International RIVISTA TELEMATICA QUADRIMESTRALE - ANNO XXV NUOVA SERIE - N. 74 - MAGGIO-AGOSTO 2011 1 Segni e comprensione International Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Università del Salento, con la collaborazione del “Centro Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma, diretto da Angela Ales Bello. Questa rivista si pubblica anche con contributi del M.I.U.R., per il Prin “Fenomenologia, riflessione etico-politica ed estetica dal Novecento in poi: testi e temi della filosofia dei paesi del Mediterraneo”, attraverso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell‟Università del Salento. General Editor/Direttore responsabile Giovanni Invitto ([email protected]) Steering Comittee/Comitato direttivo Giovanni Invitto, Università del Salento (Editor/Direttore responsabile) Angela Ales Bello, Università Lateranense; Angelo Bruno, Università del Salento; Daniela De Leo, Università del Salento; Antonio Delogu, Università di Sassari; Aniello Montano, Università di Salerno; Paola Ricci Sindoni, Università di Messina. Editorial board/Comitato editoriale Jean-Robert Armogathe, École Normale Supérieure de Paris (F); Renaud Barbaras, Paris I – Sorbonne (F); Francesca Brezzi, Università di Roma 3 (I); Bruno Callieri, Università di Roma 1 (I); Mauro Carbone, Université Jean Moulin Lyon 3 (F); Giovanni Cera, Università di Bari (I); Claudio Ciancio, Università del Piemonte Orientale (I); Françoise Collin, fondatrice di «Les Cahiers du Grif» (F); Umberto Curi, Università di Padova (I); Roger Dadoun, Université de Paris VII-Jussieu (F); Franco Ferrarotti, Università di Roma 1 (I); Renate Holub, University of California – Berkeley (Usa); Roberto Maragliano, Università Roma Tre (I); William McBride, Purdue University, West Lafayette, Indiana (Usa); Augusto Ponzio, Università di Bari (I); Pierre Tamianiaux, Georgetown University (Usa); Christiane Veauvy, Cnrs (F); Sergio Vuskovic Royo, Universidad de Valparaiso (RCH); Chiara Zamboni, Università di Verona (I) Team/staff di redazione Siegrid Agostini; Daniela De Leo (responsabile); Lucia De Pascalis Maria Teresa Giampaolo, Rosetta Spedicato. 2 Sede Comitato Scientifico e Segreteria hanno sede presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali, Università del Salento – Via M. 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L‟articolo deve riportare, prima del testo, il titolo, Autore e il relativo istituto di appartenenza, indirizzo per la corrispondenza e un abstract (di max 900 battute, scritto in italiano/inglese/francese) con parole-chiave (fino a 5) ed essere redatto secondo le norme redazionali riportate sul sito. Per la sezione “Saggi” i testi non dovranno superare le venti cartelle di 30.000 battute, spazi inclusi e comprese le note bibliografiche. Per le “Note” non si dovranno superare le 10.000 battute, spazi e note inclusi, con le medesime caratteristiche dei Saggi. I testi vanno inviati alla Direzione, indirizzati alla seguente e-mail: segniecomprensione@ libero.it. I testi, in forma anonima, verranno esaminati da due referees, esterni al Comitato Direttivo, e competenti nelle diverse tematiche trattate dai contributi. Questi forniranno al Comitato Direttivo gli elementi necessari per valutare la correttezza e l‟utilità, segnalando la necessità di modifiche o integrazioni per migliorarne le caratteristiche o evidenziando gli aspetti che, se non correttamente modificati, ne potrebbero impedire la pubblicazione. 4 INDICE Saggi 7 Roger Dadoun MARE COLOSTRUM. DE LA MÉDITÉRRANÉITÉ 17 Luciano Ponzio MICHAIL BACHTIN, UN FILOSOFO IN DIALOGO CON LA FILOSOFIA DELLA SUA EPOCA 40 Giancarlo Rizzo LA LINGUA PERFETTA E LA LINGUA UNIVERSALE NEL PROGETTO UTOPICO DI SAMUEL HARTLIB 56 Giacomo Fronzi L‟ALTRO CASANOVA. LE MEMORIE NELL‟IMMAGINARIO CINEMATOGRAFICO DI FEDERICO FELLINI Note 77 Graziano Scolari IL SENSO DELL'ESSERE. APPUNTI FENOMENOLOGICI 94 Francesco Tarantino LA PSICOTERAPIA ALLA RICERCA DI SE STESSA. SU IL “PAESE DEGLI SMERALDI” A CURA DI L. A. ARMANDO E A. SETA 5 Resoconti 117 Roberto Pettenati FORME DEL RICONOSCIMENTO E TEORIA CRITICA. A PROPOSITO DI AXEL HONNETH 122 Stefania Macaluso CHIARA ZAMBONI E IL PENSIERO IN PRESENZA 126 Paolo Armellini BURKE E L‟INDIA 128 Andrea D‟Urso IL FONDO E LA FORMA. LA SEMIOSI, LA SEMIOTICA, L‟UMANO 133 Gianni Donati SENTIMENTI RAGIONE FEDE 138 Maurzio Daggiano IL VOLTO NEL PENSIERO CONTEMPORANEO 142 Ardian Ndreca LE STANZE DELLA MODERNITÀ 6 MARE COLOSTRUM. DE LA MÉDITÉRRANÉITÉ * di Roger Dadoun Paradox of the Mediterranean - the sea murderess, a barrier for fleeing immigrants – a magnificence of Roman Antiquity. The Mediterranean, mare nostrum, our beach house – childhood home. Where is this attraction for the South, the Mediterranean from? A writer such as Albert Camus claims his Mediterraneity (from Algeria, marked by colonialism and poverty, to Spain, his mother country, and Italy, a bridge between sun and culture, and finally Greece, the fulcrum of Humanism) ; James Joyce conceives Dublin as an extension of the Mediterranean, whose wisdom is perhaps in excess (of people, cultures, races, voices in Ulysses ...). As for Camus, the best word to characterize his relationship with the South could be nostalgia, but in the meaning of noces-algia (Noces – work made in early youth - algia - pain). A relationship of love and hate, as it is suggested by the French homonimy between the words mère mother - and mer - sea, which is declined under the sign of colostrum - the milk drunk by the twins Romulus and Remus before the fratricide from which Rome was founded (blood and violence, bad mother), the magnificent "blue milk" of the Mediterranean, drunk by a sharp look (beauty and serenity, good mother). The sea of the Mediterranean, colostrum – huge Rome, first milk, the best one, as yellow as the sun a symbol of the universal fantasy of becoming again a newborn, showed that we are able to elevate our soul. Paradoxe de la Méditerranée - mer assassine, barrière pour les migrants en fuite magnificence de l'Antiquité romaine. La Méditerranée, mare nostrum, notre maisonmer - maison-mère. D'où vient cette attirance pour le Sud, la Méditerranée? Un auteur comme Albert Camus revendique sa méditerranéité (de l'Algérie marquée par le colonialisme et la pauvreté à l'Espagne, terre maternelle, puis à l'Italie, passerelle entre soleil et culture; et, enfin, à la Grèce, couronne de l'humanisme); James Joyce, lui, conçoit Dublin comme une extension de la Méditerranée, dont la sagesse réside, peutêtre, dans l'excès (excès de gens, de cultures, de races, de voix contenus dans Ulysse...). Pour en revenir à Camus, le meilleur terme pour caractériser le rapport qu'il entretient avec le Sud pourrait être celui de nostalgie, mais dans le sens de nocesalgie (Noces – œuvre de jeunesse - algie - douleur). Une relation, par extension, d'amour-haine, comme le suggère l'homonymie entre les mots mère et mer, qui se décline sous le signe du colostrum - le lait bu par les jumeaux Romulus et Rémus, avant le fratricide fondateur de Rome (le sang et la violence, la mauvaise mère); le "lait * Insegna all'Università di Parigi VII-Jussieu. Ha compiuto studi di critica letteraria e cinematografica, di analisi antropologica e psicanalitica. 7 SAGGI Abstract 7 bleu", magnifique, de la Méditerranée, absorbé par le regard qui le contemple (beauté et sérénité, la bonne mère). La mer Méditerranée, colostrum - Rome colossale, le premier lait, le meilleur, jaune comme le soleil - symbole du fantasme universel de redevenir un nouveau-né - à condition, toutefois, d'être capable d'élever son âme. Paradosso del Mediterraneo – mare assassino, barriera per migranti in fuga – magnificenza dell‟Antichità romana. Il Mediterraneo, mare nostrum, nostra casa mare – casa madre. Da dove viene quest‟attrazione per il Sud, il Mediterraneo? Un autore come Albert Camus rivendica la sua mediterraneità (dall‟Algeria, segnata da colonialismo e povertà, alla Spagna, terra materna, poi all‟Italia, ponte fra il sole e la cultura; e, infine, alla Grecia, corona dell‟umanesimo); James Joyce concepisce Dublino come estensione del Mediterraneo, la cui saggezza sta, forse, nell‟eccesso (di gente, di culture, di razze, di voci, contenuto in Ulisse…). Tornando a Camus, il termine migliore per caratterizzare il suo rapporto con il Sud potrebbe essere quello di nostalgia, ma nel senso di noces-algia (Noces – opera di gioventù – algia – dolore). Un rapporto, per estensione, di odio-amore, come lo suggerisce l‟omonimia francese fra le parole mère – madre – e mer – mare, che si declina sotto il segno del colostrum – il latte bevuto dai gemelli Romolo e Remo, prima del fratricidio dal quale nasce Roma (il sangue e la violenza, la cattiva madre); il “latte azzurro”, magnifico, del Mediterraneo, bevuto dallo sguardo che lo contempla (bellezza e serenità, la buona madre). Il mare del Mediterraneo, colostrum – Roma colossale, il primo latte, quello migliore, giallo come il sole – simbolo della fantasia universale di ri-diventare neonato, a patto, però, di essere in grado di elevare l‟anima. 8 _____________________________ Elle est bien agitée, par les temps qui coulent, notre mer Méditerranée, qui n‟est guère plus, de par astreinte de mondialisation, que petiote mare. Depuis qu‟on ne cesse de l‟halluciner en avatar - encore un, ô mânes romaines, marranes, étrusques ou barbaresques - et en bâtard abâtardi – c‟est fou ce que ça cafouille toujours côté pères (Paterfamilias) et mères (Mamma mia) – de ce nouveau hochet géo-politique nommé Union Pour la Méditerranée, les vagues marines sont devenues hargneux barbelés de sel rongeur pour les candidats aux exils (et il n‟y a même plus un Zeus avec son aigle Second Empire apprivoisé par Péguy dans Clio pour protéger le banni, le fuyard, l‟exsul, le xenos) et recyclables linceuls pour ceux qui, sur embarcations de misère, fuient des “ patries ” qui ne sont “ pères ” et “ mères ” que pour famine, corruption, torture, crime - pour le plus grand “ bien ” des véloces “ plans de carrière ” des politiciens Occidentaux et des épais 8 opaques portefeuilles d‟actionnaires et trafiquants plus Occidentaux qu‟eux tu meurs. Mais - le vent du large serait-il en train de tourner ? Experts causant et photographes filmant nous racontent que la planète se réchauffe. Nous pouvons donc, les prenant au vol et au verbe, imaginer que “ Mère Méditerranée ”, avérant un rêve millénaire, va prendre elle aussi son petit coup de chaud - et qu‟ainsi, aux noires écumes et bulles amères engloutissant packs de cadavres et chavirées barcasses, se mêlerait un peu du lait et du miel de la tendresse humaine. Si tu t‟imagines, si tu hallucines, voici donc notre fantasme mis à plat sur horizontal horizon (car mortelle est la verticale abyssale) : à la mer bousillée par tant de ravages et aux reflets rougissant de tant de sanglants naufrages, succèderait donc, ô Hulot, un beau lac d‟argent serti de maternants bisous? Nos années de lycée, et peut-être même l‟école primaire de nos jours, ont fait, font toujours retentir à nos oreilles éblouies l‟impériale formule des Romains qui, balayant d‟un geste large la cartographie de leurs conquêtes maritimes, décrétèrent la Méditerranée “ Mare nostrum ”. (Et martial roulement de tambours, et trompettes d‟une millénaire renommée !). “ Mer nôtre ”, disaient-ils, cette mer est à nous, elle est nous-mêmes, pour les siècles des siècles : l‟espace conquis vaut passeport pour l‟éternité. Il y avait de quoi: une simple carte des Etats et Provinces de l‟Empire, arrêtée, disons, au IIème siècle de notre ère, donne tout son éclat chamarré à la légitimité de la proclamation latine - qui n‟hésiterait pas à s‟annexer en prime, en outremer et outre-terre, littéralement dessinée, la Mer Noire, et plus encore, autour et alentour. L‟opulent et vorace empire ottoman eut beau, par la suite, rivaliser de munificence et de puissance d‟assimilation dans son agile ingestion du brouet méditerranéen, il dut, parvenu aux marches les plus occidentales, mettre les pouces. Sud, Soleil et Simoun - d‟un air de famille Ces fastueux empires, combinant poigne de fer et sonore rhétorique de bronze, le code et le yatagan, semblaient être parvenus, au vu d‟un certain nombre de critères, tant matériels que spirituels, à donner aux populations autochtones du pourtour méditerranéen, respectant autant que faire se peut leurs us et coutumes, comme un air de famille, ombre portée de quelque auguste Paterfamilias – air que l‟on pourrait, avec tout le vague à l‟âme possible, caractériser en donnant tout leur souffle à un signifiant géographique (fantasme géopolitique) : le Sud, ou son équivalent le Midi, et à un élan libidinal : course vers un Soleil dont l‟aveuglant éclat dérobe à nos regards, et il a bien failli réussir (M. Gimbutas, 1989), tout un harem de 9 9 mères-concubines, de déesses-mères (Mare nostrum jouant le rôle de Maison-mer pour toute la famille, fut-elle honnie de tous de ceux qui, relégués dans les mares ou sorties d‟égouts, poussaient une ancestrale clameur : “ Famille, je vous hais ! ”). Toute perspective de psychanalyse géopolitique du Bassin méditerranéen se devrait d‟aller voir de plus près, plus au fond, ce que sont et valent et comment et pourquoi perdurent ce Sud et ce Soleil, ce Midi et ces Déesses-Mères, et le prétendu Air de famille. Ce prolifique Bassin est un proliférant carrefour d‟innombrables lignes de force enchevêtrées et d‟opulentes lignées historiques, mythologiques, anthropologiques – qui ont “généré” des analyses aussi minutieuses et éclairantes qu‟interminables, dans lesquelles il serait périlleux de se plonger, au risque de se noyer. L‟on se contentera donc ici d‟une très cursive référence à un auteur qui revendiqua pleinement sa Méditerranéité, nommément Albert Camus, tel que, nous reportant à une lointaine époque, nous l‟avions présenté dans un numéro de la revue méditerranéenne Simoun (Oran, n°3, juin 1952), sous le titre : “ Albert Camus le Méditerranéen, Le rêve de lumière et le complexe du clos-obscur ”. Cette analyse, d‟inspiration psychanalytique, portait sur les dernières pages de son ouvrage L’homme révolté (1951), à propos duquel certains critiques à peau blême [“ blême ” - pour rappeler une chaleureuse rencontre “ professionnelle ” avec Camus au quotidien Alger Soir, animé par une équipe socialiste venue de Paris : au rédacteur en chef qui s‟était plaint de la chaleur, il lança, un tantinet glaçant, “ Vous avez un visage qui ne prend pas le soleil!”] parlèrent d‟une inspiration „ club-méd. ‟ de l‟écrivain pied-noir. Pages lyriques, dans lesquelles Camus magnifie “ la pensée de Midi ”, “ pensée solaire ” comme il le répète, il en loue “ la dure lumière ”, et formule ce clair et définitif propos : “ dans la lumière, le monde reste notre premier et dernier amour ”. Lumière et amour se lisent et se détachent sur des moires à grandes ondes marines, portées par “ le vent dur, venu des mers ”. “ Lumière dure ” et “ vent dur ” déclament la dure durée de la “ tradition méditerranéenne ”, expriment, Camus insiste, ” une exigence invincible de la nature humaine, dont la Méditerranée garde le secret. ” Espagne, Italie, Grèce - de la Méditerranéité Une Méditerranée qui enferme en son sein “ le secret ” d‟ ” une exigence invincible de la nature humaine ”, ce n‟est pas peu dire, et c‟est peut-être en dire trop. Il faut, à défaut de preuves et d‟arguments (mais ce n‟est pas le lieu), à tout le moins signaler des épreuves adjacentes, faire état de quelques ancrages, jeter l’ancre en telles criques ou baies marines qui 10 10 puissent, reliées entre elles par de singuliers itinéraires, dessiner l‟esquisse de l‟un des multiples profils méditerranéens réels ou potentiels. Camus a pour assise, au départ, l‟Algérie, sa terre natale – mais c‟est une Algérie dans laquelle le colonialisme (Camus journaliste dénoncera “ la misère en Kabylie”) et la bourgeoisie (Camus est pauvre) ont inscrit de tels conflits et déchirures qu‟il est vital, pour l‟imaginaire et la méditation et le corps même de l‟artiste, de s‟y soustraire et de se porter ailleurs. Parmi les ailleurs les plus sensibles abordés par Camus, il y a au premier chef l‟Espagne, à laquelle il est viscéralement attaché par une mère d‟origine espagnole, veuve murée dans le silence, mais aussi par un sentiment psycho-politique de révolte, qui trouve son expression dans la pièce écrite avec son équipe du Théâtre du Travail, à Alger, Révolte dans les Asturies (1936) : une Espagne, dure mère, libertaire et anarchiste, brillera toujours comme un éclat de “ lumière dure ” sur la Méditerranée de Camus (et sur la nôtre aussi bien). Il y a l‟Italie, qui s‟impose comme le passage obligé pour tous ceux qui sont en quête d‟une liaison rationnelle, romantique ou mystique, ou banalement touristique, entre Soleil et culture. Comme en témoigne une abondante littérature, pour les cohortes d‟écrivains et d‟artistes avides d‟aller à la rencontre de formes et mesures lumineuses, harmonieuses, rigoureuses, heureuses, et d‟une démesure maîtrisée (à l‟exemple de la chorégraphie du Zarathoustra de Nietzsche, que Camus aime citer ?), initiatiques sont le “ Voyage en Italie ”, et son prolongement plus aventureux et plus sensuel, le “ Voyage en Orient ”. “ J‟entre en Italie, dit Camus, terre faite à mon âme. ” Au jardin Boboli de Florence, c‟est sous les “ énormes kakis dorés dont la chair éclatée laissait passer un sirop épais ” (n‟est-ce pas déjà, seins solaires et lactescent nectar, l‟annonce de notre colostrum ?) que Camus a la révélation qu‟ ” au cœur de [s]a révolte dormait un consentement ” : consentir à la terre, à l‟ici-bas qui est notre “ royaume ”, et consentir à se construire et se régler soi-même à la mesure de ce qui est. Survient, inattendue après ces claires et fortes affirmations, cette question: “ quelle démesure ” ? Ce ne saurait être, en pareil contexte, que la démesure d‟une mer assez puissante et assez humanisée pour en avoir la maîtrise, et en mesure, si l‟on peut dire, d‟ ” enfermer ”, de contenir, au double sens du terme, la démesure : profil d‟une mer “ humaniste ”, donc, d‟un “ humanisme ” bercé par les flots et les ressacs (alternant avec les innombrables et dévastatrices mises à sac terrestres !), esquisse d‟une sagesse de la Méditerranée, dont la dé-mesure, “ naturelle ” dirions-nous, gorgée de soleil et la lumière, se trouve paradoxalement en mesure de se dresser contre la “ démesure inhumaine ” et les fureurs de l‟histoire. (“ Une limite, dans le soleil, les arrête tous ”). Autre point d‟ancrage de la triplice camusienne de la Méditerranée : la Grèce qui, amoureusement assumée (la 11 11 “ Grèce de l‟ombre ” y trouve place), en est à la fois le couronnement et la source. C‟est le profil que propose la conclusion de L’homme révolté : “ Nous choisirons Ithaque, la terre fidèle, la pensée audacieuse et frugale, l‟action lucide, la générosité de l‟homme qui sait. ” Roc du réalisme, et audace, fidélité, volonté, sobriété, activité, lucidité, générosité, conscience – c‟est, en une intime et inextricable liaison mer-terre, toute une éthique, tout un humanisme terre-à-terre (“ qui se donne au temps de sa vie… se donne à la terre ”) ou terre-à-mer (“ paroles de courage et d‟intelligence qui, près de la mer, sont même vertu ”) que Camus parvient à loger dans son homérique Ithaque, définie comme point de départ et point d‟aboutissement du persévérant et périlleux périple accompli par Ulysse, sagace navigateur polymetis (aux mille ressources), qui inaugure à sa manière - mythologie persillée de réel - une Méditerranée féconde en rencontres, ruses, traquenards, violences, tourments, polymétissages. Noces, souffrance et nostalgie: Noces-t-algies Dans la très sommaire analyse de la “ pensée de midi ” qui est au cœur battant de L’homme révolté, j‟avais utilisé l‟expression “ nostalgie de la lumière ”. Camus avait aussitôt relevé ce terme de “ nostalgie ”, pour le récuser. S‟expliquant avec une grande cordialité, il souligne que le rapport intense et fondamental qu‟il entretient avec le monde méditerranéen, non seulement n‟est pas de l‟ordre de la nostalgie, mais au contraire constitue le nerf à vif, la sûre et vitale assise fondatrice à la fois d‟une résistance “ lucide ” face à “ l‟époque et ses fureurs adolescentes ”, d‟un engagement résolu dans les conflits déterminants de la société et de la culture, et d‟une vision globale raisonnée de la réalité humaine, forte de cette perspective : “ nous tous, parmi les ruines, préparons une renaissance ”. Il importe assurément d‟accueillir dans toute leur gravité les remarques réfléchies et volontaristes de Camus. Mais sachant que l‟âme humaine est un patchwork, un sac de nœuds de pulsions-motions-émotionshallucinations-volitions-illusions-ratiocinations insusceptibles de toute direction unique, on notera que la nostalgie, qui fait le présent se retourner sur le passé, emporte un mouvement réciproque du passé revenant en force dans le présent (ou l‟inverse - la symétrie brouillant les pistes du temps). On pourrait donc, “ pour aller vite ” selon une exécrable expression médiatique, et pour rejoindre sans plus tarder notre crucial objectif, préserver le principe d‟une “ nostalgie ” méditerranéenne chez Camus, en prenant le risque de démonter l‟expression et de composer un montage en forme de structure insolite, plus “dure”, à visée synthétique. Du coup, combinant “Noces” (1938), œuvre hautement significative, seule véritablement “ poétique ”, de Camus 12 12 (dite naïvement “ de jeunesse ”), et “ souffrance ” (algie, du grec algos, douleur, marqueur d‟un “ avoir mal ”), un des ressorts essentiels de sa réflexion (marquée précisément par la réalité historique et vécue et le problème moral et métaphysique du “ mal ”), on passe de la commune et souvent “ triste ” nostalgie à une homonymie plus râpeuse (rappeuse !), d‟allure baroque, joycienne, voire kabbalistique: “ Noces-t-algie ”. Cette “ Noces-t-algie ”- là a au moins l‟avantage de marquer une certaine sophistication (notion plutôt nébuleuse, mais qui nous évite les trivialités sociologiques ou anthropologiques d‟une “ complexité ” passe-partout), et de suggérer, par delà la vision propre de Camus, la possibilité d‟une perception qui ne soit pas trop simplificatrice du monde méditerranéen. [Outre son laborieux mais suggestif alliage, qualifier notre singulière “ Noces-t-algie ” de “ kabbalistique ” présente l‟intérêt collatéral de s‟interroger sur la possibilité de considérer la Kabbale hébraïque - naissant sur des fondations bibliques, et se développant, avant de connaître des apports continentaux, dans tout le bassin méditerranéen - comme une strate d‟ ” étrangèreté ”, originale dans l‟institution humaine de la Méditerranée, strate à peu près totalement occultée, qui se distingue moins par le “ secret ” allégué dans tant de lieux communs que par une “ discrétion ” relevant de la méditation et de la prudence. On voit mal comment la perspective, caressée par beaucoup, d‟une culture méditerranéenne renaissante pourrait sérieusement faire l‟économie d‟une référence aux principes et méthodes de la Kabbale, travail créateur sur la lettre, précieux exercice pour un autre usage (rigoureux, ouvert, “ non-violent ”, “ scientifique ”) du texte et de la parole. Et voici que, par une imprévisible mais congruente association, nous vient à l‟esprit le nom même de James Joyce, l‟écrivain irlandais-européenplanétaire parvenu, entre autres exploits littéraires, dans son immense bassin littéraire intitulé Ulysse (1922), à inscrire en palimpseste, sur le récit homérique, en forme de précipité, l‟espèce de circumnavigation méditerranéenne que constituent les déambulations urbaines, dans la “ chère et sale Dublin ”, du Juif Léopold Bloom. Si l‟Ulysse de Joyce se distingue, suprêmement, par la démesure maîtrisée des styles, langues, cultures, personnages et références pressurés de tous les horizons – irrésistible et familière s‟y affirme l‟étonnante prégnance, en éclairages multiples, de plages culturelles méditerranéennes abordées par cet écrivain vivant au long cours un rude exil scandé de joyeuses noces intellectuelles (ô Homère, Dante, Bruno, Vico, et autres compagnons). De sorte que l‟atlantique et raide Irlande, à travers le réalisme minutieux, âpre et sans concession qui la portraiture, se présente à nos yeux éblouis telle la progéniture à la fois bâtarde et légitime d‟une Méditerranée qui refuse d‟être contrainte dans des 13 13 limites géographiques ou culturelles, et dont un Joyce méditerranéen, jubilant barde insolent et insoleillé, porte la voix d‟encre.] “Voie méditerranéenne” ? Voie d‟eau, ou retrouvaille du Colostrum? Si une “ voie méditerranéenne ” peut être tracée, qui ne soit pas trop sillonnée d‟utopies, et ne risque pas trop de tourner en voie d‟eau ou eau de boudin, il conviendrait sans aucun doute, poussant à fond le principe de contrariété inhérent à notre “ Noces-t-algie ” (propice, on s‟en excuse, aux céphalalgies), de faire entendre sur de nouvelles partitions, sur de nouveaux accords (écologie libertaire du penseur américain Murray Bookchin, par exemple) les “cymbales du soleil” d‟un Camus (L’Etranger, 1943), et d‟intégrer avec mesure le lyrisme de ces Noces qui exaltent d‟un même mouvement une “ nature ” maîtresse femme accueillant en son sein (holding à couper le souffle) une humanité ingrate, gâcheuse, “dé-naturée”, “ nihiliste ”, et une exigence de “ vérité ” qu‟exténuent les intempérances et logorrhées médiatiques. Mais, étant posé un lyrisme bien tempéré, il faudrait bien et surtout et plus que jamais en pareille “ voie ” aussi antique voire préhistorique que futuriste prendre à bras le corps les “ fureurs ” de l‟époque et ses bouffées de délires et cortèges de souffrances (algies) toujours recommencées. [Et le -t- central de “ Noces-t-algie ”, sur lequel pivotent les deux grandes puissances humaines de l‟accord (avec la “ nature ”) et du mal (dans l‟ ” histoire ”), pourrait, chevillé au corps de l‟expression, désigner une fonction “ t ” du temps qui marquerait avec force la spécificité de chacune des étapes et formations créatrices ou criminelles de l‟odyssée humaine]. On a si souvent joué sur l‟homonymie française mer-mère qu‟on a scrupule à reprendre les annonces faites à Mère Méditerranée. Laquelle est bien une belle et sale tête de Janus. “ Mauvaise mère ”, du genre de celles dont se plaignent patients sur divan analytique ou comédiens sur scène tragique - elle l‟est, avec une constance et une férocité qui médusent (qui Médée-usent): sur ses rivages, et les terres antérieures, et les plus hautes eaux, le sang, où que ce soit, n‟a cessé de couler, et la haine et le crime de fleurir – et sang et haine et crime se cherchent toujours, sans relâche, et les trouvent, de nouveaux terroirs et foyers, et ils n‟ont que l‟embarras du choix. La Rome, dont retentissait au début de notre esquisse le “ Mare nostrum ”, “ s‟origina ”, comme aiment dire les psychanalystes friands d‟originaire, lorsque Romulus et Remus, deux chenapans, collèrent leur bouche vorace à l‟octuple téton d‟une miraculeuse Mère Louve. Tu parles d‟un miracle ! Le lait tourna en sang, et Rome vint au monde quand Romulus liquida illico presto son frère Remus. Hydre Méditerranée: un foyer ici s‟éteint – s‟allume un autre là. D‟une rive à l‟autre du grand Bassin, d‟Ouest en Est et du Nord au 14 14 Sud et d‟un siècle à l‟autre et d‟une génération à l‟autre, violences, désolations, incendies, bûchers, famines, pillages, assassinats, massacres, expulsions, génocides, ethnocides, abominations (avec, presque toujours, en première ligne, ces fameuses “ nations ” et “ communautés ”) s‟accomplissent, se répondent, s‟échangent, se conjuguent, s‟exacerbent, se dépassent, se surpassent. Azur rouge sur toutes les Méditerranées. Et pourtant, sinon “ bonne-mère ”, comme l‟annonce tel accent du sud, phocéen, du moins mère encore “ suffisamment bonne ”, good enough, ô cher Winnicott, pour entendre une pressante et désirante demande. Chaque jour, sur la mer ineffable, homérique, une “ aurore aux doigts de rose ” se lève. Dans l‟eau même souillée, avec ses plaques de visqueux mélanomes qui font (sur trafics maritimes néfastes autant que fructueux) s‟élever dans le ciel bleu des tours pharaoniques dont une seule suffirait à la survivance, alimentaire, politique ou médicale, de tout un peuple, le corps et l‟âme retrouvent d‟inouïes caresses, plongent dans la lovante vague d‟une maternelle nostalgie; et le regard, convié à une soudaine numineuse noce, reconnaît encore “ l‟azur l‟azur l‟azur ” qu‟il boit qu‟il boit qu‟il boit tel un lait bleu purificateur–lustrale eau de jouvence. Comment nommer cette soif, ce désir – proprement originaires ? Si tentaculaire, surchargée, polymorphe et perverse est la monumentale archéologie de la Méditerranée que qui parle de “ Renaissance ” doit aller au plus profond de la “ naissance ” (du sujet, mais peut-être aussi de l‟humanité même), s‟employer à sonder et creuser encore plus avant dans nos âmes asséchées, assoiffées, aux abois, pour atteindre quelque source maternelle première, une primordiale offrande de la vie même… Le seul nom qui nous vienne présentement aux lèvres est celui de Colostrum (de la colossale Rome au mammaire colostrum, c‟est “ poétique ” écoulement du “ nostrum ”, abyssale chute en Mère Méditerranée !) - Colostrum, merveilleuse sécrétion lactée, d‟un jaune solaire, puissance protectrice, qui, portée aux lèvres du nouveau-né à ses tout premiers jours, constitue le plus précieux et gracieux rite de passage pour l‟entrée dans le monde et l‟amour. Rêver la Méditerranée comme “ Mare colostrum ”, nourrice première pourvoyeuse d‟un “ tout est bon ”, relève sans doute du fantasme, raciné profond, d‟un devenir-nourrisson (G. Groddeck, 1923) – mais il faut au moins “ cela ” pour être à la hauteur, abyssale, de l‟actuelle et effarante dessiccation de l‟âme. 15 15 Riferimenti bibliografici MARIJA GIMBUTAS, Le langage de la déesse (1989), éditions Des femmes, 2005. GEORG GRODDECK, Le Livre du ça (1923), Gallimard, 1976. Autre titre: Au fond de l’homme, cela. Le livre du ça, Gallimard, 1963. 