Francesca Bertini su Eleonora Duse
(da FRANCESCA BERTINI, Il resto non conta, Pisa, Giardini, 1969, pp. 102-107)
La prima del film [Fedora, 1916] fu data, come di consueto, al Teatro delle Quattro Fontane, dinanzi ad
un pubblico eccezionale, che tributò ai suoi interpreti un trionfo, reso ancora più memorabile per la
presenza di una somma attrice: Eleonora Duse, che assisteva da un palco alla rappresentazione assieme a
due miei registi: Alfredo De Antoni e Beneiranga [sic: Bencivenga]. La scena d'amore tra Fedora e Loris
suscitò negli spettatori enorme entusiasmo, anche per la specialissima concessione di Umberto Giordano,
che autorizzò ad accompagnare con la sua musica l'intero film. «Amor ti vieta di non amar» suscitò un
delirio di applausi.
Poi venne l'ultimo atto, che si svolse nel più grande silenzio. Il pubblico fu soggiogato, avvinto dalla
drammaticità dell'ultima scena e dal sospiro estremo di Fedora:
« Ho freddo, tanto freddo! Riscaldami..., Loris! »
Dal suo palco la grande Eleonora applaudiva commossa, e quando si riaccesero le luci ed il pubblico in
piedi decretò il successo del film, la Duse, al colmo dell'entusiasmo, non finiva di applaudire.
Ebbe frasi di elogio per tutti gli attori e disse a De Antoni: «La morte di Fedora mi ha profondamente
commossa. Francesca Bertini l’ha interpretata in un momento di grazia. La prego, dica all'interprete la mia
ammirazione e che sarei lieta di conoscerla».
L'indomani io varcavo la soglia dell’Hotel Eden, ove Eleonora Duse abitava. Ella mi accolse con la più
amabile signorilità. Guardandola compresi cosa fosse che la raffigurava donna eletta tra le altre donne.
Indossava una veste bianca, lunga, dalle pieghe severe, morbidissime. Devo ammettere che ero un po’
emozionata di trovarmi di fronte alla grande attrice.
Solo Sarah Bernard [sic], «l’unique Sarah», aveva potuto rivaleggiare con lei.
Ma Eleonora, anche in Francia, aveva conseguito trionfale vittoria. Una sua Dame aux Camélias ebbe
[un] successo indimenticabile.
La Duse mi pregò di sedere accanto a lei ed io le espressi.tutta la mia sincera ammirazione e la mia
riconoscenza per avere voluto intervenire alla prima del mio film.
La osservavo: nessuna apparenza in lei di orgogliosa ambizione; in tutta la sua persona vi era il più
grande riserbo, anzi la più grande umiltà.
Vidi che ella pure mi stava osservando. Poi disse:
« Non avrei creduto che foste così giovane; molto più giovane che sullo schermo».
Io tacevo: ero sinceramente emozionata.
«Voi avete interpretato Fedora in un momento di grazia. E non capita spesso a noi artisti. Io non ho
perduto un gesto della vostra interpretazione. Quanto vidi l'altra sera non era più cinema, ma teatro. Ne
seguivo le parole una ad una. Teatro nobilissimo, arte pura: specie nell'ultimo atto. Voi siete molto brava».
E tacque.
La ringraziai: ero commossa.
Vi fu un lungo silenzio. Poi, come se avesse meditato su qualcosa che voleva dire, sollevò ancora lo
sguardo su di me:
«Perché non fate del teatro? Penso che riuscireste magnificamente».
Quella domanda, che in fondo era naturale e che tuttavia non prevedevo, mi sorprese.
Era un nuovo elogio della Duse alle mie doti sceniche.
«Sì,» - le dissi - «il teatro drammatico fino dalla mia adolescenza è stato per me un assillo. Avrei voluto
approfondirlo, studiare, conoscerlo; ma nell'ambiente particolarissimo napoletano ove ero costretta a vivere,
tutto ciò mi fu difficile. Iniziai così il teatro dialettale, senza però rinunciare a tutti i miei sogni, alle mie
speranze. E da quel teatro, improvvisamente, mi tolse il cinema».
A queste mie parole ella ebbe un gesto affettuoso: pose le sue mani bellissime sulle mie:
«Peccato!» - disse. Mi guardava con un tale interesse, come se volesse scrutare dentro di me; poi
aggiunse: «Ma voi siete tanto giovane. Forse un giorno, chissà, ricorderete il mio consiglio e farete del
teatro».
Poi si riprese, si staccò da me e, crollando leggermente il capo, aggiunse:
« Comprendo, comprendo: il cinema da piena soddisfazione e anche ricchezza ». Sorrise leggermente.
Per alcuni istanti rimase pensierosa, come assente. Ripensava forse al passato, a quel suo passato
fulgidissimo che le aveva dato soddisfazioni innumerevoli e tanta gloria!
Nell'osservarla notavo quanto fosse nobile il suo volto, illuminato dalla bellezza dell'anima.
C’era in lei come un velo di cose inespresse, che sarebbe rimasto chiuso nel suo animo per sempre. E
quella nostalgica ombra della sua fronte, quel mistero davano alla sua persona suggestione austera e dolce.
