procedura penale
presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
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1.– La Procedura penale vive da 60 anni stagioni
controverse, storicamente condizionate da contrapposte
esigenze storico-politico-sociali che ne determinano
l’assetto.
L’epoca postcostituzionale fu legittimamente caratterizzata da spinte riformiste ed urgenze novellistiche,
cioè, da strategie rigeneratrici di un sistema che non
poteva ricondursi al finalmente acquisito Statuto democratico. L’epoca odierna è viceversa connotata da conflitti di tutt’altro genere; tutti, però, ruotano intorno al
tema-giustizia con specifica attenzione al processo penale, il cui sistema normativo è giunto a connotati di
irriconoscibilità.
Le cause di tale crisi – si vedrà – sono di diversa natura. Ma va subito notato che l’intreccio tra risalenti
problemi sovrastrutturali, di organizzazioni istituzionali, di scarsa (troppo scarsa) attribuzione di risorse di
vario genere e temi ordinamentali induce un senso di
sconforto e un atteggiamento pessimistico sul “cosa
avverrà”. Anche perché, mentre si è d’accordo che la
crisi interna al sistema è determinata – non solo – da un
continuo profluvio di innesti modificativi estranei alla
filosofia codicistica di fine millennio, non si è poi concordi sul metodo e sui contenuti per la soluzione del
triste e insopportabile stato di cose, metodo e contenuti
su cui si discute ormai da 20 anni, pari pari quelli oggi
raggiunti dal Codice.
Si discute, ma non si opera.
Perciò sembra che questa sia l’epoca di una nuova
neutralità, nonostante la diffusa consapevolezza che la
Procedura penale abbia perduto dizionario e sintassi.
Si assiste inerti al perverso intersecarsi di discordia e
immobilismo pressochè permanente comportamento
rinunciatario della politica, che annulla i quotidiani
proclami di tutte le parti. Per non dire che quel poco che
si fà dovrebbe essere evitato, se non altro perché diventa
ulteriore causa di crisi del sistema.
In questo clima la magistratura legittima, con scansioni ravvicinate, un invasivo diritto giurisprudenziale
per far fronte ai bisogni indotti dall’abulia del legislatore in materia di riconoscimento di diritti e/o di attrazione di decisioni assunte in istituzioni europee.
Le affermazioni non sono contestabili: sono giornaliere e di tono elevatissimo le denunzie della crisi, escluso ormai alcun fronte ed è elevata la quantità di disegni
di legge presentati in Parlamento, già a partire dagli
inizi degli anni ’90, con risultati pressochè fallimentari
sul piano della effettività ed efficacia della giurisdizione;
le une e gli altri confermano il giudizio sulla convinzione secondo cui la crisi è al capolinea.
A fronte di tale situazione nelle due precedenti legislature con diversa metodologia e differenti strategie i
rispettivi governi (Ministri Castelli e Mastella) hanno
messo in campo iniziative modificatrici dell’intero Codice di procedura penale, sostenute da Commissioni
tecniche (rispettivamente, Dalia e Riccio), avendo rag-
penale
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giunto la certezza che sul terreno normativo nessun
rattoppo può frenare il disfacimento ordinamentale.
Non così nell’attuale legislatura: il nuovo Governo è
sicuro che il “ritocco” di taluni settori salverà il Paese
dalla crisi di democrazia, indotta dalla crisi della giurisdizione.
La sequenza degli eventi produce sull’addetto ai lavori (come si usa dire) due inziali impatti – la dissonanza all’interno della stessa area politica di strategie differenti; la incapacità (o la nolontà) di continuare l’opera
intrapresa nella precedentelegislatura; – e pone la domanda del perché il bisogno di riforma del Codice politicamente avvertito come indiffereribile è affidato ad
interventi novellistici, pur in presenza di un incontestabile aggravemento della crisi causato proprio dall’ulteriore frantumazione del sistema ad opera, appunto, di
modifiche settoriali.
La risposta – non semplice, né univoca –, se non può
essere quella della mancanza di volontà di risolvere la
crisi, non può che attestarsi su errori di analisi, peraltro,
palesi nelle relazioni che accompagnano i diversi disegni
di legge parlamentari e/o governativi.
Contemporaneamente si rileva che energie e risorse
utilmente spese nelle precedenti legislature (sulla “Bozza-Riccio” – che tenne conto del precedente “ProgettoDalia” – si sono pronunziate le Istituzioni giudiziarie del
Paese) sono accantonate sul falso presupposto che quanto fatto ieri non può valere oggi per la diversa area politica di Governo: vecchia abitudine ed insano alibi,
coltivati sin dall’inizio degli anni ’60, che manifesta la
caratura di chi è aduso a sottoporre le risorse tecniche
ai bisogni di parte, per cui giudica di parte l’opera di chi
ha preso a misura del proprio agire i bisogni della collettività.
2. – Di quell’intreccio di cause, strutturali e non, va
detto che col tempo sono mutate le priorità; nel senso
che oggi appaiono indifferibili le riforme sovrastrutturali tanto quanto quelle strutturali, essendo, le prime,
irrinunziabile sostegno alla rifondazione del sistema
processuale; e ciò non solo perchè – come disse negli
anni ’80 l’allora Ministro Vassalli–, nessuno è così ingenuo da ritenere che la riforma del Codice possa risolvere, da solo, i problemi della Giustizia. Oggi sono coessenziali alla riforma del Codice, per lo meno, la revisione dei territori dei circondari, la rivisitazione delle
funzioni del giudice di pace, la individuazione di un
organismo cui affidare la attuazione dei criteri di priorità, la predisposizione dell’ufficio del processo ed altro,
revisioni ordinamentali e organizzative indispensabili
per i primi passi verso il superamento della crisi.
Tra le cause di crisi interna all’ordinamento processuale – senza ampliare eccessivamente l’analisi – appaiono centrali: l’ampliamento delle fonti comunitarie, che
creano nuove esigenze legislative mai attuate nel nostro
Paese; le risoluzioni del Consiglio d’Europa che in più
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
occasioni ha richiamato l’Italia ad adeguare la normativa interna a quella comunitaria e/o della CEDU; la
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che non ha perso
occasione per condannare lo Stato per i “vizi” del processo contumaciale e per la irragionevole durata del
processo, alla cui giurisprudenza si adegua, spesso in
modo acritico, la Corte di cassazione; i contrasti giurisprudenziali interni che mettono in pericolo l’uguaglianza di trattamento, talvolta a causa di vizi dommatici,
molto più spesso per il persistere di vuoti normativi; il
bisogno della “completabilità” delle indagini preliminari che ha fatto da sfondo alla legge Carotti e che ha
fronteggiato il bisogno di conoscenza del processo; epperò essa ha certamente aggravato una crisi risalente,
determinando ulteriori insopportabili stasi processuali;
l’entrata in vigore dell’art. 111 Cost., che modifica la
filosofia di sistema approdando al “processo di parti” e
alla “centralità della giurisdizione” e che, contestualmente, riconosce i “tempi del processo” quale elemento
virtuoso con cui far fronte alla efficienza della giurisdizione e alla certezza ed effettività della pena.
Un così vasto terreno di crisi; un così colorito panorama, se, per un verso, dimostra la “debolezza” del sistema, più significativamente denunzia i limiti di strategie “tampone”…
Perciò, nella scorsa legislatura si ritenne non corrispondente ai bisogni riformistici la scelta metodologica
operata dal compianto prof. Dalia, che preferì scrivere
il Codice senza ricorso alla legislazione delegata, tecnica preferita, invece, dal precedente Governo proprio per
la vastità dell’opera, nonostante essa fosse inspiegabilmente contestato dall’Avvocatura – (l’Accademia – intesa come rappresentanza – sembra non avere parere sul
punto) – ed ora contraddittoriamente praticata dal Governo, che vi ricorre per modifiche disciplinari di semplice soluzione, non per settori strategici del processo
(cfr. ddl. Alfano). Perciò, si ha l’impressione, che l’attuale Governo si muova senza un’approfondita analisi e
senza una visione strategica del problema.
Eppure, le ragioni che militano a favore della leggedelega, quale unico strumento capace di riscrivere, razionalmente, percorsi processuali efficienti nel rispetto
delle garanzie dell’individuo, sono valide ed incontestabili ancora oggi e non solo perché facilitano i lavori
parlamentari: una cosa è discutere direttive “politiche”
di una determinata vicenda legislativa, altra cosa è interessarsi di testi normativi specifici, che, pur inerenti
ad un particolare settore, devono rivelare immediatamente i punti di razionalità che li coniugano ad altri
settori connessi e/o collegati. E poi, i vizi di razionalità
di un’opera che agisce direttamente sulle discipline è
quotidianamente testimoniato dalla storia parlamentare e dall’attività giudiziaria, spesso accadendo che la
modifica di un segmento normativo e/o l’inserimento di
un emendamento alterano definitivamente senso e filosofia del pur parziale intervento.
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Peraltro, il dimostrato mutamento della filosofia
costituzionale richiede un nuovo approccio al sistemaprocesso e la pratica di linee di efficienza complessiva
del “pianeta-Giustizia”, dovendo l’opera riformista riguardare modelli e “finestre” di giurisdizione durante
le indagini; il sistema delle prove per far fronte alla tipizzazione di nuovi mezzi “invasivi” delle libertà della
persona; la rilevabilità dei vizi di competenza, degli
atti, delle sanzioni processuali, delle notificazioni, queste, anche al fine di eliminare il processo in contumacia;
e, tutto, ciò nell’ottica della realizzazione della “ragionevole durata del processo”. Insomma, bisogna restituire al sistema razionalità ed al Codice un assetto capace
di riconiugare tempi e garanzie, secondo la filosofia del
“giusto processo”, obiettivo che non può raggiungersi
agendo sui settori. Deve essere delega, infine, per le
radicali scelte politiche a cui è chiamato il Parlamento
per rinnovare la fiducia nel sistema accusatorio e nella
struttura a fasi disomogenee (azione vs giudizio) disegnata dal Codice di fine anni ’80 che resta modello irrinunciabile) e, contestualmente, per aprire la strada a
nuove originalità strutturali ed a maggiori razionalità
sistemiche, cioè, ad un reale e moderno “processo di
parti”.
3. – Il miglior sostegno all’idea di metodo ora dichiarato come insostituibile viene proprio dalla sintesi del
ddl Alfano, che dichiara di voler realizzare la ragionevole durata nel processo, ma in sostanza ne aggrava i
tempi con riforme di settore tra loro contraddittorie e
con tessuti normativi che ne tradiscono la ratio.
I pochi esempi che qui possono essere fatti evidenziano siffatte distonie. La pretesa garantista della collegialità cautelare, il riconoscimento della “naturalità”
della Corte di Assise anche per il giudizio abbreviato, la
testuale abolizione dell’udienza camerale in sede di archiviazione e di avviso di conclusione delle indagini, la
semplificazione procedimentale dei processi a citazione
diretta, la limitazione probatoria di certi atti (le sentenze) e dei poteri di ammissione delle prove, sono situazioni tra loro intrinsecamente dissonanti, quando non
antitetiche, per cui è pressochè impossibile individuare
il filo conduttore della manovra. Come si vede si contrastano tentativi di ampliamento delle garanzie e “cenni” di riduzione dei tempi processuali affidati, soprattutto, alla riforma di avvisi, comunicazioni, notificazioni, opera certamente virtuosa – come l’uso di tecniche
telematiche nel processo – ma incomplete e inefficaci se
non si creano i presupposti normativi per capovolgere
l’onere di conoscenza nel e del processo.
Al dunque, traspare l’impressione che assiomi teorici prevalgono sui bisogni del processo e che ci si muova
senza razionalità, privilegiando apparenti istanze garan-
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tiste (la collegialità; i nuovi poteri probatori) o esigenze
di rapidità (citazioni dirette, archiviazione e avviso), che
collidono con l’altra linea e che si realizzano senza i
presupposti procedimentali su cui costruire siffatte
nuove strade processuali e le linee di razionalità che
reciprocamente legittimino le une e le altre.
Per semplificare: la collegialità (reale, effettiva) è
senza dubbio un valore della giurisdizione; ma non ci si
chiede se essa sia tale nella specifica fattispecie e – all’opposto e contraddittoriamente – perché si restringano
ulteriormente gli spazi di garanzia nei giudizi monocratici. Certo. La collegialità è l’elemento di tranquillità
nella valutazione delle vicende cautelari; ma essa richiede la conseguenziale abolizione del riesame ed il preventivo ascolto dei soggetti “da colpire”, per evitare il rischio che il provvedimento cautelare collegiale crei
pregiudizio, reintroducendo il dibattimento sulla prova
non per la prova: il giudizio cautelare di sei giudici di
merito e di cinque giudici di legittimità è valutazione
“tombale” in termini di colpevolezza; a meno che non
si voglia introdurre un contraddittorio sistema di riduzione del ricorso ai “controlli” e, quindi, di limitazione
delle garanzie.
Ancor più serio e preoccupante il tema sul piano
dell’organizzazione giudiziaria, dal momento che quel
tipo di collegialità richiede la totale revisione dei territori dei circondari, i cui proclami sono seguiti da inerzia
operativa.
Parimenti; semplificare i procedimenti per citazione
diretta affidandone la responsabilità investigativa alla
polizia giudiziaria significa scavare un più profondo
solco nel principio di uguaglianza, indipendentemente
da valutazioni di opportunità circa la “responsabilità”
delle indagini. Peraltro, la istituzione di un “reciproco
controllo” tra pubblico ministero e polizia giudiziaria e
la previsione di indagini parallele dei due poteri rompe
gli equilibri del processo, lasciano trasparire la vera
intenzione del legislatore e facendo intravedere pericolose sovrapposizioni investigative: così il processo corre
il rischio di un definitivo fallimento, del quale è difficile pensare che il proponente non si renda conto.
In questo contesto si ha l’impressione che il Paese
viva una “nuova emergenza” sul piano culturale e politico. Essa propone al giurista – ma soprattutto alla Politica – una sfida affascinante e contemporaneamente
dura, quella di avviare un nuovo processo di acculturamento sui valori condivisi, liberando il campo da scorie
del passato, da atteggiamenti vetero-illuministi lontani
dai reali bisogni del Paese, da bizantinismi di superficie
incapaci di cogliere gli stretti interstizi entro cui incuneare la scelta migliore e più razionale, non quella più
conveniente, seguendo l’”etica della responsabilità” non
quella della “rappresentanza”.
penale
Gazzetta
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D i r i t t o
●
La compatibilità
costituzionale del terzo
scudo fiscale italiano
tra profili operativi
e prassi premiale
● Felice Carbone
Avvocato
Domenico Bellobuono
Commercialista
e
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Gazzetta
F O R E N S E
Dopo sette anni, dalla prima versione del provvedimento denominato “scudo fiscale”, è stato convertito in
legge, con 270 voti favorevoli, 250 contrari e 2 astenuti,
il D.L. n. 103/2009 (disposizioni correttive del decreto
legge “anticrisi”) che ha reso dal 15 settembre 2009
operativo il terzo scudo fiscale italiano1.
Secondo i compilatori, tale strumento rientra nella
categorie delle norme di contrasto alla detenzione di
attività detenute irregolarmente nei cosiddetti ‘paradisi
fiscali’ ed incentiva il rimpatrio fisico dei capitali che
potrebbero essere impiegati nell’economia nazionale in
un periodo di profonda crisi.
Una lettura “giornalistica” del provvedimento lo segnala come l’ennesimo sofisma erariale per fare cassa.
Certo è che esso è compatibile con il sistema costituzionale perché “non è di per sé irragionevole che la
normativa di condono fiscale persegua i soli contingenti
e concorrenti obiettivi propri di detto condono, cioè ridurre il contenzioso (anche potenziale) con i contribuenti e conseguire un immediato introito finanziario, benché
in misura ridotta rispetto a quello astrattamente
ricavabile”2.
L’occasione dell’intervento normativo è stata l’ intesa
raggiunte in sede Ocse di un mutuo scambio di informazioni fiscali che i paesi aderenti devono fornirsi.
Sono 62 gli Stati che si sono riuniti per discutere di
1 Nel presentare il terzo scudo fiscale, il ministro italiano delle finanze
Giulio Tremonti ha dichiarato che “Il vero beneficio è chiudere la
caverna di Alì Babà. È inutile fare la lotta all’evasione se non si chiudono i paradisi fiscali”.
2 Corte Costituzionale con ord. n. 109 anno 2009 ha statuito che “è
manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 15, comma 7, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, nella
parte in cui prevede l’esclusione, ad ogni effetto, della punibilità per
i reati tributari in esso elencati, nel caso di perfezionamento della
definizione dei processi verbali di constatazione da cui risultano i
reati medesimi, sollevata, per irragionevolezza della disciplina denunciata per diversità di trattamento rispetto al condono degli abusi
edilizi, in riferimento all’art. 3 Cost. Il rimettente pone a raffronto
ipotesi di condono che, pur determinando lo stesso effetto estintivo
del reato, restano eterogenee, perché, mentre la normativa sul condono edilizio – anche nel caso in cui esso sia disposto per ragioni contingenti di natura finanziaria – esige necessariamente un peculiare
bilanciamento con una pluralità di interessi costituzionalmente protetti (quali, ad esempio, il governo del territorio, la tutela del paesaggio, dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali), il condono
fiscale, invece, è essenzialmente diretto a soddisfare l’interesse costituzionale all’acquisizione delle disponibilità finanziarie necessarie a
sostenere le pubbliche spese, incentivando la definizione semplificata
e spedita delle pendenze fiscali mediante il parziale pagamento del
debito tributario; sicché la rilevata diversità degli interessi costituzionali coinvolti in ciascuno dei due menzionati tipi di condono esclude
che la normativa sul condono fiscale debba rispettare le medesime
condizioni di ragionevolezza individuate dalla giurisprudenza della
Corte per le leggi di condono edilizio e dunque non è di per sé irragionevole che la normativa di condono fiscale persegua i soli contingenti e concorrenti obiettivi propri di detto condono, cioè ridurre il
contenzioso (anche potenziale) con i contribuenti e conseguire un
immediato introito finanziario, benché in misura ridotta rispetto a
quello astrattamente ricavabile. In tema di condono fiscale, v. citate
sentenze n. 416 del 2000; n. 321 del 1995, n. 172 del 1986, n. 33 del
1981; ordinanze n. 402 del 2005, n. 550 del 2000, n. 361 del
1992.”.
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come implementare gli standard internazionali sullo
scambio di informazioni a fini fiscali, oggetto di accordi indispensabili per far uscire i paesi non collaborativi
dalla black list.
Questi standard comportano l’obbligo di tenere rilevazioni affidabili e consentire l’accesso alle informazioni sul titolare effettivo dei beni e sulle transazioni bancarie.
Il modello Ocse di trattato contro le doppie imposizioni (articolo 26, paragrafo 5) non consente allo stato
destinatario della richiesta di informazioni, di eccepire
che le notizie sono coperte dal segreto bancario o fiduciario3.
La normativa rappresenta l’ennesima opportunità
per regolarizzare la propria posizione fiscale4.
Occorre tenere in debita considerazione la portata
della nuova disposizione contenuta nell’articolo 12 del
decreto in base alla quale, in attuazione delle intese
raggiunte tra gli Stati aderenti all’OCSE in materia di
emersione di attività economiche e finanziarie detenute
in Paesi aventi regimi fiscali privilegiati e in deroga ad
ogni vigente disposizione di legge, gli investimenti e le
attività di natura finanziaria detenute, in violazione dei
predetti vincoli, in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato oggettivamente individuati nei decreti
ministeriali del 4 maggio 1999 e del 21 novembre 2001
(anche se con riferimento soltanto a talune tipologie di
enti e società), si considerano costituiti da redditi sottratti ad imposizione in Italia (cd.evasione).
Le disposizioni, contenute nello scudo fiscale, si
rivolgono alle persone fisiche e agli altri soggetti fiscalmente residenti nel territorio dello Stato che, anteriormente al 31 dicembre 2008, hanno esportato o detenuto all’estero capitali e attività in violazione dei vincoli
valutari e degli obblighi tributari sanciti dalle disposizioni sul cosiddetto “monitoraggio fiscale” – vale a
2 0 0 9
51
3Il commentario apriva con le riserve dell’Austria e della Svizzera, che
limitano la deroga al segreto bancario a casi precisi e suscettibili di
una pena detentiva. Ma ora questi stati hanno ritirato la riserva e
hanno iniziato a scrivere alle controparti per rinegoziare gli accordi
in funzione del nuovo articolo 26.
Bisogna innanzitutto individuare la natura delle attività all’estero,
occorre riflettere principalmente, sulle cause che le hanno portate
fuori dal paese di residenza dell’effettivo titolare. E per questo confronto si deve individuare quale sia questo paese: di qui l’intensificazione della lotta alle residenze estere fittizie. Quanto ai motivi
dell’esportazione di capitali, sono ormai superati quelli connessi
all’instabilità della lira, al rischio politico e all’imposta di successione. Lo scudo del 2001 fu accompagnato dall’esenzione di questo
tributo, ma le aliquote e le franchigie ora vigenti, a seguito del ripristino dell’imposta, sono ragionevoli e sensibilmente inferiori a
quelle pressoché espropriative vigenti prima delle modifiche, in
parte già intervenute nel 2000.
dire dalle norme contenute nel decreto legge 28 giugno
1990, n. 167, convertito dalla legge 4 agosto 1990,
n. 227, comprese quelle relative al trasporto al seguito
ora contenute nell’articolo 3 del decreto legislativo 19
novembre 2008, n. 195 – nonché degli obblighi di dichiarazione dei redditi imponibili di fonte estera.
Con lo scudo, quindi, si può far emergere denaro e
attività di natura finanziaria e patrimoniale attraverso
il cosiddetto Rimpatrio o la cosiddetta Regolarizzazione.
La regolarizzazione è tuttavia consentita esclusivamente nel caso in cui le attività siano detenute in Paesi
dell’Unione Europea, nonché in Paesi che consentono
un effettivo scambio di informazioni in via amministrativa.
L’emersione delle predette attività – sia nel caso di
rimpatrio che in quello della regolarizzazione – produce effetti estintivi delle violazioni di natura tributaria
e previdenziale relativamente agli importi dichiarati,
con riferimento ai periodi di imposta per i quali non
sono ancora scaduti i termini per l’accertamento, ed
estingue le relative sanzioni amministrative.
L’emersione inoltre preclude nei confronti del dichiarante e dei soggetti solidalmente obbligati ogni accertamento tributario e contributivo per i periodi d’imposta
che hanno termine al 31 dicembre 2008, limitatamente
agli imponibili rappresentati dalle somme o altre attività costituite all’estero e oggetto di rimpatrio o regolarizzazione.
Per coloro che decidono di usufruire dello scudo fiscale, come nelle precedenti edizio­ni, è garantito l’anonimato. Inoltre, il ricor­so allo scudo fiscale non può
costituire ele­mento utilizzabile a sfavore del contribuen­
te, in ogni sede amministrativa o giudizia­ria (civile,
amministrativa o tributaria), in via autonoma o addizionale, a meno che non siano in corso procedimenti
alla data del 05 agosto 2009.
Lo scudo, quindi, prevede l’ampia riservatezza,
anche nel tempo, dei dati e delle notizie comunicati agli
intermediari relativi alle attività oggetto di emersione.
Tali informazioni sono, infatti, coperte per legge da un
elevato grado di segretezza, essendo preclusa espressamente la possibilità per l’Amministrazione finanziaria
di venirne a conoscenza, ad eccezione dei casi in cui sia
lo stesso contribuente a fornirle nel proprio interesse.
Per regolarizzare la propria posizione il contribuente è tenuto al versamento di un’imposta straordinaria
sulle attività finanziarie e patrimoniali detenute all’estero a partire da una data non successiva al 31 dicembre
2008 e all’effettuazione degli adempimenti richiesti per
il rimpatrio o la regolarizzazione nell’arco temporale
che va dal 15 settembre al 15 dicembre 20095.
4 Introdotta con l’articolo 13-bis del decreto legge l° luglio 2009, n. 78,
in sede di conversione dalla legge 3 agosto 2009, nel testo risultante
dalle modifiche apportate dal decreto legge 3 agosto 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141 (di seguito “decreto”),
5 Ai fini degli effetti dell’emersione, nonché delle modalità di effettuazione della stessa, i commi 4 e 5 dell’articolo 13-bis del decreto
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e
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Il contribuente, per beneficiare delle premialità
dello scudo ter, è tenuto al versamento di una somma
pari al 50 per cento – comprensiva di interessi e sanzioni e senza il diritto allo scomputo di eventuali ritenute o crediti – di un rendimento lordo presunto in
ragione del 2 per cento annuo per i cinque anni precedenti il rimpatrio o la regolarizzazione, senza possibilità di scomputo di eventuali perdite.
Relativamente alle attività oggetto di rimpatrio, i
contribuenti che abbiano presentato la dichiarazione
riservata sono esonerati dall’obbligo di indicare le medesime attività nella dichiarazione annuale dei redditi
(modulo RW). L’esonero della compilazione del modulo
RW è previsto anche per le attività oggetto di regolarizzazione ma solo con riferimento alla dichiarazione dei
redditi relativa al periodo d’imposta 2009 (Unico
2010).
I destinatari delle disposizioni concernenti l’emersione delle attività detenute all’estero sono quelli interessati dalla normativa sul “monitoraggio fiscale” che
riguarda la necessità di compilare il quadro RW, in
determinati casi:
a) se siano stati effettuati trasferimenti (non al seguito)
da o verso l’estero di denaro, certificati in serie o di
massa o titoli effettuati attraverso soggetti non residenti in Italia, senza l’intervento di intermediari residenti che, nel corso dell’anno, complessivamente
considerati, abbiano superato l’importo di 10mila
euro. Si tratta delle cosiddette “operazioni correnti”
da indicare nella sezione I del quadro RW. In questa
sezione devono essere indicati solo i trasferimenti da
e verso l’estero e non anche quelli che avvengono
estero su estero; si deve trattare di trasferimenti per
cause diverse dagli investimenti esteri e dalle attività
estere di natura finanziaria (articolo 2 del decreto
legge 167/90). Un esempio è quello della provenienza
estera di denaro a seguito della vendita di quote di
partecipazioni da parte di una persona fisica residente in Italia a un compratore estero, senza l’operato di
intermediari residenti. Non vanno, invece, indicate
nella sezione I, ma nelle sezioni II e III, l’apertura e
la movimentazione di un conto corrente all’estero in
quanto si tratta di trasferimenti sull’estero;
b) se siano stati detenuti al termine del periodo d’imposta, per un ammontare complessivo superiore a
10mila euro, investimenti all’estero ovvero attività
estere di natura finanziaria, attraverso cui possono
fanno espresso rinvio agli articoli 11, 13, 14, 15, 16, 17, 19, commi
2 e 2-bis, 20, comma 3, del decreto legge 25 settembre 2001, n. 350,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23 novembre 2001, n. 409,
e successive modificazioni, e al decreto legge 22 febbraio 2002, n. 12,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73,
demandando ad un provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle
Entrate le relative disposizioni di attuazione e gli adempimenti anche
dichiarativi connessi all’adesione all’istituto.
p e n a l e
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essere conseguiti rediti di fonte estera imponibili in
Italia. Si tratta, quindi, di indicare la consistenza di
tali investimenti e attività al 31 dicembre anche se
nell’anno non si sono avute movimentazioni.
Ovviamente, gli investimenti e le attività finanziarie
da indicare nel quadro RW devono essere detenuti
all’estero ma devono anche essere produttivi di reddito
estero imponibile in Italia. In assenza di un reddito
imponibile di fonte estera non può esistere alcun obbligo di RW.
È quindi fondamentale disporre di una definizione
della locuzione di redditi di fonte estera imponibili in
Italia che dalla interpretazione giurisprudenziale si considerano di fonte estera i redditi corrisposti da soggetti
non residenti, nonché i redditi derivanti da beni che si
trovano al di fuori del territorio dello Stato.
Va precisato che, diversamente, non sussiste l’obbligo
di compilazione del quadro RW per gli investimenti e le
attività all’estero, in base all’articolo 4, comma 4, del
decreto legge 167/90, per:
a) i certificati in serie o di massa e i titoli affidati in
gestione o in amministrazione agli intermediari residenti (banche, Sim, società fiduciarie e altri intermediari professionali indicati nell’articolo 1 del decreto 167/90);
b) i contratti conclusi con il loro intervento, anche in
qualità di controparti;
c) i depositi e i conti correnti;
a condizione che i redditi derivanti tali attività estere di natura finanziaria siano riscossi attraverso l’intervento degli intermediari.
Si tratta di cause di esonero dalla compilazione del
quadro RW, in quanto l’obbligo di rilevazione dell’operazione sussiste in capo all’intermediario che interviene
nella conclusione del contratto o nella conclusione del
contratto o nella riscossione delle imposte.
I soggetti interessati devono essere fiscalmente residenti nel territorio dello Stato. A tal fine, con riguardo
alle persone fisiche, si deve fare riferimento alla nozione contenuta nell’articolo 2, comma 2, del TUIR, in
base alla quale si considerano residenti “le persone che
per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o hanno
nel territorio dello Stato il domicilio o la residenza ai
sensi del codice civile”.
Inoltre, come stabilito dal successivo comma 2-bis
del medesimo articolo 2 del TUIR, si considerano altresì residenti, salvo prova contraria del contribuente, i
cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da
quelli individuati con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze.
In attesa dell’emanazione del citato decreto, si considerano residenti i cittadini emigrati in Stati o territori
aventi un regime fiscale privilegiato individuati dal
D.M. 4 maggio 1999 (cosiddetta “black lisi”).
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
Ne consegue che, anche tali soggetti, ricorrendone i
presupposti, rientrano nell’ambito soggettivo di applicazione delle disposizioni in commento.
In tal caso è necessario manifestare all’intermediario
il proprio status di residente italiano, rinunciando pertanto alla possibilità di fornire la prova contraria di cui
al citato comma 2-bis dell’articolo 2 del TUIR. Si ritiene che i contribuenti la cui residenza fiscale in Italia sia
determinata in base ad accordi internazionali ratificati
in Italia e che prestano in via continuativa attività lavorative presso organismi comunitari, non siano soggetti all’obbligo di compilazione del modulo RW in
relazione alle disponibilità costituite all’estero mediante l’accredito degli stipendi o altri emolumenti derivanti da tali attività lavorative.
Si ritengono altresì esclusi dal medesimo obbligo i
residenti nel comune di Campione d’Italia in relazione
alle disponibilità detenute presso istituti elvetici in
base alle disposizioni valutarie specificamente riferite
al predetto territorio.
Tale esclusione è limitata alle disponibilità derivanti da redditi di lavoro, da trattamenti pensionistici,
nonché da altre attività lavorative svolte direttamente
in Svizzera da soggetti residenti nel suddetto Comune.
Per le società semplici, le associazioni e gli enti non
commerciali, gli articoli 5, comma 3, lettera d), e 73,
comma 3, del TUIR stabiliscono che si considerano
residenti i soggetti che per la maggior parte del periodo
d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello
Stato.
Il requisito della residenza nel territorio dello Stato
deve sussistere per il periodo d’imposta in corso alla
data di presentazione della cosiddetta “dichiarazione
riservata” (2009).
Considerato che, ai sensi dell’articolo 2 del TUIR,
il requisito della residenza si acquisisce ex tunc nel
corso del periodo d’imposta nel quale si verifica il collegamento territoriale rilevante ai fini fiscali, si deve
ritenere che possano essere inclusi nel novero dei soggetti interessati tutti coloro che, pur non risultando residenti nel territorio dello Stato alla data di presentazione della dichiarazione riservata, vengano ad acquisire
successivamente a tale data detto requisito in quanto,
ad esempio, abbiano inteso stabilire nel territorio dello
Stato, per la maggior parte del periodo d’imposta, il
proprio domicilio o la residenza ai sensi del codice civile.
Tuttavia, per poter usufruire dell’emersione delle
attività detenute all’estero, rimane fermo il presupposto
del mancato adempimento delle disposizioni sul monitoraggio fiscale nei periodi d’imposta nei quali essi
erano residenti in Italia.
In ogni caso è preclusa la possibilità di usufruire
delle disposizioni relative all’emersione delle attività
detenute all’estero per i soggetti che abbiano osservato
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53
le disposizioni sul “monitoraggio fiscale”, ma abbiano
violato unicamente gli obblighi di dichiarazione annuale dei redditi di fonte estera.
In considerazione della finalità del provvedimento,
che è quella di consentire l’emersione di attività comunque riferibili al contribuente detenute al di fuori del
territorio dello Stato, essa è ammessa non soltanto nel
caso di possesso diretto delle attività da parte del contribuente, ma anche nel caso in cui le predette attività
siano intestate a società fiduciarie o siano possedute dal
contribuente per il tramite di interposta persona.
La stessa circolare n. 99/E del 20016, con riferimento alla possibilità di regolarizzare attività detenute
all’estero tramite un trust, ha indicato, a titolo di esempio, quali casi di interposizione, il “trust revocabile
(per cui il titolare va identificato nel disponente o settlor) ovvero un trust non discrezionale nei casi in cui il
titolare può essere identificato nel beneficiario”.
Successivamente, con riferimento al trust revocabile, la circolare n. 48/E del 6 agosto 2007 ha precisato
che in questa particolare tipologia di tale istituto “il
disponente si riserva la facoltà di revocare l’attribuzione dei diritti ceduti al trustee o vincolati nel trust (nel
caso in cui il disponente sia anche trustee), diritti, che,
con l’esercizio della revoca rientrano nella sua sfera
patrimoniale. È evidente come in tal caso non si abbia
un trasferimento irreversibile dei diritti e, soprattutto,
come il disponente non subisca una permanente diminuzione patrimoniale. Questo tipo di trust… ai fini
delle imposte sui redditi non dà luogo ad un autonomo
soggetto passivo d’imposta cosicché i suoi redditi sono
tassati in capo al disponente”. Peraltro, la risoluzione
17 gennaio 2003, n. 8/E, già prima dell’introduzione
della normativa nazionale in materia di imposizione del
reddito prodotto dai trust, ha precisato che la condizione necessaria affmché un trust possa essere qualificato
soggetto passivo ai fini delle imposte `sui redditi è che
il potere del trustee nell’amministrare i beni in possesso del trust, e ad esso affidati dal disponente, sia effettivo. Al contrario, qualora il potere e il controllo sui
beni siano riservati al disponente (settlor), il trust dovrà
essere considerato come non operante dal punto di vista
dell’imposizione diretta. Allo stesso modo, in presenza
di un trust irrevocabile nel quale il trustee è di fatto
6
Come precisato nella circolare 4 dicembre 2001, n. 99/E, relativamente alla nozione di “interposta persona”, la questione non può
essere risolta in modo generalizzato, essendo direttamente connessa
alle caratteristiche e alle modalità organizzative del soggetto interposto.
In tale sede, a titolo esemplificativo, è stato chiarito che si deve considerare soggetto fittiziamente interposto “una società localizzata
in un Paese avente fiscalità privilegiata, non soggetta ad alcun
obbligo di tenuta delle scritture contabili, in relazione alla quale
lo schermo societario appare meramente formale e ben si può
sostenere che la titolarità dei beni intestati alla società spetti in
realtà al socio che effettua il rimpatrio”.
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D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
privato dei poteri dispositivi sui beni attribuiti al trust
che risultano invece esercitati dai beneficiari, il trust
deve essere considerato come non operante in quanto
fittiziamente interposto nel possesso dei beni. In buona
sostanza si tratta di ipotesi in cui le attività facenti
parte del patrimonio del trust continuano ad essere a
disposizione del settlor oppure rientrano nella disponibilità dei beneficiari.
A titolo esemplificativo, sono da ritenere fittiziamente interposti:
• trust che il disponente (o il beneficiario) può far
cessare liberamente in ogni momento, generalmente a proprio vantaggio o anche a vantaggio di terzi;
• trust in cui il disponente è titolare del potere di designare in qualsiasi momento se stesso come beneficiario;
• trust in cui il disponente (o il beneficiario) è titolare
di significativi poteri in forza dell’atto istitutivo, in
conseguenza dei quali il trustee, pur dotato di poteri discrezionali nella gestione ed amministrazione del
trust, non può esercitarli senza il suo consenso;
• trust in cui il disponente è titolare del potere di
porre termine anticipatamente al trust, designando
se stesso e/o altri come beneficiari (cosiddetto “trust
a termine”);
• trust in cui il beneficiario ha diritto di ricevere anticipazioni di capitale dal trustee.
In tali casi la dichiarazione di emersione deve essere presentata dal soggetto (disponente o beneficiario)
che è l’effettivo possessore dei beni.
Diversamente, i trust non fittiziamente interposti,
ricompresi tra i soggetti di cui all’articolo 73, comma 1,
lettera c), del TUIR, essendo tenuti agli adempimenti
previsti per tali soggetti dal decreto legge n. 167 del
1990, qualora non abbiano osservato le disposizioni in
questo contenute, possono utilizzare le modalità indicate nell’articolo 13-bis in commento per l’emersione
delle attività da essi irregolarmente detenute all’estero.
Dunque la dichiarazione di emersione deve essere
presentata dal trustee in qualità di soggetto tenuto ad
assolvere tutti gli adempimenti fiscali del trust.
È, inoltre, opportuno precisare che per trust residenti si devono intendere anche quelli la cui residenza nel
territorio dello Stato viene determinata ai sensi dell’articolo 73, comma 3, del TUIR (cosiddetti “trust esterovestiti”), vale a dire i trust istituiti in Paesi che non
consentono un adeguato scambio di informazioni, con
almeno un beneficiario e uno dei disponenti fiscalmente residenti in Italia, e i trust istituiti nei predetti Stati
quando, successivamente alla costituzione, un soggetto
residente trasferisca a favore del trust la proprietà di un
bene immobile o di diritti reali immobiliari ovvero costituisca a favore del trust dei vincoli di destinazione
degli stessi beni e diritti.
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Gazzetta
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Nel caso di trust trasparente non fittiziamente interposto, tenuto conto delle modalità di attribuzione del
reddito da esso prodotto, si ritiene che gli effetti della
dichiarazione di emersione presentata dal trustee si producano in capo ai beneficiari nei limiti e con esclusivo
riferimento ai redditi attribuiti per trasparenza dal trust
medesimo. Fra i soggetti che possono presentare la dichiarazione di emersione sono da comprendere gli eredi.
L’emersione può riguardare anche attività detenute
in comunione da più soggetti. In tal caso, la dichiarazione riservata deve essere presentata da ciascuno dei
soggetti interessati per la quota parte di propria competenza. Il comma 7-bis dell’articolo 13-bis del decreto
stabilisce che possono effettuare il rimpatrio o la regolarizzazione anche le imprese estere controllate o collegate di cui agli articoli 167 e 168 del T.U.I.R.(controlled
foreign company – C.F.C.)
Gli articoli 167 e 168 del Tuir dispongono quindi
l’applicazione della tassazione per traspa­renza in capo
ai soci italiani dei redditi pro­dotti da società di paesi
della black-list di cui si detiene il controllo o una quota
non inferiore al 20 per cento.
La norma, però, può esse­re disapplicata mediante
interpello preven­tivo dimostrando, alternativamente,
che la Cfc svolge una attività industriale o com­merciale
effettiva nello stesso mercato del­lo stato in cui ha sede,
ovvero che i redditi prodotti sono comunque tassati in
uno sta­to a fiscalità ordinaria.
Prima delle modifiche introdotte dal D.L. 103/2009,
i contribuenti persone fisiche che detengono partecipazioni in Cfc (di controllo, o di collegamento), di cui
hanno, omesso l’indicazione nel modello RW, si in­
terrogavano sulle conseguenze derivanti dal loro rimpatrio o regolarizzazione. Non era chiaro se, e in che misura, lo scudo fisca­le potesse coprire anche dalla mancata di­chiarazione dei redditi prodotti dalla Cfc, i
quali nulla hanno a che vedere con le attivi­tà emerse.
Il nuovo comma 7-bis della norma sullo scudo, pone
rimedio a queste problemati­che consentendo di attivare
lo scudo anche sulle Cfc. Viene previsto che l’emersione
(rimpatrio o regolarizzazione) può essere attuata dalla
società estera partecipata di cui agli articoli 167 e 168
del Tuir, con effetti di copertura che si producono, nei
limiti de­gli importi emersi, in capo ai rispettivi soci7.
Dunque se l’emersione viene effettuata da parte della Cfc l’oggetto della dichiarazione riservata dovrebbero
essere, almeno così pare dal dato letterale della nor­ma
il dena­ro, le attività finanziarie e le altre attività possedute dalla società, e non le azioni o quote emesse dalla
stessa Cfc detenute dai soci italiani, in questo caso oc-
7 È evidente che lo scudo è possibile se la violazione del monitoraggio
è stata commessa dai soci della Cfc e non dal­la partecipata, la quale,
in quanto soggetto non residente, non era tenuta alla compila­zione
del quadro RW.
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corre che i soci controfirmino la dichiarazione, attestando l’esistenza del possesso all’estero in viola­zione della
norme sul monitoraggio già al 31 dicembre 2008.
Ne consegue che l’’emersione della Cfc produce effetti di co­pertura direttamente sui soci, nei limiti de­gli
importi rimpatriati o regolarizzati. Per cui il socio beneficerà della preclusione accertativi in ordine alle attività detenute presuntivamente all’estero8.
Rimane invece aperto il problema delle cosiddette
holding estero vestite, localizza­te extrablack-list (e dunque non Cfc), perle quali l’emersione del controllo da
parte di soci italiani può far scattare il requisito di residenza presunta nel nostro paese, con ef­fetti non chiari
sulla eventuali omissioni compiute dalla società negli
anni fino al 2008.
Pertanto, possono essere oggetto di rimpatrio anche
i titoli e le altre attività finanziarie emesse da soggetti
residenti in Italia, purché siano detenuti all’estero in
violazione delle disposizioni in materia di monitoraggio
fiscale, nonché le attività finanziarie e il denaro detenuti presso le filiali estere di banche o di altri intermediari residenti in Italia. Il rimpatrio può avere ad oggetto
anche talune attività patrimoniali con le modalità successivamente indicate. L’operazione di regolarizzazione,
invece, ha per oggetto le somme di denaro, le altre attività finanziarie sopra elencate, nonché gli investimenti
esteri di natura non finanziaria, quali, ad esempio, gli
immobili e i fabbricati. situati all’ estero, gli oggetti
preziosi, le opere d’arte e gli yacht, detenuti a partire
da una data non successiva al 31 dicembre 2008 in un
Paese, europeo o in altro Paese che garantisce un effettivo scambio di informazioni fiscali in via amministrativa. Anche con riferimento alle attività diverse da
quelle finanziarie il presupposto per la regolarizzazione
è la violazione delle disposizioni relative al “monitoraggio fiscale”. Al riguardo si ricorda che, ai sensi
dell’articolo 4 del decreto legge n. 167 del 1990, l’obbligo di compilazione del modulo RW della dichiarazione
dei redditi riguarda le persone fisiche, gli enti non
commerciali e le società semplici ed associazioni equiparate ai sensi dell’articolo 5 del TUIR, fiscalmente
residenti nel territorio dello Stato, che al termine del
periodo d’imposta detengono investimenti all’estero
ovvero attività estere di natura finanziaria di ammon-
8
Un altro aspetto da chiarire, sempre qua­lora venga confermata
l’interpretazione let­terale della norma secondo cui è la Cfc a rimpatriare i propri beni e non i soci a rimpa­triare la Cfc, riguarda la posizione fiscale di queste ultime e cioè se debbano formare an­ch’esse
oggetto di rimpatrio o quantomeno di regolarizzazione senza oneri
(in quanto coperti dall’imposta pagata dalla Cfc).
Un ulteriore effetto dello scudo della Cfc, questo assolutamente
chiaro, è costitui­to dal venir meno, fino all’esercizio chiuso al 31
dicembre 2008, dell’obbligo di tassazio­ne per trasparenza dei redditi della società estera da parte dei soci (di controllo odi col­legamento)
italiani. Viene così rimosso il principale ostacolo che si frapponeva
all’emersione delle Cfc, obiettivo che pote­va forse ottenersi con
modalità applicative più semplici e chiare.
2 0 0 9
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tare complessivo superiore a euro 10.000, attraverso
cui possono essere conseguiti redditi di fonte estera
imponibili in Italia. In particolare, sulla base delle interpretazioni finora fornite sull’argomento, si ricorda
che le attività di natura finanziaria devono essere sempre
indicate nel modulo RW in quanto produttive in ogni
caso di redditi di fonte estera imponibili in Italia. A
titolo esemplificativo, sono oggetto di segnalazione le
seguenti attività finanziarie:
• attività i cui redditi sono corrisposti da soggetti non
residenti, tra cui, ad esempio, le partecipazioni al
capitale o al patrimonio di soggetti non residenti, le
obbligazioni estere e i titoli similari, i titoli non rappresentativi di merce e i certificati di massa emessi
da non residenti (comprese le quote di OICR esteri),
le valute estere rivenienti da depositi e conti correnti,
i titoli pubblici italiani emessi all’estero, depositi e
conti correnti bancari costituiti all’estero indipendentemente dalle modalità di costituzione (ad esempio,
accrediti di stipendi, di pensione o di compensi);
• contratti di natura finanziaria stipulati con controparti non residenti, tra cui, ad esempio, finanziamenti, riporti, pronti contro termine e prestito titoli, nonché polizze di assicurazione sulla vita e di
capitalizzazione sempreché il contratto non sia concluso per il tramite di un intermediario finanziario
italiano o le prestazioni non siano pagate attraverso
un intermediario italiano;
• contratti derivati e altri rapporti finanziari se i relativi contratti sono conclusi al di fuori del territorio
dello Stato, anche attraverso l’intervento di intermediari, in mercati regolamentati;
• metalli preziosi allo stato grezzo o monetato detenuti all’estero.
Come accennato, le attività sopra elencate devono
essere sempre indicate nel modulo RW, Sezione II, per
effetto della loro fruttuosità ope legis, qualunque sia la
loro origine (ad esempio, acquisizione per effetto di
donazione o successione).
Vanno, inoltre, indicate nella medesima Sezione le
attività finanziarie italiane detenute all’estero – ossia, ad
esempio, i titoli pubblici ed equiparati emessi in Italia,
le partecipazioni in soggetti residenti ed altri strumenti
finanziari emessi da soggetti residenti – soltanto nel
periodo di imposta in cui la cessione o il rimborso delle
stesse ha realizzato plusvalenze imponibili. Si ricorda
che gli obblighi di dichiarazione non sussistono, invece,
per le attività finanziarie affidate in gestione o in amministrazione alle banche, alle SIM, alle società fiduciarie,
alla società Poste italiane e agli altri intermediari professionali per i contratti conclusi attraverso il loro intervento, anche in qualità di controparti, nonché per i depositi e i conti correnti, a condizione che i redditi derivanti da tali attività estere di natura finanziaria siano
riscossi attraverso l’intervento degli intermediari stessi.
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Detto esonero sussiste anche nel caso di mancato esercizio delle opzioni di cui agli articoli 6 e 7 del decreto legislativo 21 novembre 1997, n. 461. Con riferimento,
invece, agli investimenti all’estero di natura non finanziaria, essi devono essere indicati nel modulo RW soltanto nel periodo d’imposta in cui hanno prodotto redditi
imponibili in Italia. Pertanto, nel caso ad esempio degli
immobili situati all’estero, gli stessi devono essere indicati nel modulo RW relativo al periodo d’imposta in cui
sono dati in locazione ovvero formano oggetto di cessione imponibile in Italia. Inoltre, vanno indicati gli immobili che sono assoggettati ad imposte sui redditi nello
Stato estero anche se tenuti a disposizione, come accade,
ad esempio, in Spagna. Di contro, non deve essere indicato nel modulo RW l’immobile tenuto a disposizione in
un Paese che non ne prevede la tassazione ai fini delle
imposte sui redditi (come ad esempio in Francia). Infatti,
in tal caso l’immobile non è produttivo di redditi imponibili neanche in Italia ai sensi dell’articolo 70, comma
2, del TUIR e, pertanto, il contribuente, non avendo
violato le norme sul “monitoraggio fiscale”, non può
accedere alla procedura di emersione. Tuttavia, in questa
fattispecie le violazioni degli obblighi inerenti il “monitoraggio fiscale” potrebbero essersi verificate precedentemente, per esempio, all’atto del trasferimento all’estero
delle somme utilizzate per l’acquisto dell’immobile ovvero in precedenti periodi di imposta nei quali il contribuente abbia locato l’immobile. In tali casi, anche se il
presupposto (omessa compilazione del modulo RW) non
è attuale, il contribuente può comunque accedere allo
scudo fiscale. Tra gli investimenti all’estero da indicare
nel modulo RW vi rientrano anche gli oggetti preziosi, le
opere d’arte e gli yacht nel periodo d’imposta in cui sono
impiegati in attività produttive di redditi imponibili in
Italia. È il caso, ad esempio, della locazione di imbarcazioni, opere d’arte, oggetti preziosi. L’obbligo di compilazione del modulo RW riguarda, oltre che le consistenze
dei predetti investimenti ed attività detenuti all’estero al
termine del periodo d’imposta, anche i trasferimenti da,
verso e sull’estero che nel corso del periodo d’imposta
hanno interessato i suddetti investimenti ed attività, se
l’ammontare complessivo dei movimenti effettuati nel
corso del medesimo periodo, computato tenendo conto
anche dei disinvestimenti, sia stato superiore a euro
10.000. Quest’obbligo sussiste anche se al termine del
periodo d’imposta i soggetti interessati non detengono
investimenti all’estero né attività estere di natura finanziaria, in quanto a tale data è intervenuto il disinvestimento o l’estinzione dei rapporti finanziari, e qualunque
sia la modalità con cui sono stati effettuati i trasferimenti (attraverso intermediari residenti, attraverso intermediari non residenti o in forma diretta tramite trasporto
al seguito). Fermo restando quanto finora precisato, si fa
presente che l’esigenza di rendere più incisivi i presidi
posti in ambito internazionale a tutela del corretto assolvimento degli obblighi tributari impone una revisione
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dell’interpretazione della disposizione recata nell’articolo 4 del decreto legge n. 167 del 1990 nella parte in cui
connota gli investimenti all’estero da indicare nel modulo RW come quelli “… attraverso cui possono essere
conseguiti redditi di fonte estera imponibili in Italia…
“In particolare, per tener conto della suddetta esigenza,
si ritiene che la riportata previsione normativa vada da
ora in poi intesa come riferita non solo a fattispecie di
effettiva produzione di redditi imponibili in Italia ma
anche ad ipotesi in cui la produzione dei predetti redditi
sia soltanto astratta o potenziale. Pertanto, a partire
dalla dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta in corso, i contribuenti saranno tenuti ad indicare
nel modulo RW non soltanto le attività estere di natura
finanziaria ma anche gli investimenti all’estero di altra
natura, indipendentemente dalla effettiva produzione di
redditi imponibili in Italia. Esemplificando, quindi, dovranno essere sempre indicati anche gli immobili tenuti
a disposizione, gli yacht, gli oggetti preziosi e le opere
d’arte anche se non produttivi di redditi. In ogni caso non
è consentito rimpatriare o regolarizzare le attività che
alla data del 31 dicembre 2008 erano detenute in Italia.
Conseguentemente non rientrano tra le attività regolarizzabili il denaro e le attività finanziarie che, pur costituite all’estero, per esempio quale corrispettivo di una
prestazione lavorativa, e ivi detenute in violazione degli
obblighi del “monitoraggio fiscale”, sono state trasferite
in Italia prima della predetta data. Gli intermediari abilitati sono:
1. banche italiane;
2. società di intermediazione mobiliare (SIM) di cui
all’articolo 1, comma 1, lettera e), del testo unico
della finanza, approvato con il decreto legislativo 24
febbraio 1998, n. 58 (TUF);
3. società di gestione del risparmio (SGR) previste
dall’articolo 1, comma 1, lettera o), del TUF, limitatamente alle attività di gestione su base individuale
di portafogli di investimento per conto terzi9.
L’operazione di regolarizzazione è tuttavia condizionata alla circostanza che le attività finanziarie e patrimoniali siano detenute, a partire da una data non successiva al 31 dicembre 2008, in un Paese dell’Unione
Europea o in un Paese aderente all’accordo sullo Spazio
Economico Europeo (SEE) che garantiscono un “effet-
9 Al riguardo si fa presente che, a seguito delle modifiche apportate
all’articolo 33 del TUF dal decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 274,
le SGR possono svolgere, a decorrere dal 22 ottobre 2003, attività
di custodia e amministrazione di strumenti finanziari non solo con
riferimento ad una gestione individuale di portafoglio, ma anche in
relazione alle quote di OICR dalle stesse istituiti;
- società fiduciarie di cui alla legge 23 novembre 1939, n. 1966;
- agenti di cambio iscritti nel ruolo unico previsto dall’articolo 201
del TUF;
- poste Italiane S.p.A.;
- stabili organizzazioni in Italia di banche e di imprese di investimento non residenti
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tivo” scambio di informazioni fiscali in via amministrativa.
La decisione di aderire alla “sanatoria fiscale” dovrebbe prendere le mosse da una preventiva analisi
dell’attività dete­nuta all’estero e della sua ubicazione, al
fine di determinare quali capitali si posso­no continuare
a tenere fuori dal territo­rio italiano e quelli che, al contrario, devo­no essere necessariamente rimpatriati. In
ogni caso, un’attenta valutazione è ne­cessaria per consentire al contribuente diprendere coscienza delle scelte
che do­vrà porre in essere e dell’impatto econo­mico che
dovrà sopportare in relazione sia al rispetto delle disposizioni nazionali sia di quelle straniere ove risultano
loca­lizzate le attività da far “rientrare”.
La regolarizzazione non è altresì consentita per le
attività detenute in Paesi extra UE, quali, ad esempio, la
Svizzera, Montecarlo e San Marino, per le quali è prevista esclusivamente la possibilità del rimpatrio. Tuttavia, tenuto conto della disposizione di cui all’articolo 56
del trattato 25 marzo 1957 istitutivo della Comunità
europea, che vieta qualsiasi restrizione ai movimenti di
capitale non solo tra Stati membri, ma anche tra Stati
membri e paesi terzi, si deve ritenere possibile la regolarizzazione delle attività detenute anche nei Paesi extra
UE con i quali è in atto un effettivo scambio di informazioni secondo il recente standard ONU/OCSE.
Pertanto, in aggiunta ai Paesi della UE e alla Norvegia e all’Islanda, la regolarizzazione è consentita da
tutti i Paesi dell’OCSE che non hanno posto riserve alla
possibilità di scambiare informazioni bancarie. Si tratta,
in particolare, dei seguenti Paesi: Australia, Canada,
Corea del Sud, Giappone, Messico, Nuova Zelanda,
Stati Uniti e Turchia. Per l’individuazione del Paese di
detenzione delle attività da regolarizzare rileva quello
in cui le attività erano detenute alla data di entrata in
vigore della legge di conversione del decreto (5 agosto
2009). Nel caso in cui le attività finanziarie siano detenute, invece, in cassette di sicurezza, si ritiene che l’operazione di regolarizzazione possa essere effettuata soltanto previo effettivo deposito delle attività stesse
presso l’intermediario estero tenuto a rilasciare la predetta documentazione.