16 16 MICHAIL BACHTIN, UN FILOSOFO IN DIALOGO CON LA FILOSOFIA DELLA SUA EPOCA * di Luciano Ponzio* Abstract Bakhtin describes himself as a philosopher, and his approach to all disciplines – such as linguistics, philology, psychology, sociology, literary criticism, semiotics, etc. –, that come into play in his research, as a specifically “philosophical approach”. The properly philosophical orientation of Bakhtin's philosophy is determined by his shift in focus beyond specialist boundaries. Bakhtin develops his research beyond the conventional boundaries of any single discipline, with an interdisciplinary interest, a dialogical disposition, and at once a theoretical attitude capable of radical criticism. Among his philosophical references, apart from Kant and the exponents of neokantinism, there are Hegel, Kierkegaard, Husserl, Splenger, Bergson, Dilthey, Zimmel, Schopenhauer, Nietzsche, whose thought he draws from and revises in an original way. Bakhtine, quand il en a l'occasion, se déclare “philosophe”. L'objet dont Bakhtine s'occupe dans sa recherche se situe au point de contact et d'interaction de disciplines variées. Ceci ne peut donc être qualifié ni de linguistique, ni de philologique, ni d'ordre critico-littéraire, ou sociologique, ou sémiotique, et cætera. Étant situé irréductiblement hors du champ spécialisé, il présente en même temps tous ces aspects et nécessite le dialogue, la confrontation, la collaboration entre les discours des secteurs disciplinaires variés, et c'est précisément pour cela que la manière la plus adéquate pour définir l'analyse qui s'en occupe est celle qui la qualifie de “philosophique”. En ce qui concerne de façon spécifique la philosophie de Bakhtine, nous trouvons parmi ses auteurs de référence – en plus de Kant e des représentants du neo-kantisme – Hegel, Kierkegaard, Husserl, Splenger, Bergson, Dilthey, Zimmel, Schopenhauer, Nietzsche, desquelles il reprend la pensée en l‟élaborant de façon originelle. Bachtin in molteplici occasioni si definisce un filosofo, così come definisce “filosofico”il suo approccio alla ricerca in discipline come la linguistica, la filologia, la psicologia, la critica letteraria, la sociologia, la semiotica eccetera. L‟orientamento della filosofia di Bachtin è determinato dallo spostamento del focus oltre i confini dell‟ambito specialistico. Egli sviluppa la propria ricerca ben oltre i confini convenzionali di ogni singola disciplina, con interessi interdisciplinari, disposizione dialogica e atteggiamenti * Ricercatore in Filosofia e teoria dei linguaggi nella Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell‟Università del Salento, Lecce, dove insegna Semiotica del testo. 17 17 teorici capaci di attuare una critica radicale. I suoi riferimenti filosofici, oltre a Kant e al neokantismo, sono hegel, Kierkegaard, Husserl, Splenger, Bergson, Dilthey, Rimmel, Shopenhauer, Nietzsche, dei quali rivisitò il pensiero in maniera assolutamente originale. _____________________________ 1. Filosofia come incontro di parole L‟intento di questo testo è approfondire un aspetto trascurato generalmente negli studi dell‟opera di Michail M. Bachtin. Bachtin è stato soprattutto considerato un teorico e un critico della letteratura. E ciò è anche giusto, ma comporta una visione parziale che finisce con essere non solo riduttiva ma anche travisante rispetto alla prospettiva specifica e all‟orientamento fondamentale della ricerca bachtiniana. Questa prospettiva e questo orientamento adeguatamente considerati nella loro peculiarità vanno caratterizzati come “filosofici”. Benché, per il suo interesse per la scrittura letteraria, Bachtin sia stato visto generalmente come un teorico della letteratura, egli stesso, invece, si considerò sempre un filosofo. “Sì, filosofo. E così sono anche restato fino ad oggi. Sono un filosofo”: così dice Bachtin nelle conversazioni che si svolsero tra il 22 febbraio e il 23 marzo del 1973 tra lui e Viktor D. Duvakin. Per tutta la sua vita egli si è sempre occupato di questioni filosofiche e lo stesso interesse per la letteratura e per il rapporto tra “autore” ed “eroe” ebbe inizio a partire dal problema della responsabilità (“Arte e responsabilità”, del 1919, è il suo primo scritto di cui abbiamo notizia) e dall‟interesse per la filosofia morale (come sappiamo da un altro dei suoi primi scritti, il saggio degli inizi degli anni Venti pubblicato soltanto nel 1986 e tradotto in italiano con il titolo Per una filosofia dell‟atto responsabile. Non perde occasione Bachtin per dichiarare che la sua ricerca ha un carattere eminentemente filosofico. E ciò non solo nei suoi scritti iniziali, dove afferma che gli interessa particolarmente la filosofia morale e dove indica l‟etica come “filosofia prima”, ma anche in tutto l‟arco della sua vita. Così per esempio, in Problema del testo (1959-1961) egli esordisce dicendo che, in quanto ciò di cui intende occuparsi si colloca al confine tra discipline diverse, fuori dalle chiusure specialistiche, la sua analisi è “filosofica”. Ciò che egli denomina, nella seconda edizione di Dostoevskij (1963), metalinguistica, per indicare il proprio tipo di analisi, può essere senz‟altro indicato come “filosofia del linguaggio”. L‟espressione “filosofia del 18 18 linguaggio” è già nel titolo del libro del 1929 con Valentin N. Vološinov, Marxismo e filosofia del linguaggio. Qui “filosofia” caratterizza un atteggiamento critico, in base al quale lo stesso marxismo dell‟epoca andava considerato e discusso soprattutto per liberarlo, come Bachtin e Vološinov esplicitamente dicono, da “categorie meccanicistiche” caratteristiche di un “materialismo meccanicistico predialettico” e da un sociologismo positivista che considera i “fatti”, come dati indiscutibili. Bachtin è soprattutto interessato alla scuola di Marpurgo. Alla filosofia di Cohen, Natorp, Casirer, cioè a quell‟orientamento che va sotto il nome di neokantismo, ma egli ne prende le distanze in maniera critica. La concezione cassireriana dell‟“uomo come animale simbolico” trova la sua radicalizzazione e inveramento nella filosofia di Bachtin in quanto filosofia del linguaggio. Ma, al tempo stesso Bachtin tiene conto della lezione di Marx, spesso direttamente nominato nei testi suoi e del suo circolo, secondo cui il linguaggio è la coscienza, reale, pratica, esistente anche per altri uomini e dunque la sola esistente anche per me stesso. Come sappiamo dalle sue conversazioni del 1973 con Duvakin, la sua profonda conoscenza della filosofia europea avviene per Bachtin da autodidatta. È per conto proprio che Bachtin legge, a parte la filosofia classica, testi di filosofia moderna e a lui contemporanea, testi che non solo non erano tradotti in Russia ma di cui non era neppure nota l‟esistenza. Anzi egli sostiene che la formazione di ciascuno debba sempre avvenire studiando per conto proprio, sempre, perché le istituzioni scolastiche, ufficiali, per quanto valide, non possono, in realtà, dare un‟istruzione che possa soddisfare pienamente l‟esigenza di approfondimento e aggiornamento di cisacuno, a meno che non si voglia diventare un semplice “funzionario del sapere”. Bachtin leggeva i libri filosofici soprattutto in lingua tedesca, sia che si trattasse di testi originali o di traduzioni. L‟interesse di Bachtin per la scuola di Marburgo risale già al periodo di studio a Odessa, interesse comune a lui e al fratello Nikolaj, ed è quindi antecedente alla conoscenza, avvenuta a Nevel‟ nel 1918, di Matvej I. Kagan, uno degli amici più intimi di Bachtin, che aveva studiato filosofia in Germania, a Lipsia, a Berlino e a Marburgo frequentando il maestro della scuola neokantiana, Hermann Cohen, ed anche P. Natorp ed E. Cassirer. Sappiamo che Bacthin nel 1918 a Nevel‟ tiene un breve corso di filosofia per “l‟intelligencija locale”, concentrando l'attenzione su Kant e il neokantismo: Cohen, Rickert, Natorp, Cassirer (v. la “Sesta conversazione” con Duvakin). Nel periodo di Nevel‟, Bachtin si occupa anche di filosofia della musica, di estetica musicale, del rapporto fra musica e mito, rifacendosi a Hegel e soprattutto a Schelling, tematiche riprese da Lev V. Pumpjanskij, nei suoi corsi di filosofia della musica. Nel circolo filosofico di Nevel‟, dove c‟è 19 19 anche Vološinov (che raggiunge Nevel‟ nel 1919) e Boris Michailovic Zubakin, si svolgono discussioni su argomenti filosofici: sul rapporto tra crisianesimo e socialismo, arte e socialismo, sul senso della vita, sul senso dell‟amore, sul rapporto tra Nietszche e il cristianesimo, su Leonardo da Vinci la concezione del mondo Come abbiamo detto, l‟interesse principale di Bachtin, già a Nevel‟, è la filosofia morale, e sappiamo dalle sue conversazioni con Duvakin che, durante le lunghe passeggiate con Marija Veniaminovna, Pumpjanskij e Kagan, egli esponeva la sua “filosofia etica” e che il lago, a dieci chilometri da Nevel‟, sulle sponde del quale i tre sedevano per conversare di filosofia, fu da loro chiamato "Lago della Realtà Morale". Sappiamo anche che successivamente nel 1920 a Vitbesk, dove agli amici di Bachtin si aggiungono Pavel N. Medvedev e Ivan Ivanovi∫ Sollertinskij, tiene una serie di conferenze pubbliche, tra le quali: Il momento morale nella cultura, La parola, La filosofia di Nietzsche. Molto presto Bachtin, sicuramente già nel periodo di Nevel‟, si discosta dalla filosofia kantiana e neokantina, come risulta sia dalle sue relazioni tenute in varie occasioni tra i suoi amici o, pur sempre in forma privata, in circoli più ampi, sia nel suo scritto degli inizi degli anni Venti, K filosofii postupka [Sulla filosofia dell‟atto] (1920-24, trad. it. 2009). Un altro autore precocemente noto a Bachtin, e quasi del tutto sconosciuto a quell‟epoca in Russia, è Søren Kierkegaard, di cui risente particolarmente la sua concenzione della singolarità e del problema della scelta. Un concetto chiave di tutto il discorso di Bachtin degli scritti degli inizi degli anni Venti, ma di cui anche, direttamente o indirettamente, risente il suo studio su Dostoevskij del 1929, è edinstvennji, singolare, unico, irripetibile, eccezionale, incomparabile, sui generis, corrispondente al tedesco einzig. Der Einzige und sein Eigentum si intitola l‟opera (1844) di Max Stirner, ma per Bachtin, a differenza dell‟individuo egoista di Stirner, l‟unicità, la singolarità, implica il rapporto con l‟altro, è essa stessa alterità. Ed è appunto questa sua implicazione e questo suo coinvolgimento che distinque la singolarità dell‟esistenza di ciascuno secondo Bachtin da “il singolo”di Søren Kierkegaard, autore di cui egli sottolinea la vicinanza a Dostoevskij per il tipo di problematica da entrambi affrontata e per la stessa profondità (M. Bachtin, 1973: p.115). Qualche rapporto con l‟incontro, avvenuto abbastanza presto, con l‟opera di Kierkegaard ha certamente l‟attenzione di Bachtin per il concetto di ironia, come “forma del tacere”, come dissidenza nei confronti del discorso dominante e come modalità dello scrittore caratterizzato dal suo “parlare indiretto”, come Bachtin sottolineava ancora negli scritti degli ultimi anni, come gli negli appunti del 1970-1971. 20 20 2. Costruzione della parola filosofica come traduzione Bachtin costruisce il suo linguaggio in russo, per poter parlare dei problemi filosofici che lo interessano fin dall‟inizio della sua ricerca, traducendo fondamentalmente dal tedesco. Sul calco del tedesco egli costruisce tutta una serie di vocaboli che fanno parte del suo idioma, e che non sono adeguamente comprensibili e traducibili in altre lingue se non se ne conosce la provenienza. Bachtin, nei suoi primi scritti, inventa il proprio idioma filosofico sulla base del linguaggio filosofico circolante fuori dalla Russia, soprattutto tedesco. Tra i suoi autori di riferimento, oltre a Kant e ai rappresentanti del neokantismo: Hegel, Kierkegaard, Husserl, Splenger, Bergson, Dilthey, Zimmel, Schopenhauer, Nietzsche, il cui pensiero egli riprende e rielabora in modo originale. Bachtin fa ricorso alla parola russa obraz per rendere ciò che in tedesco è Bild, Gebild, “immagine”, “configurazione”. Impiega dolzenstvovanie per riferirsi al dovere nel senso del Sollen kantiano, a ciò che mi obbliga. Introduce l‟espressione ucastnoe myslenie, pensiero partecipativo, non indifferente, tedesco teilnehemendes Denken, Distingue “dannost‟” e “zadanost‟”, ciò che è dato e ciò che è dato da fare, da conseguire, che è dato come compito, equivalenti, in tedesco, a aufgegeben e gegeben. Riprende il concetto di Lebenphilosophie, filosofia della vita, ma orientandolo in una direzione ben diversa dal “vitalismo contemporaneo”, titolo del suo saggio pubblicato nel ‟26 in una rivista di biologia sotto il nome del suo amico biologo Ivan I. Kanaev, dove, anche con riferimento a Bergson, ne aveva fatto oggetto di critica, ma sempre, va detto, in maniera costruttiva. Riprende il concetto kantiano di “architettonica” concependolo come dispositivo spazio-temporale e assiologico di organizzazione del momdo incentrato intorno a un io nel suo rapporto singolare con gli altri e con gli eventi . In base alle sue letture filosofiche conia i concetti centrali della sua ricerca quali trasgrediente, exotopico, extralocalizzazione, “vnenakodimost‟”. 3. Coscienza, ideologia, responsabilità Oggetto di discussione nel circolo di Bachtin, per lo meno già nel 1924-1925, nel periodo in cui di esso fanno parte, oltre a Pumpjanskij, Judina, Vološinov, Medvedev, anche M.I. Tubjanskij, il biologo Kanaev, K. K. Vaginov, è anche Sigmund Freud e il freudismno soprattutto per quanto 21 21 concerne le implicazioni filosofiche della psicoanalisi. In Freudismo, pubblicato nel ‟27 sotto il nome di Vološinov, autore del saggio del 1925 Po tu storonu sotstial‟nogo: o freidzmi [Dalla parte opposta del sociale: Freudismo], si considera soprattutto il rapporto tra linguaggio, inconscio e ideologia sociale, svolgendo una critica costruttiva e tutt‟ora attuale e valida dei presupposti filosofici della psicoanalisi. Essa, soprattutto per il rapporto che stabilisce tra inconscio, linguaggio e ideologia, anticipa, ma con apporti originali, la reinterpretazione della psicoanalisi da parte di Jacques Lacan e la critica a Freud di Gilles Deleuze e Felix Guattari. L‟interesse per Freud, per quanto riguarda sia l‟inconscio, sia la seduta psicoanalitica, è evidentemente collegato con la concezione bachtiniana del carattere dialogico dell‟io e della parola attarverso la quale l‟io si costituisce, prende coscienza di sé, compie le sue scelte e si manifesta a se stesso e agli altri. Per il rapporto di continuità che Bachtin individua fra inconscio, coscienza e ideologia sociale, lo studio delle ideologie non può trovare la propria base nella psicologia, ma al contrario è la psicologia che deve basarsi sullo studio dell‟ideologia sociale. Sicché, Bachtin insieme a Vološinov, nel libro del 1929, discute ampiamente e critica la teoria di Dilthey di una psicologia onnicomprensiva e interpretativa che fornirebbe la fondazione delle scienze umane. Come abbiamo anticipato, ben presto Bachtin prende le distanze da Kant e dai neokantiani, che accusa di teoreticismo, cioè di “astrazione del mio singolare io”. Il difetto principale dell‟etica formale di Kant e dei neokantiani sta, secondo Bachtin, nel fatto che essa non riesce a liberarsi del difetto dell‟“etica materiale”, che consiste nella concezione dell‟universalità del dover essere. La categoria del dovere è intesa, da Kant e dai neokantiani in termini di una categoria universale, pertanto in termini conoscitivi, astratti, sicché la coscienza morale diviene coscienza teorica, teoreticizzata. Poiché l‟imperativo è concepito anche dall‟etica formale kantiana come universale ed è subordinato alla sua capacità di essere universale, la filosofia kantiana e quella neokantiana non sono in grado di rendere conto dell‟atto singolare. Dalla responsabilità morale senza alibi, in cui ciascuno si trova nel posto che occupa insostituibilmente nel mondo e di fronte agli altri, si può certamente tentare di fuggire, dice Bachtin in Per una filosofia dell‟atto (19201924) riparandosi dietro alla responsabilità speciale, relativa, di ruolo. Ma staccata dalla responsabilità assoluta, la responsabilità speciale perde di senso, diviene pura responsabilità tecnica, semplice rappresentanza di un ruolo, semplice esecuzione, fino a presentarsi come impostura. Bachtin individua la crisi contemporanea nello scadimento dell‟azione ad azione tecnica nella separazione fra l‟atto, divenuto privo di 22 22 motivazione, e il suo prodotto, che in tal modo perde di senso. È questa un‟interpretazione molto vicina a quella della fenomenologia di Edmund Husserl, ma in Bachtin, diversamente da quanto avviene in Husserl che fa appello alla coscienza intenzionale, il senso è conferito dall‟azione responsabile che risponde all‟unicità di ciscuno nel proprio essere al mondo senza alibi. Per Bachtin “la filosofia della vita può essere solo una filosofia morale”. Inoltre Bachtin mette in evidenza come lo svuotamento di senso e la degradazione della azione conduca inevitabilmente a cercarne una motivazione biologica ed economica elementare, a fare appello alla nuda individualità biologica, l‟atto-bisogno. Nell‟esaminare tale aspetto, Bachtin si riferisce esplicitamente a Spengler, del quale evidenzia l‟incapacità di riconoscere la teoria e il pensiero momenti all‟azione anziché il suo opposto. 4. Un dialogo ininterrotto con la filosofia contemporanea In Per una filosofia dell‟atto responsabile, Bachtin attribuisce alla filosofia morale il compito di descrivere “la concreta architettonica” incentrata sul singolo reso unico dalla suo essere assolutamente insostituibile nella responsabilità a cui l‟evento del suo esistere senza alibi, lo pone di fronte. Tale descrizione presuppone che essa si realizzi a partire da una posizione esterna, extralocalizzata, exotopica, altra, differente e al tempo stesso non indifferente, ma a sua volta partecipativa. Si danno così due centri di valore – reciprocamente altri dal punto di vista spazio-temporale e assiologico – quello dell‟io e quello dell‟altro, che sono “i due centri di valore della vita stessa”, intorno ai quali si costituisce l‟architettonica dell‟atto responsabile. Ebbene è nella scrittura letteraria che Bachtin trova realizzata tale descrizione che la sua filosofia morale si propone nei confronti della architettonica, dato che proprio essa instaura un rapporto che permette il mantenimento dell‟alterità di tale architettonica considerandola da un punto di vista trasgrediente, extralocalizzato, exotopico, a sua volta unico e altro. Ecco dunque spiegato l‟interesse, prettamente filosofico, del rapporto fra autore ed eroe nell‟ambito del testo letterario, a cui Bachtin dedicherà grande spazio in tutta la sua ricerca. L‟interesse per la filosofia, in tutti i suoi aspetti e problematiche, attraversa l‟opera bachtiniana. Interessato soprattutto alla filosofia morale e all‟estetica, egli esamina e discute, soprattutto in rifermento a questi due ambiti, le posizioni teoriche di Bergson, Nietzsche, Rickert, Cohen, Husserl, Schopenhauer, Spengler. Troviamo citati questi autori in Per una filofia dell‟att responsabileo. Ma anche in L‟autore e l‟eroe nell‟attività estetica 23 23 (1924) si fa esplicito riferimento ad alcuni di essi per quanto riguarda la loro posizione nei confronti dell‟estetica: Cohen, Bergson, Schopenhauer e inoltre a Hegel e a Schelling. Negli appunti del 1971 ritorna la discussione, già presente negli scritti giovanili, della concezione delle scienze umane (le scienze dello spirito) in Dilthey, di cui Bachtin critica la netta contrappozione con le scienze naturali, contrapposizione, osserva Bachtin, confutata dall‟ulteriore sviluppo delle scienze umane stesse. In Per una metodologia delle scienze umane (1974) riprende il problema posto da Dilthey circa la comprensione sostenendo che la comprensione ha un carattere inevitabilmente dialogico e si realizza come incontro, come evento, il quale evento ha come momento necessario la valutazione. A proposito dell‟incontro, che definisce come “il momento supremo della comunicazione”, Bachtin cita Jaspers di Philosophie (2 voll. 1932), in cui il rapporto tra incontro e comunicazione è direttamente considerato. C‟è in Dilthey, dice Bachtin, un non interamente superato monologismo. La dialettica monologica di Hegel, esemplificata nel monologismo della Fenomenologia dello spirito, permane. E permane anche nel cosiddetto “materialismo dialettico”. La dialettica, dice Bachtin negli Appunti del 1970-1971, si ottiene eliminando le voci e il loro rapporto con la materialità del corpo e del linguaggio, trasformando le repliche in contrapposizioni di idee e di concetti astratti. Si ottiene così, come egli precisa in Per una metodologia delle scienze umane (1974) un testo continuo, in cui scomparsa l‟alternanza delle voci e il contatto dialogico tra testi e rimane un contatto di opposizioni senza più l‟apertura verso un senso profondo e infinito. Di Spengler, a cui, fin dagli scritti iniziali, Bachtin aveveva prestato particolare attenzione, pur mostrandone i limiti, viene considerara, in Risposta a una domanda del Novyj Mir (1970), la concezione della cultura come un circolo chiuso, anziché, come Bachtin afferma più volte, come unità aperta. Tuttavia Bachtin riconosce a Spengler, malgrado questa concezione della cultura come qualcosa di compiuto, il merito di aver scoperto, nella sua analisi della cultura classica, nuove modalità di senso, partecipando alla grande impresa della “liberazione dell‟antichità classica dalla prigionia del tempo”. Non mancano riferimenti anche ad Heidegger negli appunti del 1970-71, dove Bachtin osserva che lo scrittore primario non ha una parola diretta, e a nome suo non dice nulla, ovvero indossa la veste del tacere. Semmai, egli aggiunge, citando Heidegger, sarebbe meglio dire che l‟essere stesso parla attraverso lo scrittore. Adottando le diverse forme del tacere (l‟ironia, la metafora, l‟allegoria, la parabola, la parodia), lo scrittore può 24 24 scegliere anche “la via di far parlare il mondo e prestare ascolto alle parole del mondo (Heidegger)”. Tuttavia, la concezione bachtiniana ci sembra incompatibile con l‟ontologia heideggeriana, e già in Per una filosofia dell‟atto, è possibile trovare, attraverso la critica al “dionisismo” di Nietzsche, una sorta di critica ante litteram dell‟ontologia di Heidegger, là dove Bachtin osserva che la partecipazione di ciascun esistente umano al proprio mondo nel suo insieme non coincide con una irresponsabile auto-resa all‟essere, con l‟essere posseduti dall‟essere. Complessivamente considerata la filosofia bachtiniana consiste nel porre in dialogo – un dialogo sostanziale e non formale – sfere e ambiti generalmente considerati separati: mondo umano e mondo naturale, arte e vita, verbale e non verbale, generi letterari e generi del parlare ordinario, scienze umane e scienze naturali, psiche individuale e ideologia sociale, discorso proprio e discorso altrui, responsabilità tecnica e responsabilità morale, parola e corpo, dialogo dostoevskiano e corpo grottesco rabelesiano. Tutto questo è sintetizzato nella frase “La vita per sua natura è dialogica. Vivere significa partecipare a un dialogo” (“Piano per il rifacimento del libro su Dostoevskij”, 1961, in Bachtin 1979). Questa formula, da una parte, può essere usata come epigrafe della filosofia bachtiniana, dall‟altra dice come questa filosofia sia aperta all‟altro, all‟alterità, sia rivolta all‟ascolto, in un dialogo ininterrotto non solo con il proprio tempo, con la contemporaneità, ma anche con “un tempo grande”. Ed è proprio l‟orientamento, fin dall‟inizio, verso la parola letteraria, la quale proprio nel “tempo grande” vive, a fare della filosofia bachtiniana una filosofia in dialogo con il nostro tempo. 5. Critica letteraria e critica filosofica Il contributo complessivo dato da Bachtin con la sua opera può essere valutato in termini di “critica”. Questa nozione è stata spesso, interpretando Bachtin, erroneamente limitata, alla “critica letteraria”, riducendo Bachtin a un critico della letteratura o, talvolta, dell‟arte in generale. “Critica”, nel caso di Bachtin, non vale, almeno non unicamente, in senso letterario, anche se egli dette una grande importanza al punto di vista della letteratura; ma ciò sempre subordinatamente ai suoi interessi per la filosofia del linguaggio o, secondo l‟espressione che pure usa, per la “metalinguistica”. Certamente Bachtin ha segnato una svolta anche nel campo della teoria e della critica della letteratura, mostrando in cosa consista la sua 25 25 “letterarietà” e in che modo da parte della critica letteraria esso vada letto e interpretato nella sua “specificità” di testo letterario, non riducendolo a un documento storico, a un reperto filologico e neppure (come fa Lotman) a una componente o a una espressione di una data cultura considerata come un sistema nelle cui strutture e nella cui sincronia (la contemporaneità) esso rientri (Bachtin nei suoi scritti dei primi anni Settanta, quali gli Appunti, la Risposta alla rivista “Novyj mir” e “Per una metodologia delle scienze umane”. prende esplicitamente posizione contro la “segregazione del testo” tramite categorie meccaniche quali “opposizione”, “avvicendamento dei codici”). Il contributo di Bachtin è principalmente alla “critica” intesa in senso filosofico. Si tratta precisamente della ripresa da parte sua del concetto di “critica” dopo Kant e Marx. Bachtin mostra che la critica, sia nel senso kantiano di critica della ragione pura, di ricerca delle condizioni di possibilità, sia nel senso marxiano, di critica delle ideologie e in particolare dell‟economia politica cui sono direttamente o indirettamente collegate, non possono prescindere dalla filosofia del linguaggio, da una rinnovata interpretazione tra lingua e parola, da una riconsiderazione del ruolo del segno, verbale e non verbale, per la formazione delle idee, della “coscienza ufficiale” e della “coscienza non ufficiale”, o del cosiddetto ”inconscio”. La cosiddetta “coscienza di classe” e la cosiddetta “falsa coscienza” non esistono fuori dal linguaggio, dai luoghi ufficiali del discorso, dagli stereotipi, dalle intenzioni e pregiudizi che abitano le parole che normalmente usiamo. Soprattutto è la dimensione dialogica delle parole che, secondo Bachtin, va recuperata in una critica in senso filosofico che tenga conto della “materia linguistica” di cui le idee sono necessariamente fatte. La ragione umana è una “ragione dialogica”. Da ciò la critica della ragione, condotta tenendo inevitabilmente conto della critica nel senso di Kant e nel senso di Marx, non può più prescindere, anche per la complessificazione in atto della cultura e per l‟incidenza sempre maggiore che la parola svolge nella sua conservazione e nel suo mutamento, nell‟ottenimento del consenso, nella formazione e nella diffusione delle ideologie, in qualsiasi atto decisionale, in qualsiasi scelta sia che riguardi se stessi sia che riguardi gli altri, sia che riguardi il “mondo degli oggetti”. I valori, morali, religiosi, politici, economici, non sussistono fuori dalla materia del linguaggio e dallo scambio dialogico delle parole, il quale consiste in un coinvolgimento tra parola propria e parola altrui, e all‟interno del discorso proprio fra identità e alterità, indipendentemente dalla volontà e dalla consapevolezza di ciascuno. Ciascuno vi si trova coinvolto nella sua responsabilità senza alibi dovuta alla inalienabile alterità. 26 26 Tale alterità si presenta proprio nel linguaggio come irriducibile materialità nei confronti dell‟identità sia essa individuale, come quella di una coscienza o di un io, o collettiva come quella di una comunità o di una lingua o di un sistema culturale. Con questo spostamento del centro dall‟identità all‟alterità, Bachtin effettua, rispetto alla critica kantiana, un‟ulteriore rivoluzione copernicana, in base alla quale la critica bachtiniana della ragione è la messa in discussione non soltanto dell‟orientamento dominante della filosofia occidentale, ma anche di quello della logica della ideologia dominante nella contemporaneità. Alla interpretazione in senso letterale e meccanicista della metafora marxiana della struttura e sovrastruttura, Bachtin contrappone, anziché una opposizione verticale – in cui per quanto intesa dialetticamente, perdura il carattere deterministico da parte della cosiddetta “base economica” nei confronti delle cosiddette “sovrastrutture ideologiche” –, un rapporto di ordine effettivamente dialettico perché dialogico sul piano, questa volta, orizzontale fra le facce di una sorta di Giano bifronte (figura ricorrente in Bachtin): il rapporto fra cultura e vita. Si tratta dell‟intrigo dialogico tra istituzioni, ruoli, identità, azioni e ideologie ufficiali da una parte, e la singolarità di ciascuno nel rapporto con se stessi, con il mondo e con gli altri, per il quale l‟atto, nella sua modalità di evento irripetibile distinto dall‟azione come risposta semplicemente formale, diventa decisivo; ovvero dell‟intrigo dialogico tra una responsabilità soltanto formale, tecnica e quindi delegabile, la “responsabilità speciale”, e una responsabilità sostanziale, senza alibi, non derogabile e non delegabile, la “responsabilità morale”, che è quella di ciascuno nella sua singolarità, nel suo posto unico in cui nessun altro può trovarsi, nella sua eccezionalità vissuta che lo pone, come altro, in senso non relativo ma assoluto, in un rapporto con l‟altro, fuori ruolo, fuori appartenenze, fuori identità. Sul piano linguistico, alla responsabilità formale, generica, indifferentemente intercambiabile, corrisponde il “significato”: l‟azione verbale e non verbale ha un significato certamente e quel significato dice che sul piano formale ciò che è detto e ciò che è fatto risponde o non risponde a determinate regole di ordine normativo linguistico, etico, religioso, giuridico: Ma ciò che manca è il senso, che può essere conferito solo dal fatto che quell‟azione diventa l‟atto di un singolo determinato, in un determinato e irripetibile contesto, all‟interno di una determinata architettonica unica con i suoi specifici parametri temporali spaziali e assiologici, con le sue coordinate fondamentali: io-per-me, io-per-altri, altri-per-me. La validità di una norma, la verità di un giudizio non sono in grado di spiegare la loro accettazione a tal punto da diventare criterio di scelta non semplicemente formale – quella di cui è capace anche un impostore, chi 27 27 simula, chi agisce solo per salvare le apparenze, in conformità della propria identità, appartenenza, ruolo, posizione –, ma sostanzialmente determinante sul piano della vita singolarmente vissuta, da parte di chi non solo ne comprende il significato ma, sottoscrivendolo, compiendo con ciò un passo decisivo, un atto irreversibile, gli dà anche un senso. Bachtin, a questo proposito, esplicitamente distingue, in Per una filosofia dell‟atto responsabile, la propria concezione da quella di Heinrich Rickert basata sull‟idea del dovere come suprema categoria formale, e afferma, richiamandosi a Edmund Husserl che la veridicità teoretica non è sufficiente affinché un giudizio diventi concretamente un dovere; per il compimento del dovere in quanto ciò che io devo adesso, io soltanto e nessun altro, non basta il riconoscimento della validità di un giudizio o di una norma; l‟attuazione del dovere non è deducibile dalla proposizione che lo afferma, ma si aggiunge ad essa dall‟esterno. Per passare dal riconoscimento del dovere non solo all‟azione che si limita a compierlo ma all‟atto che invece non solo lo compie, ma anche ne coglie il senso, rinnovandolo e rendendolo vivo alla luce del contesto concreto in cui lo riconosce come proprio, ci vuole un salto, e questo salto non può avvenire se non sulla base della scelta del singolo. Anticipando quanto Husserl affermerà in maniera approfondita e articolata nella Crisi delle scienze europee, Bachtin osserva: 28 È terribile tutto ciò che è tecnico, una volta che sia astratto dall‟unità singolare dell‟esistere di ciascuno e abbandonato alla volontà della legge immanente del suo sviluppo; esso può improvvisamente irrompere in questa unità singolare della vita di ciascuno come forza irresponsabile, deleteria e devastante (M. Bachtin, 2008:p. 49). Bachtin, nel considerare il rapporto io-altro, prende le distanze da alcune posizioni abbastanza accreditate, tra le quali quella di Henry Bergson basata sulle nozioni di “intuizione” e “immedesimazione”. Queste due nozioni sono collegate. Con la nozione bergsoniana di “intuizione” si afferma la possibilità di un rapporto immediato e diretto con ciò che funge da oggetto fino alla compenetrazione, alla immedesimazione della visione con l‟oggetto visto. Ciò vale anche nel rapporto con l‟altro: la conoscenza partecipativa perviene alla coincidenza. all‟“immedesimazione”, all‟“empatia”, La critica di Bachtin alla comprensione rispondente intesa e descritta in termini di “immedesimazione”, di “empatia” ha nell'intera sua opera – dall‟Autore e l‟eroe nell‟attività estetica fino ai suoi scritti degli anni Settanta – un ruolo centrale per quanto riguarda la sua concezione la partecipazione e il coinvolgimento con l‟altro. 