Si capiva che in Eleonora Duse amava e soffriva un'anima elevata, spinta dalla propria origine a vette ideali
e fatalmente battuta da molte asprezze e contraddizioni dell'esistenza. « Da contrari venti combattuta ». La
Duse, dopo avermi fissata con delicata simpatia, che le traluceva dagli occhi, notò:
«Ben riflettendo, credo che abbiate ragione. Meglio il cinema: un’arte nuova e che, io sono sicura, farà
molta strada. E voi ne sarete un’espressione massima».
«Vi ringrazio» - dissi - «Il cinema mi appassiona e gli dedico tutta me stessa, tutta l'anima mia».
«È vero: poc’anzi avevo suggerito il teatro; ma il teatro richiede anni di innumerevoli sacrifici. Il teatro
ha valori insostituibili che non morranno mai. Ma in esso vi sono anche molte difficoltà».
Disse proprio così: «difficoltà». Non osai chiederle spiegazioni. Intuii dal tono con cui aveva
pronunciato quella frase che il suo animo era in preda a sensazioni e visioni di cui ella sola possedeva il
segreto significato. Chissà, non tutto era stato facile nella sua vita di attrice. Forse incomprensioni, penombre insidiarono quella grande luminosità. Le anime che sembrano vittoriose celano talvolta disinganni,
tormenti; e tanto più lo spirito è eletto, tanto più le ferite giungono acute, si annidano nel profondo
dell'essere umano, lasciando inesorabili impronte.
«Voi non sapete il mio dispiacere, signora, di non avervi mai sentita recitare».
Ella si volse, mi guardò con occhi dolorosi:
«Davvero, mai? Già, sono tanti anni, ormai, che non recito più».
«A me è proprio mancata questa gioia di potervi vedere in teatro. Sarebbe stato importante per me: un
grande ausilio, un grande insegnamento».
Ci fu un attimo di silenzio; poi la Duse mi chiese:
«In quale lavoro vi sarebbe piaciuto vedermi?»
«In tutti», risposi.
Ella sorrise.
«Grazie: si vede che avete proprio dell'ammirazione per me. Eppure ci sarà un dramma che vi piace più
di un altro. Tutti abbiamo le nostre predilezioni. Anch’io prediligo certi lavori, o per il soggetto e per lo
stile o per certe scene particolari».
«Per esempio?», le chiesi.
Esitò un poco a rispondere. Forse tacitamente rievocava, sceglieva. Il repertorio era vasto: dai classici a
Shakespeare, da Ibsen a D'Annunzio.
«Ecco, per il clima scenico e l'indole della protagonista, Casa di Bambola: il personaggio di Nora».
«Poco fa mi avete chiesto in quale dramma avrei desiderato vedervi. Ebbene, ve lo dico subito: nella
Francesca da Rimini di D’Annunzio».
A quella frase il suo volto divenne grave, si oscurò. Ella mosse quelle mani davvero bellissime, lunghe,
spirituali: mani che corrispondevano per taciti accordi alla sua voce. Le posò sul grembo, strette l'una
nell'altra, in un gesto di indicibile grazia.
Mi guardò, poi abbassò lo sguardo e in tono sommesso, con voce soavissima, declamò quasi a se stessa
alcuni versi della Francesca da Rimini:
«Perdonami, perdonami,
amico dolce! Risvegliata m’hai,
liberata da ogni
angoscia. E non è l’alba;
le stelle non tramontano sul mare;
la state non è morta; e tu sei mio,
e io son tutta tua;
e la gioia perfetta
è nell'ardore della nostra vita».
Era un brano della scena che precede l’epilogo tragico, quando Francesca dice a Paolo tutta la sua
dedizione; e già la morte è vicina.
Eleonora Duse, assorta, a occhi socchiusi, non era più lì, nella stanza di un albergo romano, ma nella sala
dell'antico palazzo di Rimini, Signoria dei Malatesta.
Via via che ella declamava, cresceva la mia stupefazione, il mio entusiasmo.
«Baciami gli occhi, baciami le tempie
e le guancie e la gola...
così... così....
Tieni, e i polsi e le dita,
Così... prendimi l'anima...».
Ella tacque. Poi mi guardò, come risvegliandosi da un sogno, da una visione. I suoi occhi luccicavano.
L’ardore del poema le era rimasto nello sguardo.
Ero emozionatissima. Non avevo mai udito una recitazione così altamente suggestiva. Le presi le mani e
gliele baciai, come ad una regina. Poi mormorai:
« Mai, signora, dimenticherò questo momento e la dolcezza della vostra voce».
Intanto le ombre avevano invaso la stanza e l'avvolgevano in un velo triste. Quando mi congedai da lei,
era notte inoltrata.
Anni dopo lessi sui giornali che Eleonora Duse era partita per l'America in tournée. Aveva lasciato
l'Italia in uno stato di irrimediabile tristezza. Poi giunse improvvisa la notizia della sua morte, avvenuta
nella nebbiosa Pittsburg.
L'angoscia mi strinse il cuore. La rividi nell'ombra della porta, con quella sua veste lunga, bianca, dalle
morbide pieghe, con il candore quasi irreale del suo volto.
Dolce, soave Eleonora, quel nostro incontro rimarrà per me uno dei più belli della vita.