La responsabilità in ordine alla veridicità e provenienza della certificazione ricade esclusivamente sull’interessato e sul soggetto che l’ha rilasciata, che ne rispondono a tutti gli effetti di legge.
Se la regolarizzazione afferisce investimenti e attività di natura diversa da quella finanziaria non è richiesta
la certificazione da parte degli intermediari non residenti (anche se detti investimenti ed attività siano detenute
in cassette di sicurezza).
Tuttavia, in mancanza della documentazione attestante il costo di acquisto, al fine di rendere attendibile
il valore delle predette attività, si ritiene necessario che
esso sia comprovato da un’apposita perizia di stima che
deve essere conservata a cura del contribuente ma non
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obbligatoriamente allegata alla dichiarazione riservata.
Gli intermediari incaricati di ricevere le dichiarazioni
riservate provvedono a svolgere i medesimi adempimenti previsti per il rimpatrio, richiamati nel successivo
paragrafo 9, ad eccezione delle deroghe specificamente
previste per il rimpatrio. Con riferimento alle operazioni di regolarizzazione, gli intermediari sono tenuti, come
per il rimpatrio, all’effettuazione delle rilevazioni previste dall’articolo 1, commi 1 e 2, del decreto legge n. 167
del 1990, ma devono anche effettuare le comunicazioni
di cui al comma 3 del medesimo articolo non previste,
invece, per le operazioni di rimpatrio.
Per perfezionare gli effetti dell’emersione, è dovuta
un’imposta straordinaria, che tiene conto anche degli
interessi e delle sanzioni, pari al 50 per cento del rendimento presunto delle attività rimpatriate o regolarizzate. Il rendimento si presume maturato nella misura del
2 per cento annuo per i cinque anni precedenti l’operazione di emersione. In sostanza, quindi, l’imposta è
pari al 5 per cento delle attività indicate nella dichiarazione riservata. Si tratta di una presunzione assoluta che
non tiene conto del periodo di effettiva detenzione
all’estero delle attività che si intende rimpatriare o regolarizzare né del reale rendimento conseguito.
Tale presunzione esplica effetti esclusivamente ai
fini della determinazione dell’imposta straordinaria e
non incide sugli altri profili applicativi della normativa
sullo scudo fiscale. Supponendo, ad esempio, che sia
effettuato il rimpatrio di una somma pari a € 1.000.000
il cui rendimento lordo presunto è pari a € 20.000 per
ciascun anno (per un totale di € 100.000 nei cinque
anni precedenti), ne consegue che l’imposta straordinaria dovuta è pari a € 50.000. Non è consentito lo scomputo di eventuali perdite, né il riconoscimento di ritenute o crediti, anche per imposte eventualmente subite
all’estero. Tale imposta, inoltre, non costituisce per il
contribuente un importo deducibile né compensabile, ai
fini di alcuna imposta, tassa o contributo. È appena il
caso di precisare che l’imposta straordinaria va commisurata all’importo indicato nella dichiarazione riservata
delle attività detenute in data non successiva al 31 dicembre 2008 e non va applicata ai rendimenti realizzati a decorrere dal 1° gennaio 2009 e fino alla data di
presentazione della dichiarazione riservata, sui quali
sono dovute le ordinarie imposte, anche attraverso l’intervento degli intermediari. Come accennato, ai fini
dell’operazione di emersione, il contribuente è tenuto a
redigere una dichiarazione riservata e a consegnarla
all’intermediario che riceve in deposito le somme e le
altre attività finanziarie o che è incaricato della regolarizzazione10.
10 L’Agenzia delle Entrate da ultimo ha inviato una lettera informativa
a circa 25 mila contribuenti che nel 2008 hanno effettuato movimenti finanziari verso l’estero per oltre 50 mila euro.
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L’effettivo pagamento dell’imposta straordinaria produce
effetti preclusivi di accertamento
L’adesione allo scudo fiscale prevede l’inibizione dei
poteri di accertamento degli uffici in materia tributaria,
previdenziale e penale, nonché l’estinzione delle sanzioni relative alla disponibilità delle attività emerse.
In particolare,limitatamente agli imponibili rappresentati dalle somme o altre attività costituite all’estero
e oggetto di rimpatrio o regolarizzazione, è inibita
l’attività di accertamento tributario e contributivo relativa ai periodi d’imposta che hanno termine al 31
dicembre 2008.
Ciò vale non soltanto per le attività esportate
dall’Italia, ma anche per quelle comunque costituite
direttamente al di fuori del territorio dello Stato, a
fronte, per esempio, del conseguimento di un reddito
erogato all’estero.
La preclusione dell’attività di accertamento si riferisce in ogni caso a presupposti verificatisi fino al 31
dicembre 2008.
È altresì preclusa l’attività di accertamento nei con-
La comunicazione informativa non va sottovalutata in quanto derivano da informazioni acquisite attraverso strumenti informatici e
costituiscono, quindi, elementi informativi che sono concretamente
a disposizione delle autorità fiscali, che potranno in qualsiasi momento utilizzarli per attivare controlli sul destinatario. Quanto allo
scudo, inviti, questionari e richieste ai contribuenti risultano preclusivi solo se sono, in modo circostanziato, riferiti a dati ed elementi
che, non solo in via astratta, consentano all’amministrazione di verificare ipotesi accertabili. Le lettere di questi giorni non sono di
questa natura, in quanto oltre a non circostanziare le ipotesi che
darebbero luogo alla violazione, non richiedono al contribuente
un’attività di risposta che consentirebbe al fisco di verificare ipotesi
che diano luogo a accertamenti.
La lettera ricorda gli obblighi dichiarativi, sia relativi ai redditi di
fonte estera tassabili in Italia (per il principio della «worldwide taxation») sia in riferimento alle attività finanziarie suscettibili di
produrre redditi all’estero superiori a 10 mila euro e imponibili in
Italia.
Con la lettera l’Agenzia vuole ricordare anche le sanzioni previste per
le violazioni a tali adempimenti: dal 133 al 266% della maggiore
imposta per la mancata indicazione dei redditi esteri, che sale a un
importo tra il 160 e il 320% in caso di omissione della dichiarazione.
Spazio, quindi, al giro di vite contro i paradisi fiscali recato dalla
manovra estiva (D.L. n. 78/2009), che ha aumentato le sanzioni
(fino al 480%) e introdotto una presunzione relativa di evasione per
i redditi e gli investimenti non dichiarati e detenuti nei paradisi fiscali.
Anche la regolarizzazione diviene un consiglio che l’ente preposto
alle Entrate vuole ricordare al contribuente che sana la propria posizione prima che gli 007 del fisco scoprono il soggetto destinatario,
in secondo momento, delle sanzioni applicative, in ossequio al principio di lotta all’evasione transfrontaliera che l’Agenzia sta da qualche mese fortemente potenziando.
A differenza di quanto hanno fatto in parte le 40 mila lettere analoghe
recapitate dalle Entrate il mese scorso relative alle residenze all’estero, questa comunicazione ha un mero effetto informativo, non precludendo dunque in alcun modo la possibilità di accedere allo scudoter. Risposta del contribuente. La lettera non richiede alcuna risposta
da parte del contribuente.
Tuttavia, qualora egli non si riconosca tra i soggetti che hanno movimentato più di 50 mila euro con l’estero nel 2008, dovrà segnalarlo, anche per consentire le opportune verifiche sulla correttezza
delle segnalazioni degli operatori finanziari.
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fronti dei soggetti obbligati in via solidale con il contribuente11 (ad es. eredi12 e donatari).
Mentre gli effetti della dichiarazione riservata non si
producono automaticamente nei confronti di soggetti
che detengono attività all’estero in comunione con altri
soggetti qualora soltanto questi ultimi abbiano effettuato le operazioni di emersione per cui occorre che ciascuno dei soggetti interessati presenti una distinta dichiarazione di emersione per la quota parte di propria
competenza.
Gli accertamenti sono preclusi anche con riferimento a tributi diversi dalle imposte sui redditi, sempreché
si tratti di accertamenti relativi ad “imponibili” che
siano riferibili alle attività oggetto di emersione.
A tal fine si precisa che la preclusione opera automaticamente, senza necessità di prova specifica da parte
del contribuente, in tutti i casi in cui sia possibile, anche
astrattamente, ricondurre gli imponibili accertati alle
somme o alle attività costituite all’estero oggetto di
rimpatrio.
Ne discende che, l’effetto preclusivo dell’accertamento può essere opposto, ad esempio, in presenza di contestazioni basate su ricavi e compensi occultati.
L’effetto preclusivo dell’accertamento può essere
opposto anche nei confronti di accertamenti di tipo
“sintetico”, come nell’ipotesi di contestazione di un
maggior reddito complessivo riferibile anche astrattamente alle attività oggetto di emersione.
Di converso, gli effetti della dichiarazione riservata
non possono essere fatti valere a tali fini qualora l’accertamento abbia ad oggetto elementi che nulla hanno
a che vedere con attività per le quali si è usufruito del
regime di emersione, come nel caso, ad esempio, di rilievi sulla competenza di oneri e in altre ipotesi in cui
non possa configurarsi in astratto una connessione tra
i maggiori imponibili accertati e le attività emerse.
Al riguardo si precisa che il contribuente che intende
opporre agli organi competenti gli effetti preclusivi ed
estintivi delle operazioni di emersione deve farlo in sede
di inizio di accessi, ispezioni e verifiche ovvero entro i
trenta giorni successivi a quello in cui l’interessato ha
formale conoscenza di un avviso di accertamento o di
rettifica o di un atto di contestazione di violazioni tributarie, compresi gli inviti, i questionari e le richieste di
cui agli articoli 51, comma 2, del D.P.R. 26 ottobre
1972, n. 633 e all’articolo 32 del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 600.
11 La norma estende la preclusione degli accertamenti anche ai predetti soggetti se e in quanto tenuti all’obbligazione tributaria in dipendenza degli imponibili accertati in capo al contribuente che ha presentato la dichiarazione riservata.
12 Nel caso in cui la dichiarazione riservata sia stata presentata dagli
eredi, essi godono della preclusione degli accertamenti tributari relativi ai redditi del de cuius per i quali sono solidalmente obbligati.
Tuttavia, in caso di rimpatrio, le attività non godono della riservatezza in capo agli eredi.
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La speciale “copertura” assicurata dalle operazioni
di emersione opera – fino a concorrenza degli importi
esposti nella dichiarazione riservata – sui maggiori imponibili accertati, rappresentati dalle somme o dalle
attività rimpatriate o regolarizzate.
In tal caso, gli organi di accertamento determinano
l’eventuale maggiore imposta dovuta su un ammontare
pari alla differenza tra l’importo che sarebbe stato imponibile in assenza delle operazioni in questione e quello del denaro e delle altre attività dichiarate. L’eventuale eccedenza dell’importo rimpatriato o regolarizzato
rispetto a quello accertato può essere utilizzato, fino a
concorrenza, a copertura di maggiori imponibili accertati in occasione di successivi ulteriori accertamenti,
semprechè sussista l’astratta riferibilità tra i maggiori
imponibili accertati e le attività emerse.
Con riferimento alle operazioni di emersione effettuate dalle imprese estere controllate o collegate di cui
agli articoli 167 e 168 del TUIR, si fa presente che gli
importi regolarizzati o rimpatriati dalle CFC producono
l’effetto di copertura in capo al partecipante nei limiti
della quota da questi detenuta nella società. L’importo
così determinato copre anche i redditi conseguiti dalla
CFC imputabili per trasparenza al partecipante stesso.
Ai sensi del comma 4 dell’articolo 13-bis del decreto
(che richiama gli articoli 14 e 15 del decreto legge n. 350
del 2001), le operazioni di emersione non producono gli
effetti previsti qualora, alla data di presentazione della
dichiarazione riservata, la violazione sia stata già constatata ovvero siano iniziati accessi, ispezioni e verifiche
o altre attività di accertamento tributario e contributivo
nei confronti del contribuente ovvero siano stati emanati nei confronti del medesimo avvisi di accertamento o
di rettifica o atti di contestazione di violazioni tributarie, compresi i predetti inviti, questionari e richieste.
Ne discende che le operazioni di emersione non producono effetti con riferimento all’anno o agli anni ai
quali si riferisce l’attività di controllo e quindi non possono operare a copertura dei maggiori imponibili eventualmente accertati. Tuttavia, tali effetti possono essere
opposti qualora per lo stesso anno l’Amministrazione
finanziaria abbia successivamente avviato un’ulteriore
attività di controllo.
A tali fini, occorre tener presente che non deve essere considerata una causa ostativa alla produzione degli
effetti dell’emersione la comunicazione derivante dalla
liquidazione delle imposte in base alle dichiarazioni
presentate dai contribuenti, effettuata dall’Amministrazione finanziaria né quella derivante dal controllo formale delle medesime dichiarazioni.
L’avvio di un’attività di controllo nei confronti di una
società di persone e di un soggetto ad essa equiparato
(associazione) preclude la produzione degli effetti dello
scudo fiscale in capo al socio/associato relativamente ai
redditi della società imputabili a quest’ultimo.
Chiaramente non è ravvisabile alcuna causa ostativa
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59
qualora il socio/associato rimpatri o regolarizzi, successivamente all’inizio di un’attività istruttoria nei confronti della società/associazione, attività personali detenute
o costituite all’estero non correlabili ai redditi che gli
derivano per trasparenza dalla società/associazione.
Gli intermediari non devono comunicare all’Amministrazione finanziaria i dati e le notizie inerenti ai
conti di deposito che accolgono il denaro e le attività
finanziarie rimpatriate. Non devono essere altresì comunicati i dati relativi ai conti di sub deposito nei quali sono immessi denaro e attività finanziarie rimpatriate dal contribuente per il tramite di altri intermediari
finanziari che sono impossibilitati a gestire direttamente i conti relativi all’attività svolta a favore della propria
clientela.
Su tali conti, tuttavia, potranno essere depositati
esclusivamente le attività rimpatriate di cui alle dichiarazioni riservate prodotte dai contribuenti interessati,
restando escluso qualunque ulteriore accredito, tranne
quello riguardante somme derivanti dall’alienazione
delle attività rimpatriate, fino a concorrenza dell’importo indicato nella dichiarazione riservata e salvo quanto
chiarito di seguito in ordine agli atti di disposizione
delle attività rimpatriate. Tale condizione, naturalmente, va verificata confrontando il corrispettivo di cessione delle attività finanziarie con l’ammontare complessivo delle attività rimpatriate.
Allo stesso modo, entro il predetto limite, si ritiene
che potranno essere accreditate le attività finanziarie
acquisite dall’interessato con l’utilizzo del denaro rimpatriato o derivante dall’alienazione delle attività rimpatriate ovvero anche tramite operazioni di permuta dei
titoli rimpatriati. Al riguardo, si fa presente che le attività finanziarie in tal modo acquisite devono essere
valorizzate secondo i criteri ordinariamente applicabili
ai fini dell’attribuzione del costo fiscalmente riconosciuto alle partecipazioni, titoli e agli altri strumenti finanziari suscettibili di produrre redditi diversi di natura
finanziaria.
Il regime della riservatezza dei predetti conti si ritiene applicabile, oltre l’importo indicato nella dichiarazione riservata, anche ai redditi di capitale e alle plusvalenze derivanti dal denaro e dalle attività finanziarie
rimpatriate realizzati anche successivamente al perfezionamento dell’operazione di emersione, a condizione che
si tratti di proventi assoggettati a tassazione definitiva
(ritenute alla fonte a titolo d’imposta o imposta sostitutiva) da parte dell’intermediario depositario. Con riferimento, invece, ai redditi sottoposti a ritenuta d’acconto, il regime della riservatezza riguarda esclusivamente
i redditi conseguiti fino alla data di presentazione della
dichiarazione riservata sempreché il contribuente abbia
esercitato l’opzione di cui all’articolo 14, comma 8, del
decreto legge n. 350 del 2001.
In caso di trasferimento tra intermediari del denaro
e delle altre attività finanziarie oggetto di rimpatrio, ri-
penale
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D i r i t t o
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mane fermo il regime della riservatezza, sempreché il
nuovo rapporto sia intestato al medesimo contribuente.
L’intermediario che effettua il trasferimento deve
rilasciare apposita comunicazione al successivo intermediario al fine di attestare l’ammontare per il quale vige
il regime della riservatezza cui è tenuto l’intermediario
che riceve il trasferimento a decorrere dalla data di ricezione della comunicazione.
A fronte della deroga ai poteri di controllo degli
uffici dell’Amministrazione, rimangono valide le cautele volte ad evitare che gli intermediari e, tramite questi,
gli stessi contribuenti possano utilizzare le disposizioni
di deroga per ostacolare i controlli dell’Amministrazione con riferimento ad informazioni diverse da quelle
riguardanti le operazioni di rimpatrio. È stabilito, quindi, che qualora l’intermediario non si limiti a garantire
la riservatezza dei dati e delle notizie con riferimento
esclusivamente alle operazioni di emersione, lo stesso è
tenuto a fornire all’Amministrazione finanziaria non
solo i dati relativi alle predette operazioni ma anche
quelli inerenti ad operazioni diverse.
Si fa presente inoltre che, relativamente alle attività
oggetto di rimpatrio e di regolarizzazione, i contribuenti che abbiano presentato la dichiarazione riservata sono
esonerati dall’obbligo di indicare le medesime attività
nella dichiarazione dei redditi (modulo RW) relativa al
periodo d’imposta in corso alla data di presentazione
della dichiarazione riservata.
Si evidenzia che l’effettuazione delle operazioni di
emersione consente di evitare, in caso di successivo accertamento della detenzione di attività all’estero in
violazione degli obblighi di segnalazione previsti dalla
disciplina sul “monitoraggio fiscale”, la presunzione
introdotta dal citato articolo 12 del decreto in base alla
quale gli investimenti e le attività finanziarie detenute
in Stati o territori aventi un regime fiscale privilegiato
si considerano costituiti mediante redditi sottratti ad
imposizione in Italia.
Ai sensi del comma 3 dell’articolo 13-bis del decreto,
le operazioni di emersione non possono in ogni caso
costituire elemento utilizzabile a sfavore del contribuente in ogni sede amministrativa o giudiziaria, civile,
amministrativa ovvero tributaria, in via autonoma o
addizionale, con esclusione dei procedimenti in corso
alla data di entrata in vigore della legge di conversione
del decreto legge n. 103 del 2009 (4 ottobre 2009). Ai
soli fini tributari, si ritiene che tale divieto valga con
riferimento non solo ai procedimenti direttamente riferibili al contribuente che ha effettuato le operazioni di
emersione, ma anche a quelli concernenti soggetti riconducibili al contribuente stesso in qualità di dominus.
Pertanto, ad esempio, le operazioni di rimpatrio o di
regolarizzazione effettuate dal dominus di una società
di capitali non possono essere utilizzate ai fini dell’avvio
o nell’ambito di un’attività di controllo fiscale nei confronti della medesima società.
p e n a l e
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Allo stesso modo le operazioni di emersione non
determinano accertamenti nei confronti dei soggetti
interposti attraverso i quali il contribuente ha detenuto
all’estero le attività rimpatriate o regolarizzate.
Si tratta, in definitiva, di una disposizione che non
agisce sul piano degli effetti dell’emersione, disciplinati
dal comma 4 dell’articolo 13-bis del decreto e in precedenza esaminati, ma che mira ad evitare che lo scudo
possa essere utilizzato a sfavore del contribuente ai fini
dell’accertamento di violazioni tributarie per le quali
non valgono gli effetti dello scudo stesso.
La tutela penale
Con riferimento agli effetti penali delle operazioni
di emersione, si evidenzia che l’effettivo pagamento
dell’imposta straordinaria dovuta sulle attività rimpatriate o regolarizzate rende non punibili i reati indicati
nell’articolo 8, comma 6, lettera c), della legge 27 dicembre 2002, n. 289.
Il legislatore ha previsto per coloro che aderiscono
allo scudo fiscale l’applicazione di effetti premiali anche
in materia penale.
Si tratta, comunque, di una copertura che non si
estende a tutti i reati tributari ed a quelli che ad essi
sono collegati, ma che offre una garanzia solida di non
punibilità per gran parte degli illeciti penali tributari13.
Nel testo iniziale della norma la copertura penale era
stata limitata ai soli reati di dichiarazione infedele e
omessa dichiarazione (articolo 4 e 5 del D.lgs n. 74/2000),
ma, nella formulazione definitiva della norma la copertura è stata estesa a tutti i reati coperti dai precedenti
condoni14 ovvero: dichiarazione fraudolenta mediante
uso di fatture e/o altri documenti inesistenti (art. 2 del
D.lgs 74/2000), dichiarazione fraudolenta mediante
altri artifici (art.3 del D.lgs n. 74/2000), dichiarazione
infedele (art. 4 del cit. d.lgs); omessa dichiarazione dei
redditi (art. 5 del cit. D.lgs) occultamento o distruzione
di documenti contabili (art. 10 del cit. Dlgs).
Di converso restano senza “protezione” i seguenti
reati tributari: emissione di fatture false, sottrazione
fraudolenta al pagamento delle imposte, condotte di
omesso versamento delle ritenute e dell’Iva (per un ammontare superiore a 50.000 euro), indebita compensazione, riciclaggio di proventi illeciti, impiego di denaro,
beni o utilità di provenienza illecita15.
13 Allo scopo di favorire un adesione massiccia allo scudo fiscale il legislatore, nella fase della formulazione definitiva delle norme, ha
esteso l’allargamento dell’esclusione di effetti penali per coloro che
decidono di usare lo scudo.
14 Tale allargamento è stato fortemente criticato dai primi commentatori i quali hanno liquidato la scelta del legislatore come una amnistia
mascherata.
15 Lo scudo fiscale si pone in contrasto con la sentenza della Corte di
Cassazione n. 20068 del 18 settembre 2009 che ha espresso il principio secondo cui non è ammissibile una rinuncia dell’amministrazione all’accertamento dell’Iva, cosa che si verificherebbe come
conseguenza dell’adesione alla procedura di emersione.
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
La non punibilità è estesa ad altri reati, commessi
per eseguire o nascondere i reati prece­denti, tra cui:
• fal­sità materiale,
• falsità ideolo­gica in atto pubblico,
• falsità nelle scritture private,
• sop­pressione e occultamento di atti
• false comunica­zioni sociali.
Il provvedimento riguarda in tal modo anche le società estere controllate (spesso situate in paradisi fiscali),
verso cui confluiscono i capitali sommersi.
L’esclusione della punibilità, non essendo connessa,
come nel provvedimento del 2002, ad un condono anche
dei redditi prodotti all’estero, non ha portata generale
ma opera limitatamente
Condizione necessaria per l’esclusione della punibilità è l’assenza di un procedimento penale già in corso
alla data di presentazione della dichiarazione riservata.
Perché i reati siano non punibili occorre però l’esistenza di un collegamento causale, come si desume
dalla formulazione dell’articolo 8, comma 6, lettera c),
della. legge 289/02, che precisa che l’esclusione della
punibilità scatta «quando tali reati siano stati commessi per eseguire od occultare i predetti reati tributari,
ovvero, per conseguirne il profitto e siano riferiti alla
stessa pendenza o situazione tributaria».
Per quanto riguarda, in particolare, il falso in bilancio, il richiesto collegamento con lo scudo fiscale fasi
che l’estinzione riguardi soltanto quelle falsità che si
risolvono in un’evasione d’imposta penalmente rilevante e non riguardi, invece, quelle che da esso sono svin-
La Corte nella citata sentenza fa riferimento alla pronuncia della
Corte di Giustizia delle Comunità europee in causa C-132/06 resa a
seguito della procedura d’infrazione aperta dalla Commissione europea contro l’Italia, ai sensi dell’art. 228 del Trattato CE, sugli articoli 8 e 9 della legge n. 282 del 27 dicembre 2002 per contrasto con
gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva comunitaria in materia di Iva
nonché in contrasto con l’art. 10 del suddetto Trattato. La Corte di
Giustizia ha precisato come ogni eccezione alla regola dell’effettiva
applicazione e percezione dell’Iva, si traduce da un lato, in un grave
di pregiudizio a scapito di imprese tanto italiane che di altri Stati
membri, dall’altro in una grave lesione del principio una “sana
concorrenza” all’interno del mercato comune. Se infatti gli Stati
beneficiano di una certa discrezionalità nell’utilizzare i mezzi per
garantire il rispetto degli obblighi a carico dei contribuenti, tale libertà incontra un limite nell’obbligo di garantire una riscossione
effettiva delle risorse proprie della Comunità e nella necessità di “non
creare differenze significative nel modo di trattare i contribuenti…
sia all’interno di uno degli Stati che all’interno di tutti loro”. Secondo la Corte di Cassazione, l’assoluta indisponibilità da parte degli
Stati membri -affermata dai Giudici comunitari- di una puntuale
applicazione della disciplina comunitaria in materia di Iva, comporta che anche misure di tenore diverso dal cosiddetto condono tombale incorrono in tale rigoroso divieto [M. Villani. Il nuovo scudo
fiscale ter].
Il governo per superare tali obiezioni ha sostenuto che “lo scudo fiscale, nei limiti delle attività regolarizzate, protegge anche dagli accertamenti IVA, poiché non implica una rinuncia generale ed indiscriminata alla riscossione dell’imposta, non può considerarsi una
misura di condono contraria alla normativa comunitaria (Risposta
al question time dei parlamentari interroganti da parte del sottosegretario all’economia Daniele Folgora).
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colate (come l’ipervalutazione di poste del bilancio per
non perdere affidamenti bancari).
Lo scudo deve essere effettuato personalmente perchè non è previsto per le società: per esempio dall’amministratore della società per estinguere i suoi illeciti
arricchimenti, rilevanti a titolo di reato tributario a lui
riferibile.
Ai sensi del comma 7 dell’art. 14 del D.L. 250 del
2001, lo scudo fiscale non produce effetti estintivi in
ordine ai reati per i quali gli interessati hanno avuto
conoscenza formale del procedimento penale che normalmente si verifica o con la notifica dell’avviso di
conclusione delle indagini preliminari, ex art. 415-bis
c.p.p., o nell’ipotesi della notifica di un atto c.d. garantito ovvero notifica di un sequestro o di una perquisizione oppure avviso dell’informazione di garanzia16.
Atteso che la legge nulla dice in ordine all’estensione
degli effetti premiali si pone,, il problema dell’estensione ai concorrenti della causa estintiva (per esempio, al
socio che ha concorso alla realizzazione dell’illecito o al
consulente tecnico del contribuente). A tal riguardo si
deve ricorrere all’ articolo 182 c.p. che dispone «salvo
che la legge disponga altrimenti, l’estinzione del reato o
della pena ha effetto soltanto per coloro ai quali la causa di estinzione si riferisce».
Dunque può beneficiare della causa estintiva l’esecutore diretto del reato (non è prevista un’eccezione, ma
poiché questi ha pagato, non sarebbe logico che lo Stato pretendesse un secondo pagamento da parte del
concorrente: per l’erario si tratterebbe di un illecito
arricchimento). In ordine alla compatibilità costituzionale della norma non va taciuto che la Corte costituzionale (con la sentenza n. 19 del 1995) aveva ammesso
l’estensione al concorrente nel caso di scudo effettuato
dalla società17.
16 Va evidenziato come la disciplina della non punibilità, in adesione
all’accesso allo scudo fiscale, rinvia all’art. 8, comma 6, lett. c) della
legge n. 289/02 che, in sede interpretativa aveva statuito il momento
preclusivo all’accertamento e alla contestazione all’esercizio dell’azione penale della quale il contribuente ha formale conoscenza, ovvero:
avviso di fissazione dell’udienza preliminare, avviso dei fissazione di
giudizio immediato, notifica del decreto penale di condanna.
17 La Corte ha scritto “alla luce dei canoni ermeneutici secondo cui, in
generale, tra le possibili interpretazioni della norma va seguita quella
conforme a Costituzione, e, in particolare, in materia di amnistia,
benché il legislatore goda di ampia discrezionalita’ nella scelta del
criterio di distinzione fra reati amnistiabili e non, occorre pur sempre
muovere dal presupposto che egli abbia voluto escludere sperequazioni normative fra attivita’ criminose omogenee che non troverebbero
alcuna plausibile giustificazione, deve ritenersi che nel provvedimento
di clemenza previsto dall’art. 1 del Dpr. n. 23 del 1992, per i reati in
materia di imposte dirette e di imposta sul valore aggiunto, sia compreso, quando il contribuente abbia definito la pendenza con il fisco
secondo le disposizioni del titolo VI della legge 30 dicembre 1991,
n. 413, anche il caso del concorrente nel reato non contribuente.
Ne’ a cio’ e’ di ostacolo la lettera della legge, giacche’, pur essendo
l’amnistia condizionata alla presentazione della dichiarazione integrativa a alla definizione del periodo di imposta ad opera del contribuente o di chiunque vi abbia interesse, l’oggettivita’ di tale presupposto non consente di affermare che il legislatore abbia voluto limi-
penale
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In sede di prime applicazioni, l’Agenzia delle entrate
con la circolare n. 43/E/09 ha precisato che diventano
punibili in tutti i casi in cui è avviata un procedimento
di cui l’interessato abbia avuto formale conoscenza alla
data di presentazione della dichiarazione riservata.
L’interpretazione, coerente, con i precedenti in materia,
sembra restrittiva in quanto fa riferimento all’avvio del
procedimento penale (iscrizione nel registro degli indagati) e non all’esercizio dell’azione penale.
La causa di esclusione prevede due distinti requisiti
l’avvio del procedimento penale e la formale conoscenza, da parte del contribuente interessato dell’avvio del
procedimento (che corrisponde alla notifica di qualsiasi
atto inerente l’attuazione delle garanzie difensive18)
principio già condiviso dalla giurisprudenza formatasi
in vigenza dello scudo precedente19
tare a chi abbia posto in essere detti adempimenti la causa di estinzione del reato e quindi gli effetti che, sul piano penale, conseguono
alla definizione del rapporto tributario. Va quindi respinta la censura di incostituzionalita’ avanzata sul contrario assunto che anche
quando il contribuente se ne avvantaggiasse, il concorrente nel reato
estraneo al rapporto tributario fosse escluso dall’amnistia. (Non
fondatezza della questione di legittimita’ costituzionale, in riferimento all’art. 3 Cost., dell’art. 1, commi 1 e 2, d.P.R. 20 gennaio 1992,
n. 23). – Sui limiti della discrezionalita’ del legislatore riguardo ai
criteri di distinzione tra reati amnistiabili e non, v. Sent. n. 59/1980.
red.: S.P”
18 Il regime della riservatezza non opera in presenza di procedimenti
penali atteso che gli intermediari sono obbligati a fornire dati e notizie idonei a formare fonti di prova per l’attività di contrasto al riciclaggio ed a tutti gli altri reati non coperti dallo scudo in particolar
modo alla normativa di contrasto ai delitti di stampo mafioso e o
terrorristico.
19 Infatti è stato chiarito che “in tema di reati finanziari, la non applicabilità dell’esclusione della punibilità prevista dal cosiddetto condono fiscale di cui alla l. 289/2002 in caso di esercizio dell’azione
penale della quale il contribuente abbia avuto formale conoscenza
entro la data di presentazione della dichiarazione per la definizione
automatica, si determina anche soltanto con la conoscenza da parte
del legale rappresentante della persona giuridica, non essendo necessaria la cd. doppia conoscenza formale in caso di incriminazione dei
legali rappresentanti di società in relazione a reati ascrivibili alle
società medesime (Cass., Sez. III, sent. n. 2896 del 18 ottobre 2006,
ud. del 18 ottobre 2006), C.L. (rv. 235642).
p e n a l e
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●
Rassegna
di legittimità
● A cura di Alessandro Jazzetti
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
Andrea Alberico
Dottorando di ricerca in Diritto Penale,
Università degli studi di Napoli “Federico II”
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Atti e provvedimenti del giudice – Declaratoria immediata di determinate cause di non punibilità – Sussistenza di una causa di estinzione del reato – Pronuncia di sentenza assolutoria nel merito – Condizioni
In presenza di una causa di estinzione del reato il
giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 comma secondo, c.p.p.
soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo
da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di “constatazione”, ossia di percezione “ictu oculi”, che a
quello di “apprezzamento” e sia quindi incompatibile
con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento.
SS.UU, sentenza 28 maggio 2009, n. 35490, Rv.
244274;
Pres. Gemelli T., Est. Romis V., Rel. Romis V., Imp.
Tettamanti., P.M. Ciani G. (Parz. Diff.). (Annulla in
parte senza rinvio, App. L’Aquila, 20 ottobre 2004).
Azione penale – Notizie di reato – Registro – Iscrizione della notizia di reato – Obblighi del pubblico ministero – Individuazione
In tema di iscrizione della notizia di reato nel registro
di cui all’art. 335 c.p.p., il pubblico ministero, non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto di cui
abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato, è tenuto
a provvedere alla iscrizione della “notitia criminis”
senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo. Ugualmente, una volta riscontrati, contestualmente o successivamente, elementi obiettivi di
identificazione del soggetto cui il reato è attribuito, il
pubblico ministero è tenuto a iscriverne il nome con
altrettanta tempestività.
SS.UU, sentenza 24 settembre 2009, n. 40538, Rv.
244378;
Pres. Gemelli T., Est. Macchia A., Rel. Macchia A., Imp.
Lattanti, P.M. Palombarini G. (Parz. Diff.).
(Annulla in parte con rinvio, Trib. lib. Napoli, 10 marzo
2009).
Azione penale – Notizie di reato – Registro – Ritardata iscrizione della “notitia criminis” con il nome
dell’indagato – Potere di retrodatazione del giudice – Esclusione – Conseguenze
Il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel
registro delle notizie di reato, il nome della persona cui
il reato è attribuito, senza che al G.i.p. sia consentito
stabilire una diversa decorrenza, sicché gli eventuali
ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di
reato che del nome della persona cui il reato è attribui-
penale
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to, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall’art. 407, comma terzo,
c.p.p., fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del P.M. che
abbia ritardato l’iscrizione. (Fattispecie di ordinanza di
misura coercitiva sottoposta a riesame).
SS.UU, sentenza 24 settembre 2009, n. 40538, Rv.
244378;
Pres. Gemelli T., Est. Macchia A., Rel. Macchia A., Imp.
Lattanti, P.M. Palombarini G. (Parz. Diff.).
(Annulla in parte con rinvio, Trib. lib. Napoli, 10 marzo 2009).
Competenza – Competenza per connessione – Effetti – Sulla competenza per territorio – pluralità di
reati connessi – Impossibilità di individuare il luogo
in cui è stato commesso il reato più grave – Criteri di
individuazione del giudice competente – Regole fissate dall’art. 9, commi secondo e terzo, c.p.p. – Possibilità – Riferimento in ordine decrescente ai restanti
reati in ordine di gravità – Necessità
La competenza per territorio, nel caso in cui non sia
possibile individuare, a norma degli artt. 8 e 9, comma
primo, c.p.p., il luogo di commissione del reato connesso più grave, spetta al giudice del luogo nel quale risulta
commesso, in via gradata, il reato successivamente più
grave fra gli altri reati; quando risulti impossibile individuare il luogo di commissione per tutti i reati connessi, la competenza spetta al giudice competente per il
reato più grave, individuato secondo i criteri suppletivi
indicati dall’art. 9, commi secondo e terzo, c.p.p..
SS.UU., sentenza 16 luglio 2009, n. 40537, Rv. 244330;
Pres. Gemelli T., Est. Franco A., Rel. Franco A., Imp.
Confl. comp. in proc. Orlandelli, P.M. Ciani G. (Conf.)
(Dichiara competenza).
Difesa e difensori – Colloqui del difensore – Differimento – Potere d’ufficio del giudice – Esclusione
Il giudice delle indagini preliminari può disporre il
differimento del colloquio dell’indagato con il difensore soltanto su richiesta del pubblico ministero. (Fattispecie in cui il giudice aveva differito il colloquio
all’esito dell’udienza di convalida del fermo).
Cass., Sez. VI, sentenza 17 settembre 2009, n. 39941,
Rv. 244265;
Pres. De Roberto G., Est. Ippolito F., Rel. Ippolito
F., Imp. Di Nardo e altro, P.M. Galati G. (Conf.). (Rigetta, Trib. Napoli, 19 maggio 2009).
Diritto internazionale – Trattati e convenzioni internazionali – Unione europea – Decisioni quadro – Obbligo di interpretazione conforme – Interpretazione “in malam partem” della norma penale
nazionale – Esclusione – Fattispecie in tema di confisca per equivalente
L’obbligo del giudice di interpretare il diritto nazio-
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nale conformemente al contenuto delle decisioni quadro
adottate nell’ambito del titolo VI del Trattato sull’Unione europea non può legittimare l’integrazione della
norma penale interna quando una simile operazione si
traduca in una interpretazione in “malam partem”. (In
applicazione di tale principio, la Corte ha escluso che la
disciplina in tema di confisca contenuta nella decisionequadro del Consiglio dell’Unione Europea 2005/212/
GAI del 24 febbraio 2005 possa essere utilizzata per
estendere la confisca per equivalente di cui all’art. 322
ter primo comma c.p. anche al profitto del reato).
SS.UU., sentenza 25 giugno 2009, n. 38691, Rv.
244191;
Pres. Gemelli T., Est. Fiale A., Rel. Fiale A., Imp. Caruso, P.M. Palombarini G. (Diff.).
(Annulla senza rinvio, Trib. lib. Roma, 09 luglio
2008).
Impugnazioni – Cassazione – Motivi di ricorso – In
genere – Vizio di motivazione – Rilevabilità in presenza di una causa di estinzione del reato – Esclusione
In presenza di una causa di estinzione del reato, non
sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione
della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio
avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva. (In motivazione, la S.C. ha affermato che detto principio trova
applicazione anche in presenza di una nullità di ordine
generale).
SS.UU., sentenza 28 maggio 2009, n. 35490, Rv.
244275;
Pres. Gemelli T., Est. Romis V., Rel. Romis V., Imp.
Tettamanti, P.M. Ciani G. (Parz. Diff.). (Annulla in
parte con rinvio, App. L’Aquila, 20 ottobre 2004).
Misure cautelari – Personali – Provvedimenti – Ordinanza del giudice – Requisiti – Motivazione – Tempo trascorso dal reato – Rilevanza in punto di motivazione – Fattispecie
In tema di misure cautelari, il riferimento in ordine
al “tempo trascorso dalla commissione del reato” di cui
all’art. 292, comma secondo, lett. c) c.p.p., impone al
giudice di motivare sotto il profilo della valutazione
della pericolosità del soggetto in proporzione diretta al
tempo intercorrente tra tale momento e la decisione
sulla misura cautelare, giacché ad una maggiore distanza temporale dai fatti corrisponde un affievolimento
delle esigenze cautelari. (Fattispecie di ordinanza di
custodia cautelare in carcere emessa in relazione a fatti commessi più di tre anni prima).
SS.UU., sentenza 24 settembre 2009, n. 40538, Rv.
244377;
Pres. Gemelli T., Est. Macchia A., Rel. Macchia A., Imp.
Lattanzi. P.M. Palombarini G. (Parz. Diff.).
(Annulla in parte con rinvio, Trib. lib. Napoli, 10 marzo 2009).
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Misure cautelari – Reali – In genere – Sequestro funzionale alla successiva confisca “per equivalente”
di cui all’art. 3 2 2 ter comma primo
c.p. – og­getto – equivalente del profitto – legittimità – esclusione – fattispecie in tema di peculato
In tema di peculato, il sequestro preventivo, funzionale alla confisca “per equivalente” disciplinata
dall’art. 322 ter, comma primo c.p., può essere disposto, in base al testuale tenore della norma, soltanto per
il prezzo e non anche per il profitto del reato.
SS.UU., sentenza 25 giugno 2009, n. 38691, Rv.
244189;
Pres. Gemelli T., Est. Fiale A., Rel. Fiale A., Imp. Caruso. P.M. Palombarini G. (Diff.).
(Annulla senza rinvio, Trib. lib. Roma, 09 luglio
2008).
Nullità – Nullità di ordine generale – Nullità a regime
intermedio – Deducibilità – Imputato con due difensori – Omesso avviso di udienza ad uno solo di essi – Nullità a regime intermedio – Sanatoria – Mancata tempestiva deduzione – Condizioni per la deducibilità – Presenza dell’imputato – necessità – Esclusione.
La nullità a regime intermedio, derivante dall’omesso
avviso dell’udienza a uno dei due difensori dell’imputato, è sanata dalla mancata proposizione della relativa
eccezione a opera dell’altro difensore comparso, pur
quando l’imputato non sia presente. (In motivazione la
Corte ha precisato che è onere del difensore presente,
anche se nominato d’ufficio in sostituzione di quello di
fiducia regolarmente avvisato e non comparso, verificare se sia stato avvisato anche l’altro difensore di fiducia ed il motivo della sua mancata comparizione,
eventualmente interpellando il giudice).
SS.UU., sentenza 16 luglio 2009, n. 39060, Rv.
244187;
Pres. Gemelli T., Est. Rotella M., Rel. Rotella M., Imp.
Aprea. P.M. Ciani G. (Conf.).
(Rigetta, App. Napoli, 22 maggio 2006).
Nullità – Nullità di ordine generale – Nullità a regime intermedio – Deducibilità – Assenza di uno dei due
difensori di fiducia – Presenza dell’altro difensore – Sufficienza agli effetti della valida costituzione del rapporto processuale – Termine per eccepire
la nullità – Individuazione
La nullità di ordine generale a regime intermedio,
derivante dall’omesso avviso ad uno dei due difensori di
fiducia, deve essere eccepita a opera dell’altro difensore
al più tardi immediatamente dopo gli atti preliminari,
prima delle conclusioni qualora il procedimento non
importi altri atti, in quanto il suo svolgersi (in udienza
preliminare, riesame cautelare o giudizio) presume la
rinuncia all’eccezione. (In motivazione la Corte ha ulteriormente affermato che non è possibile far valere successivamente l’interesse dell’imputato non comparso ad
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essere assistito anche dal difensore non avvisato, in
quanto tale interesse non è riconoscibile in sede di impugnazione del provvedimento conclusivo del giudice).
SS.UU., sentenza 16 luglio 2009, n. 39060, Rv. 244187;
Pres. Gemelli T., Est. Rotella M., Rel. Rotella M., Imp.
Aprea. P.M. Ciani G. (Conf.).
(Rigetta, App. Napoli, 22 maggio 2006).
Persona giuridica – Società – In genere – Responsabilità da reato degli enti – Costituzione dell’ente
nel procedimento a suo carico – Rappresentante
legale imputato del reato presupposto – Incompatibilità – Nomina di un nuovo rappresentate – Necessità – Conferimento al rappresentante di poteri limitati al processo – Legittimità
In tema di responsabilità da reato degli enti, la persona giuridica, non potendo costituirsi nel procedimento a suo carico attraverso il proprio rappresentante legale, qualora questi sia indagato o imputato del reato
presupposto, deve provvedere alla sostituzione del rappresentante legale divenuto incompatibile ovvero nominarne altro con poteri limitati alla sola partecipazione al suddetto procedimento.
Cass., Sez. VI, sentenza 19 giugno 2009, n. 41398, Rv.
244406;
Pres. De Roberto G., Est. Fidelbo G., Rel. Fidelbo
G., Imp. Caporello. P.M. Galati G. (Parz. Diff.). (Rigetta, Trib. Padova, 1 dicembre 2008).
Persona giuridica – Società – In genere – Responsabilità da reato degli enti – Esercizio dei diritti di difesa – Formale costituzione dell’ente – Necessità – Esclusione
In tema di responsabilità da reato degli enti, i diritti di
difesa, con esclusione degli atti difensivi cosiddetti personalissimi, possono essere esercitati in qualunque fase del
procedimento dal difensore nominato d’ufficio, anche
qualora la persona giuridica non si sia costituita ovvero
quando la sua costituzione debba considerarsi inefficace
a causa dell’incompatibilità del rappresentante legale
perché indagato o imputato del reato presupposto.
Cass., Sez. VI, sentenza 19 giugno 2009, n. 41398, Rv.
244406;
Pres. De Roberto G., Est. Fidelbo G., Rel. Fidelbo
G., Imp. Caporello. P.M. Galati G. (Parz. Diff.). (Rigetta, Trib. Padova, 1 dicembre 2008).
Persona giuridica – Società – In genere – Responsabilità da reato degli enti – Rappresentanza dell’ente
nel procedimento a suo carico – Rappresentante
legale dell’ente indagato per il reato presupposto – Incompatibilità – Illegittimità costituzionale – Manifesta infondatezza
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 39 D.Lgs. n. 231 del 2001,
sollevata per la violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.,
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nella parte in cui impedisce all’ente di partecipare al
procedimento a suo carico con il proprio rappresentante legale, quando questi risulti essere imputato del reato
presupposto della responsabilità dell’ente medesimo.
Cass., Sez. VI, sentenza 19 giugno 2009, n. 41398, Rv.
244406;
Pres. De Roberto G., Est. Fidelbo G., Rel. Fidelbo
G., Imp. Caporello. P.M. Galati G. (Parz. Diff.). (Rigetta, Trib. Padova, 1 dicembre 2008).
Persona giuridica – Società – In genere – Responsabilità da reato degli enti – Rappresentante legale
dell’ente imputato del reato presupposto – Divieto
assoluto di rappresentare l’ente nel procedimento – Sussistenza – Facoltà di nominare il difensore
di fiducia dell’ente – Esclusione
In tema di responsabilità da reato degli enti, il rappresentante legale incompatibile, perché indagato o
imputato del reato presupposto, non può provvedere
neppure alla nomina del difensore di fiducia dell’ente,
per il generale e assoluto divieto di rappresentanza
posto dall’art. 39 D.Lgs. n. 231 del 2001.
Cass., Sez. VI, sentenza 19 giugno 2009, n. 41398, Rv.
244406;
Pres. De Roberto G., Est. Fidelbo G., Rel. Fidelbo
G., Imp. Caporello. P.M. Galati G. (Parz. Diff.). (Rigetta, Trib. Padova, 1 dicembre 2008).
Prove – Mezzi di prova – Testimonianza – Incompatibilità – In genere – Persona offesa del reato di calunnia – Suo esame nel procedimento a carico del
proprio accusatore – Veste sussumibile
È incompatibile con l’ufficio di testimone la persona, già denunciata per la commissione di un fatto reato,
che venga esaminata, su tale fatto, come persona offesa
nel procedimento di calunnia nei confronti del proprio
accusatore dovendo essa assumere, in relazione al collegamento probatorio tra i due reati, la veste di imputato di reato connesso o, ricorrendone le condizioni, di
testimone assistito.
Cass., Sez. VI, sentenza 28 maggio 2009, n. 32841, Rv.
244448;
Pres. De Roberto G., Est. Conti G., Rel. Conti G., Imp.
Erler. P.M. Febbraro G. (Diff.).
(Annulla con rinvio, App. Trieste, 17 Maggio 2006).
Rapporti giurisdizionali con autorità straniere – Mandato di arresto europeo – Consegna per
l’estero – Provvedimento restrittivo: sentenza di
condanna – Mancata acquisizione – Conseguenze
In tema di mandato di arresto europeo, è legittima
la decisione di consegna in forza di un M.A.E. esecutivo anche se non sia stata allegata o acquisita in via integrativa la copia della sentenza di condanna a pena
detentiva che ha dato luogo alla richiesta, qualora la
documentazione in atti contenga tutti gli elementi co-
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noscitivi necessari e sufficienti per la decisione stessa.
Cass., Sez. F, sentenza 01 settembre 2009, n. 33600, Rv.
244388;
Pres. Silvestri G., Est. Silvestri G., Rel. Silvestri G., Imp.
Paraschivu. P.M. Delehaye E. (Conf.). (Rigetta, App.
Trieste, 30 luglio 2009).
Reati contro la pubblica amministrazione – Delitti – Dei pubblici ufficiali – Corruzione – Per un atto
dell’ufficio o del servizio – Attività amministrativa
discrezionale – Sussistenza del reato – Condizioni
Si configura il delitto di corruzione impropria e non
quello di corruzione propria in relazione ad un atto
adottato dal pubblico ufficiale nell’ambito di attività
amministrativa discrezionale, soltanto qualora sia dimostrato che lo stesso atto sia stato determinato
dall’esclusivo interesse della P.A. e che pertanto sarebbe stato comunque adottato con il medesimo contenuto e le stesse modalità anche indipendentemente dalla
indebita retribuzione.
Cass., Sez. Vi, sentenza 09 luglio 2009, n. 36083, Rv.
244258;
Pres. Lattanzi G., Est. Ippolito F., Rel. Ippolito F., Imp.
Mussoni e altri. P.M. Di Casola C. (Conf.). (Rigetta,
App. Milano, 04 novembre 2008).
Reati contro la pubblica amministrazione – Delitti – Dei pubblici ufficiali – Peculato – in genere – Mancanza di danno patrimoniale per la P.A. – Irrilevanza – Reato – Configurabilità – Fattispecie: appropriazione di somme dell’ente in compensazione di crediti vantati dall’agente
Il peculato si consuma nel momento in cui ha luogo
l’appropriazione della “res” o del danaro da parte
dell’agente, la quale, anche quando non arreca, per
qualsiasi motivo, danno patrimoniale alla P.A., è comunque lesiva dell’ulteriore interesse tutelato
dall’art. 314 c.p. che si identifica nella legalità, imparzialità e buon andamento del suo operato. (Fattispecie
nella quale il ricorrente, concessionario di un pubblico
servizio, aveva sostenuto di aver trattenuto le somme
incassate per conto dell’ente, per soddisfare un proprio
diritto di credito, vantato nei confronti di quest’ultimo,
ricorrendo a una sorta di autoliquidazione).
SS.UU., Sentenza 25 giugno 2009, n. 38691, Rv.
244190;
Pres. Gemelli T., Est. Fiale A., Rel. Fiale A., Imp. Caruso. P.M. Palombarini G. (Diff.).
(Annulla senza rinvio, Trib. lib. Roma, 09 luglio
2008).
Reato – Circostanze – Aggravanti comuni – Danno
patrimoniale di rilevante gravità – Delitto tentato – Applicazione – Possibilità – Limiti – Fattispecie
La circostanza aggravante del danno patrimoniale
di rilevante gravità può essere ravvisata anche nel de-
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penale
litto tentato, quando le modalità del fatto criminoso
siano idonee a fornire concrete e univoche indicazioni
sull’entità del pregiudizio che si sarebbe determinato
nel caso in cui l’azione delittuosa fosse stata portata a
compimento. (Fattispecie relativa ad un’ipotesi di tentata truffa aggravata).
Cass., Sez. F, sentenza 13 agosto 2009, n. 33408, Rv.
244353;
Pres. Rotundo V., Est. Piccialli P., Rel. Piccialli P., Imp.
Hudorovich e altro. P.M. Montagna A. (Conf.).
(Dichiara inammissibile, App. Brescia, 14 ottobre
2008).
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Codice penale
Rassegna
di merito
● A cura di Alessandro Jazzetti
e
Sostituto Procuratore Generale
presso la Corte di Appello di Napoli
Giuseppina Marotta
Avvocato
Concorso di reati: violenza sessuale e sequestro di
persona – AmmissibilitÀ
È pacificamente riconosciuto in giurisprudenza il
concorso tra il reato di violenza sessuale e quello di sequestro di persona nel caso in cui – come quello oggetto del presente processo – il tempo nel quale la vittima
era stata privata della propria libertà di movimento, era
di gran lunga superiore a quelle necessario per commettere la violenza sessuale.
Ed invero, la Cassazione ha da sempre specificato
che il reato di sequestro di persona di cui all’art. 605 c.p.
concorre con quello di violenza sessuale di cui all’art. 609
c.p. nel caso in cui la privazione della libertà non si
esaurisca nel tempo occorrente a commettere il delitto
contro la libertà sessuale, ma si prolunghi prima o dopo
la costrizione necessaria a compiere gli atti sessuali.
Tribunale di Napoli, coll. E, sez. XI, Sentenza 09 luglio
2009, n. 10160;
Pres. dr. Fabio Viparelli, Giudice dott.ssa Angela Paolelli, Est. dott.ssa Eliana Albanese.
Concorso di reati: utilizzo di carta di credito falsa – Truffa: sussistenza del primo reato
Quanto all’utilizzo di una carta di credito falsificata
per l’acquisto della merce deve rilevarsi che il fatto debba essere qualificato a norma dell’art.55 D.Lvo n. 231.07
ritenendosi, ome stabilito dalle Sezioni Unite della Cassazioni con sentenza del 28.3.01, che nella specie la
truffa resti assorbita, nella fattispecie di cui all’art. 55
cit. non estraneo alla tutela del patrimonio individuale
di cui all’art. 640 c.p..
Tribunale di Napoli, Sez. XIII, G.I.P. dr. Alabisio, sentenza 23 settembre 2009, n. 2070.
CONCORSO DI PERSONE NEL REATO: PRESUPPOSTI
L’attività costitutiva del concorso di persone nel
reato può assumere forme diverse e che anche la semplice presenza, purchè non meramente casuale, sul
luogo della esecuzione del reato è sufficiente a integrare gli estremi della partecipazione criminosa, quante
volte sia servita a fornire all’autore del fatto stimolo
all’azione o un maggior senso di sicurezza ella propria
condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa.
Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Concetta Cristiano,
sentenza 16 settembre 2009, n. 11708.
Falso ideologico commesso da p.u. – Condotta punibile
Integra la fattispecie di cui all’art. 479 c.p. la falsa
attestazione del notificatore circa il soggetto nei cui
confronti sarebbe avvenuta la notifica della cartella
esattoriale.
Tribunale di Napoli, G.M. dr. Giovanni Vinciguerra,
sentenza 14 luglio 2009, n. 10470.
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Falso ideologico: falsa attestazione di presenza in
ufficio riportata nei cartellini marcatempo – Insussistenza del reato.
Non integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la falsa attestazione del pubblico dipendente circa
la sua presenza in ufficio riportata nei cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, in quanto trattasi di
documenti che non hanno natura di atto pubblico, ma
di mera attestazione del dipendente inerente il rapporto di lavoro, soggetto a disciplina privatistica, documenti che, peraltro, non contengono manifestazioni
dichiarative o di volontà riferibili alla P.A.
Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Paola Borrelli, sentenza
29 settembre 2009, n. 1375.
Falsità ideologica commessa da privato: procedimento di condono edilizio – Obbligo di attestare il
vero nella domanda – Esclusione
Il delitto di falsità ideologica commessa dal privato
in atto pubblico ex art. 483 c.p., unisce chiunque “attesta falsamente al p.u. fatti dei quali l’atto è destinato
a provare la verità”. In dottrina e giurisprudenza tuttavia, si afferma che, perché sussista il reato, vi è la
necessità che incomba sull’attestante un preciso dovere
giuridico di esporre la verità, stabilito in modo indubbio, esplicitamente o implicitamente, dalla legge che
regola l’atto di cui si tratta. Deve invero, escludersi che
dall’art. 483 c.p. possa desumersi un generale obbligo
di veridicità nelle attestazioni che i privati fanno ai p.u.,
esteso, quindi anche ai fatti la cui menzione sia puramente facoltativa.