28 La nozione di immedesimazione, non diversamente da un certo estetismo cui è collegata, ha nei confronti dell‟estraneità il preconcetto della possibiiltà del suo superamento. Bachtin, invece, fin dagli scritti degli inizi deli anni Venti, insiste sul carattere “transgrediente” e di “exotopia” del rapporto con l‟atro: l‟io e l‟altro sono reciprocamente extralocalizzati e nessuno dei due può mettersi al posto dell‟altro, può mettersi nei panni dell‟altro. La comprensione rispondente presuppone, secondo Bachtin, la distanza, l‟unicità, la non intercambiabilità, l‟alterità, e non può mai diventare coincidenza con l‟altro. Il concetto di immedesimazione, come coincidenza con l‟altro, comporta, dice Bachtin, ammesso che sia mai possibile, la perdita della unicità del posto unico che ciascuno occupa al mondo e dunque presuppone l‟affermazione del carattere inessenziale della mia unicità e dell‟unicità del mio posto. Inoltre, egli aggiunge ironicamente, se mai potesse darsi immedesimazione, il risultato sarebbe un “impoverimento”:c‟è uno solo là dove c‟erano due. Ben diverso dalla immedesimazione – come illusorio perdersi nell‟altro, frutto dell‟astrazione teoreticistico-estetico che perde di vista le singolarità esistenziali e che quindi è concretamente irrealizzabile – è l‟“atto responsabile” dell‟abnegazione, la “sostituzione”, come dice Emmanuel Lévinas fino al sacrificio di sé, all‟altro, come nella situazione di “ostaggio”, dove l‟unicità, la singolarità, l‟insostituibilità, di chi compie l‟atto di abnegazionhe cancellata ma anzi esaltata. Fra l‟io e l‟altro, intercorre, per Bachtin, un rapporto di dissimetria, di non reciprocità. Ciò rende la concezione di Bachtin del rapporto io-altro ben diversa dalla relazione “io-tu” di Martin Buber, al quale invece Todorov rinvia per spiegare la posizione di Bachtin. La relazione con l‟altro in quanto centrata sulla responsabilità senza alibi dell‟io comporta una ineliminabile asimmetria, una fondamentale non convertibilità. che la differenziano nettamente dalla relazione io-tu di Buber, che, come fa notare Lévinas (“Martin Buber” in Lévinas 1982), è reversibile e somiglia alla relazione con l‟altro vista da un terzo non partecipe, per il quale i ruoli di io e di tu possono essere scambiati e ciscuno può essere tu o io indifferentemente. Ed è proprio questa non reciprocità, questa non scambiabilità di posizioni tra l‟io e l‟altro, quando il punto di vista non è quello di un terzo, ma quello dell‟io nella sua assoluta insostuibilità di centro responsabile, che rende non valida l‟interpretazione dellla della relazione di alterità in termini di empatia e di immedesimazione. Non solo non valido ma anche sviante è l‟accostamento della posizione di Bachtin per quanto riguarda il rapporto con l‟altro, a quella di Sartre e di Heidegger (come invece lo stesso Todorov propone). Né l‟essere- 29 29 con (Mit-sein) heideggeriano né l‟essere-per sartriano (quest‟ultimo basato, in L‟essere e il nulla, sul rapporto soggetto-oggetto), hanno qualcosa a che vedere con la relazione bachtiniana di io-altro. L‟altro non è strumentale alla manifestazione dell‟Essere, né è riducibile a una categoria conoscitiva funzionale alla conoscenza di sé e al raggiungimento della verità. L‟altro è trascendente rispetto all‟essere, e per questo richiede a sua volta a chi si pone nei suoi confronti in una posizione di ascolto, di comprensione rispondente, di assumere una posizione exotopica, extralocalizzata, rispetto alle proprie maschere identitarie, alle proprie appartenenze, ai luoghi comuni della propria contemporaneità. Bachtin dice esplicitamente negli appunti del 1970-71 (M. Bachtin trad. it. 1979: pp. 354355), che il rapporto con l‟altro esce completamente fuori dalla sfera dell‟essere, perché comporta non semplicemente il voler sentire che richiede (e impone) il silenzio, ma presuppone l‟ascolto e la posizione complementare del tacere; e perché nel rapporto con l‟altro, in cui interviene la posizione di testimone e giudice, si passa dall‟essere al sur-essere (nadbytie), dal significato al senso. Il rapporto con altri fuori ruolo, fuori identità, fuori dalla responsabilità tecnica, formale, è fuoriuscita dall‟essere, dell‟essere-così del Mondo, ed è la condizione della possibilità di emancipazione dalla “Realtà” così come essa si presenta per la coscienza ufficiale, per l‟ideologia dominante. È nella possibililità dell‟incontro con l‟altro la possibilità di emancipazione dall‟essere, dall‟orine delle cose, dall‟ordine del discorso. Da qui l‟importanza attribuita da Bachtin all‟artista, particolarmente lo scrittore: la sua particolare exotopia gli consente, al tempo stesso, la presa di posizione critica nei confronti dell‟attuale, della contemporaneità, e nello stesso tempo la posizione di ascolto per una comprensione dell‟altro fuori dall‟essere così delle cose: L‟artista è appunto colui che sa situare la sua attività fuori dalla vita, colui che non soltanto dall'interno partecipa alla vita (pratica, sociale, politica, morale, religiosa) e dall'interno la comprende, ma che anche la ama dal di fuori, là dove essa esiste per sé, dove essa è rivolta fuori di sé e ha bisogno di un‟attività extralocalizzata e avulsa dal senso. La divinità dell‟artista sta nella sua appartenenza a un‟extralocalità suprema (Ivi, p.172). Il dialogo tra arte e vita, il dialogo tra testi, tra i testi della vita quotidiana e quelli artistici, tra rappresentazione ordinaria e raffigurazione artistica, consiste nel loro reciproco dover rispondere gli uni degli altri. L‟arte è provocata dalla vita e la vita è provocata dall‟arte, dice Bachtin fin dal suo primo articolo del 1919 che su questo rapporto rifletteva. Si tratta di rivolgere al mondo uno sguardo non impedito o distorto dalle abitudini che 30 30 impediscono di vedere e di ascoltare. E ci vuole la complicità di una tavolozza in cui ci siano i colori della vita, perché si possano organizzare tonalità e sfumature dalle intensità giuste e dagli accostamenti giusti in un testo di scrittura che sorprende e sconfina malgrado strategie convenzionali di difesa: difesa dalla non-indifferenza, dal coinvolgimento, dall‟ascolto, dall‟incontro con l‟altro di sé e da sé. 6. Riflessione filosofica e parola riportata Non è casuale che nel libro del 1929 con V. N. Vološinov, Marxismo e filosofia del linguaggio Bachtin dedichi la terza e ultima parte all‟incontro di parole, cioè all‟incontro tra parola propria e parola altrui, prendendo in esame le diverse modalità di percepire e di riportare il discorso altrui. Questa parte è indubbiamente bachtiniana (comunque si voglia risolvere l‟oziosa questione della “paternità” di questo libro apparso sotto il nome di Vološinov) ed è strettamente collegata con il primo capitolo della seconda parte del libro di Bachtin su Dostoevskij, apparso lo stesso anno (1929), intitolata “Tipi della parola prosaica. La parola in Dostoevskij” (M. Bachtin, trad. it. 1997: pp. 185214), dove mostra come il discorso indiretto libero svolga un ruolo centrale nella tendenza attuale del romanzo che egli indica come “polifonica” e che fa iniziare con Dostoevskij. A differenza del discorso diretto e di quello indiretto, in quello indiretto libero – o “discorso diretto improprio”, come Bachtin lo chiama – avviene un‟interazione dialogica all‟interno di una stessa voce, quella dell‟autore, fra discorso riportante (dell‟autore) e discorso riportato (dell‟eroe). In una stessa enunciazione, il punto di vista del discorso riportante e quello del discorso altrui riportato s‟incontrano. Qui la parola diviene a due o più voci, interiormente dialogica o polilogica. Mentre nel discorso diretto e nel discorso indiretto, il discorso altrui riportato è presente come oggetto del discorso, il discorso indiretto libero fuoriesce dal rapporto soggetto-oggetto e i due discorsi si incontrano e interferiscono fra loro senza che l‟uno diventi oggetto dell‟altro. Al discorso diretto riporta il discorso altrui tale e quale. Il discorso indiretto per rendere il contenuto, l‟intonazione, il punto di vista, il senso del discorso altrui è costretto ad assumere una forma discorsiva e analitica nei suoi confronti. Mentre il discorso diretto si limita alla presentazione, il discorso indiretto in qualche modo raffigura il discorso altrui. La necessità del ricorso al commento, all‟interpretazione, all‟analisi impedisce che, nella forma del discorso indiretto, il discorso altrui sia semplicemente riflesso, riprodotto, rappresentato. Benché nel discorso indiretto ci sia l‟interferenza dialogica fra 31 31 il discorso proprio e il discorso altrui, è essenzialmente il discorso riportante a dominare su quello riportato. Pertanto l‟orientamento del discorso indiretto è generalmente monologico, come quello del discorso diretto. Invece, nel discorso indiretto libero, non solo la parola dell‟autore, cioè la parola che riporta, influisce su quella riportata, ma anche quest‟ultima modifica quella che riporta, nel suo lessico, nella sintassi e nello stile. Il discorso indiretto libero ha un carattere eminentemente dialogico. Soprattutto nell‟ambito della scrittura letteraria, e particolarmente in quel tipo del genere romanzo che Bachtin indica come “polifonico”, la parola dell‟autore e quella dell‟eroe, i loro mondi, le loro intonazioni, punti di vista, orientamenti interagiscono dialogicamente. Queste riflessioni di Bachtin sul discorso indiretto libero sono state riprese dal filosofo francese Gilles Deleuze non solo per quanto riguarda l‟idea bachtiniana del discorso indiretto libero come forma essenziale del nuovo romanzo inaugurato da Dostoevskij, ma anche del nuovo cinema nella forma della “soggettiva libera indiretta” descritta e praticata da Pasolini. Questo tipo di ripresa cinematografica attarverso l‟incontro di diversi pianisequenza, rende possibile, come fa nel romanzo il discorso indiretto libero, l‟incontro di punti di vista differenti, di mondi differenti, di livelli differenti, di triviale e nobile, di basso materiale corporeo e alto decoroso, di profano e sacro, di quotidiano e fantastico, di prosaico poetico, di banale e di sublime. Possiamo chiamare questo incontro di posizioni, di prospettive differenti “narrazione lirica dialogica”. Tuttavia Bachtin in “La parola nella vita e nella poesia”(M. Bachtin, trad. it. 1997: pp. 185-214) ha mostrato che la capacità di alzarsi in “volo” della scrittura letteraria si trova già nella “parola della vita”, nella parola prosaica, quotidiana. Nessuna contrapposizione, dunque, per Bachtin, tra “lingua convenzionale” e “lingua poetica” (come credevano invece i “formalisti russi”). A meno che non ci si riferisca non alla “enunciazione”, cellula viva del parlare, ma alla “frase”, cellula morta del sistema della lingua. Una differenza questa che gioca un ruolo determinante per comprendere il rapporto tra lingua e scrittura letteraria e che ha giocato – e gioca – brutti scherzi ai linguisti quando non ne tengano conto quando parlano della “parole” come messaggio codificato e da decodificare in base al codice lingua senza tener conto della mediazione dei linguaggi interni alla lingua, della sua inevitabile appartenenza (sempre) a un genere di discorso, del senso, del contesto, del sottinteso, della sua specifica accentuazione, dell‟enunciatore e del destinatario. Sia la linguistica cosiddetta “tassonomica”, sia quella generativo-trasformazionele non conoscono altro che la frase, risentendo del rapporto genealogico della linguistica con la filologia, la quale è nata come studio di lingue morte. La frase, studiata dalla linguistica 32 32 tassonomica, diversamente dall‟enunciazione, non è di nessuno e non è rivolta a nessuno; non ha né tempo né luogo; non esprime nessuna valutazione, può essere ripetuta infinitamente restando invariata nella sua accentuazione. È priva di senso, non ha contesto, non ha sottinteso, non ha intonazione. Conseguentemente la linguistica della frase si interessa, riguardo alle tre dimensioni del segno, soltanto della sintattica (concernente sia la “prima articolazione”, quella della fonologia sia la “seconda articolazione”, quella della sintassi) e della semantica (come studio del significato astratto, fisso, fuori contesto) e ignorando la pragmatica, cioè ciò che riguarda il senso, l‟orientamento della parola viva verso la comprensione rispondente, la sua richiesta d‟ascolto, l‟intenzione che la muove e la anima. L‟eccezioni ci sono naturalmente, ed anche i travisamenti nella vulgata della stessa linguistica saussuriana. Ciò vale per lo stesso Saussure. Si può parlare oggi di un "ritorno a Saussure", ricostruendo il “testo saussuriano” rispetto al Corso di linguistica edito da Secheaye e Bally e rileggendolo una volta liberato dalle distorsioni dei suoi redattori. Ci limitiamo a segnalare sotto questo riguardo il rencente libro a cura di De Mauro (Saussure 2005), Nel Saussure "originale" è ridefinita la stessa opposizione tra langue e parole: la langue è vista come "deposito passivo", la parole invece come "forza attiva e autentica origine dei fenomeni che poi si riscontrano, mano a mano" nella langue. E per quanto riguarda la linguistica cosiddetta “strutturale”, un discorso completamente a parte meritano studiosi come Louis Hjelmslev (v. Caputo 2010, in cui la teoria del linguaggio di Hjelmslev viene restituita al di là degli stereotipi che hanno impedito di coglierne l‟effettivo contributo di ordine non solo linguistico ma anche semiotico) e Émile Benveniste. Di quest‟ultimo intanto segnaliamo la nuova edizione e la nuova traduzione italiana, rispetto all‟originale Problèmes de linguistique generale (1966, trad. it. Problemi di linguistica generale,1971) – “il libro dell‟enunciazione” come lo chiamava Roland Barthes – dal titolo Essere di parola. Semantica, soggettività, cultura, a cura di Paolo Fabbri, 2009, che si propone di “spostare l'accento di insistenza e introdurre un'intonazione interrogativa, contro quella assertiva delle molte divulgazioni” (“Introduzione” di P. Fabbri). Benveniste, considerando nella frase l‟articolazione in enunciato e enunciazione, mette soprattutto in evidenza la dimensione enunciativa e interlocutiva della parola, attraverso la riflessione sull‟enunciazione nel suo processo generativo del senso. 33 33 7. Filosofia e “visione cosmica” Per Bachtin ciascun io è situato al centro di un sistema generale di relazioni che egli indica come architettonica, precisamente come “architettonica della responsabilità”. L‟io può restringere tale architettonica alla responsabilità tecnica, formale, e dunque ridurla all‟ambiente imediatamente circostante, di gruppo, familiare, professionale, o di appartenenza etnica, nazionale, di fede religiosa, o estenderla come “responsabilità dell‟esistenza senza alibi” all‟intero universo, in senso “planetario”, “solare” o addirittura “cosmico”. La visione della filosofia bachtiniana è di tipo cosmico. Per questo Bachtin si interessa della “visione carnevalesca del mondo”, della “concezione del corpo grottesco”. La concezione dialogica bachtiniana è inseparabile dalla riflessione sul carnevalesco e sul corpo grottesco, dal “realismo grottesco”. Non è casuale che nella seconda edizione del Dostoevskij, Bachtin inserisca una nuova parte appositamente dedicata al rapporto tra il romanzo polifonico e la “letteratura carnevalizzata”. Bachtin vede nel carnevale medievale il realizzarsi della festa come modalità specifica di espressione dell‟umano; è la festa come concezione del mondo, come capacità dell‟uomo di tendere a fini superiori rispetto a quelli del lavoro e dei bisogni necessari. La festa è liberazione dal regno della necessità, dalla gerarchizzazione sociale, è manifestazione u-topica, fuoriuscita dai luoghi obbligati del linguaggio e del comportamento, è tendenza verso l‟universalità, ben diversa dalla “festa ufficiale”, che ne è, come il lavoro-merce rispetto al lavoro creativo, inventivo, innovativo, la forma alienata. La festa carnevalesca apre verso una visione grande del mondo ben diversa da quella della festa ufficiale intenta al mantenimento dell‟ordine sociale, alla stabilità delle gerarchie, dei privilegi e delle differenze sociali. Alla serietà della festa ufficiale si contrappone la comicità della festa carnevalesca, il suo riso ridente, aperto, coinvolgente Nella visione carnevalesca il corporeo e il materiale hanno un carattere fortemente partecipativo, aperto, positivo e coinvolgente; non si riducono a forme egoistiche e separate di vita individuale interessata unicamente alla cura di sé, al proprio particolare tornaconto. L‟elemento corporeo è “grandioso, esagerato, infinito”. Il principio materiale corporeo è percepito nella visione carnevalesca, dice Bachtin, come universale e si oppone a qualsiasi tipo di distacco, a qualsiasi isolamento e confinamento in se stessi, a qualsiasi identità di appartenenza, a qualsiasi idealità astratta, a qualsiasi pretesa di senso staccato e indipendente dal resto dell‟universo. Il corpo e la vita corporea assumono “un carattere cosmico e nello stesso tempo universale; […] non sono affatto il corpo e la fisiologia nel senso 34 34 stretto e preciso dei nostri tempi, non sono né interamente individualizzati, né staccati dal resto del mondo. […] Il portatore del principio materiale e corporeo non è qui né l‟essere biologico isolato, né l‟individuo borghese egoista” (M. Bachtin, trad. it. 1979: p. 24). Nell‟oceano infinito di immagini grottesche del corpo, infinito sia dal punto di vista dello spazio sia del tempo, che riempie tutte le lingue, tutte le letterature e anche il sistema gestuale, il canone corporeo dell‟arte, della letteratura e di qualsiasi linguaggio decoroso dei tempi moderni appare come un‟isoletta piccola e limitata. Ma d‟altronde questo canone non aveva mai dominato nella letteratura classica. Soltanto negli ultimi quattro secoli ha assunto un ruolo predominante nella letteratura ufficiale dei popoli europei (Ivi, p.350). Negli appunti degli anni Cinquanta, Bachtin distingue perciò tra un‟“esperienza piccola” e un “esperienza grande”. Quest‟ultima è un‟esperienza limitata, povera angusta, egoistica dell‟io, del corpo e del mondo. Invece nell‟esperienza grande, il mondo non coincide con se stesso (non è ciò che è), non è chiuso e non è compiuto. In esso c‟è la memoria, che scorre e si perde nelle profondità umane della materia e della vita illimitata, l‟esperienza di vita di mondi e di atomi. E la storia del singolo comincia per questa memoria molto tempo prima rispetto ai suoi atti conoscitivi (al suo “io” conoscibile). 35 Questa memoria grande non è memoria del passato (in senso astrattamente temporale); il tempo è relativo in rapporto ad essa. Ciò che ritorna in eterno e ciò che il tempo non restituisce. [...]. Il momento del ritorno è stato percepito da Nietzsche, ma è stato da lui interpretato astrattamente e meccanicisticamente. [...] Nell‟esperienza grande tutto brulica di vita, tutto parla, è un‟esperienza profondamente dialogica (M. Bachtin, 1993: pp. 194-195). . Ciò spiega anche il fascino che su Bachtin esercitarono artisti come Velimir Chlebnikov e Kazimir Malevič, che egli ritenne le figure più importanti dell‟avanguardia russa. Nelle conversazioni con Viktor Duvakin del 1973(M. Bachtin, 2003: pp.219-221), di Chebnikov “presidente del globo terrestre”, Bachtin dice che era una persona profondamente carnevalesca; in lui il carnevalesco non era esteriore, teatralità, maschera ma forma interiore delle sue emozioni, del suo pensiero del suo linguaggio. Per quanto riguarda Malevič, Bachtin osserva che la sua opera artistica e teorica era orientata secondo una prospettiva cosmica, e, in questo senso, egli continuava la tradizione di Chlebnikov: ciò che lo interessava era l‟universale, il macrocosmo, l‟universo intero. Di Malevič con cui fu in diretto rapporto di 35 amicizia negli anni 1921-22 a Vitebsk, sottolineava l‟idea del suo “suprematismo” come “cognizione suprema”, come eccedenza, come fuoriuscita dal “mondo degli oggetti”. Riferimenti bibliografici SERGEJ S. AVERINCEV, Simbolo (1993), trad. it. di L. Ponzio della voce Sinvol della Kratkaja litereraturnaja enčiclopedija (vol. VI, Mosca 1971, coll. 826-831), “Symbolon”, IV, 1, 2008, pp. 89-102. MICHAIL M. BACHTIN (v. anche Medvedev e Vološinov) Iskusstvo i otvetstvennost’ [Arte e responsabilità], “Den‟ iskusstva” (Nevel‟, 13 sett. 1919); in BACHTIN 1979, trad. it. 1988, pp. 3-4. K filosofii postupka, a cura di S. G. Bočarov, in Filosofia i sociologia nauki i techniki, 1920-24 (Per una filosofia dell’atto responsabile, trad. it. di L Ponzio, a cura di A. Ponzio, Pensa Multimedia, Lecce 2008). Autor i geroj v estetčeskoj tvorčestva (frammento del cap. I), a cura di S. G. 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While in the first case he intends to find a linguistic structure that can accurately reflect the ontological essence and the structure of reality, in that way responding to the need for a cognitive nature, in the second he wants to achieve the use of a language that can overcome all the boundaries and differences of dialects, thus responding to the essentially communicative need. Le sage tourne autour de l'intérêt de la linguistique du philosophe Samuel Hartlib (1600-1662). Dans ses papiers, nous trouvons des trace spécifique sur le débat linguistique anglais du XVIIe siècle, marqué de façon significative par deux recherches distinctes, et pour plusieurs part profondément connectés: la recherche de la langage parfait et du langage universel. Dans le premier cas, on parle de trouver une structure linguistique qui refléter l'essence et la structure ontologique de la réalité, en répondant, par conséquent, a un besoin de nature de la connaissance, le second est de parvenir à l'utilisation d'une langue qui peut pour surmonter toutes les frontières et les différences des barrage linguistique, répondant ainsi à un besoin essentiel de communication. Il saggio ruota attorno agli interessi linguistici del filosofo Samuel Hartlib (1600-1662). Nelle sue carte troviamo una specifica traccia del dibattito linguistico secentesco inglese, segnato in modo significativo da due ricerche distinte ma per molti versi profondamente connesse: la ricerca della lingua perfetta e quella della lingua universale. Mentre nel primo caso si intende trovare una struttura linguistica in grado di riflettere fedelmente l‟essenza ontologica e la struttura del reale, rispondendo, così, ad un‟esigenza di natura conoscitiva, nel secondo si vuole conseguire l‟uso di una lingua * Laureato in Lingue e Letterature Orientali presso l‟Università Ca‟ Foscari di Venezia con una tesi sulle deviazioni eterodosse nella confraternita islamica Qadiriyya e in Filosofia presso l‟Università degli Studi di Milano con una tesi sul concetto di destino nel medioevo. Studioso di mistica islamica, collabora con le riviste "Il Dialogo" (Torino), "Aperture" (Roma), "A Oriente!" (Milano) e "L‟Ateo" (Firenze). 40 40 in grado di superare ogni confine e differenza di idioma, rispondendo quindi ad un‟esigenza sostanzialmente comunicativa. _____________________________ 1. Radici e sviluppi del coinvolgimento di Hartlib nel dibattito linguistico Il dibattito linguistico secentesco inglese è segnato in modo significativo da due ricerche distinte ma per molti versi profondamente connesse: la ricerca della lingua perfetta e quella della lingua universale. L‟elemento di differenziazione fra i due campi risiede nel carattere stesso dell‟oggetto di ricerca: mentre nel primo caso si intende trovare una struttura linguistica in grado di riflettere fedelmente l‟essenza ontologica e la struttura del reale, rispondendo, così, ad un‟esigenza di natura conoscitiva, nel secondo si vuole conseguire l‟uso di una lingua in grado di superare ogni confine e differenza di idioma, rispondendo quindi ad un‟esigenza sostanzialmente comunicativa. Le vicende legate a queste ricerche, pur seguendo uno svolgimento teoricamente autonomo, presentano almeno due aspetti fondamentali in comune: il punto di partenza, la lingua del nomoteta Adamo, paradigma di perfezione e di universalità insieme e l‟artificialità del risultato finale. In entrambi i casi, la lingua che risponde ai requisiti richiesti deve essere una lingua escogitata ad hoc dall‟uomo, inventata e non scoperta fra quelle naturali già esistenti. Spesso le due direzioni si presentarono coincidenti, in quanto la lingua perfetta, cioè esatta, veritiera, veniva presentata anche come lingua transnazionale. Le radici del dibattito sulla lingua perfetta possono essere rintracciate nelle riflessioni sul linguaggio sviluppate da Bacone, in particolare in relazione agli idola fori, le false idee derivanti da un errato uso della lingua. L‟esigenza che Bacone intendeva esprimere era quella di una lingua in cui i nomi corrispondessero davvero e in modo trasparente e diretto alle cose, senza confusioni né riferimenti illusori ad oggetti di realtà inesistenti. Il termine “real character”, che avrebbe avuto notevole fortuna soprattutto fra i linguisti inglesi, fu coniato proprio da Bacone per indicare segni convenzionali che dovevano essere in grado di riferirsi direttamente ad oggetti e nozioni pur non rappresentandoli visivamente. 41 41 Se la lingua perfetta possiede come requisito fondamentale la capacità di rispecchiare fedelmente l‟essere, la lingua universale può essere definita genericamente come la lingua parlata da tutti gli uomini del mondo. Un‟antica tradizione, che trasse ispirazione dal testo della Genesi, identificò la lingua universale con quella originaria, parlata prima della distruzione della 1 torre di Babele . Il concetto di lingua universale era da sempre legato alla supposta necessità di costruire una lingua artificiale utilizzabile e comprensibile a tutti, in grado di lenire la sostanziale insoddisfazione per le lingue naturali, percepite come inadeguate, anche semplicemente per la loro pluralità. In particolare nel dibattito svoltosi fra i secoli XVI e XVII, l‟imprecisione e l‟insufficienza delle lingue utilizzate nei vari paesi venivano indicate come gravi carenze in grado di invalidare sia la possibilità di comprendersi reciprocamente fra genti di idiomi differenti sia, più a monte, la possibilità di conoscere, ponendosi alla base dei dibattiti concernenti sia la lingua perfetta che la lingua universale. I problemi della scienza e della comunicazione apparivano quindi strettamente connessi con la questione linguistica, che veniva investita di significati e implicazioni di amplissima portata. Ne deriva che l‟ideale della lingua universale non poteva che porsi, come quello della lingua perfetta, come “non-luogo”, ”luogo perfetto” privilegiato per i pensatori coinvolti a vario titolo nei dibattiti scientifici, pedagogici ed irenici di ogni epoca, con una particolare 2 sensibilità rilevabile nei secoli XVII e XVIII . Tale dibattito linguistico rappresenta un‟area tematica molto fertile nell‟orizzonte concettuale del filosofo Samuel Hartlib (1600-1662) pensatore di centrale importanza nella vita culturale inglese moderna. Dalle sue carte si evince che non ideò nessuna lingua filosofica o universale, la sua relazione con questo “non-luogo”, con questa forma di utopismo, si sostanzia dei rapporti con gli inventori di tali strutture linguistiche. In questo senso, è possibile affermare che in questo settore Hartlib esercitò con impegno il 1 Il riferimento è in Genesi, 11, 1-9. Per uno studio generale cfr. UMBERTO ECO, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Roma/Bari 1993. 2 Mary M. Slaughter enfatizza la prima di queste dimensioni sostenendo che la vera motivazione alla base dei vari progetti di lingue universali fu, nella maggior parte dei casi, più scientifica che linguistica, cfr. MARY M. SLAUGHTER, Universal languages and scientific taxonomy in the seventeenth century, Cambridge University Press, Cambridge 1982. Paolo Rossi, invece, ricorda la rilevanza di Comenio quale ispiratore di Leibniz nel suggerire la necessità di una lingua universale come premessa fondamentale per una stabile pace religiosa, cfr. PAOLO ROSSI, Lingue artificiali, classificazioni, nomenclature, in Aspetti della rivoluzione scientifica, Morano, Napoli 1971. 42 42 prezioso ruolo, a lui molto familiare, di patrocinatore e fautore di pubblicazioni e contatti epistolari, indubbio quindi il valore storico del suo contributo. L‟interesse per l‟invenzione di un linguaggio universale che avrebbe potuto rendere le comunicazioni internazionali agevoli e libere dai vincoli legati alle differenze delle lingue era inscritto naturalmente nella formazione culturale di Hartlib. Egli fu un intelligencer, figura tipica della sua epoca caratterizzata dall‟estrema eterogeneità degli interessi, delle attività e dalla predilezione per ruoli di mediazione. Incarnava, per le sue vicende biografiche e per le sue attività e corrispondenze intellettuali, l‟ideale del poliglotta erudito: secondo quanto riferisce Dury, Hartlib conosceva il polacco, il tedesco, l‟inglese ed il latino, e lo stesso Dury pare non fosse da meno, visto che conosceva il latino, l‟inglese, il francese e il tedesco3. L‟esigenza di formarsi una solida e ampia conoscenza linguistica non ammetteva trascuratezze se si voleva comunicare con gli studiosi di tutti i paesi del mondo e conseguire il massimo grado di sapienza. Significativo, in questo senso, il fatto che in un‟opera esplicitamente utopica come la Cristianopoli di Andreae, compaiano chiari riferimenti a questo tipo di esigenze. Narrando le conoscenze in possesso degli abitanti della Città di Cristo, si afferma: Quelli che sono d‟età matura qui s‟adoperano anche attorno alle varie lingue, non per saperne di più, ma per potere comunicare con un maggior numero di abitanti della terra, tanto vivi che morti, e per non essere costretti a fidarsi dell‟uno o dell‟altro grecastro. Affermano che la nomenclatura è la cosa più importante e che è necessario in aggiunta solo un piccolo studio della grammatica. Iniziano con una facile lettura, che collegano con un‟altra lettura simile già conosciuta(Cfr. J. V. Andreae, 1983:p. 151). 43 Il contesto nel quale si collocava la riflessione sulle lingue universali e filosofiche coinvolgeva un‟ampia ed articolata area di problemi particolarmente cara al circolo hartlibiano. Infatti la comunicazione scientifica in Inghilterra viveva una fase di transizione per quanto concerneva la scelta della lingua più idonea da utilizzare, in quanto si stava gradualmente affrancando dal predominio assoluto del latino. Gli ambienti puritani si mostravano particolarmente ostili alla permanenza della lingua latina, non solo per la sua identificazione con il mondo dell‟erudizione elitaria, ma anche 3 Si tratta di una caratteristica non isolata anche nell‟ambito del circolo animato dallo stesso Hartlib, se, come informa il biografo di Boyle, Thomas Birch, John Pell conosceva il latino, il greco, l‟ebraico, l‟arabo, l‟italiano, il francese, lo spagnolo ed il tedesco, cfr. T. BIRCH (a cura di), The Works of the Honourable Robert Boyle, J. & R. Rivington, London 1744, p. 35. 