IL CENTRO DELLA VISIONE Prima sessione, Sansepolcro 13, 14, 15 dicembre ’13 Comunicazione di Piergiorgio Giacchè IL NATALE DELLO SGUARDO. OUVERTURE DEL PERCORSO PER SPETTATORI 1. LA VISTA La vista è il senso più importante e dominante da un po’ di tempo a questa parte, ma non in tutti i tempi e non comunque con la stessa accentuazione e “pubblicità” della epoca attuale. E’ una vista generalizzata e dilatata quella di oggi: è più che egemone, fin troppo valorizzata in modo perfino da far trascurare se non da escludere gli altri quattro sensi canonici (dell’odorato non si parla più, il tatto è diventato touch e serve per sfogliare schermi e telefoni, l’udito è massacrato dal rumore e dall’amplificazione, il gusto è totalmente consacrato al cibo o al vino – i ristoranti e le cucine in tv - come se non dovessimo avere esperienza di altri sapori e saperi “sensuali”. Appunto SENSUALI nel senso dell’infanzia e della primitiva dotazione dei sensi, quando il gusto del bambino ovvero la sua bocca, è il senso prima dominante e intelligente visto che per anni è quello attraverso il quale si conosce se stesso e gli altri e le cose (molto prima di scoprire la mani e di fidarsi degli occhi…). La vista fa la parte del leone ma anche dell’asino. E’ insieme grande e stupida. Ma è Leone ed Asino anche in senso figurato ovvero materiale: come il leone la vista sottomette tutti gli altri sensi ma poi se li porta anche in groppa. In nome anche degli altri sensi (ma facendo a meno dei loro servigi) la vista trasmette al cervello la sua realtà: infatti noi tutti crediamo che “tutto è da vedere” e - se non c’è nulla da vedere - non si crede all’esistenza di nulla. E si potrebbe continuare a parlare del suo impero, ma forse è meglio criticare quello che dela vista non funziona poi tanto bene oppure che in altri tempi e mondi e corpi funzionava meglio, quando la vista non era appunto così dominante. Quello che ci interessa – anche in questa sede e per questo progetto – è provare a “vedere meglio”, cosa che si fa soltanto “riflettendo”, nel senso del riflesso più che del pensiero. In questa nostra proposta il primo comandamento è non cercare di guardare di più e in qualche modo proiettarsi di meno con lo sguardo fuori di noi a catturare più cose. Cominciare invece a guardare in qualche modo noi stessi: non “dentro” di noi ma guardare “da fuori” noi stessi ovvero guardare il soggetto che guarda, e che magari non vede, oppure che vede e però magari non guarda… Non è il quanto ma il come si guarda che si deve mettere al primo posto. Tanti sono i verbi della vista tanto la sua applicazione e percezione è varia ( non a caso almeno venti sono i suoi sinonimi, e le sue variazioni cioè le “azioni” del vedere sono quasi infinite). Due però sono i sinonimi più importanti e abituali. Sono in realtà falsi sinonimi, anzi “sfalsati” e sono quelli che ho appena adoperato: VEDERE e GUARDARE. Come si sa, ci sono fra i due verbi delle sfumature diverse, ma quello che conta non è la loro differenza o opposizione, ma al contrario la loro circolazione indefinita. Il darsi il cambio fra le due espressioni e le diverse azioni o precis/azioni del vedere… o del guardare… Si può per esempio dire che prima viene il vedere altrimenti si è ciechi; ma poi, se dalla dote o fatto del vedere non si passa all’atto del guardare, la vista non si precisa come tale e perde la sua principale funzione. Quindi però, in successione, se poi dall’atto del guardare (cioè del vedere in azione) non si torna a vedere come illuminazione, cioè a carpire e accorgersi e infine penetrare quello che si è guardato, la nostra vista ancora una volta fallisce - nel senso che non siamo in grado di vedere quello che guardiamo. E ancora, se proprio si vuole, dopo questo ultimo “vedere” illuminato, bisognerebbe ancora tornare al guardare come riflessione (ri-guardare) e poi al ri-vedere come considerazione… e così via, anche se mi fermo qui… “E così via…” però è corretto, perché la staffetta fra Vedere e Guardare si sposta sempre in avanti in modo incessante e intanto viaggia dentro di noi in modo automatico: la vista diventa così più interiore e perfino intima, chiama in causa il terzo occhio del cervello, che infine vede sempre e vede anche ad occhi chiusi. Solo allora – a occhi chiusi – ci si accorge che il vedere/guardare torna a coniugarsi con gli altri sensi, confondendosi e confluendo in un sempre più profondo “sentire”. Sentire è il verbo dei sensi, prima ancora di essere sinonimo di udire. Sentire lo si fa anche con l’olfatto e il tatto e infine perfino il gusto… E non è un caso se se – che nelle arti e nel teatro indiano – è con il verbo e il concetto del “gustare” (inteso come assaporare) che si definisce la dote e l’atto di quell’azione e sensazione che noi chiameremmo ancora “vedere”. Ma poi in effetti, davanti o dopo uno spettacolo o un’opera d’arte, cosa diciamo e sentiamo di dire se non il nostro “gusto”? mi piace o non mi piace si dice come si fosse a tavola, ancor prima di essere un giudizio è un puro parere sul “piacere”. Mi fermo qui perché non so andare avanti per questa strada, ma questo punto d’arrivo è sufficiente a fare alcune riflessioni e considerazioni critiche sulla Vista, la vista nostra, la vista di oggi e di qui… E poi, spericolandoci, anche sulla vista delle