Senonchè in tema di procedimenti di condono, un
tale dovere veritatis susssiste esclusivamente con riferiemnto alla formazione della dichiarazione sostitutiva
dell’atto di notorietà” previsto e regolato dall’art. 47
co. 1 T.U. di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28/12/2000 n. 445.
Infatti, in tal caso, di un eventuale falso deve rispondere il dichiarante in relazione al preesistente obbligo
di attestare il vero, senza che occorra la prova del dolo
specifico, essendo sufficiente il dolo generico per la
configurazione del reato. Onde non è la domanda in
sanatoria in sé a dovere attestare cose conformi al vero,
ma l’allegata dichiarazione rilasciata ex DPR
445/2000.
Tribunale di Nola, G.M. dott. Alfonso Scermino, sentenza 18 novembre 2009, n. 1728.
Invasione arbitraria di edifici: occupazione di case
popolari -Elementi costitutivi
Il reato di cui agli artt.633-639 bis c.p. sanziona la
condotta del soggetto che “invada” arbitrariamente, in
assenza di autorizzazioni e non necessariamente con
violenza o con forza fisica, terreni o edifici altrui (elemento oggettivo), allo scopo di esercitare su di essi una
signoria di fatto. Quanto all’elemento psicologico, la
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norma richiede il dolo specifico ovverossia il fine di
trarne profitto e la consapevolezza di occupare arbitrariamente e non momentaneamente l’immobile contro
la volontà del proprietario o legittimo possessore, di
altro soggetto legittimato.
L’occupazione “sine titulo” di un alloggio costruito
dall’Istituto Autonomo Case Popolari integra gli estremi del reato di cui all’art. 633 cod. pen. anche nel caso
in cui l’occupante si sia autodenunciato onde ottenere
la regolarizzazione della propria posizione, ed abbia
corrisposto regolarmente il canone di locazione.
“Non sussiste rapporto di specialità, a norma
dell’art. 9 L. n. 689 del 1981, tra il reato di cui all’art. 633
c.p.. e l’illecito amministrativo previsto dall’art. 26,
comma quarto, L. n. 513 del 1977, che sanziona l’occupazione di un alloggio di edilizia popolare senza le
autorizzazioni necessarie. L’illecito amministrativo,
infatti, non è diretto a salvaguardare l’inviolabilità del
patrimonio immobiliare pubblico o privato nei confronti di atti diretti a violare il rapporto esistente tra i beni
ed i loro possessori e prescinde dall’arbitrarietà delle
condotte degli autori, ma ha come fine impedire il consolidarsi di talune situazioni in contrasto con la legittima distribuzione degli alloggi agli aventi diritto attraverso comportamenti di mera occupazione, che possono anche essere soltanto irregolari.
Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Diana Bottillo, sentenza 4 maggio 2009.
Invasione di edifici – Bene protetto – Presupposti ed
elementi costitutivi
La condotta tipica del reato di invasione di edifici
consiste nell’introdursi dall’esterno in un immobile altrui, del quale non si abbia il possesso o la detenzione.
Infatti, il bene – interesse protetto dalla norma, non
va individuato unicamente nel diritto di proprietà altrui, ma anche nel possesso, ossia in una relazione di
fatto esistente tra il soggetto e la cosa, compromessa
dalla condotta illecita dell’autore del reato che, “invito
domino” e quindi “arbitrariamente” sostituisce il proprio possesso a quello preesistente, escludendolo in
tutto o in parte.
Ne deriva che quando un soggetto sia, già in possesso del bene e tale possesso eserciti in via pacifica e
continuativa, indipendentemente dalla titolarità del
diritto, manca l’estremo dell’accesso o della penetrazione e quindi la possibilità di ritenere integrata la condotta materiale del reato di cui agli artt. 633 e 639 cp.
Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Daniela Critelli, sentenza 26 ottobre 2009, n. 1575.
Invasione di edifici: esclusione dal novero dei reati
omissivi – Elemento materiale del reato.
La condotta punita dall’art. 633 c.p. concerne la
invasione di edifici altrui: ne consegue che laddove
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manchi la prova che, mediante l’inserimento nel manufatto di attrezzi e materiali che non vi fossero già collocati, si sia realizzata tale condotta, il reato va escluso.
Né la riconducibilità del comportamento dell’imputato alla fattispecie delittuosa potrebbe essere operato
attraverso una forzata interpretazione della norma,
trasformando la condotta, di natura inequivocabilmente commissiva, in un reatio omissivo, consistente nella
mcnata rimozione dei materiali. Tale conclusione è
confortatan dal rilievo che l’elemento materiale del
reato in argomento non è costituito dall’occupazione
(che è una delle finalità ilelcite dell’invasione) ma
dall’invasione, ossia dall’esterno nell’altrui immobile
senza la quale il reato non può dirsi perfezionato.
Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Paola Borrelli, sentenza
10 novembre 2009, n. 1683,
Lesioni volontarie – Tentato omicidio: presupposti – Differenze tra i due reati – Criteri di accertamento della prova dell’animus necandi
Nel reato di lesioni volontarie, l’azione esaurisce la
sua carica offensiva nell’evento prodotto, mentre nel
delitto di tentato omicidio vi è un quidpluris che, andando al di là dell’evento realizzato, tende ed è idoneo
a causarne uno più grave, non riuscendo a cagionarlo
per cause estranee alla volontà dell’agente.
Quanto all’elemento psicologico, la prova dell’animus necandi – ove manchino esplicite ammissioni
dell’imputato – è di natura essenzialmente indiretta,
rimessa al prudente apprezzamento del Giudice, dovendosi desumere l’intenzione omicida, attraverso un
procedimento logico d’induzione, da parametri esterni
oggettivi, quali i mezzi usati, la direzione e l’intensità
dei colpi, la distanza del bersaglio, la parte del corpo
attinta, le situazioi1i di tempo e di luogo che favoriscano l’azione cruenta. I connotati stessi della condotta
obiettivamente indicativi del fine perseguito dall’agente, nonché da tutti quegli elementi che, secondo l’id
quod plerumque accidit, abbiano un valore sintomatico.
Si tratta dunque di determinare, con giudizio di fatto,
se la fattispecie concreta sia da ricondurre a quella di
lesioni personali, che si distingue da quella in contestazione per la differente, minore potenzialità lesiva
dell’azione ed il diverso atteggiamento psichico
dell’agente.
Tribunale di Napoli, Sezione IV, sentenza 10 luglio
2009, n. 10624;
Pres. dr. Concetta Cristiano, Giudici a latere dr. Giovanni Vinciguerra, Est. dr. Maria Rosaria Salzano.
Minaccia: l’attribuzione di apostata rivolta ad una
donna islamica (ovvero essere cristiana e non musulmana come vorrebbe apparire) integra il reato
di minaccia implicita di morte
Il mondo islamico riprova fortemente la conversione
in fede cristiana di chi dovrebbe appartenere a fede isla-
p e n a l e
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mica: e tale era certamente la p.o., siccome cittadina
marocchina e facente parte di un organo a connotazione
politico – religiosa musulmana. In vari stati islamici – compreso lo stato del Marocco (di certo al tempo
della commissione del reato per cui è giudizio) – la conversione religiosa in altra fede (apostasia), compresa la
cattolica, è punito con la pena di morte. Ora, considerato quanto sopra detto sul contesto in cui si inserisce la
“proclamazione di disvelata cristianità” in capo alla p.o.
da parte dell’imputato, non può dubitarsi che detta
proclamazione ebbe lo scopo di additare la p.o. come
apostata: colei che prima si era indicata come buona
musulmana, adesso è indicata addirittura come una
cristiana. L’Islam annovera come conseguenza di ciò la
morte, e non può negarsi che essa fosse minacciata
dall’imputato, in ragione del contesto di lettere in cui si
inseriva la frase. Il tenore delle lettere rendeva infatti
evidente che l’imputato era comunque un devoto musulmano, e tanto basta per far sì che – trattandosi di reato
di pericolo – le sue parole fossero dotate di credibilità, e
che quindi vi fosse il pericolo che lui o altri per lui (Cass.
8275/86 Sorgou), potessero poi attuare le conseguenze
(pena di morte) che quel giudizio di riprovazione (proveniente da fedele dell’islam) induceva. Trattandosi di
reato di pericolo, importa che la condotta del soggetto
sia obiettivamente idonea a prospettare un male ingiusto – a prescindere dal fatto che la p.o. si sia sentita effettivamente coartata. (Cass. 47739/08 Giuliani): e
questa situazione di obiettivo pericolo, in ragione delle
cennate caratteristiche della religione islamica, deve
dirsi sussistente. Come sussistente è il dolo, che richiede
solo la coscienza e volontà di prospettare un male ingiusto diretto ad intimidire non importando l’effettivo
proposito di tradurre in atto il male minacciato. (Cass.
7382/85 Dessi). Ebbene, l’imputato, come detto è un
credente islamico, e dunque non poteva non sapere che
l’apostata è passibile di morte secondo la legge islamica.
Pronunciando quella frase, egli intendeva riprovare la
p.o., al contempo volendo avvertirla di ciò cui poteva
andare incontro per il suo essere cristiana.
Tribunale di Bologna, G.M. dr. Alessandro Gnani,
sentenza 18 giugno 2009, n. 1652.
Resistenza a pubblico ufficiale: elementi costitutivi – Presupposti
Integra il reato di cui all’art. 337 c.p. la condotta
posta in essere dall’imputato caratterizzata da azioni di
attiva e violenta resistenza nei confronti degli agenti
operanti, oggettivamente ostative del loro operato, sviluppatesi specificainente nel compiere reiterate e brusche
inanovre alla guida della propria autovettura al fine di
eludere il controllo e di darsi alla firga, perseguendo
tale fine anche a costo di attentare all’incolurnita fisica
di uno dei verbalizzanti, presente a piedi sulla strada e
cagionando a quest’ultimo lesioni personali giudicate
guaribili in giorni venti, salvo coinplicazioni.
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
L’elemento psicologico del reato, poi si concreta
nella coscienza e volontà dell’agente di precludere con
la propria condotta minacciosa o violenta l’atto di ufficio ritenuto pregiudizievole per i propri interessi.
Tribunale di Napoli, Sezione IV, sentenza 10 luglio
2009, n. 10624;
Pres. dr. Concetta Cristiano, Giudici a latere dr. Giovanni Vinciguerra, Est. dr. Maria Rosaria Salzano.
Resistenza a pubblico ufficiale – Lesioni volontarie:
concorso di reati – Ammissibilità
Va correttamente configurato il concorso del reato
di resistenza con quello di lesioni perché il primo assorbe soltanto un minimo di violenza che può integrare il
delitto di percosse e non gli atti che, esorbitando tali
limiti, siano causa di lesioni.
Tribunale di Napoli, Sezione IV, sentenza 10 luglio
2009, n. 10624;
Pres. dr. Concetta Cristiano, Giudici a latere dr. Giovanni Vinciguerra, Est. dr. Maria Rosaria Salzano.
Tentato omicidio: dolo eventaule – Inconciliabilità
L’ atteggiamento volitivo sotto la forma del dolo
eventuale non appare conciliabile con il tentativo di
omicidio. Ciò sulla base del tenore letterale del disposto
di cui all’art. 56 c.p., che, nel richiedere l’inequivoca
direzione degli atti idonei a cagionare l’evento, presuppone ex se un preciso atto interno, consistente nella
volontà di conseguire il prefigurato risultato delittuoso.
Invero, “quando l’evento voluto non sia comunque
realizzato, la valutazione del dolo deve avere luogo
esclusivamente sulla base dell’effettivo volere dell’autore, ossia della volontà univocamente orientata alla
consumazione del reato, senza possibilità di fruizione
di gradate accettazioni del rischio, consentite soltanto
in caso di evento materialmente verificatosi”.
Tribunale di Napoli, Sezione IV, sentenza 10 luglio
2009, n. 10624;
Pres. dr. Concetta Cristiano, Giudici a latere dr. Giovanni Vinciguerra, Est. dr. Maria Rosaria Salzano.
Truffa aggravata ai danni dell’ente comunale: presupposti – Sussistenza
La condotta dell’imputato, che facendo registrare
l’uscita attraverso il badge passato da un ignoto collega
in un orario posteriore rispetto a quello nel quale si era
allontanato dagli uffici comunali, integra gli artifici e
raggiri tesi ad indurre in errore l’amministrazione comunale circa l’entità della sua effettiva permanenza in
ufficio, ciò concretamente rappresentando un insieme
di atti idonei in modo non equivoco ad ottenere l’ingiusto profitto rappresentato dal conseguimento di una
retribuzione anche per la porzione di tempo non trascorsa al lavoro.
Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Paola Borrelli, sentenza
29 settembre 2009, n. 1375.
2 0 0 9
71
Procedura penale
Competenza per territorio: criteri sussidiari – Applicabilià
Il disposto dell’art. 9 c.p.p., statuisce che laddove la
competenza non può essere determinata ai sensi
dell’art.8 c.p.p., trovano applicazione le regole suppletive di cui al richiamato art. 9 c.p.p. poste tra loro in
ordine decrescente.
Nel caso in cui non è noto né il luogo di consumazione del reato, né il luogo in cui è avvenuta una parte
dell’azione o dell’omissione occorre necessariamente far
riferimento al criterio residuale in successione del luogo
di residenza, dimora o domicilio dell’imputato. Al riguardo, appare incontrovertibile -stante l’uso dell’avverbio “successivamente” contenuto nel comma 2°
dell’art.9 c.p.p.- che il riferimento alla residenza, dimora o domicilio dell’imputato è posto in ordine gerarchico e che la competenza va determinata in base al luogo
di residenza, dimora o domicilio conosciuti al momento di commissione o accertamento del fatto-reato e non
già in base alla residenza del momento in cui viene
esercitata l’azione penale (residenza che ben potrebbe
nel frattempo essere mutata specie laddove il procedimento è regredito e vi è stato nuovo esercizio dell’azione penale come nel caso di specie).
Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Diana Bottillo, ordinanza 06 luglio 2009, proc.pen. n.11/09 R.G. Dib.
Prove: utilizzabilità di verbali delle deposizioni già
rese in dibattimento innanzi a giudice diverso
Le modalità attraverso cui ciascun esame è stato
condotto – chiedendo al teste se ricordasse e confermasse quanto riferito in precedenza innanzi a diverso Giudice, e prendendo atto della risposta positiva fornita da
ciascuno – determinano la piena utilizzabilità del contennuto dei verbali delle deposizioni già rese; ciò risponde sia ad una logica di economia processuale e di non
dispersione dei mezzi di prova, coniugata nel pieno
rispetto del principio del contraddittorio e dell’oralità
del dibattimento – garantiti dalla circostanza che le
parti hanno avuto la possibilità di esaminare e controesaminare nuovamente il testimone dinanzi al nuovo
giudicante – sia ad un principio giurisprudenziale che
non registra pronunzie di segno contrario.
Tribunale di Nola, G.M. dr.ssa Paola Borrelli, sentenza
27 ottobre 2009, n. 1591.
Sentenza: pronuncia assolutoria ai sensi
dell’art. 530 co. 2 c.p.p. – Condizioni e presupposti
La regola di giudizio di cui all’art. 530 co. 2 – cioè
il dovere per il giudice di pronunciare sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o contraddittoria la prova della resposnabilità, – è dettata esclusivamente, per il normale esito del processo sfociante
in una sentenza emessa dal giudice al compimento
penale
Gazzetta
72
D i r i t t o
e
p r o c e d u r a
dell’attività dibattimentale con piena valutazione di
tutto il complesso probatorio acquisitosi in atti.
Tale regola, di contro, non può trovare applicazione
in presenza di causa estintiva di reato operante già
all’inizio di un giudizio dibattimnetale.
In una situazione del genere vale la regola di cui
all’art. 129 c.p.p. in base alla quale in presenza di causa estintiva del reato, l’inizio di prova ovvero la prova
incompleta in ordine alla resposanbilità dell’imputato
non viene equiparata alla mancanza di prova ma, per
pervenire ad un proscioglimento nel merito, soccorre la
diversa regola di giudizio, per la quale deve “positivamente” emergere dagli atti processuali, senza necessità
di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato per
quanto contestatogli.
Tribunale di Nola, G.M. dott. Alfonso Scermino, sentenza 18 novembre 2009, n. 1728.
Valutazione della prova: testimonianza della persona offesa – Indagine sulla credibilità intrinseca
ed estrinseca – Criteri
Occorre premettere in diritto che in adesione ad un
costante orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass.
pen. sent. 1 aprile 1991 imp. Bertone, in Arch. nuova
proc. pen. 1992, 622 e Cass. Pen. sent. 28 febbraio
1992, imp. Simula e più recentemente Cass. pen. sez.
111 sentenza 28 novembre 2002 – 23 gennaio 2003
n. 3162 proprio in tema di reati sessuali), quando sia
difficile ottenere nel processo testimonianze dirette, per
essersi i fatti svolti fuori della presenza altrui, il giudice
può attingere la verità dalle dichiarazioni del soggetto
passivo, il quale per legge riveste anche la qualità di
testimone, anche se in questo caso maggiore deve essere lo scrupolo nella rigorosa valutazione delle dichiarazioni del teste, della costanza ed uniformità dell’accusa,
delle circostanze e modalità dell’accaduto e di tutto
quanto possa concorrere ad assicurare il controllo della attendibilità della sua testimonianza. Appare, pertanto, evidente che la deposizione della persona offesa
dal reato, costituita o meno parte civile, pur non potendo quest’ultima essere equiparata – quanto al grado di
attendibilità soggettiva – al testimone estraneo, potrebbe – in ipotesi – essere da sola assunta quale fonte di
prova ove, però, venga sottoposta ad una intensa ed
approfondita indagine positiva sulla sua credibilità
intrinseca, con riguardo alla coerenza e precisione,
accompagnata da un controllo sulla credibilità soggettiva di chi l’ha resa.
Ed invero, in tema di valutazione della prova, qualora si tratti della testimonianza della persona offesa,
che ha sicuramente interesse verso l’esito del giudizi,
bisogna vagliare le sue dichiarazioni con ogni opportuna cautela, cioè compiere un esame particolarmente
penetrante e rigoroso attraverso una conferma di altri
elementi probatori talché essa può essere assunta, da
sola, come fonte di prova, unicamente se venga sotto-
p e n a l e
Gazzetta
F O R E N S E
posta a detto riscontro di credibilità oggettiva e soggettiva.
Tribunale di Napoli, coll. E, Sez. XI, sentenza 17 settembre 2009, n. 10160;
Pres. dr. Fabio Viparelli – Giudice dott.ssa Angela Paolelli, Est. dott.ssa Eliana Albanese
Leggi penali speciali
Bancarotta fraudolenta documentale elemento
sogg.: dolo generico
Per la fattispecie di bancarotta fraudolenta documentale d cui alla seconda ipotesi dell’art. 216 co. 1 n. 2
L.F. è richiesta la sussistenza del dolo generico, ovvero
la consapevolezza che la confusa tenuta della contabilità renderà o potrà rendere impossibile la ricostruzione
delle vicende del patrimonio o del movimento degli
affari. Tale locuzione connota la condotta e non la volontà dell’agente, perché la finalità dell’agente è riferita
ad un elemento costitutivo della stessa fattispecie oggettiva, (impossibilità di ricostruire il patrimonio e gli affari dell’impresa) anziché ad un elemento ulteriore, non
necessario per la consumazione del reato, qual è il pregiudizio per i creditori, sicchè è da escludere che configuri il dolo specifico che è invece necessario per l’integrazione delle fattispecie di sottrazione, distruzione o
falsificazione dei libri e delle scritture contabili.
Corte di Appello di Napoli, Sez. III, sentenza 24 settembre 2009, n. 5560;
Pres. dott. Pasquale Troise, Consiglieri Rel. dott. Domenico Zeuli, dott. Roberto Vescia.
Patrocinio per i non abbienti: false dichiarazioni in
merito alle condizioni soggettive per l’ammissione
al beneficio. (art.95 d.p.r.115/2002)
Il reato di cui all’art. 95 d.P.R. n. 115 del 2002
sanziona specificamente le falsità o le omissioni nelle
dichiarazioni o nelle comunicazioni per l’attestazione
delle condizioni di reddito in vista dell’ammissione al
patrocinio a spese dello Stato. Il reato è integrato non
già da qualsivoglia infedele attestazione ma dalle dichiarazioni con cui l’istante affermi, contrariamente al
vero, di avere un reddito inferiore a quello fissato dalla
legge come soglia di ammissibilità, ovvero neghi o nasconda mutamenti significativi del reddito dell’anno
precedente, tali cioè da determinare il superamento di
detta soglia. Di conseguenza, il delitto di cui al richiamato art.95 è speciale rispetto al reato di falso di cui
all’art. 483 c.p., con la conseguenza che i due reati non
sono in rapporto di concorso formale. Ne consegue che
integrano il delitto le false indicazioni o le omissioni
anche parziali dei dati di fatto riportati nella dichiarazione sostitutiva di certificazione o in ogni altra dichiarazione prevista per l’ammissione al patrocinio a spese
dello Stato, indipendentemente dalla effettiva sussisten-
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
za delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio.
Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Diana Bottillo, sentenza 6 luglio 2009
Patrocinio per i non abbienti: reato di cui all’art. 95
dPR 115 – elemento soggettivo
Quanto all’elemento psicologico del reato, è sufficiente il dolo generico, ovverossia la coscienza e volontà della falsificazione della dichiarazione o della falsa
attestazione, posto che le norme in materia di falso di
cui l’art.95 costituisce un’ipotesi speciale, mira a tutelare la veridicità in astratto degli atti stessi a prescindere dalle effettive conseguenze dannose ed indipendentemente da fini di vantaggio o di danno che si propone
l’agente, di talchè il delitto è perfezionato anche quando la falsità sia compiuta con la convinzione di non
arrecare un danno ovvero senza l’intenzione di conseguire un profitto.
Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Diana Bottillo, sentenza 6 luglio 2009.
Stupefacenti: circostanza attenuante della lieve
entità – Presupposti e condizioni
L’attenuante della lieve entità può essere riconosciuta quando il fatto ha il carattere della minima o trascurabile offensività del bene giuridico tute1ato.
In particolare secondo un principio ermeneutico
consolidato: “Il giudice è tenuto a valutare tutti gli
elementi della norma, quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze) e quelli concernenti l’oggetto materiale del reato (quantità e qualità dello stupefacente), dovendo in conseguenza negare l’attenuante
quando anche uno solo di tali elementi porti ad escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di
lieve entità. Nella fattispecie era stata ritenuta correttamente negata l’attenuante in caso di detenzione e
vendita di diverse tipologie di stupefacenti, tali da dimostrare che lo spaccio era diretto ad un cospicuo e
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variegato numero di consumatori.Altro principio interpretativo è quello secondo il quale l’attenuante deve
escludersi quando il quantitativo ceduto non sia modico e le modalità dell’azione denotino professionalità,
organizzazione di mezzi anche rudimentale o continuità nella condotta.
Tribunale di Napoli, GUP dr. E. de Gregorio, sentenza
25 settembre 2009, n. 14918.
Stupfecenti: detenzione ai fini di spaccio – Requisiti
Elementi idonei a dimostrare la detenzione a fini di
spaccio, possono essere costituiti dal quantitativo non
modesto della sostanza stupefacente, nonché dalle modalità di confezionamento e di occultamento della sostanza, unitamente alla illiceità della detenzione anche
all’ interno dell’ abitazione di un quantitativo consistente di lidocaina (gr. 438,36), sostanza utilizzabile per
il taglio della cocaina, nonché il rinvenimento di strumenti atti al confezionamento (bilancia di precisione,
utensili e coltelli, che presentavano tracce di cocaina).
Tribunale di Napoli, G.M. dr.ssa Concetta Cristiano,
sentenza 16 settembre 2009, n. 11708.
Stupefacenti: spaccio – ipotesi di lieve entità di cu
all’art. 73 co. V dPR 309/90 – configurabilità
Come risulta dall’art. 74 co. 6 dPR 9.10.1990
n. 309, anche la cessione,continuativa a terzi di sostanze stupefacenti può integrare il fatto di lieve entità di
cui al quinto comma dell’art. 73 dello stesso DPR,
avuto riguardo alla quantità e qualità della sostanza
detenuta e spacciata, da accertarsi con riguardo al
principio attivo, alla complessità ed all’ ampiezza
dell’organizzazione, al numero ed alla qualità dei soggetti coinvolti, nonché più in generale ad ogni altro
profilo della vicenda che, secondo il giudizio discrezionale ma motivato del giudice di merito, appaia idoneo
ad incidere sulla entità del fatto.
Tribunale di Napoli, G.M. dr. Giovanni Vinciguerra,
sentenza 21 luglio 2009, n. 10814.
penale
Gazzetta
diritto
Amministrativo
Nota a T.A.R. Campania‑Napoli,
sez. I, 24 settembre 2009, n. 5058
77
Lucio Perone
Avvocato
Rassegna di giurisprudenza sul Codice
dei contratti pubblici di lavori, servizi e forniture
87
(D.Lgs. 12 Aprile 2006, n. 163 e ss. mm.)
amministrativo
A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura Regionale della Campania
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
●
Nota a T.A.R. Campania‑Napoli
sez. I, 24 settembre 2009,
n. 5058
● Lucio Perone
Avvocato
2 0 0 9
77
T.A.R. Campania – Napoli, sez. I, 24 settembre 2009 n. 5058
Sul ricorso numero di registro generale 3555 del 2008,
proposto da:
G*** S.a.s. del Geom. D.S. & C., …(omissis)…
contro
• Comune di ***, …(omissis)…;
• Prefettura – u.t.g. di ***, Ministero dell’Economia e
delle Finanze e Ministero della Difesa, rappresentati e
difesi dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli
[…Omissis…]
per l’annullamento quanto al ricorso introduttivo:
a) dell’informativa antimafia della Prefettura di XXX
prot. n. 1535/12b.16/ANT/AREA 1^ del 19 marzo
2008 e di tutti gli atti in essa richiamati, e segnatamente: 1) della nota Cat. Q2/ANT/B.N. datata 29
gennaio 2007 della Questura di XXX; 2) della nota
n. 1000/DPA/2007/MA datata 12 marzo 2007 della
Questura di XXX; 3) della nota n. 0245049/1-3 “P”
datata 3 aprile 2007 del Comando Provinciale Carabinieri di XXX; 4) della nota n. 9657 datata 3 settembre 2007 del Comando Nucleo Polizia Tributaria
della Guardia di Finanza di XXX; 5) della nota
n. 10430/GICO/3° C.O./RUB. datata 24 maggio
2007 del G.I.C.O. della Guardia di Finanza di Napoli; 6) della nota n. 125/NA/H7 di prot. 6824 datata
6 novembre 2007 della Direzione Investigativa Antimafia di Napoli; 7) del verbale del Gruppo Ispettivo
Antimafia della Prefettura di XXX datato 7 marzo
2008, contenente le risultanze delle verifiche antimafia disposte nei confronti della società ricorrente; 8)
della segnalazione del C.E.D. del Dipartimento della
P.S. del Ministero dell’Interno datata 17 marzo
2008;
b) della nota del Comune di XXX prot. n. 38894 del 15
aprile 2008, avente ad oggetto la “Comunicazione di
avvio del procedimento di risoluzione del contratto
n. 20945 rep. del 29.11.2006 per lavori di riqualificazione ambientale Piazza I Maggio in San Benedetto di XXX e Piazza Tredici in YYY”;
c) di ogni altro atto o provvedimento preordinato, connesso e conseguente, comunque lesivo del diritto
della ricorrente;
quanto all’atto per motivi aggiunti:
d) degli atti già impugnati con il ricorso introduttivo;
e) del la not a del la Prefet t u ra d i X X X prot.
n. 1535/12B.16/ANT/Area 1^ del 26 giugno 2008,
avente ad oggetto “Ricorso al T.A.R.. Campania
proposto da “G*** s.a.s. del geom. D.S. e C.” c/
Prefettura di XXX”;
f) della nota del Comune di XXX prot. n. 97663 del 17
ottobre 2006, con la quale sono state richieste informazioni antimafia sul conto della società ricorrente;
g) del decreto della Prefet t u ra di X X X prot.
n. 1535/12B.16/ANT/AREA I del 12 febbraio 2007,
con il quale il Gruppo Ispettivo Antimafia è stato
amministrativo
Gazzetta
78
d i r i t t o
a m m i n i s t r at i v o
incaricato di compiere le verifiche antimafia sul
conto della società ricorrente;
h) della nota del Comune di XXX prot. n. 33867 del 1°
aprile 2008, con la quale è stata trasmessa l’informativa antimafia;
i) di ogni altro atto o provvedimento preordinato,
connesso e conseguente, comunque lesivo del diritto
della ricorrente.
[…Omissis…]
Fatto
La società ricorrente, affidataria dei lavori di riqualificazione ambientale della Piazza I Maggio in San
Benedetto di XXX e della Piazza Tredici in Tredici,
espone di essere stata destinataria della nota del Comune di XXX prot. n. 38894 del 15 aprile 2008, recante
la comunicazione di avvio del procedimento di risoluzione del relativo contratto, a cagione dell’emissione,
da parte della Prefettura di XXX, dell’informativa prot.
n. 1535/12b.16/ANT/AREA 1^ del 19 marzo 2008, in
cui si evidenziava la sussistenza a suo carico delle cause interdittive di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 490/1994,
inerenti al pericolo di infiltrazione mafiosa.
Avverso tale informativa prefettizia, gli atti procedimentali in essa confluenti e le conseguenti determinazioni comunali (tutti meglio in epigrafe individuati),
insorge la ricorrente anche mediante la proposizione di
motivi aggiunti, chiedendone l’annullamento sulla scorta di censure attinenti ai seguenti vizi: violazione degli
artt. 2, 3, 24, 27, 41, 97 e 113 della Costituzione; violazione e falsa applicazione degli artt. 3, 7, 21 quinquies
e sexies, della legge n. 241 del 7 agosto 1990, dell’art. 4
del D.Lgs. n. 490 dell’8 agosto 1994, degli artt. 1, 9, 10
ed 11 del d.P.R. n. 252 del 3 giugno 1998, dell’art. 1
septies del decreto legge n. 629 del 6 settembre 1982,
dell’art. 38 del D.Lgs. n. 163 del 12 aprile 2006; violazione della circolare del Ministero dell’Interno n. 559
del 18 dicembre 1998; eccesso di potere sotto svariati
profili, tra cui difetto di motivazione, ingiustizia manifesta, assoluto difetto di istruttoria, errore sui presupposti, illogicità e contraddittorietà.
La Prefettura – U.T.G. di XXX e le altre amministrazioni ministeriali intimate, costituitesi in giudizio,
instano nella propria memoria difensiva per il rigetto
del ricorso.
Ad analoga conclusione giunge il Comune di XXX
nella sua memoria di costituzione.
La ricorrente ha prodotto ulteriore memoria difensiva, con la quale ribadisce le proprie ragioni.
Il ricorso, infine, è stato trattenuto per la decisione
all’udienza pubblica del 28 gennaio 2009.
Diritto
1. Con il gravame in trattazione, come integrato dai
motivi aggiunti, la società ricorrente intende contestare
la legittimità dell’informativa interdittiva emessa nei
suoi confronti e degli atti della relativa serie procedi-
Gazzetta
F O R E N S E
mentale, nonché delle conseguenti determinazioni del
Comune di XXX finalizzate alla risoluzione dell’appalto per i lavori di riqualificazione ambientale indicati in
narrativa.
2. Prima di procedere allo scrutinio delle censure
articolate nel ricorso, è opportuno precisare, in punto
di fatto, che l’informativa in questione trae linfa sia
dagli accertamenti compiuti autonomamente dalle
forze di polizia sia dalle valutazioni espresse congiuntamente dalle medesime in sede di riunione del
G.I.A. – Gruppo Ispettivo Antimafia (cfr. verbale del
7 marzo 2008). Tale attività istruttoria ha evidenziato
il pericolo infiltrativo rappresentato dalla figura dei
soci (accomandante ed accomandatario) e del responsabile tecnico, che sono stati ritenuti permeabili agli
ambienti mafiosi essenzialmente per le seguenti circostanze:
a) frequentazione del socio accomandatario con soggetto gravato da precedenti di polizia per truffa
aggravata al fine di conseguire erogazioni pubbliche
nonché sottoposto a procedimento di prevenzione
antimafia ai sensi della legge n. 575/1965, seppur
conclusosi favorevolmente per l’interessato in data
30 settembre 2003;
b) rapporti di cointeressenza societaria del socio accomandante con altro personaggio parimenti sottoposto a procedimento di prevenzione antimafia ai
sensi della legge n. 575/1965;
c) controlli effettuati più volte nel 2004 sull’autovettura di proprietà del responsabile tecnico, in occasione dei quali sono stati individuati come occupanti due pluripregiudicati affiliati al clan camorristico
dei Casalesi;
d) due dipendenti su tre della società con pregiudizi di
polizia per vari reati, tra cui violazione di sigilli,
violazione della legge sugli stupefacenti, truffa per
il conseguimento di erogazioni pubbliche, rapina,
porto abusivo e detenzione di armi.
3. Tanto premesso, si può dare ingresso allo scrutinio delle censure formulate avverso i provvedimenti
impugnati, evidenziando che la ricorrente si duole innanzitutto della violazione dell’art. 1 del d.P.R.
n. 252/1998, in quanto l’amministrazione comunale
avrebbe indebitamente chiesto il rilascio delle informazioni prefettizie per un contratto il cui importo si attesta ad € 84.957,20, ossia al di sotto dei limiti di valore
fissati dalla norma per l’applicabilità della disciplina in
tema di documentazione antimafia.
La censura non merita condivisione.
Come correttamente eccepito dalla difesa erariale,
il protocollo d’intesa stipulato tra la Prefettura ed il
Comune di XXX ha esteso il dovere di richiedere le
informazioni antimafia a tutte le tipologie di appalti,
indipendentemente dal loro importo. Tale accordo, che
trova la sua fonte legittimante direttamente nell’art. 15
della legge n. 241/1990 e che non è stato impugnato in
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
questa sede, fornisce adeguata copertura alla richiesta
di informazioni espletata nel caso specifico.
3.1 La ricorrente lamenta, altresì, che “i provvedimenti impugnati sono assolutamente privi di motivazione” anche allo scopo di consentire l’esercizio del diritto
di difesa, giacché l’atto di avvio del procedimento di
risoluzione non renderebbe disponibile l’informativa
presupposta ed i relativi accertamenti di polizia, né richiamerebbe in maniera espressa le argomentazioni
tratte dagli atti della serie procedimentale, in violazione
della disciplina normativa sulla motivazione per relationem. Comunque, ad avviso della ricorrente, anche se si
volesse ritenere sufficiente, ai fini della legittimità della
relatio, la mera indicazione degli estremi (numero e
data) dell’atto richiamato, nella fattispecie sarebbe carente anche tale requisito, contenendo l’atto di avvio in
questione un generico riferimento al mancato rilascio
dell’informativa favorevole senza alcuna ulteriore specificazione, nemmeno in ordine alla tipologia della
stessa (tipica od atipica).
La censura non si palesa convincente.
L’amministrazione comunale ha assolto congruamente il suo onere motivazionale, facendo riferimento
per relationem, nel corpo dell’atto iniziale del procedimento di risoluzione, alle informazioni rilasciate dall’autorità prefettizia, tenuto conto che può essere comunque
ritenuta legittima la comunicazione antimafia che, come
quella di specie, omette di citare testualmente i singoli
atti dell’istruttoria operando un mero richiamo agli
stessi (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 29 febbraio 2008
n. 756 ed 11 settembre 2001 n. 4724); d’altronde,
l’espressa indicazione della fonte regolatrice del correlativo potere (art. 10 del d.P.R. n. 252/1998) tratteggia
chiaramente la figura dell’informativa tipica, senza che
possa originarsi confusione con il diverso istituto dell’informativa atipica o supplementare, disciplinata da normativa a parte (art. 1 septies del d.l. n. 629/1982).
Inoltre, si osserva che non può essere lamentata la
mancata disponibilità dell’informativa prefettizia e degli
accertamenti condotti dagli organi di polizia. Infatti, il
concetto di disponibilità, di cui all’art. 3 della legge
n. 241/1990, comporta non che l’atto amministrativo
menzionato per relationem debba essere unito imprescindibilmente al documento o che il suo contenuto
debba essere riportato testualmente nel corpo motivazionale, bensì che esso sia reso disponibile a norma di
legge, vale a dire che possa essere acquisito utilizzando
il procedimento di accesso ai documenti amministrativi,
laddove concretamente esperibile.
In sostanza, detto obbligo determina che la motivazione per relationem del provvedimento debba essere
portata nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, con la conseguenza che in tale ipotesi è sufficiente
che siano espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell’atto richiamato, mentre non è necessario che lo
2 0 0 9
79
stesso sia allegato o riprodotto, dovendo essere messo a
disposizione ed esibito ad istanza di parte (cfr. T.A.R.
Campania Napoli, Sez. III, 21 febbraio 2002 n. 1002).
Si aggiunge che nel caso di specie, rientrando gli
atti istruttori dell’informativa prefettizia nei documenti
sottratti all’accesso in virtù dell’art. 3 del D.M. 10 maggio 1994 n. 415 (cfr. T.A.R. Campania Salerno, Sez. I,
10 luglio 2007 n. 818), correttamente l’amministrazione
ha ritenuto di non accludere i rapporti informativi riguardanti la posizione della società ricorrente.
3.2 Quest’ultima, nel rilevare la violazione dell’art. 11
del d.P.R. n. 252/1998 e della normativa in materia di
autotutela, denuncia l’insufficiente valutazione dell’interesse pubblico ed il difetto di motivazione in ordine
alla prospettata risoluzione del contratto di appalto, dal
momento che, in caso di informativa interdittiva successiva alla stipula del contratto, la legge contemplerebbe
solo la facoltà e non l’obbligo di risoluzione, esercitabile a seguito di apprezzamenti discrezionali di cui la
stazione appaltante dovrebbe dare adeguato conto. In
particolare, secondo la tesi della ricorrente, il procedimento di risoluzione in questione non potrebbe prescindere dalla doverosa ponderazione, da evidenziare in
sede motivazionale, dell’interesse pubblico alla prosecuzione del rapporto contrattuale (specie laddove, come
nel presente caso, questo sia in fase ultimativa) e, comunque, dell’interesse privato consolidatosi medio
tempore a fronte dell’esercizio del potere di autotutela.
La tesi non ha pregio.
In presenza di informative tipiche successive, come
quella di specie, le determinazioni amministrative in
ordine alla recisione dei contratti d’appalto in corso
assumono di regola carattere vincolato, non potendo
l’ordinamento tollerare, per evidenti ragioni di ordine
pubblico e di tutela dell’amministrazione dai condizionamenti della criminalità organizzata, la sopravvivenza
di rapporti contrattuali con imprese interessate da tentativi di infiltrazione mafiosa. L’unico margine di discrezionalità della stazione appaltante rimane circoscritto
alla valutazione di opportunità, per l’interesse pubblico,
che prosegua il rapporto contrattuale già instaurato,
allorché tale rapporto perduri da un cospicuo lasso di
tempo e sussistano concrete e stringenti ragioni che
rendano del tutto sconveniente per l’amministrazione
l’interruzione della fornitura, del servizio o dei lavori
oggetto del contratto revocando. Pertanto, la motivazione dovrà essere ampia e dettagliata quando l’amministrazione ritenga (eccezionalmente) di valorizzare tali
circostanze, ma non quando intenda aderire alla portata inibitoria dell’informativa prefettizia. In quest’ultimo
caso, invero, a giustificare l’adozione del provvedimento di revoca è sufficiente il mero rinvio alla misura interdittiva, come si è puntualmente verificato nella presente evenienza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 30 dicembre 2005 n. 7619; T.A.R. Campania Napoli, Sez. I,
amministrativo
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a m m i n i s t r at i v o
4 maggio 2007 n. 4739; T.A.R. Calabria Catanzaro,
Sez. II, 12 febbraio 2007 n. 38).
Infine, non può essere invocata nella fattispecie l’applicabilità della normativa in materia di autotutela,
trattandosi dell’esercizio di un potere regolato da un’apposita disciplina, non riconducibile allo ius poenitendi
della singola amministrazione ma piuttosto alla salvaguardia di preminenti interessi pubblici.
3.3 La ricorrente deduce che le acquisizioni istruttorie a carico dei componenti della compagine sociale
sarebbero smentite dai negativi certificati dei carichi
pendenti e del casellario giudiziale in possesso dei medesimi, con conseguente difetto assoluto di istruttoria.
La doglianza non può essere condivisa.
Il Collegio si limita ad osservare che, a termini
dell’art. 10, comma 7, del d.P.R. n. 252/1998, le informative antimafia possono ben fondarsi su accertamenti
che prescindono dalle notizie di carattere processuale
destinate a confluire nelle certificazioni in parola, e che
danno conto di situazioni di pericolo infiltrativo poste
anche al di sotto del penalmente rilevante, come meglio
sarà precisato in seguito.
3.4 Con altra censura viene essenzialmente stigmatizzata la contraddittorietà fra l’informativa interdittiva
e la favorevole certificazione antimafia rilasciata dalla
Camera di Commercio ai sensi dell’art. 9 del d.P.R.
n. 252/1998.
Anche tale censura non convince.
Parte ricorrente tende erroneamente ad assimilare sul
piano giuridico due fattispecie, certificazione antimafia
della Camera di Commercio (di cui agli artt. 6 e 9 del
d.P.R. n. 252/1998) ed informativa prefettizia (di cui al
successivo art. 10), le quali sono preordinate ad assolvere a funzioni diverse, consistenti rispettivamente
nell’accertamento della sussistenza o meno delle situazioni ostative di cui all’art. 10 della legge 31 maggio
1965 n. 575 (decadenza, sospensione o divieto, determinati dalla definitiva applicazione di misure di prevenzione antimafia, da sentenze penali di condanna o da
altri provvedimenti giudiziari), e nell’acquisizione di
notizie inerenti ai tentativi di infiltrazione mafiosa. Ne
deriva che il certificato camerale munito dell’apposita
dicitura antimafia (al pari delle comunicazioni prefettizie alle quali è assimilato per legge) è idoneo a garantire
l’insussistenza delle sole situazioni ostative contemplate
dall’art. 10 della legge n. 575/1965, ma giammai può
estendere la sua portata fino ad assicurare l’inesistenza
di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa, accertati
mediante ulteriori indagini istruttorie, il cui esito è riportato nell’informativa prefettizia.
Invero, le valutazioni demandate alla competenza
della Prefettura, al fine di verificare l’assenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, involgono profili non coincidenti con quelli posti a base della certificazione came-
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F O R E N S E
rale e possono comportare per la ditta interessata che
l’informativa prefettizia si colori sfavorevolmente anche
a fronte di una favorevole certificazione antimafia. Pertanto, la circostanza che il certificato camerale rechi la
dicitura antimafia, volta ad attestare l’inesistenza delle
situazioni ostative di cui all’art. 10 della legge
n. 575/1965, non può assumere alcun rilievo per inferire l’illogicità o la contraddittorietà della diversa ed autonoma situazione ostativa rappresentata dai tentativi
di infiltrazione mafiosa, descritti nell’informativa prefettizia.
3.5 La ricorrente lamenta, inoltre, che la nota della
Questura di XXX Cat. Q2/ANT/B.N. del 29 gennaio
2007, sulla cui scorta la Prefettura ha inteso avviare gli
accertamenti antimafia – e nella quale, pur riportando
alcune circostanze indizianti, si riferiva che in ordine
alla società interessata non “si rinvengono elementi che
facciano desumere il pericolo di infiltrazioni mafiose,
né risultano notizie relative a soggetti residenti nel territorio dello Stato che possano condizionare le scelte e
indirizzi della stessa” – avrebbe dovuto comportare, in
virtù della non rilevante gravità degli elementi citati a
supporto, l’emissione di un’informativa atipica anziché
di una tipica, dando margine alla stazione appaltante di
compiere “un esame autonomo e discrezionale dei fatti
posti alla base dell’informativa”.
La censura deve essere disattesa.
Il Collegio si limita ad osservare che le valutazioni
dell’autorità di polizia in questione devono essere ragionevolmente intese nel senso dell’insussistenza di evidenti pericoli di infiltrazione mafiosa e della rimessione ai
competenti organi prefettizi della significatività, nell’ambito di un quadro istruttorio più ampio, di indizi comunque non escludenti la possibile permeabilità dell’impresa agli interessi della criminalità organizzata. Invero, il
G.I.A., nella riunione del 7 marzo 2008, ha ritenuto di
poter valorizzare in un’ottica complessiva i vari elementi indizianti forniti dagli organi di polizia, individuando
negli stessi il supporto fattuale per l’emanazione di
un’interdittiva antimafia tipica.
3.6 Con altra articolata censura, la ricorrente denuncia che l’interdittiva impugnata sarebbe minata da vizi
istruttori per errore sui presupposti, oltre ad essere fondata su sospetti e congetture non assistiti da riscontri
fattuali, nonché riferiti in semplici informative di polizia
non seguite dall’attivazione dei conseguenti procedimenti di repressione e controllo, in violazione delle norme
costituzionali e della circolare ministeriale menzionate
in narrativa.
In particolare, si evidenzia in gravame che entrambi
i soggetti ritenuti collegati ai componenti della compagine sociale sono stati prosciolti, con decreti del giudice
penale passati in giudicato, dai procedimenti di prevenzione antimafia intentati a loro carico.
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
Inoltre, quanto ai controlli espletati sull’autovettura
di proprietà del responsabile tecnico, si oppone che
quest’ultimo è cognato di uno dei due affiliati al clan
camorristico e che l’autovettura è stata utilizzata da
tale pericoloso personaggio solo “nell’ambito di un
normalissimo rapporto familiare che non può essere
certo elemento per ritenere infiltrata la società ricorrente, totalmente estranea a tale episodio”; tra l’altro i
controlli sarebbero scarsamente significativi perché effettuati in epoca risalente.
Infine, con riguardo ai dipendenti afflitti dai pregiudizi penali, si rileva a contrario che: a) tale personale
non è impiegato in funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione della società; b) non essendovi una “norma che obbliga una ditta privata a chiedere al proprio lavoratore il certificato dei carichi pendenti o l’estratto del casellario giudiziario” la ricorrente
non avrebbe mai potuto essere informata di tali pendenze; c) l’impiego di personale con precedenti penali non
costituirebbe fattore indicativo di legami con gli ambienti malavitosi e si confarebbe ai principi di solidarietà
sociale espressi nella legge n. 193/2000, tendente a favorire l’attività lavorativa dei detenuti.
La doglianza, come complessivamente elaborata,
non è meritevole di condivisione.
La giurisprudenza che si è occupata della materia (cfr.
per tutte T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 8 novembre
2005 n. 18714) ha avuto modo di sottolineare che i tratti caratterizzanti l’istituto dell’informativa prefettizia, di
cui agli artt. 4 del D.Lgs. n. 490/1994 e 10 del d.P.R.
n. 252/1998, ruotano intorno ai seguenti concetti:
- si tratta di una tipica misura cautelare di polizia,
preventiva e interdittiva, che si aggiunge alle misure
di prevenzione antimafia di natura giurisdizionale e
che prescinde dall’accertamento in sede penale di uno
o più reati connessi all’associazione di tipo mafioso;
non occorre né la prova di fatti di reato, né la prova
dell’effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa, né la
prova del reale condizionamento delle scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti mafiosi;
- è sufficiente il “tentativo di infiltrazione” avente lo
scopo di condizionare le scelte dell’impresa, anche se
tale scopo non si è in concreto realizzato (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 maggio 2005 n. 2796 e 13
ottobre 2003 n. 6187);
- tale scelta è coerente con le caratteristiche fattuali e
sociologiche del fenomeno mafioso, che non necessariamente si concreta in fatti univocamente illeciti,
potendo fermarsi alla soglia dell’intimidazione,
dell’influenza e del condizionamento latente di attività economiche formalmente lecite;
- la formulazione generica, più sociologica che giuridica, del tentativo di infiltrazione mafiosa rilevante
ai fini del diritto comporta l’attribuzione al Prefetto
di un ampio margine di accertamento e di apprezzamento;
2 0 0 9
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- l’ampia discrezionalità di apprezzamento riservata al
Prefetto genera, di conseguenza, che la valutazione
prefettizia è sindacabile in sede giurisdizionale solo
in caso di manifesti vizi di eccesso di potere per illogicità, irragionevolezza e travisamento dei fatti (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 17 maggio 2006 n. 2867
e n. 1979/2003).
Si è ritenuto inoltre, con riguardo alle informative
di cui all’art. 10, comma 7, lettera c), del d.P.R.
n. 252/1998 (tra le quali rientra quella di specie), che,
essendo fondate le medesime su valutazioni discrezionali non ancorate a presupposti tipizzati, i tentativi di
infiltrazione mafiosa possono essere desunti anche da
parametri non predeterminati normativamente; tuttavia, onde evitare il travalicamento in uno “stato di
polizia” e per salvaguardare i principi di legalità e di
certezza del diritto, si è precisato che non possono reputarsi sufficienti fattispecie fondate sul semplice sospetto o su mere congetture prive di riscontro fattuale,
occorrendo l’individuazione di idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente sintomatici e rivelatori di
concrete connessioni o collegamenti con la criminalità
organizzata (cfr. T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. III, 13
gennaio 2006 n. 38; T.A.R. Campania Napoli, Sez. I,
19 gennaio 2004 n. 115).
In particolare, con riferimento agli elementi di fatto
idonei a sorreggere l’impianto probatorio delle informative de quibus, la giurisprudenza ha sottolineato che in
tali ipotesi il Prefetto, anziché limitarsi a riscontrare la
sussistenza di specifici elementi (come avviene per gli
accertamenti eseguiti ai sensi dell’art. 10, comma 7,
lettere a) e b), del d.P.R. n. 252/1998), deve effettuare
la propria valutazione sulla scorta di uno specifico quadro indiziario, ove assumono rilievo preponderante i
fattori induttivi della non manifesta infondatezza che i
comportamenti e le scelte dell’imprenditore possano
rappresentare un veicolo di infiltrazione delle organizzazioni criminali negli appalti delle pubbliche amministrazioni; pertanto, si può ravvisare l’emergenza di
tentativi di infiltrazione mafiosa in fatti in sé e per sé
privi dell’assoluta certezza – quali una condanna non
irrevocabile, l’irrogazione di misure cautelari, collegamenti parentali e/o frequentazioni con soggetti malavitosi, dichiarazioni di pentiti – ma che, nel loro insieme,
siano tali da fondare un giudizio di possibilità che l’attività d’impresa possa, anche in maniera indiretta,
agevolare le attività criminali o esserne in qualche modo
condizionata per la presenza, nei centri decisionali, di
soggetti legati ad organizzazioni mafiose (cfr. Consiglio
di Stato, Sez. VI, 2 agosto 2006 n. 4737; Consiglio di
Stato, Sez. V, 3 ottobre 2005 n. 5247; T.A.R. Lazio
Roma, Sez. II, 9 novembre 2005 n. 10892).
In sintesi, mutuando al riguardo le parole del massimo giudice amministrativo, si può ben affermare che la
norma introduttiva dell’informativa prefettizia “si spiega nella logica di una anticipazione della soglia di dife-
amministrativo
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a m m i n i s t r at i v o
sa sociale ai fini di una tutela avanzata nel campo del
contrasto della criminalità organizzata, in guisa da
prescindere da soglie di rilevanza probatorie tipiche del
diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità
dell’impresa affidataria dei lavori complessivamente
intesa. […] E tanto specie se si pone mente alla circostanza prima rimarcata che le cautele antimafia non
obbediscono a finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, rispetto alla quale sono per legge rilevanti fatti e
vicende anche solo sintomatici ed indiziari, al di là
dell’individuazione di responsabilità penali.” (così Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 2867/2006 cit.).
3.7 Orbene, calando i superiori insegnamenti giurisprudenziali al caso concreto, deve essere sconfessata la
tesi della ricorrente volta ad evidenziare la carenza dei
presupposti giustificativi dell’impugnata informativa
prefettizia ed il connesso errore istruttorio.
Al contrario, le valutazioni della Prefettura di XXX
risultano sorrette da un quadro indiziario sufficientemente preciso e concordante, che non trae forza da
semplici sospetti o congetture ma risulta ben tratteggiato nelle note informative degli organi di polizia, in relazione alle quali si presenta generica e sfornita di ogni
evidenza probatoria la lamentela attorea inerente alla
mancata attivazione dei conseguenti procedimenti di
repressione e controllo.
Nel dettaglio, si presenta correttamente argomentata, da parte dell’autorità prefettizia e di quella di polizia,
la sussistenza degli elementi di fatto da cui sono stati
desunti i tentativi di infiltrazione mafiosa, atteso che nel
caso di specie gli accertamenti condotti sulla ricorrente,
pur non facendo palesare situazioni di effettiva e conclamata infiltrazione mafiosa, hanno dato conto della
presenza di circostanze poste alla soglia, giuridicamente rilevante, dell’intimidazione, dell’influenza e del
condizionamento latente dell’attività d’impresa da parte
delle organizzazioni criminali.
È innegabile, infatti, che sull’autovettura di proprietà del responsabile tecnico della società siano stati più
volte controllati, nel corso del 2004, due pregiudicati
affiliati alla criminalità organizzata e che tale autovettura fosse (anche) nella disponibilità di uno di tali soggetti, cognato dello stesso responsabile tecnico.
Tale circostanza assurge ad indice della frequentazione, anche minima, esistente tra il referente dell’impresa ed il malavitoso, cementata, come riconosce la
medesima ricorrente, dalla coltivazione del rapporto
familiare. La frequentazione giustificata dal rapporto di
parentela (o affinità) non attenua il rischio di infiltrazioni mafiose, ma semmai lo consolida, potendo essere
tratto dagli orientamenti della giurisprudenza il principio che se è vero che il rapporto di parentela non costituisce in sé indizio sufficiente del tentativo di infiltrazione mafiosa, è altrettanto vero che tale tentativo deve
ritenersi sussistente quando al dato dell’appartenenza
Gazzetta
F O R E N S E
familiare si accompagni la frequentazione, la convivenza o la comunanza di interessi con il malavitoso, tali da
palesare, pertanto, la contiguità con gli ambienti della
criminalità (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 29 febbraio
2008 n. 756, 27 giugno 2007 n. 3707 e 2 maggio 2007
n. 1916).
Inoltre, la rilevanza, all’interno dell’organizzazione
aziendale, della figura del responsabile tecnico implica
che il pericolo infiltrativo non possa non trasmettersi
all’impresa nel suo complesso.
Si aggiunge che l’attualità degli elementi indizianti,
da cui trarre la sussistenza dei tentativi di infiltrazione
mafiosa, permane fino all’intervento di fatti nuovi, ulteriori rispetto ad una precedente valutazione di presenza di tentativi siffatti, che evidenzino il venir meno
della situazione di pericolo; in altri termini, il rischio di
inquinamento mafioso si può considerare superato non
tanto e non solo per il trascorrere di un considerevole
lasso di tempo dall’ultima verifica effettuata senza che
sia emersa alcuna evenienza negativa, quanto anche per
il sopraggiungere di fatti positivi, idonei a dar conto di
un nuovo e consolidato operare dei soggetti a cui è stato ricollegato il pericolo, che persuasivamente e fattivamente dimostri l’inattendibilità della situazione rilevata
in precedenza (orientamento ormai diffuso in giurisprudenza: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. V, 12 giugno
2007 n. 3126 e 28 febbraio 2006 n. 851).