43 per il suo significato religioso: il latino era visto inevitabilmente come la lingua del Papa e dei cattolici. A queste considerazioni si aggiungevano spesso critiche sulla difficoltà di apprendimento della grammatica latina e la sua imperfezione, rivelata da numerose irregolarità. In Inghilterra, come negli altri paesi europei, l‟affermazione delle lingue volgari incontrò tenaci resistenze da parte delle roccaforti della tradizione erudita e cattolica. È indicativo, a titolo di esempio, che Nicholas Culpeper, nella sua A Physicall Directory, or A translation of the London Dispensatory, pubblicata a Londra nel 1649, lamenti l‟intolleranza mostrata dai papisti e dal Collegio dei medici rispettivamente contro i testi teologici e medici in volgare. In questo periodo di fermento e di rinnovamento, la ricerca di una nuova lingua appariva connessa direttamente alla questione della corrispondenza e della comunicazione internazionale, sempre più vasta e più complessa, anche per quanto concerneva aspetti pratici come i traffici commerciali (si pensi ai contatti con le culture americane); ai dibattiti sull‟ecumenismo e l‟irenismo (che si confrontavano con problemi come la conversione degli infedeli e la diffusione dei testi sacri); alle esigenze della nuova scienza sperimentale (che richiedeva una terminologia precisa ed adeguata ad esprimere nozioni inedite); alle numerose proposte di riforme pedagogiche (che sollevavano problemi circa la facilità e la velocità di apprendimento della lingua, ma anche circa la necessità di superare l‟assoluto predominio delle lingue morte). In relazione a questi elementi, all‟interno del circolo hartlibiano era diffusa una consistente curiosità per le questioni legate alla lingua universale, curiosità che induceva gli associati a ricercare informazioni su progetti anche relativamente lontani nel tempo e di area francese4. Risaliva, per esempio, agli anni Venti del XVII secolo l‟invenzione di un misterioso alfabeto universale da parte del francese Jean Le Maire5; di tale invenzione sia Theodore Haak sia Comenio riuscirono a ricevere notizie un ventennio più tardi attraverso la mediazione di Mersenne. Caratteristica di questo alfabeto 4 A proposito della particolare attenzione riservata da Hartlib agli ambienti intellettuali francesi, è interessante ricordare che egli riferì, nel 1640, di un progetto di lingua universale che sarebbe stato messo a punto da Cartesio, ma del quale, tra i documenti che dimostrano l‟indubbio interesse cartesiano per il tema, non è rimasta traccia. Per l‟atteggiamento critico assunto da Cartesio nei confronti dell‟ipotesi di una lingua universale perfetta e realmente utilizzabile, cfr. ROBERTO PELLEREY, Le lingue perfette nel secolo dell’utopia, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 32-33. 5 Si tratta di JEAN LE MAIRE (1601-1643), gentiluomo della Camera del re Luigi XIII, che inventò un metodo per apprendere velocemente e facilmente le lingue ed eseguire con rapidità traduzioni, uno strumento per facilitare la navigazione e anche uno strumento musicale simile al liuto. 44 44 doveva essere la sua utilità, in quanto avrebbe consentito di superare i confini linguistici permettendo di comunicare con tutti i popoli. Non è privo di rilevanza il fatto che anche Théophraste Renaudot6, autore ben noto a Hartlib, abbia sempre mostrato una vivace attenzione per la questione della lingua universale e le sue implicazioni filosofiche: le conferenze parigine affrontarono spesso il tema, incentrandosi sull‟argomento dell‟ordine e dell‟armonia della natura, ai quali doveva corrispondere un linguaggio analogamente armonico ed ordinato, se l‟uomo intendeva conseguire una vera ed esatta conoscenza. Le conclusioni tratte da questi dibattiti vennero pubblicate in francese nel 1636 e quattro anni più tardi erano già note in Inghilterra, come rivelano indicazioni presenti nelle carte di Hartlib. Considerando la solerzia con la quale Hartlib assunse informazioni sulle attività di Renaudot, è facile comprendere che si verificò un‟osmosi tra il gruppo francese ed il circolo coordinato da Hartlib circa i progetti di lingua filosofica universale, sebbene non esistano documenti in cui venga esplicitamente indicato Renaudot come fonte. Un altro progetto francese aveva attratto l‟attenzione di Hartlib fin dal 1635: le note risalenti a quell‟anno informano che, tramite l‟amico Sir William Boswell, membro del Gresham College e ambasciatore all‟Aja, Hartlib venne a conoscenza della presenza in Inghilterra di D. P. Champagnolles, inventore di un progetto di lingua universale. Annotazioni del 1639, inoltre, rivelano che Hartlib possedeva una copia di un libro dell‟Odissea omerica stampato nel carattere ideato da Champagnolles, sebbene a quell‟epoca non ne conoscesse pienamente il funzionamento né il destino seguito dal momento dell‟invenzione. Solo nelle Ephemerides di Hartlib del 1650 compare una breve spiegazione del linguaggio concepito dal francese, basato presumibilmente sul principio dell‟abaco, cioè sull‟utilizzazione di un sistema di radici generali variamente completate, in modo tale che la desinenza di ogni parola venisse indicata tramite una piccola griglia composta da quattro quadrati occupati da vari segni (punti o trattini) di significato numerico. È interessante notare come per quanto concerne Champagnolles, al pari di altri inventori di analoghi alfabeti o caratteri, la segretezza fosse sentita necessaria, una sorta di obbligo e di tutela al tempo stesso. In questo modo, paradossalmente, strutture 6 THEOPHRASTE RENAUDOT (1584-1653), nato a Loudun, è considerato il padre del giornalismo moderno francese in quanto fondò la Gazette de France, probabilmente nel maggio 1631; studiò a Montpellier e viaggiò numerosi anni per il paese, apprendendo informazioni preziose e formulando nozioni innovative nel campo della medicina e della chirurgia; ottenuto il favore e la protezione di Richelieu a partire dal 1612, Renaudot assunse la carica di “Commissario generale dei poveri validi ed invalidi”. 45 45 linguistiche concepite per facilitare e perfezionare la comunicazione universale finivano, per volontà dei loro stessi ideatori, per essere relegate a limitate cerchie di eruditi e “specialisti”. La dialettica tra “esoterismo” e “democrazia intellettuale”, tra tendenza al monopolio e incoraggiamento del libero commercio delle idee è dunque un motivo che ritorna anche in relazione ai progetti di lingua universale. Anche un esponente di spicco degli ambienti intellettuali germanici in cui affondava le radici la cultura originaria di Hartlib, Johann Heinrich Bisterfeld, era coinvolto nel dibattito sulle lingue universali: nel 1638, dopo aver viaggiato in Francia, in Olanda e in Inghilterra, e in particolare dopo una visita a Mersenne, scrisse a Hartlib e Haak accennando ad un nuovo linguaggio universale. Nell‟opera pubblicata postuma, nel 1661, Alphabeti philosophici libri tres, Bisterfeld aveva manifestato un profondo interesse per gli aspetti classificatori insiti in un progetto di alfabeto filosofico in grado di raccogliere e sistematizzare con completezza e razionalità tutti i termini tecnici e scientifici. Risulta di particolare rilevanza, anche alla luce della circolazione dei testi appartenenti alla letteratura utopica continentale in Inghilterra, osservare che un‟altra opera scaturita dagli ambienti intellettuali continentali e legata alle tematiche linguistiche era nota a Hartlib: si tratta della Philosophiae rationalis partes quinque di Campanella, pubblicata a Parigi nel 1638, sulla possibilità di creare una lingua artificiale caratterizzata da un vocabolario basato sulla natura delle cose e da una “grammatica filosofica” differente rispetto a quella delle lingue naturali. Per quanto concerne i progetti anglosassoni, Hartlib appare altrettanto vigile e sensibile a cogliere informazioni su disparati disegni, di differente spessore. Nelle Ephemerides hartlibiane compaiono notizie circa il progetto di “carattere reale” ideato dal Reverendo Johnson su suggerimento di William Bedell, vescovo di Kilmore e amico di Hartlib. Note risalenti al 1641 accennano ad un certo “Mr. Flower”, docente al Jesus College di Oxford, che avrebbe appreso il linguaggio geroglifico di Johnson tanto da riuscire a comunicare con quest‟ultimo servendosene. L‟interesse di Hartlib per l‟invenzione si sarebbe protratto negli anni, come dimostrano i dati registrati nelle note del 1649, in cui egli informa che essa venne ripresa ed integrata proprio tra il 1649 ed il 1650 dal medico paracelsiano John French, vicino al circolo hartlibiano. Nel carteggio fra Hartlib e Robert Boyle si trovano importanti riferimenti alla questione della lingua universale. In particolare, in una lettera inviatagli da quest‟ultimo il 19 marzo 1646/7 è contenuta un‟interessante 46 46 osservazione circa il carattere internazionale e quindi interlinguistico dei simboli matematici. Se il progetto del Carattere Reale conseguirà i suoi risultati, sarà in grado di fare ammenda in buona parte presso il genere umano per ciò che la superbia degli uomini distrusse alla torre di Babele. E in verità, poiché i nostri caratteri matematici vengono compresi da tutte le nazioni d‟Europa nello stesso modo, sebbene ogni popolo esprima quella comprensione con la propria lingua, non immagino alcun fattore che renda impossibile la stessa cosa che già vediamo in atto con i numeri, ma con le parole (T. Birch 1744:p. 22). La peculiare e consueta universalità dei segni numerici rappresenta dunque, agli occhi di Boyle, una concreta speranza in vista della costruzione di una lingua universale composta da caratteri reali. Boyle venne a conoscenza del progetto di carattere reale ideato da Francis Lodwick proprio attraverso la mediazione di Hartlib. Boyle si interessò a lungo dei progetti di lingua universale, stimolato da un netto disprezzo per ogni ricerca intellettuale che si riduca a vuoto studio delle parole e per ogni inutile abbellimento dello stile. Egli, inoltre, fece parte della commissione istituita appositamente nel maggio 1668 dalla Royal Society per studiare le possibili applicazioni pratiche della lingua filosofica ideata da John Wilkins. Il 1647 conobbe la nascita di due progetti di lingue universali, quello di Francis Lodwick, esposto nell‟opera A Common Writing e quello di Kinner. Quest‟ultimo, nel giugno di quell‟anno, espose a Hartlib il suo progetto di una lingua artificiale, intesa sia come rimedio alla babelica confusione delle lingue naturali sia come potente aiuto alla memoria. L‟idea di un abbozzo di lingua filosofica era nata in Kinner dall‟esigenza di migliorare le correnti classificazioni botaniche e dalla necessità di sistematizzazione delle nozioni più complicate e difficili espresse dagli studiosi di scienze naturali. L‟ispirazione che guidava tale progetto suscitò l‟interesse di Petty che tentò di realizzarlo, attorno al 1650, per poter disporre di una terminologia botanica funzionale, sebbene pare che non abbia conseguito i risultati sperati. William Petty lavorò ad una lingua universale composta di caratteri più facili di quelli utilizzati comunemente e ad un Dictionary of sensible words volto ad eliminare ogni ambiguità insita nel linguaggio. Nell‟Advice, Petty auspica un‟istruzione meno libresca e più pratica per i fanciulli e propone di scrivere non soltanto secondo le modalità comuni, ma anche di rendere più veloce questa operazione usando strumenti che definisce genericamente “Reall Characters”, senza esporre la sua prospettiva riguardo a ciò che essi dovrebbero essere. Mersenne aveva manifestato analoghi interessi a partire 47 47 dal 1640 e aveva rivolto la sua attenzione agli scritti di agricoltura di Plattes, come risulta dalla corrispondenza con Haak. In questa direzione si muovevano anche le riflessioni e gli studi del naturalista John Ray, che collaborò anche con Wilkins. Hartlib conosceva le ricerche naturalistiche e le attività classificatorie condotte da Ray e scambiava informazioni su di esse principalmente con John Worthington. Hartlib aveva infatti inviato a quest‟ultimo il manoscritto dell‟opera di Jungius Isagoge Phytoscopica, che era stata poi prestata a Ray. Si trattò di un contributo non irrilevante nel percorso intellettuale di Ray, poiché lo scritto di Jungius avrebbe fornito al naturalista elementi preziosi per le opere botaniche da lui scritte fra il 1650 ed il 1659. Hartlib aveva ottenuto, in cambio, una lettera dello stesso Ray ed una copia della sua prima opera, il Catalogus plantarum circa Cantabrigiam nascentium, conosciuta anche come Cambridge Catalogue, inviatagli nel 1660 e pubblicata nello stesso anno. Gli anni Cinquanta non videro scemare l‟interesse di Hartlib per il tema della lingua universale, se, come sembra probabile, egli conobbe Sir Thomas Urquhart, autore dell‟Ekskubalouron (1652), opera che contiene un progetto per un linguaggio simbolico composto da elementi semplici che corrispondevano a nozioni prime. Nelle Ephemerides del 1655, compare un riferimento ad un altro inventore di lingue universali, il nobile svedese Benedict Skytte, particolarmente attento agli studi etimologici e comparativi tra le lingue come elementi preparatori alla creazione di un idioma in grado di contenerle e al contempo correggerle. Nello stesso anno, una lettera dell‟informatore politico svizzero Etienne Polire inviata a Hartlib fornisce un dato importante per comprendere la rilevanza ed il significato del coinvolgimento di Hartlib nella vasta sfera della criptologia. Polier comunica al suo interlocutore la disponibilità a fornire notizie sulla corte francese, ma specifica che l‟eventuale corrispondenza dovrebbe svolgersi in un linguaggio cifrato, scelto fra quelli hartlibiani, dello stesso Polier oppure fra quelli contenuti nell‟opera di “Gustavus Selenus” Cryptomenytices et cryptographiae libri IX. L‟opera, pubblicata nel 1624, è uno dei maggiori esempi dell‟“arte della criptologia” del secolo; lo pseudonimo nascondeva il Duca Augusto il Giovane di Brunswick-Luneburg, il quale era convinto sia dell‟utilità pratica del compendio da lui composto sia del rischio che esso potesse essere utilizzato per scopi non edificanti come, per esempio, attività spionistiche. Pare che Hartlib possedesse una copia dell‟opera o che potesse consultarla liberamente, tanto da acquisire una conoscenza adeguata dei linguaggi cifrati che vi erano analizzati. Il riferimento a linguaggi propri dello stesso Hartlib sembra inoltre suggerire un 48 48 suo impegno in prima persona, seppur non confermato da pubblicazioni o scritti specifici. Hartlib fu probabilmente a conoscenza anche del progetto di Cave Beck e delineato nell‟opera The Universal Character, by which all the nations of the world may understand one anothers conceptions reading out of one Common Writing their own mother tongues, pubblicata a Londra nel 16577. Poco dopo la pubblicazione dello scritto, infatti, Hartlib ricevette una lettera di George Dalgarno in cui quest‟ultimo, al fine di promuovere il suo progetto di lingua universale, critica quello di Beck e manifesta la sua delusione per la scarsa portata innovativa del suo “carattere”. Sebbene, dunque, Hartlib possa non aver letto l‟opera di Beck, tuttavia raccolse pareri e commenti su di essa, a conferma della sua volontà di mantenersi costantemente informato circa le pubblicazioni sul tema linguistico. Un aspetto che potrebbe aver attratto l‟attenzione di Hartlib sulla nuova lingua inventata da Beck fu l‟accenno esplicito contenuto nell‟epistola dedicatoria dell‟opera alla sua utilità per il commercio e per la diffusione della vera religione. Sui problemi connessi alla lingua universale, Hartlib fu in corrispondenza con numerosi associati e studiosi di diverso spessore che si interessarono a vario titolo dell‟argomento: è possibile ricordare, per esempio, gli scambi epistolari intercorsi tra Hartlib e Joachim Hübner, Faustus Morstyn, Elias Ashmole e John Pell. In particolare, quest‟ultimo, matematico e linguista, fu inventore di un “character” e partecipò attivamente alla discussione sullo schema di una lingua filosofica elaborato da Dalgarno, 8 insistendo sull‟utilità di un sistema di scrittura “brachigrafico” e “tachigrafico” . Come ultimo atto nella vicenda che lo aveva legato per poco meno di un trentennio alle vicissitudini della lingua universale, Hartlib contribuì in 9. qualità di editore alla pubblicazione dell‟Ars signorum (1661) di Dalgarno Il 7 Si tratta di CAVE BECK (1623-1706?), parroco della Chiesa di Saint Helen a Ipswich. La lingua proposta da Beck consiste in un sistema di combinazioni numeriche che rappresentano i termini radicali, al quale è abbinata la serie delle lettere per la specificazione di tempo, caso, genere e numero. Beck afferma di essersi ispirato a Bacone, Wilkins e, significativamente, al missionario Matteo Ricci (per le informazioni da lui fornite sulla scrittura cinese). 8 Dalgarno ideò un sistema di questo tipo e inviò a Hartlib un passo del Vangelo di Giovanni (16, 1-2) trascritto secondo tale sistema; Hartlib, come si arguisce da una lettera indirizzata proprio a Pell datata luglio 1657, ne fu entusiasta ed auspicò una trascrizione integrale del testo biblico. 9 La lingua filosofica di Dalgarno consiste sostanzialmente in un dizionario basato sulla classificazione logica delle idee e degli oggetti, divisi in 17 classi supreme designate da altrettante lettere dell‟alfabeto. Ogni classe suprema si divide a sua volta in sottoclassi distinte per la variazione della seconda lettera. Il concetto classificatorio che sta alla base della lingua filosofica di Dalgarno prevede che ogni oggetto simile sia designato 49 49 suo intervento avvenne dopo che ebbe interpellato Lodwick, quattro anni prima, affinché gli esprimesse le sue opinioni sul progetto dello scozzese. Lodwick rilevò i limiti del progetto, ma espresse un giudizio complessivo moderatamente positivo e si rese disponibile per finanziare almeno parzialmente gli studi di Dalgarno. Quest‟ultimo, alla fine degli anni Cinquanta, temette di essere vittima di una sorta di plagio perpetrato dal suo rivale Wilkins, anch‟egli appoggiato da Lodwick: da una lettera inviata a Hartlib emerge infatti che, dopo un periodo di assidua frequentazione e aperti dibattiti sul tema della lingua universale, Dalgarno si aspettava che Wilkins utilizzasse illegittimamente le sue riflessioni, sebbene fosse convinto che non potesse trarne credito e consistenti guadagni, in quanto lui, nel frattempo, aveva perfezionato ulteriormente le sue concezioni. 2. Un dibattito fra Inghilterra e continente La visita di Comenio in Inghilterra del 1641-1642 rappresenta uno degli episodi più rilevanti nell‟ambito delle attività e interessi di Hartlib ai temi della lingua perfetta e della lingua universale. In particolare, questo episodio appare significativo al fine di valutare l‟effettivo peso assunto dalle riflessioni continentali nella tradizione culturale britannica e, di conseguenza, stimare la reale incidenza del ruolo di intermediario giocato da Hartlib anche per quanto concerne i dibattiti linguistici. L‟opera di Comenio in cui emerge con maggior chiarezza e rilievo il tema della lingua filosofica è la Via Lucis, scritta proprio durante il soggiorno inglese ma pubblicata ad Amsterdam solo nel 1668. L‟ideale pansofico comeniano si realizza nella ricerca di un metodo empirico e di una logica induttiva, secondo il modello baconiano, e quindi di un linguaggio, che consentano all‟uomo di penetrare e di dominare tutto il reale, che garantiscano cioè il possesso della sapienza universale. Il maggiore ostacolo alla diffusione della luce e della penetrazione della pansofia presso tutti i popoli consiste, secondo Comenio, nella molteplicità e nella varietà delle lingue, superabile solo attraverso la realizzazione della “monoglottia”, cioè di una lingua comune in tutto il mondo; e la monoglottia da parole molto simili. Dalgarno fu autore anche dell‟opera Didascalocophus or the deaf and dumb man’s tutor, pubblicata a Oxford nel 1680, in cui viene elaborato un metodo per l‟istruzione dei sordomuti, e di un alfabeto composto da segni manuali. È interessante notare che sia in Beck sia in Dalgarno compaiano due requisiti richiesti alla lingua perfetta: essa dev‟essere di facile apprendimento (Dalgarno pensa che siano necessarie due settimane, mentre Beck ritiene sufficienti addirittura due ore) e deve prestarsi all‟utilizzazione orale come a quella scritta. 50 50 coinciderà con la “panglottia”, in quanto onnipervasiva, sia quanto a diffusione sia quanto a capacità di cogliere l‟essere nella sua essenza. La ricerca di questa lingua perfetta ed universale potrebbe avvenire, secondo Comenio, in due modi: si potrebbero scegliere dalle lingue esistenti i loro migliori elementi, creando un‟ulteriore lingua che sarebbe così distinta ma anche legata a tutte le altre; oppure, e questo risulta il metodo preferibile, si può creare un linguaggio radicalmente nuovo, privo di riferimenti alle lingue utilizzate, ispirato direttamente dalle cose. La lingua pansofica sarebbe aliena da imperfezioni in quanto rifletterebbe l‟armonia della natura, e sarebbe estremamente ricca in quanto renderebbe conto della varietà degli esseri naturali e delle loro proprietà. Nella prospettiva di Comenio, però, questa lingua non avrebbe dovuto sostituire totalmente il latino, il greco e l‟ebraico: essi, infatti, essendo stati utilizzati per esprimere e diffondere il Verbo, sono depositari di una dignità che mantiene il suo valore. La visita di Comenio si colloca in concomitanza con il sorgere del 10 movimento culturale inglese incentrato sul progetto di una lingua filosofica . Ma, al di là di questa osservazione meramente cronologica, il dibattito sull‟effettiva influenza esercitata da Comenio sulla riflessione anglosassone circa la lingua universale rimane aperto. Una tesi molto interessante è stata sostenuta, su questo tema, da Subbiondo. Essa consiste nell‟affermazione di una relazione di tipo “mezzofine” tra la lingua filosofica e la riforma pedagogica nel pensiero di Comenio e di un‟influenza comeniana diretta e determinante su John Wilkins, uno dei massimi teorici della lingua perfetta, e sul dibattito inglese in generale, tale per cui anche negli ambienti britannici le due questioni, linguistica e pedagogica, si posero in stretta continuità fra di loro. In quest‟ottica, dunque, la lingua universale auspicata da Comenio e ricercata da numerosi pensatori inglesi del periodo non si pone semplicemente come il rimedio alla confusione linguistica post-babelica, ma rappresenta il rimedio all‟ignoranza post-edenica, in quanto sarebbe in grado di ristabilire il contatto originario e innocente con le cose e, di conseguenza, il dominio sulla natura. L‟opera in cui Wilkins delineò il suo progetto di lingua universale fu 11. An Essay Towards a Real Character Seth Ward ebbe il merito di suggerire 10 Mentre in Francia il dibattito sulla lingua universale raggiunse la sua massima fioritura nella prima metà del Seicento, in Inghilterra giunse a maturazione nella seconda metà del secolo; un esempio significativo della precocità francese rispetto agli ambienti anglosassoni può essere costruito dagli scambi epistolari sul tema avvenuti fra Mersenne e Cartesio a partire dal 1629. 11 Lo scritto venne pubblicato a Londra nel 1668 a cura della Royal Society, alla quale era dedicata, come rivela la nota riportata a fianco del frontespizio, datata lunedì 13 aprile 1668 e relativa all‟incontro dei fellows che si espresse a favore dell‟iniziativa. Il 51 51 a Wilkins la composizione di un trattato che coinvolgesse tematiche legate alla grammatica, alla semantica, alla fonetica, ma che contenesse rilevanti riflessioni filosofiche concernenti l‟affascinante questione della lingua universale. È probabile che Wilkins abbia posto mano al saggio a partire dal 1657 oppure, al più tardi, nel 1659; lo ultimò nel 1665, ma l‟incendio di Londra del 1666, distruggendo le due copie già stampate e la versione manoscritta, ne ritardò la pubblicazione. L‟ambizioso scopo perseguito da Wilkins, ma da lui stesso ritenuto non ancora pienamente realizzato dal suo scritto, era quello di fornire una “chiara espressione di tutti gli oggetti e di tutte le nozioni che sono classificabili nei discorsi”. Wilkins propone riferimenti espliciti all‟opera svolta dall‟Accademia della Crusca e dall‟Accademia francese, entrambe impegnate nella compilazione di dizionari ragionati, al fine di suffragare la necessità del suo saggio: quest‟ultimo, infatti, sarebbe in grado di proseguire lo spirito delle due imprese continentali, potenziandone l‟utilità pratica per l‟intero genere umano attraverso l‟aggiunta del carattere di universalità. Wilkins condivideva con Comenio la relazione tra lingua filosofica e riforma educativa, in quanto anch‟egli vedeva tra questi elementi un necessario rapporto di inclusione e di strumentalità della prima rispetto alla seconda. In questo senso va letto il riferimento costante alla facilità che caratterizzava il “carattere reale” di Wilkins: l‟unicità del linguaggio, derivante dalla sua universalità, comportava, insieme ad un‟estrema semplificazione nelle comunicazioni fra le nazioni, anche la possibilità di apprendere in un solo idioma tutte le parole necessarie ad esprimere tutti i concetti. D‟altra parte, si trattava di un orientamento congeniale e non nuovo agli ambienti inglesi, in quanto già emerso negli scritti baconiani. La prospettiva di Wilkins nei confronti della lingua universale, inoltre, era caratterizzata, come quella di Comenio, da una spiccata sensibilità religiosa che faceva sì che si individuasse in essa principalmente un prezioso strumento per facilitare gli scambi di conoscenze fra i vari paesi, la diffusione del Cristianesimo e lo smascheramento degli errori di interpretazione delle Sacre Scritture che erano all‟origine di sanguinosi conflitti. Nell‟epistola che apre il saggio di Wilkins si legge: trattato, molto ampio, è suddiviso in quattro parti, a loro volta comprendenti rispettivamente cinque, dodici, quattordici e sei capitoli; vi sono esposti numerosi ed eterogenei argomenti, tra i quali l‟origine e la struttura degli alfabeti e delle lingue (con particolare attenzione agli sviluppi della lingua inglese), la classificazioni degli esseri naturali, le categorie logiche aristoteliche, le regole grammaticali ed ortografiche e, nella parte conclusiva, il progetto di lingua universale. 52 52 In aggiunta a quell‟estremamente ovvio vantaggio che ne deriverebbe, cioè la facilitazione del reciproco Commercio tra le diverse nazioni del mondo e il perfezionamento dell‟intera conoscenza della natura, esso [il “carattere reale” di Wilkins] condurrebbe analogamente alla diffusione della conoscenza della religione. Dopo il dono dei miracoli, in particolare quello delle lingue, riversato sugli Apostoli nella fase nascente del Cristianesimo, non c‟è nulla che sia in grado più del progetto qui proposto di realizzare quelle speranze, che consistono nella diffusione della religione. A questo sarà opportuno aggiungere che il presente progetto contribuirà anche in modo sostanziale a chiarire alcune delle nostre attuali differenze in ambito religioso evidenziando molti errori avventati che si rifugiano dietro espressioni ingannevoli e false che, una volta svelati attraverso argomentazioni filosofiche e rese coerenti rispetto all‟autentico e naturale significato delle parole, appariranno inconsistenti e contraddittorie; e molte di quelle che pretendevano di essere misteriose e profonde nozioni, espresse con parole altisonanti, per mezzo delle quali alcuni si sono guadagnati la fama, dopo essere state esaminate in questo modo, si riveleranno o assurdità o nozioni molto banali e sterili. La lingua universale, quindi, si poneva come strumento di diffusione del messaggio religioso autentico e di smascheramento delle imposture: proprio attraverso la seconda funzione si sarebbe esplicata la prima, poiché la verità sarebbe emersa dalla demolizione delle ambiguità e dagli errori insiti in molte dottrine fantasiose. Questi ultimi venivano considerati da Wilkins sostanzialmente errori linguistici, dovuti ad un linguaggio oscuro e retorico che nascondeva attraverso parole ed espressioni contorte o eleganti concetti oziosi e puerili. È interessante il riferimento al miracolo della polilalia: Wilkins è convinto che il lavoro da lui intrapreso, sebbene non perfetto, come spesso ammette nel corso della lettera, sia in grado di imitare gli effetti prodigiosi che si erano verificati grazie a quel dono divino concesso agli Apostoli e ai primi 12 Cristiani . Le due aree di convergenza indicate hanno indotto numerosi studiosi ad assumere una posizione simile a quella argomentata da Subbiondo. D‟altra parte, già Benjamin DeMott, prima di Subbiondo, aveva sostenuto che Comenio ebbe un ruolo determinante e diretto sulla formazione del movimento stesso e sugli orientamenti dei dibattiti da esso animati. Tale posizione sembra essere suffragata da alcune note rintracciate tra le carte di Hartlib in cui si ricollega il progetto di Wilkins di una lingua filosofica ad autori che si occuparono di disegni simili in anni precedenti. DeMott ha interpretato questi riferimenti come accenni a Comenio e a 12 Il miracolo è narrato negli Atti degli Apostoli, 2, 4-11. 53 53 Cyprian Kinner e ha rafforzato la sua tesi sostenendo che la parte della Via Lucis dedicata alla trattazione della lingua universale potrebbe risalire al periodo del soggiorno inglese di Comenio. Sul fronte opposto si sono schierate Vivian Salmon, Marta Fattori e Brigitte Asbach-Schnitker. In particolare, Vivian Salmon tende ad affermare con decisione l‟autonomia e l‟originalità delle riflessioni linguistiche britanniche. La Salmon dissente da DeMott soprattutto per quanto concerne l‟ultimo argomento qui ricordato, in quanto è assai probabile che nel periodo intercorso fra il 1641 e il 1668, data di pubblicazione della Via Lucis, Comenio abbia rivisto e modificato l‟opera, forse proprio nella parte in questione. Inoltre, Wilkins non faceva parte del circolo hartlibiano al tempo della vista di Comenio e quindi potrebbe addirittura non averlo neppure 13. incontrato Subbiondo tenta di dirimere la questione ponendo in luce che Comenio effettivamente riferisce di interventi sul testo della Via Lucis successivi alla prima stesura del 1641, ma non specifica né le parti cambiate né quelle che cominciarono a circolare in Inghilterra nella forma manoscritta, all‟indomani della sua partenza; questo argomento, dunque, non è in grado di dimostrare un‟influenza diretta del pensiero linguistico comeniano sugli ambienti inglesi; inoltre non è possibile stabilire con certezza se Wilkins e Comenio si siano incontrati nel 1641, nonostante alcune fonti comuni e la comune conoscenza di Hartlib e Theodore Haak. In virtù di queste considerazioni, Subbiondo opta per una cauta conclusione di compromesso: probabilmente è scorretto affermare un‟influenza comeniana a senso unico sugli ambienti inglesi, mentre pare ragionevole ipotizzare un mutuo scambio di spunti e suggestioni sulla lingua universale fra i due ceppi, continentale e britannico. Un‟ulteriore ipotesi interpretativa in linea con la conclusione di Subbiondo potrebbe individuare in Comenio colui che impresse un nuovo corso ai dibattiti anglosassoni, spostando significativamente l‟attenzione dai già noti e più volte esplorati aspetti del “carattere reale” al tema della creazione di una vera e propria lingua universale. Prima del 1641, infatti, non erano mai comparsi in Inghilterra trattati dedicati esplicitamente e specificamente alle lingue universali, ma piuttosto sistemi alfabetici o tabelle di segni linguistici non integrati in strutture linguistiche complesse. Questa 13 L‟inizio della corrispondenza fra Wilkins e Hartlib risale effettivamente solo alla metà degli anni Quaranta; gli scambi epistolari si sarebbero protratti fino agli anni Cinquanta; è possibile ipotizzare contatti negli anni precedenti alle prime lettere se si pensa che Haak, già conosciuto sia da Hartlib sia da Wilkins nel 1641, abbia avuto la funzione di tramite, ma non esistono prove certe in tal senso. 