nuove generazioni e del futuro che verrà… Allora ci viene da pensare se quell’adagio a cui sempre tutti abbiamo creduto, è ancora oggi e qui accertabile o appena accettabile: “Chi vivrà, vedra?” Oggi questo è davvero solo da sperare e per di più tutto da dimostrare. La vista che impera e che determina ogni atto e fatto del soggetto, in realtà si sta letteralmente “perdendo”: c’è troppo da vedere e di conseguenza si guarda tutto e non si vede niente (o viceversa, fermando o frenando la legge del loro inseguimento e perfezionamento all’infinito che abbiamo già descritto. Non siamo però qui per studiare una malattia che pure è “dentro” gli occhi di tutti, ma al contrario per suscitare una possibile ripresa e riscatto dell’atto anzi dell’ARTE DEL VEDERE. Il vedere e il guardare formano un intreccio ma anche una crescita percettiva che li fa aspirare a diventare un’arte: forse non un vero mestiere ma una dotazione artigianale propria delle nostre tecniche del corpo. Una tecnica che va sviluppata e cioè prima di tutto va alimentata, altrimenti non cresce o non cresce nella direzione giusta: verso la Qualità e non verso la Quantità che è già troppa. Conviene per nutrirsi e crescere prima di tutto e sopra tutto “vedere arte”, se si vuole apprendere l’arte del vedere, aumentare la dote e la dose dell’atto dello sguardo. Ma andare a vedere l’arte senza aumentare la propria arte del vedere è un disastro. Ed è esattamente quello che sta succedendo a noi tutti con il turismo culturale – con le gite intelligenti della terza età ma anche della prima e seconda a caccia di musei e monumenti: siamo tutti impegnati a darci da fare e da correre pur di vedere arte che non si sa guardare, e non per incompetenza della cultura ma per insufficienza della vista. Peggio, talvolta nemmeno vediamo ma lasciamo che la macchina fotografica guardi e accumuli per noi reperti che non vogliamo vedere ma prendere (o riprendere, che è lo stesso)! Così diventiamo collezionisti ignoranti. Oppure, se ci impegniamo e se ci studiamo su diventiamo anche “eruditi” sapienti. Ma non diventiamo quasi mai “esperti”. ERUDITI O ESPERTI? Ecco altri due sinonimi da discutere: raccogliere saperi o sviluppare esperienze sono in effetti due fatti diversi e spesso contraddittori. Sono certo complementari – o almeno dovrebbero esserlo, perché un po’ di sapienza non fa male all’esperienza – ma è difficile nel mercato culturale attuale tenere in piedi il loro difficile equilibrio o tenere in forma la loro capacità di scambio. 2. LE IMMAGINI In altri mondi e tempi c’erano come sappiamo tutti (ma non immaginiamo più) molte meno “cose da vedere”. Ma forse questo non è esatto o non è corretto, perché il mondo è sempre stato grande e vario e pieno di cose. Questo però è esatto se si intende – come oggi si intende – che in altri mondi e tempi c’erano (e ci sono ancora) molte meno IMMAGINI. Cioè, non la parte spettacolare delle cose , ma “cose” prodotte perché diano spettacolo di sé, “cose” fatte apposta per la vista la vista e il suo atto e il loro “consumo”. Il nostro mondo attuale e occidentale è pieno di immagini, di molte e sempre nuove immagini prodotte e proposte in milioni di milioni e per di più contemporaneamente. Molte delle cose che vediamo sono immagini fatte per essere viste: c’è come si sa nel nostro mondo un’offerta, anzi un’imposizione di immagini che riempiono lo spazio sociale e il tempo quotidiano, che si succedono in velocità e prolificano in quantità fino a “ieri” inimmaginabili. A queste immagini nuove si somma poi il “patrimonio” o il “repertorio” ormai infinito delle immagini residue dei tempi e dei mondi passati. Accumulare patrimonio e repertorio si è sempre fatto? No. O almeno non quanto si fa nella nostra epoca in cui si vuole o forse si deve recuperare tutta la storia, magari per alimentare la corsa della storia presente, oppure perché la storia ha finito di correre ed è tutta passata… Ma lasciando perdere questa divagazioni e tornando alle immagini e alla loro quantità e varietà, c’è poi da aggiungere a quelle “cose” anche i loro “fantasmi”: cioè alle immagini nuove e vecchie si sommano le associazioni, ibridazioni, invenzioni e confusioni soggettive. Tutto quello che intendiamo per “immaginario” dipende in gran parte dalle immagini, che lo saziano e lo orientano, perfino lo manipolano togliendolo alla nostra primitiva libertà e povertà… Lo zoo infinito dell’immaginario attuale è un bestiario che ci guarda e ci possiede al suo interno? Forse sì, se è vero che poi – a tutte queste immagini che ci circondano e “ci guardano” – aggiungiamo ben volentieri noi stessi “in immagine”! E mi riferisco alla cura della nostra immagine e quindi la nostra stessa trasformazione – ma è meglio dire “trasferimento” – in immagine. Chi di noi sfugge all’ordine o al desiderio di diventare immagini? Chi poi non sente o subisce la necessità di far proliferare e pubblicizzare e moltiplicare la nostra immagine perché abbia visibilità (se non addirittura popolarità, o infine successo)? Chi non aspira alla tv o non usa social media, i new media, la sua propria pagina video personale? E quanti passano molto tempo a curare la propria immagine personale, più della sua stessa persona, e talvolta a dispetto del suo stesso corpo e della sua salute. Vogliamo diventare