Il predetto criterio subisce un temperamento solo nel
caso in cui gli elementi di fatto, raccolti dalle forze di
polizia, siano talmente risalenti nel tempo da non poter
essere più considerati intrinsecamente idonei a supportare il giudizio di pericolo, anche per effetto di sopravvenienze quali la cessazione dell’attività imprenditoriale o l’esaurimento di determinati fenomeni organizzativi criminali (cfr. T.A.R. Campania Napoli, Sez. I, 18
maggio 2005 n. 6504). Orbene, nel caso di specie, persiste l’attualità degli elementi individuati a carico della
ricorrente non solo perché non sono emersi eventi nuovi
di segno contrario, valutabili da parte dell’autorità prefettizia, ma anche perché i fatti da cui sono stati desunti i tentativi di infiltrazione mafiosa si collocano in un
periodo temporale non remoto (circa 5 anni addietro),
in relazione ad un’organizzazione criminale che ha
mantenuto intatta la sua forza intimidatrice.
3.8 Né sono trascurabili, al riguardo, i pregiudizi di
polizia imputati ai dipendenti della società.
Si osserva, innanzitutto, che l’estraneità alle cariche
sociali dei predetti non costituisce congruo elemento per
escludere una possibile influenza delle associazioni mafiose nella gestione aziendale, dal momento che il condizionamento delle scelte imprenditoriali può avvenire
indipendentemente dall’acquisizione di ruoli di responsabilità.
In secondo luogo, il pericolo di infiltrazioni mafiose
assume connotazione oggettiva e prescinde dall’eventua-
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
le consapevolezza, in capo agli organi datoriali, dei
singoli indizi gravanti sui dipendenti.
Infine, nel caso specifico, il numero dei lavoratori
pregiudicati (due su tre) e la tipologia dei reati contestati non possono non assurgere ad ulteriori indici della
permeabilità della società alle influenze della malavita
organizzata. Infatti, è vero che le ipotesi di reato ascritte ai dipendenti non sono formalmente connesse con il
fenomeno associativo di stampo mafioso, ma è pur vero
che le stesse, per la loro pericolosità sociale (si tratta
nella specie di rapina, porto abusivo e detenzione di
armi, violazione della legge sugli stupefacenti) acquistano comunque significatività in relazione al contesto
territoriale di riferimento, nel quale la criminalità organizzata rappresenta l’approdo finale delle carriere delinquenziali ed il collettore ultimo dei proventi illeciti.
Né sono invocabili, allo scopo di giustificare l’impiego di personale con pregiudizi, i principi contenuti nella
legge n. 193/2000, che è testo normativo che si riferisce
specificamente all’inserimento lavorativo della diversa
categoria delle “persone detenute o internate negli istituti penitenziari” e che, comunque, non inibisce la
portata indiziante di alcuni precedenti penali ai fini
delle cautele antimafia in tema di appalti pubblici.
3.9 Le considerazioni sopra svolte rivestono ruolo
assorbente nell’individuazione del pericolo di infiltrazioni mafiose e rendono ininfluenti le contestazioni attoree volte a sminuire la rilevanza indiziante delle rimanenti circostanze addotte dagli organi di polizia (sottoposizione a procedimenti di prevenzione antimafia di
due soggetti ritenuti in collegamento con i soci). Infatti,
pur essendo intervenuti i relativi provvedimenti giurisdizionali di proscioglimento, soccorre in merito il
fondamentale principio giurisprudenziale secondo il
quale, quando un provvedimento sia fondato su una
pluralità di ragioni, tutte egualmente idonee a sorreggerne la parte dispositiva, l’eventuale illegittimità di uno
dei motivi presi in considerazione dall’amministrazione
non è sufficiente ad inficiare il provvedimento stesso
(cfr. ex multis Consiglio di Stato, Sez. V, 27 settembre
2004 n. 6301).
3.10 Parte ricorrente chiude il corredo delle doglianze formulate con un’ultima censura, articolata nella
memoria conclusiva depositata il 21 gennaio 2009, con
la quale prospetta, in relazione alla posizione dei dipendenti colpiti da pregiudizi, un presunto contrasto con le
informazioni contenute nelle certificazioni del casellario
giudiziale e dei carichi pendenti.
La censura è inammissibile poiché è contenuta in
atto difensivo non notificato alle controparti, in dispregio delle regole del contraddittorio.
4. In conclusione, resistendo i provvedimenti impugnati a tutte le censure prospettate, il ricorso, come in-
2 0 0 9
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tegrato dai motivi aggiunti, deve essere respinto per
infondatezza.
Sussistono giusti motivi, attesa la delicatezza delle
questioni trattate, per compensare integralmente tra le
parti le spese e gli onorari di giudizio.
[…Omissis…].
••• Nota a sentenza
Sommario: Premessa – 1. I fatti che hanno dato
origine alla controversia in esame – 2. Le statuizioni
del T.A.R. – Considerazioni conclusive.
Premessa
Il T.A.R. Campania – Napoli, I Sezione, con la sentenza n. 5058/2009, chiamata a giudicare della legittimità degli atti di risoluzione di un contratto per effetto
di una informativa antimafia adottata dalla competente Prefettura nei riguardi di una società affidataria di
lavori pubblici, ha, fra l’altro, stabilito:
a) che, in presenza di un protocollo di intesa che
preveda una norma ad hoc, le pubbliche amministrazioni devono procedere alla richiesta di informative
antimafia anche nel caso di appalti di valore inferiore
alla soglia comunitaria;
b) che, in materia di risoluzione del contratto conseguente a informativa antimafia interdittiva, l’onere
motivazionale è soddisfatto mediante il mero richiamo
alla informativa stessa, non essendo al riguardo necessaria l’allegazione del provvedimento prefettizio;
c) che, in caso di informative antimafia interdittive,
è necessario un ampio obbligo motivazionale soltanto
nel caso in cui la pubblica amministrazione ritenga di
non aderire alla portata inibitoria della informativa
prefettizia;
d) che, nel caso di specie, l’informativa interdittiva
adottata dalla competente Prefettura era legittima non
esponendosi a nessuna delle censure formulate dalla
società ricorrente.
1. I fatti che hanno dato origine alla controversia in esame
Una società affidataria di alcuni lavori di riqualificazione ambientale (peraltro, di valore inferiore alla
soglia comunitaria), essendo stata destinataria di una
informativa interdittiva della Prefettura territorialmente competente, diveniva destinataria, previa osservanza
delle formalità procedimentali previste dall’art. 7 della
legge 241/1990, di un provvedimento di risoluzione del
contratto di appalto.
Tale provvedimento (adottato, ovviamente, dalla
stazione appaltante) veniva impugnato dalla suddetta
società dinanzi al T.A.R. Campania – Napoli unitamente alla informativa antimafia interdittiva adottata dal
competente Ufficio Territoriale di Governo (U.T.G.).
Il ricorso al T.A.R. mirava, da un lato, ad ottenere
amministrativo
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la declaratoria di inapplicabilità agli appalti c.d. sotto
soglia delle norme in tema di informative antimafia,
dall’altro lato, a censurare il provvedimento di risoluzione del contratto nella parte in cui aveva omesso di
allegare il provvedimento prefettizio e, dall’altro lato,
infine, a denunciare la illegittimità della informativa
adottata dal competente U.T.G.
2. Le statuizioni del T.A.R.
Il T.A.R. Campania – Napoli, con la sentenza in
esame, rigettava il ricorso, ritenendo che nessuna delle
censure formulate dalla società ricorrente fosse meritevole di positiva valutazione.
In particolare, in merito alla prima questione posta
(ovvero quella della applicabilità della normativa antimafia anche nel caso di appalti c.d. sotto soglia), i giudici napoletani hanno “liquidato” la questione, osservando che la stazione appaltante aveva stipulato con la
competente Prefettura un protocollo di intesa che
espressamente estendeva i “controlli antimafia” anche
agli appalti “sotto soglia”.
Ebbene, ad avviso del T.A.R., non essendo tale accordo (adottato ai sensi dell’art. 15 della legge 241/1990)
stato oggetto di specifica impugnativa da parte della
società ricorrente, la doglianza formulata era da ritenersi priva di pregio.
Sul punto, la sentenza, ad avviso dello scrivente, è
condivisibile, dando applicazione a un recente precedente giurisprudenziale del Consiglio di Stato che, analizzando una fattispecie non del tutto identica alla presente, aveva avuto modo di affermare che l’art. 10 (del
d.P.R. 252/1998) “non pone un divieto assoluto di richiedere informazioni per gli appalti sottosoglia comunitaria” (Sez. VI, 29 gennaio 2008, n. 240).
Il Consiglio di Stato, in quell’occasione, in particolare, era stato chiamato a pronunciarsi sulla legittimità
di una clausola di un bando di gara che prevedeva,
nonostante si fosse in presenza di un appalto sotto soglia, l’obbligo della stazione appaltante di acquisire, ai
fini della stipula del contratto, l’informativa antimafia.
Ebbene, i giudici di Palazzo Spada, esaminando tale
clausola del bando, pervennero alla conclusione che
essa fosse legittima proprio in considerazione del fatto
che la previsione dell’art. 10 sopra richiamato non era
vincolante e tassativa e, dunque, non poteva precludere
alla stazione appaltante la possibilità di estendere i
controlli antimafia anche agli appalti sottosoglia comunitaria.
Se, dunque, il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima
la clausola del bando che estende anche agli appalti
sottosoglia i controlli antimafia, è evidente, come osservato dal T.A.R. Campania – Napoli con la sentenza
in esame, la correttezza dell’azione amministrativa posta in essere dalla stazione appaltante che, nel momento in cui ha ricevuto la informativa antimafia interdittiva, ha immediatamente proceduto alla risoluzione del
Gazzetta
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contratto di appalto senza compiere alcuna ulteriore
valutazione in merito alle ragioni di pubblico interesse
che giustificavano la interruzione del rapporto contrattuale.
Difatti, se i giudici di Palazzo Spada hanno ritenuto
che le stazioni appaltanti possono legittimamente prevedere (nell’esercizio di un potere ampiamente discrezionale) l’estensione dei controlli antimafia anche agli
appalti sottosoglia comunitaria, è del tutto evidente che
la stipula di un protocollo di intesa (avente valore di
accordo ex art. 15 della legge 241/1990) con la competente Prefettura che espressamente prevedeva tale estensione, imponeva alla stazione appaltante di eseguire i
controlli de quibus e, dunque, in presenza di informativa interdittiva procedere alla risoluzione del contratto
di appalto.
Al riguardo, andando anche oltre rispetto a quanto
statuito dal T.A.R. (il quale, si ripete, si è limitato a
rilevare l’omessa impugnazione della norma del protocollo di intesa che estendeva la verifica in questione
anche ad appalti di valore inferiore alla soglia comunitaria), potrebbe ritenersi che, laddove l’accordo de quo
fosse stato in parte qua impugnato, la stazione appaltante abbia legittimamente esercitato i poteri di controllo previsti dalla normativa antimafia.
In secondo luogo, il T.A.R., non condividendo la
censura formulata dalla società ricorrente, ha escluso
che si potesse configurare un difetto motivazionale in
ragione del fatto che al provvedimento impugnato non
era allegata l’informativa antimafia, essendosi la stazione appaltante semplicemente limitata a riportare i dati
di riferimento della stessa.
Sul punto, in particolare, i giudici napoletani hanno
osservato – aderendo a un principio oramai pressoché
consolidato (si veda, sul punto, Cons. Stato, Sez. VI, 4
maggio 2009, n. 2773) – che “nel caso di provvedimento motivato per relationem, non occorre necessariamente che l’atto richiamato dalla motivazione debba
essere portato nella sfera di conoscibilità legale del
destinatario, essendo invece sufficiente che siano
espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell’atto richiamato, dovendo essere l’atto stesso messo a
disposizione ed esibito ad istanza di parte”.
In terzo luogo, il T.A.R. non ha condiviso la censura formulata dalla società ricorrente laddove mirava a
denunciare un presunto difetto motivazionale, consistente nell’insufficiente richiamo alla informativa antimafia anche in considerazione della omessa valutazione
dell’interesse pubblico sotteso alla statuizione di risoluzione contrattuale.
Il collegio napoletano ha, infatti, ancora una volta
ribadito che “in presenza di informative tipiche, le determinazioni amministrative in ordine alla rescissione
dei contratti d’appalto in corso assumono di regola
carattere vincolato, non potendo l’ordinamento tollerare, per evidenti ragioni di ordine pubblico e di tutela
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dell’Amministrazione dai condizionamenti della criminalità organizzata, la sopravvivenza di rapporti contrattuali con imprese interessate da tentativi di infiltrazione mafiosa. L’unico margine di discrezionalità della
stazione appaltante rimane circoscritto alla valutazione
di opportunità, per l’interesse pubblico, che prosegua il
rapporto contrattuale già instaurato, allorché tale rapporto perduri da un cospicuo lasso di tempo e sussistano concrete e stringenti ragioni che rendano del tutto
sconveniente per l’amministrazione l’interruzione della
fornitura, del servizio o dei lavori oggetto del contratto
revocando; pertanto, la motivazione dovrà essere ampia
e dettagliata quando l’Amministrazione ritenga (eccezionalmente) di valorizzare tali circostanze, ma non
quando intenda aderire alla portata inibitoria dell’informativa prefettizia. In quest’ultimo caso, invero, a
giustificare l’adozione del provvedimento di revoca è
sufficiente il mero rinvio alla misura interdittiva”.
Il T.A.R., in sostanza, in maniera ancora una volta
del tutto condivisibile e in linea con l’evoluzione giurisprudenziale formatasi sul tema, ha ritenuto che nel
caso di informative antimafia interdittive in tanto è richiesta una rigorosa motivazione soltanto nel caso in
cui la stazione appaltante ritenga che sussistano condizioni (eventualmente anche di interesse pubblico, in
ragione, fra l’altro, del tempo trascorso dalla stipula del
contratto) per non procedere alla risoluzione del contatto. Per intenderci, dunque, le p.a., in presenza di informative interdittive, devono con un atto tipicamente
vincolato procedere alla risoluzione del contratto senza
dovere adottare motivazioni articolate. Un obbligo motivazionale (che non può, dunque, limitarsi al mero richiamo alla informativa antimafia, sufficiente, si ripete,
in caso di scioglimento del vincolo contrattuale) sussiste, infatti, soltanto nel caso in cui vengano ravvisate
ragioni di pubblico interesse che giustifichino la prosecuzione del rapporto contrattuale.
Il T.A.R., infine, nel rigettare i restanti motivi di
ricorso (attinenti, per così dire, al “merito” delle questioni sollevate dalla società ricorrente), ha ritenuto che
l’informativa antimafia adottata dalla locale prefettura
non poteva essere smentita né dai negativi certificati dei
carichi pendenti e del casellario giudiziale esibiti dalla
società ricorrente in giudizio (e dai quali emergeva la
assenza di condanne e/o procedimenti penali per i fatti
contestati dal competente U.T.G.), da un lato, né dalla
dichiarazione (di assenza di controindicazioni antimafia) contenuta in calce al certificato camerale della
stessa società destinataria della informativa interdittiva
della Prefettura.
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, il T.A.R.
ha escluso che si potesse rilevare una contraddittorietà
della informativa antimafia interdittiva (in relazione,
cioè, alle risultanze del certificato camerale) in considerazione del fatto che “le valutazioni demandate alla
competenza della Prefettura, al fine di verificare l’as-
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senza di tentativi di infiltrazione mafiosa, involgono
profili non coincidenti con quelli posti a base della
certificazione camerale e possono comportare per la
ditta interessata che l’informativa prefettizia si colori
sfavorevolmente anche a fronte di una favorevole certificazione antimafia. Pertanto, la circostanza che il
certificato camerale rechi la dicitura antimafia, volta
ad attestare l’inesistenza delle situazioni ostative di cui
all’art. 10 della legge n. 575/1965, non può assumere
alcun rilievo per inferire l’illogicità o la contraddittorietà della diversa ed autonoma situazione ostativa
rappresentata dai tentativi di infiltrazione mafiosa,
descritti nell’informativa prefettizia”.
Riguardo, invece, alla prima questione (cioè quella
del rapporto fra certificati penali e informative antimafia) il T.A.R. ha posto la propria decisione (negativa per
la società ricorrente) sulla circostanza che la norma
introduttiva dell’informativa prefettizia “si spiega nella
logica di una anticipazione della soglia di difesa sociale
ai fini di una tutela avanzata nel campo del contrasto
della criminalità organizzata, in guisa da prescindere
da soglie di rilevanza probatorie tipiche del diritto penale, per cercare di cogliere l’affidabilità dell’impresa
affidataria dei lavori complessivamente intesa. […] E
tanto specie se si pone mente alla circostanza prima
rimarcata che le cautele antimafia non obbediscono a
finalità di accertamento di responsabilità, bensì di massima anticipazione dell’azione di prevenzione, rispetto
alla quale sono per legge rilevanti fatti e vicende anche
solo sintomatici ed indiziari, al di là dell’individuazione
di responsabilità penali.” (così Cons. Stato, Sez. VI,
sent. n. 2867/2006, cit.).
In sostanza, secondo il T.A.R. (e sul punto i precedenti richiamati nella sentenza in esame, anche del
Consiglio di Stato, sono chiarissimi) la mancanza di una
condanna penale non vale ad escludere la legittimità di
una informativa antimafia, atteso che, ai fini della sua
adozione, non occorre né la prova del reato né tanto
meno quella della effettiva infiltrazione mafiosa nell’impresa né ancora quella del reale condizionamento delle
scelte dell’impresa da parte di associazioni o soggetti
mafiosi.
La Prefettura, quindi, in base a tali principi, potrà
adottare una informativa antimafia interdittiva – anche
eventualmente anticipando quelli che potrebbero essere
gli scenari di un eventuale successivo giudizio penale – anche in presenza di un quadro indiziario preciso e
concordante che dia prova del pericolo di condizionamento mafioso nella gestione amministrativa della società.
Ovviamente, tale potere (anche al fine di evitare che
si sconfini nella creazione e legittimazione di uno “Stato di Polizia”), sebbene particolarmente ampio, proprio
in virtù di quanto sopra evidenziato, in nome dei principi di legalità e di certezza del diritto, non potrà essere
mai fondato su semplici sospetti o mere congiunture,
amministrativo
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dovendo essere sorretto, come specificamente segnalato
dal T.A.R. Campania – Napoli con la sentenza in esame,
da “idonei e specifici elementi di fatto, obiettivamente
sintomatici e rilevatori di concrete connessioni o collegamenti con la crimaniltà organizzata”.
Considerazioni conclusive
La pronuncia del T.A.R. Campania – Napoli, dunque, pur affrontando questioni molto interessanti (anche in ordine all’ambito di applicazione dei controlli
antimafia che possono essere esercitati dalle stazioni
appaltanti), si pone sostanzialmente in linea con la rigorosa evoluzione giurisprudenziale formatasi (peraltro,
soprattutto “grazie” al collegio napoletano) sul tema
delle informative antimafia interdittive e sui poteri di
risoluzione del contratto che possono essere esercitati
dalle stazioni appaltanti.
In definitiva, viene ancora una volta ribadito il po-
Gazzetta
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tere (del tutto vincolato) delle stazioni appaltanti, anche
nel caso di appalti sottosoglia, di procedere alla automatica risoluzione del contratto in presenza di informative antimafia interdittive. Ovviamente, poi, escluso che
sia sindacabile la scelta della stazione appaltante di interrompere il rapporto contrattuale in presenza di informative antimafia interdittive, la verifica di legittimità
demandata ai giudici amministrativi si sposta completamente sul provvedimento prefettizio; provvedimento
che, come si va sempre più spesso ad affermare in giurisprudenza, gode di una discrezionalità sempre più
ampia, i cui limiti sono semplicemente costituiti dalla
osservanza dei principi di legalità e di certezza del diritto. Solo la violazione di tali principi, in conclusione,
rende illegittime le determinazioni della competente
prefettura e, di conseguenze, quelle delle stazioni appaltanti che determinano la interruzione del rapporto
contrattuale.
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●
Rassegna di giurisprudenza
sul Codice dei contratti
pubblici di lavori, servizi
e forniture
(D.Lgs. 12 Aprile 2006,
n. 163 e ss. mm.)
● A cura di Almerina Bove
Dottore di ricerca e Avvocato presso l’Avvocatura
Regionale della Campania
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ANNULLAMENTO DELL’AGGIUDICAZIONE ED EFFETTI SUL
CONTRATTO IN CORSO CON L’AGGIUDICATARIA
Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n.7387
(Codice dei contratti, artt. 244 e 245)
Ove l’aggiudicazione venga annullata su ricorso del
secondo classificato in quanto frutto della erronea applicazione della legge di gara, all’annullamento si aggiunge
l’affermazione della responsabilità della pubblica amministrazione. Ove il contratto, peraltro, sia già stato stipulato e ne sia iniziata l’esecuzione, in sede di giudizio
relativo all’aggiudicazione non è consentito caducare il
contratto (secondo l’insegnamento della Plenaria e delle
Sezioni Unite), dovendosi piuttosto riconoscere il risarcimento del danno per equivalente nella misura del
mancato utile per la parte di appalto già eseguita fino
alla data di comunicazione o, se anteriore, notificazione
della decisione di annullamento.
Il mancato utile è quello effettivo quale si desume
dall’offerta presentata in gara.
In capo all’Amministrazione deriva, inoltre, l’obbligo
di adottare, in esecuzione della pronuncia di annullamento, i pertinenti provvedimenti in ordine al contratto
in corso, al fine dell’aggiudicazione dell’appalto alla ricorrente e del suo subentro nel rapporto contrattuale, nel
rispetto delle condizioni della originaria gara e dell’offerta ivi formulata dalla stessa.
CALCOLO DELLA SOGLIA DI ANOMALIA DELLE OFFERTE – INAMMISSIBILITà DI ARROTONDAMENTI, IN ASSENZA DI
ESPRESSA PREVISIONE IN TAL SENSO NELLA LEX SPECIALIS
(Codice dei contratti, art.86)
Consiglio di Stato, sez. V, 12 novembre 2009, n.7042
Laddove la lex specialis si limiti a prescrivere l’indicazione dei ribassi delle offerte sino alla terza cifra decimale, senza formulare regole speciali afferenti alla determinazione della soglia di anomalia, l’arrotondamento previsto per i ribassi delle offerte non può trovare applicazione nei calcoli successivi per la determinazione della
soglia di anomalia. Ciò in quanto, da un lato, la formulazione delle offerte e il calcolo della soglia di anomalia
costituiscono fasi ontologicamente e teleologicamente
diverse, tra le quali è non dato intravedere alcun rigido
collegamento; dall’altro, l’arrotondamento dei ribassi
offerti ha il solo scopo di assicurare la loro omogeneità
(che può risultare più comoda, ancorché non necessaria,
atteso che si possono confrontare anche valori dotati di
un numero diverso di decimali), mentre ben diversa è la
realtà dei calcoli successivi, che contengono quozienti e
che quindi possono comportare un numero di decimali
anche elevato, con la conseguenza che l’introduzione
dell’arrotondamento rischierebbe di falsarne il risultato.
Poiché nella delicata fase di individuazione dell’offerta più bassa e di esclusione delle offerte ricadenti automaticamente oltre la soglia di anomalia ogni arrotondamento costituisce una deviazione dalle regole matematiche da applicare in via automatica, deve ritenersi che gli
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arrotondamenti siano consentiti solo se espressamente
previsti dalle norme speciali della gara.
CAUZIONE PROVVISORIA – RICHIESTA DI SVINCOLO – COSTITUISCE COMPORTAMENTO INCOMPATIBILE CON LA VOLONTà DI CONSEGUIRE L’AGGIUDICAZIONE E DETERMINA, PERTANTO, LA INAMMISSIBILITà DEL RICORSO AVVERSO L’AGGIUDICAZIONE AD ALTRA PARTECIPANTE
Consiglio di Stato, sez. V, 12 novembre 2009, n. 7055
(Codice dei contratti, artt.75; 245)
La richiesta, senza alcuna riserva, dello svincolo della
cauzione provvisoria costituisce comportamento volto a
riacquistare la disponibilità delle somme destinate a garantire la serietà dell’offerta del ricorrente e si pone, pertanto, in contrasto, per facta concludentia, con la volontà
di conseguire l’aggiudicazione definitiva del servizio.
Ne deriva che il partecipante alla gara che abbia
chiesto lo svincolo della cauzione è carente di interesse
a ricorrere avverso l’aggiudicazione.
COMMISSIONE DI GARA – NATURA E LIMITI, SOSTANZIALI E
TEMPORALI, DELLE FUNZIONI
Consiglio di Stato, sez. V, 12 novembre 2009, n.7042
(Codice dei contratti, art.11)
La commissione di gara è un organo straordinario e
temporaneo dell’amministrazione aggiudicatrice (C.d.S.,
sez. IV, 4 febbraio 2003, n. 560; C.G.A., 6 settembre
2000, n. 413; e non già una figura organizzativa autonoma e distinta rispetto ad essa, C.d.S., sez. V, 14 aprile 1997, n. 358), la cui attività acquisisce rilevanza
esterna solo in quanto recepita e approvata dagli organi
competenti della predetta amministrazione appaltante.
Essa svolge, invero, compiti di natura essenzialmente tecnica, con funzione preparatoria e servente, rispetto all’amministrazione appaltante, essendo investita
della specifica funzione di esame e valutazione delle
offerte formulate dai concorrenti, finalizzata alla individuazione del miglior contraente possibile, attività che
si concreta nella c.d. aggiudicazione provvisoria.
La funzione di detta commissione si esaurisce soltanto con l’approvazione del suo operato da parte degli
organi competenti dell’amministrazione appaltante e,
cioè, con il provvedimento di c.d. aggiudicazione definitiva: nel periodo intercorrente tra tali atti non può
fondatamente negarsi il potere della stessa commissione
di riesaminare nell’esercizio del potere di autotutela il
procedimento di gara già espletato, anche riaprendo il
procedimento di gara per emendarlo da errori commessi e da illegittimità verificatesi, anche in relazione
all’eventuale illegittima ammissione o esclusione dalla
gara di un’impresa concorrente.
Tale potere di riesame può essere esercitato anche
indirettamente, informando cioè del dubbio di legittimità del proprio stesso operato il competente organo
dell’amministrazione appaltante investito del potere di
approvazione degli atti di gara ed invitandolo, pertanto,
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a sospendere il procedimento finalizzato all’aggiudicazione definitivo e a rimettere gli atti alla stessa commissione di gara per il riesame delle questioni dubbie.
ENTI SENZA SCOPO DI LUCRO – POSSONO PARTECIPARE
ALLA GARA, OVE SVOLGANO ATTIVITà ECONOMICA
Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n.7387
(Codice dei contratti, art. 34)
L’art. 34, D.Lgs. n. 163/2006 va interpretato in chiave comunitariamente compatibile, tenendo presente che
secondo il diritto comunitario il fine di lucro non è essenziale per la definizione di un soggetto come operatore economico. Conformemente a quanto espresso dalla
Corte di Giustizia CE (C. giust. CE, sez. III, 29 novembre 2007 C- 119/06) ed alle pronunce di questo Consesso (C.d.S., sez. VI, 16 giugno 2009 n. 3897; C.d.S.,
sez. VI, 30 giugno 2009 n. 4236), deve ritenersi che
l’assenza di fini di lucro non esclude che l’ente eserciti
un’attività economica e costituisca impresa ai sensi delle disposizioni del trattato relative alla concorrenza, in
guisa che può partecipare alla gare pubbliche.
GIUDIZIO IMMEDIATO IN ESITO ALL’UDIENZA CAUTELARE – 1. NATURA, PRESUPPOSTI E REGIME DELL’EVENTUALE
APPELLO – 2. L’ERRORE DEL GIUDICE DI PRIME CURE IN ORDINE AI PRESUPPOSTI NON DETERMINA L’ANNULLAMENTO
CON RINVIO
Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n. 7387
(Codice dei contratti, artt. 244, 245)
1. Tra le due diverse possibili soluzioni esegetiche,
quella secondo cui i presupposti del giudizio immediato
in esito all’udienza cautelare (art. 21, l. Tar) coincidono
esattamente con quelli previsti per il giudizio immediato in generale (situazione manifesta, ai sensi dell’art. 26,
l. Tar), e la tesi secondo cui il giudizio immediato in
esito all’udienza cautelare può aversi anche in presenza
di situazioni non manifeste, merita condivisione la seconda. La definizione immediata della lite nel merito in
esito all’udienza cautelare non è, invero, ancorata alla
“semplicità” delle questioni, trattandosi invece di facoltà che il giudice può sempre esercitare, anche a fronte di
liti complesse, purché contraddittorio e istruttoria siano
completi; trattasi dunque di istituto di carattere generale, che risponde al principio di economia processuale e
ragionevole durata del processo. Il rinvio operato
dall’art. 21, l. Tar, all’art. 26, della medesima legge non
va, dunque, inteso come rinvio al presupposto della
“situazione manifesta”, ma come rinvio alla disciplina
della forma della decisione. La “forma semplificata”- la
quale attiene alla veste esteriore della sentenza, non al
suo contenuto, e non implica sconti sul piano della completezza dell’esame degli atti di causa e dell’esaustività
della motivazione sui punti essenziali – può essere considerata un istituto generale del processo amministrativo e del processo in generale, risalente addirittura al r.d.
n. 642/1907 (a tenore del quale, art. 65, la sentenza
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reca “una succinta esposizione dei motivi di fatto e di
diritto”) e ormai espressamente codificato anche nel
processo civile (art. 118, co. 1, disp. att. c.p.c., come
novellato dalla l. n. 69/2009: “la motivazione della sentenza consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi”).
Essa non è, pertanto, ontologicamente differente dalla doverosa sinteticità a cui il giudice è tenuto in qualsiasi provvedimento giurisdizionale, non diversamente dalla
doverosa sinteticità a cui sono tenuti anche tutti gli scritti di parte, e tanto in ossequio ai più generali principi di
economia processuale, lealtà, esigenza di celere svolgimento dei giudizi con omissione di atti e attività inutili.
Anche ove, in via di mera ipotesi, si aderisse alla tesi
secondo cui il giudizio immediato in esito all’udienza
cautelare presuppone una situazione manifesta, è comunque assorbente la considerazione, già fatta dalla giurisprudenza di questo Consesso, che, poiché nel disegno
della legge l’iniziativa della definizione immediata appartiene esclusivamente al giudice – tanto che può decidere
in mancanza della costituzione delle parti ed anche contro la loro volontà – la sua scelta deve intendersi quale
espressione di una valutazione di opportunità insindacabile in appello, fermo il limite del rispetto del principio
del contraddittorio (C.d.S., sez. V, 11 luglio 2008
n. 3480; C.d.S., sez. V, 13 febbraio 2009 n. 824).
2. Sicché, ove il giudice definisca il giudizio in via
immediata in mancanza del presupposto della c.d. “situazione manifesta”, tale mancanza, dedotta come motivo di appello, non comporta la regressione del giudizio
in prime cure, ostandovi il disposto dell’art. 35, l. Tar
che individua una serie tassativa di cause di annullamento con rinvio, fra le quali non è contemplata quella in
esame. In particolare, deve escludersi che ricorra l’ipotesi del vizio di procedura o di forma della sentenza impugnata; al più, infatti, l’erronea percezione del presupposto
della “situazione manifesta” può assimilarsi ad un error
in iudicando che, come tale, impone al Consiglio di
Stato di trattenere la causa per la decisione ex art. 35, co.
3, l. Tar (C.d.S., sez. V, 11 luglio 2008 n. 3480).
REQUISITI DI ORDINE GENERALE – 1. INDIVIDUAZIONE DEI
SOGGETTI TENUTI ALLE RELATIVE DICHIARAZIONI – 2. INDIVIDUAZIONE DELLE MODALITà SOSTITUTIVE DI DICHIARAZIONE
Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n. 7380
(Codice dei contratti, art38)
1. Sulla portata e sulla “causale” dell’art. 38 del
D.Lgs. n. 163/2006 appare al Collegio pienamente condivisibile il più recente approdo rappresentato dalla
decisione n. 523/2007, improntato ad una interpretazione (non già inammissibilmente estensiva ma) sostanzialistica della disposizione in oggetto, secondo cui destinatari del precetto normativo sono non soltanto gli
amministratori ma tutti coloro che, titolari del potere
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di rappresentanza della persona giuridica, sono comunque in grado di trasmettere, con il proprio comportamento, la riprovazione dell’ordinamento nei riguardi
della loro personale condotta, al soggetto rappresentato” (C.d.S., sez. V, 15 gennaio 2008, n. 36).
2. La giurisprudenza amministrativa ha in passato
affermato il principio per cui “è ammissibile, in sede di
gara pubblica, sostituire il certificato del casellario giudiziale con una dichiarazione resa ai sensi dell’art. 2
d.P.R. 20 ottobre 1998 n. 403, che può riguardare anche
soggetti diversi dal dichiarante, purché si abbia conoscenza diretta del relativo stato; la sottoscrizione della dichiarazione non deve essere autenticata ma è sufficiente che
sia resa innanzi al responsabile del procedimento oppure
accompagnata dalla copia informale di un documento di
identità del sottoscrittore” (C.d.S., sez. V, 02 luglio 2001,
n. 3602, principio confermato dalla Sesta Sezione del
Consiglio di Stato con la decisione n. 7473/2003).
Da un canto, però, tale “surroga” deve attenere a
fatti e circostanze dei quali il dichiarante abbia diretta
conoscenza e, sotto altro profilo, la giurisprudenza di
merito successiva tende a limitare tale applicazione alle
pubbliche gare del precetto di cui ai commi 1 e 2
dell’art. 47 del D.P.R. n. 445/2000 alle ipotesi in cui il
legale rappresentante dell’impresa non possa altrimenti
produrre una autodichiarazione proveniente dal soggetto cui i fatti asseverati si riferiscono, perché questi non
vuole o non può renderla (si veda sul punto la decisione
del T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV, 04 novembre 2005,
n. 1995 riguardante la posizione di un soggetto cessato
dalla carica, laddove si è evidenziato che le dichiarazioni sono da ques’ultimo rese non nel proprio interesse,
bensì nell’interesse dell’Impresa concorrente – che in
mancanza di esse dev’essere esclusa, dal momento che
la normativa che le prevede è di ordine pubblico – facendone discendere che, per evitare l’esclusione, il legale
rappresentante dell’Impresa interessata abbia l’onere di
rendere le dichiarazioni in questione in sua vece).
REQUISITI DI PARTECIPAZIONE ALLA GARA IN RELAZIONE
ALL’OGGETTO DELL’APPALTO ED AL CD. VOCABOLARIO COMUNE DEGLI APPALTI.
Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n.7387
(Codice dei contratti, artt. 34; 64, co. 4; allegato II)
L’allegato II al D.Lgs. n. 163/2006 reca l’elenco dei
servizi oggetto dei pubblici appalti, i quali sono divisi in
categorie generali numerate progressivamente e aventi
un nome generale e onnicomprensivo.
I servizi appartenenti a ciascuna categoria generale
vengono poi specificati mediante indicazione del numero di riferimento CPC e CPV. In particolare, per CPV
si intende il vocabolario comune degli appalti, contenuto nel regolamento CEE n. 2195/2002, più volte modificato.
Il vocabolario comune degli appalti serve ad individuare l’oggetto dell’appalto, che nei bandi comunitari di
amministrativo
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appalti di servizi deve essere, appunto, identificato facendo riferimento ad una categoria e ad uno o più numeri della nomenclatura CPV.
In particolare, l’art. 64, co. 4, D.Lgs. n. 163/2006
dispone che il bando di gara contiene, tra l’altro, “le
informazioni di cui all’allegato IX A”.
A sua volta l’allegato IX-A indica il contenuto minimo e tipico dei bandi, statuendo che negli appalti di
servizi si devono indicare: “categoria del servizio e sua
descrizione. Numero(i) di riferimento della nomenclatura”.
Nella classificazione CPV, sono elencati analiticamente i servizi riconducibili a ciascuna categoria generale, e a ciascun servizio è attribuito un numero di
identificazione.
Merita condivisione l’orientamento secondo cui,
poiché difficilmente vi è una esatta corrispondenza
terminologica tra servizio da affidare e oggetto sociale
quale risulta dal certificato della Camera di commercio,
ciò che rileva ai fini della partecipazione è la presenza,
sotto il profilo sostanziale, delle attività cui è riconducibile il servizio posto a gara (C.d.S., sez. VI, 13 maggio
2008 n. 2218); tuttavia, laddove la lex specialis richieda
espressamente la iscrizione per una determinata categoria, deve ritenersi esclusa la partecipazione a soggetti
iscritti per categoria diversa.
È consentito all’Amministrazione ampliare sia le
categorie cui è riconducibile l’appalto, sia, e soprattutto,
i relativi requisiti di partecipazione.
È, peraltro, preclusa la partecipazione alla gara laddove, pur nel silenzio del bando in ordine alla necessaria
iscrizione per una determinata categoria, vi sia una radicale diversità tra servizi oggetto della gara e servizi
indicati nell’oggetto sociale, da individuarsi sul piano
sostanziale e non meramente formale.
RIAPERTURA DEL PROCEDIMENTO DI GARA VOLTO AD EMENDARE VIZI – NON COSTITUISCE NUOVO PROCEDIMENTO
AMMINISTRATIVO E NON NECESSITA DI COMUNICAZIONE
DELL’ AVVIO DEL PROCEDIMENTO E DELLE SUCCESSIVE ATTIVITà DELLA COMMISSIONE, MA SOLTANTO DELLA DATA IN
CUI LA COMMISSIONE PROCEDERà AL RIESAME
Consiglio di Stato, sez. V, 12 novembre 2009, n. 7042
(Codice dei contratti, art.11)
La riapertura del procedimento di gara ai fini
dell’esercizio del potere di autotutela volto ad eliminare
illegittimità precedentemente verificatesi non costituisce
un nuovo procedimento amministrativo, essendo unico
il procedimento di gara per la scelta del contraente nei
pubblici appalti che ha inizio con il bando di gara e si
conclude solo con l’aggiudicazione definitiva. Ne deriva
che – sempre che non sia già intervenuto il provvedimento di aggiudicazione definitiva – non è necessaria la
comunicazione della riapertura del procedimento di
gara e delle successive attività della commissione ma
solo la comunicazione della data in cui la commissione
Gazzetta
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procede al riesame, indispensabile ai fini del rispetto dei
principi di pubblicità e trasparenza che pure devono
presiedere allo svolgimento delle pubbliche gare.
RICORSO PRINCIPALE AVVERSO L’AGGIUDICAZIONE E RICORSO INCIDENTALE PROMOSSO DALL’AGGIUDICATARIA – INDIVIDUAZIONE DELL’ORDINE LOGICO DI TRATTAZIONE DEI
RICORSI – CONSEGUENZE DELLA RIFORMA DELLA SENTENZA
DI PRIMO GRADO CHE ABBIA OMESSO DI ESAMINARE IL RICORSO PRINCIPALE IN SEGUITO ALL’ACCOGLIMENTO DEL
RICORSO INCIDENTALE
Consiglio di Stato, 24 novembre 2009, n.7380
(Codice dei contratti, artt. 244, 245)
Conformemente a quanto affermato dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato con la decisione
n. 11/2008, deve ritenersi che “per i principi della parità delle parti e di imparzialità del giudice, quando le due
uniche imprese ammesse alla gara abbiano ciascuna
impugnato l’atto di ammissione dell’altra, la scelta in
merito all’ordine di trattazione tra appello principale e
appello incidentale non può avere rilievo decisivo
sull’esito della lite. Pertanto la fondatezza del ricorso
incidentale, esaminato preliminarmente, non preclude
l’esame di quello principale, né la fondatezza del ricorso
principale, esaminato preliminarmente, preclude l’esame di quello incidentale, poiché entrambe le imprese
sono titolari dell’interesse minore e strumentale all’indizione di una ulteriore gara”.
L’omesso esame delle censure veicolate con il ricorso
principale di primo grado, pertanto, e pur a seguito
dell’esame prioritario, e dell’accoglimento, delle impugnazioni incidentali, configura statuizione inesatta e che
merita riforma.
La esattezza dell’intuizione contenuta nella decisione
della Adunanza Plenaria appare, tra l’altro, indubitabile anche alla luce della ulteriore considerazione del fatto
che la pedissequa applicazione del principio della portata paralizzante sul ricorso principale spiegato dall’accoglimento del ricorso incidentale rischierebbe di attribuire portata irrimediabile all’inesatto operato della
stazione appaltante.
A fronte di vizi delle domande di partecipazione ad
una gara che attingessero tutte le aspiranti (cui conseguirebbe la necessità di escludere tutte le partecipanti,
e provvedere a rieditare la gara d’ appalto), infatti, dalla determinazione dell’amministrazione che, non cogliendo tali vizi, aggiudicasse la gara all’una, piuttosto
che all’altra, scaturirebbe – sul versante processuale – un
ineliminabile pregiudizio in capo alla non aggiudicataria, ed una ingiusta rendita di posizione in capo alla
prescelta aggiudicataria.
La prima, infatti, avendo interesse a gravare la statuizione che ha aggiudicato all’altra la gara, resterebbe
esposta al ricorso incidentale dell’aggiudicataria la quale, pur magari versando in situazione di irregolarità
pari o financo maggiormente significativa della prima,
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potrebbe incidentalmente dedurre i vizi che attingevano
la posizione della impugnante e resterebbe immune
dalla verifica giudiziale dei vizi attingenti la propria
posizione, in quanto il ricorso principale sarebbe dichiarato inammissibile.
Né coglie nel segno la obiezione per cui la situazione
tratteggiata non differisce dalla eventualità in cui nessuna impugnazione venga proposta avverso la gara
medesima (anche in tale evenienza la aggiudicataria
ricaverebbe un ingiusto privilegio dall’errore della stazione appaltante che non rilevò i vizi attingenti la propria posizione): il processo amministrativo, infatti,
seppure improntato al principio dispositivo, persegue il
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fine di pervenire ad una statuizione conforme a giustizia, anche nel superiore interesse dell’amministrazione,
che rilevi i vizi dell’azione amministrativa, ove offerti
alla cognizione giudiziale, ed al contempo garantisca la
parità processuale delle parti, che risulterebbe irrimediabilmente pregiudicata da un diverso modus procedendi.
All’erronea declaratoria della inammissibilità dell’impugnazione principale non segue l’annullamento con
rinvio della appellata decisione, non ricorrendo l’ipotesi di “difetto di procedura o vizio di forma” di cui
all’art. 35 della L. n. 1034/1971 (si veda, ex multis, sul
punto C.d.S., sez. V, 23 aprile 1998, n. 474).
amministrativo
Gazzetta
diritto
Tributario
Alcune note sulla frode fiscale
95
Nadia Di Massa
Dottoranda di Ricerca in Diritto Tributario presso la facoltà di Economia della SUN
Osservatorio di giurisprudenza tributaria
A cura di Raffaele Cantone
Magistrato presso il Massimario della Cassazione
105
tributario
Gli effetti della sentenza C. 132/06
sul condono fiscale; la parola alle Sezioni Unite
F O R E N S E
●
Alcune note
sulla frode fiscale
● Nadia Di Massa
Dottoranda di Ricerca in Diritto Tributario
presso la facoltà di Economia della SUN
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Sommario: 1. La definizione della frode fiscale – 2. Excursus legislativo – 3. Il principio di specialità – 4. Differenziazione fra la frode fiscale e l’elusione – 5. La legge delega n. 205/1999 – 6. Le dichiarazioni fraudolente nel D.Lgs. n. 74/2000 – 7. Fattispecie
residuali prive del carattere della fraudolenza – 8. I
delitti in materia di documenti e pagamento di imposte – 9. Le circostanze attenuanti – 10. Giurisprudenza
significativa in materia di reati tributari – 11. Cenni ai
rapporti tra processo penale e giudizio tributario – 12. “Tax planning”.
1. La definizione della frode fiscale
Una problematica divenuta sempre più attuale è quella della frode fiscale, soprattutto alla luce dei repentini
tracolli finanziari intervenuti con sempre maggiore frequenza.
Va rilevato che la legge non ha mai fornito un’esplicita definizione del concetto di frode fiscale, tuttavia si
è concordi nel ravvisare tale figura quando un soggetto,
con artifici e raggiri, induce in errore altri, procurando
a se stessi o ad altri un vantaggio ingiusto e, quindi, un
danno ingiusto alla vittima in questione.
Si configura un illecito vero e proprio, avendosi una
concreta violazione della norma tributaria.
La frode fiscale, quale reato tributario, era precedentemente disciplinata dall’art. 4 L. n. 516/1982 (c.d.
“Manette agli evasori”), che nello specifico distingueva
sette condotte criminose riconducibili alla figura in oggetto, con la frode più grave riportata alla lett. f) dell’articolo citato.
Obiettivo della norma era impedire che i contribuenti, mediante espedienti artificiosi, potessero evadere i
tributi a danno dell’Erario.
Come si vedrà nel corso della dissertazione, la riforma dei reati tributari del 2000 ha operato un cambio
completo di visuale, restringendo la materia delle fattispecie di punibilità soltanto a condotte caratterizzate da
alta offensività e dal dolo specifico di evasione, direttamente correlate, sia oggettivamente che soggettivamente,
alle lesioni degli interessi fiscali.
È interessante l’individuazione di specifiche frodi1,
che ormai costellano il panorama economico a respiro
nazionale ed internazionale: le frodi interne (poste in
essere a danno della società dai suoi dipendenti e dai suoi
amministratori) e quelle esterne (realizzate da soggetti
esterni alla società); le corporate fraud (frodi interne
compiute dai vertici aziendali) e le white collar crime
(anch’esse classificabili come frodi interne, ma poste in
essere dai dipendenti); le frodi off the book (quelle che
lasciano traccia nell’ambito delle rilevazioni cintabili) e
le frodi on the book (in cui, invece, la rilevazione conta-
1 G. Laganà, P. Gallo Riva, D. Mastromarchi, Come nascono le frodi
societarie, come scoprirle, come prevenirle, Il Sole 24 Ore, 2005.
tributario
Gazzetta
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d i r i t t o
bile è corretta, mentre è scorretto il comportamento a
monte).
È stato giustamente osservato che è impossibile configurare con precisione l’estensione del fenomeno2, sicché
i danni subiti dalle aziende sono in realtà superiori rispetto a quelli dichiarati.
Il legislatore, nel corso degli anni, ha più volte cercato di porre rimedio a tale situazione, ma spesso con
risultati deludenti.
Esiti positivi sono scaturiti grazie alla riforma del
2000 citata, che ha introdotto un sistema incentrato su
un ristretto numero di ipotesi di natura delittuosa, caratterizzate dal dolo specifico di evasione. Il fulcro del
nuovo impianto va individuato in tre tipologie criminose, ossia la “dichiarazione fraudolenta” (artt. 2 e 3
D.Lgs. n. 74/00), la “dichiarazione infedele” (art. 4) e la
“omessa dichiarazione” (art. 5).
2. Excursus legislativo
Il legislatore tributario, per colmare i vuoti del sistema sanzionatorio penale tributario dell’inizio del Novecento, emanò la nota L. n. 4/1929, recante le “Norme
generali per la repressione delle violazioni delle leggi
finanziarie”.
Tuttavia tale legge, non contenendo specifiche ipotesi di reato, ha comportato un frequente rinvio alle disposizioni del c.p. e del c.p.p.
Tra i suoi articoli, rilevano il primo, contenente il
principio di fissità della legge penale tributaria, secondo
cui le disposizioni della legge non sono abrogabili o
modificabili da leggi posteriori riguardanti i singoli
tributi, se non con dichiarazione espressa del legislatore;
l’art. 20, relativo al principio di ultrattività, per cui le
disposizioni in esame si applicano ai fatti posti in essere
quando tali disposizioni sono in vigore, sebbene esse
siano state abrogate o modificate al tempo della loro
applicazione; l’art. 21 riguardante il principio della
pregiudiziale tributaria, secondo cui l’azione penale
poteva avere luogo solo dopo l’accertamento tributario.
La legge del 1929 si è, però, rivelata inefficace a
combattere l’evasione e la frode fiscale, proprio in considerazione dell’effetto paralizzante della pregiudiziale
tributaria, che comportava una concreta impossibilità
dell’esercizio dell’azione penale a causa dei notevoli
tempi occorrenti per la definizione dell’accertamento
tributario.
Si è così giunti, all’inizio degli anni ‘80, ad un nuovo
intervento normativo, il cui frutto è stato il D.L.
n. 429/1982, convertito in L. n. 516/1982, recante le
“Norme per la repressione dell’evasione in materia di
imposte sui redditi e sul valore aggiunto” (c.d. legge
2 P. Dell’Anno, I reati tributari in materia di imposte dirette ed Iva,
Giuffrè, Milano, 1992, p. 178.
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“Manette agli evasori”). Tale impianto aveva previsto
l’abolizione sia della pregiudiziale tributaria, sia del
principio di fissità della legge penale finanziaria; aveva
introdotto il c.d. principio del doppio binario; aveva tipicizzato le fattispecie criminose, riferite non più all’entità del tributo, ma a comportamenti prodromici all’evasione3.
Le ipotesi di reato erano distinte, da un lato, in contravvenzioni, come l’omessa o irregolare tenuta e conservazione delle scritture contabili, e, dall’altro, in delitti, quale la frode fiscale di cui all’art. 4 L. n. 516/82 e
l’omesso versamento di ritenute effettivamente operate.
Si trattava di una nuova strategia repressiva rispetto
alla previgente legislazione: nello specifico, si tendeva
ad assimilare, ai fini penali, le imposte dirette e l’imposta sul valore aggiunto, nonché a configurare nuovi
modelli di reato delineati in modo tale da escludere
accertamenti complessi ad opera del giudice penale4.
Diatribe dottrinali e giurisprudenziali hanno riguardato l’art. 4, n. 7, L. n. 516/1982, che puniva la condotta del titolare di redditi di lavoro autonomo o di impresa che, allo scopo di evadere le imposte sui redditi o
l’imposta sul valore aggiunto ovvero di conseguire o
consentire l’evasione o un indebito rimborso, redigeva
le scritture contabili obbligatorie, la dichiarazione annuale dei redditi ovvero il bilancio o rendiconto ad essa
allegato, “dissimulando” componenti positivi o simulando componenti negativi di reddito, alterando il risultato della dichiarazione.
L’attenzione è stata posta soprattutto sulla parte
relativa alla “dissimulazione ed alla simulazione”5, chiedendosi se con tali termini si doveva intendere il semplice occultamento di componenti positivi e la falsa esposizione di componenti negativi o invece fossero necessari artifici e raggiri.
Se ne è occupata anche la Corte Costituzionale, prima, con sentenza n. 247/1989, e, successivamente, con
sentenza n. 35/1991, ponendo fine alle discussioni ed
affermando che: “L’art. 4, n. 7, è incostituzionale nella
parte in cui prevede che la dissimulazione di componenti positivi o la simulazione di componenti negativi del
reddito debba concretarsi in forme artificiose”.
A seguito della suddetta pronuncia della Consulta,
il legislatore penale tributario si rese conto che la situazione era favorevole per un’ulteriore rivisitazione della
normativa, avutasi con la L. n. 154/1991, di conversione del D.L. n. 83/1991, che ha depenalizzato fattispecie
meramente formali di minore importanza, alleviando il
3 F. Gallo, Tecnica legislativa e interesse protetto nei nuovi reati tributari: considerazioni di un tributarista, in Giurisprudenza commerciale, 1984.
4 D’Avirro-Nannucci, I reati nella legislazione tributaria, Padova,
1984.
5 Traversi, I reati tributari in materia di imposte dirette ed Iva, Milano,
Ipsoa, 1986.
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sovraccarico degli uffici giudiziari, nonché riformulato
le fattispecie delittuose afferenti la frode fiscale6.
Le singole ipotesi di reato erano: l’omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi o dell’Iva (art. 1, co. 1); l’omessa o infedele fatturazione o annotazione di corrispettivi ai fini delle imposte
sui redditi o ai fini dell’Iva (art. 1, co. 2, lett. a e b);
l’infedele dichiarazione dei redditi (art.1, co. 2, lett. c),
a cui non erano applicabili le misure cautelari; l’omessa
tenuta o conservazione di scritture contabili obbligatorie (art.1, co. 6, prima parte) per il termine normativamente prescritto; l’irregolare tenuta di scritture contabili obbligatorie (art. 1, co. 6, seconda parte); l’omessa
dichiarazione del sostituto d’imposta (art. 2, co. 1);
l’omesso versamento di ritenute effettivamente operate
e non certificate (art. 2, co. 2); l’omesso versamento di
ritenute certificate (art. 2, co. 3); la stampa o fornitura
senza autorizzazione di stampati per la compilazione di
documenti di accompagnamento dei beni viaggianti o
delle ricevute fiscali e acquisto, detenzione o uso di
stampati irregolari (art. 3, co. 1); l’omessa annotazione
di stampati per la compilazione di documenti di accompagnamento dei beni viaggianti o delle ricevute fiscali
(art. 3, co. 2), con non applicabilità delle misure cautelari; la frode fiscale per rilascio o utilizzazione di documenti contraffatti o alterati (art. 4, co. 1, lett. a), per la
quale erano previsti l’applicazione delle misure cautelari e l’arresto in flagranza di reato; la frode fiscale per
distruzione o occultamento di scritture o documenti
contabili (art. 4, co. 1, lett. b), a cui pure erano applicabili le misure cautelari e l’arresto in flagranza di reato; la frode fiscale per falsa indicazione dei percipienti
negli elenchi nominativi o nella dichiarazione annuale
del sostituto d’imposta (art. 4, co. 1, lett. c), con applicabilità delle misure cautelari e previsione dell’arresto
in flagranza di reato; la frode fiscale per emissione o
utilizzazione di fatture o altri documenti per operazioni in tutto o in parte inesistenti o recanti l’indicazione
dei corrispettivi o dell’iva in misura superiore a quella
reale o l’indicazione di nomi diversi da quelli reali
(art. 4, co. 1, lett. d); la frode fiscale per rilascio e uso
di certificati del sostituto d’imposta con indicazione di
somme diverse da quelle effettivamente corrisposte
(art. 4, co. 1, lett. e) e la frode fiscale per utilizzazione
di documenti attestanti fatti materiali non corrispondenti al vero o per altri comportamenti fraudolenti
(art. 4, co. 1, lett. f), a cui pure erano applicabili le
misure cautelari e l’arresto in flagranza di reato.
3. Il principio di specialità
Tra le maggiori novità che si riscontrano nella riforma intervenuta nel 2000, rileva l’introduzione del principio di specialità7, utilizzato in ambito penale, oltre ai
criteri di sussidiarietà e consunzione, per risolvere l’istituto del conflitto apparente di norme.