54 54 interpretazione, che appare piuttosto realistica, implicherebbe l‟attribuzione a Comenio di un ruolo molto rilevante nel panorama degli studi linguistici anglosassoni e, di conseguenza, consentirebbe di individuare nell‟intervento hartlibiano, un fattore significativo, seppure indiretto, di sviluppo del dibattito in materia. Riferimenti bibliografici J. V. ANDREAE, Descrizione della repubblica di Cristianopoli, Guida, Napoli 1983. T. BIRCH (a cura di), The Works of the Honourable Robert Boyle, J. & R. Rivington, London 1744. U. ECO, La ricerca della lingua perfetta nella cultura europea, Laterza, Roma/Bari 1993. M. SLAUGHTER, Universal languages and scientific taxonomy in the seventeenth century, Cambridge University Press, Cambridge 1982. P. ROSSI, Lingue artificiali, classificazioni, nomenclature, in Aspetti della rivoluzione scientifica, Morano, Napoli 1971. R. PELLEREY, Le lingue perfette nel secolo dell’utopia, Laterza, Roma-Bari 1992. 55 55 L’ALTRO CASANOVA. LE MEMORIE NELL’IMMAGINARIO CINEMATOGRAFICO DI FEDERICO FELLINI di Giacomo Fronzi* Abstract The cinematographic representation of the character of Giacomo Casanova (17251798) by Federico Fellini can only be understood taking into account two elements: the category of great seducers and the 18th Century. As for the first aspect, this paper emphasizes the differences and similarities between Casanova and Don Giovanni. Concerning the second aspect, Casanova seems to embody the ambiguities and contradictions of “the Age of Reason”. These two aspects contribute to explain Fellini‟s work, which aims at demystifying this character by questioning the traditional model of the Italian seducer. This “other Casanova” must not be interpreted solely in a fantastic manner but also in a metaphorical one. Its current value lies in the existential behavior expressed by the modern man which can be portayed through the image of an eye flowing across reality without interpreting it, neither emotionally nor judgmentally. This is the “non-life”. La traduction cinématographique du personnage de Giacomo Casanova (1725-1798) réalisée par Federico Fellini ne peut être pas vraiment comprise qu‟en relation avec deux éléments: la catégorie des grands séducteurs e le dix-huitième siècle. Pour ce qui concerne le premier aspect, cet article souligne les différences et les similitudes entre Casanova et Don Giovanni. Quant au deuxième aspect, Casanova semble incarner en soi les ambiguïtés et les contradictions du “siècle des lumières”. Ces deux aspects contribuent à éclaircir l‟opération de Fellini, qui vise à démythifier le personnage en bouleversant le modèle traditionnel du séducteur italien. Cet “autre Casanova” ne doit pas être interprété de façon fantastique, mais aussi métaphorique. Son actualité réside dans l‟attitude existentiel manifesté par l‟homme contemporain et qui se présente dans la forme d‟un œil qui regarde la réalité sans l‟interpréter, ni avec le sentiment, ni avec le jugement. C‟est la “non vie”. * Laureato in Filosofia presso l‟Università del Salento. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Etica e antropologia filosofica. Attualmente collabora con la cattedra di Estetica, in qualità di assegnista di ricerca. Si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio “T. Schipa” di Lecce. 56 56 La trasposizione cinematografica del personaggio di Giacomo Casanova (1725–1798) realizzata da Federico Fellini può essere compresa solo se si considera la relazione che intercorre fra due elementi: la categoria del grande seduttore ed il diciottesimo secolo. Per quanto riguarda il primo aspetto, questo saggio sottolinea le differenze e le similitudini fra Casanova e Don Giovanni. Per ciò che concerne il secondo aspetto, Casanova sembra incarnare le ambiguità e le contraddizioni del “secolo dei lumi”. Questi due aspetti contribuisco a chiarire l‟opera di Fellini, che si propone di demistificare questo personaggio mettendo in discussione il modello tradizionale del seduttore italiano. Quest‟ “altro Casanova” non deve essere interpretato soltanto in una maniera fantastica ma anche in una metaforica. La sua attualità risiede nell‟assunzione della condotta esistenziale dell‟uomo moderno, la quale può essere raffigurata attraverso l‟immagine di un occhio che scruta la realtà senza interpretarla, né con il sentimento né con la ragione. Questa è la “non-vita”. _____________________________ 1.Il secolo dei seduttori 57 Sono Giacomo Casanova, cavaliere di Seingalt. Di Venezia. Nacqui a Venezia nel 1725. Mia madre era celebrata attrice Zanetta. Discendo da una famiglia antichissima. Non ho mai avuto una meta fissa. Mi sono lasciato andare dove mi spingeva il vento… Ricordandomi i piaceri avuti me li rinnovo, e rido delle pene sofferte che non sento più… Ho avuto tutti e quattro i temperamenti: il flemmatico, il sanguigno, il bilioso, e il melanconico. Adattando l‟alimentazione alla mia costituzione, ho sempre goduto di buona salute. Sentendomi nato per il sesso diverso dal mio, lo amai sempre e me ne feci amare per quanto possibile… Amai i piatti dal sapore forte: il pasticcio di maccheroni d‟un bravo cuoco napoletano, l‟ogliapòdrida, il merluzzo di Terranova molto vischioso, la cacciagione il cui aroma sconfina con il puzzo, i formaggi la cui perfezione si rivela quando i piccoli esseri che li abitano cominciano a diventare visibili… Amai soprattutto la mia città, antica e gaia, crudele e tenerissima ( F. Fellini, B. Zapponi, 1976: p. 3). Con queste parole, nella sceneggiatura originale scritta da Federico Fellini e Bernardino Zapponi per il Casanova felliniano (1976), il protagonista 57 1. si presenta. Questo incipit, in verità, non troverà poi effettiva realizzazione Al suo posto troviamo le immagini di una Venezia notturna e oscura alle 2 prese con un‟inedita celebrazione dello sposalizio con il mare . Secondo Fabrizio Borin, non aver seguito questa traccia iniziale riflette l‟intenzione di Fellini di eliminare dalla sceneggiatura “i motivi della libertà e della curiosità, […] perché il regista non pensa di dover dare spessore allo spirito indipendente ostentato da Casanova, che invece considera bloccato, ingabbiato e schiavo del carattere e dei propri istinti erotici” ( F. Borin, 2007: p.73). Sul modo di concepire il personaggio, da parte di Fellini, torneremo più avanti. È interessante riscontrare come quest‟idea iniziale sia stata fatta propria, quasi trent‟anni più tardi, da Laurence Dunmore, il quale fa recitare al suo libertino un monologo (della durata di circa due minuti) nel quale il protagonista, John Wilmot, conte di Rochester, si presenta a coloro i quali, uomini e donne, si accingono ad assistere alle sue gesta. Così come era previsto inizialmente da Fellini e Zapponi per Casanova, Dunmore fa venire fuori dal buio il libertino, creando immediatamente un‟atmosfera densa di attesa e di curiosità. Questo rapido riferimento al monologo iniziale recitato da John Wilmot, letterato e libertino realmente esistito (proprio come Casanova) tra il 1647 e il 1680, non è solo interessante come dimostrazione della vasta eco che il film di Fellini ha generato, ma è anche utile ad inquadrare il soggetto, Giacomo Casanova (1725-1798), la cui veste cinematografica realizzata da Fellini non può essere compresa fino in fondo se non la si mette in relazione a due elementi: la categoria alla quale generalmente viene associato, vale a dire quella dei grandi seduttori, e l‟epoca in cui Casanova è vissuto, quindi il Settecento. La figura di Casanova viene fatta coincidere, nell‟immaginario comune, con quella del grande seduttore italiano, perfetta sintesi tra libertà di pensiero e d‟azione, fascinazione, seduzione e ambiguità. Questi caratteri possono, però, essere attribuiti ad una moltitudine di figure apparentemente simili, le cui gesta la storia e la letteratura hanno contribuito a rendere proverbiali e “mitiche”. Fra queste, spicca, per notorietà e variegata trattazione, quella del Don Giovanni, la cui prima veste letteraria ci è fornita 1 Non si tratta dell‟unica variazione rispetto alla sceneggiatura originale, nella quale erano previste numerose scene che poi non sono state realizzate. 2 Inedito perché, come ha scritto Gian Luigi Rondi, non si tratta del solito matrimonio col mare. Il Doge è presente, “ma taglia un nastro che permette a qualcuno, piombando in acqua, di tagliare a sua volta un altro nastro che dovrebbe lasciare emergere dalle acque una misteriosa testa di donna. Chi è? “Una specie di nume lagunare – l‟ha definita Fellini – la grande madre mediterranea, la femmina misteriosa che abita in ciascuno di noi”“ (G. L. RONDI, in “Il Tempo”, 11 dicembre 1976). 58 58 da Tirso de Molina (fray Gabriel Téllez dell‟Ordine della Merced), con il suo El burlador de Sevilla y convidado de piedra (1630). La storia del Burlador è nota. Il seduttore, sotto le mentite spoglie di Don Ottavio, tenta di conquistare donna Anna, la quale, accortasi del tranello, urla ed invoca l‟aiuto di qualcuno. Giunge il padre, don Gonzalo, che, nel tentativo di difendere la figlia, si scontra in duello con Don Juan e viene ucciso. Si susseguono altre vicende, che coinvolgono personaggi maschili e femminili. Tra queste vicende, ne emerge una per pregnanza e rilevanza. Una notte, Don Juan si aggira in un cimitero, quando, all‟improvviso, riconosce la statua di don Gonzalo, alla quale si rivolge con ilarità e leggerezza. Don Juan invita a cena don Gonzalo, presso la propria casa, compiendo in questo modo un oltraggio gravissimo: ha infranto il divieto di tenere separato il mondo dei vivi da quello dei morti. Don Gonzalo si presenterà, come Convitato di pietra, e rilancerà l‟invito, ma questa volta presso la propria dimora, l‟inferno. Il dramma, che ha una dimensione escatologica, si conclude con la caduta di Don Juan nell‟inferno e con la sua successiva e definitiva redenzione. Nella versione di Tirso, Don Juan, l‟eroe (che si può considerare il primo dei tre elementi che caratterizzano il “sistema dongiovannesco”), è un giovane nobile, figlio traviato di buona famiglia, ed è presentato come seduttore o ingannatore di donne. Quest‟ultimo aspetto distintivo dell‟eroe implica la presenza delle donne, di un gruppo femminile (secondo elemento del sistema), costituito da Anna, nobile e figlia di Don Gonzalo, Tisbea, la pescatrice, Isabella, nobile fanciulla, e Aminta, giovane campagnola. A questi elementi, va aggiunto il terzo, il più innovativo, che consiste nelle sembianze che vengono date al Morto che ritorna, ossia quelle di una statua di pietra. Per la sua ambiguità di materia e di vita, di pesantezza e di animazione, la statua che parla e cammina è una forma creata per turbare, per produrre a colpo sicuro l‟effetto di inquietante estraneità. A partire dall‟analisi della figura di Don Giovanni condotta da Jean Rousset (Id., trad. it. 1980), è possibile individuare un fondo mitico presente in quello che è stato definito “sistema dongiovannesco”. Il Don Giovanni, nonostante apparentemente contravvenga ad alcuni requisiti necessari per poter parlare di mito (l‟anonimato, l‟essere “fuori dalla storia”, ecc.), sembra conservare dei tratti che, opportunamente analizzati, tanto in una prospettiva storico-antropologica quanto in una letteraria, potrebbero consentire di considerarlo un vero e proprio “mito”. Non sarebbe mito, sostiene Rousset, sulla base delle definizioni di Eliade, Lévi Strauss o Vernant, perché non si colloca in una società arcaica ma nell‟era storica. Ciononostante, “la presenza attiva del Morto, della Statua animata crea un legame con l‟aldilà e con il sacro”( Ivi, p.5), ricalcando le vicende di una leggenda popolare 59 59 conosciuta nell‟occidente cristiano, il cui riferimento implicito farebbe riaffiorare, nel Don Giovanni originario, un “fondo mitico dimenticato”. A ciò si aggiunge l‟importanza del pasto e dello scambio alimentare, presenti a più riprese nelle varie versioni letterarie e teatrali del mito. Se questo avvicina Don Giovanni al mito, ciò che nuovamente lo allontana è un altro elemento: “i miti non hanno autore” (Lévi Strauss). Eppure, Don Giovanni non ha tardato a rendersi indipendente dal suo inventore e dal testo del fondatore. Esso giunge a vivere una vita propria, recuperando perciò l‟elemento caratteristico del mito che è l‟anonimato, legato al suo durevole potere sulla coscienza. Ma con chi si identifica lo spettatore? Con le vittime del libertino? Con il delinquente dal fascino seduttore, con il ribelle glorificato nel romanticismo? Don Giovanni è una figura variabile, plastica, ora modello positivo ora modello negativo. Da tale plasticità – prosegue ancora Rousset – derivano, a causa dell‟azione di lunga durata sull‟immaginazione collettiva, l‟usura e la degradazione. Cosa resta del Don Giovanni secentesco nel Don Giovanni ottocentesco? L‟identità originaria è evaporata. Attraendo su di sé tutto l‟interesse, “l‟eroe si è allontanato dallo scenario iniziale, ha perduto il contatto con il Convitato e l‟epilogo sovrannaturale. Morte del mito e, quindi, prova che il mito è riuscito, fin troppo bene” (Ivi, p.7). Vi sono alcuni topoi ricorrenti nelle varie reinterpretazioni del mito di Don Giovanni. Il topos del seduttore, però, pur nella sua quasi necessarietà non risulta essere quello centrale, dal momento che, come precisa ancora Rousset, nelle vicende di personaggi come il duca di Lauzun, il marchese de Sade o Casanova, manca il rapporto con il Morto e con il soprannaturale. È possibile, però, ricostruire un legame tra Don Giovanni e gli altri famosi seduttori? Quali sono le caratteristiche che li accomunano e quali quelle che li differenziano? Dal momento che queste pagine sono dedicate al Casanova felliniano, mi limiterò a fare dei riferimenti al alcune delle relazioni che si possono individuare tra Casanova e Don Giovanni, con una maggiore attenzione a quest‟ultimo, indubbiamente uno dei miti moderni per eccellenza. Siamo a Praga. È il 29 ottobre 1787. Va in scena il Don Giovanni di Mozart, riscuotendo un enorme successo. La prima rappresentazione di Praga si sarebbe dovuta allestire alcuni giorni prima, nell‟ambito dei festeggiamenti tributati all‟arciduchessa Maria Teresa, nipote di Giuseppe ii, e il principe Antonio di Sassonia, novelli sposi in viaggio di nozze ed in visita a Praga. Come ci ricorda Giovanni Macchia, le grandi dame della società praghese riuscirono a convincere il governo a non mandare in scena il Don Giovanni, poco idoneo alla visione di due sposi regali. Venne addotta la scusa che gli allestimenti non erano ancora pronti, quando, invece, il motivo 60 60 era un altro: “se i due spettatori imperiali avessero capito di quel “dramma giocoso” quel che c‟era da capire, lanciandosi l‟un l‟altro occhiatacce di disgusto, avrebbero dovuto abbandonare la sala prima della fine dello spettacolo” (G. Macchia, 1989: p. 147). Così, andarono in scena Le nozze di Figaro e il Don Giovanni venne rinviato al 29 ottobre. In quel giorno, però, la mancanza, nei lussuosi palchi, dell‟arciduchessa e del principe non si fece sentire più di tanto. Al loro posto vi era un personaggio che da sé, grazie alla sua sola presenza, assegnava alla rappresentazione un tocco di scandalo e di modernità. “Il Don Giovanni che si agitava sulla scena aveva nel pubblico un suo “doppio” in carne ed ossa” (Ivi, p.148): Giacomo Casanova. Mozart aveva trentun anni, mentre Casanova ne aveva sessantadue. Le vicende alle quali il veneziano assiste rappresentano, per lui, un salto indietro nel tempo, un ritorno a quel che aveva animato la sua vita e il suo passato, pur nella diversa, più oscura e più drammatica trama creata dal genio mozartiano. Probabilmente la visione del Don Giovanni ha accentuato in Casanova, per un verso, la volontà di scrivere la storia della propria vita, per altro verso, il già forte bisogno di differenziarsi dagli avventurieri e impostori che affollavano il Settecento. Casanova si sentiva diverso. Si sentiva un pensatore che non dilapidava la propria esistenza rincorrendo in modo estenuante ed ossessivo il piacere, senza preoccuparsi di lasciare tracce di sé. Icosameron e Histoire de ma vie. In questi titoli era, invece, riposto l‟obiettivo di Casanova: dare forma letteraria (quindi, potenzialmente eterna) alla propria vita. Non si trattava di rendere immortale la vita di un libertino, ma quella di un libertino-pensatore, lontano da quel tono demoniaco, infernale e criminale che caratterizzava, ad esempio, Don Giovanni (Ivi, p.150). Per quanto riguarda queste due figure, quindi, ci sono almeno tre elementi che stabiliscono immediatamente delle differenze e che fanno del primo un mito e del secondo un “quasi-mito”(J. Rousset trad. it 1980 : p.14). Il primo elemento è il fatto che mentre Don Giovanni è un personaggio di finzione, Giacomo Casanova, come abbiamo già detto, è realmente esistito. Prima di diventare un personaggio letterario e cinematografico è stato un uomo in carne ed ossa, le cui gesta hanno attraversato i secoli grazie alla loro “versione cartacea”: Histoire de ma vie. Il secondo elemento è l‟assenza di quel repertorio di “invarianti” che collegano le vicende di Casanova ad un fondo mitico. Quel che lo rende, invece, un quasi-mito è il fatto che così come Don Giovanni si è presto staccato dalla figura originaria del burlador e, quindi, dal suo primo autore, Casanova, dopo la sua morte, è passato di opera in opera, di autore in autore, come se non appartenesse più a se stesso, ma a tutti e a nessuno, riconoscendo, dunque, in questo quell‟anonimato (per quanto anomalo) proprio del mito, “legato al suo 61 61 durevole potere sulla coscienza collettiva che si accompagna ad un‟attitudine a nascere e rinascere trasformandosi continuamente” (Ivi, p.6). Il terzo importante elemento di differenziazione è costituito dalla totale incultura di Don Giovanni. Mentre quest‟ultimo probabilmente non aveva al suo attivo neppure la lettura di un libro, Casanova si era occupato e aveva scritto di un po‟ di tutto, di filosofia e di teatro, di cabala e di poesia, di epica e di magia. Tant‟è che Casanova non si trovava a Praga per diletto o per piacere, ma per individuare possibili sottoscrittori per l‟edizione del suo Icosameron. La rappresentazione del 29 ottobre conferma Casanova nel suo intento di procedere nella narrazione della sua storia, anzi, delle sue innumerevoli storie, bandendo sensi di colpa e remore. Egli voleva tirare fuori una confessione, la quale non poteva che prendere la forma dello scandalo, dell‟opera cinica e proibita, che sarebbe circolata in mezza Europa, costituendo una sfida lanciata al diffuso moralismo e alla storia, un‟opera i cui ingredienti sarebbero stati il vitalismo, la gioia, la ricerca del piacere e della felicità, senza alcuna tragedia. Procedendo in maniera più sintetica, un elemento che accomuna le storie dei due seduttori è l‟ovvia presenza di un gruppo femminile, sebbene, nel caso di Casanova, si tratti di un gruppo più indefinito e variegato, che spazia sì tra donne di ceto sociale diverso, perfino tra donne con notevoli differenze di età, ma che manca di quella sorta di simmetria tra i personaggi femminili che, ovviamente, è possibile ritrovare nella finzione letteraria. Li separa nuovamente l‟assenza dell‟oltraggio dovuto all‟affronto lanciato al Morto, poiché non vi è alcuna presenza di morti nella storia di Casanova. Ciò che li accomuna è, senza dubbio, lo sfondo storico e culturale all‟interno del quale questi personaggi si muovono, sfondo che ci riporta immediatamente al secondo elemento di cui parlavo in apertura, vale a dire all‟ambiguo carattere dell‟illuminismo europeo. Nell‟appendice alla sua Breviario di estetica, Benedetto Croce affronta il rapporto tra spirito e senso nel Settecento, secolo che vede la nascita dell‟estetica come disciplina, per dirla con il filosofo, “moderna e mondana”. Tale rapporto, nel Settecento, è improntato sulla reciproca influenza dei due elementi: lo spirito si sensualizza ed il senso si spiritualizza. Una stessa varietas, ma sempre all‟interno dell‟unitas, proprio a proposito di quanto si sta dicendo, emerge dalla lettura kierkegaardiana del Don Giovanni di Mozart. Il filosofo danese mostra come l‟ambivalenza della natura umana, ben nota ai classici nella forma del „doppio‟ apollineo-dionisiaco, diventi col cristianesimo una vera e propria antitesi, e come la sensualità acquisti tutto il suo rilievo e addirittura diventando “un principio”, ossia “una forza, una potenza” del mondo, propriamente “l‟erotico”, come scrive Kierkegaard in 62 62 Enten-Eller, solo nel momento in cui si trasforma nel demoniaco, nel peccaminoso contro lo „spirituale‟. La letteratura sull‟argomento è evidentemente troppo vasta. Ma, rimanendo nell‟alveo di una lettura del personaggio felliniano, ricorrerò ora all‟analisi di alcuni elementi tipici della riflessione estetica e di certi suoi sviluppi storici, in particolare al pensiero di Søren Kierkegaard, che ha assegnato filosoficamente all‟“estetico” la dignità e la legittimità di un atteggiamento esistenziale, proprio per come accade con i grandi seduttori e libertini. Occorre giusto ricordare, avendo posto l‟accostamento, che Giovanni Macchia, relativamente alle categorie del dongiovannismo e del libertinismo, propone una distinzione. La corrente libertina, scrive Macchia, ha le sue origini nel Rinascimento italiano e grazie ad esso trova diffusione e nuovo sviluppo in Europa: “spiriti forti, liberi pensatori, francamente atei, intelligenze sottili, che affermano l‟indipendenza e l‟autonomia della ragione, e hanno in sospetto il sentimento, come base della falsa fede, delle superstizioni e delle credenze” (G. Macchia, 1991: p. 59).. Questa libertà, primariamente di pensiero, in un secondo momento assume i connotati della libertà erotica e sessuale, cosicché il libertinismo risulterà in qualche modo corrotto dal dongiovannismo. Pertanto, discutere di seduttori e libertini, di Don Giovanni e Casanova, significa muoversi in bilico tra libertinismo e dongiovannismo, tra libertà di pensiero e libertà sessuale, tra intellettualismo ed eros (finanche patologico). Per quanto riguarda il ruolo ed il peso dell‟“estetico” nell‟orizzonte di Kierkegaard, Theodor W. Adorno ha sostenuto: “la sintesi dei significati […] può riuscire alla costruzione solo quando se ne siano resi chiari e nitidi gli elementi”. Adorno rileva la possibilità di individuare tre significati dell‟estetico in Kierkegaard, che, pur nella loro interconnessione, offrono un quadro più articolato del problema. Secondo un primo significato, “estetico” indicherebbe “il campo delle opere d‟arte e della riflessione teorica sull‟arte”, per come questa si presenta, ad esempio, nel primo volume di Aut-Aut. Il secondo significato rinvia invece all‟estetico come atteggiamento, quindi ad una “sfera”, quella estetica, capace di orientare i comportamenti senza dover fare ricorso a principi etici. Questo secondo uso della parola “viene definito esplicitamente già in Aut-aut: “l‟estetica nell‟uomo è quello per cui egli spontaneamente è quello che è; l‟etica è quello per cui diventa quello che diventa. Chi vive tutto immerso, penetrato nell‟estetico, vive esteticamente”“. Il terzo significato, per concludere, è il meno frequentato da Kierkegaard, tanto che lo si ritrova soltanto nella Postilla conclusiva non scientifica. In questo luogo, “l‟estetico è riferito alla forma della comunicazione soggettiva, [in quanto] “il pensatore soggettivo deve subito rivolgere la sua attenzione al fatto che la forma dovrà avere artisticamente altrettanta riflessione quanta 63 63 egli stesso, esistendo, ne ha nel suo pensiero” (Th.W. Adorno, trad. it. 1983: pp. 47-51). Di questi tre significati di “estetico”, quello a cui è stata riservata maggiore attenzione da parte della letteratura critica è senz‟altro il secondo, non soltanto perché costituisce, come già rilevava Adorno, il significato centrale nell‟opera del pensatore danese, ma perché utilizza in maniera originale il termine “estetico” per individuare un atteggiamento esistenziale, inteso come ciò per cui chi vive “è immediatamente ciò che è”3. Questa sorta di primato dell‟estetico è quanto Adorno rinviene nell‟ambito della teoria delle tre sfere (estetica, etica e religiosa). La prima, lungi dal costituire una forma di esistenza meno vincolante e puramente esteriore, viene rivalutata dall‟analisi adorniana e rilanciata come la sfera entro cui, più delle altre, la 4 verità riesce a mostrarsi . Kierkegaard rende quindi problematico il rapporto tra estetica ed etica, giacché la seduzione sensuale, per il filosofo, massimamente espressa da Don Giovanni, si presenta come la possibilità di sottrarre l‟estetica sia al rigore deterministico del pensiero sia alla giurisdizione dell‟etica, al fine di offrirle, in tal modo, una legittimità ed una dignità nuove. Quella di Kierkegaard è un‟interpretazione pregnante e filosoficamente densa della figura del Don Giovanni mozartiano, che ha contribuito, in parte, a rafforzare l‟idea di un fondo filosofico nel mito di Don Giovanni e, in parte, a rimarcare la complessità del rapporto tra razionalità e sensibilità, tra etica ed estetica. Si è trattato, però, di un tentativo isolato, rispetto alle innumerevoli analisi del mito dongiovannesco, condotte negli ambiti musicologico, letterario, psicologico o antropologico. A questo proposito, Umberto Curi ha creduto opportuno rilanciare l‟approccio filosofico adombrato soprattutto nel saggio kierkegaardiano, proponendo, in Filosofia del Don Giovanni, un‟analisi filosoficamente orientata a richiamare 3 È una definizione contenuta ne L’equilibrio tra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità (Enten-Eller. Un frammento di vita, seconda parte, a cura di A. Cortese, 5 tomi, Adelphi, Milano 1976-89, tomo V, p. 46). 4 Resta una questione aperta, rileva Paolo Pellegrino, se la critica di Adorno alla “logica delle sfere” renda giustizia ai problemi interpretativi della filosofia di Kierkegaard, il quale distingue tre forme di esistenza o modi di vita, che Adorno chiama sfere. Lo stadio estetico è caratterizzato da un orientamento verso il piacere, alla ricerca della pura gioia dei sensi. Alla forma di esistenza etica corrisponde il comportamento orientato verso la responsabilità. Tale stadio si trova in un rapporto di negazione rispetto a quello estetico. Il modo di essere religioso presuppone un Sé che si relaziona a se stesso in rapporto a Dio. Questo stadio è, a sua volta, la negazione degli altri due. Per raggiungere lo stadio religioso occorre un “salto esistenziale” (cfr. P. PELLEGRINO, Estetica e comunicazione nel panorama teorico del Novecento, Congedo Editore, Galatina 2008, p. 92). 64 64 l‟attenzione sull‟eccessiva presenza, nell‟amplissima bibliografia dongiovannesca, di interpretazioni del mito strutturate ricorrendo in maniera quasi esclusiva all‟elemento seduttivo, erotico e sensuale. Secondo Curi, infatti, una rilettura filosofica delle tre versioni “classiche” del mito di Don Giovanni (vale a dire, quelle di Tirso, di Molière e di Mozart) fa emergere il fatto che in questi testi “è totalmente introvabile l‟immagine convenzionale di Don Giovanni come impenitente seduttore o come insaziabile consumatore di relazioni sessuali, mentre emergono con grande forza altri aspetti della personalità dell‟eroe, e dell‟intera vicenda, irriducibili allo stereotipo del collezionismo erotico, e provvisti invece di una specifica pregnanza filosofica, 5 abitualmente del tutto trascurata nelle interpretazioni correnti del mito” . Questo nuovo ed originale approccio, che privilegia l‟individuazione di tematiche filosoficamente e teologicamente rilevanti nel mito di Don Giovanni, riconducendo ad esse la grandezza, la fama ed il successo del mito, non risolve le vicende dongiovannesche in banali e insulse storielle, ma le inserisce all‟interno di un percorso interpretativo che lascia emergere nel mito di Don Giovanni alcune fra le questioni filosofiche e teologiche più controverse dell‟età moderna: dal rapporto fra tempo ed eternità al problema della Grazia e dell‟insufficienza della fede nel processo di salvazione, dal tema dell‟essenza bellica dell‟amore a quello della relazione fra identità e alterità per come si configura tra Don Giovanni e il suo servo, fino al tema della morte e della giustizia divina. La complessità del mito è evidente e riflette la complessità di un intero secolo, il Settecento, nel quale, accanto al trionfo della ragione, dell‟Aufklärung (rischiaramento), si fa egualmente largo l‟oscurità e l‟ambiguità della sensazione. In questo quadro, anche Giacomo Casanova, come uomo e come personaggio, non può che essere considerato espressione di una tale generale complessità, nelle cui articolazioni non si trova solo la tendenza a sfuggire dalle maglie della tradizione e della magia, ad uscire dallo stato di minorità, per dirla con Kant, ma vi è anche una tendenza opposta, orientata verso la penetrazione delle zone oscure del soggetto, verso la passione, verso il sublime, verso l‟ambiguo, verso l‟orrido. Il pensiero di Casanova è il pensiero del Settecento, vale a dire un “pensiero errante”, esaltazione della dimensione del viaggio, che non ha solo una valenza antropologica ma anche, e soprattutto, artistica e letteraria. Il viaggio si pone come la prima esperienza del limite: non solo e non tanto limite geografico quanto e soprattutto limite sociale e culturale. 5 U. CURI, Filosofia del Don Giovanni. Alle origini di un mito moderno, Mondadori, Milano 2002, p. 8. 