immagine e dobbiamo spendere molto o tutto il nostro immaginario per costruirsi e proporsi “a immagine e somiglianza” dell’Immagine. In definitiva ne abbiamo bisogno. Vogliamo essere guardati perché altrimenti non crediamo di esistere. O ancora, vogliamo e dobbiamo essere guardati anche perché noi in realtà abbiamo perso il nostro un tempo sicuro e perfino strafottente “punto vista”, e sono sempre più le immagini – anche la nostra stessa immagine – quelle che “ci guardano”. Un tempo non era così… In un paese di campagna umbra o toscana, appena cinquanta ma forse è meglio dire cento anni fa, la gente, in gran parte analfabeta, aveva certo bisogno di immagini, forse più di noi. Aveva infatti bisogno di insegne dipinte invece che scritte, di immagini sacre al posto delle sacre scritture, eccetera. Anzi, a guardar bene, aveva bisogno soprattutto di immagini funzionali come segnali o di immagini trascendenti come simboli. E molte per non dire quasi tutte le “immagini”, quelle artificiali costruite apposta per essere viste (ma anche perché ci vedessero) erano sacre. Ed erano poche, rispetto ad oggi. Molto poche. Così, per tornare alla vista, nel mondo contadino o paesano di una volta la sua applicazione era per lo più funzionale: funzionale al lavoro, alla caccia, all’amore per qualcuno e all’incanto per la natura. Quindi, un’altra vista era quella che si spostava dall’ordinario e si affacciava sullo straordinario: per esempio verso un quadro della madonna, un’icona lungo la strada che portava ai campi, una statua di cristo morto o del santo patrono… Poche madonne o santi o icone, per ogni paese; e ogni paese aveva le sue. Così anche in casa le immagini erano poche e ciascuno aveva le proprie: qualche ritratto (magari con sotto i lumini se era di un morto), una decorazione dipinta sul letto di ferro, qualche cartolina, un disegno o un oggetto che sembrava un disegno stando sempre appeso alla parete… Pochi oggetti e poche anche le loro immagini, le loro ombre. Insomma poche immagini. Rare immagini. Così era infine anche fuori di casa, perché si vedevano sempre gli stessi monti o colline e fiumi e campi e gli stessi alberi e perfino gli stessi uomini e donne: le nascite e i matrimoni e le morti muovono lentamente il paesaggio antropico noto, straconosciuto eppure sempre sotto osservazione. Non era un caso se – come nei western – appena arrivava uno straniero tutti lo notavano, lo guardavano, lo giudicavano. Il vedere era anche è soprattutto riconoscere, e controllare e verificare che tutte le cose e le genti siano al loro posto. Poi magari l’arrivo di un piccolo circo o l’attesa e la sorpresa di una grande festa, cioè l’apertura e la meraviglia della vista straordinaria… Ma anche queste occasioni straordinarie erano, come si dice, “a misura d’uomo”, cioè nei tempi e nei modi che ogni uomo può metabolizzare. E per di più “a misura di paese” cioè con il limite del luogo che ci contiene e ci riassume: tutte le cose vedute erano cioè sottoposte a un personale ma anche collettivo “punto di vista”. E c’era – ci doveva essere – una grande armonia fra “personale” e “collettivo”. Il punto di vista soggettivo partecipava della soggettività sociale cioè della “cultura” in modo molto più coerente e pesante di oggi. E infine – questo è davvero essenziale – tutto il vedere e il guardare di tutti era influenzato o orientato da qualche immagine più alta delle altre. Più sacra delle altre. Più condivisa delle altre. Quella o quelle immagini che svolgevano per tutti o quasi il ruolo di “centro della visione”. Non possiamo né vogliamo tornare indietro nel tempo o cambiare il nostro luogo. E però siamo qui – in questo percorso per spettatori – anche per ritrovare o meglio reinventare quel Centro. Non quello di una volta, non qualcosa di necessariamente comune. Magari un centro non collettivo e solo personale… E però avere un “centro” è oggi forse più importante del “punto” di vista. Lo è almeno per lo spettatore e la sua arte dello sguardo. Il centro infatti nutre il punto, lo rende figlio di qualcosa o di qualcuno… 3. LA VISIONE La visione non è la veduta. La visione è qualcosa che si rapporta e intanto si discosta dalla veduta. La visione è “credere di vedere” e non “vedere per credere”. La visione è il fenomeno più alto della vista, eppure è un abbaglio, una patologia. In apparenza la distorce ma in realtà la esalta sia come capacità che come sensazione. Viene talvolta vissuta e raccontata come una sorpresa casuale ma in realtà, per potersi permettere “visioni”, bisogna avere – culturalmente e socialmente e però anche soggettivamente – superato la vista ordinaria, banale, oggettiva della quotidianità. Bisogna aver fatto avanzare il contrasto e il percorso fra “vedere e guardare e ancora vedere”, per poter avere e gustare il miracolo semplice della visione. Una visione si impone come spettacolo in sé e per sé: mirabile visu, dicevano i romani, che vuol dire semplicemente “guardabile a vedersi”. La visione è – abbiamo detto – “credere di vedere” ma nello stesso tempo è anche “non credere a quello che si vede”. La visione è un bisogno di vedere quello che non c’è, o meglio è un simultaneo vedere e non vedere che fanno cortocircuito. Sogno o son desto?, si dice quando si è sorpresi dalla visione. Vedo o non vedo? cioè è vero o