Il criterio di specialità è espressamente contenuto
nell’art. 15 c.p., che dispone: “Quando più leggi penali
o più disposizioni della medesima legge penale regolano
la stessa materia, la legge o la disposizione di legge
speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge
generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.
L’analisi del principio suesposto va operata considerando anche quello di legalità, che ha riconosciuto la
preminenza assoluta della legge scritta ed è nato per
contrapporsi all’Ancien Régime, in cui la legge promanava dal Re per mezzo del magistrato suo funzionario.
Corollario naturale del principio di legalità è la riserva di legge, che individua nella legge l’unica fonte in
materia penale.
Al riguardo va appoggiata la natura relativa e non
assoluta di tale riserva, ritenendo possibile il concorso
di fonti normative diverse dalla legge purché, come ha
affermato la Consulta “sia una legge dello Stato a indicare con sufficiente specificazione i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell’autorità non legislativa” (sent. n. 26/1966 Corte Cost.). Cosicché le
precipue decisioni concernenti l’incriminazione restano
monopolio del Legislatore, mentre la fonte normativa
secondaria può specificare il contenuto già delineato
dalla legge.
È d’uopo ricordare che l’accoglimento del principio
di specialità non costituisce un’assoluta novità, poiché,
in origine, l’art. 3 L. n. 4/1929, recante “Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie”, aveva stabilito che l’irrogazione di una pena
pecuniaria era possibile soltanto laddove il fatto non
costituisse già reato.
Il sistema sanzionatorio tributario ha poi subito
un’evoluzione, superando il divieto di cumulo degli illeciti, grazie ad interventi settoriali, che hanno trovato
conferma nell’art.10 L. n. 516/1982, secondo cui potevano coesistere sanzioni penali ed amministrative incidenti sullo stesso fatto, ponendosi in difformità rispetto
al principio di cui all’art. 9 L. n. 689/19818.
Ci si avvale del principio in esame in tutte le branche
dell’ordinamento giuridico, per regolare il concorso o
conflitto di norme che disciplinano un medesimo fatto.
6 B. Santamaria, Le modifiche alla L.n. 516/1982 apportate dal D.L.
83/1991, in Fisco n. 26/1991, p. 4329.
7 C. Buccico, Frode fiscale e falso in bilancio. Una ricostruzione sistematica, Jovene, Napoli, 2005, p. 10.
8L’art. 9, co.1, L. n. 689/1981 così recita: “Quando uno stesso fatto
è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale”.
tributario
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d i r i t t o
Il suddetto concorso diventa apparente perché fra le
norme giuridiche, che sembrano coesistenti, soltanto
una risulta concretamente applicabile.
L’interprete deve individuare quale regola giuridica
possa ritenersi speciale rispetto alle altre.
Il principio di specialità è sancito anche dall’art. 19
del D.Lgs. 74/2000, ma in una maniera scarna, che
implica l’applicazione di volta in volta alle fattispecie
concrete.
Tuttavia, la mera applicazione del principio in oggetto al caso concreto avrebbe potuto inficiare la funzione
dissuasiva della pena e tale questione emerge dal secondo
comma dell’art. 19 citato, nonché dalla relazione governativa, in cui si legge: “All’affermazione del principio di
specialità non deve peraltro seguire una perdita di deterrenza del sistema nel suo complesso. Preoccupazioni su
questo versante si connettono, per vero, all’eventualità
che, in determinati frangenti, il potenziale autore di una
violazione tributaria possa considerare maggiormente
temibile una sanzione amministrativa pecuniaria di
elevato ammontare. Siffatto timore appare pregnante,
in verità, soprattutto in riferimento ai fatti commessi
nell’ambito di società o altri enti a fronte della possibilità di sottrarre all’applicazione delle sanzioni amministrative il titolare sostanziale dell’interesse, riversando
la responsabilità penale su meri prestanome”.
Il secondo comma del citato art. 19 risponde, quindi,
ad una logica di sistema, volendo evitare che il medesimo fatto sia punito due volte in capo allo stesso soggetto, come illecito amministrativo e come illecito penale.
Va sottolineato che, attraverso il principio di specialità, il legislatore delegato ha ribadito l’intento di riservare al diritto penale tributario una funzione sussidiaria
tesa a reprimere esclusivamente le condotte maggiormente offensive per l’Erario9.
4. Differenziazione fra la frode fiscale e l’elusione
L’elusione fiscale, denominata anche “tax avoidence”, è una categoria logica, non essendo definita nel
nostro ordinamento, che si configura in presenza di un
aggiramento di una norma fiscale, volto esclusivamente
a ridurre o evitare l’onere tributario, ma senza uscire dai
confini della liceità (non è “contra legem”, è “extra legem”). Essa si sostanzia in una condotta diretta ad
utilizzare strumentalmente le carenze dell’ordinamento,
in modo tale da non far nascere in tutto o in parte
un’obbligazione tributaria.
Trattandosi di un fenomeno lecito, l’elusione non può
essere sanzionata né amministrativamente, né penalmente, tuttavia va operata un’azione di contrasto per
consentire il rispetto dell’art. 53 Cost., secondo cui:
9 B. Santamaria, Diritto tributario. Parte generale: fonti, principi costituzionali, accertamento e ispezioni, riscossione, sistema sanzionatorio, processo tributario, Milano, Giuffrè, 2008, p. 331.
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“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in
ragione della loro capacità contributiva”.
Va rimarcata la totale differenza dell’elusione rispetto alla frode fiscale, che, invece, integra un illecito vero
e proprio.
Il reato tributario della frode fiscale era disciplinato
dall’art. 4 L. n. 516/1982, che individuava sette ipotesi
criminose. Con il successivo intervento della riforma del
2000, le ipotesi ritenute penalmente rilevanti sono state
soltanto quelle caratterizzate da alta offensività e da
dolo specifico di evasione. Nell’art. 16 D.Lgs. 74/00, si
mette in dubbio che l’elusione possa avere rilevanza
penale, recitando “non dà luogo a fatto punibile la
condotta di chi avvalendosi della procedura d’interpello…si è uniformato…”. È invece indubbio che non può
farsi rientrare negli articoli 1, 2 e 3 del decreto citato.
L’elusione non scatta con un generico vantaggio tributario, occorrendo che esso si accompagni ad un uso
distorsivo dei “buchi”presenti nelle norme e nel sistema
tributario, altrimenti si dovrebbe parlare di tale istituto
per ogni atto di pianificazione fiscale da parte del contribuente.
Chi elude non fa altro che portare ad estreme conseguenze una finalità di riduzione del carico tributario,
che in sé è legittima ed accettabile, ma che, relativamente alle modalità di realizzazione ed in rapporto al contesto in cui opera, finisce per determinare effetti distorsivi sul sistema economico-sociale.
Laddove non si abbia la violazione di norme antielusione, non si può parlare di elusione10.
Nei vari ordinamenti nazionali, per contrastare ed
arginare fenomeni di frode e di elusione, sono utilizzati
tipi di approccio diversi.
Nel nostro Paese hanno sempre prevalso norme di
tipo casistico, mentre altrove si è agito in ragione delle
diverse condizioni e tradizioni giuridiche.
5. La legge delega n. 205/1999
Prima della nota riforma dei reati tributari nel 2000,
si è avuto un vivace iter parlamentare. In particolare, il
disegno di legge ad iniziativa parlamentare C1850 del
1996, relativo al conferimento di delega al Governo per
la depenalizzazione dei reati minori, riguardava la sostituzione delle sanzioni penali di cui alla L. n. 516/1982
con sanzioni amministrative, con esclusione delle fattispecie di frode fiscale rientranti nell’art. 4 della citata
legge.
Successivamente, tale disegno è decaduto e sono
stati posti in essere altri provvedimenti, fino a giungere
al disegno di legge n. 1850, che ha trovato applicazione
normativa nella L. 25 giugno 1999, n. 205, recante
“Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati
minori e modifiche al sistema penale e tributario”.
10 P. Adonnino, Rivista di diritto tributario 2/2000, p. 242.
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La ratio del nuovo impianto sanzionatorio penale
tributario ha previsto un ristretto numero di fattispecie
delittuose, connotate dal dolo specifico del fine di evasione o di indebito rimborso ed aventi ad oggetto dichiarazioni annuali fraudolente, l’emissione di documenti
falsi, l’omessa presentazione di dichiarazioni annuali, le
dichiarazioni annuali infedeli, la sottrazione al pagamento, l’occultamento o la distruzione di documenti
contabili.
Va rimarcato che l’art. 6 della legge delega n. 205/99
ha abolito il principio dell’ultrattività delle norme penali tributarie di cui all’art. 20 della suesposta L.
n. 4/1929.
D’altra parte tale principio era stato spesso oggetto
di contrastanti posizioni dottrinali e giurisprudenziali.
Al riguardo si ricordi che molti studiosi ne hanno
contestato la legittimità costituzionale, ritenendo violati gli artt. 3 e 25 Cost.
Tuttavia la Consulta, in più occasioni11, ne ha affermato la legittimità costituzionale, sostenendo il pieno
potere da parte del legislatore di disciplinare in maniera
differente le varie situazioni a seconda della loro rilevanza, con norme volte a garantire che il rispetto delle
disposizioni finanziarie e fiscali non sia sminuito con la
speranza di mutamenti legislativi futuri.
6. Le dichiarazioni fraudolente nel D.Lgs. n. 74/2000
Il diritto penale tributario delineato dalla L. n. 516/82
era senza dubbio in contrasto con i principi di offensività e determinatezza (v. art. 25, co.2, Cost.; art. 1
c.p).
Il D.Lgs. n. 74/00 ha invece delineato un sistema
organico, introducendo un ristretto numero di fattispecie di carattere delittuoso, nonché prevedendo per le
ipotesi di cui agli artt. 3, 4 e 5 una soglia di rilevanza
penale, espressione di un concreto danno all’Erario
derivante dall’evasione. Il decreto di riforma ha eliminato le violazioni meramente formali e preparatorie a
monte, come le omesse fatturazioni o le irregolarità
nella tenuta delle scritture contabili.
I delitti in materia di dichiarazione, contenuti nel
Capo I del Titolo II del decreto citato, costituiscono
senza dubbio l’asse portante del nuovo sistema punitivo.
La fattispecie criminosa di maggiore gravità è la “Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti” di cui all’art. 2
D.Lgs. n. 74/2000, che recupera alcuni elementi costitutivi presenti nell’art. 4, lettere d) ed f), L. n. 516/1982,
unendo la condotta di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e l’ipotesi di redazione di dichiarazioni fiscali fondate su documenti attestanti fatti materiali non veri e, dunque, evitando, a differenza del si-
11Sentenza n. 164 del 6 giugno 1974; sentenza n. 30 del 5 maggio
1979.
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stema precedente, che il contribuente possa essere punito due volte a fronte di un’unica lesione del bene tutelato.
“Chiunque” può porre in essere tale reato, sicché
soggetti attivi possono essere amministratori, liquidatori,
rappresentanti e contribuenti, compresi quelli non obbligati alla tenuta delle scritture contabili.
La condotta del reato in esame, considerato reato di
pericolo, è commissiva e consiste nell’indicare, in una
delle dichiarazioni annuali relative alle imposte sui redditi o all’imposta sul valore aggiunto, elementi passivi
(oneri, spese, minusvalenze, ecc.) fittizi ed inesistenti,
avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti.
È competente per il reato in esame il tribunale del
luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale e, laddove quest’ultimo sia all’estero, la competenza è del giudice del luogo di accertamento del reato.
Va evidenziato che per il delitto in oggetto non è richiesto il superamento di alcuna soglia quantitativa,
sicché le componenti negative “gonfiate” con falsa documentazione possono riguardare anche importi minimi.
L’intento del legislatore di abbandonare la logica dei
comportamenti prodromici, colpendo soltanto le condotte effettivamente lesive dell’Erario, si evince dal contenuto dell’art. 6 D.Lgs. n. 74/00, che esclude la punibilità a
titolo di tentativo per i reati tributari di cui agli artt. 2 e
3 del decreto citato.
Altro reato tributario caratterizzato dal carattere
fraudolento è quello previsto dall’art. 3 D.Lgs. n. 74/2000,
rubricato“Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici” ed avente come precipuo elemento costitutivo la
falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie; sicché soggetti attivi sono tutti coloro che, ai sensi
dell’art. 13 del D.P.R. n. 600/1973, sono obbligati alla
loro tenuta.
L’oggetto materiale del reato in esame non è di facile
individuazione e ciò scaturisce dalla volontà del legislatore di tenere ampia la categoria degli strumenti delineando la fattispecie criminosa come residuale rispetto a
quella di cui all’art. 2, che si avvale di fatture o documenti falsi.
Ne deriva che fanno parte dell’oggetto materiale del
reato di cui all’art. 3 tutti quegli elementi, diversi dalle
fatture e dai documenti falsi, idonei a supportare una
condotta rappresentata nelle scritture contabili obbligatorie e di natura fraudolenta.
Elemento soggettivo è sempre il dolo specifico, ossia
il fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto.
È importante sottolineare che, mentre nel reato ex
art. 2 la diminuzione della base imponibile deve avvenire
mediante l’incremento degli elementi negativi di reddito
e tali elementi devono essere supportati da falsa fatturazione o documentazione, nel reato ex art. 3, invece, la
base imponibile può essere inficiata sia sotto il profilo
tributario
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degli elementi attivi che passivi ed occorrono altri mezzi
fraudolenti.
7. Fattispecie residuali prive del carattere della fraudolenza
Oltre alle fattispecie di dichiarazione fraudolenta di
cui agli artt. 2 e 3 D.Lgs. n. 74/2000, il legislatore ha
disciplinato alcune ipotesi residuali scevre del carattere
della fraudolenza.
Si tratta, innanzitutto, della “Dichiarazione infedele”, prevista dall’art. 4 del decreto citato12 , che tutela, in
via diretta, l’interesse patrimoniale dell’Erario, venendo
punite quelle condotte da cui deriva effettivamente
l’evento del danno; sicché è d’uopo che la condotta infedele accertata ed attribuita al contribuente sia qualitativamente tale da arrecare un danno sostanziale
all’amministrazione.
La norma in esame si riferisce esplicitamente ad un
reato di evento così come la dichiarazione fraudolenta
mediante altri artifici ex art.3.
Va invece tenuto distinto il caso di cui all’art. 2, relativamente al quale è opinione prevalente ci si trovi in
presenza di un reato di pericolo, poiché la condotta si
realizza nel momento della presentazione di una dichiarazione nella quale sono stati indicati elementi passivi
fittizi, in conseguenza dell’utilizzo di fatture o altri
documenti per operazioni inesistenti. L’elemento psicologico nella dichiarazione infedele rimane lo stesso,
come per le dichiarazioni fraudolente: il dolo specifico
del “fine di evadere le imposte sui redditi o le imposte
sul valore aggiunto”. La rilevanza del dolo specifico va
a differenziare i comportamenti dei contribuenti, da un
lato, sanzionando soltanto quelli diretti a realizzare
tale evento evasivo, dall’altro, escludendo le presentazioni infedeli derivanti da comportamenti privi della
volontà di evadere verso cui è sufficiente la mera sanzione amministrativa.
Un’alt ra fat tispecie residuale è l’“O m essa
dichiarazione”di cui all’art. 5 del decreto citato13. Tale
articolo dispone che rispondono del reato in oggetto
soltanto coloro che, essendo stati individuati come soggetti passivi d’imposta e obbligati alla presentazione
della dichiarazione dei redditi o IVA, evadono integralmente l’imposta a loro carico.
Da un punto di vista penale, può parlarsi di omessa
dichiarazione solo quando sono trascorsi i novanta
giorni dal termine ultimo per l’adempimento dell’obbligo fiscale.
Il delitto in esame configura un illecito omissivo
proprio, essendo riferibile solo ai soggetti obbligati alla
presentazione delle dichiarazioni in materia di imposte
dirette e di IVA14. Mancando anche nella fattispecie ex
12 B. Santamaria, op. ult. cit., p. 357 e ss.
13 B. Santamaria, op. ult. cit.., p. 366 e ss.
14I soggetti attivi cui si fa riferimento sono individuati dal D.P.R.
n. 600/1973 e dal D.P.R. n. 633/1972.
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art. 5, come in quella ex art. 4, i mezzi fraudolenti, la
condotta posta in essere risulta meno insidiosa, sicché
la sanzione applicata è equivalente e, quindi, si punisce
in modo meno grave rispetto ai reati di dichiarazione
fraudolenta.
Sono applicabili le circostanze attenuanti di cui agli
artt. 13 (pagamento del debito tributario) e 14 D.
Lgs. n. 74/2000 (riparazione dell’offesa nel caso di estinzione per prescrizione del debito tributario), la cui applicazione implica la diminuzione di pena fino alla
metà, nonché l’inapplicabilità delle pene accessorie.
Sotto il profilo processuale, la competenza spetta al
tribunale del luogo in cui il contribuente ha il domicilio
fiscale e, se il domicilio è all’estero, è competente il giudice del luogo di accertamento del reato.
Va poi considerata l’ipotesi della dichiarazione formalmente presentata, ma il cui contenuto sia inidoneo a
qualsivoglia determinazione di imponibile o di imposta.
In tal caso, si distingue se l’inidoneità del contenuto è
totale e allora la dichiarazione è considerata omessa; se
non è assoluta, si ritiene che la dichiarazione sia valida.
8. I delitti in materia di documenti e pagamento di imposte
Accanto alle principali figure di reato di cui agli
artt. 2, 3, 4 e 5, che riguardano la dichiarazione, vi
sono tre fattispecie definibili strumentali in materia di
documenti e di pagamento di imposte (artt. 8, 10, 11
D.Lgs. n. 74/2000), che sono egualmente insidiose per
gli interessi dell’Erario15. Tutte le fattispecie in esame
sono disciplinate dal Titolo II, Capo II, D.Lgs. n. 74/00
e si concretizzano nei comportamenti di chi emette fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di chi
occulta o distrugge documenti contabili di cui è obbligatoria la conservazione in modo da rendere impossibile la ricostruzione dei redditi o del volume di affari, di
chi svolge attività fraudolente idonee a determinare
l’inefficacia della riscossione coattiva per sottrarsi al
pagamento delle imposte sui redditi o sull’Iva.
L’“Emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, disciplinata dall’art. 8 cit., concerne
una condotta per così dire speculare alla dichiarazione
fraudolenta mediante uso di fatture o documenti per
operazioni inesistenti di cui all’art. 2 cit.. Mentre nell’ipotesi di cui all’art. 8 è sanzionato colui che emette il documento, nel caso di cui all’art. 2 il soggetto in questione riceve ed utilizza in dichiarazione il documento fiscale. Con riferimento alla tipologia di documenti che
possono integrare un’operazione inesistente, occorre
considerare soltanto quelli “aventi rilievo probatorio a
fini fiscali”; sicché sono compresi anche i c.d. “scontrini
parlanti”, le schede carburanti, le note di credito e di
debito, le fatture e le autofatture. Il soggetto attivo del
reato in esame può essere qualunque contribuente anche
15 B. Santamaria, op. ult. cit, p. 379 e ss.
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se non obbligato alla tenuta delle scritture contabili.
In tema di fatturazione per operazioni inesistenti, è
d’uopo ricordare i casi di concorso di persone nel reato
tra il contribuente che emette il documento e colui che
lo utilizza.
Il D.Lgs. n. 74/2000 ha affrontato la questione
nell’art. 9, escludendo, in deroga all’art. 110 c.p.16, la configurabilità del concorso dell’emittente nel delitto di dichiarazione fraudolenta commesso dall’utilizzatore e,
specularmente, del concorso dell’utilizzatore nel reato di
emissione. È esclusa la partecipazione al concorso anche
di eventuali soggetti intermediari, ossia di chi si vada a
posizionare fra emittente ed utilizzatore, ad esempio fungendo da tramite per l’ottenimento della fattura falsa.
L’“Occultamento o distruzione di documenti
contabili”è invece previsto dall’art. 10 D.Lgs. n. 74/2000,
secondo cui, salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o
sul valore aggiunto, ovvero di consentire l’evasione a
terzi, occulta o distrugge in tutto o in parte le scritture
contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, in modo da impedire la ricostruzione dei redditi o del volume di affari. La norma è volta a tutelare
il corretto esercizio della funzione di accertamento fiscale e, affinché possa consumarsi il reato, non sono
sufficienti la distruzione e l’occultamento, occorrendo
l’impossibilità di ricostruire i redditi o il volume di affari. Non rilevano poi penalmente tutte le ipotesi in cui
le scritture contabili non sono rinvenute, come in caso
di smarrimento o incendio.
È da segnalare l’inciso dell’articolo in esame che recita: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”, da
cui si evince l’esclusione dell’ipotesi del concorso del
reato di cui all’art.10 con quello di bancarotta fraudolenta documentale, che è più grave e risulta prevalente.
La terza fattispecie da analizzare è prevista dall’art. 11
D.Lgs. n. 74/2000 ed è la “Sottrazione fraudolenta al
pagamento di imposte”, per cui è punito chiunque, al
fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul
valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative concernenti dette imposte, alieni simultaneamente o compia altri atti fraudolenti sui propri o su altrui
beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. È interessante osservare
che per la configurazione del reato in esame è sufficiente
la mera idoneità della condotta a rendere inefficace la
procedura di riscossione, senza che occorra il verificarsi
dell’evento. Al pari del delitto di cui all’art. 10, anche per
questa fattispecie criminosa è escluso il concorso con il
reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale.
16L’art. 110 c.p. recita: “Quando più persone concorrono nel medesimo
reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve
le disposizioni degli articoli seguenti”.
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101
9. Le circostanze attenuanti
La legge delega n. 205/1999 ha conferito all’Esecutivo un mandato per introdurre nel sistema sanzionatorio una sorta di meccanismi premiali, idonei a favorire
il risarcimento del danno17.
Il D.Lgs. n. 74/2000 ha così previsto due circostanze
attenuanti, che sono applicabili alle suesposte fattispecie
criminose, dalle dichiarazioni fraudolente alla sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. Si tratta del
“Pagamento del debito tributario” di cui all’art. 13 del
decreto citato e della “Riparazione dell’offesa nel caso
di estinzione per prescrizione del debito tributario” di
cui all’art. 14 del medesimo decreto di riforma.
Le due disposizioni introducono nel sistema processuale penale due circostanze attenuanti ad effetto speciale. In particolare, la nuova disciplina individua nell’accertamento con adesione, nella conciliazione giudiziale,
nel ravvedimento operoso ed in altri istituti i meccanismi
premiali, utilizzabili in sede di procedimento penale per
indurre il contribuente, indagato o imputato, a versare
l’imposta evasa. In altri termini, il contribuente chiamato a rispondere penalmente per uno dei reati di cui al
Titolo II D.Lgs. n. 74/00, attivandosi prima della dichiarazione di apertura del dibattito di primo grado, potrà
giovarsi dei vari istituti premiali suddetti, per ottenere
un’abbattimento della pena principale “fino alla metà”
e l’inapplicabilità tout court delle pene accessorie.
La prima delle due circostanze attenuanti, ossia il
pagamento del debito, scatta nel momento in cui i debiti tributari vengono estinti attraverso il pagamento,
“anche a seguito delle procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie”.
Il secondo comma dell’art. 13 del decreto di riforma
sancisce che il risarcimento deve riguardare anche le
sanzioni amministrative previste per la violazione delle
norme tributarie, sebbene le stesse non siano applicabili all’imputato grazie al principio di specialità.
L’art. 14 del decreto citato, disciplinante la seconda
circostanza attenuante, stabilisce che il soggetto imputato possa essere ammesso a pagare, sempre prima
della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, una somma a titolo di “equa riparazione” del
danno recato all’interesse
pubblico tutelato dalla norma violata.
Spetta al giudice valutare la congruità della somma
proposta dal contribuente. È ovvio che il pagamento di
per sé non presuppone un’ammissione di responsabilità
da parte del contribuente imputato, sicché l’ultimo comma dell’articolo in esame prevede espressamente che, in
caso di assoluzione o di proscioglimento, la somma
versata gli vada restituita.
Il decreto di riforma del 2000 ha mirato, con i sue-
17 B. Santamaria, op. ult. cit., p. 322 e ss.
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sposti artt. 13 e 14, a favorire il pentimento del contribuente, nonché ad eliminare il danno prodotto allo
Stato con il mancato pagamento delle imposte. Dunque
anche l’applicazione della sanzione penale non può essere esonerata dalla logica dell’adempimento spontaneo.
Il nuovo impianto penale tributario, spostando la
rilevanza penale dai c.d. comportamenti prodromici al
momento della presentazione della dichiarazione annuale prevista ai fini delle imposte sui redditi o sul valore
aggiunto, dà al contribuente l’opportunità di pagare
l’imposta dovuta, evitando di diventare indagato o imputato in un processo penale.
10. Giurisprudenza significativa in materia di reati tributari
La sezione III penale della Corte di Cassazione, con
sentenza n. 3057 del 21 gennaio 2008, in ordine al reato di cui all’art. 10 D.Lgs. n. 74/00, ha affermato che
è elemento essenziale di quest’ultimo l’impossibilità di
ricostruire i redditi o il volume d’affari; sicché risulta
del tutto irrilevante che la ricostruzione delle operazioni non documentate sia possibile aliunde, ad es. mediante riscontri ed accertamenti incrociati.
Secondo la Suprema Corte, appoggiata dalla dottrina maggioritaria, la figura in esame è volta a tutelare l’interesse statale alla trasparenza fiscale del contribuente.
Va poi segnalata la posizione giurisprudenziale che,
fin dalla sentenza del Trib. di Rimini nel 2000, ha risolto la problematica del rapporto fra il reato di bancarotta fraudolenta documentale ex art. 216, n. 2, Legge
fallimentare (L. n. 267/1942) ed il delitto di frode fiscale di cui all’art. 4 L. n. 516/1982, ora corrispondente
all’art. 10 D.Lgs. 74/00. Si tratta di una vexata quaestio,
da cui sono emerse distinte posizioni sia a livello giurisprudenziale sia a livello dottrinale.
Da un lato, si è appoggiata la tesi di un concorso
apparente di norme, con assorbimento dell’ipotesi di
frode fiscale in quella della bancarotta fraudolenta documentale, in applicazione del principio di specialità di
cui all’art. 15 c.p.
Dall’altro, si è negata la possibilità di un tale concorso di norme penali. Tuttavia la questione ha trovato
definitiva soluzione nell’art. 10 D.Lgs. n. 74/00, laddove
dispone: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato”,
così escludendo il concorso e prevedendo la prevalenza
del reato di bancarotta fraudolenta documentale.
11. Cenni ai rapporti fra processo penale e giudizio tributario
Nel corso degli anni ’70 e ’80, la regola, condivisa
dalla Corte Costituzionale, era la pregiudizialità, per
cui l’azione penale poteva essere promossa soltanto
dopo l’accertamento definitivo in sede amministrativa.
Tale regola creava non pochi problemi, dal momento
che era sufficiente presentare un ricorso contro l’avviso
di accertamento dell’ufficio fiscale per rimandare l’esercizio dell’azione penale, con conseguente lungaggine dei
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processi tributari e con un deterrente penale quasi del
tutto inesistente18.
Una svolta si è avuta nel 1982, grazie ad un intervento normativo che ha modificato strutturalmente la nozione di reato fiscale, incentrando l’attenzione sulle
condotte prodromiche all’evasione.
Sicuramente il legislatore del 2000 ha perso l’opportunità di regolare in forma più compiuta una materia
oggetto di molteplici interpretazioni nel passato. Gli
accertamenti spettanti al giudice penale e a quello tributario sembrano oggi sovrapponibili.
Da un lato, il D.Lgs. n. 74/2000 ha abbandonato la
ratio di cui alla L. n. 516/1982, tesa a perseguire penalmente i comportamenti prodromici all’evasione, dando
enorme rilevanza a fattispecie di danno da evasione;
dall’altro, non ha ripristinato una qualsivoglia forma di
pregiudiziale tributaria19, confermando e rafforzando
l’autonomia del processo penale e del giudizio tributario.
Cosicché non ci si può esimere dall’avere dubbi circa
l’affidamento di accertamenti complessi in una materia
tecnicamente complessa e in continuo divenire ad un
giudice non specializzato, ossia al giudice penale ordinario.
L’art. 20 D.Lgs. n. 74/2000 stabilisce che: “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo
tributario non possono essere sospesi per la pendenza
del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi
fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la
relativa definizione”.
In sostanza, tale norma sancisce la piena e reciproca
autonomia (c.d. regime del doppio binario) fra procedimento amministrativo di accertamento e processo tributario, da un lato, ed il processo penale, dall’altro,
escludendo qualsiasi rapporto di pregiudizialità fra
procedimenti nell’uno e nell’altro caso (ossia pregiudiziale tributaria al processo penale o pregiudiziale penale al giudizio tributario), in linea con la scelta già perseguita dal legislatore nel 1982. Come già rilevato, la
pregiudiziale tributaria era contemplata dall’art. 21,
co.3, L. 7 gennaio del 1929, n. 4, secondo cui il processo penale poteva iniziare solo dopo la conclusione del
processo tributario, salvo il caso di mancata impugnazione dell’avviso di accertamento. La pregiudiziale è
stata abolita dall’art. 13 L. n. 516/1982, rendendo il
18 B. Tinti, Un regalo al partito degli evasori, in Il Sole-24 Ore del 176-1999, in cui afferma: “La delega per le modifiche al sistema penale tributario rappresenta con certezza il più grosso regalo agli evasori mai confezionato dal nostro legislatore fin dal 1972, quando entrò
trionfante nell’ordinamento la pregiudiziale tributaria. Per dieci
anni gli evasori dormirono sonni tranquilli poiché la repressione
dell’evasione era di fatto affidata esclusivamente al processo amministrativo che dopo una decina d’anni si concludeva in commissione
tributaria con una drastica riduzione delle pretese del Fisco”.
19 Per effetto della “pregiudiziale tributaria” l’azione penale non poteva
essere iniziata prima che l’accertamento fosse divenuto definitivo
(art. 21 della L. n. 7 gennaio 1929, n. 4).
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processo penale libero da ogni condizionamento. Inoltre, dal testo dell’art. 12 della legge citata (abrogato
dall’art. 25, co.1, lett. d, D.Lgs. n. 74/00) risultavano i
seguenti principi: il divieto di sospensione del procedimento tributario, durante la pendenza di quello penale,
in deroga a quanto previsto dall’art.3, commi 2 e 3,
c.p.p. abrogato, nel senso che il giudice tributario era
libero di disporre la sospensione del procedimento ove
ritenesse che, ai fini della soluzione della controversia,
fosse utile attendere l’esito del processo penale; l’efficacia del giudicato penale nel processo tributario sui fatti
materiali che erano stati oggetto del giudicato penale;
la possibilità per l’Amministrazione finanziaria di integrare, modificare o regolare gli accertamenti già notificati sulla scorta dei fatti materiali accertati nel processo
penale e, se il termine per l’accertamento non era ancora scaduto, detta Amministrazione doveva procedere ad
accertamento.
Il decreto di riforma del 2000 ha confermato il divieto di sospensione del processo tributario durante la
pendenza di quello penale, cosicché i due giudizi sono
indipendenti, si svolgono parallelamente, quando vi è
contemporanea pendenza, e sono potenzialmente in
grado di pervenire a valutazioni autonome relativamente alla stessa situazione di fatto oggetto di giudizio, che
possono essere non soltanto differenziate ma anche
contrastanti 20.
Non è poi ammessa la sospensione del dibattimento
penale, in attesa della risoluzione della controversia
aperta dinanzi al giudice tributario.
In particolare, dal momento che nel giudizio tributario sono presenti limitazioni probatorie, non ricorrerebbe la condizione di sospendibilità di cui all’art. 479
c.p.p., che conferisce il potere discrezionale di sospendere il processo penale in attesa del giudicato civile o
amministrativo nel caso di risoluzione di questioni di
particolare complessità.
Inoltre, l’art. 2 c.p.p. prevede che le questioni risolte
in via incidentale dal giudice penale non hanno efficacia
20 F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, p. 313, il
quale sottolinea: “Data l’indipendenza dei due processi, può dunque
accadere che su uno stesso fatto, giudicato penale ed accertamento
tributario siano contrastanti. Ciò è la conseguenza naturale del fatto
che l’imposta, ai fini strettamente tributari, dipende, innanzitutto,
dall’avviso di accertamento e, poi, dall’iniziativa processuale del
contribuente e dalle vicende del processo tributario. La vicenda penalistica segue tutt’altro percorso, dipende dall’iniziativa del pubblico ministero e si sviluppa secondo regole probatorie e criteri di giudizio diversi da quelli tributari. Giudicato penale e giudicato tributario possono essere dunque diversi, sia perché giudici diversi operano
in modo indipendente, sia per una molteplicità di fatto e di diritto.
In linea di fatto può accadere che il pubblico ministero, nel processo
penale, assuma prove (ad es., mediante rogatorie all’estero), di cui
non dispone l’amministrazione finanziaria; inoltre, il processo penale ammette prove (in specie quelle testimoniali) che non sono ammesse nel processo tributario. Infine possono essere diverse le regole di
giudizio: ad es., il giudice tributario deve osservare regole presuntive
che non hanno invece cittadinanza nel processo penale”.
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103
rilevante in nessun altro processo. A differenza del precedente art. 12 L. n. 516/1982, che, nella seconda parte
del primo comma, sanciva: “La sentenza irrevocabile di
condanna o di proscioglimento pronunciata in seguito a
giudizio relativo a reati previsti in materia di imposte sui
redditi e sul valore aggiunto ha autorità di cosa giudicata nel processo tributario per quanto concerne i fatti
materiali che sono stati oggetto del giudizio penale”, la
nuova norma non riconosce alcuna autorità di cosa giudicata alla sentenza penale di condanna o di proscioglimento. Ne deriva la piena applicazione dell’art. 654 c.p.p.,
secondo cui: “La sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia nel giudicato civile o amministrativo,
quando in questo si controverte intorno a un diritto o a
un interesse legittimo il cui riconoscimento dipendente
dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono
oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano
stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e
purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova
della posizione soggettiva controversa”.
Il giudicato formatosi all’esito del processo tributario, invece, “è suscettibile unicamente di costituire uno
degli elementi che il giudice penale può prendere in
con side razion e n ell a for m azion e del proprio
convincimento”21.
Il regime adottato del doppio binario presenta il
duplice vantaggio di evitare un’eccessiva dilatazione dei
tempi delle decisioni e di rispettare le differenze, sul
piano probatorio, tra l’ambito penale e quello amministrativo.
Tuttavia la materia in esame non risulta di agevole
interpretazione, sia considerando il nuovo ruolo attribuito all’evasione dell’imposta nell’ambito di molteplici
fattispecie criminose tipiche, quale la dichiarazione
fraudolenta, che grava il giudice penale di questioni di
natura squisitamente tributaria, sia tenendo conto che
l’abrogazione del Titolo I e in particolare dell’art. 13 L.
n. 516/1982 solleva la questione dibattuta se, con l’abrogazione di una norma abrogatrice, riprendano vita le
norme già precedentemente abolite.
Il successivo art. 21, presupponendo rapporti di reciproca autonomia fra l’ordinamento penale e quello
amministrativo, delinea un modello procedimentale che,
da un lato, considera il principio di specialità e, dall’altro, impedisce la decorrenza dei termini di decadenza o
di prescrizione a danno dell’Amministrazione finanziaria. Infatti il comma 1 prevede che l’ufficio finanziario
irroga comunque, ossia a prescindere dall’inizio del
processo penale, le sanzioni amministrative relative alle
violazioni tributarie oggetto di notizia di reato.
21 Così S. Dovere, I nuovi reati tributari. Commento al D.Lgs. 10
marzo 2000, n. 74, p. 117.
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d i r i t t o
12. “Tax planning”
A completamento della trattazione in esame, va
considerato il “tax planning”, ossia la pianificazione
fiscale22.
Il contribuente tenta di sottrarsi agli obblighi tributari non soltanto attraverso la frode e l’elusione fiscale.
Esistono altre strategie, come il “tax planning”, che si
concretizza nell’attività di una persona fisica o giuridica
tesa ad organizzare le proprie attività produttive di
reddito, in modo tale che la base imponibile dichiarata
risulti la minore possibile.
In altri termini, si è in presenza di un’ottimizzazione
del costo fiscale delle attività del contribuente, che si
risolve in un’applicazione legittima della normativa
tributaria, caratterizzata da obiettivi funzionali come la
determinazione della convenienza economica dei crediti e dei debiti d’imposta.
Da tale attività si evince una strumentalizzazione
voluta delle disposizioni tributarie, perseguendo l’applicazione del regime più favorevole al contribuente.
Si deve sottolineare che la liceità di una pianificazione fiscale, tendente a ridurre il più possibile il carico
fiscale, è ormai generalmente riconosciuta se ciò non
implica una violazione diretta o indiretta degli obblighi
tributari. La pianificazione fiscale non è una condotta
da valutare negativamente in assoluto, anche alla luce
del principio di libertà di iniziativa economica sancito
nell’art. 41 Cost., sia quando tale risparmio è consentito da lacune o imperfezioni normative, sia se è originato da scelte tra più opzioni di uguale dignità offerte
dalla normativa fiscale. Cosicché l’autonomia contrattuale può lecitamente determinare un risparmio fiscale
(“tax saving”), ovvero realizzare un risparmio intollerabile (“tax non compliance”), integrando una violazione delle norme tributarie23.
È ovvio che le scelte, operate dal contribuente
nell’ambito dell’autonomia contrattuale, sono accettabili soltanto se ricadono entro i confini di liceità del sistema normativo. La questione fondamentale resta
differenziare l’uso della normativa dall’abuso di essa.
22 F. Carriolo, L’elusione fiscale. Pianificazione fiscale e abuso delle
norme tributarie, operazioni straordinarie e transnazionali, Il Sole
24 ore.
23 P. Pistone, Abuso del diritto ed elusione fiscale, 1995, p. 7.
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●
Osservatorio di giurisprudenza tributaria
Gli effetti della sentenza
C. 132/06 sul condono
fiscale; la parola
alle Sezioni Unite
● A cura di Raffaele Cantone
Magistrato presso il Massimario della Cassazione
105
2 0 0 9
Cass., sez. trib, ord. 23 giugno 2009, n. 22517
Pres.: F. Miani Canevari ; Est.: M. Bertuzzi
TRIBUTI (IN GENERALE) – CONDONO FISCALE – CORTE DI GIUSTIZIA CE – SENTENZA 17 LUGLIO 2008, IN CAUSA
C-132/06 – Artt. 7 ED 8 DELLA LEGGE 27 DICEMBRE 2002 N.
289 – CONTRASTO CON GLI Artt. 2 E 22 DELLA DIRETTIVA N.
77/388/CEE – SUSSISTENZA – PORTATA DELLA DECISIONE – EFFETTI SULL’Art. 16 DELLA L. N. 289 DEL 2002 – QUESTIONE DI
MASSIMA RILEVANZA RIMESSA ALLE SEZIONI UNITE
(art. 8, 9 e 16 l. 27 dicembre 2002, n. 289; Art. 2, 22
Direttiva Consiglio CEE, 17 maggio 1977 n. 77/388/
CEE; Art. 10, 226, 228, 249 Trattato CE)
Va rimessa alle Sezioni Unite la questione se, in conseguenza della sentenza della Corte di Giustizia Europea C-132/06 che ha ritenuto in contrasto con la VI
direttiva in materia di IVA gli artt. 8 e 9 della l. n. 289
del 2002, sia ancora da considerarsi vigente l’art. 16
della medesima legge, nella parte in cui prevede la sospensione dei termini di impugnazione, relativi ai giudizi promossi avverso gli avvisi di accertamento e rettifica adottati per il recupero dell’IVA.
***
[…Omissis…]
Fatto e Diritto
Con atto notificato a mezzo posta l’11.1.2005, il
Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno
proposto ricorso, sulla base di un unico motivo, per la
cassazione della sentenza n. 29/35702 del 14.5.2002, con
cui la Commissione tributaria regionale del Piemonte
aveva accolto il ricorso presentato dalla s.n.c. ***; per
l’annullamento di due avvisi di rettifica che, per gli anni
di imposta 1995 e 1996, sottoponevano a tassazione a
fini iva operazioni non contabilizzate dalla società, irrogando le corrispondenti sanzioni.
La società intimata ha notificato controricorso e
proposto, a sua volta, ricorso incidentale, affidato ad un
solo motivo.
Alla pubblica udienza del 15 ottobre 2009, il Procuratore Generale ha chiesto in via principale che la causa
venga rimessa per la decisione alle Sezioni Unite della
Corte, rappresentando che, a seguito della recente giurisprudenza comunitaria, appare dubbia l’applicabilità nei
processi tributari promossi avverso atti impositivi in
materia di iva della disposizione di cui alla L. 27 dicembre
2002, n. 289, art. 16, comma 6 che ha disposto la sospensione del termine per la proposizione del ricorso per
Cassazione dal 1 gennaio 2003 al 30 giugno 2004, con
la conseguenza che, nel caso di specie, il ricorso principale dovrebbe ritenersi inammissibile perché tardivo.
Preliminarmente va disposta la riunione dei ricorsi ai
sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la
medesima sentenza.
In ordine all’interrogativo sollevato dal Procuratore
Generale, osserva il Collegio che con la sentenza 17 lu-
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d i r i t t o
glio 2008 (causa C – 132/06) la Corte di Giustizia CE,
nel decidere una procedura di infrazione a carico
dell’Italia, ha statuito la contrarietà delle disposizioni
sul condono fiscale contenute nella L. n. 289 del 2002,
artt. 8 e 9 al sistema di imposta comune sul valore aggiunto. Nella specie, la Corte di Giustizia ha affermato
che l’estensione del condono alle violazioni in materia
di iva rappresenta “una rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuale nel corso di una serie di periodi di imposta” e che
la normativa nazionale costituisce una violazione degli
obblighi degli Stati membri previsti dagli artt. 2 e 22
della Sesta Direttiva del Consiglio 17 maggio 1977,
77/3888, in materia di armonizzazione delle legislazioni relative alle imposte sulla cifra di affari – Sistema
comune di imposta sul valore aggiunto, nonchè
dell’art. 10, che prevede l’obbligo degli Stati di conformarsi alle misure adottate dalle istituzioni della Comunità europea.
Con riferimento a tale pronuncia, questa Corte, con
la recente sentenza 18 settembre 2009, n. 20069, ha già
avuto modo di confermare il proprio indirizzo circa
l’immediata efficacia nell’ambito de diritto interno delle pronunce della Corte di Giustizia, quale fonte del
diritto comunitario, ancorché adottate in esito a procedura d’infrazione, con conseguente obbligo del giudice
nazionale di darvi immediata applicazione d’ufficio
(Cass. S.U. 19 dicembre 2006, n. 26948; si veda pure:
Cass. n. 4066 del 2005, secondo cui la pronuncia della
Corte di Giustizia che dichiara uno Stato membro inadempiente agli obblighi comunitari ad esso imposti
comporta il divieto assoluto di applicare il regime legale ritenuto illegittimo).
Tanto precisato, è noto che la previsione relativa alla
sospensione dei termini di impugnazione di cui alla L.
n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, trova la sua collocazione normativa nell’ambito delle disposizioni di
legge che prevedono la facoltà per i contribuenti di definire le liti fiscali pendenti avvalendosi del condono.
La disapplicazione della norme sul condono di cui
alla L. n. 289 del 2002 alle infrazioni fiscali in materia
di iva, conseguente alla menzionata sentenza della Corte di Giustizia CE, pone quindi il quesito se la sospensione dei termini di impugnazione prevista dalla L.
n. 289 del 2002, art. 16, comma 6, debba o meno applicarsi ai giudizi promossi avverso gli avvisi di accertamento e di rettifica adottali per il recupero dell’iva.
La questione, peraltro, non può dirsi di piana ed
agevole soluzione.
A favore della non applicabilità della sospensione del
termine milita invero l’argomento testuale della L. n. 289
del 2002, art. 16, comma 6, che espressamente dispone
la suddetta sospensione “Per le liti fiscali che possono
essere definite ai sensi del presente articolo… “, cioè mediante condono. A ciò può aggiungersi, sul piano sistematico, che la stessa previsione della sospensione dei termini
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processuali appare un sicuro corollario delle prescrizioni
che hanno introdotto il condono fiscale, mostrandosi
essa funzionale alla possibilità concreta degli Uffici finanziari di esaminare le istanze di condono.
In senso contrario, tuttavia, può essere valorizzata
la definizione di “lite pendente” fornita dal comma 3,
lett. a) del medesimo art. di legge, nella cui nozione rientrano senz’altro le controversie in discussione. In favore della applicazione della sospensione dei termini
potrebbero inoltre essere invocati tanto l’esigenza di
tutelare l’affidamento che tale disposizione ha suscitato
tra le parti processuali, quanto il principio, pure di carattere generale, secondo cui le cause di inammissibilità
in campo processuale, in quanto precludenti la tutela
giurisdizionale di merito, sono di stretta interpretazione
ed applicazione. Se si accoglie tale prospettiva, l’ipotesi
ricostruttiva delle disposizioni in materia incise dalla
pronuncia della Corte europea che sembra preferibile,
in quanto più rispondente a queste esigenze, sembra
quella di circoscrivere l’efficacia dell’arresto della Corte
di Giustizia nell’ambito suo proprio, che e indiscutibilmente quello della non condonabilità, da parte della
legge dei singoli Stati, delle violazioni in materia di iva,
escludendo, per contro, che da essa possano derivare
effetti e ricadute ulteriori su altre e diverse disposizioni
della legge nazionale che, pur disciplinando aspetti
della stessa materia o comunque connessi ad essa, non
intaccano il principio affermato.
La questione sollevata, infine, appare di particolare
importanza anche in ragione del gran numero di ricorsi
per Cassazione che prevedibilmente le parti, sia pubbliche che private, hanno proposto tenendo conto e facendo affidamento sulla sospensione del termine di impugnazione prevista dalla disposizione in esame, nei cui
confronti, pertanto, si proporrà l’identica questione.
Alla luce di tali considerazioni, il Collegio, rinvenendo nel caso in esame un questione di massima di particolare importanza, ritiene di dover rimettere i ricorsi al
Primo Presidente affinché valuti l’opportunità che essi
siano decisi dalle Sezioni Unite della Corte.
[…Omissis…]
••• Nota ad ordinanza
1. Con l’ordinanza in epigrafe riportata la Sezione
Tributaria della Corte di Cassazione ha investito le Sezioni Unite per verificare se, in conseguenza della sentenza della Corte di Giustizia Europea C-132/06 del 17
luglio 2008, che ha ritenuto in contrasto con la direttiva
comunitaria in materia di IVA, 17 maggio 1977
n. 77/388/CEE (c.d. VI direttiva), gli artt. 8 e 9 della l.
n. 289 del 2002 (disposizioni riguardanti il condono in
materia di IVA), sia ancora da considerarsi vigente
l’art. 16 della medesima legge, nella parte in cui prevede
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la sospensione dei termini di impugnazione, relativi ai
giudizi promossi avverso gli avvisi di accertamento e
rettifica adottati per il recupero dell’IVA.
2. Può essere utile ripercorrere brevemente il ragionamento attraverso cui la Cassazione giunge a ritenere
indispensabile l’intervento della Suprema Nomofilichia.
L’ordinanza premette che, con la sentenza del 17
luglio 2008 (causa C‑132/06), la Corte di giustizia della
Comunità Europea, nel decidere a seguito di procedura
di infrazione a carico dell’Italia, ha ritenuto in contrasto
con la cd. VI direttiva comunitaria le disposizioni sul
condono contenute negli artt. 8 e 9 della l. n. 289/02.
Ricorda, sempre in via preliminare, che la medesima
Sezione tributaria, in diversa composizione collegiale,
ha ritenuto (sentenza n. 20069 del 17 settembre 2009)
immediatamente efficace, nel diritto interno, la pronuncia della Corte Europea di Lussemburgo sopra citata,
con conseguente obbligo del giudice nazionale darvi
immediata applicazione, anche di ufficio.
Siccome nel caso in esame, l’Agenzia delle Entrate,
nel presentare il ricorso per Cassazione, aveva beneficiato della sospensione dei termini di impugnazione
prevista da altro articolo (l’art.16) della medesima legge
n. 289, la Corte si chiede se la disapplicazione delle
norme sul condono, contenute negli art. 8 e 9, conseguenti all’intervento del giudice comunitario, faccia
venir meno anche la disciplina in materia di sospensione
dei termini, disciplina evidentemente connessa alla possibilità di fruire del provvedimento di definizione agevolata.
Secondo l’ordinanza in esame alla domanda potrebbero essere date due risposte, entrambe plausibili ma
dalle conseguenze opposte.
A favore della caducazione delle disposizioni in materia di sospensione dei termini militerebbe sia un argomento testuale, contenuto nel comma 6 dell’art. 16
della legge citata, che riconosce la sospensione “per le
liti che possono essere definite ai sensi del presente articolo” sia un argomento sistematico, in quanto la previsione di natura procedurale è funzionale alla possibilità degli Uffici finanziari di esaminare e decidere sulle
istanze di condono e, quindi, è un corollario delle prescrizioni in materia proprio di condono; disapplicate
queste ultime, non avrebbe senso far rimanere in vita le
prime.
A sostegno della tesi contraria, invece, può farsi leva
sia sulla definizione di “lite pendente” fornita dalla
lett. a) del comma 3 dell’art. 16, nella cui nozione rientrano le controversie in discussione sia sull’esigenza di
tutelare l’“affidamento” che tale disposizione ha suscitato fra le parti processuali sia sul principio, pure di
carattere generale, secondo cui le cause di inammissibilità in campo processuale sono di stretta interpretazione
ed applicazione.
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In quest’ottica alla sentenza del giudice comunitario andrebbe riconosciuta un’efficacia circoscritta solo
nel suo ambito specifico, senza che da essa si possano
far derivare effetti e ricadute su norme diverse ed ulteriori.
L’alternativa ermeneutica prospettata impone, secondo i giudici della Sezione Tributaria, un intervento dirimente delle Sezioni Unite, atteso che la questione si
appalesa come di particolare rilevanza in relazione al
numero di ricorsi per Cassazione che le parti sia pubbliche che private hanno presentato, facendo affidamento
sulla sospensione dei termini di impugnazione.
3. Siccome il tema specifico oggetto dell’intervento
delle Sezioni Unite non è strettamente collegato con la
questione specifica affrontata dalla Corte Europea, ma
è correlato soltanto agli effetti e alla portata del decisum
nel diritto interno, basterà, qui di seguito, limitarsi ad
una breve sintesi del contenuto della sentenza
C‑132/061.
Pochi mesi dopo l’entrata in vigore della legge
n. 289/02, la Commissione Europea avviò la procedura
prevista dall’art. 226 del Trattato CE (c.d. “procedura
di infrazione”) nei confronti dello Stato italiano per
incompatibilità degli artt. 8 («Integrazione degli imponibili per gli anni pregressi») e 9 («Definizione automatica per gli anni pregressi») della legge da ultimo citata
con norme del Trattato e della c.d. sesta direttiva in
materia di IVA.
In particolare, la disposizione del Trattato ritenuta
violata è l’art. 10 che testualmente afferma:“Gli Stati
membri adottano tutte le misure di carattere generale
e particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dal presente trattato ovvero determinati
dagli atti delle Istituzioni della Comunità. Essi facilitano quest’ultima nell’adempimento dei propri compiti.
Essi si astengono da qualsiasi misura che rischi di compromettere la realizzazione degli scopi del presente
Trattato”.
Le norme della direttiva in materia IVA, 17 maggio
1977 n. 77/388/CEE, con cui si individua il contrasto
sono, invece, gli artt. 2 (secondo cui “sono soggette
all’IVA le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del Paese da un
soggetto passivo che agisce in quanto tale, nonché le
importazioni di beni”) e 22 (in particolare, il punto 4,
secondo cui “Ogni soggetto passivo deve presentare una
1 C. giust. Eur., 17 luglio 2008, C-132/06, in GT-Riv. giur. trib., 2008,
p. 937, con nota di Tinelli, Condono IVA e normativa conunitaria;
id. in Riv. dir. trib., 2008, p. 323 con nota di Falsitta, I condoni fiscali IVA come provvedimenti di natura agevolativa violatori del
principio di neutralità del tributo ; id. in Corr. trib., 2008, p. 2667,
con nota di De Mita, Incompatibile per la Corte UE il condono IVA
con la normativa comunitaria; id. in Giur. it, 2009, p. 239 con nota
di Marello, La Corte di giustizia censura il condono IVA: le ricadute di un’importante decisione.
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dichiarazione entro un termine che dovrà essere stabilito dagli stati membri…”, il punto 5, secondo cui “Ogni
soggetto passivo deve pagare l’importo netto dell’IVA
al momento della presentazione periodica. Gli Stati
membri possono tuttavia stabilire un’altra scadenza per
il pagamento di questo importo o per la riscossione di
acconti provvisori”, il punto 8, secondo cui “… gli stati membri hanno la facoltà di stabilire altri obblighi che
essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’imposta e ad evitare le frodi”).
Lo Stato Italiano, nell’ambito della procedura precontenziosa, respinse gli addebiti, ritenendo, fra l’altro,
che le disposizioni individuate dalla Commissione non
avessero alcun effetto né sugli obblighi dei contribuenti
né sugli elementi costitutivi dell’imposta, ma riguardassero soltanto gli ambiti del controllo e della riscossione,
in relazione ai quali i singoli Stati membri dispongono
di un ampio potere discrezionale.
In data 7 marzo 2006 la Commissione, evidentemente non ritenendo sufficienti le giustificazioni dell’Italia,
proponeva ricorso alla Corte di Giustizia.
Recependo sostanzialmente anche la richiesta dell’avvocato generale Sharpston del 25 ottobre 2007 (2), con
la sentenza del 17 luglio 2008 i Giudici Comunitari
hanno accolto in toto il ricorso della Commissione.
Nella motivazione che accompagna la pronuncia (si
vedano in particolare i par. da 37 a 53), i Giudici Comunitari, riprendendo gran parte degli argomenti della
Commissione, osservano come il sistema comune in
materia di IVA – imposta che, si ricorda, concorre alla
formazione del gettito dell’Unione – imponga ad ogni
Stato membro di adottare tutte le misure più idonee affinché il tributo in esame venga integralmente riscosso.
Quale logico corollario di tale affermazione fanno
derivare l’incompatibilità con la Direttiva citata di quelle norme che possano pregiudicare la riscossione effettiva dell’imposta o introdurre differenze significative nel
trattamento dei soggetti passivi.
Secondo la Corte effetti di tal tipo conseguono dalla
normativa sul condono, avendo lo Stato italiano, con gli
artt. 8 e 9 della legge n. 289 del 2002, di fatto rinunciato all’accertamento delle operazioni imponibili ed alla
riscossione della relativa imposta, a fronte del pagamento da parte dei contribuenti, che decidono di aderire al
condono, di una somma «non equivalente» all’imposta
effettivamente dovuta.