65 65 Giacomo Casanova contraddice, com‟è proprio della cultura settecentesca, l‟ideale classico e razionalista del piacere come staticità e contemplazione, affermando, invece, il piacere come viaggio, come dinamismo accompagnato dall‟inquietudine. Da queste posizioni si arriva facilmente al loro rovesciamento, con ipotesi filosofiche che vedono il trionfo dell‟eccedente, dell‟eccesso e dello sregolato. Nel Settecento si afferma l‟idea che le passioni e il piacere sensuale abbiano pieno diritto di cittadinanza nella vita umana. Tutto il secolo è percorso dalla letteratura licenziosa, gotica, immorale; esso oscilla pericolosamente tra moralismo e immoralismo, tra razionalità e sensualità, tra ricerca del limite e superamento di tale limite. È il secolo di opere come Filosofia nel boudoir (Sade, 1795), Relazioni pericolose (De Laclos, 1782), I gioielli indiscreti (Diderot, 1747), ma anche di romanzi gotici come il celeberrimo Il castello di Otranto (Walpole, 1764) o il famosissimo Il monaco (Lewis, 1796). Il Settecento, dunque, non è il secolo che tende sempre e soltanto alla ragione, non è il secolo idilliaco come spesso si tende a sottolineare. Nico Orengo, nella prefazione all‟edizione Bompiani de Il monaco, parla del Settecento in questi termini: “è un secolo dai nervi fragili, femminile, sensibile alle vertigini del vuoto, della noia. Fra eleganze e galanterie, il fascino ci va soggetto non è tanto della “solarità”, quanto del suo contrario. Non è la luce del giorno ad attrarlo, quanto il grande universo del notturno e i suoi teatri: foreste, rovine, cimiteri e grotte sotterranee […]. Ma al di là del perimetro rassicurante che la ragione ha tracciato ci sono i fantasmi del primitivo, del barbarico, del proibito”. La negatività acquisisce un nuovo potere e si cercano nuovi limiti, di volta in volta valicabili, sui quali costruire i propri spazi di piacere. Il marchese De Sade e Casanova forse mostrano, al limite estremo, che il secolo della ragione vive una realtà più profonda e segreta: “è lanciato, a gradi diversi e in forme diverse, nella ricerca di un limite inaccessibile”( J. Chouillet, 1974: p. 128), muovendosi sul crinale tra la ragione e la passione. Limite, piacere, profondità insondabili, sublime, terrore, tutte tematiche che confluiranno nell‟elaborazione di Edmund Burke, preludio alla 6 baumgarteniana Aesthetica del 1750 . Se queste, a grandissime linee, sono le direttrici del Settecento e questo è lo sfondo culturale sul quale si muovono i grandi seduttori, ciò che ancora accomuna Don Giovanni e Giacomo Casanova e che li rende caratteristici è anche la molteplicità di giudizi che si possono esprimere rispetto alle loro vicende. Come non c‟è in Don Giovanni e in Casanova solo 6 Cfr. E. BURKE, Inchiesta sul bello e il sublime, a cura di G. Sertoli e G. Miglietta, Aesthetica edizioni, Palermo 1985; A.G. BAUMGARTEN, Riflessioni sulla poesia, a cura di P. Pimpinella e S. Tedesco, Aesthetica Edizioni, Palermo 1999; ID., L’Estetica, trad. it. di F. Caparrotta, A. Li Vigni e S. Tedesco, Aesthetica Edizioni, Palermo 2000. 66 66 il seduttore e il voluttuoso, ma anche il trasgressore, colui che, peccatore o delinquente, si mette insolentemente in rotta di collisione e al di fuori delle regole e delle norme. Di questo Don Giovanni “deviante”, ad esempio, il romanticismo ne ha fatto un fuorilegge, un glorioso ribelle di cui la sua mitologia aveva bisogno; la nostra epoca, invece, ha privilegiato in Don Giovanni, nella stessa misura, “sia il rappresentante marginale di una classe di cui rifiuta i valori, sia l‟oppositore, l‟uomo che rifiuta una società in cui non trova più posto”( J. Rousset, trad. It. 1980: p. 138). Come per Don Giovanni, chiunque si sia accostato all‟opera di Casanova non ha potuto fare a meno di prendere posizione su di lui e di giudicarlo. C‟è quindi “chi l‟ha definito “meschino, litigioso e detestabile” 7 (Charles de Ligne nelle sue Oeuvres ); chi ha trovato in lui un uomo straordinario (Alfred de Musset); chi l‟ha giudicato “energico, briccone matricolato”, dalla sensualità tipicamente italiana e che promana dalle sue 8 pagine in maniera soffocante (Heinrich Heine nelle sue Briefe aus Berlin ); chi infine ha dubitato dell‟autenticità di ciò che il veneziano scrisse” (G. Ricchezza, 1966: p. 5). Casanova è moderno e mondano, è schietto e spigliato, è talvolta cinico, insolente, personaggio rocambolesco, ma è anche l‟antesignano degli arrampicatori sociali, nella sua costante tendenza a raggiungere una posizione sociale che non aveva per nascita. È “il prototipo del play-boy, cinico nello sfruttare le sue relazioni, deciso come pochi a vivere alle spalle degli altri, continuamente mosso da un‟irrequieta curiosità che lo porta dalla letteratura alla cabala, dalle matematiche alla massoneria, dagli studi umanistici ai giochi proibiti” (Ivi, p.6). Casanova è diverso da Don Giovanni così come lo è rispetto al marchese De Sade. Attivista instancabile e libero da ogni filosofia, il primo; ministro del culto, di terribile e lugubre serietà, non di rado attraversata da scosse di irresistibile humour, il secondo. Tale è la tensione dialettica che si crea tra i due personaggi nell‟universo erotico di Guillaume Apollinaire, che, nella sua straordinaria “mobilità”, è stato anche editore e scrittore di libri erotici. Apollinaire mi permette di specificare i caratteri di Casanova e a distinguere quest‟ultimo dagli altri seduttori. Don Giovanni non rientra negli interessi dello scrittore francese, per via del suo essere un eroe del calcolo e della strategia ragionata, per il fatto di essere una figura nella quale “l‟impulso irresistibile di godere, l‟esaltazione nella ripetizione e nel numero, venivano raggelati da un metodo, che provocava lutti e disastri” (G. Macchia 1989: p.169). 7 8 Cfr. CH.J. DE LIGNE, Oeuvres, Champion, Paris 2005. Cfr. H. HEINE, Briefe aus Berlin, Hoffmann und Campe, Hamburg 1973. 67 67 Apollinaire ama invece la pura avventura, pertanto si affeziona al “suo” Casanova, personaggio che gode della vita, che allontana da sé tragedia, tristezza e noia, preferendo ad esse la gaiezza, la tenerezza e l‟eternità dell‟attimo che fugge. Casanova, in definitiva, – come scrive Macchia – commetteva peccati e non delitti. Quanto detto finora caratterizza il Casanova della tradizione ed è ciò che emerge dalla lettura delle sue famose Memorie, soprattutto, dall‟alone di mito che ha circondato questa figura nel corso dei secoli. La sua trasposizione cinematografica, però, non intende affatto ripercorrere questo sentiero. Aver affiancato Casanova a Don Giovanni e aver delineato i caratteri ambigui del Settecento sono operazioni utili a far emergere l‟occhio critico con il quale Fellini osserva ed analizza il personaggio. Nella sua particolarissima e celebrata rivisitazione della storia del veneziano, Federico Fellini ha inteso tratteggiare il profilo di un Casanova estraneo al libro delle sue memorie, così come anche al Settecento e alla sua cultura, liberandosi da qualsiasi preoccupazione di fedeltà alla storia o alla tradizione. 2. Il film 9 Il film , della durata di 148 minuti e interamente realizzato negli studi di Cinecittà, frutto di tre anni di lavoro, di liti e di polemiche, si apre con un‟inquadratura in campo lungo nella quale compaiono molte figure, in gran parte mascherate, che partecipano ad una funerea edizione della famosa cerimonia del ringraziamento al mare, nei pressi del Ponte di Rialto. Tra di esse, in abiti bianchi, si staglia un personaggio, anch‟esso mascherato. È Giacomo Casanova, impegnato a leggere una lettera nella quale lo si invita a 9 Dal punto di vista della storia cinematografica del personaggio Giacomo Casanova, ricordiamo che la pellicola felliniana segue a: Casanova (1918) di Alfréd Deésy; Das Herz des Casanova (Germania, 1918) di Erik Lund; Casanovas erste und letzte Liebe (Austria, 1920) di Julius Szoreghi; Casanova (1927) di Alexandre Volkoff; Les amours de Casanova (Francia, 1934) di René Barberis, L’avventura di Giacomo Casanova (1938) di Carlo Bassoli; Les Aventures de Casanova (Francia, 1947) di Jean Boyer; Il cavaliere misterioso (1948) di Riccardo Freda; Le avventure di Giacomo Casanova (film del 1954, per il quale l‟allora sottosegretario allo spettacolo Oscar [“mani di forbice”] Luigi Scalfaro impose 22 tagli alla sceneggiatura e 28 alla pellicola) di Steno, alias Stefano Vanzina; Infanzia, vocazione, prime esperienze di Giacomo Casanova, veneziano (1969), di Luigi Comencini. Dopo il film di Fellini, appariranno: Casanova & Company (Austria/Italia/Francia/Rft 1976) di Franz Antel; Il mondo nuovo (1982) di Ettore Scola; Le retour de Casanova (Francia, 1992) di Edouard Niermans; Goodbye Casanova (Stati Uniti, 2000) di Mauro Borrelli; Il giovane Casanova (Francia, Italia, Germania, 2002) di Giacomo Battiato; Casanova (Stati Uniti, 2005) di Lasse Hallström. 68 68 raggiungere la riva dell‟isolotto di San Bartolo, per incontrare la monaca Maddalena, con la quale, di lì a poco, si apparterà, sotto lo sguardo incuriosito dell‟abate de Bernis, ambasciatore francese a Venezia, nascosto dietro un enigmatico dipinto. È il primo incontro amoroso di un Casanova ancora giovane e rampante, nella ricostruzione che ne fa lo stesso Casanova, divenuto ormai un vecchio e malandato bibliotecario nel castello di Dux, in Boemia, alla fine dei suoi giorni. Quello con la monaca non era che l‟ennesimo gesto sregolato, al termine del quale, tra sventolanti e vistose onde lagunari 10 rigorosamente di plastica , Casanova viene arrestato e condannato, dal tribunale della Santa Inquisizione, ad essere rinchiuso nei Piombi, dai quali, però, fuggirà presto. È l‟inizio delle avventure di Giacomo, avventure che si snodano tra amori e incontri, attraverso mezza Europa, da Venezia a Parigi, da Londra a Parma, da Forlì alla Germania, da Roma alla Boemia. Giacomo Casanova è pensato da Federico Fellini come una specie di ombra, la sua, la nostra, quella di ogni italiano, “un‟immagine fastidiosa, con la quale sarebbe giusto fare i conti, non puoi tagliarla fuori, perché devi trovare il modo di conviverci”(G. Angelucci, L. Betti 1977: p.21). Casanova è un attore nato, è un bambinone e un play-boy di provincia, ma che riesce a raggiungere tutte le cose sognate. Nelle sue Memorie, a riequilibrare il senso di noia che può provocare la lettura dell‟estenuante elenco di personaggi, luoghi e donne, c‟è la curiosità di leggere, dietro quel catalogo, la volontà di apparire, di sembrare, non tanto un seduttore, quanto un uomo di cultura, un letterato del quale si parlerà nei tempi avvenire. In una delle ultime scene del film, lamentandosi dell‟insopportabile comportamento canzonatorio e irrispettoso che alcuni uomini della corte del conte di Waldenstein assumono nei suoi riguardi, in particolare il suo ritratto affisso sulle pareti del “luogo di decenza” con materia fecale, Casanova dice: Osservate pure è un ritratto molto somigliante. [Dopo queste parole, Casanova, in silenzio e sospirando, si sofferma ad osservare quel disegno che lo ritrae da giovane, con nostalgia e tristezza, quasi con amore]. Fu stampato come illustrazione del mio famoso romanzo Icosameron. Lo avete letto per caso? Mi permetterò di offrirvene una copia. Io credo che dopo la mia morte si parlerà di me per moltissimi 10 Fabrizio Borin, a questo proposito, rileva come il fatto “che Fellini visualizzi una Venezia sempre sulla scena e per di più pietrificata, “plastificata”, è qualcosa che può apparire un modo inedito di concepire le sue ideazioni scenografiche, solo a chi, molto distrattamente, non tenesse conto che la finzione plastificata, la ricostruzione in studio di porzioni di spazio, ovvero dell‟esibizione intenzionale del falso in quanto più ricco e fantasticamente più vero del vero, è una delle cifre caratterizzanti la sua opera complessiva” (F. BORIN, op. cit., p. 52). 69 69 anni avvenire, come autore di quell‟opera. Sono un celebre scrittore italiano. Conoscerete il mio nome, certamente. Giacomo Casanova, da Venezia, letterato, filosofo Questa sequenza lascia emergere in modo chiaro la triste fine che gli è toccata in sorte. Sbeffeggiato, deriso, sottovalutato e dimenticato. È l‟esito finale di quello che Fellini ha definito un “esistenzialismo di superficie, totale”, destinato a consumarsi nel dramma finale di un uomo che, con la virilità e la giovinezza, ha perso, in definitiva, la propria identità. La pellicola felliniana è particolarmente complessa, ricca di elementi fantastici, attraversata da personaggi improbabili e costellata di oggetti onirici. Si potrebbe forse ipotizzare una, seppure vaga, influenza di Alejandro Jodorowsky sull‟immaginario di Fellini? Nel 1973 era uscita la pellicola The Holy Mountain, forse l‟opera principale del regista ebreo-ucraino, summa della tensione estrema, enigmatica, onirica e magica propria dell‟universo fantastico di Jodorowsky. Un analogo orizzonte sembra caratterizzare il proscenio sul quale si muove il Casanova di Fellini, un proscenio fatto di lampi surreali, di paesaggi inafferrabili e di personaggi enigmatici, a cominciare dalla prima amante che compare: una maliziosa e simpatica monaca. Questo primo incontro amoroso fa emergere i caratteri distintivi del personaggio: il legame, per quanto contraddittorio, con la religione cristiana (è nel corso delle messe domenicali presso il convento che la monaca si è 11 accorta del giovane Casanova ) e la perenne ed ininterrotta attrazione per le donne, attrazione che cresce con l‟aumentare dell‟anomalia e trasgressività dell‟incontro. Il primo e l‟ultimo incontro, infatti, costituiscono, per quel che riguarda la trasgressione, i due poli tra i quali Casanova si muove nel corso della sua vita. La prima e l‟ultima donna rappresentano i due limiti estremi che il seduttore, con profondo piacere, oltrepassa: Maddalena, la monaca, e Rosalba, la donna meccanica. L‟incontro con la monaca, dal punto di vista formale e non narrativo, non costituisce però solo un momento di presentazione del personaggio o, a narrazione conclusa, uno dei due estremi tra i quali si muove Casanova. Rappresenta anche un episodio nel quale è facile individuare quel che via via 11 Il rapporto di Casanova con la Chiesa cattolica romana è anch‟esso molto ambiguo, così come il suo rapporto con le donne. Nel primo caso, infatti, si oscilla tra un‟evidente reiterata trasgressione delle più elementari norme di condotta e un‟altrettanto evidente tensione verso la spiritualità cristiana, incarnata però da un enigmatico e improbabile papa che ride sguaiato. Nel secondo caso, Casanova, mentre dimostra poeticamente una profonda adorazione e venerazione nei confronti della donne, al contempo ne mette in pratica il disprezzo, abbandonandosi ad un uso sfrenato e senza limiti del loro corpo. 70 70 emergerà in maniera sempre più vistosa, vale a dire un‟attenzione quasi maniacale all‟elemento espositivo, alla costruzione degli ambienti, alla minuziosa messa in scena non solo di persone ma anche di oggetti. Fellini si preoccupa infatti di caratterizzare in maniera forte tanto i personaggi quanto gli oggetti, dei quali si può individuare una forte carica simbolica, ora più esplicita, ora più nascosta. In una delle scene iniziali, si nota come sopra la maschera di Casanova ci sia un cappello rosso che, oltre a risaltare sul bianco delle vesti, è di forma triangolare, una forma geometrica che si ripresenta in diverse occasioni durante tutto il film: all‟angolo della camera nella quale Casanova incontra la monaca, sulle vesti della giovane Annamaria, come mobilio sotto forma di prisma in casa della marchesa d‟Urfé, come ciondolo (nella forma di una piramide) al collo della marchesa, come valigia. La ripetuta presenza del triangolo può significare due cose. Come triangolo allude, probabilmente, al sesso femminile (esplicitamente celebrato in una sequenza della scena nella balena); mentre, come prisma potrebbe fare riferimento all‟analogo simbolo massonico, la cui presenza si spiega facilmente con la nota adesione di Casanova alla Massoneria. Un altro oggetto che caratterizza specificamente il personaggio è una sorta di tabernacolo, sempre presente (tranne in occasione della sfida romana, tutta ginnica e, pertanto, al limite con il comico, tra Casanova e il cocchiere Richetto), nel quale Casanova conserva gelosamente e diligentemente un uccello metallico che, come fosse un carillon, viene azionato prima delle performance amorose del giovane veneziano, quasi a propiziare e favorire l‟ottima riuscita delle stesse. Il risultato artistico di questa scelta, contribuisce a tingere di ridicolo, se non di grottesco, tutte le imprese d‟amore che Casanova, nel corso dell‟intera storia, porterà a termine, accompagnate dalle “insinuanti musiche del maestro Nino Rota”( F. Borin, 2007: p.49). In effetti, il Casanova tradizionale viene del tutto reinventato da Fellini, il quale durante la conferenza stampa di annuncio dell‟inizio del film, tenuta il 6 giugno del 1975, così si esprimeva: Anziché nei panni vitalistici dell‟infaticabile conquistatore, io lo penso come un vecchio goffo, disfatto e disadattato, anche un po‟ burattinesco, come un italiano imprigionato per tutta la vita nella pancia di sua madre, da cui non ha mai saputo uscire. Chiuso nella sua umida placenta, il mio Casanova sarà un mitomane che non ha mai provato autentiche passioni, e che ora, giunto al tramonto, quasi rispondendo irritato alle domande di un molesto intervistatore, tenta di riscrivere con 71 71 l‟antica spavalderia le proprie memorie, con risultati macabri e disastrosi12 L‟intenzione fondamentale di Fellini era proprio quella di “sottoporre ad analisi le forme stereotipate dell‟immodificabile Mito dell‟Erotismo Maschile Italiano: un modello talmente nazionale da essersi trasformato in patrimonio umanistico internazionale”( Ivi, p.10). Ed ecco che Fellini procede dissacrando il personaggio, realizzando un‟operazione di straniamento, di capovolgimento del modello tradizionale, a cominciare dalla scelta dell‟attore protagonista, il “lunare” Sutherland, decisamente opposto rispetto alla tradizionale immagine di un Casanova italiano, dall‟occhio nero, magnetico, dalla pelle e dai capelli scuri13. La cifra artistica del film è tutta nella poetica che sottende ad esso, 14 una poetica fatta di vaghezza, di tenui onirismi , di fantasie sfocate, di situazioni e personaggi abnormi e assurdi, quasi carrolliani (si pensi alla bambina teologa Edwige o alla donna gigante Angelina). Si spiega così l‟esigenza principale di Fellini, vale a dire quella di poter seguire meticolosamente la ricostruzione scenografica delle vicende, 12 Ivi, p. 32. Una analoga operazione demolitoria dell‟uomo e del personaggio Casanova era stata compiuta, quindici anni prima dell‟uscita del film di Fellini, da Robert Abirached, nel suo saggio Casanova, ou la dissipation, Grasset, Paris 1961; trad. it. Casanova, o la dissipazione, introd. di L. Sciascia, Sellerio, Palermo 1977. 13 Casanova è interpretato magistralmente da Donald Sutherland, “attore dalla faccia cancellata, vaga, acquatica, che fa venire in mente Venezia. Con quegli occhi celestini da neonato, Sutherland esprime bene l‟idea di un Casanova incapace di conoscere il valore delle cose e che esiste soltanto nelle immagini di sé riflesse nelle varie circostanze” (G. ANGELUCCI, L. BETTI [a cura di], Il Casanova di Federico Fellini, Cappelli Editore, Bologna 1977, p. 32). Vale la pena ricordare che il produttore iniziale del film, Dino De Laurentiis, sostituito poi da Alberto Grimaldi, spingeva, contro la volontà di Fellini, affinché il protagonista fosse interpretato da Robert Redford. Il passaggio da Redford a Sutherland è stato comunque caratterizzato dal vaglio di altre ipotesi, come Michael Caine, Gian Maria Volontè, Alberto Sordi e altri attori. Le vicende legate alla lavorazione del film sono ripercorse, attraverso il riferimento ad articoli usciti in quel periodo, nelle pagine del volume Il Casanova di Federico Fellini. Per un‟accurata ricostruzione di queste vicende, cfr. altresì F. BORIN, “Avventure e disavventure produttive”, in ID., op. cit., pp. 23-48. 14 Il tema del sogno è senz‟altro uno degli elementi caratterizzanti l‟opera. A questo riguardo, Gian Luigi Rondi ha scritto che si tratta di “un sogno. Che si conclude con un sogno nel sogno. Un sogno sul sesso che, in realtà, è un sogno sulla morte. È dunque un incubo. L‟Inferno. Messo in scena nel Settecento, ma “letto” oggi, quasi riepilogando i temi fondamentali felliniani (dalla Dolce vita a Otto e mezzo, al Satyricon a Roma, allo stesso Amarcord): la madre, la donna, l‟educazione religiosa, il circo. Riproposti ancora fra il gioco e la beffa, ma in chiave, ormai, di disperazione” (G. L. RONDI, op. cit.). 72 72 cosa che poteva accadere soltanto rimanendo all‟interno degli studi di Cinecittà. L‟immagine a cui pensava per Casanova era un tipo di immagine che andava controllata da vicino, realizzando le prospettive, i volumi, i colori e soprattutto la luce, secondo la sua fantasia e senza inconvenienti esterni. Da ciò scaturisce un film fortemente “teatrale”, nel quale gioca un ruolo fondamentale tanto la precisione nella ricostruzione degli ambienti quanto la meticolosità nella realizzazione dei costumi di Danilo Donati, per i quali Il 15 Casanova ha ottenuto l‟oscar nel 1976 . Ma l‟attitudine “teatrale” si può comprendere fino in fondo se la si affianca a quella “pittorica”, alla quale esplicitamente Fellini fa riferimento. Con Il Casanova, il regista riminese cerca di pervenire all‟essenza ultima del cinema, al “film totale”, di riuscire, cioè, a fare della pellicola un quadro: “Se uno si mette davanti a un quadro, può averne una fruizione completa e ininterrotta. Se si mette davanti a un film, no. Nel quadro sta dentro tutto, basta guardarlo per scoprirlo. Il film è un quadro incompleto; non è lo spettatore che guarda, è il film che si fa guardare dallo spettatore, secondo tempi e ritmi estranei e imposti a chi lo contempla. L‟ideale sarebbe fare un film con una sola immagine, eternamente fissa e continuamente ricca di movimento. In „Casanova‟ avrei voluto veramente arrivarci molto vicino: un intero film fatto di quadri fissi”( G. Angelucci, L. Betti, 1977 : p. 73). Tutto il film cresce attorno all‟idea della fissità racchiusa nel ricordo del vecchio Casanova, attorno al quale non succede nulla, se non ciò che i suoi occhi vedono e la sua mente crea. In fondo, il Casanova di Fellini è un immaturo, una figura che vive del (e nel) proprio autocompiacimento e del successo con le donne, malcelando l‟insoddisfazione per non essere riconosciuto come un grande scrittore e letterato. Non si può dire che sia quindi un uomo forte, a dispetto di quanto si propone di dimostrare, attraverso le sue esibizioni atletiche e meccaniche, quanto invece un uomo debole, quasi patetico, che pensa al suicidio non appena viene meno la corrispondenza tra sensi e desideri. Dove lo portavano, in definitiva, i viaggi attraverso i corpi delle donne? Come gli 15 Il film otterrà poi, l‟anno seguente, il David di Donatello per la migliore musica, composta da Nino Rota. La componente musicale va tenuta poi in forte considerazione rispetto alla resa finale. Borin, a questo proposito, rileva ripetutamente la determinante significatività delle composizioni di Rota in Fellini: “l‟episodio del circo londinese non avrebbe il forte fascino che emana senza l‟incantesimo – anche visivo – della musica. Allo stesso modo, gli eventi che vedono protagonista Casanova con la bambola meccanica, non avrebbero senso, o lo avrebbero in maniera diversa, senza i delicati, infantili carillon, sostegno e ispirazione della presenza dell‟automa nelle ultime azioni casanoviane” (F. BORIN, op. cit., pp. 170-71). Su questo tema, cfr. S. PERUGINI, Nino Rota e le musiche per il Casanova di Federico Fellini, Sabinae, Rieti 2009. 73 73 dice l‟ubriaco e drogato Egard, che giace stravaccato su una panca della taverna, mentre Casanova cerca l‟enorme donna la cui visione lo aveva distolto dalle intenzioni suicide: in nessun luogo. “Casanova finisce per diventare un Superman ed è guardato con gli occhi freddi di chi capisce che dietro l‟esibizione della sua millanteria c‟è l‟alienazione tragicomica di chi è sempre vissuto in modo inautentico”( E. Bispuri, 2003: p. 142) Il personaggio tratteggiato da Fellini non va letto solo in chiave fantastica, ma anche in chiave metaforica. La sua attualità sta in un atteggiamento esistenziale che l‟uomo contemporaneo manifesta e che si presenta nella forma di “un occhio vitreo che si lascia scorrere sulla realtà senza interpretarla né con un sentimento né con un giudizio. È la „non vita‟, con il suo fascino d‟acquario, uno smemoramento da profondità marina” ”( G. Angelucci, L. Betti, 1977: p. 34). Casanova vive dei propri piaceri, non avendo però coscienza della profonda rigidità che lo caratterizza e che lo imprigiona. Come il suo uccello e come la sua ultima conquista, Casanova è meccanico: lo è nei sentimenti, anche quando crede e dichiara di aver trovato l‟amore, così come lo è nei gesti. Questa mancata coscienza non è però totale. È possibile intuire, in alcuni momenti, la sofferenza del personaggio, che, almeno in due occasioni, con Enrichetta e, soprattutto, con Isabella, spera di potersi redimere, di condurre una vita diversa, serena, nella quiete del suo studio, rinunciando alla inutile e noiosa libertà, per essere amorevolmente guidato, per sempre, da una sola donna. L‟incoerenza e l‟immaturità del personaggio riemergono però di lì a poco, in tutta la loro potenza, esplodendo in un caotico, bizzarro, ridicolo e quasi orrido incontro a cinque. Casanova percorre sempre ed inevitabilmente la medesima strada, cade sempre negli stessi errori, oscillando tra piacere e dolore, tra godimento e sofferenza, tra amore e morte, non potendo egli parlar d‟amore senza ricorrere ad immagini funebri. La sintesi cinematografica di Fellini, autentico capolavoro, ci restituisce l‟immagine sbiadita e goffa di un seduttore in declino, di una figura che tende a recitare, più o meno consapevolmente, la parte del seduttore fascinoso e incantatore, dell‟uomo che attrae le attenzioni materiali delle donne ed intellettuali degli uomini. Non è invece che un prodotto artificiale, ieri del mito mediterraneo e oggi del cinema, come ha scritto Rondi, sempre in bilico tra un gioioso irriverente sorriso e un più profondo luttuoso dolore, segno inconfondibile della tragicità di fondo del personaggio, la tragicità di un “burattino che guarda il mondo con occhi di pietra”(Ivi, p. 73). 74 74 Riferimenti bibliografici ABIRACHED R., Casanova, ou la dissipation, Grasset, Paris 1961; trad. it. Casanova, o la dissipazione, introd. di L. Sciascia, Sellerio, Palermo 1977. ADORNO TH.W., Kierkegaard. La costruzione dell’estetico (1933), trad. it. di A. Burger Cori, Longanesi, Milano 1983 (i ediz. 1962). 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W ILLIS D., JOHNSON A., Two Views on Fellini’s Casanova, in “Film Quarterly”, vol. 30, no. 4, Special Book Issue (summer 1977), pp. 24-31 76 76 Abstract The author elaborates a very personal “metaphisics”, which retracing some of the principal “topoi” of the western thoughts points, in the last resort, to a rehabilitation of “light”, meant as a place of ultimate meeting between thought and being. It is inevitable the reference to Heideger, of which the author borrows the question on the sense of being, but declining it in a very different direction and with other intentions. The voluntary absence of any exegetical attention leaves place to a speculative fit which combines two antithetical philosophical perspectives. Parmenides on the one side and phenomenology on the other one. Starting from these fundamental coordinates, we observe an outline of what could be defined as a “phenomenological establishment of Parmenides‟ ontology”, the need of being and the consequent impossibility of not being are phenomenologically translated in the desire of totality. More precisely, the incompleteness of every experience and, more generally, the mortality of human nature remand to the feeling of a complete totality, to a willingness of eternity which requires, as a consequence, a definitive conciliation of opposites. The sense of being , in this way, coincides with the sense of life ad as a topic of enquiry particular experiences of consciousness are proposed,- as love, crying, laughing, memory – in which the author glimpses the key for a conclusive mechanisms of resolution. L'auteur élabore une "métaphysique" très personnelle qui, en re-parcourant certains des principaux topoi de la pensée occidentale, vise une réhabilitation de la "lumière" entendue comme le lieu d'une rencontre définitive entre la pensée et l'être. La référence à Heidegger est, par là-même, inévitable, Heidegger à qui l'auteur emprunte la question sur le sens de l'être pour l'orienter ensuite, toutefois, vers des horizons différents et dans des intentions tout autres. L'absence volontaire de toute attention exégétique laisse place à un élan spéculatif qui conjugue, d'un seul geste, deux perspectives philosophiques antithétiques: Parménide d'un coté, et la phénoménologie de l'autre. A partir de ces coordonnées fondamentales, se dessine le brouillon de ce que l'on pourrait définir comme une "fondation phénoménologique de l'ontologie parménidienne": la nécessité de l'être et la conséquente impossibilité du non-être se traduisent phénoménologiquement dans le désir de totalité. Plus précisément, l'inachèvement de chaque vécu et, d'une façon plus générale, la mortalité de la nature humaine renvoient au sens d'une totalité achevée, à une volonté d'éternel qui exige, en miroir, une conciliation définitive des extrêmes. Le sens de l'être en arrive, alors, à * Scrittore. Si è laureato in Ermeneutica filosofica. 77 NOTE IL SENSO DELL'ESSERE. APPUNTI FENOMENOLOGICI * di Graziano Scolari 77 coïncider avec le sens de la vie et les questions se posent au travers des vécus de conscience déterminés - l'amour, les larmes, le rire, la mémoire - dans lesquels l'auteur entrevoit la clé d'un mécanisme de résolution définitif. L'autore elabora una personalissima "metafisica", che ripercorrendo alcuni dei maggiori topoi del pensiero occidentale mira, in ultima istanza, a una riabilitazione della "luce", intesa come luogo di un incontro definitivo tra il pensiero e l'essere. Inevitabile il riferimento a Heidegger, di cui l'autore prende a prestito la domanda sul senso dell'essere per declinarla, però, in tutt'altra direzione e con tutt'altri intenti. La volontaria assenza di ogni attenzione esegetica lascia il posto a uno slancio speculativo che coniuga in un unico gesto due prospettive filosofiche antitetiche: Parmenide, per un verso, e la fenomenologia, per l'altro. A partire da queste coordinate fondamentali, assistiamo a un abbozzo di ciò che potrebbe definirsi come una "fondazione fenomenologica dell'ontologia parmenidea": la necessità dell'essere e la conseguente impossibilità del non-essere si traducono fenomenologicamente nel desiderio di totalità. Più precisamente, l'incompiutezza di ogni vissuto e, più in generale, la mortalità della natura umana rinviano al senso di una totalità compiuta, ad una volontà di eterno che esige, per riflesso, una definitiva conciliazione degli opposti. Il senso dell'essere viene, allora, a coincidere con il senso della vita e a tema d'indagine si pongono determinati vissuti di coscienza - quali l'amore, il pianto, il riso, la memoria - in cui l'autore intravede la chiave di un definitivo meccanismo di risoluzione. _____________________________ 78 La ricerca del senso dell‟essere – inteso come il senso onnicomprendente la totalità – è qualcosa di appartenente certamente ad un pensiero comune e non di completamente esclusivo dell‟orizzonte della riflessione filosofica, anche se di questa è caratteristica. È comunque da questa che prenderemo l‟avvio per questa ricerca. La domanda “quale è il senso dell'essere?”, anche se non sempre posta espressamente, è sempre situata sullo sfondo della storia del pensiero, e è stata posta nella filosofia contemporanea espressamente da Heidegger, sin da Essere e tempo. In questa sede non si è avuta in definitiva una risposta, e la questione è stata ripresa successivamente; nei seguenti Che cos'è la metafisica e Introduzione alla metafisica, più in particolare, si supera l'impostazione data alla questione in Essere e tempo: qui si ha che nella prima impostazione data alla questione il senso dell'essere era occultato, perché, come nella tradizione filosofico-metafisica, si poneva la questione sull'essere, si considerava l'essere, senza considerare il nulla; la questione 78 viene allora riproposta nella domanda “Perché vi è l'essente e non il nulla?” (M. Heidegger, trad. 1987: pp. 59-79; trad. 1968: pp. 13-43). Secondo Heidegger in questa domanda non si ricerca sull'essente (ovvero su queste cose che già sono), si ricerca perché l'essente è (ovvero sul perché queste cose, che sono, sono) e perché non ci sia piuttosto il nulla, la domanda mira dunque in ultimo all'essere – e dunque al senso, per cui questo essere, che è, è. Heidegger nella Introduzione alla metafisica pone in evidenza che, per trovare il fondamento dell'essere dell'essente (e dunque il senso dell‟essere), è necessario prima aver compreso l'essere stesso. E allora vien a porre, ancor prima della domanda “Perché vi è l'essente e non il nulla?”, la domanda preliminare “Che cosa ne è dell'essere?”, ma a questa domanda non trova risposta, in quanto, nell‟apertura storico-temporale in cui si può porre la questione, si è precompresi nell'occultamento nei confronti dell'apertura aperta da questa, in quello che Heidegger chiama “l'oblio” dell'essere, ovvero: dall‟apertura del momento storico-temporale, in cui siamo, e che ci consente la visuale, si trova occultato e dimenticato il senso di questo “essere”, dunque non si può aver risposta alla questione “Che cosa ne è dell‟essere?”