soltanto mi immagino di vedere? Anche una semplice ma eccezionale “immagine” può provocare una visione: a questo servono le immagini e gli spettacoli “d’arte”. E però, anche in quel caso, la visione è prima di tutto un atto del soggetto che guarda. Non è un’allucinazione, anzi in qualche modo lo è, ma non sempre e non solo necessariamente provocata dall’esterno, ma soprattutto elaborata, aiutata, delibata dall’interno di chi “ha la visione”. Insomma, chi ha una visione in parte la fa: la riceve e la insegue, la incontra e la metabolizza, ne è nutrito e la nutre dialogandoci, può procrastinarla e talvolta persino ripeterla o riprodurla “tra sé e sé”. Una volta la visione era frutto della cultura, una volta era figlia della religione o della magia (in mondi e tempi in cui la cultura magico-religiosa era il caos che avvolgeva e dominava il nostro cosmo sociale e personale). Ma anche adesso – anche quando “non c’è più religione” – può avvenire una visione. Non è poi un evento sempre così alto e sovrastante, ci sono anche piccole visioni, discontinue occasioni di avere visioni… Solo che oggi – più di ieri – esiste una visione soltanto se il soggetto che guarda si dispone in un certo modo: si apre e si allena al vedere-guardare-vedere mentre intanto si dispone a credere e insieme non credere a quello che vede. Ma non si fa da soli la visione. L’occasione dell’avere una visione è sempre o quasi sempre provocata dall’esterno: per questo e a questo serve soprattutto l’Arte, una immagine o spettacolo d’arte. E’ sempre più spesso e quasi soltanto una proposta d’arte ciò che chiama in causa la propria arte del vedere. E la visione è l’apice (anche infimo ma pur sempre vertice) della personale “arte del vedere”. Ecco cos’è uno spettacolo, nel senso dell’arte dello spettacolo: non qualcosa di confezionato e finito in se, racchiuso nella sua dichiarazione di novità e pretesa di straordinarietà e infine attestato da un certificato di residenza nel modo e mondo del consumo spettacolare. Piuttosto dovrebbe o vorrebbe essere una proposta o un’offerta che “provoca” o almeno “invita” la messa in atto della visione in luogo della veduta. Che attiva in noi una disposizione e una capacità di essere visionari, talvolta in modo potente e obbligato e talaltra in modo appena accennato e fragile e flebile (ma sufficiente a far sì che il soggetto vedente possa diventare, con una sua dote e atto in più, visionante). L’arte aspira a questo risultato: ricerca questo effetto e si costruisce come causa di questo effetto. L’arte non è in sé un effetto, anche se molta arte spettacolare contemporanea si concepisce e si offre in sé e per sé come un effetto. Ma allora – in quel caso – raccoglierà magari il nostro consenso, attiverà magari il nostro consumo, solleciterà magari perfino il nostro “gusto”, ma non attiva la nostra “visione”. Una visione che – come dicevano è indotta da un oggetto e però poi condotta dal soggetto. La visione è sempre cioè il risultato di una relazione, una relazione che si sviluppa come un un doppio processo che riguarda rispettivamente l’oggetto d’arte e il soggetto che la lo incontra. 4. IL TEATRO Questa centralità e indispensabilità della “relazione” pone il Teatro davvero al Centro (della questione) della Visione. Tutte le arti hanno a che fare con questa stessa questione e prevedono o auspicano la visione come obiettivo. Ma non tutte le arti hanno però la stessa capacità e in primis nemmeno la stessa necessità di proporsi e prodursi “spettacolarmente”. Tutte le arti hanno lo spettacolo come esito fruitivo, come linea di rapporto e talvolta come modo di consumo di chi le incontra. Un quadro? Una statua? Una musica? Una poesia? Un romanzo? Tutti i linguaggi e gli oggetti artistici cercano cioè “anche” un loro spettacolo, ma non per questo sono in sé e per sé (e per noi fruitori) “spettacolari”, quando non assumono direttamente questo scopo e non adeguano le loro forme verso questa funzione rendendola prioritaria e per così dire evidente. Dare emozioni, ma anche dare sensazioni, conoscenze, elevazioni, riflessioni, critiche, illuminazioni, deviazioni, ecc. : molte e varie sono le direzioni che vanno considerate e che dettano le forme dell’arte. Il teatro è invece una arte dello spettacolo, anzi il “teatro” è il luogo e il modo che infine può abbracciare come un ‘cognome di famiglia’ tutte le altre arti dello spettacolo: danza o opera lirica o circo ma perfino spettacoli sportivi e l’infinito oggi diluito panorama delle performing arts può riconoscersi all’interno di questo generale e generico cognome di famiglia. Tanto che teatro e spettacolo rischiano di essere confusi per sinonimi; tanto che il teatro può anche sembrare l’antenato del cinema e poi della televisione e infine di facebook. Teatro è “spettacolo dal vivo” – si dice anche nelle leggi ministeriali – ma più propriamente è una parte, una forma dello spettacolo dal vivo: è “spettacolo vivente”. Il rapporto di mediazione, confusione, rappresentazione fra Arte e Vita passa per il teatro, più che per lo Stadio, o il Circo o altri generi “dal vivo”. Non c’entra “il bello della diretta” ma il peso della compresenza e della relazione fra attore e spettatore davanti a una rappresentazione, ovvero a una finzione della vita (o alla vita della finzione). Ma la farò