I giudici europei, dopo avere stigmatizzato il condono quale istituto che di fatto favorisce i contribuenti
2 Avvocato generale UE, conclusioni 25 ottobre 2007, causa C-132/06,
Avv. Sharpston, in Corr. trib., 2007, p. 3677, con nota di Corso,
L’avvocato generale UE delinea il contrasto tra condoni IVA 2002 e
normativa comunitaria. Nella nota l’Autore è particolarmente critico rispetto alla contestazione mossa dalla Commissione Europea
all’Italia, che “considera debole in diritto (o almeno contraddittoria”
tanto da che “punta sull’etico”.
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colpevoli di frode (in termini espliciti l’affermazione è
contenuta nel par. 47), concludono dichiarando l’inadempimento dello Stato italiano agli obblighi imposti
dagli artt. 2 e 22 della sesta direttiva nonché dall’art. 10
del Trattato CE.
4. Il giorno stesso della pubblicazione della decisione,
il Ministro dell’Economia diffuse un comunicato stampa con il quale, oltre a prendere atto del contenuto
della decisione della Corte di giustizia ed escludere
l’adozione in futuro di provvedimenti “del tipo oggetto
della sentenza”, volle, soprattutto, rassicurare i contribuenti che avevano aderito al condono circa l’impossibilità di poter procedere ad azioni di accertamento con
riferimento alle annualità per le quali si era aderito allo
strumento premiale, precisando che “sempre per quanto riguarda il passato è, a parere del Governo, un principio valido, tanto nel diritto interno quanto nel diritto
comune, quello della decadenza dell’azione amministrativa. L’ultimo anno oggetto della sentenza risulta
essere in specie decaduto al 31 dicembre 2007”3.
In dottrina, invece, la sentenza, da subito oggetto di
interesse e di numerosi commenti, è stata accolta in
modo non unanime.
Alcuni autori, in modo critico, hanno rilevato come
in molti passaggi la Corte Europea sia stata particolarmente frettolosa nel valutare l’incompatibilità di alcuni
aspetti del condono del 2002, giungendo, persino, a
ritenere che essa si fosse anche arrogata poteri di sindacato legislativo che andavano al di là dei suoi stessi
poteri, previsti dal Trattato 4.
Altri commentatori, invece, hanno plaudito alla
decisione del giudice comunitario, ritenendo sia corretta la statuizione di illegittimità del condono alla luce
della VI direttiva sia positivo l’effetto che, quantomeno
nell’immediato futuro, dovrebbe derivarne e cioè l’impossibilità di emanare nuovi provvedimenti indulgenziali5.
Quasi tutti i primi commentatori, però, sono parsi
concordi nell’evidenziare come la sentenza della Corte
di Giustizia si sia limitata ad accertare un inadempimento al Trattato da parte dello stato Italiano, con l’emanazione degli artt. 8 e 9 della l. n. 289 del 2002, mentre
nessuna conseguenza sul piano pratico sarebbe derivata,
non potendo essa incidere né sulla validità del condono
né tantomeno sull’eventuale ripetibilità delle somme
versate dai contribuenti6.
3 Il comunicato è riportato da Leoni, I giudici comunitari bocciano il
condono IVA, in Riv. dott. comm., 2008, p. 1018.
4 In questo Tinelli, Condono IVA e normativa comunitaria, cit., p.
944; molto critico era pure apparso Corso, L’avvocato generale UE
delinea il contrasto, cit., p. 3678 nel commento la richiesta dell’avvocato generale Sharpton.
5 Marello, La Corte di giustizia censura il condono IVA, cit., 243; De
Mita, Incompatibile per la Corte UE il condono, cit., 2672.
6 Così, De Mita, Incompatibile per la Corte UE il condono, cit., 2674,
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5. Ben diversa, invece, è stata la strada percorsa
dalla giurisprudenza.
In due casi (almeno noti), la Sezione tributaria della
Corte di Cassazione si è occupata degli effetti della
sentenza C-132/06 e non solo ha dato per scontato che
la decisione della Corte Europea avesse come conseguenza la non applicabilità degli articoli 8 e 9 della l.
n. 289/02 ma si è spinta in là, disapplicando anche, di
ufficio, le analoghe disposizioni di precedenti provvedimenti indulgenziali.
Nella prima pronuncia7, essendo stata chiamata la
Corte a decidere su di una complessa vicenda di due
domande di condono presentate, rispettivamente ai
sensi della l. n. 413 del 1991 e del d.l. n. 41 del 1995,
avverso un unico avviso di irrogazione di sanzioni, la
Corte si è espressa in questo senso: In materia di IVA,
qualora sia stato emesso, per irregolarità formali, avviso di irrogazione di sanzioni, non impugnato dal
contribuente, e questi abbia presentato due domande
di condono fiscale, una in pendenza dei termini di impugnazione (ai sensi degli artt. 44 e ss. della legge 30
dicembre 1991, n. 413) l’altra dopo la scadenza degli
stessi (ex art. 19-bis del d.l. 23 febbraio 1995, n. 41,
convertito nella legge 22 marzo 1995, n. 85), nella
causa avente ad oggetto l’impugnazione della cartella
esattoriale successivamente notificata è superfluo verificare se, mancando il diniego espresso sulla prima
domanda di condono, la stessa sia ancora pendente e
la seconda sia per tale motivo ammissibile; gli artt. 44
e ss. della legge n. 413 cit. vanno infatti disapplicati per
contrasto con gli artt. 2 e 22 della direttiva 77/388/
CEE, del Consiglio, del 17 maggio 1977, coerentemente con quanto affermato dalla Corte di Giustizia (con
sentenza del 17 luglio 2008, causa C-132/06) in riferimento all’omologa disciplina di cui agli artt. 7 ed 8
della legge 27 dicembre 2002, n. 289, per avere la Repubblica Italiana, anche con tali norme, previsto “una
rinuncia generale e indiscriminata all’accertamento
delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una
serie di periodi di imposta”. Pertanto, non dovendosi
prendere in considerazione la prima domanda di condono, l’accertamento è divenuto definitivo e la seconda
domanda è inammissibile.
Nella motivazione, per sostenere l’affermazione secondo cui la sentenza della Corte Europea può spiegare
effetti anche su norme diverse da quelle oggetto del
“giudizio di infrazione”, si sostiene molto stringatamente che “come affermato dalla Corte di Giustizia (fra le
altre, nella sentenza del 6 ottobre 1982 resa nel procedimento CILFIT e Ministero della sanità) sebbene il
6. Molto più articolato e complesso è il ragionamento della Cassazione che viene posto a fondamento di due
sentenze, sostanzialmente “gemelle”, depositate nella
stessa giornata e con una motivazione del tutto coincidente 9.
La controversia in entrambi i casi origina da un ricorso per Cassazione presentato dall’Agenzia per le
Entrate con cui si chiede di cassare, per vari motivi,
sentenze che avevano annullato provvedimenti dell’Amministrazione di diniego di richieste di definizione della
controversia, ai sensi della l. n. 413 del 1991.
La Corte senza assolutamente prendere in considerazione i motivi di ricorso dell’Amministrazione, di
ufficio, da atto che è intervenuta la sentenza della Corte di Giustizia C-132/06 e ritiene di poter estendere gli
effetti demolitori di quella anche alla fattispecie in esame di definizione di una lite pendente, ex art. 44, l.
n. 413 del 1991.
Il principio espresso dalla Corte è del seguente tenore: In tema di condono fiscale, la sentenza della Corte
di Giustizia CE 17 luglio 2008, in causa C-132/06 – secondo la quale la Repubblica Italiana è venuta meno
agli obblighi di cui agli artt. 2 e 22 della sesta direttiva
del Consiglio 17 maggio 1977, 77/388 CEE, in materia
di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri
relative all’ I.V.A., per avere previsto, con gli artt. 7 ed
8 della legge 27 dicembre 2002 n. 289, una rinuncia
generale e indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili effettuate nel corso di una serie di periodi di imposta, così pregiudicando seriamente il
corretto funzionamento del sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto – ha una portata generale, estesa a qualsiasi misura nazionale, sia essa di carattere
legislativo o amministrativo, con la quale lo Stato mem-
Marello, La Corte di giustizia censura il condono IVA, cit., 242;
Tinelli, Condono IVA e normativa comunitaria, cit., p. 946; Falsitta, I condoni fiscali IVA, cit., 339; Leoni, I giudici comunitari bocciano il condono IVA, cit, 1018.
7 Cass., sez. trib., 24 luglio 2009, 17371 CED Cass,.n. 609294.
8 La sentenza della Corte di giustizia a cui si fa riferimento è C. giust.
Eur., 16 ottobre 1982, Cilfit, C-283/81.
9 Ci si riferisce a Cass., sez. trib., 18 settembre 2009, n. 20068, CED
Cass. n.. 609804 e Cass., sez. trib. 18 settembre 2009, n. 20069, non
massimata e citata nel corpo dell’ordinanza in epigrafe.
Trattato obblighi i giudici nazionali di ultima istanza a
sottoporre alla Corte qualsiasi questione interpretativa
dinanzi ad essa sollevata, l’autorità dell’interpretazione
data dalla Corte fa venir meno la causa di tale obbligo
allorché la questione sia sostanzialmente identica ad
altra questione sollevata in relazione ad analoga fattispecie che sia già stata decisa”8.
Da tale considerazione, poi, si fa derivare la regola
che “per l’immediata operatività nell’ordinamento interno delle pronunce della Corte di Giustizia e la identità delle questioni poste dalla normativa di riferimento, [deve] considerar[si] illegittima – per contrasto con
gli artt. 2 e 22 della sesta direttiva del Consiglio 17
maggio 1977, 77/388 CEE – [anche ] la disciplina posta
in materia di condono IVA dalla legge 413/91”.
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bro rinunci in modo generale o indiscriminato, all’accertamento e/o alla riscossione di tutto o parte dell’imposta dovuta, oltre che delle sanzioni per la relativa
violazione, trattandosi di misure di carattere dissuasivo
e repressivo, la cui funzione è quella di determinare il
corretto adempimento di un obbligo nascente dal diritto comunitario. Tale incompatibilità riguarda, quindi,
anche la cd. definizione agevolata delle controversie
tributarie pendenti, prevista dall’art. 16 della legge
n. 289 del 2002 e dagli artt. 44 e ss. della legge 30 dicembre 1991, n. 413, la quale non si limita ad introdurre criteri che consentano una definizione transattiva
delle liti fiscali pendenti, ma comporta una rinuncia
dell’Amministrazione finanziaria, attraverso una misura generale limitata nel tempo, all’accertamento, rimesso al giudice tributario, sulla pretesa fiscale, con conseguente disapplicazione di tali norme ed inapplicabilità delle correlate misure di condono.
Per motivi di brevità, in questa sede può essere sufficiente riportare due soli snodi della particolarmente
diffusa motivazione; un primo quando la Cassazione
afferma, in primo luogo, che “La sentenza della Corte
di giustizia …enuncia una serie di principi fondamentali in materia di applicazione e riscossione dell’I.V.A.
che portano ad escludere la legittimità nel sistema comunitario di meccanismi di condono che attribuiscano
al contribuente la possibilità di sottrarsi all’accertamento con il pagamento di una somma priva di un collegamento effettivo con la imposta sul valore aggiunto
dovuta in un normale sistema di controllo ed esazione
conforme alla normativa fissata dalla Comunità in
materia di I.V.A.”.
Un secondo, quando aggiunge poco più avanti che
“La portata dei principi affermati dalla citata pronuncia è tale che non deve ritenersi compatibile con la disciplina comunitaria in materia di I.V.A. alcuna misura
nazionale, sia essa di carattere legislativo o amministrativo, con la quale lo Stato membro rinunci in modo
generale ed indiscriminato all’accertamento e/o alla
riscossione di tutto o parte dell’imposta dovuta.”.
7. Malgrado tale ultima decisione sia stata accolta
favorevolmente da una parte della dottrina 10, è lecito
nutrire dubbi sulla correttezza delle affermazioni contenute nelle sentenze riportate, che non paiono in linea con
i principi generali che presidiano il diritto comunitario.
In particolare, la Corte in entrambi i casi scrutinati
10 In questo senso, Dominici, Gli effetti dell’incompatibilità con il diritto comunitario dei condoni IVA, in Corr. trib., 2009, 3422. Secondo l’Autore la sentenza della Corte di Cassazione potrebbe legittimare i contribuenti alla ripetizione delle somme versate e potrebbe
avere conseguenze persino sul c.d. scudo fiscale; rileva, infatti, che
“sembra indiscutibile che la rinuncia dello Stato al potere di accertamento limitatamente ai valori <scudati>, nonché i criteri di determinazione dell’importo da corrispondere per fruire della protezione
dello scudo, configgano radicalmente con detti principi”.
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sembra non porsi affatto il problema di quale debba
essere il valore di una sentenza della Corte di Giustizia
europea pronunciata a seguito di contestata infrazione
e si comporta, quasi, come se ci si trovasse al cospetto
di una sentenza demolitoria della Corte Costituzionale.
La Corte Costituzionale11 e la dottrina12 sono, invece,
assolutamente concordi nell’affermare che le statuizioni
della Corte di giustizia delle Comunità Europee emesse
a seguito di procedura di infrazione hanno lo stesso
valore ed efficacia della norme comunitarie cui ineriscono.
Sarebbe stato, quindi, indispensabile da parte della
Sezione tributaria preliminarmente verificare se le disposizioni della VI direttiva in materia di IVA, sulla cui
scorta è stata ritenuta l’infrazione, avessero o meno i
caratteri per poter essere considerate self executing.
E qui per evitare che il discorso possa diventare particolarmente lungo, basterà ricordare come il tema sia
considerato dagli studiosi fra i più spinosi e complessi.
11 Così C. Cost., 11 luglio 1989, n. 389, in Foro it., 1991, I, c. 1076
nella cui motivazione ebbe a dire esplicitamente che “poiché …
spetta alla Corte di Giustizia assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del… trattato, se ne deve dedurre
che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di Giustizia, come interprete
qualificato di questo diritto, ne precisa autoritativamente il significato con le proprie sentenze e per tal via ne determina, in via definitiva, l’ampiezza ed il contenuto delle possibilità applicative. Quando
questo principio viene riferito a una norma comunitaria avente effetti diretti – vale a dire una norma dalla quale i soggetti operanti
all’interno degli ordinamenti degli Stati membri possono trarre situazioni giuridiche direttamente tutelabili in giudizio – non v’è
dubbio che la precisazione o l’integrazione del significato normativo
compiute attraverso una sentenza dichiarativa della Corte di Giustizia abbiano la stessa efficacia delle disposizioni interpretate”. In
termini analoghi, anche C. Cost. 18 aprile 1991, n. 168 in Foro it.,
1992, I, c. 660, con nota di Daniele, Corte Costituzionale e direttive
comunitarie e C. cost. 13 luglio 2007, n. 284, in Giur. Cost., 2007,
p. 2780 con nota di Guazzarotti, Competizioni fra giudici nazionali e intervento della Corte di Giustizia. Va, però, ricordato come
parte della dottrina sia perplessa rispetto all’idea di riconoscere alle
sentenze della Corte il valore di valore normativo, evidenziando,
infatti, che “il giudice, a differenza del legislatore, non fissa una regola per ipotetici casi futuri, ma per un caso concreto ed attuale;
così, Ghera, Pregiudiziale comunitaria, pregiudiziale costituzionale
e valore di precedente delle sentenze interpretative della Corte di
Giustizia, in Giur. Cost., 2000, p. 1214.
12 Secondo Mastroianni, Le norme comunitarie non direttamente efficaci costituiscono parametri di costituzionalità delle leggi interne?,
in Giur. Cost. 2006, p. 3523 “anche l’intervento di una sentenza
della corte di giustizia, sia in sede di interpretazione della direttiva
medesima sia in sede di accertamento della violazione da parte di
uno Stato membro, dell’obbligo di dar i corretta esecuzione, non è
capace di modificare la natura della fonte oggetto di intervento e
dunque di correggere il <vizio> di origine: la direttiva rimane improduttiva di effetti diretti nei rapporti orizzontali, e la sentenza ex
art. 226 CE comporta in concreto le sole conseguenze indicate dalle
norme del Trattato (vale a dire un’eventuale successiva condanna
della Corte di Giustizia nei confronti dello Stato inadempiente), non
senza offrire solide basi per un’eventuale azione risarcitoria”. Negli
stessi termini, anche, ex plurimis, Tesauro, Diritto comunitario,
Padova, 2008.
F O R E N S E
n o v e m b r e • d i c e m b r e
In linea di principio si può affermare che una direttiva non trasposta (in tutto, in parte e/o non correttamente) in una legge nazionale può avere efficacia direttamente nell’ordinamento giuridico nazionale solo in
presenza di specifiche condizioni.
In primo luogo, deve avere un contenuto precettivo
sufficientemente chiaro e preciso, tale da non essere
condizionato all’emanazione di atti ulteriori 13.
Quanto, invece, ai soggetti nei cui confronti essa può
essere applicata, la giurisprudenza comunitaria afferma
che essa potrà essere fatta valere soltanto nei c.d. rapporti “verticali”, vale a dire nei confronti dello Stato,
allo scopo, quindi, di tutelare i diritti dei singoli nei
confronti di questo 14.
Non sarebbe, invece, consentita l’operazione inversa,
vale a dire l’’invocazione, da parte dell’Amministrazione pubblica di una direttiva non recepita a danno di un
privato (c.d. effetti diretti verticali “inversi”). Tale conclusione si impone per due motivi; in primo luogo, per
ragioni di certezza del diritto: il privato non è tenuto a
conoscere la presenza di una direttiva non recepita, a
maggior ragione se detta conoscenza gli viene preclusa
dal comportamento del suo legislatore; in secondo luogo, perché, nel caso degli effetti verticali inversi, non
vale la motivazione che giustifica l’applicazione diretta
delle direttive in favore del privato, cioè la necessità di
evitare che lo Stato possa trarre vantaggio da un suo
inadempimento15.
13 Così C. giust. Eur. del 17 ottobre 1989, Carpaneto Piacentino,
C-231/87 e 129/88, punto 30, secondo cui “ogniqualvolta delle disposizioni di una direttiva appaiano, quanto al loro contenuto, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono
essere richiamate, in mancanza di provvedimenti di attuazione adottati nei termini, per opporsi a qualsiasi norma di diritto interno non
conforme alla direttiva, ovvero in quanto sono atte a definire diritti
che i singoli possono far valere nei confronti dello Stato”.
14 Così C. giust. Eur. 26 febbraio 1986, Marshall, C- 152-8, punto 48:
“Quanto all’argomento secondo il quale una direttiva non può essere fatta valere nei confronti di un singolo, va posto in rilievo che,
secondo l’art.189 del Trattato, la natura cogente della direttiva sulla
quale è basata la possibilità di farla valere dinanzi al giudice nazionale, esiste solo nei confronti dello “stato membro cui e rivolta”. Ne
consegue che la direttiva non può di per sé creare obblighi a carico
di un singolo e che una disposizione di una direttiva non può quindi
essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso”.
15 Secondo C. giust. Eur. 7 gennaio 2004, Delena Wells C-201/02, infatti, “occorre rilevare che il principio della certezza del diritto osta
a che le direttive possano creare obblighi a carico dei singoli. Nei
confronti di questi ultimi, le disposizioni di una direttiva possono
generare solo diritti” (così, punto 56); La giurisprudenza della Corte europea ha cercato di riconoscere gli effetti diretti in modo più
ampio possibile, ammettendo l’invocabilità della direttiva non soltanto nei confronti dello Stato in senso stretto ma anche verso enti
territoriali, autorità che offrono servizi sanitari pubblici e più in generale organismi che siano stati incaricati di prestare servizi di interesse pubblico, disponendo di poteri di natura pubblicistica; così, C.
giust. Eur. 26 febbraio 1986, C- 152-84 cit. e C. giust. Eur. 14 settembre 2000, Telecom Italia, C-343/98 (all. n. 25), punto 23.
2 0 0 9
111
La direttiva, infine, non può essere invocata nell’ambito di rapporti tra i privati (effetto cd orizzontale)16.
Nei due casi sopra riferiti, invece, applicando i principi giuridici contenuti nella sentenza della Corte di
Lussemburgo C. -132/06 in modo sfavorevole al contribuente, la Cassazione sembrerebbe aver, di fatto, riconosciuto alla direttiva sottostante “effetti verticali inversi”, considerati vietati dalla giurisprudenza pacifica
della Corte di giustizia europea.
8. Il compito che attende le Sezioni Unite è, quindi,
particolarmente impegnativo, perché per risolvere il
quesito specifico sottopostogli – e cioè se debba considerarsi anche non applicabile la disposizione in materia
di termini processuali contenuta nell’art. 16 della l.
n.289/02 – dovrà necessariamente fare chiarezza su temi
ormai di quotidiano impatto sulla giustizia italiana,
visti la particolare “invasività” del diritto e della giurisprudenza comunitaria.
Potranno, ci si augura, essere posti punti fermi su
quali debbano essere gli effetti nel diritto interno delle
sentenze della Corte di Giustizia e delle direttive non
trasposte correttamente.
tributario
Gazzetta
16 Il principio è affermato pacificamente anche nella giurisprudenza
italiana; così, Cass., sez. I, 20 marzo 1996 n. 2369, CED
Cass,.n. 496459 secondo cui “La direttiva del Consiglio CEE 20
dicembre 1985, n. 577, in materia di vendite fuori dei locali commerciali – la quale, pur contenendo norme incondizionate e sufficientemente precise circa la determinazione dei beneficiari ed il termine
entro cui esercita il diritto di recesso, non può considerarsi operante
nei rapporti tra i privati (ma soltanto in quelli tra i singoli e lo Stato
membro, al quale la direttiva è indirizzata) prima dell’emanazione
del provvedimento interno di attuazione (in Italia, il d. lgs. n. 50 del
1992) – deve considerarsi collocata tra le fonti del diritto rilevanti
nell’ordinamento italiano fin dal momento in cui scade il termine per
l’attuazione senza che avvenga il formale recepimento; con la conseguenza che di essa, ancorché non sia ancora idonea a disciplinare
immediatamente i rapporti tra i privati, deve tenersi conto nella
configurazione dei principi regolatori della materia della tutela del
consumatore nella conclusione dei contratti di vendita mobiliare con
un operatore commerciale, stipulati al domicilio del primo (nella
specie, la S.C. ha confermato la decisione del conciliatore che aveva
ritenuto conforme ad equità applicare i principi della richiamata
direttiva comunitaria, benché all’epoca dei fatti questa non fosse
stata ancora recepita nell’ordinamento italiano)”. Negli stessi termini anche Cass., sez. I, 9 novembre 2006, n. 23937, e Cass. sez. I, 16
ottobre 2006, n. 22125, ivi, n. 592784.
diritto
Internazionale
Rassegna di giurisprudenza comunitaria
e internazionale
115
internazionale
A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e Specialista in diritto ed economia delle Comunità europee
Gazzetta
F O R E N S E
●
2 0 0 9
115
Corte di Giustizia dell’Unione Europea
● A cura di Francesco Romanelli
Avvocato e Specialista in diritto ed economia
delle Comunità europee
Sentenza della Corte
(Settima Sezione), 12 novembre 2009 (Causa C-12/09)
Inadempimento di uno Stato – Direttiva 2006/17/
CE – Prescrizioni tecniche per la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di tessuti e cellule
umani – Omessa trasposizione entro il termine impartito
L’Italia è stata condannata dalla Corte per il mancato tempestivo e corretto recepimento della direttiva
della Commissione 8 febbraio 2006, 2006/17/CE, che
attua la direttiva 2004/23/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio per quanto riguarda determinate prescrizioni tecniche per la donazione, l’approvvigionamento
e il controllo di tessuti e cellule umani.
Sentenza della Corte
(Ottava Sezione) 17 dicembre 2009 (C‑586/08)
Riconoscimento di diplomi – Nozione di “professione
regolamentata” – Selezione di un numero predeterminato di persone attraverso una valutazione comparativa che attribuisce un titolo di limitata validità temporale – Idoneità scientifica nazionale – Docente universitario
(Direttiva 2005/36/CE)
Nel procedimento C‑586/08, avente ad oggetto la
domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con decisione 9 luglio 2008, la
Corte ha statuito che:
La professione di docente universitario non costituisce una professione regolamentata. La circostanza che
l’accesso ad una professione sia riservato ai candidati
selezionati mediante una procedura diretta ad ottenere
un numero predeterminato di persone sulla base di una
valutazione comparativa dei candidati piuttosto che
mediante l’applicazione di criteri assoluti e che conferisce un titolo la cui validità temporale è strettamente limitata non implica che tale professione sia una professione regolamentata ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. a),
della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio
7 settembre 2005, 2005/36/CE, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali. Tuttavia, gli
artt. 39 CE e 43 CE impongono che le qualifiche acquisite in altri Stati membri siano riconosciute per il loro
giusto valore e siano debitamente prese in considerazione nell’ambito di tale procedura
In seguito allo svolgimento di attività universitarie
iniziate nel 1991, il ricorrente, cittadino italiano, ha
ottenuto nel 2005 l’«Habilitation» (facultas legendi) per
la materia Oceanografia, nonché la «Lehrbefugnis»
(venia legendi) presso la Facoltà di Scienze geofisiche
dell’Università di Amburgo (Germania). Detti titoli
confermano la sua idoneità all’insegnamento universitario in qualità di professore ordinario («Ordinarius»)
internazionale
Rassegna
di giurisprudenza
comunitaria
e internazionale
n o v e m b r e • d i c e m b r e
116
D i r i t t o
I n t e r n a z i o n a l e
nel sistema di istruzione superiore tedesco. Chiesto il
riconoscimento in Italia delle qualifiche che aveva acquisito in Germania, al fine di essere iscritto nell’elenco
dei possessori dell’ISN, il ricorrente si è sentito respingere la propria domanda dal Ministero italiano dell’Università che ha contestato l’equivalenza tra la «Lehrbefugnis» rilasciata in Germania e l’ISN propria del sistema universitario italiano, precisando che il decreto legislativo n. 206/2007 non è applicabile in quanto la
professione di docente universitario non costituisce una
professione regolamentata in Italia, perché riguarda il
personale assunto attraverso una procedura di selezione cui è possibile partecipare senza che sia richiesto il
possesso di un titolo di studio determinato. Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, investito della
questione, ha sottoposto alla Corte il seguente quesito:
«Se i principi comunitari di eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione di persone e servizi tra Stati
membri della Comunità [europea], e di reciproco riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli, di cui
agli artt. 3, n. 1, lett. c), [CE] e 47, n. 1, [CE], e le disposizioni contenute nella direttiva 2005/36 […] ostino
a una normativa interna, come […] il decreto legislativo
n. 206/2007, che esclude i docenti universitari dall’ambito delle professioni regolamentate ai fini del riconoscimento di qualifiche professionali».
Sentenza della Corte
(Prima Sezione) 17 dicembre 2009 (C‑227/08)
Tutela dei consumatori – Contratti negoziati fuori
dei locali commerciali – Diritto di recesso – Obbligo
d’informazione da parte del commerciante – Nullità del contratto – Misure appropriate
(Direttiva 85/577/CEE – Art. 4)
Nel procedimento C‑227/08, avente ad oggetto la
domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dall’Audiencia Provincial
de Salamanca (Spagna), con decisione 20 maggio 2008,
la Corte ha statuito che:
L’art. 4 della direttiva del Consiglio 20 dicembre
1985, 85/577/CEE, per la tutela dei consumatori in
caso di contratti negoziati fuori dei locali commerciali
non osta a che un giudice nazionale dichiari d’ufficio
la nullità di un contratto rientrante nell’ambito di applicazione di tale direttiva a causa della circostanza che
il consumatore non era stato informato del suo diritto
di recesso, anche qualora detta nullità non sia mai stata fatta valere dal consumatore dinanzi ai giudici nazionali competenti.
La ricorrente aveva acquistato della merce fuori dai
locali commerciali. A seguito del mancato pagamento
del prezzo, la venditrice aveva chiesto ed ottenuto dal
Tribunale di Salamanca l’emissione di un decreto ingiuntivo per il pagamento del prezzo, degli interessi e delle
spese. Proposto gravame, la Corte d’Appello provinciale, ritenendo che il contratto fosse nullo perché l’acqui-
Gazzetta
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rente non era stata informata della facoltà di recesso,
ma che né in primo grado né in appello la ricorrente
avesse eccepito tale nullità, sul presupposto della non
rilevabilità di ufficio di essa, ha posto alla Corte il seguente quesito: «Se l’art. 153 CE, letto in combinato
disposto con gli artt. 3 CE e 95 CE, con l’art. 38 della
Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché con la direttiva] e in particolare con l’art. 4 di
quest’ultima, debba essere interpretato nel senso che
consente al giudice investito del ricorso d’appello avverso la sentenza di primo grado di dichiarare d’ufficio la
nullità di un contratto rientrante nell’ambito di applicazione della suddetta direttiva, qualora risulti che tale
nullità non è mai stata eccepita in alcun momento dal
consumatore convenuto, né nell’ambito dell’opposizione
al procedimento ingiuntivo, né in sede di udienza, né nel
ricorso di appello».
Sentenza della Corte
(Settima Sezione) 12 novembre 2009 (C-12/09)
Inadempimento di uno Stato – Prescrizioni tecniche
per la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di tessuti e cellule umani – Omessa trasposizione entro il termine impartito
(Direttiva 2006/17/CE)
Nel procedimento C-12/09, avente ad oggetto la richiesta di condanna dell’Italia da parte della Commissione Europea per la mancata tempestiva trasposizione
nel diritto nazionale della direttiva della Commissione
8 febbraio 2006, 2006/17/CE, che attua la direttiva
2004/23/CE del Parlamento europeo e del Consiglio per
quanto riguarda determinate prescrizioni tecniche per
la donazione, l’approvvigionamento e il controllo di
tessuti e cellule umani, la Corte ha dichiarato:
La Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi
che ad essa incombono in forza dell’art. 7, n. 1, primo
comma, della direttiva 2006/17.
Il caso è, come spesso accade, paradossale, scaduto
il termine per la trasposizione nel diritto nazionale di
una direttiva, la Commissione, in assenza di qualsiasi
informazione relativa ai provvedimenti adottati dalla
Repubblica italiana per assicurare il recepimento della
direttiva stessa nel proprio ordinamento giuridico interno, ha avviato il procedimento per inadempimento
di cui all’art. 226 CE intimando a tale Stato membro,
di presentare le proprie osservazioni. Non avendo ottenuto risposta, la Commissione, ha emesso un parere
motivato con cui ha invitato la Repubblica italiana ad
adottare i provvedimenti necessari per il recepimento
della direttiva 2006/17 entro due mesi a decorrere dal
ricevimento di tale parere motivato. Finalmente, la
Repubblica italiana ha risposto al detto parere motivato comunicando alla Commissione che, ai fini di tale
recepimento, il Consiglio dei Ministri, successivamente
alla notifica del parere motivato, aveva adottato uno
schema di decreto legislativo, il quale doveva essere
Gazzetta
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n o v e m b r e • d i c e m b r e
sottoposto per i prescritti pareri alla Conferenza «StatoRegioni» e alla competente commissione parlamentare,
per cui l’approvazione definitiva delle disposizioni necessarie al detto recepimento era prevista per il 1° agosto 2008. La Commissione ha deciso quindi di ricorrere alla Corte per far dichiarare l’inadempimento dell’Italia. Nel controricorso, la Repubblica italiana non ha
contestato l’inadempimento fatto valere, precisando che
l’iter legislativo diretto ad assicurare il recepimento non
fosse ancora concluso. Secondo costante giurisprudenza comunitaria, l’esistenza del contestato inadempimento deve essere valutata in relazione alla situazione dello
Stato membro quale si presentava alla scadenza del
termine stabilito nel parere motivato e che i mutamenti
intervenuti in seguito non possono essere presi in considerazione dalla Corte (v., in particolare, sentenza 17
gennaio 2008, causa C‑152/05, Commissione/Germania, Racc. pag. I‑39, punto 15 e la giurisprudenza ivi
menzionata). Peraltro, uno Stato membro non può eccepire disposizioni, prassi o situazioni del proprio ordinamento giuridico interno per giustificare l’inosservanza degli obblighi e dei termini prescritti da una direttiva (in particolare, sentenza 28 giugno 2007, causa
C‑235/04, Commissione/Spagna, Racc. pag. I‑5415,
punto 55).
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117
ressi dovuti sino alla data della sentenza della Corte,
detratti gli indennizzi già corrisposti.
La sentenza della Grande Camera stabilisce, a parziale modifica della decisione appellata, che l’adeguatezza dell’indennizzo deve valutarsi senza far riferimento
alle varie circostanze atte a ridurne il valore, come il
decorso di un considerevole lasso di tempo, deducendo
l’importo ottenuto al livello nazionale e la differenza con
il valore di mercato all’epoca dell’accessione invertita;
tale valore dovrà essere convertito in valuta corrente per
eliminare gli effetti dell’inflazione. In più gli interessi
dovranno essere pagati su tale importo al tasso legale
sul capitale progressivamente rivalutato.
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
Con la sentenza in commento, è stato definito l’appello proposto avverso la sentenza del 21 ottobre 2008
con la quale era stata dichiarata la violazione dell’art. 1
del protocollo n. 1 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in caso di occupazione acquisitiva e, abbandonato l’usuale metodo di calcolo dell’equo indennizzo basato sul valore di mercato della terra, aggiornato per tener conto dell’inflazione e rivalutato per tener
conto del valore degli edifici realizzati dall’autorità
espropriante, era stato adottato un nuovo metodo basato sul valore di mercato della proprietà alla data in cui
il ricorrente aveva la legale certezza di aver perso il diritto di proprietà, somma da incrementare con gli inte-
internazionale
Sentenza della Corte
(Grande Camera) 22 dicembre 2009
convenzione europea dei diritti dell’uomo – Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali emendato dal Protocollo n. 11 – protezione
della proprietà (art. 1).
In ipotesi di accessione invertita, i proprietari illegittimamente privati del bene hanno diritto ad ottenere il pieno valore di mercato della proprietà al tempo
dello spossessamento e non al momento della sentenza
che dichiari l’avvenuta espropriazione acquisitiva, importo rivalutato all’attualità per tener conto degli effetti dell’inflazione.
questioni
A cura di Mariano Valente, Magistrato
DIRITTO CIVILE
Rifiuto del coacquisto da parte di coniuge
in comunione legale dei beni
121
Flora Caputo
Dottore in giurisprudenza
DIRITTO PENALE
Peculato
123
Chiara Cucinella
Dottore in giurisprudenza
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Tutela dei controinteressati comproprietari
di bene immobile
125
Francesca Bonito
Avvocato
DIRITTO TRIBUTARIO
Massimo Tupone
Avvocato
126
questioni
Procedimento monitorio civilistico
per l’adempimento di obblighi di fare tributari
F O R E N S E
●
DIRITTO CIVILE
Rifiuto del coacquisto
da parte di coniuge
in comunione legale
dei beni
Quali sono le novità introdotte
dal D.Lgs. 142/08 in materia
di stima dei conferimenti
in natura?
● Flora Caputo
Dottore in giurisprudenza
La questione del c.d. “rifiuto del
coacquisto” inerisce all’ammissibilità di una dichiarazione negoziale
contestuale all’atto di acquisto, con
cui un coniuge in regime di comunione legale dei beni impedisce che
il bene oggetto dell’acquisto cada in
comunione, in assenza dei presupposti ex art. 179 c.c.
Il dato di partenza è costituito
senza dubbio dalla sentenza della
Cassazione del 2 giugno 1989,
n. 2688, in cui si afferma la validità
di una siffatta dichiarazione, ammettendosi una deroga al disposto
di cui all’art. 177 lett. a) c.c., per
volontà concorde dei coniugi, resa
nella forma richiesta per le convenzioni matrimoniali. Il coniuge che
non abbia interesse alla caduta in
comunione di un determinato bene
ha il potere di rendere una dichiarazione negoziale dismissiva (una
vera e propria rinunzia all’acquisto),
sia in omaggio al generale principio
nemo locupletari potest invito, e sia
perché, ex art. 2647 c.c., è espressamente previsto che i coniugi possano derogare in parte – con apposita convenzione in forma pubblica – alla disciplina della comunione
legale.
La conseguenza più immediata è
che nelle ipotesi di deviazione una
tantum dalla disciplina della comunione ci si trova di fronte ad un
“disallineamento” tra le risultanze
n o v e m b r e • d i c e m b r e
2 0 0 9
dell’atto di matrimonio e l’effettivo
regime patrimoniale vigente tra i
coniugi, essendo un bene soggetto
di fatto a due diversi statuti, uno
valido per i rapporti interni, l’altro
per quelli esterni, con inevitabili
conseguenze per la tutela dei terzi.
La tesi dell’ammissibilità del c.d.
rifiuto del coacquisto viene portata
alle estreme conseguenze negli anni
successivi, quando si ammette l’intervento (in presenza di un accordo
dei coniugi anche fuori delle ipotesi
dell’art. 179 c.c.) purché in relazione
ad un acquisto concluso con l’impiego di denaro proveniente dal lavoro
proprio del coniuge che sta comprando, o, più genericamente, personale
(Cass. 18 agosto 1994, n. 7437).
Un tale indirizzo, tuttavia, finendo con il ridurre ai minimi termini il
significato della comunione legale,
rendendola, nella pratica, un regime
patrimoniale contenente solo un
programma di massima suscettibile
di continui adattamenti e modellabile in base alle esigenze manifestate
dai coniugi ad nutum, ha fatto progressivamente emergere, sin dalla
fine degli anni Novanta, l’opposta
tesi restrittiva, fondata su una concezione più rigorosa della famiglia e
del regime di comunione legale, cui
attribuire un’importanza sociale tale
da tradursi in un vincolo insormontabile di indisponibilità per le parti.
Tra le prime pronunce in questo
senso vi è la numero 9355 del 23
settembre 1997, con cui la Suprema
Corte chiarisce che i beni acquistati
con i proventi dell’attività separata
di uno dei coniugi entrano subito in
comunione e di pieno diritto, senza
che sia possibile escluderli con la
dichiarazione di cui all’art. 179 lett.
f) c.c., applicabile solo all’acquisto
mediante utilizzo dei proventi della
vendita di beni personali.
Gradatamente si giunge ad interpretare l’art. 179 c.c. come norma
eccezionale non suscettibile di interpretazione analogica: le ipotesi in
cui vi può essere esclusione dalla
comunione legale di un bene, da
attuarsi sempre attraverso una convenzione matrimoniale che rispetti
121
i requisiti di forma e di sostanza
imposti ex artt. 161 e 210 c.c., sono
tassativamente elencate e devono
rispettare i presupposti oggettivi
previsti dalla legge (Cass. 27 febbraio 2003, n. 2954). La qualità di bene
“personale” e la conseguente esclusione dalla comunione, nel caso di
cui all’articolo 179, comma 1, lettera f) c.c., non conseguono, cioè, per
il semplice fatto che il bene sia stato
acquistato con denaro proprio di
uno dei coniugi essendo piuttosto
necessario, affinché tale esclusione
abbia luogo, che l’acquisto sia stato
effettuato con denaro proveniente
dalla vendita di beni personali
(Cass. n. 9355 del 1997 cit.) o mediante la permuta con altri beni
personali (Cass. 8 febbraio 1993,
n. 1556). In secondo luogo, la partecipazione al contratto del coniuge
(formalmente) non acquirente, ed il
suo eventuale assenso esplicito
all’acquisto personale da parte
dell’altro, non sono considerati dalla legge, rettamente interpretata,
elementi di per sé sufficienti ad
escludere l’acquisto dalla comunione coniugale. Il consenso non può
costituire efficace rinunzia alla comunione neppure nel caso dell’articolo 179, comma 2 c.c., allorché
l’esclusione dipenda non dalla rinunzia del coniuge, ma dal carattere
“personale” del bene (comma 1) e
dal fatto (comma 2) che detto carattere risulti espressamente dall’atto
di acquisto, quando abbia partecipato alla stipula anche il coniuge
non acquirente.
Laddove i coniugi abbiano scelto
il regime di comunione legale, rectius quando ex art. 159 c.c. non ne
abbiano scelto uno alternativo, i
coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità
esclusiva dei beni acquistati durante
il matrimonio (art. 215 c.c.) od anche instaurare fra loro un regime di
comunione convenzionale, modificando quello tipico (art. 210 c.c.);
ma tali convenzioni, oltre a soggiacere a determinate forme (art. 162
c.c.), riguardano sempre il regime
patrimoniale complessivo della fa-
questioni
Gazzetta
122
miglia (hanno cioè carattere “programmatico”) e non possono essere
limitate a beni specifici, compresi
nella comunione legale. In pratica i
coniugi possono programmare di
vivere in comunione, possono programmare di vivere in una comunione legale corretta – ad esempio
escludendo tutti gli immobili in
Campania – ma non possono escludere con un unico atto un solo bene
(c.d. convenzioni dispositive)
La tesi restrittiva avanzata dagli
ermellini nel 2003, testé esposta,
non è però stata esente da critiche:
dover tutelare il coniuge più debole
anche contro la sua volontà liberamente espressa – e spesso contro i
suoi stessi interessi – in nome di un
interesse superiore di natura pubblicistica può sembrare una scelta anacronistica; una interpretazione di
questo tipo rende ancor più rigide
norme che invece andrebbero rese
più elastiche, e costringe i coniugi
alla stipula di convenzioni matrimoniali spesso non volute e non rispondenti alla effettiva regolamentazione
degli interessi familiari.
Inoltre, si è detto, se le parti
possono derogare totalmente al regime patrimoniale legale, a maggior
ragione possono impedire la verificazione degli effetti di tale regime
rispetto ad un singolo atto di acquisto. Sotto questo profilo, il secondo
comma dell’art. 179 si porrebbe
accanto all’art. 159, rientrando,
cioè, tra le possibilità offerte alla
autonomia privata di rendere inoperante il regime patrimoniale legale.
Nella pratica i casi possono essere due:
a) atti contenenti la dichiarazione
generica, rilasciata dal coniuge
acquirente, che il denaro impiegato per l’acquisto è suo personale, confermato magari dall’altro coniuge;
b) atti contenenti la dichiarazione
del coniuge acquirente che dichiara di essere coniugato in regime di comunione, ma che l’acquisto viene effettuato con denaro proveniente dalla vendita di
beni suoi personali (o acquisiti
q u e s t i o n i
con lo scambio di beni suoi personali) ai sensi dell’articolo 179,
lett. f), c.c. e quindi escluso dalla
comunione legale, come l’altro
coniuge presente in atto riconosce e conferma.
La sentenza della Cassazione da
ultimo citata sembrerebbe riferirsi
solo al caso sub a).
L’ultimo indirizzo giurisprudenziale, quindi, interpreta in modo
restrittivo le norme sulla comunione
legale (e soprattutto l’art. 179 c.c.),
sia in un’ottica di tutela degli interessi della famiglia, che di tutela
dell’affidamento dei terzi che potrebbero rimanere danneggiati a
causa dei problemi in tema di pubblicità.
La Corte di Cassazione, successivamente, ha affrontato funditus il
problema della natura giuridica della dichiarazione resa dal coniuge
escluso, e della necessarietà o meno
della contestualità dello stesso all’atto di acquisto (Cass. 24 settembre
2004, n. 19250). La dichiarazione in
parola, si è detto, ha mero valore di
dichiarazione di scienza, cui è assegnata sostanzialmente una funzione
di controllo della sussistenza dei
presupposti richiesti dalla legge per
l’esclusione del bene dalla comunione (si affida, cioè, al coniuge interveniente la verifica della personalità del
bene), principalmente in funzione di
tutela dell’affidamento dei terzi.
Vien da sé che, stante questa ricostruzione, la dichiarazione debba
essere necessariamente contestuale
all’atto di acquisto, al contrario di
quanto si era affermato in passato,
quando la tesi predominante non
riteneva essenziale la dichiarazione
in commento – surrogabile con altri
mezzi di prova – ma essenziale era
solo la certezza della provenienza
del denaro. Tale ultimo assunto, si
fa notare, è stato ripreso da una
recente sentenza (Cass. 20 gennaio
2006, n. 1197) che sottolinea l’automatismo della surrogazione reale
laddove ricorrano i presupposti oggettivi stabiliti dalla legge.
La dichiarazione di cui
all’art. 179 c.c. ha, inoltre, valore di
Gazzetta
F O R E N S E
testimonianza privilegiata, che fonda una presunzione juris et de iure
di esclusione della contitolarità
dell’acquisto, che può essere rimossa
nei ristretti limiti di cui all’art. 2732
c.c. (Cass. 6 marzo 2008, n. 6120).
Tutto quanto fin qui detto è stato di recente ribadito dagli ermellini
con una sentenza a Sezioni Unite
(Cass. SS.UU. 28 ottobre 2009,
n. 22755) in cui si è definitivamente
stabilito che nel nostro ordinamento
non trova cittadinanza alcuna il c.d.
rifiuto del coacquisto. Allo stato,
ergo, l’unica possibilità per i coniugi che vogliano escludere un bene
dalla comunione è la stipulazione di
una comunione convenzionale (a
carattere necessariamente programmatico); l’intervento in atto del coniuge non acquirente per effettuare
la dichiarazione di cui all’art. 179
c.c. serve solo a confermare la sussistenza dei presupposti per cui un
bene acquistato in pendenza di matrimonio in regime di comunione
legale non vi ricade.
L’affermata natura ricognitiva,
che conferma il principio di indisponibilità del diritto alla comunione
legale (già enunciato nelle sentenze
del 2003 e del 2004), sussiste ogniqualvolta la dichiarazione sia resa
da un coniuge per riconoscere che il
corrispettivo dell’acquisto compiuto
dall’altro è pagato col trasferimento
di altri beni già personali, e non
quando serva per esprimere condivisione dell’intento dell’altro coniuge, ad esempio, di destinare alla
propria attività personale il bene che
si sta acquistando; inoltre, quando
la natura personale del bene viene
dichiarata solo in ragione di una sua
futura destinazione sarà l’effettività
della stessa a determinarne l’esclusione dalla comunione, e non certo
la pur condivisa dichiarazione di
intenti dei coniugi circa la sua destinazione. La certezza nella circolazione dei beni risulta, pertanto,
prevalente rispetto all’interesse del
coniuge a realizzare la surrogazione
reale tra prezzo ricavato dalla vendita di un bene personale e nuovo
acquisto immobiliare (alla luce della
n o v e m b r e • d i c e m b r e
F O R E N S E
sentenza del 2006 citata, tale automatismo rimarrebbe operante, però,
nei casi di acquisti mobiliari). Nei
confronti dei terzi l’unico soggetto
deputato a verificare la sussistenza
dei presupposti oggettivi della norma è, perciò, il coniuge escluso; la
dichiarazione è ricognitiva dei presupposti per la “personalità” dell’acquisto, rilevante sia nei rapporti
interni che in quelli esterni.
Tale meccanismo può essere derogato, a ben vedere, solo nell’ipotesi di permuta di bene personale
ove le esigenze di certezza possono
ben ritenersi soddisfatte sulla base
delle risultanze del sistema della
continuità delle trascrizioni.
La dichiarazione de qua è, quindi, elemento costitutivo della fattispecie di esclusione, condizione necessaria ancorché non sufficiente
che deve essere contestuale all’atto
per poter perfezionare l’esclusione
del bene (immobile o mobile registrato) dalla comunione, come sembra confermato dal dato letterale
dell’art. 179 c.c. che richiede espressamente l’intervento del coniuge.
Concludendo, è solo la natura
effettivamente personale del bene a
poterne determinare l’esclusione
dalla comunione, e l’intervento adesivo del coniuge non acquirente ha
la sola – necessaria – funzione di
riconoscimento dei presupposti di
quella limitazione, ove effettivamente esistenti. La dichiarazione svolge
il compito di necessaria documentazione di natura personale del bene,
unico presupposto sostanziale della
sua esclusione, cosicché se esso non
dovesse effettivamente sussistere è
sempre possibile per il coniuge interveniente agire in giudizio per l’accertamento della situazione effettiva
(che presupporrà la revoca della dichiarazione – confessione, entro i
citati limiti di cui all’art. 2732 c.c.).
Va da sé, infine, che un eventuale
accertamento dell’insussistenza dei
presupposti oggettivi richiesti dalla
legge, salvi gli effetti della trascrizione della domanda giudiziale, non è
opponibile al terzo acquirente di
buona fede.
2 0 0 9
●
DIRITTO PENALE
Peculato
La riutilizzazione da parte del
custode cimiteriale di lapidi
ed ornamenti mortuari
altrui, in assenza di richiesta
di restituzione da parte del
proprietario successivamente
alla estumulazione della salma,
è condotta idonea ad integrare il
delitto di peculato?
● Chiara Cucinella
Dottore in giurisprudenza
La trattazione della questione in
oggetto prende spunto da una vicenda processuale relativa al caso di un
custode cimiteriale accusato di peculato, per essersi impossessato di
lapidi marmoree e arredi funerari al
fine di rivenderli a persone diverse
dagli originari proprietari, dopo che
questi ultimi, in seguito alla estumulazione della salma, avevano
mostrato il loro disinteresse verso
tali res.
Il P.M., all’esito delle indagini
preliminari, formulava richiesta di
rinvio a giudizio nei confronti
dell’indagato: il custode, quale esercente di pubblico servizio e nella
disponibilità delle lapidi e degli arredi funerari di cui si impossessava
e che rivendeva, veniva accusato del
reato di peculato ex art. 314 c.p.
Il G.U.P. (Tribunale di Napoli,
G.u.p. ufficio 41°, sent. n.l.p. dep.
19 m a g g io 2 0 0 8 , n . 178 69
R.G.G.I.P), a seguito della richiesta
di rinvio a giudizio, emetteva sentenza di non luogo a procedere.
Premesso che, com’è noto, l’organo giudicante, nell’esaminare la
richiesta di rinvio a giudizio, deve
tendere a paralizzare l’iniziativa
della pubblica accusa quando il
fondamento dell’accusa non sia idoneo a confermare la sua validità nel
123
successivo giudizio, nel decidere in
ordine al caso sottoposto al suo
esame, il G.u.p. ha considerato, in
maniera analitica, la fattispecie
ast rat t a co sì come de s c r it t a
dall’art. 314, co. 1° c.p., e non ha
riscontrato la sussumibilità del caso
concreto in tale fattispecie ritenendo
assente l’elemento dell’altruità delle
res oggetto di appropriazione richiesto dalla fattispecie tipica
L’art. 314 c.p., che descrive il
reato di peculato, inquadra la fattispecie quale reato di danno, perché
richiede l’offesa del bene tutelato e
non la mera esposizione a pericolo
e di mera condotta, di tal che si
perfeziona con l’esecuzione dell’azione illecita.
Il reato di peculato rientra nella
categoria dei reati plurioffensivi
dunque è sufficiente, per la sua integrazione, la lesione del bene indicato dal legislatore come oggetto di
tutela penale. Questo implica che
l’eventuale mancanza di un danno
patrimoniale conseguente all’appropriazione, non esclude la configurabilità del reato, atteso che rimane
pur sempre leso dalla condotta
dell’agente l’interesse al buon andamento della pubblica amministrazione.
L’art. 314, co. 1° c.p., nel descrivere la fattispecie, pone in evidenza
la necessità dell’esistenza di determinati presupposti: in primo luogo
il soggetto attivo dell’illecito penale
deve essere un pubblico ufficiale o
un incaricato di pubblico servizio (
reato proprio); in secondo luogo il
soggetto deve essere nella disponibilità del bene oggetto di appropriazione.
L’elemento oggettivo del reato di
peculato si concreta con l’appropriazione e ciò avviene quando il denaro
o la cosa mobile altrui sono sottratti alla pubblica amministrazione e
posti nella disponibilità ed a profitto dell’autore del fatto o di altri. In
sostanza la condotta appropriativa
si realizza con l’interversione del
titolo del possesso nel pubblico ufficiale o incaricato di un pubblico
servizio i quali cominciano, così, a
questioni
Gazzetta
124
comportarsi uti domini nei confronti delle cose altrui.
L’elemento soggettivo è rappresentato dal dolo generico, che deve
essere inteso come coscienza e volontà di appropriarsi di un bene di
proprietà altrui, del quale si è avuta
la piena disponibilità per ragioni di
servizio o d’ufficio.
Nel caso che ci occupa, il G.U.P.
analizza prima la qualifica del soggetto attivo: l’indagato, quale custode del cimitero, integra la qualifica
di incaricato di pubblico servizio
così come richiesto dall’art. 314 c.p..
Passa, poi, all’analisi della condotta
descritta nella fattispecie nella sua
accezione oggettiva: l’esercente del
pubblico servizio è nella disponibilità delle res.
Quello che però risulta mancante ai fini dell’integrazione della fattispecie è “l’elemento dell’altruità
della cosa oggetto di appropriazione, la consapevolezza di tale altruità
e la volontà di appropriarsene al
fine di trarne profitto”.
Si afferma, infatti, che non può
essere contestato il reato di peculato
ad un esercente di pubblico servizio
che si appropri, avendone la disponibilità per ragione del proprio ufficio, di res derelictae, ovvero di beni
abbandonati – con animus dereliquendi – dal legittimo proprietario,
o di cui il legittimo proprietario si
sia disinteressato in maniera assoluta, dimostrando, per facta concludentia, la volontà di disfarsene.
Alla luce di questi canoni ermeneutici, il G.U.P. ritiene di poter
qualificare come res derelictae le
lapidi e gli ornamenti mortuari, di
cui il custode si sarebbe appropriato. Sulla base delle risultanze probatorie emergeva, infatti, che i parenti,
al momento dell’esumazione dei
propri cari, alla quale essi stessi
erano presenti, avevano lasciato che
il custode portasse via le lapidi o gli
altri arredi, senza chiederne la restituzione né al momento, né successivamente, dimostrando, con tale
comportamento, di non avere nessun interesse alla loro restituzione.
Il G.U.P. ha ritenuto che le cose
q u e s t i o n i
erano state abbandonate dai legittimi proprietari e, pertanto, la fattispecie concreta difettava dell’elemento dell’altruità della cosa richiesta dalla norma.
La sentenza in esame è stata
confermata anche dalla Suprema
Corte (Cass. sez. VI, 21 aprile 2009,
n. 833), che ha rigettato il ricorso
per cassazione presentato dal P.m.
Dall’esame della fattispecie presa in esame, può in conclusione
trarsi il seguente principio di diritto:
il reato di peculato presuppone che
la res di cui si impossessa il soggetto
attivo sia altrui e che l’imputato
abbia la consapevolezza di appropriarsi di una cosa altrui per trarne
profitto.
Sul piano dell’elemento soggettivo si realizza il mutamento dell’atteggiamento psicologico dell’agente
che alla rappresentazione di essere
possessore della cosa per conto di
altri sostituisce quella di possedere
per conto proprio (Cass. sez. VI,
sentenza n. 381 del 12.12.2000).
Già in passato la giurisprudenza
di legittimità si è pronunciata in
conformità al principio di diritto
enunciato dalla sentenza di non
luogo a procedere del G.U.P. del
Tribunale di Napoli (cass. Pen., sez.
VI, 25.09.1997, n. 8621).