. Questo il percorso intrapreso da Heidegger nella Introduzione alla metafisica (M. Heidegger, trad. 1968: p. 13 e ss.). Dunque, in conclusione, non si ha risposta alla domanda “Perché vi è l'essente e non il nulla?”, la domanda sul senso dell'essere. Ma, se ricerchiamo il senso dell'essere, ricercando l'essere come l‟onnicomprendente, l‟insieme degli essenti (di tutte le cose che sono), questo non può esser mancato per la mancanza di un qualcosa: in Heidegger, il nulla, o, l‟apertura storico-temporale. Se il senso è veramente il senso dell'essere, questo senso dovrà comprendere questo “essere” come ciò che è e già è, senza bisogno dell‟introduzione di ulteriori essenti prima di questo. Se il fine è veramente il senso dell'essere, questo non può esser difatti qualcosa a cui si può arrivare per speculazione o ponendosi domande, questo è qualcosa che si dà, se si dà, già nell‟essere. Con il domandare, con il pensiero astratto, si rimane, in realtà, sempre all'esterno dell'essere. Ma per ricercare il senso dell'essere è necessario non porsi fuori dell'essere – come con il guardar questo a partire dal nulla dell'essere, nella domanda “Perché l'essente e non il nulla?” –, ma trovarsi già entro questo, nell' essere. Dunque, in conclusione, per la questione “quale è il senso dell'essere?” si arriva a questa risposta: il senso dell'essere è il senso che si può dare nell' essere; e allora, in questo, sarà l'essere stesso a rivelare il suo senso: è necessario dunque ricercare nell'essere che si è dato e si può dare – e l'essere che si è dato, è l'essere, che, in ultimo e fondamentalmente, all'esperienza del vissuto sempre si è dato –. Questa vien ad essere dunque la fonte della ricerca: l'esperienza del vissuto dell'io, l'essere che all'io si è 79 79 dato. L'essere è difatti sempre essere per un pensiero ed il pensiero è sempre pensiero per l'esperienza del vissuto dell'io. Questa sarà l'origine e la scaturigine di questo “essere”. La domanda allora sarà: qual è il senso che qui si può rivelare? Si è detto, riguardo al senso dell'essere, che questo ha il suo senso, se si darà un senso nell' essere; e nell'essere primitivamente si disvela che questo ha un senso, se è possibile che l'essere continui ad essere. Se è possibile che il senso si possa dare. E, se è possibile che si possa dare, non si può dare in un momento per poi non potersi dare più, è necessario che sempre si possa dare: non è possibile un senso non compiuto, un senso per esser tale dev'esser di per se stesso compiuto – è necessario dunque che questo “essere” possa essere. Non è possibile pensare ad un essere che prima sia e poi non sia, nello stesso “essere” vi è dunque il continuare ad essere. Questo è dallo stesso 1. senso di questo “essere” Nel pensiero dell‟essere portato avanti in Essere e luce, in cui si comprende la realtà dell‟essere a partire dall‟essere di Parmenide come realtà interamente compiuta e autoconchiusa, non è possibile un essere, che prima sia e poi non sia, non può sussistere costitutivamente una cesura interna ad esso nel suo essere, il concetto di morte risulta non in esso 2. possibile Il concetto di morte, come negazione di essere, è la negazione di un senso nell'essere, che possa essere e continuare ad essere. Se è possibile la sensatezza, non si può che negare lo stesso concetto di morte. Dunque l'essere ha un senso, se si può dare un senso nell'essere, e questo risulta esservi, se vi è un essere dopo la morte; si ha allora, che questo essere, questo essere che primitivamente si è dato, da solo non può concludere il suo senso, apre, invero, ad un senso. Si ha difatti la morte, e questa è rivelativa, poiché mostra, invero, che ciò che vi è, è un senso noncompiuto, una incompiutezza. Questa incompiutezza è altresì rivelativa, poiché lo stesso darsi di una incompiutezza presuppone essa stessa, alla base, una compiutezza. L'incompiutezza, che è sentita, dunque, rivela altresì che un senso in realtà vi è stato, si è dato. E questo senso dato, che è sentito incompiuto, rivela altresì uno compiuto. Dunque, in conclusione, si rivela che vi è un senso nell'essere; è questo senso, che adesso si vien a ricercare. 1 Il senso di questo “essere” non può venire a negarne l'essere, e dunque il sempre essere di questo “essere”. Questo è ciò a cui conduce il pensiero dell'essere portato avanti nel nostro libro: G. SCOLARI, Essere e luce. Intorno allo stesso essere della morte e della vita, Lit Verlag, Berlin 2009. 2 Cfr. il concetto di morte come non con-possibile all'essere, colto nel suo senso d'essere. 80 80 Si è detto che la morte è rivelativa, ed è rivelativa in particolare perché con la morte comunque intesa vi è una negazione di qualcosa di proprio, e vi è la sofferenza; questo è qualcosa che all'esperienza si rivela, la sofferenza da parte dell'anima per la morte in generale e in particolare per 3. quella di chi ama La sofferenza è rivelativa, perché mostra in realtà che un senso nell'essere si è dato, se vi è la sofferenza, invero, qualcosa d'importante si è dato. Si ha intanto che, se vi è la sofferenza, vi è anche l'amore. Ciò che si è dato, comunque ed incontrovertibilmente, è l'amore come opposizione radicale al non-esserci-più di un qualcosa e volontà per il poter-essere di questo. E qui incomincia ad affacciarsi un senso, una compiutezza che si rivela nell'incompiutezza. Dunque nell'essere si rivela che vi è un senso e questo senso è rivelato dall'amore. Qui inizia a presentarsi un senso costitutivo per l‟essere della nostra esperienza vivente, il proprio essere risulta nel suo senso originariamente unito all'amore, si disvela che l'io è originariamente essere-per-l'amore. L'essere-per-l'amore risulta un essere originario dell'io, questo è ciò che si evidenzia nei momenti estremi, nel momento rivelativo della morte. Il momento della morte è rivelativo, poiché non presentandosi la possibilità di avere altri momenti dopo, nel nostro rapporto all'altro, si evidenzia il complesso del nostro rapporto all'altro nella sua totalità. In questi momenti vi è la sofferenza, e la sofferenza dell'anima per ciò che ama rivela che l'essere dell'altro può esser non meno importante del proprio essere e che l'esseredell'altro non può esser originariamente scisso dal proprio essere. Il proprio essere non si può concepire già di per se stesso come un essere “per sé”, ma già originariamente come un “essere-per-l'altro”. L'originario essere-per-l'amore dell'io si disvela nel momento estremo della morte, in questo si ha difatti che per l'anima vi è un'impossibilità di distaccarsi da ciò che ama; ciò che costituisce il nostro rapporto all'altro è un originario rapporto di co-appartenenza all'essere, al poter esistere, che si ha con l'essere dell'altro, questo si esplica nel costitutivo essere-per- e voler stare-con-l'altro. Questo è qualcosa che si trova al di là ed ancor prima di ogni "fare" concreto, anche se non è possibile fare alcunché, si dà la volontà di essere sempre uniti a ciò che amiamo, si sente l'impossibilità del distaccamento dall'altro per sempre, poiché vi è un rapporto di co-appartenenza all'altro che si radica nell'essere, nell'essere che sempre è. E questo si dà perché l'essere del soggetto è originariamente 3 Veniamo a considerare qui la realtà della morte nel modo più generale e originario come il non-esserci-più di un qualcosa: la non-possibilità di esserci più, di un ritorno di qualcosa per noi. Di converso consideriamo l‟amore nel modo più generale e originario come il poterci-essere-ancora: la possibilità di esserci ancora di un qualcosa per noi. 81 81 essere-per-l'amore, donde il voler sempre poter-essere con l'altro; nei momenti estremi si trova una apertura all'originario essere-per-l'amore. Dunque si è posto in evidenza che partiamo già da un senso, ed al tempo stesso questo senso, come viene a presentarsi, si mostra anche incompiuto. Se il momento della morte ci porta di fronte ad una incompiutezza, se si sente l'incompiutezza, è perché si sente il bisogno, la necessità di una compiutezza; e ciò che si sente di fronte alla morte con la incompiutezza è la sofferenza. Questo è ciò che si mostra come autoevidenza ed è ciò che è da considerare. La volontà di comprendere la sofferenza, e, con questa, i momenti di solito considerati negativi dell'esistenza, apre ad uno spazio proprio del discorso filosofico. Il pensiero comune, difatti, ha di solito la tendenza a preferire i momenti positivi a quelli negativi, e finisce per tender di gettare nell'oblio quelli negativi, per trascurare e non considerare l'importanza e la rivelatività del negativo. La volontà di considerare la sofferenza è una apertura alla considerazione dei momenti ritenuti negativi al di là della precomprensione in cui si vengono a trovare nel pensiero comune, per aprire alla loro possibile rivelatività. Nel pensiero comune, la comprensione posta in atto di fronte alla sofferenza ricerca di sfuggirla e superarla più che altro. Se vi è la sofferenza, vi è la presenza di un momento negativo e dunque vi è la ricerca che questo sia superato: ma perchè vi è questa sofferenza? Quale è il significato esistenziale della sofferenza nel proprio rapporto fondamentale all'essere, nel rapporto che sempre lega al fondo l'io all'essere? Che cosa rappresenta la sofferenza nell'esperienza del vissuto? Con questo domandare il pensiero filosofico può andar oltre rispetto alla precomprensione in cui si trova la sofferenza nel pensiero comune. Questo, si è detto, ha di solito la tendenza a fuggirla, a cercare di superarla, piuttosto che a considerarla rivelativa; eppure si può sentire, almeno con una parte verecondita dell'io, che i momenti negativi e di sofferenza sono comunque momenti importanti per il vissuto. Dall'esperienza vissuta si ha, che comunque i momenti negativi e di sofferenza possono esser invero rivelativi. E qui si apre ad uno spazio proprio del discorso filosofico. Se vi è la sofferenza, vi è il bisogno di uscire da una situazione negativa, di mancanza, in cui si è. Dunque la sofferenza, che si rivela nei confronti del momento della morte, porta a manifestazione una situazione di mancanza, vi è mancanza di un qualcosa. Nella sofferenza che vi è per il momento della morte si può rivelare invero un senso. La sofferenza manifesta indubbiamente un momento negativo per la vita dello spirito, ma questo momento negativo, che vi è con la morte, manifesta invero un positivo: un momento negativo, nella vita dello spirito, si può manifestare, se vi è sempre uno positivo. Il positivo che si può affermare, a cui si arriverà 82 82 anche dalla apertura di significati derivanti dal momento del pianto compreso in senso originario, è la necessità di uscita dalla comprensione in cui si è, 4. dalla pre-comprensione in cui si è, riguardo al momento della morte Dunque la mancanza, che è portata a manifestazione con la sofferenza, riguardo al momento della morte, è indigenza relativa alla comprensione in cui già si è di questo momento. La sofferenza manifesta che questa comprensione non può soddisfare, non è quella del proprio bisogno più proprio, con questa non si è “a casa” – vi è bisogno di un'uscita da questa e dunque di un'altra comprensione, questa è da superare. Dunque il senso, che si manifesta con la sofferenza per il momento della morte, il senso che ha da venir fuori, è il sentire l'impossibilità della comprensione in cui si è, riguardo a questo momento. Questo è ciò che deriva anche dall'ascolto delle profondità più ultime del proprio essere, derivante dal disvelamento del momento rivelativo del pianto, il sentire l'impossibilità, da parte di un livello verecondito dell'io, di questo pur radicato concetto, donde l'apertura ad una possibilità di superarlo. Dunque la sofferenza implica sempre una situazione di mancanza, che è sempre mancanza di un bene, ma al contempo questo bene cercato, di cui l'io soffre, porta all'esigenza che quel bene vi sia, altrimenti non potrebbe darsi sofferenza di alcunché. Abbiamo considerato ciò di cui vi sarebbe la mancanza nella sofferenza per il momento della morte, ciò che la presenza di questa sofferenza può venire a rivelare. Dobbiamo adesso soffermarci sul momento del pianto compreso in senso originario: con questo consideriamo un momento di caratteristica afflizione e scontro interno tra realtà in disaccordo interne alla vita dello spirito. In questa considerazione troviamo il fenomeno del riso, che manifesta uno scontro tra due realtà percepite primitivamente in disaccordo, che poi vien a compensarsi in esso, e all‟opposto quello del pianto, che rappresenta sempre uno scontro tra due realtà in antitesi, che ha ancora da esser compensato. Il pianto non vien ad esser interpretato nel modo in cui si tende ad interpretare nel pensiero comune, ma vien ad esser rivelativo di realtà interne costitutive della vita dello spirito. Il pianto, come la sofferenza, si trova pre-compreso in una interpretatività “negativa”, da questa 4 Questa comprensione in cui si è, riguardo al momento della morte, non è un momento teoretico distaccato, in cui si vien al concepimento del momento della morte al livello concettuale, ma è ciò che può esser detto dalla pre-comprensione del pensiero ermeneutico: quell'insieme di credenze e di acquisizioni che sempre vengon a costituirci, che ne siamo coscienti o meno, in quanto appartenenti ad una tradizione storica ed ad una cultura. Qui abbiamo una pre-comprensione, in quanto vi è una comprensione in cui già si è, in cui già ci si vien a trovare. 83 83 veniamo adesso ad uscire, per attendere all'apertura di significati che da questo può derivare. In questo è necessario superare l'immagine “intellettualistica” del sapere dominante nel pensiero, che si basa sulla priorità data alla ragione sulle altre forme dell'esperienza vissuta, come può esser il sentimento; questa sembra vedere sempre nella via della ragione la via che porta alla verità, e non nella via del sentimento. In questo si vuol superare anche questa tradizionale dicotomia tra ragione e sentimento, col superamento di questa dicotomia si cerca di arrivare ad una comprensione più unitaria e completa del proprio essere, in cui i sentimenti non siano considerati di per se stessi scissi ed in opposizione alla ragione, ma siano anzi rivelativi di ciò che è più importante per il vissuto. Di qui si vuol pervenire ad un esito, in cui il sentimento non solo non sia fuorviante dalla verità, ma possa anche essere un modo più originario per arrivare ad essa, in questo si vuol porre in luce come anch'esso ha una sua razionalità ed una sua ragion d'essere per la via della verità. La priorità del sentimento è già stata vista dalla filosofia del romanticismo. Il sentimento autenticamente romantico è la rivelazione del divino nel mondo. Nel pensiero romantico, il sentimento, a differenza della ragione, non frappone cesure tra l'intima essenza dell'universo e l'intima essenza dell'uomo; è nel sentimento che si ha la saldatura tra la natura e l'uomo – ed in questo anche tra momento sensibile e razionale. Il senso del superamento della dicotomia ragione/sentimento, è arrivare ad un sentimento, che non venga ad esser in contrasto con la ragione, ed ad una ragione che non sia mai contro il sentimento. Le vie della ragione e del sentimento vengon a convergere in questo in un'unica via, che sempre poi sussiste al fondo del pensiero: la via del “sentire” più originario che si dà nella totalità dell‟esperienza vivente, in cui si dà in sintesi la comprensione dell'intera realtà al pensiero. Questo “sentire” è il sentire che ha il valore veritativo dell‟Erlebnis (il vissuto) per la filosofia della vita, il sentire come er-leben, il percepire che si dà con lo stesso vivere e il darsi della verità di esso. In questo, l'apertura alla rivelatività della sfera della complessità del sentimento è apertura alla rivelatività della sfera della complessità dell'esperienza vivente. Questo “sentire” più originario è il sentire come esperire vivente. La realtà di questo “sentire” è la realtà dell'esperire vivente. In questo si dà la verità di un qualcosa, semplicemente poichè si esperisce questo qualcosa, poiché questo si dà nell'esperienza vivente nella sua interezza ─ come nell'esperire vivente la verità di un qualcosa non è data a partire da nessuna teorizzazione apposta, ma semplicemente dall'esserci e dal dispiegarsi interamente di questo qualcosa ─ (da questo esperire vivente si vien sempre 84 84 a fondare l'orizzonte in cui si dà il senso, qualsiasi senso al pensiero, senso a partire da cui si può dare l'essere, qualsiasi essere). Dall'ambito di questo “sentire”, che si dà nell'esperienza vivente, nel vissuto, in cui si dà in sintesi l'intera realtà nella comprensione del pensiero, si dà la sfera delle credenze. Il “sentire” è ciò che vien sempre a determinare l'accoglimento delle 5 credenze e delle fedi (come può esser l'accoglimento di un credo religioso ). Questo non è qualcosa che vien ad esser operato eminentemente dalla ragione. Per questo non può esservi qualcosa come una prova di una verità religiosa valida per tutti, messa in opera dalla ragione. Questo è il caso delle dimostrazioni dell'esistenza di Dio, esse non risultano avere il valore determinante per l'accettazione di una fede. Questa accettazione è qualcosa che deriva difatti da qualcosa di più profondo e fondamentale, da qualcosa che si può ricondurre a quella sfera che abbiamo visto come sfera del “sentire” (momento di sintesi dall'esperienza del vissuto per l'esperienza del vissuto), che può avere una priorità su gli altri momenti della vita conoscitiva. La priorità del “sentire” è qualcosa che si ritrova nella priorità data al momento emozionale nella analisi fenomenologica di Scheler. Questa priorità si vien a mostrare, in Scheler, nel fatto che l'oggettività dei valori non ha lo stesso significato dell'oggettività delle cose e che tale oggettività è accessibile solo all'emozione. In questo Scheler differenzia un'intelligenza della riflessione razionale, da un'intelligenza di un sentimento emozionale, di una percezione affettiva. Quanto sussiste nello spirito di emozionale possiede fattori costitutivi di natura originariamente a priorica indeducibili ed inderivabili dal pensiero. A partire da Scheler si può aprire ad una visione della fondamentalità del momento emozionale: come può il momento emozionale esser anche più fondamentale rispetto al momento razionale. Questo si evidenzia nell'esperienza del vissuto. Il cucciolo che segue la madre sa il suo bene, anche senza una vera e propria conoscenza di questo6, ciò che ha da sapere lo sa di già, e questo suo sapere e qualcosa che deriva dall'ambito del momento emozionale e non da alcun momento razionale. Il momento emozionale si può evidenziare come momento più fondamentale. Questo è ciò che guida nell'esperienza vivente, in ciò che è più importante. 5 Al riguardo, nella considerazione di un credo religioso, R. OTTO, ne Il sacro, riconosce all'irrazionale un ruolo insostituibile per questo sentimento; irrazionale che non è posto in una mera contrapposizione al razionale. 6 Così si percepisce, ad esempio, l'esser buono dello zucchero, senza alcuna conoscenza della composizione chimica di questo o di qualsiasi altra conoscenza sviluppata su questo – è esplicato da Scheler . 85 85 Ciò che in Scheler è detto dal sentimento emozionale riporta a ciò che si è detto con il “sentire”. Ciò che si è detto con il “sentire” è qualcosa di non immediatamente presentificabile e definibile, proprio perché questo “sentire” è ciò che sempre è. Questo “sentire”, che è esperire vivente, sempre accompagna l'essere come la sua propria forma di vita, e non si dà forma di vita al pensiero che non sia accompagnata da questo. Come il lògos di Eraclito, proprio perchè è ciò che sempre è, il sentire può risultare ciò che vi è di più nascosto ed 7. ignoto In questo si può riportare al momento della luce, come vien ad esser presentato in Il pensiero dell'essere e la luce8, la luce che è ciò che per l'anima sempre è. La vita dell'anima è sempre difatti un “sentire”, che è sempre un esser-illuminati, un esser pervasi da qualcosa d'altro da sé, ciò che è detto dalla luce, che è originario incontro di pensiero ed essere, a partire da cui si dà l'apparire di ciò che è. La forma propria dell'esser-esposto-alla luce è ciò che per l'anima sempre è. Questo esser-esposto-alla luce è ciò a partire da cui si dà il senso, 9. a partire da cui le cose sono come sono Dunque per aprire ad una interpretazione positiva e rivelativa della manifestazione sensibile e emozionale, è necessario uscire da quella forma del pensiero che abbiam visto come la pre-comprensione dell'immagine “intellettualistica” del sapere, in cui il sentimento sembra esser qualcosa già di per sé opposto al sapere; in questa ciò che ha origine dal vissuto, i fatti 7 Questo è ciò che dice Eraclito del lògos, nel frammento 1: “Di questo logos che sempre è gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato, sia dopo di averlo ascoltato; benchè infatti tutte le cose avvengano secondo questo, essi assomigliano a persone inesperte, pur provandosi in parole ed in opere tali sono quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo come è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo” (B 1 Ediz. Diels-Kranz). 8 Cfr. in G. SCOLARI, op. cit., la parte dedicata all'identità della luce: pp. 45-52. 9 L'esser-esposto-alla luce come momento che dà il senso, a partire da cui le cose sono, si può comprendere a partire dall'esempio del costituirsi dell'essere della bellezza. La bellezza di una figura, come di un'opera d'arte, non può esser comprensibile e riducibile ad una descrizione fenomenica di termini fisici. Non vi è una descrizione definitiva di una figura, che può determinarla come significativamente bella per ognuno. Il significato della bellezza non può mai esser ridotto ad una mera descrizione di proprietà fisiche. La significatività di una figura bella si vien a costituire a partire dalla luce dell'anima ─ dal vissuto, che fa capo all'interiorità della propria anima ─, da questo esser-esposto-alla luce, che per l'anima sempre è, ed a partire da cui si dà il senso che unifica gli elementi e le proprietà fisiche in uno, che offre il senso della bellezza, a partire da cui si dà l'essere della bellezza. 86 86 della propria realtà di vita, l'esperienza vissuta, sono qualcosa che vien a contrapporsi a ciò che è propriamente conoscitivo, a ciò che è vera conoscenza. Ciò che qui si vien a mancare è che ogni conoscenza, per esser realmente e pienamente vera conoscenza non può contrapporsi di per sé e venir meno ad una qualsiasi espressione della realtà di vita che già comprende il tutto in sé, e trova il suo valore proprio dall'inerenza al vissuto, dal poter entrare realmente in rapporto e valere all'esperienza vivente, alla verità della totalità della vita (in questo una conoscenza che sia in una sfera apodittica, al di là del vissuto, è in definitiva una conoscenza alienata dai propri bisogni più ultimi, non è veramente la propria conoscenza, un sapere autentico e onnicomprensivo, che è sempre in fondo sapere per la vita). La verità della realtà dell‟espressione sensibile e emozionale e dei sentimenti con la loro legittimità di autoimporsi, si può evidenziare dagli esiti 10, dell'opera di James dove troviamo, ad un'ultima analisi, che tutto ciò che in definitiva vien a sussistere e esser alla base del nostro sapere, sono sempre i sentimenti e le fedi, che muovono l'io: per James, qualsiasi idea, anche la più apparentemente impersonale, è sempre prodotto di un sentimento che sta a cuore all'individuo che l'afferma. Il momento del sentimento, in conclusione, non può finire per esser considerato contrapposto al momento razionale – a cui può risultare invece inestricabilmente legato nella costituzione del sapere –, ma ha da esser al contrario compreso insieme ad esso in un sapere che ricerchi l‟apertura completa alla realtà della vita. Tutto questo discorso è per introdurre alla considerazione del momento dell‟espressione sensibile e emozionale, come può esser il pianto, e del momento positivo e negativo che questo sempre reca con sé. Se vi è un momento negativo in questo, è perché anche questo ha una sua ragione di essere e può rivelare qualcosa, e questo qualcosa si vuol considerare. La sofferenza e il dolore non sono compresi qui come semplice momento negativo da superare, ma ciò che è rivelativo del proprio rapporto costitutivo 11. fondamentale all'essere Questa sofferenza rivela, con la sua datità, che vi è, al fondo, un rapporto all'essere che sempre vien a costituire il proprio essere, un rapporto di trascendenza nei confronti dell'essere. Si mostra qui, difatti, la presenza di un momento negativo, rispetto a cui il vissuto del 10 In James si pone in evidenza complessivamente il ruolo delle credenze alla base di tutto il nostro pensiero, di tutta la nostra possibile conoscenza. Cfr. in particolare W. JAMES, La volontà di credere, a cura di G. Graziussi, Principato, Milano 1966. 11 Per rapporto costitutivo fondamentale all'essere si intende il costitutivo rapportarsi dell'apertura dell'io all'essere, rapporto che a fondamento del proprio essere sempre è: la dialettica io/non-io costitutiva dell'io, dunque il costitutivo rapportarsi dell'io all'essere. 87 87 soggetto non può non venir a muoversi, in rapporto al quale sempre si attua un movimento di trascendenza. La sofferenza rivela, nel proprio rapporto costitutivo all'essere, una situazione di mancanza, come un dis-accordo nel rapporto dell'io all'essere; ciò che si vien a ricercare è il perché di questa situazione, il prender coscienza di questa per aprire ad un suo superamento. Veniamo dunque a considerare la situazione di mancanza, il disaccordo nel rapporto all'essere, nel momento del pianto: questo vien qui compreso in un modo originario come manifestazione di mancanza e scissione interna all‟anima. Veniamo dunque a considerare questo, in riferimento al perché ed al quando vi è. Vi è questo momento, come manifestazione di scissione e scontro interno di realtà antitetiche al livello del momento emozionale, quando vi è qualcosa di impossibile per l'io, qualcosa per cui la realtà interiore in fondo manifesta un qualcosa che non riconosce come possibile, in questo vi è il sentire con una parte più profonda dell'interiorità (con la via di quello che abbiamo visto come il “sentire”, momento più originario dell'espressione razionale) una impossibilità; vi è il sentire (un sentire che non può esser ancora al livello dell'esser coscienti) con una parte nascosta e verecondita del sé l'impossibilità del non-essercipiù, in cui abbiamo compreso la realtà della morte: questa è l'impossibilità della comprensione in cui si è rispetto a questo momento del non-esserci-più – di qui si apre, con la presa di coscienza di questa impossibilità, ad una uscita da questo, alla possibilità di superarlo. Vediamo di comprendere che cos'è questo non-esserci-più, con questo si può aprire ad una comprensione del perché vi è del pianto. Ciò che è caratteristico del momento del pianto – e del negativo del sentimento in genere – è la presenza del qualcosa-perso-per sempre; il pianto può esser per la morte di chi si ama, ma ci può esser il pianto per una morte con un concetto più esteso di morte. Veniamo qui ad introdurre un concetto originario di morte, un concetto di morte come lo abbiamo espresso nel nonesserci-più: un momento dal quale un qualcosa, un qualsiasi cosa, che si è dato, non può più essere, non può più darsi all‟essere, dunque un concetto di morte come negazione originaria di essere. E dunque ciò che caratterizza il pianto, come abbiamo compreso questo come cifra di dolore non compensato nell‟anima, non è necessariamente la morte di un qualcuno, questo può esser per un qualcosa che non è più e non può più essere, ciò che lo caratterizza è la non possibilità di darsi di un qualcosa, la non-possibilità del tornare indietro, il qualcosa che non è più e, si può pensare, non è più per sempre. Per l'io questo non vien accolto come possibile. Questa è l'impossibilità della morte, del non-esserci-più, che si sente nel pianto. Ciò che qui si manifesta è che, 88 88 ciò che è stato, e dunque ciò che è stato nella memoria, non può non esser più, ha sempre da essere. Si può di qui venir a disvelare la fondamentalità della memoria. Si è detto che il pianto può esser per il non più esserci di un qualcosa, non per qualcosa di determinato, ma per un qualsiasi cosa, come il pianto di un bimbo per un oggetto che non ha più, per un qualsiasi-cosa-che è; ciò che è fondante è che, qualcosa che è stato nel vissuto dell'io, anche qualcosa di solamente sperato, qualcosa, comunque, di cui l'io nel vissuto ha partecipato, a cui è stato affezionato, e dunque qualcosa che è stato nella memoria ─ come insieme contenente passato, presente e futuro ─ non è più. Ciò che è fondante qui è la memoria, l'inerenza di un qualsiasi-cosa-che è (un ente) alla memoria dell'io. Ciò che fonda il valore come l'essere proprio di un ente è dunque la memoria (G. Scolari, 2009: pp. 98-99). Si è visto che il pianto può esser per un qualsiasi cosa che non è più, anche per qualcosa di non vivente, ciò che rende vivente quel dato oggetto, o quella data entità, è il fatto che questo è stato nella memoria, l'inerenza di questo nella memoria; la memoria è ciò che dà l'essere a questo ente, ciò che dà ad esso la propria realtà vivente. Questo si può venir a comprendere a partire dalla questione, posta da Heidegger nella Introduzione alla metafisica (M. Heidegger, trad. 1968: pp. 43-46), sull'essere dell'ente. Nella prima sezione della Introduzione alla metafisica vien posta la questione: dove è da ricercarsi l'essere di un ente? Heidegger prende in esame diversi esempi di ente, tra cui quello di un portale: “Il portale di una chiesa romanica è essente. Come e a chi si manifesta il suo essere? Allo storico dell'arte che lo visita e fotografa durante un'escursione, all'abate, che, insieme ai suoi monaci, fa il suo ingresso nel portale nel dì di festa, oppure ai fanciulli che giocano alla sua ombra nel giorno di sole? Che cosa ne è dell'essere di questo essente?” (M. Heidegger, trad. 1968: p. 45). Dunque in quale delle apparizioni, in che cosa, di un ente è da ricercarsi l'essere di quell'ente? Qui si ha, che l'apparizione che fonda l'essere di un ente è l'apparizione inerenziale, ovvero dell'inerenza, di quell'ente alla memoria dell'io. Ciò che fonda l'essere di un ente con la sua propria individualità è l'inerenza di quell'ente alla memoria con la sua individualità: se prendiamo una qualunque cosa, questa è per me quello che è, non per una sua propria costituzione, che una volta compresa conferirebbe a quello l'essere, ma per il suo esser stato e per il suo poter esser sempre appartenente al vissuto dell'io: così, ad esempio, una penna è quello che è, trova la sua individuazione, per esser stata partecipe di determinati momenti, per aver 89 89 passato diverse vicende insieme alla vita individuale dell'io, per il fatto di esser entrata in alcune storie del vissuto e proprio in quelle. Essa dunque è quello che è dal suo esser nella memoria. All'inizio quell'oggetto, come altri, non aveva un suo determinato proprio significato, ma dopo aver partecipato ai vissuti dell'io, esser entrato in determinate storie, che fanno capo ad una memoria, questo oggetto, come altri, assume un suo significato, un suo valore proprio; e ciò può valere non solo per un oggetto, ma per un qualsiasi-cosa-che è; esso è quello che è per questo suo essere appartenente alla memoria dell'io. Chiedersi che cos'è quell'ente a prescindere dal vissuto della memoria dell'io, con la sua individualità, è chiedere riguardo a qualcosa di non realmente esistente, mera astrazione; quell'ente è, in realtà, sempre un ente con il suo essere individuale per un io e per il suo vissuto; ciò che dà il significato, fonda l'essere, è sempre la memoria. È sempre la memoria dell'io con le sue storie. In questo modo si può venir a situare l'essere – al di là delle astrazioni del pensiero concettuale che ricerca l'essere degli enti – nel vissuto, nella realtà della vita: in questo orizzonte risulta esser la memoria la “casa” dell'essere. Ritorniamo adesso al momento di commozione del pianto. Si è detto che nel pianto si ha il “sentire” una impossibilità, questo non è invero qualcosa di cui si è a coscienza, ma è qualcosa che risulta occultato e coperto. Adesso si ricerca invece una apertura ad una comprensione di questo, si ricerca un suo disvelamento. Il fatto del passar sopra rispetto al “sentire”, che vi è nel pianto è connesso ad una situazione di non-coscienza rispetto a momenti emozionali, che vengon comunque a costituire l‟intera vita dello spirito e della coscienza. Si vien adesso a considerare il pianto al fine di trovare l'evidenza nascosta del “sentire”, che si ha in questo. Vi è il pianto quando vi è il bisogno dello scaturire di un sentire più profondo, un sentire profondo e nascosto, nascosto dall'abitudine, dallo stato abitudinario in cui si pre-è, che deve venir fuori, uscire dall'occultamento. Vi è un sentire, che è in diretta opposizione a quella che si è visto come la precomprensione in cui l'io è, la comprensione dell'essere in cui sempre si vien a trovare, la comprensione-apertura originaria alla realtà in cui l'io si trova, un sentire, che è in diretta opposizione a quella che possiamo configurare come la “ipostatizzazione concettuale” della vita dello spirito (con “ipostatizzazione concettuale” si intende la sfera di quelle che si sono affermate, consolidate, come le convinzioni più ultime e profonde, di cui si può esser a coscienza o meno, da cui deriva la comprensione-apertura all'essere a partire da cui si può dare il pensare e l'agire). 