breve. Perché poi il teatro è al centro della questione della visione? Non perché esplicitamente teso a prodursi come spettacolo ovvero fondersi insieme al suo spettacolo, ma per il genere di linguaggio che lo caratterizza, e infine per lo spazio-tempo-corpo che il Teatro è. Il teatro è un costume (dicevano una volta) ma anche un’arte (almeno dai primi del Novecento, da quando ha rivendicato e ottenuto un suo “statuto d’arte”). Ma quale arte è? E’ l’arte della “rappresentazione per azioni” – diceva Aristotele (e ancora nessuno ha meglio definito in sintesi il linguaggio teatrale). E le azioni però che sono? Sono a loro volta, una successione di minimi spettacoli: le azioni scenica sono una alternanza di apparizioni e sparizioni, ovvero di tutto quello che appare e scompare in una scena data o presunta, tutti gli effetti e le parole e le entrate e le uscite degli attori e le musiche e i silenzi… insomma ogni elemento-momento che modifica con la sua presenza e poi assenza un quadro scenico, un campo del vedere, un’area del fare.. insomma un Teatro. Questa alternanza di apparire e sparire è la danza di chi o di cosa si “offre” alla visione: si fa vedere e non vedere, provoca l’apparizione nella mente quando avviene la sparizione nella scena. La danza delle azioni è fatta apposta per stimolare e far proseguire l’atto visionario dello spettatore. Se non dà una visione, il teatro fallisce il suo scopo: vorrà dire che avviene qualcosa che però non dà “visioni”. Perché? Talvolta non ci riescono gli artisti in scena; altre volte (molte di meno) può essere incapace il pubblico in sale. Talvolta non ci riesce la scommessa della finzione? Talvolta non ci riesce la scommessa della relazione? Sempre ci sarà un difetto nella costruzione e successione delle “azioni”. Ma infine non importa se ci riesce o no. Molto teatro lo si fa e lo si guarda per così dire “in attesa” di un altro spettacolo di teatro che ci riesca, che “abbia successo”. E’ però importante che a produrre la visione, sia la scena che la sala, ci provino. E per quanto ci riguarda nel nostro Percorso per spettatori (per il nostro progetto IL CENTRO DELLA VISIONE), importa che siamo d’accordo sull’assunto anzi sull’obbligo che fa del teatro il luogo del rapporto privilegiato tra azione e visione, della ricerca incessante di questa combinazione e corrispondenza divisa fra due luoghi e due ruoli, fra l’attore e lo spettatore. Provare per credere. O forse, crederci per poterci provare. Questo è lo scopo del nostro percorso triennale intitolato al Centro della Visione. 5. UN PROGRAMMA Qualche linea o qualche promessa per il percorso che abbiamo deciso di proporre. Stiamo ancora costruendo la nostra proposta e vorremmo che fosse un percorso più che un discorso. In ogni caso, non un corso! Stanno facendo “corsi per spettatori” un po’ dappertutto e in tutti i teatri. Affidati a critici o organizzatori e raramente ad artisti, tutti i teatri maggiori e minori prima o poi (o sempre) progettano “corsi per lo spettatore”. Spesso con il primo fine di “fidelizzare” un pubblico, mentre il secondo fine è quello di “prepararlo”, ma forse meglio sarebbe dire “informarlo”. Di regola questi “corsi” servono all’istruzione ma non per l’uso. Si danno molti elementi o ingredienti di cultura teatrale, in modo da accrescere l’erudizione (sulla drammaturgia, la recitazione, la regia ma anche le nuove o vecchie “arti performative”), ma non l’esperienza. Il paradosso di questi corsi è appunto la distanza tra diventare Esperto e fare Esperienza. E la direzione di questi corsi va sempre nel senso di avvicinare lo spettatore alla scena e ai suoi temi e problemi, di costruire un pubblico più competente ma non per questo più attivo – non per questo parte consapevole e viva dell’arte dello spettacolo “vivente”. Non è “sbagliato” tutto questo far corsi e ricorsi. E’ vero cioè che “sapere” di più e meglio la cultura teatrale è una dotazione da non trascurare. Anche e soprattutto oggi che – a detta di attori professionisti che fanno stages formativi – non solo gli spettatori ma anche moltissimi “attor giovani” non conoscono o disconoscono la teoria e la tecnica e infine i risultati della ricerca e gli obiettivi della sfida teatrale dei grandi maestri del secolo scorso (da Stanislavskj a Grotowski per fare due nomi). Non è sbagliato dunque aumentare la conoscenza della cultura teatrale contemporanea, ma – a nostro avviso – non è l’essenziale. La nostra proposta si orienta su un diverso obiettivo: in questi tempi e teatri è necessario che lo spettatore rifletta innanzitutto su se stesso e sul proprio ruolo e modo di vedere-ascoltare-sentire. Fare esperienza non è vedere di più ma vedere meglio e soprattutto vedersi dentro: lo spettatore – soprattutto quello che va a teatro – dovrebbe recuperare la sua identità e maturare una propria responsabilità fruitiva. Dovrebbe interrogarsi in ordine alla sua curiosità e apertura, per far crescere la sua “domanda” di teatro prima di porsi davanti alla sovrabbondante “offerta” spettacolare. Dovrebbe riscoprire o reinventare il suo posto e peso nel quadro della “relazione” e nel modo della “reazione” allo spettacolo vivente – di cui fa parte, anzi controparte. Dovrebbe interrogarsi sulla sua capacità e sensibilità di “guardare” (nel senso già spiegato) per