Al riguardo, la Suprema Corte
distingue due ipotesi: non costituiscono res nullius né res derelictae gli
oggetti rinvenuti sulle salme o nel
terreno utilizzato per la sepoltura,
giacchè sono presuntivamente appartenuti alle persone decedute o a
coloro che hanno inteso testimoniare nei confronti delle medesime il
loro affetto ed onorarne la memoria. Lasciare un oggetto sul corpo
della persone deceduta inoltre sottende una specifica destinazione che
il proprietario voleva dargli, risultante per facta concludentia.
Diverso è invece il caso in cui la
persona legittimata, pur posta in
condizione di intervenire alle operazioni di riesumazione o informata
del rinvenimento di cose che potrebbero appartenerle, non si presenti
ovvero ponga in essere un compor-
Gazzetta
F O R E N S E
tamento manifestante inequivoco di
disinteresse verso gli oggetti rinvenibili o rinvenuti.
In questo secondo caso, ricorrendo tali condizioni, ad avviso della
Suprema Corte, potrebbe ragionevolmente desumersi che sussista
quel animus dereliquendi richiesto
dall’art. 923 c.c. e l’impossibilità del
configurarsi del reato di peculato
(sulla base di tali presupposti, la
Corte ha ritenuto la sussistenza del
reato di peculato perché l’imputato
aveva spogliato la salma di oggetti
preziosi lasciati dai parenti sul corpo della persona deceduta, beni che
non andavano qualificati come res
derelictae).
Tornando alla fattispecie concretamente posta all’attenzione del
G.u.p. del Tribunale di Napoli, premesso che, com’è noto, l’indagine
dell’interprete nel valutare l’esistenza o meno di un fatto costituente
reato è trifasica, dovendosi indagare
prima sull’esistenza del fatto come
tipico, cioè accertando se quel fatto
storico corrisponda alla descrizione
normativa, poi sull’assenza di cause
di giustificazione e, infine, sul giudizio di colpevolezza o responsabilità in capo al singolo autore, quando nella fattispecie di reato di peculato manca l’altruità della res oggetto del reato deve escludersi la sussistenza della fattispecie stessa arrestandosi alla prima fase, per l’insussistenza del fatto tipico; tale valutazione esclude la sussistenza del reato,
senza necessità di prendere in considerazione l’elemento soggettivo.
Con riferimento alla sentenza di
non luogo a procedere esaminata, il
G.u.p. oltre ad escludere la sussistenza del reato per la mancanza
dell’elemento oggettivo, affronta
anche l’aspetto dell’elemento soggettivo, ponendo seri dubbi sull’esistenza dello stesso elemento psicologico
in capo al soggetto agente, affermando che comunque manca la
prova della consapevolezza di appropriarsi di beni altrui contro la
volontà dei legittimi proprietari;
questo in linea con la qualificazione
delle res come derelictae.
F O R E N S E
●
DIRITTO AMMINISTRATIVO
Tutela dei controinteressati
comproprietari di bene
immobile
Il modello italiano di tutela
del patrimonio culturale. La
problematica dell’inquadramento
dei comproprietari di un immobile
oggetto di vincolo culturale tra
i controinteressati, nel giudizio
annullatorio del provvedimento
impositivo del vincolo.
● Francesca Bonito
Avvocato
L’attuale legislazione speciale di
tutela dei Beni Culturali (D.Lgs. 22
gennaio 2004, n. 42, Codice dei
Beni Culturali e del Paesaggio), è
informata al presupposto fondamentale – anche alla luce della tutela del patrimonio storico-artistico
sancita dall’art. 9 Cost. – di disporre l’appartenenza al demanio o al
patrimonio indisponibile dello Stato
delle cose che, a seconda se immobili o mobili, “presentano interesse
artistico, storico, archeologico o
etnoantropologico” (in tal senso
cfr. l’art. 10 del D.Lgs. cit.).
In applicazione di tale principio
la Cassazione penale, sez. III, con la
sentenza n. 19714 del 22.05.2007
ha sancito testualmente che: “Tutti
gli oggetti d’interesse artistico, storico o archeologico, sin dalla loro
scoperta, sono di proprietà dello
Stato. Il loro impossessamento, sia
che provenga da scavo sia da rinvenimento fortuito è previsto dalla
legge come reato e dunque il loro
possesso si deve ritenere illegittimo
a meno che il detentore non dimostri
di averli legittimamente acquistati”.
Gli istituti in cui si articola il
nuovo codice, entrato in vigore il 1
maggio 2004, contribuiscono a for-
n o v e m b r e • d i c e m b r e
2 0 0 9
mare quello che oggi viene definito
“diritto dei beni culturali”.
Le funzioni amministrative connesse alla materia dei beni culturali
vengono ripartite tra attività di tutela ed attività di valorizzazione del
bene oggetto di vincolo. Accanto ad
esse si è gradualmente delineata la
nuova categoria della gestione, che,
per volontà del legislatore, ha assunto dignità autonoma.
L’attuale disciplina è stata dettata naturalmente dall’esigenza di
sottrarre i beni tutelati ai rischi di
distruzione o di pregiudizievole modificazione. Le conseguenze pratiche che inevitabilmente si verificherebbero in caso di una gestione poco
accorta – salvo poter divenire
un’ipotesi di vero e proprio disastro
storico-archeologico in caso di distruzione del bene oggetto di vincolo – hanno imposto una disciplina
della “cultura del bello” riordinata
e semplificata.
Si riscontrano tre tipi di procedimenti per giungere alla individuazione dell’interesse culturale di un
bene. Difatti è possibile che lo Stato
attribuisca a un bene uno spiccato
interesse per legge (basti pensare, a
scopo esemplificativo, alla città di
Venezia); che si proceda ad una individuazione indiretta del valore
culturale tramite limiti individuali,
qualitativi (l’art. 142 ha recepito il
d.l. 27 giugno 1985, n. 312 che testualmente recita “…sono sottoposte alle disposizioni del codice per il
loro interesse paesaggistici:…i territori costieri…i vulcani, le zone di
interesse archeologico individuate
alla data di entrata in vigore del
codice”; oppure che il riconoscimento dell’interesse culturale avvenga
per il tramite di un provvedimento
amministrativo ad hoc.
La normativa italiana, sintetizzata nel nuovo codice, utilizza tutti
e tre i sistemi, anche se un maggior
rilievo è conferito al riconoscimento
dell’interesse culturale mediante
l’adozione di un atto amministrativo (così Lumetti in Rass. avv. Stato,
n. I, Roma 2006, pag. 334 ss.).
Al riguardo, occorre tener pre-
125
sente che il concetto di patrimonio
culturale evoca un insieme di beni
appartenenti non solo allo Stato ma
anche al privato, il quale, partecipando alla valorizzazione del patrimonio culturale, può ricavare anche
benefici fiscali ed economici.
Tali benefici possono concretizzarsi sia in contributi statali per le
spese sostenute per gli interventi di
conservazione, sia in sgravi fiscali.
È fuor di dubbio, infatti, che nel
Belpaese il turismo culturale ricopra
un rilievo essenziale anche per l’economia, di conseguenza si tracciano
i contorni di una nuova nozione di
bene culturale inteso come risorsa e
ricchezza.
In applicazione di tali principi
recentemente il T.A.R. Campania
Napoli, sez. VII, n. 3091 del
05.06.2009 ha affermato che “i
comproprietari di un immobile sottoposto a vincolo storico culturale
possono essere controinteressati rispetto al relativo provvedimento
impositivo, così da dover essere
evocati nel giudizio con il quale un
altro comproprietario abbia proceduto all’impugnazione di quest’ ultimo” (cfr. in tal senso T.A.R.
Abr u z zo Pe s c a ra n. 576 del
26.06.2002; T.A.R. Campania Nap o l i , s e z . VII , o r d . C o l l .
n. 874/2008).
Al riguardo, la richiamata giurisprudenza ha evidenziato che occorre tener presente che se l’immobile
oggetto di vincolo appartiene a più
proprietari, è possibile che mentre
per alcuni il provvedimento risulti un
ostacolo alla libera fruizione della
proprietà privata, per altri costituisca
un utile mezzo per tutelare e preservare il bene nel tempo – in conformità appunto alla precipua funzione del
provvedimento di cui si è detto – oltre che per potersi avvalere dei ricordati benefici fiscali ed economici.
Ne consegue che, non potendo
stabilire a priori quale posizione sia
da attribuire ai vari proprietari di
porzioni dell’immobile oggetto di
vincolo, sarà onere degli interessati
che vogliano instaurare un contraddittorio corretto, notificare nel ter-
questioni
Gazzetta
126
mine di decadenza di 60 giorni, in
applicazione dell’art. 21 delle Legge
1034/197, il ricorso tanto all’organo
che ha emanato il provvedimento,
quanto ai controinteressati o ad almeno uno di essi, salvo l’obbligo di
integrazione con ulteriori notifiche
che siano ordinate dal Tribunale
Amministrativo Regionale.
Analogo obbligo è previsto dalla
normativa in subiecta materia anche
per la notifica dei motivi aggiunti
sempre a pena di inammissibilità.
Si rammenta che il principio del
contraddittorio, esaltato nel processo amministrativo, determina che se
la domanda giudiziale non è stata
notificata ai controinteressati ai
quali l’atto direttamente si riferisce,
la sentenza eventualmente emessa è
inefficace nei confronti degli stessi,
risulta inutiliter data.
La completezza del contraddittorio risponde, infatti, all’esigenza che
la decisione venga pronunciata nei
confronti di tutti i soggetti interessati al rapporto dedotto in giudizio
e a cui possano derivare effetti, diretti o indiretti, dal provvedimento
conclusivo.
Al riguardo, occorre considerare
che la giurisprudenza, al fine di non
aggravare il compito del ricorrente
di individuare i controinteressati,
riconosce detta qualità quando ricorrono due elementi: uno detto
“formale” scaturente dalla esplicita
indicazione – nominativa o di facile
individuazione – del soggetto all’interno del provvedimento; l’altro
detto “sostanziale” discendente dal
riconoscimento in capo al controinteressato di un interesse di natura
eguale o contraria alla conservazione del provvedimento impugnato (in
tal senso Consiglio di Stato, sez. V,
18.11.2004 n 7544; T.A.R. Lazio,
sez. I, 09.08.2005, n. 6157).
Il T.A.R. Campania Napoli, sez.
VII, n. 3091 del 05.06.2009, ha rilevato che nel caso di immobile
sottoposto a vincolo storico-culturale l’individuazione dei controinteressati (o di almeno uno di essi) è
permessa dall’indicazione dell’elenco nominativo dei proprietari inte-
Gazzetta
q u e s t i o n i
ressati nella comunicazione di avvio
del procedimento, nonché dalle indicazioni contenute nella relazione
storico-artistica del Ministero per i
Beni e le Attività Culturali e dalla
planimetria catastale allegata al
decreto di vincolo; di conseguenza
l’omissione della notifica deve essere
sanzionato con la sanzione di inammissibilità del ricorso.
Sul punto, il Tribunale Amministrativo Regionale ha altresì osservato che la costituzione spontanea
di uno dei proprietari dell’immobile
si cui grava il provvedimento impositivo non ha effet to sanante
dell’omessa notifica, poiché gli effetti della inammissibilità del ricorso si sono prodotti già allo scadere
del termine di 60 giorni previsto
dalla Legge per l’impugnazione del
provvedimento amministrativo (cfr.
in tal senso Consiglio di Stato, sez.
V, n. 5863 del 7 settembre 2004;
Consiglio di Stato, sez. VI, n. 2991
del 30 maggio 2003; T.A.R. Lazio,
Roma, n. 1057 del 03.02.2009;
T.A.R. Campania, Napoli n. 10698
del 10.08.2005; T.A.R. Basilicata,
n. 1008 del 06.12.2002; T.A.R.
Lazio, Roma n. 5576 del 18.06.2002;
T.A.R. Lazio, Roma n. 488 del
12.05.1990).
F O R E N S E
●
DIRITTO TRIBUTARIO
Procedimento monitorio
civilistico per l’adempimento
di obblighi di fare tributari
Se il lavoratore autonomo,
commissionato d’opera, può
ricorrere al procedimento
monitorio ex artt. 633 ss. c.p.c., al
fine di ottenere le certificazioni
del versamento delle ritenute di
acconto da parte del sostituto
d’imposta.
● Massimo Tupone
Avvocato
Se discernere tra la materia del contendere rientrante nella competenza
del Giudice Ordinario ovvero in
quella esclusiva del Giudice Tributario è questione autorevolmente risolta dal legislatore, mediante l’apposita
elencazione degli atti “amministrativi” da impugnare secondo le regole
del contenzioso tributario, come disciplinato dal D. Lgs. n. 546 del 1992
ed in particolare dall’art. 19 del medesimo decreto, meno netta è invece
la linea di confine qualora la valutazione circa il rito da seguire investa
il rimedio di coartazione del contribuente dolosamente, o anche solo
colposamente, inerte rispetto agli
obblighi che la legge tributaria gli
impone.
Quanto sovraesposto viene affrontato nella presente problematica,
che vede coinvolti due lavoratori autonomi, l’uno appaltatore-committente l’altro commissionario di opere,
in una vicenda processuale avente ad
oggetto il rilascio delle certificazioni
dell’avvenuto versamento della ritenuta d’acconto da operarsi, per obbligo tributario solidale, da parte del
cd. sostituto di imposta in occasione
del pagamento dei corrispettivi per
l’opera intellettuale prestata dal suo
commissionario.
F O R E N S E
La problematica ha la sua genesi
nella circostanza del fatto storico,
considerato dal legislatore, della presenza di pagamenti per corrispettivi
operati dal lavoratore autonomo titolare di partita iva in favore di altro
“soggetto iva”, di per sé fonte dell’obbligo tributario al versamento della
ritenuta d’acconto IRPEF ai sensi
dell’art. 25, comma 1, D.P.R.
600/1973 e ss. mod. Fatto, questo,
che espone colui che effettua il pagamento dei corrispettivi, quanto chi
riceve, alla responsabilità solidale nei
confronti dell’Erario, ben potendo
quest’ultimo agire conseguentemente
per l’omesso versamento sia nei confronti dell’uno, che dell’altro, in virtù
dell’espresso richiamo alla “rivalsa”,
come operato dal succitato articolo
di legge.
Rinviando ad altra sede la problematica inerente alla possibilità o
meno per il sostituito di imposta di
procedere a scomputare ritenute d’acconto non versate da parte del committente sostituto ed alla relativa
casistica affrontata dalla giurisprudenza della Suprema Corte, è da osservare ora che l’ombra dell’eventuale azione di accertamento tributaria
è maggiormente incombente qualora
si verifichi che, in sede di dichiarazione dei redditi del professionista ricevente il pagamento, quest’ultimo
proceda comunque allo scomputo
delle ritenute d’acconto che avrebbe
dovuto versare il sostituto d’imposta
in conseguenza del pagamento dei
corrispettivi per l’opera prestata, poi
di fatto non versate nei termini previsti.
In tal senso, il problema della
tutela contributiva del sostituito,
necessaria ad arginare la propria responsabilità tributaria in un eventuale successivo accertamento fiscale
inerente all’omesso versamento della
ritenuta d’acconto da parte del committente-sostituto d’imposta, va affrontato non solo tenendo conto
della necessità di evitare l’errato
scomputo delle ritenute d’acconto
delle quali non conservi documentazione idonea a comprovarne l’avvenuto versamento, ma soprattutto
n o v e m b r e • d i c e m b r e
2 0 0 9
provvedendo ad osservare il preliminare obbligo tributario di richiedere
e conservare nella propria contabilità
la certificazione attestante l’avvenuto
versamento delle ritenute d’acconto
che avrebbe dovuto operare per suo
conto il sostituto d’imposta, soprattutto a seguito della decurtazione
indicata in fattura dell’importo da
versarsi a titolo di ritenuta IRPEF.
Attività quest’ultima, che va realizzata, nell’eventuale ipotesi contenziosa, anche facendo ricorso agli strumenti giudiziari più opportuni per
evitare ogni coinvolgimento del sostituito nelle omissioni tributarie realizzate dal proprio committentesostituto, successivamente accertate
e dunque sanzionate.
Il problema, che qui si affronta,
investe l’analisi degli strumenti giudiziari da impiegare per attenuare il
più possibile eventuali esposizioni del
contribuente nei confronti degli accertamenti tributari, avendo particolare attenzione al rito processuale da
seguire in relazione agli interessi
coinvolti. Situazioni soggettive, queste ultime, che saranno non solo
quelle evidentemente tributarie, relative alla regolarità della propria posizione contributiva, ma soprattutto
di carattere patrimoniale, permettendo, perciò, di radicare la competenza
processuale della azione da instaurarsi presso il giudice civile e non
tributario.
In tal senso, appare ammissibile
la possibilità d’impiegare il procedimento monitorio civilistico nelle ipotesi di semplice inerzia ovvero espressa riluttanza, da parte del committente-sostituto d’imposta, alla consegna delle certificazioni dovute ed
appositamente richieste per comprovare l’avvenuto versamento delle ritenute d’acconto decurtate dalla sorta
capitale della fattura emessa in occasione del pagamento del corrispettivo
per l’opera prestata.
In linea con quanto ora affermato, va collocata la vicenda, sopra
anticipata, conclusasi con la emissione del Decreto Ingiuntivo n. 3710 del
30.07.09.09, con cui il Giudice di
Pace di Napoli, in accoglimento del
127
ricorso proposto per il rilascio delle
certificazioni de quo, evidentemente
da considerarsi “cose mobili determinate” ai sensi e per gli effetti di cui
agli art. 633 e ss. c.p.c., ha ingiunto
al committente-sostituto d’imposta
di “rilasciare le certificazioni delle
ritenute di quanto operato, come
richiesto dal ricorrente”. L’istanza
monitoria sarà da considerarsi meritevole di tutela, dunque di accoglimento, sulla scorta della valutazione
inerente alla certezza del diritto del
ricorrente, attesa la previsione del
corrispondente obbligo tributario
gravante sul sostituto d’imposta, di
cui all’art. 7 bis, comma 1, D.P.R.
600/1973, come mod., appositamente rubricato “certificazioni dei sostituti d’imposta”, in base al quale coloro “che corrispondono somme e
valori soggetti a ritenute alla fonte,
devono rilasciare una apposita certificazione unica anche ai fini dei
contributi dovuti all’Istituto nazionale per la previdenza sociale attestante l’ammontare complessivo delle dette somme e valori, l’ammontare delle ritenute operate, delle detrazioni di imposta effettuate e dei
contributi previdenziali e assistenziali, nonché gli altri dati stabiliti con
il decreto di cui all’articolo 8, comma
1, secondo periodo. La certificazione è unica anche ai fini dei contributi dovuti agli altri enti e casse previdenziali”. Ed il diritto dell’istante
sarà da considerarsi, oltre che certo
e determinato, altresì esigibile, ai fini
del ricorso ex artt. 633 e ss. c.p.c., dal
momento che, a rigore della norma
di cui all’art. 7 bis, comma 2, D.P.R.
6 0 0 / 19 73 , c om e m o d i f i c ato
dall’art. 37, comma 10, D.L .
223/2006, “i certificati, sottoscritti
anche mediante sistemi di elaborazione automatica, sono consegnati
agli interessati entro il 28 febbraio
dell’anno successivo a quello in cui i
redditi sono stati corrisposti ovvero
entro 12 giorni dalla richiesta degli
stessi in caso di interruzione del
rapporto di lavoro”. E la provvisoria
esecutività potrà essere basata sulla
evidente circostanza che il ricorrente,
nella ipotesi del rifiuto, espresso o
questioni
Gazzetta
128
tacito, da parte del sostituto d’imposta al rilascio delle richieste certificazioni, potrà dedurne il periculum in
mora, inerente al rischio di una propria esposizione alla responsabilità
da accertamento dell’omesso versamento degli importi tributari da
parte del proprio sostituto tributario,
con ogni conseguenza patrimoniale
del caso.
q u e s t i o n i
Gazzetta
F O R E N S E
RECENSIONI
Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà
e sussidiarietà. Il vento non sa leggere
131
di F. Lucarelli e L. Paura, Napoli, 2008
A cura di Giovanni Perlingieri
Professore ordinario presso la Seconda Università di Napoli
Giustizia della funzione normativa
e sindacato diffuso di legittimità
143
di Raffaele Manfrellotti, Jovine Editore, 2008
A cura di Chiara Cucinella
Dottoressa in giurisprudenza
L’avvio del procedimento
144
A cura di Valeria D’Antò
Avvocato
recensioni
di Vincenzo Galatro e Aldo Sgro, Giuffrè, 2009
F O R E N S E
●
Diritto privato e diritto
pubblico tra solidarietà
e sussidiarietà.
Il vento non sa leggere
di F. Lucarelli e L. Paura,
Napoli, 2008
● A cura di Giovanni Perlingieri
Professore ordinario presso la
Seconda Università di Napoli Sommario: 1. La difesa delle
ideologie e l’interpretazione sistematica ed assiologica – 2. (Segue).
La qualità degli interpreti quale
forma di garanzia del progresso
materiale e spirituale della società – 3. (Segue). Il giurista che come
il vento non sa leggere – 4. (Segue).
L’interpretazione assiologica quale
interpretazione sistematica. Il danno alla persona – 5. (Segue). La
sovrabbondanza delle regole e l’applicazione diretta dei principi – 6.
Conclusioni.
1. La difesa delle ideologie e l’interpretazione sistematica ed assiologica
Mi sono chiesto perché un così
Illustre giurista, come il Prof. Francesco Lucarelli, abbia chiesto a me
di presentare la sua ultima fatica1. E
1 * Lo scritto, con l’aggiunta delle note bibliografiche, riproduce la relazione svolta
il 20 marzo 2009 alla Facoltà di Economia
dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” in occasione della presentazione
del libro di F. Lucarelli e L. Paura, Diritto privato e diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà. Il vento non sa leggere,
Napoli, 2008. Con il sottotitolo il vento
non sa leggere gli Autori si riferiscono
all’incapacità dei giuristi di cogliere il
senso del dettato costituzionale e di utilizzarlo per risolvere i casi concreti. A tale
scopo richiamano i versi di una antica
poesia giapponese: «Sul cartello è scritto:
non cogliere questi fiori! Ma per il vento è
inutile, perché il vento non sa leggere» (cfr.
pp. 5 e 11).
F. Lucarelli e L. Paura, Diritto privato e
diritto pubblico tra solidarietà e sussidiarietà, cit., pp. 11-244.
n o v e m b r e • d i c e m b r e
2 0 0 9
devo dire che all’inizio la risposta
mi sembrava scontata e da ricondurre ad una questione di affetto.
Poi leggendo il volume mi è venuto in mente il giorno in cui il
Professore si trovava, con la Dott.
ssa Paura, in casa editrice per correggere le bozze. In quell’occasione
gli feci omaggio di un mio editoriale pubblicato in Rassegna di diritto
civile sulla Povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie 2 , stimolato dalle raffinate pagine dell’ultimo libro di Natalino Irti3.
Questo mio lavoro tentava di
mettere a nudo l’incompatibilità nel
pensiero di un Maestro (come Natalino Irti) tra il nichilismo delle
opere precedenti4 e la difesa dell’ideologia 5, posto che quest’ultima, a
mio parere, presuppone l’abbandono dell’idea nichilistica dell’assenza
di punti di riferimento o di direttive
superiori ora politiche, ora giuridiche e quindi ermeneutiche.
Il mio scritto muoveva da una
idea forte6 che con piacere ho ritrovato nel volume che oggi si presenta.
Una idea che riguarda, nella diversità
dei ruoli, sia il politico sia il giurista
e che risulta essenziale al fine di per-
2 G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie: l’insegnamento di Natalino Irti, in Rass. dir. civ.,
2008, p. 601 ss..
3 N. Irti, La tenaglia. In difesa dell’ideologia
politica, Roma-Bari, 2008.
4 N. Irti, Nichilismo giuridico, Roma-Bari,
2004; Id., Il salvagente della forma, RomaBari, 2007.
5 N. Irti, La tenaglia. In difesa dell’ideologia
politica, cit., p. 1 ss..
6 Che trova fondamento nella metodologia
espressa dalla c.d. “dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale” espressa
da Pietro Perlingieri, sin dalla fine degli
anni ’60, non senza difficoltà e critiche
oggi dimostrate poco lungimiranti vista la
sempre più ampia utilizzazione di questo
metodo in dottrina e in giurisprudenza; per
un approfondimento di tale prospettiva v.
P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italocomunitario delle fonti (1984), 3ª ed.,
Napoli, 2006, passim; Id., La dottrina del
diritto civile nella legalità costituzionale, in
Rass. dir. civ., 2007, p. 497 ss., ivi ulteriori riferimenti bibliografici; cfr. anche P.
Femia, voce Perlingieri Pietro, in Enciclopedia della persona nel XX secolo a cura
di A. Pavan, Napoli, 2009, p. 819 ss.
131
seguire il progresso materiale e spirituale della società (art. 4 Cost.).
L’idea secondo la quale il mero
pragmatismo porta lontano dalle
esigenze della vita reale poiché:
a) conduce il politico ad agire
senza un fine o un obiettivo
abbrac­ciante, ad una ossessiva
volontà di riforma, o di riforma
della riforma, senza una implicita o esplicita filosofia della
vita che caratterizzi l’eventuale
riforma7;
b) conduce il giurista alla mera
esegesi, al nichilismo, al dogmatismo privo di orizzonte culturale e incapace di individuare e
attuare lo spirito dell’ordinamento, nonché i suoi valori8.
Al contrario l’uno e l’altro, come
cittadini, e pur nella diversità dei
ruoli e delle funzioni, devono essere
«fedeli» alla Repubblica ed alla legalità costituzionale (artt. 54, comma 1 e 117, comma 1, Cost.), nonché
garantire il progresso materiale e
spirituale della società (art. 4, comma 2, Cost.) e restituire dignità di
pensiero alla loro attività9.
Per il giurista, in particolare, il
«salvagente» – al fine di evitare
quelle che Lucarelli chiama «ingiustizie sociali e precarietà delle
soluzioni»10 (precarietà proprie della tecno-crazia e tecno-economia e
di una “alluvione legislativa” che
sempre più favorisce l’introduzione
di leggi senza tradizione) – non è nel
pragmatismo fine a se stesso e privo
di orizzonte culturale (ovvero nel
nichilismo)11, ma in una attività ermeneutica sempre sensibile:
a) alla funzione della singola regola
(funzione che, tra l’altro, può
variare ed evolversi alla luce della
evoluzione dell’ordinamento12);
7 G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie, cit., p. 602
ss..
8 G. Perlingieri, o.l.u.c.
9 G. Perlingieri, o.u.c., p. 605.
10 F. Lucarelli, o.c., p. 35.
11 N. Irti, Nichilismo giuridico, cit., p. 1 ss.;
Id., Il salvagente della forma, cit., p. 1 ss..
12 Si pensi all’art. 1175 c.c., introdotto per
assecondare l’ideologia fascista, è oggi
recensioni
Gazzetta
132
b) al bilanciamento tra interessi e
valori superiori [secondo un controllo “diffuso” della legalità
costituzionale, posto che il principio di legalità (art. 101, comma
2, Cost.) non si risolve nella legge, ma nella legalità costituzionale (art. 54 Cost.), perché il sistema è unitario (art. 117 Cost.)].
Dunque una attenzione dell’interprete al testo interpretato e al
contesto di riferimento. Quest’ultimo è costituito dai testi delle altre
disposizioni anche gerarchicamente
superiori presenti nel sistema e dagli
elementi non testuali, come quelli
sociali e fattuali.
Sí che il «salvagente» per la società civile è sia nella forma (legalità) sia nella sostanza (legittimità),
ovvero nella difesa e nell’attuazione
dell’ideologia (non personale), ma
del sistema italo-comunitario. Questo pone al vertice della gerarchia
dei valori normativi la tutela della
persona umana e della sua dignità.
In questa prospettiva la certezza
del diritto è garantita dall’interpretazione sistematica ed assiologica,
come da tempo afferma la dottrina
del diritto civile nella legalità costituzionale13.
strumento idoneo a valorizzare nei rapporti obbligatori il principio di solidarietà
costituzionale (art. 2 Cost.). Così anche
l’art. 833 c.c., risultando, nel contesto
presente, espressione diretta del principio
di solidarietà, si è trasformato da norma
eccezionale applicabile al solo diritto di
proprietà a norma generale idonea, ad
esempio, ad operare analogicamente nei
rapporti di credito.
13 Sul punto, oltre ai lavori citati retro alla
nota 6, v. anche P. Perlingieri, Valori
normativi e loro gerarchia. Una precisazione dovuta a Natalino Irti, in Rass. dir. civ.,
1999, p. 787 ss., ora in Id., L’ordinamento
vigente e i suoi valori. Problemi del diritto
civile, Napoli, 2006, p. 327 ss., ivi ulteriori approfondimenti in saggi e commenti;
ma anche Id., Norme costituzionali e
rapporti di diritto civile (1980), ora in Id.,
Scuole, tendenze e metodi. Problemi del
diritto civile, Napoli, 1989, p. 109 ss.; cfr.
inoltre Id., L’interpretazione come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris
non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12
disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, ivi, p. 273. Tale metodologia è accolta
oggi anche dalla stessa Corte costituziona-
r e c e n s i o n i
Tale certezza va ricercata: non
già nella ripetitività o nella perpetuità della soluzione (espressione del
dogmatismo), ma nell’adeguatezza e
congruenza della decisione alle esigenze del caso concreto14; non già in
un metodo15 logico e della sussunzione, ma nella capacità di argomentare la decisione e motivarla ideologicamente alla luce dei valori normativi e della loro gerarchia (secondo il criterio di ragionevolezza).
Non ho l’intenzione di descrivere, capitolo per capitolo, i contenuti
del testo anche perché qualsiasi Autore auspica di essere letto non raccontato.
Il libro scuote costantemente la
sensibilità dell’interprete. Sí che
porrò l’attenzione sul ruolo del giudice (leit motiv del volume) e sui
problemi del giurista contemporaneo; nonché su alcuni argomenti
trattati nel volume come, ad esempio, i temi dell’indennità da esproprio e delle c.dd. class actions.
le: sul punto v. Id., Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice, in Interpretazione a
fini applicativi e legittimità costituzionale
a cura di P. Femia, 7, Collana Cinquanta
anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana, Napoli, 2006, p. 20 ss.
(ora anche in Id., L’ordinamento vigente e
i suoi valori, cit., p. 371 ss.); e dai giudici
della Corte. Cfr., per tutti, P. Maddalena,
Interpretazione sistematica ed assiologica
del diritto, in Giust. civ., 2009, II, p. 65 ss.
Invita ad una interpretazione non soltanto
logica, ma anche teleologica in modo da
assicurare sempre una valutazione comparativa degli interessi anche E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici
(Teoria generale e dogmatica), Milano,
1949, p. 181 ss.
14 G. Perlingieri, Venticinque anni della
Rassegna di diritto civile e la «polemica sui
concetti giuridici». Crisi e ridefinizione
delle categorie, in Aa. Vv., Venticinque
anni della Rassegna di diritto civile. Temi
e problemi della civilistica contemporanea,
Napoli, 2006, p. 552 ss.
15 Metodo giuridico è «il procedimento impiegato dal giurista per trarre dalle fonti le
norme giuridiche». Tuttavia se è vero che
«non esiste “il” metodo ma “i” metodi, è
pur vero che non tutti i metodi sono adeguati e congrui alla realizzazione dei valori di un determinato ordinamento giuridico», P. Perlingieri, Lo studio del diritto
e la storia, in Id., L’ordinamento vigente e
i suoi valori, cit., p. 542.
Gazzetta
F O R E N S E
Gli Autori muovono da alcune
idee di fondo:
a) che il diritto non si risolve nella
legge. Il diritto è cultura; il diritto è sistema: la soluzione non è
conseguenza della legge, ma è
conseguenza dell’ordinamento
del caso concreto16;
b) che il sistema è unitario e la distinzione tra materie (diritto
pubblico, privato, commerciale)
ha soltanto una funzione didattica ed accademica17, posto che,
per un verso, ogni distinzione
può diventare controproducente,
per altro verso, si riscontrano
difficoltà ad individuare i confini tra tali “settori” del diritto.
Come da tempo evidenziato dalla dottrina più sensibile18, a rilevare
16 Se «è vero che dov’è una società v’è necessariamente la regola del diritto, è anche
vero che il tipo di società, lo stile di vita in
essa dominante, le radici religiose, culturali, la stessa educazione del cittadino, le sue
tradizioni, il livello di civiltà finiscono con
il condizionare il significato, il contenuto,
l’attuazione delle norme giuridiche», P.
Perlingieri, Il diritto civile nella legalità
costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, cit., p. 162, ove si
specifica anche il significato da attribuire
alla locuzione «ordinamento del caso
concreto». Sul rapporto tra diritto e cultura v. anche R. Treves, Diritto e cultura,
Torino, 1949, p. 26 s. Prime ricostruzioni
si hanno anche in Id., Il diritto come relazione. Saggio critico sul neo-kantismo
contemporaneo, Torino, 1934, ora in Id.,
Il diritto come relazione. Saggi di filosofia
della cultura, a cura di A. Carrino, Napoli, 1993, p. 69 ss. «Se all’operatore del diritto non è concesso di partecipare direttamente alla decisione politica, a lui certamente spetta l’attività di interpretazione e
applicazione dei testi giuridici secondo
l’ideologia di un dato ordinamento
(artt. 54, comma 1, e 101, comma 2,
Cost.). Il che equivale anche a dire che il
diritto è cultura e nel diritto, non soltanto
nella singola e spesso sterile disposizione,
va ricercata la filosofia della vita che lo
caratterizza. Perché ogni cultura, e dunque
ogni ordinamento, deve avere una direzione, un fine ideale ed “abbracciante”, una
causa; altrimenti una soluzione, politica o
giuridica, diventa povera di orizzonte e si
trasforma in azione o decisione smarrita
nella quotidianità e priva di dignità e ragionevolezza»: G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie, cit., p. 601.
17 F. Lucarelli, o.c., pp. 48 ss. e 53.
18 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legali-
n o v e m b r e • d i c e m b r e
F O R E N S E
non è se l’interesse è generale o individuale (distinzione spesso fuorviante) ma se l’interesse è più o
meno attuativo di valori fondamentali (come la salute, la famiglia,
l’impresa, il lavoro, la dignità umana, il risparmio).
Ciò che rileva, anche nel bilanciamento degli interessi19, non è la
natura quantitativa dell’interesse
tutelato (privato o pubblico), ma il
profilo qualitativo dello stesso.
«Un interesse della collettività o
generale o pubblico non prevale su
quello individuale semplicemente
perché più ampio: più ampio significa non più importante per il diritto ma soltanto più generale, più
astratto, e per il diritto la generalità dell’interesse non va confusa con
la gerarchia dei valori»20. L’interesse di molti (interesse pubblico) non
sempre, nella gerarchia dei valori,
deve prevalere rispetto all’interesse
di pochi o del singolo (interesse
privato).
Queste osservazioni sono rilevanti perché fanno cadere molti tabù nei campi più disparati del diritto civile (si pensi, per fare qualche
esempio relativo a temi a me cari, al
problema dell’invalidità dei negozi
giuridici, all’impossibilità di sussumere ogni atto nullo in una identica
e monolitica categoria21, alla responsabilità professionale dei notai 22 ,
19
20
21
22
tà costituzionale, cit., p. 134 ss.; Id., Nuovi profili del contratto, in Rass. dir. civ.,
2000, p. 545 ss., ora in Id., Il diritto dei
contratti tra persona e mercato. Problemi
del diritto civile, Napoli, 2003, p. 417 ss.
In questa prospettiva v. anche G. Perlingieri, Negozio illecito e negozio illegale.
Una incerta distinzione sul piano degli effetti, Napoli, 2003, p. 8 ss.
F. Lucarelli, o.c., p. 51.
P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 137; Id. e P. Femia, Nozioni introduttive e princípi fondamentali del diritto civile, 2ª ed., Napoli,
2004, p. 70 ss..
G. Perlingieri, Negozio illecito e negozio
illegale, cit., p. 5 ss.; sulla relatività e la
storicità dei concetti e delle categorie v. Id.,
Venticinque anni della Rassegna di diritto
civile e la «polemica sui concetti giuridici».
Crisi e ridefinizione delle categorie, cit., p.
552 ss.
G. Perlingieri, Funzione notarile e clausole vessatorie. A margine dell’art. 28, l.
2 0 0 9
alle problematiche riguardanti l’acquisto e la rinunzia dell’eredità 23, al
patto di famiglia24).
Il libro si chiude con la manifestazione di un disagio al quale gli
Autori cercano di dare risposta e
soluzione. In una pagina si legge «in
verità il diritto, di fronte agli occhi
attoniti del giurista viene perdendosi» in un insieme sempre «più fitto
ed inestricabile di fonti, di leggi,
soluzioni, a volte contraddittorie,
ed altre meramente virtuali che si
aprono l’un l’altra e l’una accanto
all’altra in una successione vertiginosa […]; mentre il testo legislativo
ripropone nuovi enigmi, mette in
ombra le proprie fonti, abolisce le
proprie radici»25.
Tale presa di coscienza invita il
giurista non già a deresponsabilizzarsi o a sentirsi solo, ma anzi a
cercare una metodologia che gli
consenta di continuare a governare
i fenomeni giuridici, anche prescindendo da concetti e categorie spesso
in crisi o inadeguate. La metodologia imposta dal nostro sistema giuridico è quella sistematica ed assiologica: «la Costituzione non è un
involucro ormai privo di valida sostanza, né l’espressione di un mondo
senza futuro»26.
In uno Stato sociale di diritto,
infatti, può mutare la disposizione
con grande velocità, ma l’ideologia
del sistema, la tavola dei suoi valori,
più che mutare, si evolve, si integra,
si arricchisce, si adegua in un gra-
23
24
25
26
16 febbraio 1913, n. 89, in Rass. dir. civ.,
2006, p. 840 ss.
G. Perlingieri, L’acquisto dell’eredità, in
R. Calvo e G. Perlingieri (a cura di),
Diritto delle successioni, I, Napoli, 2008,
pp. 169 ss. e 327 ss.; Id., L’«acquisto»
puro e semplice delle eredità devolute agli
enti. Un rilettura degli artt. 473, 485, 487,
488, 493, 527 c.c., in Rass. dir. civ., 2009,
p. 102 ss.; Id., L’accettazione dell’eredità
dei c.dd. chiamati non delati, in Fam. pers.
e succ., 2009, 6, in corso di pubblicazione.
G. Perlingieri, Il patto di famiglia tra
bilanciamento dei princípi e valutazione
comparativa degli interessi, in Rass. dir.
civ., 2008, p. 146 ss..
F. Lucarelli, o.c., p. 238.
F. Lucarelli, o.c., p. 244.
133
duale processo storico di continuità
e discontinuità. L’arbitrarietà si trasforma in discrezionalità controllabile dai valori normativi superiori27.
La prospettiva, proposta, impone
tuttavia una grande presa di coscienza e responsabilità del giurista, nonché la necessità di comprendere il
significato della locuzione: interpretazione sistematica ed assiologica28.
2. (Segue). La qualità degli interpreti
quale forma di garanzia del progresso
materiale e spirituale della società
L’interpretazione sistematica ed
assiologica presuppone:
a) di attribuire centralità nel sistema
non già al codice, ma alla legalità
costituzionale, che non è chiusa,
ma aperta alle istanze comunitarie e internazionali (artt. 10, 11,
117 cost.): legalità costituzionale,
quindi, che non si risolve nel dettato costituzionale;
b) di attribuire alle norme costituzionali un significato non soltanto programmatico e promozionale, o meramente ermeneutico, ma
precettivo e vincolante quali regole di comportamento e di validità. Queste opererebbero sia
tramite l’intermediazione delle
regole ordinarie (le quali pertanto
dovrebbero essere interpretate ed
applicate sempre in modo conforme ai valori normativi superiori
secondo la tecnica del combinato
disposto), sia direttamente nei
rapporti intersoggettivi, in mancanza di una regola specifica;
27 G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie, cit., p.
603.
28 Sul punto cfr. P. Perlingieri, L’interpretazione della legge, come sistematica ed assiologica. Il broccardo in claris non fit interpretatio, il ruolo dell’art. 12 disp. prel.
c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, cit., p.
297, ove si afferma che l’unità «logica
sulla quale fondare la interpretazione sistematica […] è il frutto […] dell’incontro
[…] fra la teoria dell’interpretazione e
l’ordinamento nella sua unitarietà»; Id., Il
diritto civile nella legalità costituzionale,
cit., pp. 159 ss. e 535 ss.; Id., La dottrina
del diritto civile nella legalità costituzionale, in Rass. dir. civ., 2007, p. 497 ss., ivi
ulteriori riferimenti bibliografici.
recensioni
Gazzetta
134
c) di rileggere il significato delle
regole ordinarie e la loro natura
regolare/eccezionale alla luce del
sistema e dei suoi valori 29.
Pertanto la norma costituzionale
non è una norma politica. Destinatario di essa è tanto il politico quanto il giurista.
Ciò in modo da garantire che
ogni decisione (politica o giuridica)
sia presa secondo il criterio di ragionevolezza.
Tuttavia, quello che più preoccupa, e che del resto è alla base della
locuzione del sottotitolo del volume
in esame (il vento non sa leggere),
non è tanto la qualità della legge,
ma la qualità degli interpreti 30, i
quali spesso rifuggono da interpretazioni adeguatrici o costituzionalmente orientate, ora per inavvertenza, perché considerano le norme
costituzionali meramente programmatiche, ora perché convinti di un
loro superamento da parte delle
norme comunitarie, le quali, al contrario, sempre più sembrano attuare
ed integrare i principi costituzionali, attribuendogli, al contempo, nuova linfa.
Si pensi all’art. 41 Cost., ed alla
c.d. Costituzione economica, che, se
riletti anche alla luce delle normativa comunitaria, acquistano nuova
linfa e nuova portata31. Il mercato, e
l’attuale crisi finanziaria ne ha dato
chiara dimostrazione, è statuto nor-
29 Per una applicazione v. P. Perlingieri,
Forma dei negozi e formalismo degli interpreti (1987), rist., Napoli, 1999, p. 1 ss..
30 Tale pericolo è manifestato a più riprese da
F. Lucarelli, o.c., pp. 11 ss. e 17 ss..
31 Sul ruolo dell’art. 41 cost. nel sistema
giuridico vigente, cfr. P. Perlingieri, Il
diritto civile nella legalità costituzionale,
cit., p. 471 ss.; V. Buonocore, Iniziativa
economica privata e impresa, in Iniziativa
economica e impresa nella giurisprudenza
costituzionale, a cura di V. Buonocore, 16,
Collana Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana, Napoli, 2006, p. 3 ss.; si pensi, in particolare,
alla tematica della tutela della concorrenza
che è posta in attuazione dell’art. 41 cost.,
nonché a garanzia del diritto di iniziativa
economica; sul tema v., di recente, L. Di
Nella, Il diritto della distribuzione commerciale, a cura di L. Di Nella, L. Mezzasoma e V. Rizzo, Napoli, 2008, p. 40 ss.
r e c e n s i o n i
Gazzetta
F O R E N S E
mativo, ha bisogno di regole che lo
controllino e garantiscano la lealtà
e la correttezza dei comportamenti.
Da qui l’unitarietà del sistema e
la sua flessibilità ermeneutica, caratterizzata proprio dalla qualità
delle norme costituzionali le quali
non sono chiuse, rigide ed immutabili, ma aperte e flessibili in funzione applicativa.
Non si può che concordare con
quella dottrina che osserva: meglio
una legge mal fatta interpretata da
un bravo giurista (che, “a differenza
del vento”, sa leggere il sistema e
conseguentemente sa attribuire alla
legge il senso più ragionevole), che
una legge ben fatta interpretata
“come il vento”, ovvero dal giurista
che non sa leggere32.
Ciò che più rileva, quindi, è la
qualità degli interpreti e la formazione del giurista.
Giova proporre qualche breve
esempio per confermare tali osservazioni.
Una ipotesi di legge non rigorosa
è il patto di famiglia (art. 768-bis e
ss. c.c.) introdotto da un legislatore
che, ad esempio, sembra utilizzare
indifferentemente i termini parte del
contratto e partecipazione all’operazione. Tuttavia se l’interprete in
funzione applicativa considera alcuni principi di teoria generale del
negozio (si pensi al principio di relatività degli effetti e di intangibilità
delle sfere giuridiche individuali ex
art. 1372 c.c.; al principio di variabilità della struttura; al principio di
economia degli atti e delle dichiarazioni) e soprattutto tiene conto degli
interessi (anche non patrimoniali) e
dei valori che il patto di famiglia
intende soddisfare è possibile porre
rimedio a molte incertezze ed imprecisioni del dettato letterale33. È possibile quindi trasformare tale discussa fattispecie da monade dell’ordinamento a negozio coerente con il
sistema stesso.
Per fare ciò, tuttavia, occorre un
interprete capace di rifuggire dal
sillogismo e dalla sussunzione e da
costruzioni astratte (tendenti, ad
esempio, ad inquadrare il patto di
famiglia ora nella mera donazione,
sia pure modale, ora nella mera divisione) insuscettibili di indagare la
funzione in concreto perseguita dal
negozio34.
Viceversa, una ipotesi di legge
rigorosa, ma pur sempre non correttamente interpretata, è rappresentata
dalle norme in materia di responsabilità civile del codice del 1942. Queste, esempio di rigore e chiarezza, per
anni (più di cinquanta) sono state
interpretate (e per alcuni versi continuano ad esserlo) senza alcuno sforzo di inquadramento nel sistema
giuridico vigente, il quale ha subito
una profondo cambiamento con l’entrata in vigore della Carta costituzionale del 1948. Così, in materia di c.d.
“danno non patrimoniale” non si è
tenuto conto della legalità costituzionale (artt. 54, 101, comma 2, 117,
comma 1, Cost.) e della necessità di
adeguare il dettato letterale degli
artt. 2043 e 2059 c.c. alla gerarchia
delle fonti e dei valori normativi, finendo, come vedremo, ora per svilire
il danno alla persona, ora per parcellizzarlo in discutibili voci di danno,
ora per attribuirgli unitarietà ma
senza riconoscere il giusto peso
all’art. 2043 c.c. e alla sua atipicità.
32 «La civiltà di un ordinamento sta non
tanto nella perfezione formale delle sue
leggi quanto nella sensibilità e nella cultura dei suoi interpreti secondo che abbiano
o no la consapevolezza dei fondamenti
storico-politici degli istituti giuridici ed il
gusto di partecipare al dibattito sui grandi
temi della civile convivenza non in forma
astratta ma immersi nella realtà di ogni
giorno», P. Perlingieri, Editoriale, in
Rass. dir. civ., 1980, p. 1. Da qui l’obiettivo dell’accademia e la necessità di formare
giuristi consapevoli del proprio ruolo.
33 G. Perlingieri, Il patto di famiglia tra
bilanciamento dei princípi e valutazione
comparativa degli interessi, cit., p. 199 ss.;
G. Recinto, Il patto di famiglia, in R.
Calvo e G. Perlingieri (a cura di), Diritto delle successioni, I, cit., p. 627 ss. V.
anche P. Perlingieri, Il diritto civile nella
legalità costituzionale, cit., p. 592; E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti
giuridici (Teoria generale e dogmatica),
cit., p. 182 ss.
34 G. Perlingieri, o.u.c., p. 190 s.
F O R E N S E
Nel primo esempio (patto di famiglia) è possibile riscontrare un legislatore sciatto, ma, al contempo,
un giurista dogmatico e nomenclatore il quale non tenta di porre rimedio
con ragionevolezza alle innegabili
incertezze legislative del dettato letterale. Infatti, per un verso, non va
di là dall’esigenza di sussumere il
patto di famiglia in una (donazione)
o altra categoria (divisione) e, per
altro verso, risulta incapace di analizzare la funzione in concreto perseguita da tale fattispecie e così liberarsi dalla sussunzione e dal sillogismo,
al fine di analizzare gli interessi e i
valori in concreto coinvolti.
Nel secondo esempio (danno alla
persona), invece, nonostante il chiaro
dettato letterale, è possibile riscontrare un giurista che “è andato a
vento” e che dimentica, da più di 50
anni, che il 2043 c.c. è norma centrale della responsabilità civile e che gli
interessi non patrimoniali nella gerarchia dei valori sono al vertice del
sistema giuridico vigente35 e devono
essere risarciti qualora lesi in modo
35 P. Perlingieri, Il diritto alla salute quale
diritto della personalità, in Rass. dir. civ.,
1982, p. 1040 ss., ora in Id., La persona e
i suoi diritti. Problemi del diritto civile,
Napoli, 2005, p. 121 ss.; Id., L’art. 2059
c.c. uno e bino: una interpretazione che
non convince (nota a Corte cost., 11 luglio
2003, n. 233), in Rass. dir. civ., 2003, p.
776 ss.; Id., L’onnipresente art. 2059 c.c.
e la “tipicità” del danno alla persona (nota a Cass., Sez. un., 11 novembre 2008,
n. 26972), in Rass. dir. civ., 2009, p. 520
ss.; Id., La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Camerino-Napoli, 1972,
p. 284. L’art. 2043 c.c. è da intendere non
quale sintesi di doveri «specifici» ma piuttosto quale «clausola generale» che di
volta in volta, secondo gli interessi protetti e lesi, si riempie di contenuti: S. Pugliatti, Alterum non laedere, in Id., Responabilità civile, II, Milano, 1968, p. 66 s.. In
merito si ricordi Cass., Sez. Un., 22 luglio
1999, n. 500, in Nuova giur. civ. comm.,
1999, II, p. 357 ss., sulle cui implicazioni,
tra gli altri, cfr. G. Oppo, Novità e interrogativi in tema di tutela degli interessi legittimi, in Riv. dir. civ., 2000, I, p. 391 ss.; A.
Falzea, Gli interessi legittimi e le situazioni giuridiche soggettive, ivi, p. 679 ss.; F.D.
Busnelli, Dopo la sentenza n. 500. La
responsabilità civile oltre il «muro» degli
interessi legittimi, ivi, p. 335 ss.; Id., Le
sezioni unite e il danno non patrimoniale,
in Riv. dir. civ., 2009, II, p. 97 ss..
n o v e m b r e • d i c e m b r e
135
2 0 0 9
ingiusto. Infatti se il principio cardine
del sistema «è la massima attuazione
del valore della persona, è il primato
del pieno sviluppo della persona», e
della sua dignità, «non si può assolutamente pensare che qualche tecnica
o concezione dogmatica preconcetta
possa rappresentare un ostacolo per
l’attuazione di tale valore. I concetti
devono essere utili, adeguati per la
realizzazione dei valori»36.
Dunque il problema non è
tanto nella rigorosità o non rigorosità del legislatore, ma nella qualità
degli interpreti, posto che, di là dalla
rigorosità del dettato letterale, l’irragionevolezza delle soluzioni spesso è
per lo più imputabile alla classe dei
giuristi incapaci di ragionare sul
dettato normativo e di rifuggire
dall’in claris non fit interpretatio o
da ogni automatismo meramente
logico-razionale.
3. (Segue). Il giurista che come il vento
non sa leggere
Il discorso cade sul giurista che
non ha saputo e tutt’ora non sa
leggere. Il Prof. Lucarelli sembra
distinguerlo in più categorie, che
proveremo ad individuare ed arricchire.
V’è il giurista che come il vento:
a) ha disatteso il suo ruolo pensandosi creatore del diritto, negli
eccessi dell’uso alternativo del
diritto (il giurista alternativo o
il g i u r i s t a d a ll a s u pe rb i a
luciferina)37;
b) ha disatteso per 60 anni il dettato costituzionale e ne prospetta
oggi il superamento. Sí che lo
considera un inutile orpello di-
36 Così P. Perlingieri, Il diritto privato futuro, in Id., L’ordinamento vigente e i suoi
valori, cit., p. 279 s., proprio con riferimento al tema dell’interpretazione degli
artt. 2043 e 2059 c.c. da parte della stessa
Corte costituzionale.
37 F. Lucarelli, o.c., pp. 68 e 105; né rivalutare le esigenze del caso concreto significa dare luogo all’uso alternativo del diritto
perché il giudice deve trovare il giusto
compromesso tra fatto e norma (v. anche
p. 119).
menticando che esso è diritto
positivo e che non è statico ma
dinamico (il giurista snob o
antipositivista)38;
c) è affetto da una «malattia» secondo la quale il vero tecnico
non può ricorrere ai principi
perché il rigore scientifico non
può tener conto dei valori, ma
deve basarsi su dogmi e categorie
più rassicuranti (il giurista nostalgico o dei concetti e delle
categorie)39. In tal modo si dimentica che non esiste una legge
che non necessita di interpretazione (l’ordinamento non è qualcosa di bello e fatto) – le stesse
clausole generali (buona fede,
abuso del diritto, ordine pubblico etc.) necessitano di un interprete non dogmatico ma attento
e sensibile –, e che qualsiasi scelta, soluzione, decisione (dal latino tagliare) non è mai neutrale,
ma è scelta di valore perché impone un bilanciamento di interessi e dunque di valori;
d) è affetto da «un’altra malattia»:
l’analisi economica del diritto.
Questa rappresenta un mero punto di vista ma non l’ideologia del
sistema giuridico vigente (il giurista economista-antiposi­tivista)40;
e) pensa che la legalità costituzionale si esaurisca nel dettato costituzionale (il giurista chiuso),
dimenticando che il sistema, come detto, è aperto. Gli artt. 10,
11 e 117, comma 1, cost. impongono di considerare quali elementi propri della legalità costituzionale e dell’unitario e complesso ordinamento, non soltanto le disposizioni di derivazione
comunitarie, ma anche le disposizioni di derivazione locale, le
prassi e le convenzioni internazionali. L’interpretazione in tal
modo diventa evolutiva. La c.d.
Costituzione economica, ad
esempio, non può non essere ri-
38 F. Lucarelli, o.c., p. 17.
39 F. Lucarelli, o.c., p. 18.
40 F. Lucarelli, o.l.c.
recensioni
Gazzetta
136
letta tenendo conto anche degli
impulsi e le istanze derivanti
dalla normativa comunitaria;
f) non conosce il caso concreto41. I
pretori romani dicevano dammi
il fatto ti darò il diritto. Una decisione giuridica può essere presa
soltanto dopo aver individuato
tutte le «peculiarità del caso concreto» e le circostanze nel quale
è avvenuto. Non esiste un fatto
sempre uguale a se stesso42, ma
esiste un fatto che si è verificato
in un determinato luogo, con
determinate circostanze personali, economiche, ambientali (non
da un soggetto qualsiasi o da una
parte qualsiasi, ma da una persona: età, una professione, un determinato livello culturale etc.).
In questo modo quaestio facti e
quaestio iuris tornano ad essere
le ragioni di ogni approccio ermeneutico, il quale trova nel momento applicativo la sua essenza43. Si pensi tutt’oggi a coloro
che applicano con disinvoltura
(irragionevole) le norme del consumatore a tutti i contraenti deboli dimenticando che il contraente debole non è una categoria
monolitica, ma ha al suo interno
esigenze e caratteristiche diverse
(consumatore, professionista,
imprenditore, risparmiatore);
g) prescinde da ogni tecnicismo (il
giurista atecnico). Questo è il più
pericoloso perché è orientato
soltanto su discorsi ideologici e
politici. È vero che per decidere bisogna sempre individuare
l’ideologia e la ratio della norma
e del sistema di riferimento, ma
vero è pure che chi non utilizza
con rigore le tecniche non è giurista perché le tecniche risultano
essenziali per garantire la rigo-
41 Sembra evidenziarlo anche F. Lucarelli,
o.c., p. 118, quando osserva che «il significato dei testi normativi dipende dalle
“esigenze del caso concreto”».
42 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 618 ss..
43 P. Perlingieri, Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione
c.d. adeguatrice, cit., p. 20 ss.
r e c e n s i o n i
rosità della soluzione. Sí che ideologia e tecnica sono due elementi indissolubili.
4. (Segue). L’interp<retazione assiologica quale interpr
Non c’è dubbio, tuttavia, che la
giurisprudenza, molto più della prevalente dottrina (ancora restia a riconoscere la legalità costituzionale),
oggi è sempre più sensibile ad applicare direttamente i principi nei rapporti soggettivi o ad interpretare le
disposizioni ordinarie in modo costituzionalmente orientato. Ciò anche grazie agli insegnamenti della
Corte costituzionale, la quale auspica sempre più (attraverso le c.dd.
ordinanze di inammissibilità)44 anche da parte del giudice comune un
controllo diffuso di costituzionalità
delle leggi e degli atti aventi forza di
legge, nonché una loro interpretazione adeguata alla legalità costituzionale e comunitaria. La normativa
da applicare al caso concreto, infatti, si individua non già tramite mere
operazioni logiche o sillogistiche,
ma tramite «una difficile e laboriosa operazione di composizione»45
con una conseguente operazione di
conformazione ai valori normativi
superiori.
Tuttavia la c.d. “interpretazione
costituzionalmente orientata”, come
la “rilettura” delle disposizioni ordinarie “alla luce della Costituzione”, sono formule ambigue che possono ingenerare equivoci. Se con
esse si intende dar luogo ad un adeguamento del dettato letterale delle
norme ordinarie alle norme superiori nel rispetto del principio di legalità unitariamente inteso e della
gerarchia delle fonti nulla quaestio;
viceversa non può essere accolta,
perché contraria alla stessa gerarchia delle fonti, una metodologia
che, pur rivalutando il ruolo delle
norme costituzionali, di fatto le
44 P. Perlingieri, o.u.c., p. 35.
45 P. Perlingieri, Il futuro «ius civile» e il
ruolo della dottrina, in Id., L’ordinamento
vigente e i suoi valori, cit., p. 59 ss..
Gazzetta
F O R E N S E
continua a considerare – insieme al
complesso sistema costituzionale – quali meri canoni ermeneutici;
sí che oggetto dell’interpretazione
sarebbe sempre e soltanto la disposizione ordinaria sottoposta al controllo di legittimità e allo sforzo di
adeguamento e di conformazione al
“sistema costituzionale”. Le «norme
costituzionali non hanno soltanto
valenza ermeneutica; esse sono principi e regole di comportamento,
hanno valenza sostanziale e concorrono in via primaria a comporre la
normativa del caso concreto»46.
Dunque l’interpretazione c.d.
adeguatrice o “costituzionalmente
orientata” non deve essere svolta
con riferimento ad una singola disposizione, perché l’interpretazione
assiologica è sempre sistematica, né
deve essere realizzata pensando che
la soluzione finale possa prescindere
dalla conformità o la coerenza con
la scala dei valori e con l’ordine
giuridico vigente.
Pertanto il giurista che, come il
vento, non sa leggere è anche chi: ora
propone una interpretazione costituzionalmente orientata di singole
disposizioni senza provare ad armonizzare le une con le altre e individuare le relazioni di senso (tra regole e) tra regole e principi; ora dimentica che la filosofia della vita che
esprime un ordinamento deve sempre trovare corpo nella soluzione del
caso concreto in modo da non realizzare soluzioni lesive del principio
di legalità costituzionale (artt. 54,
101, comma 2, 117, comma 1, Cost.),
nonché irragionevoli per il sistema
perché, ad esempio, contrarie al
principio di eguaglianza sostanziale47 (art. 3, comma 2, Cost.).
È ciò che è accaduto con la recente sentenza della Cassazione a Sezio-
46 P. Perlingieri, L’onnipresente art. 2059
c.c. e la “tipicità” del danno alla persona,
cit., p. 520, nota 2.
47 P. Perlingieri, Legalità ed eguaglianza
negli ordinamenti privati, in Id., L’ordinamento vigente e i suoi valori, cit., p. 152
ss..
F O R E N S E
ni Unite sul danno alla persona48,
che, interpretando in modo “costituzionalmente orientato” soltanto
l’art. 2059 c.c. e non anche l’art. 2043
c.c., compie un errore metodologico. Infatti l’interpretazione assiologica deve essere sempre sistematica
e non può essere realizzata facendo
riferimento ad una singola disposizione, come se questa fosse una
monade nel sistema. Tra l’altro, ci si
dimentica che la norma centrale in
materia di responsabilità civile è il
2043 c.c., mentre il 2059 c.c. è una
mera norma di rinvio49.
L’interpretazione non si risolve
mai nella lettura di una singola disposizione o di un singolo articolo,
ma parte da una proposizione linguistica al fine di individuare il
collegamento ed il ruolo che essa ha
nell’intero sistema50.
In questa prospettiva se la Suprema Corte, per un verso, ha fatto dei
passi in avanti proprio alla luce di
48 Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008,
n. 26972, in Rass. dir. civ., 2009, p. 499
ss., con note di P. Perlingieri, L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del
danno alla persona e F. Tescione, Per una
concezione unitaria del danno non patrimoniale (anche da contratto) oltre
l’art. 2059 c.c.; sul danno non patrimoniale da contratto v. anche Id., Il danno non
patrimoniale da contratto, Napoli, 2008,
p. 15 ss..
49 P. Perlingieri, Il diritto alla salute quale
diritto della personalità, cit., p. 1040 ss.;
Id., L’art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince, cit., pp. 776
e 778; Id., Il diritto privato futuro, cit., p.
279 s.; Id., L’onnipresente art. 2059 c.c. e
la “tipicità” del danno alla persona, cit., p.
520 ss. Sul punto cfr. anche V. Scalisi,
Lesione della identità personale e danno
non patrimoniale, in Riv. dir. civ., 1984, I,
p. 433 ss. e spec. p. 444 ss.; Id., Danno
alla persona e ingiustizia, in Riv. dir. civ.,
2007, I, p. 147, secondo il quale la prospettiva ermeneutica di ricondurre il danno
alla persona all’art. 2059 c.c. presenta il
rischio di assoggettare tale danno alla
condizione di tipicità che resta pur sempre
un requisito ulteriore rispetto ai previsti e
consueti elementi caratterizzanti la ordinaria struttura dell’illecito civile, così che
interessi e valori della persona umana
meritevoli di tutela restino non tutelabili
sul piano aquiliano. In tal senso v. anche
Id., Le sezioni unite e il danno non patrimoniale, cit., p. 97 ss..
50 P. Perlingieri, Il diritto privato futuro,
cit., p. 280.
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una interpretazione costituzionalmente orientata (poiché ha dato rilevanza ed unitarietà al danno non
patrimoniale, in quanto danno alla
persona, osservando giustamente
che la persona non si presta a scomposizioni o frazionamenti, si che
non è distinguibile o separabile in
voci di danni)51, per altro verso, non
sembra ragionare correttamente là
dove afferma che il danno patrimoniale è atipico, mentre quello alla
persona è tipico. Nella prospettiva
costituzionale gli interessi non patrimoniali sono al vertice della gerarchia dei valori. Sí che per evitare
il risarcimento di danni c.dd. bagattellari (o futili) non giova ricorrere
alla categoria della tipicità, ma occorre, diversamente, rivalutare la
clausola generale dell’ingiustizia del
danno (art. 2043 c.c.)52.
Del resto è una contraddizione
in termini proporre una interpretazione costituzionalmente orientata
dell’art. 2059 c.c. e non anche
dell’art. 2043 c.c., nonché di tutte le
disposizioni in materia di responsabilità civile. Né si può considerare il
danno alla persona tipico e quello
patrimoniale atipico perché verrebbe stravolta la gerarchia dei valori
normativi, come se il danno alla
persona fosse un danno di serie
minore.
51 «Il danno, come tale, è sempre valutato
patrimonialmente; è l’interesse leso che
può essere non patrimoniale. Tuttavia, sul
piano della struttura dell’illecito, il danno
alla persona può essere rappresentato come incidente sulla capacità reddituale
della persona e, ad un tempo, sulla sua
integrità psicofisica, intesa come valore
esistenziale che prescinde dalla capacità
reddituale. In realtà essi rappresentano un
unico danno alla persona. Ciò consente di
evitare un insieme di problemi che presuppongono la sussistenza di autonome categorie di danni», P. Perlingieri, L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del
danno alla persona, cit., p. 528.
52 P. Perlingieri, Il diritto alla salute quale
diritto della personalità, cit., p. 1040 ss.;
Id., L’art. 2059 c.c. uno e bino: una interpretazione che non convince, cit., pp. 776
e 778; Id., Il diritto privato futuro, cit., p.
279 s.; Id., L’onnipresente art. 2059 c.c. e
la “tipicità” del danno alla persona, cit., p.
520 ss..
137
Tra l’altro il danno è sempre
patrimoniale; viceversa, è l’interesse
leso che può essere patrimoniale o
non patrimoniale53.
La conseguenza della prospettiva accennata è che l’art. 2043 c.c.
riguarda tanto il c.d. “danno patrimoniale”, quanto il c.d. “danno non
patrimoniale” (o danno alla perso-
53 In tal senso v. P. Perlingieri, L’art. 2059
c.c. uno e bino: una interpretazione che
non convince, cit., p. 781; Id., L’onnipresente art. 2059 c.c. e la “tipicità” del
danno alla persona, cit., p. 528; A. Procida Mirabelli di Lauro, Il danno ingiusto (dall’ermeneutica «bipolare» alla teoria
generale e «monocentrica» della responsabilità civile), in Riv. crit. dir. priv., 2003, I,
p. 9 ss. e II, p. 219 ss.; A. Flamini, Il danno alla persona: danno patrimoniale, danno non patrimoniale, danno morale, in
Corti marchigiane, 2005, p. 317 ss.; E.A.
Emiliozzi, Il danno alla persona. Profili
sistematici e ricostruttivi, Napoli, 2008, p.
49 ss.; C. Perlingieri, Enti e diritti della
persona, Napoli, 2008, p. 174; A. Lepore,
Responsabilità civile e tutela della «persona-atleta», Napoli, 2009, p. 271 ss.; F.D.
Busnelli, Le sezioni unite e il danno non
patrimoniale, cit., p. 97 ss. Sul punto ancora confusa si presenta la posizione della
giurisprudenza: cfr. la recente Cass., Sez.
Un., 11 novembre 2008, n. 26972, in Rep.
Foro. it., 2008, voce Danni, nn. 244-251,
la quale, ribadendo la centralità
dell’art. 2059 c.c. in tema di danno non
patrimoniale, ha inteso definire quest’ultimo come ‘tipico’, limitando la sua applicazione a tre ipotesi: in caso di fatto-reato,
ex art. 185 c.p.; di riconoscimento espresso da parte del legislatore di un danno non
patrimoniale (come è indicato dalla legge
sulla privacy); e di lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione. Sul tema si ricordino, tra le altre, le più recenti Cass., 31 maggio 2003,
n. 8827, in Rep. Foro it., 2003, voce Danni civili, nn. 236, 244, 313 e 380 e Cass.,
31 maggio 2003, n. 8828, ivi, voce cit.,
nn. 297, 332, 393 e voce Responsabilità
civile, n. 179, commentate ex multis, in
Corr. giur., 2003, p. 1017 ss., con nota di
M. Franzoni, Il danno non patrimoniale,
il danno morale: una svolta per il danno
alla persona; in Danno resp., 2003, p. 819
ss., con note di F.D. Busnelli, Chiaroscuri d’estate. La Corte di cassazione e il
danno alla persona e di G. Ponzanelli,
Ricomposizione dell’universo non patrimoniale: le scelte della Corte di cassazione;
in Resp. civ. prev., 2003, p. 675 ss., con
note di P. Cendon, Anche se gli amanti si
perdono l’amore non si perderà. Impressioni di lettura su Cass. 8828/2003, di E.
Bargelli, Danno non patrimoniale ed
interpretazione costituzionale orientata
dell’art. 2059 c.c. e di P. Ziviz, E poi non
rimase nessuno.
recensioni
Gazzetta
138
na), purché ingiusti 54 (atipicità),
mentre, l’art. 2059 c.c. ha una mera
funzione sanzionatoria riferendosi
al solo danno morale soggettivo55.
Da tali osservazioni emerge il
pericolo attuale. Se è vero che finalmente l’interprete di oggi sembra
54 L’«estensione della responsabilità civile si
gioca nella rilettura senza pregiudizi
dell’art. 2043 c.c. e del suo ruolo di principio normativo secondo Costituzione. Dal
diritto di proprietà ai diritti personali di
godimento, da questi ai diritti di credito e
agli interessi legittimi sino a giungere ai
diritti inviolabili dell’uomo e soprattutto
al valore della persona: un itinerario della
stessa interpretazione applicazione
dell’art. 2043 c.c. in conformità al mutato
orientamento assiologico dell’ordinamento», P. Perlingieri, L’onnipresente
art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla
persona, cit., p. 529. In questa prospettiva
l’art. 2043 c.c. può assumere diverse funzioni oltre a quella ripristinatoria. Ad es.
finalità sanzionatoria è stata ricondotta
all’art. 5 del d.lg. 9 ottobre 2002, n. 231,
relativo alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali. Il
particolare saggio di interesse starebbe a
dimostrare una funzione deterrente diretta
a scoraggiare qualsiasi forma di inadempimento: Id., L’art. 2059 c.c. uno e bino: una
interpretazione che non convince, cit., p.
779, nota 13; sul punto v. anche A. Frignani e O. Cagnasso, L’attuazione della
direttiva sui ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali, in Contratti,
2003, p. 308 ss. Anche nell’ipotesi di risarcimento di danni per interessi non patrimoniali, la condanna assumerebbe, tra
l’altro, una funzione punitiva nei confronti dell’autore dell’illecito: di questa opinione è P. Trimarchi, voce Illecito (dir. priv.),
in Enc. dir., XX, 1970, p. 109, nota 63.
55 Così P. Perlingieri, L’art. 2059 c.c. uno
e bino: una interpretazione che non convince, cit., p. 778; Id., L’onnipresente
art. 2059 c.c. e la “tipicità” del danno alla
persona, cit., p. 520 ss.; C. Perlingieri,
Enti e diritti della persona, cit., p. 177 ss.;
in tal senso cfr. anche F. D. Busnelli, Le
sezioni unite e il danno non patrimoniale,
cit., p. 119 s., il quale richiama in senso
conforme un lavoro del 2008 di R. Scognamiglio, Danni alla persona e danno
morale, in Riv. dir. priv., 2008, p. 24. In
questa prospettiva l’art. 2059 c.c. opererebbe non soltanto nel caso previsto
dall’art. 185 c.p., ove l’illecito realizza,
allo stesso tempo, la consumazione di un
reato, ma anche in altre fattispecie. Si
pensi alla responsabilità aggravata prevista
dall’art. 96 c.p.c., nonché a quella derivante da ingiusta privazione della libertà personale nell’esercizio di funzioni giudiziarie,
ai sensi dell’art. 2, l. 13 aprile 1988, n. 117
e dal mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo ex art. 2, l.
24 marzo 2001, n. 89.
r e c e n s i o n i
convinto dell’idea secondo la quale
le norme costituzionali sono precettive e vincolanti, nonché, come tali,
incidenti sull’interpretazione delle
norme ordinarie e direttamente applicabili ai rapporti di diritto civile,
per altro verso, non sembra del tutto consapevole del modo nel quale
deve operare l’interpretazione sistematica ed assiologica.
In altre parole è importante battersi per proporre delle riforme legislative che possono riguardare anche
il codice civile56, ma occorre, altresì,
impegnarsi per insegnare ai giuristi
l’interpretazione c.d. adeguatrice57 o
sistematica ed assiologica.
Questa richiede cultura, sensibilità e capacità di analizzare il sistema nel suo complesso, in modo da
adeguare la normativa al fatto e
così coniugare non già fatto e legge,
ma fatto e diritto.
Gazzetta
F O R E N S E
5. (Segue). La sovrabbondanza delle
regole e l’applicazione diretta dei
principi
In questa prospettiva numerose
riforme legislative potrebbero essere
evitate. L’interpretazione sistematica ed assiologica, infatti, impone sia
l’utilizzo della tecnica dell’interpretazione estensiva della norma ordinaria secondo Costituzione, sia l’applicazione diretta dei principi.
Spesso non c’è bisogno di ripetere nelle leggi ordinarie principi già
presenti nel sistema e nella Costituzione. Altrimenti si finisce di ribadire pedissequamente, come nelle
norme in materia di consumatori,
concetti inutilmente ridondanti o
già acquisiti, come quello che statuisce che «l’imprenditore deve comportarsi con trasparenza, lealtà e
correttezza».
Inoltre sovente, per garantire la
giustizia del caso concreto, è sufficiente applicare direttamente le norme costituzionali attraverso la tecnica del bilanciamento dei principi. Ad
esempio, non c’è necessità di una
legge che specifichi espressamente
l’esigenza di tutelare e valorizzare
l’ambiente e i beni culturali se già un
interprete sensibile può rinvenire la
tutela dell’ambiente e dei beni culturali nelle norme della Costituzione a
tutela della salute e dello sviluppo
della persona (artt. 2, 3, 9 e 32 Cost.).
Non si garantisce lo sviluppo psicofisico della persona umana (artt. 2,
3 e 32 Cost.) e il progresso materiale
e spirituale della società (art. 4, comma 2, Cost.) senza tutelare e valorizzare l’ambiente, inteso come bene
unitario, e i beni culturali58.
Né il concetto di ambiente può
essere disgiunto dal concetto di paesaggio, urbanistica e sanità, in
quanto è l’insieme di questi elementi che garantisce lo sviluppo equilibrato dell’uomo.
La difficoltà è che per fare ciò
che si propone è indispensabile un
giurista non dogmatico, allenato al
dubbio e sensibile, in quanto, come
diceva Emilio Betti, «solo uno spirito di pari livello e congenialmente
disposto trova la via per comunicare con lo spirito che gli parla ed è in
condizione di comprenderlo in modo adeguato»59.
Sono numerosi i casi di soluzioni
giuridiche apparentemente incontestate perché frutto del “chiaro dettato normativo” (in claris non fit
interpretatio). Queste soluzioni,
invece, se riviste sistematicamente
ed assiologicamente possono diventare più ragionevoli ed eque alla
luce del sistema. Ciò anche superando il broccardo dura lex sed lex,
poco sensibile a considerare l’unici-
56 Lo stesso Lucarelli propone giustamente
degli interventi in materia di beni culturali
e ambientali e aderisce alle soluzioni della
commissione Rodotà; F. Lucarelli, o.c.,
p. 126.
57 P. Perlingieri, Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione
c.d. adeguatrice, cit., p. 60 ss.
58 Il tema dei beni culturali e dell’ambiente è
indicato da L. Paura, in Id. e F. Lucarelli, Diritto privato e diritto pubblico tra
solidarietà e sussidiarietà, cit., p. 140 ss.,
la quale si sofferma sulla sentenza della
Corte cost. n. 641 del 1987.
59 E. Betti, L’ermeneutica come metodica
generale delle scienze dello spirito, Roma,
1987, p. 99.
F O R E N S E
tà della sistema e la differenza tra
legge e diritto.
Per confermare tali osservazioni
giova proporre qualche esempio
coerente ai temi trattati nel volume
che si presenta.
a) Alla luce del principio di proporzionalità e di ragionevolezza e al
fine di garantire il diritto di proprietà, l’indennizzo di esproprio (ex
art. 43 Cost.) deve essere, come
giustamente ha detto anche recentemente la Corte europea dei diritti
dell’uomo, equo, ovvero giusto60, in
modo da garantire il ragionevole o
«giusto equilibrio tra esigenze di
interesse generale e diritto di
proprietà»61.
Ciò non comporta una necessaria e costante coincidenza tra indennizzo ed effettivo valore del bene, né
un indennizzo sempre integrale, ma
un ragionevole bilanciamento tra
indennizzo, valore venale del bene e
sua utilità per il proprietario e la
società (indennizzo proporzionale).
Perché soltanto così è possibile garantire un «“giusto equilibrio” tra le
esigenze dell’interesse generale e gli
imperativi della salvaguardia dei
diritti fondamentali del­l ’indi­
viduo»62.
Questa è una conquista per la
quale ci sono voluti più di 60 anni e
che si sarebbe potuta raggiungere da
tempo semplicemente rivalutando la
gerarchia dei valori, la tecnica del
bilanciamento dei principi, nonché,
in particolare, i principi di proporzionalità, adeguatezza e ragionevolezza63, già presenti nel dettato costituzionale (artt. 3, 36, 38, 42, 53,
97 Cost.), e che di certo non avreb-
60 Occorre «recuperare il senso della giustizia, non di quella astratta, ma della giustizia possibile. La giustizia come senso
dell’equo, del proporzionato, dell’adeguato, secondo i valori fondanti la comunità»,
P. Perlingieri, Il bagaglio culturale del
giurista, in Id., L’ordinamento vigente e i
suoi valori, cit., p. 242.
61 L. Paura, o.c., p. 146.
62 L. Paura, o.c., p. 150.
63 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italocomunitario delle fonti, cit., pp. 238 ss.,
265 ss., 289 ss., 535 ss. e 563 ss..
n o v e m b r e • d i c e m b r e
2 0 0 9
bero consentito indennizzi di esproprio del tutto irrisori.
b) Si pensi anche ai nuovi strumenti (le c.dd. azioni collettive inibitorie e risarcitorie) ai quali gli
Autori giustamente dedicano particolare attenzione64. Anche tali strumenti richiederanno interpretazioni
non dogmatiche e letterali, ma interpretazioni ragionevoli e adeguate
agli interessi da tutelare.
I dubbi derivanti dalla non chiara e manchevole lettera, in particolare del vecchio testo dell’art. 140 bis
cod. cons. ma non completamente
risolti dall’introduzione del nuovo
testo di legge65, impongono all’interprete un sforzo di rilettura della
disposizione alla luce dei principi
costituzionali di eguaglianza sostanziale, ragionevolezza e proporzionalità.
Proporzionalità s’intende tra interessi da tutelare ed efficacia dello
strumento o della tecnica utilizzata.
Giova orientare l’attenzione su
due problemi non assolutamente
considerati dal testo previgente e
soltanto in parte risolti dal nuovo
testo dell’art. 140 bis cod. cons.
Il primo riguarda la legittimazione, ovvero se va riconosciuta la legittimazione attiva ai soli consumatori e la legittimazione passiva ai
soli imprenditori.
L’art. 140 bis cod. cons. (anche
nella nuova formulazione) secondo
l’interpretazione comune – e a differenza dell’esperienza americana nella quale l’azione collettiva può essere esperita a prescindere dalle condizioni soggettive delle parti – sem-
64 L. Paura, o.c., p. 177 ss..
65 Testo introdotto, nel corso della correzione
delle bozze di stampa, dall’art. 1, comma
446, della l. recante Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge Finanziaria 2008) e
approvato dal Senato della Repubblica il
9 luglio 2009 (cfr. art. 49 ddl 1195/2009
su «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in
materia di energia»). Le disposizioni
dell’art. 140 bis cod. cons., nuova formulazione, si applicano agli illeciti compiuti
successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge.
139
bra riconoscere l’azione collettiva ai
soli consumatori.
Questa prospettiva è inaccettabile. La legittimazione attiva non
può essere preclusa a priori anche
ad altre categorie di contraenti parimenti deboli, come i consumatori,
ma non per forza qualificabili come
tali. Si pensi ad un soggetto che subisce un danno extracontrattuale e,
pertanto, non è qualificabile come
consumatore (ex art. 3, comma 1,
lett. a, cod. cons.), in quanto non ha
un rapporto relazionale e di consumo con l’imprenditore che di fatto
gli ha creato il danno. Non si comprende perché un soggetto leso, se
titolare di un interesse collettivo,
non possa agire attraverso una azione collettiva inibitoria e risarcitoria.
Così i cittadini di un paese che subiscono un inquinamento elettromagnetico o subiscono danni provocati dalla colposa immissione di
sostanze tossiche da parte di una
impresa. Non sono consumatori,
subiscono un danno extracontrattuale, ma sono titolari di un interesse collettivo meritevole di tutela66.
Tale soluzione può essere raggiunta, a mio parere, pur senza una
modifica legislativa, ma sul piano
ermeneutico attraverso una interpretazione c.d. adeguatrice67 delle
disposizioni in esame. Del resto
l’art. 140-bis cod. cons. (vecchio e
nuovo testo) discorre non soltanto
di consumatori, ma di utenti, e
l’utente è chiunque, e in qualsiasi
momento, si serva di un bene o di
un servizio, anche pubblico, a prescindere se all’interno di un rapporto contrattuale di consumo o con un
imprenditore.
Allo stesso modo non v’è ragione
per non estendere la legittimazione
passiva, oltre che agli imprenditori,
alla Pubblica amministrazione.
66 Sul punto si rinvia alle osservazioni di F.
Rizzo, Azione collettiva risarcitoria e interessi tutelati, Napoli, 2008, p. 213 ss., ivi
ulteriori approfondimenti.
67 P. Perlingieri, Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione
c.d. adeguatrice, cit., p. 66 ss..
recensioni
Gazzetta
140
Spesso una soluzione ragionevole
non necessita di grandi modifiche
legislative, ma di sensibilità nell’adeguare la legge al sistema e trasformare la legge in diritto. Perché la legge
è causa vinta, il diritto è causa da
vincere, secondo la funzione promozionale che la Costituzione riconosce
al diritto stesso e all’interprete
(artt. 4, 54, 101, comma 2, Cost.).
Il secondo problema riguarda il
tema della rappresentatività degli
enti esponenziali e l’esigenza di
«porre le imprese al riparo da iniziative futili» e ostili, «promosse a
scopo ricattatorio, poco trasparenti o fraudolenti, evitando i noti
abusi commessi negli Stati uniti»68.
Il vecchio testo dell’art. 140-bis,
comma 1, cod. cons. stabiliva che
erano legittimati ad agire le associazioni presenti nell’elenco governativo ex art. 139 cod. cons. Tale soluzione, se applicata alla lettera, sarebbe stata lesiva degli interessi tutelati e in particolare di quelle associazioni non inserite nell’elenco indicato. A tale atteggiamento, tuttavia, si poteva porre rimedio sul
piano ermeneutico posto che
l’art. 140-bis, comma 2, cod. cons.
recitava: sono legittimati ad agire
non soltanto le associazioni presenti nell’elenco governativo (cfr.
art. 139 cod. cons.), ma anche le
«associazioni e i comitati che sono
adeguatamente rappresentativi degli interessi collettivi fatti valere».
Dunque l’interprete non avrebbe
dovuto in alcun modo limitarsi agli
inutili certificati governativi di legittimazione all’azione, come tali,
astratti e generalizzanti e lesivi della
libertà di associazione (artt. 2, 18
ccost.), ma avrebbe dovuto, quanto
meno, rivalutare il concetto di rappresentatività. Il problema, pertanto, ritornava all’interprete, alle sue
capacità e al concetto di rappresentatività, utilizzato dallo stesso
art. 140-bis, comma 2, cod. cons. e
68 Così L. Paura, o.c., p. 179, riportando una
osservazione di Guido Alpa in un articolo
del Sole 24 ore.
r e c e n s i o n i
da rileggere necessariamente alla
luce dei principi di proporzionalità
e di adeguatezza.
In questa prospettiva la rappresentatività avrebbe consentito di
evitare abusi e, dunque, di precludere azioni futili dei consumatori dannose per gli imprenditori e di evitare ingiustificatamente azioni di piccole associazioni non presenti
nell’elenco governativo. Il tutto a
garanzia e tutela dell’ordine pubblico economico.
In altri termini, la rappresentatività e l’adeguatezza dell’ente (quali
elementi richiesti dall’art. 140 bis
cod. cons. – vecchia formulazione – per proporre l’azione risarcitoria) andavano valutate non già soltanto tramite criteri statici (criteri e
parametri predefiniti ex lege dall’autorità governativa), ma attraverso
una prospettiva relativa e attenta al
caso concreto. Così se l’illecito fosse
stato commesso su scala nazionale,
la rappresentatività (l’adeguatezza)
doveva essere giudicata alla luce di
tale livello; viceversa, qualora l’illecito avesse avuto una diffusione più
localizzata (a livello soltanto comunale, provinciale o regionale), la
rappresentatività doveva misurarsi
su un piano diverso. Una associazione poteva essere adeguatamente
rappresentativa per tutelare un certo
illecito e non un altro. Una valutazione, dunque, non statica (una
volta per tutte) secondo criteri predefiniti a livello organizzativo, ma
dinamica secondo valutazioni fatte
dal giudice nel caso concreto, ma
pur sempre rispettose dell’art. 18
Cost..
Il problema è stato soltanto in
parte risolto dal nuovo art. 140-bis,
comma 1, cod. cons., il quale però
sembra aver creato ulteriori problemi. Il nuovo testo, infatti, stabilisce
che il potere di azione è dei singoli,
che nel caso in cui tendono ad esplicitarla cumulativamente possono
farsi promotori dell’iniziativa collettiva o aderire a quella proposta da
un altro, oppure da un’associazione
o da un comitato. Sí che l’attività
delle associazioni dei consumatori o
Gazzetta
F O R E N S E
dei comitati favorisce soltanto
un’aggregazione più efficiente delle
iniziative individuali, specialmente
per le c.dd. small claims.
In altre parole l’iniziativa del
promotore è diretta a stimolare e
gestire cumulativamente singole
pretese degli altri soggetti lesi; egli
deduce in giudizio fin dall’inizio i
singoli diritti (omogenei) al risarcimento e alla restituzione di somme,
di cui si affermano titolari i consumatori e gli utenti aderenti alla sua
iniziativa. Dunque «i diritti individuali omogenei», ex art. 140-bis,
comma 1, cod. cons., si riferiscono
a pretese giuridiche lese dal convenuto, uguali e compatte tra di loro
e fanno riferimento non ad un interesse collettivo, bensì ad un bene
individuale che sorge dopo il verificarsi di un illecito plurioffensivo,
che fornisce l’occasione del ricorso
alla tutela giurisdizionale dei diritti
da parte dei singoli individui.
Tale soluzione se risolve a priori
alcuni dei problemi indicati (si pensi a quello della rappresentatività
degli enti) ne crea altri, poiché il
requisito dell’omogeneità, costituisce un quid pluris ed appare criticabile perché, seppure stringe le maglie del ricorso al nuovo strumento
di tutela collettiva al fine di evitare
azioni futili o abusive, rischia di
complicarne la riunione dei procedimenti e, di fatto, l’effettiva esperibilità. La vecchia formulazione, al
contrario, consentiva la promozione
di una class action in presenza dei
casi semplicemente analoghi, rendendo l’intera disciplina, seppure
sottoposta ad un attento controllo
dell’interprete in funzione applicativa, più duttile e flessibile rispetto al
caso concreto. All’interprete, ancóra
una volta, il còmpito di saper leggere la disposizione nel modo più
adeguato alle istanze da tutelare, sí
da bilanciare con ragionevolezza
interessi e valori.
6. Conclusioni
Consentitemi quindi di concludere dicendo che il Prof. Lucarelli
non è un conservatore come si di-
F O R E N S E
chiara69. Appartiene a quella categoria di giuristi che conoscono il passato, conoscono le fondamenta del
sistema e, quindi, propongono una
interpretazione attenta alle ideologie del sistema giuridico vigente. La
difesa della Costituzione non è un
nostalgico ritorno al passato, né una
difesa di una ideologia retrograda,
ma è rispetto dei valori della civile
convivenza che, come tali, non possono non essere il risultato della
tradizione. Valori normativi, beninteso, non già meramente scelti o
condivisi da gruppi più o meno numerosi, ma imposti dal sistema giuridico vigente e indicati come vincolanti dall’ordinamento stesso. Valori normativi che si evolvono e si
adeguano alla realtà sociale senza
mai mutare del tutto, in un graduale processo di continuità e discontinuità.
Ciò impone di considerare i valori normativi costituzionali quali criteri di misurazione e di valutazione
dei fatti in modo da garantire sempre
il rispetto della gerarchia delle fonti.
Né si può negare che nell’ordinamento italo-comunitario esista un criterio di valutazione assoluto. Nel momento in cui un criterio è posto al
vertice di una scala gerarchica, quale norma fondamentale, ed imposto
o condiviso non già da un singolo
gruppo, ma dall’ordinamento della
Repubblica, l’interprete non può, nel
momento applicativo, rifuggire da
esso violando il principio di legalità
(artt. 54, 101, comma 2, 117, comma
1, Cost.).
Questo non significa che ogni
criterio di valutazione è da considerare eterno. La storia ci ha insegnato
che anche i valori si evolvono, tant’è
che spesso la morale non coincide
con il diritto. Se questo è vero, vero
è pure che il criterio costituzionale è
il criterio di valutazione o di misurazione vigente, sí che oggi l’interprete
non può rifuggire da esso perché
così facendo, pur non discostandosi
dal dettato letterale di una singola
69 F. Lucarelli, o.c., p. 18.
n o v e m b r e • d i c e m b r e
2 0 0 9
regola ordinaria, finirà per violare il
principio di legalità costituzionale e
per porsi di là diritto positivo unitariamente inteso.
Del resto un criterio di valutazione, pur astrattamente superabile
dalla storia, è più duraturo se forte
della tradizione storica, della condivisione e della capacità, per come
posto, di adeguarsi alle esigenze del
caso concreto ed alle nuove istanze
della società civile. In astratto, quindi, esistono una molteplicità di criteri di giudizio, sí che ogni uomo ha il
suo tempio, ogni uomo sceglie la sua
religione e la sua divinità (più o meno
lecita che sia), ma la religione di un
dato ordinamento è costituita dalla
gerarchia dei suoi valori normativi, i
quali non sono scelti ma imposti. Da
qui la valutazione di ciò che è permesso, di ciò che è lecito e meritevole e di ciò che è vietato. Tali valutazioni non dipendono né dalla legge,
né tanto meno dalla volontà personale, ma dal diritto positivo unitariamente inteso.
Dunque non v’è politeismo giuridico, ma pluralità di fonti da ricondurre a sistema nel rispetto della
gerarchia e della competenza. Pur
nella diversità delle fonti (internazionali, transnazionali, comunitarie,
locali, statali) di potere e di produzione del diritto (diversità tali da
determinare la crisi della legge) il
primato della politica si riafferma nel
momento applicativo, tramite la prevalenza della soluzione più ragionevole, che, al contempo, è quella più
conforme ai valori normativi superiori. Questa prospettiva non consente di discostarsi dalla norma a
proprio piacimento, ma impone al
giurista di interpretare il dettato
letterale di una disposizione (spesso
di per sé polisenso) componendolo
con altre, in modo da individuare le
relazioni di senso tra regole e tra regole e principi, nonché applicare non
già la volontà della legge, ma la volontà del sistema giuridico vigente.
Questo trova nel momento applicativo la sua unitarietà. Per il giudice,
quindi, la divinità non è la propria
volontà, né la disposizione, bensì il
141
sistema, ovvero la disposizione interpretata alla luce dell’ordinamento
giuridico vigente e dei suoi valori.
Non si tratta di seguire una o altra
norma, ma di applicare la volontà
dell’ordinamento il quale non può
essere che la conseguenza di più disposizioni gerarchicamente disposte
che trovano nel momento applicativo
la loro unitarietà.
Diversamente si rischia di assistere ad interpretazioni letterali contrarie alla volontà superiore dell’ordinamento o a consuetudini contra legem.
La Costituzione, tuttavia, non si
difende con (pur utili)70 appelli o
manifesti, né con mere petizioni di
principio, ma si difende ora sul piano politico, attraverso non mere riforme ma progetti adeguati alla legalità costituzionale, ora attraverso
l’interpretazione c.d. adeguatrice71,
delle leggi e degli atti aventi forza di
legge, imposta dal principio di legalità. Questo richiede un giudice che
deve adeguarsi non soltanto alla
singola disposizione, ma all’ordinamento giuridico vigente ed ai suoi
valori.
Da qui le sempre attuali parole di
Calamandrei riportate dal Prof. Lucarelli: «la nostra Costituzione è in
parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora una
programma, un ideale, una speranza,
un impegno di un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere!
[…]. È stato detto giustamente che le
costituzioni sono delle polemiche
[…]. Questa polemica, di solito, è una
polemica contro il passato, contro il
passato recente […]»72.
Tuttavia, come indicato dall’art. 3,
comma 2, la nostra Costituzione è
anche in polemica contro il presente,
70 Cfr. quello del 5 luglio 2008 in F. Lucarelli, o.c., p. 241 ss..
71 P. Perlingieri, Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione
c.d. adeguatrice, cit., p. 1 ss.
72 F. Lucarelli, o.c., p. 77; sulla figura di
Piero Calamandrei v. le pagine di F. Cipriani, Piero Calamandrei e la procedura civile. Miti Leggende Interpretazioni Documenti, Napoli, 2007.
recensioni
Gazzetta
142
contro l’ordinamento sociale attuale,
che bisogna modificare sia attraverso
quegli strumenti di legalità, di trasformazione graduale che la Costituzione ha messo a disposizione del
legislatore italiano, sia attraverso
l’attività dell’interprete, il quale o
deve applicare direttamente la Costituzione o deve interpretare ogni disposizione in conformità ad essa,
posto che l’art. 101, comma 2, Cost.
(principio di legalità) va letto in combinato disposto con gli artt. 54, 117,
comma 1, e 4 Cost..
Tale prospettiva conferma che:
a) l’utilità della Costituzione
non si è per nulla esaurita, anzi è
ancora tutta da venire;
b) a distanza di 60 anni la responsabilità dei giuristi dogmatici e
insensibili alle spinte propulsive della
Costituzione è lampante;
c) non è più tempo di parlare
della Costituzione è tempo di interpretarla in funzione applicativa per
risolvere i problemi concreti.
Chi ancora pensa che il principio
di legalità (art. 101, comma 2, Cost.)
si riferisce soltanto alla legge ordinaria, o alla singola disposizione, non
rispetta la gerarchia delle fonti, è in
polemica con la Costituzione ed è di
là dal diritto positivo73, nonché dal
processo politico ed economico attuale.
È ora di considerare definitivamente abrogato l’art. 12 delle disp.
prel. c.c. che propone una fuorviante
ed a-sistematica interpretazione per
gradi (come auspicato con rara coerenza da oltre trenta anni dalla dottrina del diritto civile nella legalità
costituzionale74), in modo da conti-
r e c e n s i o n i
nuare a studiare, anche i temi più
classici del diritto civile, in una prospettiva diversa e più sensibile agli
interessi, ai valori normativi ed alla
loro gerarchia. Dunque il problema
non sta nello studiare più o meno un
istituto, ma nel rileggerlo in chiave
moderna e in una prospettiva non
soltanto patrimoniale (secondo la
c.d. depatrimonializzazione del diritto civile)75. Si pensi ai temi più tradizionali, come il negozio giuridico76 e
le servitù coattive77 (ex art. 1052 c.c.),
che se riletti in una prospettiva solidaristica e personalistica acquistano
immediatamente nuova portata. Così, ad esempio, l’art. 1052, comma 2,
c.c. oggi non può non essere riletto
in modo conforme alla legalità costituzionale (secondo una interpretazione c.d. adeguatrice) e all’esigenza
di garantire lo sviluppo psico-fisico
della persona umana (artt. 2, 3, comma 2, 32 e 42, comma 2, Cost.)78.
Dunque nel senso che il passaggio
coattivo di cui al comma 1 può essere concesso dall’autorità giudiziaria
75
76
77
73 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 542.
74 P. Perlingieri, Produzione scientifica e
realtà pratica: una frattura da evitare
(1969), ora in Id., Scuole, tendenze e metodi, cit., p. 6 ss.; Id., Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, cit., p. 111;
Id., Profili del diritto civile, 3a ed., Napoli,
1994, p. 17; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 535 ss.; Id., La
dottrina del diritto civile nella legalità costituzionale, cit., p. 497 ss., ivi ulteriori
riferimenti bibliografici; Id., Interpretazione e sistema dei valori, in Id., L’ordinamen-
78
to vigente e i suoi valori, cit., p. 365 s.; Id.
e P. Femia, Nozioni introduttive e princípi
fondamentali del diritto civile, cit., p. 166
ss.; P. Femia, voce Perlingieri Pietro, cit.,
p. 819 ss..
Sulla necessità di superare l’impostazione
produttivistica del codice civile, v. P. Perlingieri, Introduzione alla problematica
della “proprietà”, Napoli, 1971, p. 70 ss.;
Id., “Depatrimonializzazione” e diritto
civile, in Rass. dir. civ., 1983, p. 2 ss.; C.
Donisi, Verso la “depatrimonializzazione” del diritto privato, ivi, 1980, pp. 644
ss. e 655 ss., ivi ulteriori riferimenti bibliografici.
Sul punto v. F. Lucarelli, Solidarietà e
autonomia privata, Napoli, 1970, passim.
P. Perlingieri, Principio «personalista»,
«funzione sociale della proprietà» e servitù
coattiva di passaggio (nota a Corte cost.,
29 aprile 1999, n. 167), in Rass. dir. civ.,
1999, p. 688 ss., ora in Id., La persona e i
suoi diritti, cit., p. 533 ss. In questa prospettiva il personalismo e il solidarismo
costituzionali incidono anche sulle situazioni più propriamente patrimoniali e
persino sul «ramo secco delle servitù».
L’espressione è di G. Branca, Recensione
a P. Perlingieri, Rapporto preliminare e
servitù su “edificio da costruire”, in Riv.
trim., 1966, p. 671.
P. Perlingieri, Principio «personalista»,
«funzione sociale della proprietà» e servitù
coattiva di passaggio, cit., p. 534.
Gazzetta
F O R E N S E
non soltanto per ragioni patrimoniali, ma anche per istanze non patrimoniali, come quella di garantire un
adeguato accesso alla via pubblica
per i portatori di handicap.
È ora, quindi, di abbandonare il
broccardo in claris non fit interpretatio79 e di leggere l’art. 101 cost. in
combinato disposto con l’art. 54,
117, comma 1, e 4 Cost.80
Perché il giurista «non è un automa pronto automaticamente ad ogni
mossa o contromossa (come un giocatore di scacchi)»81, ma il fedele interprete del sistema giuridico e dei
suoi valori.
Già Seneca nel De tranquillitate
animi osservava che «allo Stato non
è utile solo chi presenta dei candidati, difende degli accusati, discute di
pace o di guerra, ma anche chi educa i giovani; chi, in tanta penuria di
buoni insegnamenti, ispira la virtù
degli animi; chi cerca di fermare la
corsa verso il denaro e il lusso o,
almeno, la frena; così facendo costui, anche se in privato, fa un servizio di pubblica utilità»82 , perché – diremmo noi – aiuta ogni cittadino ad agire con dignità, nei limiti del proprio ruolo e delle proprie
possibilità, in difesa di una ideologia83 capace di concorrere al progresso materiale e spirituale della
società. Per questo io ringrazio e
tutti noi dovremmo ringraziare il
Prof. Francesco Lucarelli.
79 P. Perlingieri, L’interpretazione come
sistematica ed assiologica. Il broccardo in
claris non fit interpretatio, il ruolo
dell’art. 12 disp. prel. c.c. e la nuova scuola dell’esegesi, cit., p. 273.
80 P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità
costituzionale, cit., p. 542 s. Cfr. anche Id.,
Giustizia secondo costituzione ed ermeneutica. L’interpretazione c.d. adeguatrice,
cit., p. 27 s. e 29 ss..
81 F. Lucarelli, in Id. e L. Paura, Diritto
privato e diritto pubblico tra solidarietà e
sussidiarietà, cit., p. 157.
82 L.A. Seneca, La tranquillità dell’animo,
trad. it. di G. Manca, Milano, 1993, p.
30.
83 G. Perlingieri, La povertà del pragmatismo e la difesa delle ideologie, cit., p.
606.
F O R E N S E
●
Giustizia della funzione
normativa e sindacato diffuso
di legittimità
di Raffaele Manfrellotti,
Jovine, 2008
● A cura di Chiara Cucinella
Dottoressa in giurisprudenza
L’opera è divisa in tre parti: nella
prima parte espone la preminenza
del principio personalista che permea la Costituzione e la conseguente
preminenza delle posizioni soggettive costituzionalmente protette. Tale
principio è alla base e legittima l’attività pubblica e in particolare l’attività normativa.
Nella seconda parte l’autore si
sofferma in particolare sulla funzione legislativa identificandola come lo
strumento di realizzazione delle situazioni giuridiche soggettive.
Nell’ultima parte del lavoro sono
oggetto di analisi gli strumenti di
tutela delle situazione soggettive lese
da norme illegittime e i modi per ricondurre la funzione normativa nel
modello costituzionale ogni volta
che se ne discosti.
L’autore ripropone in modo sintetico ed esaustivo le ragioni politiche e il dibattito svoltosi in sede di
Assemblea Costituente che hanno
portato all’istituzione di un controllo di costituzionalità sugli atti del
Parlamento. In particolare la sfiducia
del Costituente nella capacità della
magistratura di porsi a salvaguardia
dei diritti contro gli abusi del legislatore ha spinto l’Assemblea ad optare
per un sindacato di tipo accentrato,
sulla scorta del modello austriaco.
Il lavoro prosegue con la descrizione del progressivo mutamento del
contesto storico in cui opera la Corte Costituzionale che induce a rivedere il suo ruolo.
n o v e m b r e • d i c e m b r e
2 0 0 9
Tali cambiamenti sono rappresentati, in primo luogo, dal ruolo
sempre più <politico > della Corte,
determinato in particolar modo dal
sistema elettorale maggioritario, che
ha aumentato il potere della poltica.
Inoltre i valori della Carta fondamentale fanno ormai parte integrante della cultura del ceto dei giuristi e,
in particolare, della magistratura. La
stessa Costituzione è un parametro
a cui normalmente si richiamano i
giudici; allo stesso tempo pare tramontato il mito dell’onnipotenza
parlamentare in favore di una concezione del processo inteso come sede
in cui rendere giustizia alla persone
offesa nei suoi diritti e non in cui
dare applicazione alla sovrana volontà del legislatore.
Tutti questi elementi dimostrano,
ad opinione dell’autore, come siano
venute meno le ragioni che consigliavano il monopolio della Corte costituzionale nell’interpretazione e nella
realizzazione dei principi fondamentali dell’ordinamento.
Più adatta a ricoprire questa funzione, al giorno d’oggi, è la magistratura ordinaria, vincolata più al diritto che all’indirizzo politico.
L’autore, attraverso una raffinata
e stringente operazione ermeneutica,
mostra la legittimità e l’operatività
nel nostro sistema di un giudizio
diffuso di legittimità costituzionale.
Il Manfrellotti propone una lettura delle norme vigenti valorizzando gli elementi di diffusione del sindacato di legittimità sugli atti legislativi presenti nel sistema.
In particolare l’autore si sofferma
sull’art. 1 L. cost. 1 del 1948 e
l’art. 23 co. 2 L n. 87 del 1953: la
valutazione preliminare che deve
essere fatta dal giudice a quo ai fini
della rimessione della questione di
legittimità alla Corte Costituzionale
è incentrata oltre che sulla manifesta
infondatezza e sulla rilevanza della
questione anche sulla impossibilità
di una interpretazione conforme alla
Costituzione della norma ritenuta
illegittima.
L’interpretazione adeguatrice costituisce il corollario di una conce-
143
zione della Costituzione non limitata
a fungere da parametro di validità
degli atti, ma soprattutto ad esprimere la tavola di valori cui il sistema
giuridico è ispirato; il giudice è chiamato ad applicare la Costituzione ed
i diritti che essa esprime indipendentemente dall’intervento della Corte
Costituzionale.
L’ interpretazione adeguatrice e il
sindacato di costituzionalità sono
strumenti che operano su piani diversi: il primo rientra nella fisiologia
del sistema e attiene all’opera di interpretazione, il secondo è una fase
patologica ed eventuale e si attiva
sussidiariamente qualora l’interpretazione conforme non potesse essere
possibile.
Sostiene l’autore che, in ogni caso,
la disapplicazione degli atti invalidi
non abbisogna di un’espressa previsione normativa a differenza della
giurisdizione di annullamento che,
invece, deve risultare per tabulas.
L’inapplicabilità della norma illegittima è in ogni caso implicita nel
nostro sistema giuridico, perché un
atto non conforme a diritto, al di là
del suo annullamento nelle forme
previste dall’ordinamento, può non
avere applicazione.
La Costituzione contiene numerose disposizioni che affermano
implicitamente il dovere di disapplicazione del giudice a quo; in particolare l’art. 54 Cost. nella parte in
cui afferma il dovere generale di rispettare la Costituzione e le leggi
della Repubblica. Il rispetto per le
leggi della Repubblica è dovuto solo
in quanto legittime, nel senso le
eventuali antinomie debbono essere
risolte applicando la Costituzione e
non l’atto che la viola.
In conclusione l’autore asserisce
la necessità di utilizzare nuovi strumenti per la tutela della funzione
normativa costituzionalmente orientata, più efficaci rispetto a quelli fino ad oggi impiegati: la via del sindacato di costituzionalità diffuso è
parsa all’autore quella più garantista
e più agevolmente percorribile nel
contesto normativo e socio-politico
vigente.
recensioni
Gazzetta
144
r e c e n s i o n i
●
L’avvio del procedimento
di Vincenzo Galatro
e Aldo Sgro,
Giuffrè, 2009
● A cura di Valeria D’Antò
Avvocato
La legge 7 agosto 1990 n. 241,
modificata dalla legge 11 febbraio
2005 n. 15, nello stabilire nuovi rapporti tra le pubbliche amministrazioni e i cittadini, ha disciplinato per la
prima volta la materia delle garanzie
partecipative al procedimento amministrativo.
In questa materia rientra sicuramente l’istituto dell’avvio del procedimento.
L’Opera cerca di prospettare soluzioni e sciogliere dubbi che sono
sorti a seguito della concreta applicazione del relativo procedimento.
A tal fine mette a disposizione del
lettore-operatore del diritto una ampia e completa casistica anche alla
luce dei numerosi obblighi che oggi
hanno le pubbliche amministrazioni.
In tale contesto vengono evidenziate le connessioni tra autorità procedenti e soggetti interessati.
In particolare vengono messi in
evidenza i numerosi e differenti provvedimenti con i quali deve essere integrato e concluso il procedimento
amministrativo.
Di tal guisa si sottolinea, ove
possibile, il conforto della giurisprudenza più recente alle soluzioni prospettate.
Ove ciò, invece, non sia possibile
gli autori esprimono la loro opinione
ragionata sul perché preferire l’una
piuttosto che l’altra opinione giurisprudenziale pur sempre esistente.
L’Opera fa parte della “Nuova
serie” della Collana “Enti Locali”
nata con l’obiettivo di approfondire,
anche da un punto di vista pratico,
i principali problemi degli Enti locali.
Tale Collana, e con essa la “Nuova serie”, mira ad ottenere l’apprezzamento e il plauso degli amministratori pubblici e dei professionisti
attraverso l’analisi e la soluzione di
problemi che purtroppo le frammentarie leggi statali e regionali fanno
sorgere.
Tale scopo è raggiunto attraverso
l’analisi completa dei casi, l’apporto
di ricca documentazione sia essa legislativa, dottrinale che giurisprudenziale nonché attraverso una armonica architettura integrata da
Problemi e Casi pratici, il tutto redatto in modo fluido e chiaro.
Ogni capitolo si apre con la citazione dei riferimenti normativi da
tener presente ai fini di una migliore
comprensione del testo per poi concludersi con brevi quesiti ai quali
segue una sintetica ma chiara e puntuale risposta.
Tra l’altro tali quesiti, in ogni
capitolo, sono divisi per argomento,
rendendo, così, ancor più rapida ed
efficace la consultazione dell’Opera.
Lapalissiana è la schematicità
del testo che prima di analizzare la
comunicazione di avvio del procedimento in sé e per sé considerata,
spiega, seppur brevemente, in cosa
consiste il procedimento amministrativo, sia da un punto di vista
tecnico giuridico che secondo le
varie teorie elaborate dalla dottrina,
divise in concezione formale, funzionale, paragiurisdizionale e teoria
eclettica.
Segue l’analisi delle varie fasi del
procedimento, ovvero la fase dell’iniziativa, la fase dell’istruzione della
decisione e la fase dell’integrazione
dell’efficacia, seguita dalla conclusione del procedimento.
Di seguito, quindi, vari capitoli
sulla –comunicazione-, divisi per
argomento.
Vengono individuati i destinatari
della comunicazione, i destinatari
indiretti suscettibili di pregiudizio
nonché vengono prese in considerazione le ipotesi di esclusione dell’obbligo della comunicazione o comun-
Gazzetta
F O R E N S E
que dell’applicazione delle norme
sulla partecipazione.
Sono indicate le modalità in cui
deve avvenire la comunicazione e
specificato quale deve essere il suo
contenuto; viene spiegato perché
l’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento debba intendersi sussistente ogni qual volta
l’amministrazione intenda emanare
un atto che si presenti sfavorevole
per la sfera giuridica del privato, e,
a tal proposito, si sofferma l’attenzione su casi particolari quali la revoca dell’incarico di assessore, ovvero la revoca del segretario, del
direttore generale, piuttosto che la
revoca di incarichi dirigenziali.
Apposito capitolo è dedicato alla
comunicazione negli atti ablativi,
quali l’espropriazione, la requisizione, la confisca, il sequestro, il fermo
amministrativo.
Sezioni a parte sono riservate,
invece, alla comunicazione nell’appalto nonchè in edilizia e urbanistica.
Attenzione merita anche il capitolo otto, di particolare e frequente
interesse per i cittadini, dedicato
alla comunicazione nelle sanzioni
amministrative, ivi comprese quelle
irrogate dagli enti locali e quelle
irrogate in caso di contravvenzioni
al Codice della strada.
Parte dell’opera è dedicata anche
alla comunicazione nei procedimenti concorsuali e disciplinari nonché
nei provvedimenti impositivi.
Non vengono, infine, dimenticate le varie tipologie di comunicazioni che si palesano nelle ipotesi di
dichiarazione di notevole interesse
culturale e paesaggistico di aree e
immobili, di interventi conservativi
e prescrittivi imposti per la tutela dei
beni culturali e paesaggistici, di trasferimento di beni culturali mobili,
di autorizzazione per la gestione dei
rifiuti industriali estrattivi, di correttivo in materia ambientale, di procedimento informatico, di prevenzione
e riduzione dell’inquinamento.
Gli Autori raggiungono quindi
lo scopo di aver redatto un’Opera
completa e, soprattutto, pratica.