ritornare ad essere partecipi del fenomeno teatrale. TUTTO QUESTO non è per tutti e tanto meno tutti sono o siamo uguali. In teatro non valgono le leggi del mercato culturale. Il teatro da sempre produce élites e le separa e le stratifica. Non è facile ammetterlo e magari non è conveniente, ma un genere “minore” e “vitale” come il teatro non può - per costituzione e per dimensione - entrare nella dimensione e costituzione della attuale “cultura di massa”. Il teatro non è democratico, non è assimilabile al consumo né al servizio, se non nel senso che è “aperto a tutti”, ma infine è scelto e si pone in relazione con pochi. Pochi per volta, e pochi anche tutti insieme: il teatro non può certo competere con altri generi spettacolari massmediatici. Ma non si dice questo per polemica, ma al contrario per ragionevole “autocritica”. Quella stessa che ci porta ad ammettere un’altra banale verità: non è vero che “il teatro fa bene”, non è vero che “fa crescere”. E’ vero però che si può trarne una educazione e perfino una elevazione culturale e perfino spirituale, se non diamo a queste parole l’enfasi con cui si gonfiano fino a farle esplodere. E’ vero cioè che l’esperienza teatrale (anche da semplice spettatore) può essere sfruttata per un proprio cambiamento, approfondimento, fecondazione… A QUESTO FINE, due sono le direzioni principali della nostra proposta per alimentare la identità e la abilità - la propria “sensibilità”, nel senso dei cinque sensi - di spettatori (di spettatori teatrali prima di tutto, ma poi anche di osservatori, fruitori, critici di altri spettacoli e processi e prodotti, artistici e non). Banalmente possiamo descriverle come le attività di: a) interrogarsi; b) confrontarsi. INTERROGARSI vuol dire riflettere sul perché e sul come andiamo a teatro, ma soprattutto su come sappiamo fruire e quanto ci conviene (quanto cioè se ne può trarre sul piano di un arricchimento esperienziale e –precisiamo– “organico”, cioè che attiene alla sensorialità intelligente e alla riflessione emotiva). INTERROGARSI ovvero “studiarsi dentro”, mentre si guardano spettacoli o altre offerte d’arte o occasioni “per lo sguardo” che il percorso de Il Centro della Visione intende programmare, al fine di stimolare o resuscitare sensibilità che abbiamo ma che non sempre riusciamo ad attivare (e talvolta non consideriamo importanti). INTERROGARSI significa innanzitutto riconoscere la quota e la qualità della nostra reazione fruitiva all’azione scenica, a partire da quella minima e fisica, da quella “reazione” organica ed emotiva che arriva prima della più ponderata “risposta” intellettuale e critica. INTERROGARSI non è semplice. Bisogna infatti “sospendere il giudizio” ovvero bypassare almeno momentaneamente la nostra valutazione, per “approfondire il gusto” come complessa applicazione del senso. Bisogna sospendere -ancor prima del giudizio- il nostro abituale modo di considerarsi “cliente” ricevente e non “partner” interlocutorio di una proposta artistica o di un evento spettacolare. Senza esagerare e farsi prendere la mano o la mente da assurde parentele o complicità: partner non vuol dire coniuge, ma soltanto e appena riconoscere che lo spettacolo è dato da una inevitabile e spesso non gradevole “coniugazione”. CONFRONTARSI è l’altra indispensabile e contemporanea attività del nostro percorso. Se l’interrogazione è in fondo soltanto una nuova postura (lo spettatore che guarda se stesso), serve un confronto con esperti e perfino con eruditi – ma anche con eventi e occasioni e linguaggi diversi dal teatro e perfino non spettacolari – perché prenda senso e sostanza la sua stessa interrogazione. Il calendario de Il Centro della Visione (sempre abbinato alle attività che KILOWATT programmerà durante il corso dell’anno – prima fra tutte il Festival) prevede sessioni di incontro-confronto con persone o eventi utili al nostro percorso. In primo luogo e in primo piano si tratta di confrontarsi con personaggi che abbiano uno “sguardo professionale”, a cominciare da chi guarda l’arte o lo spettacolo “dall’altra parte”, cioè gli artisti. E’ un confronto essenziale, ma lo abbiamo chiamato così per evitare la compiacenza e la sudditanza di un “incontro”: ferma restando la loro evidente professionalità (e se si vuole “superiorità”), gli attori o registi o scrittori o poeti o pittori o musicisti… che cercheremo di invitare servono ad alimentare il tema e scavare meglio il problema dello “sguardo”. Sono da considerare piuttosto “altri” spettatori, visto che hanno un loro modo di vedere-ascoltaresentire. Un modo che viene “prima” del loro e quindi del nostro “spettacolo”. C’è una visione – un modo di vedere prima ancora di un mondo da inventare – che precede l’atto scenico e l’atto artistico. C’è una visione cioè che precede e alimenta la successiva proposta di “visione” per lo spettatore. Non è vero che siamo tutti artisti, ma è vero che siamo tutti spettatori (anche e soprattutto gli artisti): quelli che fanno o danno spettacolo hanno dunque – o dovrebbero avere – esperienze di veduta e di visione che danno origine e forza al loro lavoro. Chi “mette in scena” (o in pellicola o in pagina…) infine “mette in visione” per altri. Soprattutto se è artista di teatro, dovrebbe essere consapevole di proporre una causa che attivi l’effetto della “visione” degli spettatori: e non solo la veduta di quello che in effetti è mostrato (o filmato o dipinto o scritto…) ma la visione di quello che non si vede, a cui tende l’opera o verso cui scommette l’artista. QUESTO CONFRONTO FRA VISIONI è la più importante alimentazione e riflessione che Il Centro della Visione intende proporre. Quindi questo genere di “confronti” non avverrà soltanto con artisti, ma anche con studiosi, operatori, critici… Non in quanto eruditi ma in quanto esperti, cioè più consapevoli e responsabili del proprio sguardo o studio. Questi incontri - per così dire “teorici” - serviranno certo ad ampliare i nostri saperi ma soprattutto a relativizzare quello che già sappiamo e proviamo. Servono anche a proporre dei problemi e attivare delle discussioni fra spettatori di diverse arti, fra spettatori di diverse epoche o realtà. Si può fare qualche esempio, in previsione di un definitivo programma: a) conferenze di storia su “come guardavano” il loro teatro gli antichi romani (Savarese), durante il medioevo (Guarino) nel periodo barocco (Filippi), nell’Ottocento (Guccini). b) dibattiti sulle problematiche relative al pubblico di oggi da parte di direttori di festival, di organizzatori teatrali, di critici professionisti, anche per cogliere meglio verso dove va la proposta del teatro attuale, in quale cultura e società dell’oggi e del domani si colloca, come dipende o riflette sulla crisi culturale che è evidente nel nostro tempo e mondo. c) aperture verso campi e mestieri diversi e certamente divisi ma coniugati all’arte e allo spettacolo (racconti ed esperienze di educatori e ricercatori ma magari anche sacerdoti, genitori, ecc.). d) incontri fra di noi e per noi stessi: brevi temi da fare e occasioni seminariali in cui proporsi come relatori e quindi esporsi come alimentatori della nostra stessa ricerca del “centro della visione”. Non per esibirsi ma per confrontarsi, una volta che ciascuno di noi crede di aver trovato un tema sul quale intende riflettere e proporre per primo la propria “lezione”. Intanto un primo “tema” per tutti e da subito lo proponiamo noi, in forma di compito per le vacanze di natale per tutti, sul proprio “Natale dello sguardo” (VEDI ALLEGATO). 6. UN “FINE” PER IL CENTRO DELLA VISIONE Infine resta da spiegare la struttura del nostro percorso sullo “sguardo”, ovvero come darsi un fine e come sfruttare un mezzo che – nel concreto – diano organizzazione e ordine al nostro Centro della Visione. In sintesi ci si propone di orientare le Interrogazioni e i Confronti con artisti ed esperti in modo da sottolineare e sondare tre livelli diversi dello sguardo, che banalmente ma con una certa presunzione di esattezza si possono intitolare: 1. A PRIMA VISTA; 2. A GUARDAR BENE; L’ULTIMO SGUARDO. Queste tre frasi non sempre potranno essere corrispondenti alle tre fasi del primo, secondo e terzo anno de Il Centro della Visione, ma nella nostra intenzione e attenzione vorrebbero caratterizzarle in maniera prevalente. In sintesi, si tratta di accentuare: 1. l’abilità di cogliere e fabbricare visioni per così dire immediate (molti artisti lavorano su questo livello intuitivo in cui si vede il talento ma anche la prima fase di un processo della visione); 2. la capacità di penetrare e riflettere e selezionare in profondità (la fase della costruzione e della narrazione e infine della rappresentazione); 3. l’esigenza di un superamento e perfino di un testamento, un Vorrei Vedere che spesso tocca, se non l’invisibile, il desiderabile (la fase dell’effetto da dare, della sensazione da suscitare, del “non so che” che si vorrebbe almeno indicare se non sfiorare). Possiamo fare qualche esempio, accennando a due artisti che abbiamo già invitato per alcune prossime sessioni, Pippo Delbono come regista e autore di teatro e di cinema e Mariangela Gualtieri come poetessa ma anche attrice dei suoi stessi versi. Chi già conosce i film di Pippo Delbono o le poesie di Mariangela Gualtieri sa che dipendono molto da una loro intuitiva e straordinaria “prima vista”; ma poi, il lavoro di costruzione delle loro opere avviene sulla base e con una fase di elaborazione più attenta e successiva di quando si deve e si riesce a “guardar bene”; infine, l’effetto o la sensazione che si vuole toccare o che si riesce a indicare, quando l’opera funziona, deve avere la forza e il fascino di un “ultimo sguardo”, uno sguardo che non vede o uno sguardo che ci guarda. Cosa si cerca di vedere o di “dare a vedere” nell’arte se non qualcosa che non c’è e che però si sente? Da una poesia di san Juan de la Cruz mi permetto di citare un verso che è anche un ripetuto refrain: “Por toda la hermosura nunca yo me perdere, si no por un no so que, que se alcanza por ventura...”. Traduco: “Per tutta la bellezza io non mi perderò mai, se non per un ‘non so che’ che si coglie per ventura…” Il fine del nostro percorso non è certo raggiungere questo vertice, ma ricordarsi della sua esistenza e della sua ricerca. Come dire che ‘il fine dello sguardo’ o anche ‘il centro della visione’ è indubbiamente una verticalità, cioè una profondità e al contempo una elevazione verso un punto che superi lo sguardo e perfino annichilisca lo spettatore. Si potrebbe dire “qualcosa che si sente” ma che sta fuori dei sensi, ovvero qualcosa che supera il “piacere” e diventa una “festa”. A questa festa in realtà non ci si arriva quasi mai né da attori né da spettatori, ma arrivarci non è poi indispensabile. Molti attori non ci provano o molti spettatori non ci tendono più? Forse perché i primi non ci arrivano o perché i secondi vi rinunciano. Molti – attori o spettatori – negano che questa ansia e aspirazione verticale esista o resista dentro di loro? Forse – o senza forse – perché mentono perfino a se stessi. Quello che si vuole dire però è che il fine irraggiungibile disegna una direzione. E che intanto tiene in piedi e dà senso al “mezzo”. E se la festa è un fine il mezzo è davvero il piacere, e non è poco. Insomma, a teatro e non solo a teatro, il piacere del gioco cioè il ludus è un mezzo e non un fine. Non si vuole con questo abbassarlo ma al contrario nobilitarlo. Il “mezzo” infatti non è solo uno strumento, ma tutto quello “che sta in mezzo” e che si attraversa o si esperisce come “godimento”. Ma se eliminiamo il fine, il mezzo diventa “fine a se stesso” e – come si capisce bene – non sta più in piedi. Forse il fine – nel senso dell’obiettivo ragionevole e concreto – di un percorso come Il Centro della Visione, è allora proprio quello di dare sostegno e senso al “mezzo”. Se però – togliendo il fine – non vogliamo più che questo aleatorio e raro “piacere” dello sguardo e del gioco non si ispiri a un più alto fine, allora perché tormentarsi? Perché venire qui a interrogarsi e confrontarsi sul Centro della Visione? In fondo gli stessi artisti o le stesse occasioni che qui vi proporremo, non sono infine che conferenze, spettacoli, occasioni di consumo che sono reperibili nel mercato e consumabili ovunque. Se quindi alle nostre sessioni non ci si aggiunge un metodo e un merito basato su una personale voglia di cambiare e di studiare se stessi come spettatori… Se al programma del Centro della Visione ciascuno non aggiunge la propria personale ansia di ricerca e di conoscenza, non c’è nessuno che possa dare valore e senso a una esperienza che di ridurrà a semplice e occasionale “consumo”. UNA NOTA SUL CONSUMO E SUL MERCATO Noi tutti non possiamo negare di essere abitanti e perfino residenti di un “mercato”. Noi stessi che siamo qui a proporvi un viaggio verso il Centro della Visione, non possiamo dire di non essere interni e perfino corrotti dal mercato. Infine, ne adopriamo il linguaggio e orientiamo le proposte come si fa nel mercato: il prezzo da pagare, il tempo da spendere, gli spettacoli che programmiamo, le offerte che proponiamo, gli incontri che organizziamo… ma di più, il linguaggio pubblicitario, il lavoro degli organizzatori, la funzione dell’ufficio stampa e infine questa stessa lunghissima conferenza è un’altra ennesima cosa da consumare… Dal punto di vista e di acquisto del mercato, anche il Centro della Visione non fa che aumentare le cose da vedere, ma non è questo il vero obiettivo dello studio ovvero del nostro desiderio. Al contrario – con la vostra complicità e il vostro impegno – l’esito che vorremmo dare a questo progetto de IL CENTRO DELLA VISIONE è vedere di meno ma vedere meglio. E “criticare” di più. E’ cercare il centro e riflettere sulla visione in modo da armare una scontentezza e non una pienezza. Cercare “altro” non vuol dire accumulare dell’altro ancora, ma criticare l’uno, cioè le nostre abitudini e le nostre compiacenze. L’apertura e l’interesse è una postura necessaria ma non significa che dobbiamo approvare tutti e ammirare tutto. Al contrario, ciascuno dovrebbe concentrarsi e svilupparsi – a modo suo – nel “centro” della visione. Diventare meno disponibile: costruire delle domande anziché abbandonarsi a tutte le offerte. Guardare di meno e però cercare di vedere l’invisibile: la visione verso cui ognuno tende, a dispetto dell’enorme instancabile e sovrabbondante mercato delle vedute… La visione trova sempre meno spazio e meno possibilità se si è in presenza di troppe immagini e di eccessive esperienze ordinarie della vista. L’ECCEZIONALITA’ E LA RELAZIONALITA’ sono le coordinate che il teatro propone, ed è per questo che il teatro sarà privilegiato dal nostro percorso. Anche davanti a uno scadente lavoro e un brutto spettacolo, cercare l’eccezione e approfondire – in quel caso ma solo in quel caso – la relazione, è il compito dello spettatore. Non diamo però a questa eccezione un valore “eccezionale”: l’eccezione non è necessariamente un vertice innegabile, ma viaggia e la si incontra anche dentro una artigianale onestà e una dignitosa mediocrità. Saper estrarre l’eccezione e quindi applicare la regola della relazione è il “fine” dello spettatore, che lo sappia o no, che lo voglia o no. Saper attendere di vedere, coniugare il ruolo dello spettatore con il regalo dell’Aspettatore è il suo mezzo, la sua regola, il suo regalo. Ma non per questo il regalo va dato comunque e a chiunque… Una volta Ugo Volli disse a un gruppo teatrale fatto di tutti suoi amici che ci tenevano che lui fosse presente alla loro “prima”, gli rispose: “State attenti prima di chiamarmi, mi fate spendere e quindi perdere due ore del mio tempo, della mia vita… “ Questa minaccia, questa esigenza, dovrebbe nascere in ciascuno di noi… Siamo qui per apprendere non la capacità critica ma la sana crudeltà dello spettatore. Il suo teatro della crudeltà.