90 90 Nel pianto si manifesta come l'urtare della vita dello spirito con qualcosa di altro da sé che le si oppone; questo urto è urto con l'impossibilità, che si è rinvenuto impossibilità della comprensione della realtà in cui si è, di ciò che si è visto come “ipostatizzazione concettuale” della dinamica dello spirito. Al contempo si sente come un urtare dell'anima con se stessa, come una parte dell'anima che si urta con un'altra, che si opponga ad un'altra (una parte che, come in minoranza, per la sua lontananza dalla coscienzialità, vien come a dover erompere per farsi sentire). Dunque vi è come una opposizione interna all'anima, si compie come uno scontro dialettico tra momenti opposti interno alla vita dell'anima12. Questo scontro dialettico interno all‟anima è qualcosa che, almeno al livello della realtà inconscia prima delineata, si vien a superare, la realtà antitetica (di antitesi che si presenta al sentire dell‟anima) è qualcosa che ha da esser superata: dopo questi momenti di scontro interno di opposizioni della vita dell‟anima e superamento, vi è una ri-comprensione di queste in una sintesi e una compensazione, come l‟apparire di un arcobaleno dopo la tempesta. Dunque al livello della realtà inconscia questa realtà antitetica vien ad esser superata: come risulta questa dialettica interna al livello della realtà della coscienza, dell‟”ipostatizzazione concettuale”? Lo scontro dialettico interno all‟anima implica il superamento dell‟opposizione, l‟antitesi che si presenta a questa. Come si vien a considerare questo scontro al livello della realtà della coscienza? Questo scontro dialettico implica un momento di sintesi, che è appunto l‟uscita dall‟impossibilità, che si rivela nella situazione del pianto. L‟impossibilità, che qui si vien a portar fuori rendendosi manifesta, è l‟impossibilità del non-esserci-più, che prima abbiamo visto, l‟impossibilità della morte come il non-esserci-più senza ritorno di un essere, di un qualsiasi essere. 12 Nel pianto si sente un urto. Un urto è ciò che vien rilevato esservi da Wittgenestein nell'etico, in questo vi è un avventarsi contro i limiti del linguaggio. Questo determina un urto e Wittgenstein afferma: l'urto indica qualcosa (Cfr. L. WITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1967, pp. 21-22). Anche qui l'urto indica qualcosa, ma la cosa rispetto a cui l'anima entra in urto, i limiti del linguaggio, non sono qualcosa di invalicabile e rispetto al quale non vi è nulla oltre (come in Wittgenstein); questi limiti si danno qui proprio come limiti da superare, questi vengono ad esser mutati e ricompresi nell'espressione della vita dell'anima. L'urto indica lo scontro dialettico interno alla vita dell'anima. 91 91 Che cosa porta a questo scontro dialettico interno all‟anima, che cosa rappresenta e significa questo nel darsi ed evolversi della vita ed espressione di questa? Questa anima concepita come vita dello spirito, che si esprime e realizza come lògos (che è anima, ragione, volontà, senso), come realtà evolutiva e dinamica, si trova realizzata in una realtà dialettica diveniente, per questo presenta all‟interno opposizioni e superamenti. Nella situazione vista il lògos dell‟anima presenta una scissione interna, come una diffrazione (se consideriamo questa come realtà luminosa e pensiamo al fenomeno della diffrazione della luce studiato dalla fisica). La scissione, che qui si presenta, è scissione tra il “sentire” dell‟esperienza vivente e la realtà della coscienza, che si è vista come “ipostatizzazione concettuale”, con cui è chiuso e formato il lògos. Questa ipostatizzazione è necessario superare, per ricomprendere la scissione interna al lògos, che è poi scissione tra lo stesso lògos come coscienza propria individuale e l‟essere, che è il “totalmente-altro-da sé” che contro a lui è ─ ovvero tutto ciò che si oppone a questo e con cui questo è sempre in rapporto dialettico oppositivo e ricompositivo ─ . Dall‟impossibilità del non-esserci-più, del pensiero del non-ritorno dell‟essere, vi è il richiamo alla necessità dell‟integrazione di questo lògos, che è coscienza, pensiero, spirito vivente produttivo che si scinde e compone nella realtà dinamica. Tutto quanto si è detto porta al richiamo della necessità dell‟integrazione di questo lògos: come si è visto l‟”essere-dell-altro” si rivela proprio inscindibile fondamentalmente dal proprio essere ─ qualsiasi essere è tale per la fondamentale appartenenza alla memoria come luogo dell‟apparire e sussistere dell‟essere e per questa ci è proprio ─ . Dunque ogni essere, in quanto ci è proprio, e in quanto ha una appartenenza fondamentale al proprio essere, è necessario che sia nell‟integrazione al lògos proprio della memoria e dunque per questo possa essere e darsi ad essere nel rapporto proprio ad esso: in questo si supera il pensiero del nonesserci-più senza ritorno, in cui qualcosa non può più darsi ad essere per il suo essere che ci è proprio. A questo si arriva anche dal pensiero dell‟essere sviluppato nel mio libro Il pensiero dell'essere e la luce: qui si manifesta la costituzione stessa 13 dell‟essere, che si mostra come proprio, nell‟essere che è eterno ─ l‟essere che si dà è necessario che sia per il suo darsi e sempre potersi dare. In conclusione si perviene alla realtà dell‟essere di ogni essente, ogni cosa che è, nel suo darsi e sempre potersi dare, come costituentesi nel lògos al di là delle scissioni di questo, secondo ciò che gli è proprio nella 13 Cfr. la necessità dell‟essere eterno per il darsi dello stesso essere in G. SCOLARI, op. cit., partic. pp. 55-61. 92 92 appartenenza – la propria inerenza – alla memoria, che integra l‟essere di ogni essente oltre le scissioni nel suo passato, presente e futuro. Questo troviamo anche dal verso di Parmenide, secondo il quale ogni essere bisogna che sia proprio per il suo proprio essere: “Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono bisognava che veramente fossero, essendo tutte in ogni senso” (Fr. 1 vv. 31-32). Al contempo si arriva a realizzare l‟essere di ogni essente come ciò che, al livello logico-costitutivo, ha da essere e sempre da essere per il suo stesso senso: la necessità costitutiva dell‟essere eterno per l‟essere di ogni essente. Riferimenti bibliografici I Presocratici, Frammenti e testimonianze, Laterza, Roma-Bari 1993. M. SCHELER, Gesammelte Werke, M. Frings (hg.), Bonn 1995. R. OTTO, Il sacro, tr. it. di E. Buonaiuti, Feltrinelli, Milano 1992 (ediz. orig. R. Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, Bech, München 1936). W. JAMES, La volontà di credere, a cura di G. Graziussi, Principato, Milano 1966. L. W ITTGENSTEIN, Lezioni e conversazioni, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano 1967. M. HEIDEGGER, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976 (ediz. orig. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Niemeyer, Tübingen 1927). ID., Che cos' è la metafisica?, in ID., Segnavia, Adelphi, Milano 1987 (ediz. orig. M. HEIDEGGER, Wegmarken, Klostermann, Frankfurt a. M. 1971). ID. Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968 (ediz. orig., M. HEIDEGGER, Einführung in die Metaphysik, Niemeyer, Tübingen 1966). G. SCOLARI, Essere e luce. Intorno allo stesso essere della morte e della vita, Lit Verlag, Berlin 2009. 93 93 LA PSICOTERAPIA ALLA RICERCA DI SE STESSA. SU IL PAESE DEGLI SMERALDI A CURA DI L. A. ARMANDO E A. SETA * di Francesco Tarantino Abstract This paper examines the book by L. A Armando and A. Seta Il paese degli smeraldi that brings together a choice of three thousand posts received in a blog made by patients or people who have interacted with the theory and practice of psychotherapy by M. Fagioli. The author points out that the book draws its cue from considerations of those patients and people on that specific theory and practice to discuss problems related to psychotherapy in general. He does not merely summarize and analyze the chapters of the book, but also offers its views concerning the relationship between psychotherapy, science, ideology and social aspects. He finally suggests that Il paese degli smeraldi could help the phenomenological approach in psychotherapy which, as it is known, allows specific investigations on the experiences of the patient or empathetic relationship between therapist and patient. Ce texte prend en examen le livre de L. A. Armando e A. Seta Il paese degli smeraldi, soit le recueil de trois mille post publiés dans un blog par des patients ou des gens ayant eu affaire à la théorie et à la pratique psychanalytiques de M. Fagioli. L‟auteur met l‟accent sur le fait que le livre naît des considérations de patients et de personnes sur cette théorie et cette pratique en particulier, pour discuter de problèmes qui concernent la psychothérapie en général. Loin de se limiter à résumer et analyser les chapitres du livre, il propose aussi des observations personnelles concernant le rapport entre psychothérapie, sciences, idéologie et aspects sociaux. Il soutient, enfin, que Il paese degli smeraldi peut apporter une contribution à l‟approche phénoménologique en psychothérapie laquelle, on le sait, permet d‟enquêter sur le vécu du patient ou sur le rapport empathique entre le thérapeute et le patient. Questo scritto prende in esame il libro di L. A. Armando e A. Seta Il paese degli smeraldi che raccoglie una scelta dei tremila post fatti pervenire in un blog da parte di pazienti o persone che hanno interagito con la teoria e la pratica psicoterapeutica di M. Fagioli. L‟Autore mette in evidenza come il libro prenda spunto dalle considerazioni di quei pazienti e persone su quella specifica teoria e pratica per discutere problemi che riguardano la psicoterapia in generale. Egli non si limita a riassumere ed analizzare i capitoli del libro, ma propone anche proprie considerazioni inerenti al rapporto tra psicoterapia, scienza, ideologia ed aspetti sociali. Sostiene infine che Il paese degli smeraldi può fornire un contributo all‟approccio fenomenologico in * Dirigente Psicologo Psicoterapeuta presso il SERT di Copertino - ASL Lecce. 94 94 psicoterapia che, come è noto, permette indagini particolari sui vissuti del paziente o sul rapporto empatico tra terapeuta e paziente. 1.Premessa Il paese degli smeraldi è il titolo suggestivo di un volume che raccoglie una scelta dei tremila post fatti pervenire in un blog1 da parte di pazienti, ex pazienti o persone che, a vario titolo, hanno interagito con la teoria e la pratica psicoterapeutica di M. Fagioli o che fanno riferimento ad esse. Il filo conduttore di questo libro, che arditamente traspone nel cartaceo ciò che normalmente è dedicato a restare nei circuiti telematici, è una riflessione critica su tale teoria e tale pratica concepita però non come fine a se stessa, ma come occasione per discutere problemi che riguardano la psicoterapia in generale. Inizierò questa recensione con un breve riassunto dei contenuti dei capitoli del libro e dando nel corso di tale riassunto qualche notizia sulle suddette teoria e pratica; proporrò poi alcune mie considerazioni sul problema del rapporto tra psicoterapia, scienza e ideologia e sulle implicazioni sociali della psicoterapia. 95 2. Dalle testimonianze alla storia della “teoria della nascita” Il libro è suddiviso in sette capitoli rispettivamente intitolati: “Testimonianze e racconti”, “Sul blog”, “Sulla cura”, “Sui rapporti”, “Sulla teoria”, “Alcune opinioni a confronto” e “Sulla storia”. Il primo capitolo propone testimonianze e racconti di quanti hanno avuto a che fare con la pratica terapeutica di Fagioli nota come “analisi collettiva” (di qui in avanti indicata con le sole iniziali ac) e con il suo impianto teorico. Sono persone che si definiscono pazienti bisognosi di cure psicologiche, o studenti, o semplicemente simpatizzanti dell‟ac, come pure intellettuali. Gli stessi curatori del libro mettono in guardia il lettore poiché il racconto dei vissuti, da parte di un paziente o anche di una persona all‟interno di una normale relazione, può dare adito a gravi fraintendimenti ed equivoci: in una relazione psicoterapeutica la possibile commistione del 1 Il blog sta nel sito www.antonelloarmando.it. Il titolo del libro oggetto di questa recensione è: ARMANDO L. A., SETA A. (a cura), Il paese degli smeraldi. Testimonianze e riflessioni sulla pratica e sulle ipotesi teoriche dello psichiatra Massimo Fagioli, Mimesis, Milano 2009. 95 transfert può complicare, di per sé, la comprensione dei significati. Segnalano inoltre il rischio di dare spazio a pettegolezzi. Partono però dal presupposto che “bisogna anche tener conto delle contestazioni che da molte parti vengono rivolte alla psicoterapia in genere, ossia di essere una disciplina scarsamente trasparente quanto a procedimenti e verificabilità dei risultati”; insomma, si avverte da più parti l‟esigenza di “rendere pubblici e visibili metodi, procedure, e risultati” al fine di superare la rappresentazione sociale della psicoterapia come “pratica esoterica e suggestiva , ossia poco o nulla scientifica” (Armando - Seta, 2009: p. 23). Il capitolo successivo traccia l‟evoluzione dell‟ac a partire dagli anni settanta dividendola in due periodi: il primo in cui essa fa notizia per la sua originalità dovuta a un esplicito allontanamento dall‟ortodossia freudiana e alla rottura sia del setting duale che del setting dei piccoli gruppi; il secondo in cui essa va incontro a un‟involuzione. I curatori del volume sostengono che il blog rappresenta il momento dell‟impatto dell‟ac “con la società civile, con la sua imprevedibilità e spontanea attitudine alla ricerca della conoscenza attraverso le vie più diverse, che da circa un decennio si è dotata, come strumento di dialettica democratica, anche di internet e dei blog” (Ivi, p. 63). Il blog pone due interrogativi: il primo riguarda il tentativo dello psichiatra romano di “accreditare una teoria sulla realtà umana” attraverso la via politica; il secondo riguarda l‟“ossessione mediatica” per la ricerca di uno spazio di visibilità per l‟ac stessa (Ivi, pp. 63-64). Questo capitolo si conclude con due interventi il primo dei quali evidenzia le ombre dell‟ac medesima e la responsabilità che comporta una critica poiché espone coloro i quali hanno creduto in essa (e ne hanno tratto vantaggi) a una crisi la cui portata è difficilmente valutabile, mentre il secondo insiste sull‟utilità del dibattito pubblico sulle psicoterapie e sull‟evidenziazione dei loro sviluppi anomali. Nelle pagine che seguono si capitolo descrive, da un lato, quanto si svolge nell‟ac, nei piccoli gruppi terapeutici (che l‟affiancano) e nelle terapie individuali; dall‟altro tutte le iniziative collaterali alle pratiche psicoterapeutiche propriamente dette, come convegni, lezioni universitarie, interessi per il cinema, per l‟architettura, per il disegno, ecc.. Per come riferiti, i vissuti di quanti hanno partecipato a queste attività presentano un percorso simile: un iniziale entusiasmo, una speranza positiva, un impegno personale di discussione di se stessi e il successivo insinuarsi di perplessità.. Questi vissuti, come può essere facilmente immaginabile, possono accompagnare un qualsivoglia percorso psicoterapeutico. Il capitolo mostra come lo strumento fondamentale utilizzato da Fagioli e dagli psicoterapeuti della sua scuola sia l‟interpretazione della negazione della realtà del terapeuta, non però solo nel suo manifestarsi nel setting, ma anche in occasione di eventi a questo esterni, quali quelli costituiti dalle suddette iniziative, e soprattutto da 96 96 episodi del passato e del presente della vita privata di Fagioli. A tale proposito i curatori così si esprimono: “La svolta ermeneutica, consistente nella riformulazione del racconto di questo fiorire di eventi, ha dato luogo nel tempo a veri e propri cicli narrativi, che si sono finora ripetuti a intervalli di anni andando a costituire una sorta di cosmogonia dell‟ac.” (Ivi, p. 79). Gli eventi, raccontati nel libro, cambiano nei contenuti, ma ripetono uno schema destinato a rafforzare il carisma dell‟analista fino a farne una figura quasi leggendaria. Il capitolo illustra poi una differenza tra la frequentazione dei piccoli gruppi e quella del grande gruppo dell‟ ac.: i piccoli gruppi servono per l‟ingresso nel grande gruppo, all‟interno del quale (almeno nelle intenzioni dei partecipanti) si sviluppa, lungo un continuum, un processo di cura, formazione e ricerca senza che vi sia, tuttavia, la necessaria specificazione e distinzione dei momenti. Il capitolo propone quindi il problema se l‟ac sia una terapia o un‟ideologia, sia fondata sul transfert o sul carisma, comporti una dipendenza transitoria o interminabile, realizzi un continuum tra cura, formazione, ricerca o una semplice confusione tra questi processi. E‟ ovvio che i partecipanti al grande gruppo, in quanto la cura è identificata con la formazione e la ricerca, non si sentano solo pazienti che effettuano un percorso terapeutico, ma soprattutto cercatori di conoscenza attraverso un processo di formazione che ritengono possa dare solo l‟ac. Questa ha come matrice la psicoanalisi che comporta un cammino basato su una significativa relazione affettiva, l‟analisi del transfert, dei sogni, delle fantasie, delle aspirazioni e dei vissuti esistenziali dei partecipanti; insomma l‟analisi ha normalmente obiettivi molto più generali rispetto ad altre psicoterapie. È inevitabile che il materiale preso in considerazione sia molto vasto. Tuttavia, considerata la dimensione pubblica e la numerosa affluenza di persone in ogni seminario, è certo che il setting acquisti altre caratteristiche. Innanzitutto, proprio per la grossa dimensione del fenomeno, si crea una complicità che nel tempo genera inaccessibilità alla critica e quindi autoreferenzialità. In definitiva, in tali interazioni e movimenti culturali il coinvolgimento affettivo dovrebbe essere limitato in quanto può esporre l‟individuo con disturbi psicologici a situazioni scarsamente gestibili. Naturalmente ciò può capitare anche in altri gruppi, dove c‟è un forte coinvolgimento emotivo e personale, ma che non hanno finalità di cura. Il quarto capitolo pone sostanzialmente il problema se il gruppo dell‟ac presenti analogie con una setta o una chiesa. L‟elemento fondamentale, che appare dai racconti, è l‟aspettativa utopica di rapporti diversi da quelli normali. I curatori bene fanno ad evidenziare come i partecipanti dell‟ac costituiscano, in senso lato, una comunità anche se non 97 97 2 vivono insieme e, pur non conoscendosi, rispettino una regola comune ; e come un‟aspettativa utopica, connessa all‟ideale di fondare una società su rapporti diversi, costituisca parte centrale nello sviluppo della “teoria della nascita” e dell‟ ac. In altre parole, il gruppo, anziché ridurre la predetta aspettativa utopica, la favorirebbe e stabilizzerebbe indirizzandola verso un cammino di ricerca, cura e formazione, a tinta psicoanalitica, rivestito dal nuovo abito “fagioliano”, facendo terra bruciata di tutto il freudismo. Quindi l‟autore si sofferma sulla teoria che orienta l‟ac, ovvero sulla cosiddetta “teoria della nascita” (si vedano soprattutto Fagioli 1972 [1976, seconda ed.]; 1974; 1975), la quale si innesta su importanti questioni cui la ricerca scientifica non ha dato risposte univoche, come il rapporto mentecorpo, con particolare riferimento alla genesi delle interazioni tra aspetti biologici e psicologici nello sviluppo del funzionamento mentale. Tale teoria può essere considerata un modello dello sviluppo mentale normale e patologico basato su due enunciati fondamentali: quello della fantasia di sparizione e quello della prima immagine-ricordo. Il primo deriva dalla critica del concetto freudiano di istinto di morte: secondo Fagioli (1976, p. 56), tale istinto non può essere inteso solo come ritorno allo stato precedente in quanto questo ritorno presuppone un‟azione di sparizione o annullamento 3 della realtà attuale denominata appunto “fantasia di sparizione” . Il secondo enunciato deriva dall‟ipotesi che alla nascita la precedente realtà materiale 98 2 Se è vero che i seminari sono nati come contenitore di un gruppo di persone deluse dai movimenti politici del „68 e del ‟77, è probabile che l‟ac abbia formato un gruppo comunitario in senso lato e, per alcuni aspetti, analogo nelle modalità ed aspettative ad altri gruppi come i “figli dei fiori” o i reduci della “beat generation”. 3 Il libro rivolge tre obiezioni alla suddetta definizione dell‟istinto di morte. La prima è che la fantasia di sparizione, in quanto diretta non su immagini ma sulla realtà esterna che si presenta alla nascita, produrrebbe lo stesso ritorno allo stato anteriore prodotto secondo Freud dall‟istinto di morte (ARMANDO - SETA, 2009, p. 147). La seconda è che vi sarebbe una dicotomia tra nascite sane o malate (p. 147) fondata sulla diversa consistenza dell‟immagine neonatale; pertanto, si chiedono gli autori, come si può affermare, senza contraddirsi, che si nasce sani ed uguali se poi contemporaneamente, in base alla diversa consistenza dell‟immagine ricordo, si produce una diversità e quindi una maggiore o minore sanità mentale? La terza obiezione, forse la più importante, riguarda la possibilità di una fantasia diretta contro immagini di “esprimersi prima delle formazione della prima immagine alla quale essa concorrerebbe”(p. 148): si può concepire una fantasia senza psiche? Personalmente aggiungerei un'altra obiezione: come si può parlare di pensiero senza coscienza? Che cosa significa inconscio? Rappresenta solo il rimosso o è tutto ciò che non appare alla coscienza? Se l‟inconscio è tutto ciò che non appare o non è presente nel campo attuale della coscienza, è difficile argomentare un pensiero senza coscienza (o una coscienza senza pensiero). 98 del rapporto feto-liquido amniotico si trasformi nella realtà immateriale di un‟immagine-ricordo di tale rapporto la quale costituirebbe l‟inizio della psiche umana. Il sesto capitolo è il più avvincente. Lalli mette in risalto il carattere “politico” della pratica di Fagioli affermando che “costituire una falange di circa 1.000 persone, sempre presenti, sempre pronte ad applaudire gli amici e fischiare i presunti nemici; avere una rivista e poi un settimanale che si adeguino alla linea ideologica di Fagioli, i cui direttori possono essere licenziati se non si attengono alle direttive; avere un gruppetto che recita alla perfezione gli scritti del maestro; avere un addetto stampa che amplifica e costruisce notizie; screditare tutti coloro che la pensano in modo diverso utilizzando etichette diagnostiche e maldicenze varie; ebbene, questi sono gli stessi metodi che la politica, così come la conosciamo, dimostra di usare giornalmente” (Armando-Seta, 2009: p. 178). Armando riconosce invece una iniziale validità nel discorso di Fagioli e parla di una sua successiva 4 involuzione prendendone definitivamente le distanze (Ivi, p. 182) . Un 5 partecipante al blog (Ivi, pp. 186-187) si chiede come mai due studiosi e clinici come Lalli e Armando non si siano accorti per tempo dei limiti di quel discorso del quale sono stati i garanti accademici. Lalli, risponde affermando che si è allontanato dall‟ac quando si è reso conto obiettivamente 4 Credo che la presa di distanza di Armando da Fagioli debba essere fatta risalire alla differenza di visioni che vi è sempre stata tra loro e che risulta già dal confronto tra l‟articolo di Armando “Sul punto di vista della storiografia” del 1961 e quello di Fagioli “Alcune note sulla percezione delirante paranoicale e schizofrenica” del 1962: Armando ha una visione storica della realtà della psiche umana, mentre Fagioli sembra subordinare la stessa visione storica alla comprensione individuale orientata in senso naturalistico o essenzialistico. Su questa differenza mi sono soffermato nella mia recensione del 2007 al libro di Armando La ripetizione e la nascita. Ritengo fuorvianti i commenti di G. Bruco (2007) a tale (mia) recensione fondati, tra l‟altro, sull‟assunto che “nessun filosofo ci ha mai detto da dove il pensiero nasce”. La tendenza naturalistica dell‟interpretazione di Fagioli della realtà psichica è stata evidenziata già nel 1979 da Poggiali (1979, p.44) quando scrive che “Fagioli tenta una composizione [delle scissioni del freudismo] con le armi del suo arsenale naturalistico”. Poggiali coglie anche l‟assenza di visione storica di Fagioli nel momento in cui evidenzia che questi “è assai avaro nel dirci che il terreno critico che lui rivendica nei confronti di Freud lo condivide con pochi altri” (p. 51). G. Bruco sembra non dare il giusto peso alla riflessione filosofica nella psicologia e psicopatologia che ritengo invece fondamentale: già Jaspers affermava che: “Colui che si è preso la pena di riflettere a fondo sulla filosofia critica è al sicuro dal porsi molti falsi problemi, da discussioni superflue, e da pregiudizi impaccianti, che hanno una parte importante in psicopatologia in quelle menti non adusate al lavoro filosofico (1983, p. 7). 5 Lalli, negli anni Settanta, contribuì all‟iniziale svolgimento dei seminari di ac presso la sede di Viale di Villa Massimo, in Roma. 99 99 che quanto scritto da Fagioli era contraddetto dai suoi comportamenti e al riguardo afferma: “Fagioli non fa psicoterapia né formazione, e mi sembra che molte lettere del blog lo dimostrano chiaramente, ma che al massimo può fare solo ricerca.” (Ivi, p. 189). Di diverso tenore è la posizione di Armando (Ivi, p. 190) il quale rileva che, da una parte, la sua adesione al discorso fu convinta, e niente gliene lasciava presagire l‟involuzione, dall‟altra che l‟aver sperimentato gli aspetti negativi del seguito di quel discorso gli dà una possibilità in più di capire fenomeni analoghi di più ampia portata. Lago interviene in questo dibattito per sostenere che le posizioni di Armando e Lalli sono sovrapponibili sino ad un certo punto. Egli afferma che Armando sbaglia nel riconoscere la validità del primo periodo dell‟ac e concorda con Lalli nel darne un giudizio complessivamente negativo. Il paragrafo di questo capitolo intitolato “Mare azzurro e mare verde” riprende in considerazione l‟eventualità che l‟ac abbia somiglianze con una setta e non con una scuola di psicoterapia. Lalli a tal proposito parla più di indottrinamento che di scuola di psicoterapia: “Credo che quando una persona così pervasivamente tende a fare indottrinamento, possiamo parlare di setta. E di fronte ad un atteggiamento settario, non credo che esista alcuna possibilità dialettica” (Ivi, p. 209). Anche per Seta vi sono somiglianze tra ac e setta: ella afferma che “le analogie con l‟organizzazione delle sette sono suggestive, a volte imbarazzanti. Soprattutto gli aspetti di credenza ancora tipici dell‟ac 6 rafforzano questo parallelo, bisogna ammetterlo” (Ivi, p. 213) . L‟ultimo capitolo ripercorre la storia dell‟ac utilizzando il romanzo di Baum (1978), Il mago di Oz, cui fa riferimento il titolo del libro. I curatori ricordano come la sua protagonista, Dorothy, inizi, sotto la spinta di un uragano che ne sradica la casa, un percorso di conoscenza insieme a tre compagni desiderosi di rinvenire intelligenza, coraggio e affettività attraverso appunto l‟incontro con il mago di Oz. 6 Ellenberger (1976, p. 55) mette in evidenza come “la moderna psichiatria dinamica è divisa in un certo numero di scuole, ciascuna delle quali ha la sua dottrina, i suoi insegnamenti, il suo training”. Il fiorire delle attuali scuole di psicoterapia, in alcuni casi in contrasto tra di loro, ripropone uno statuto scientifico piuttosto frammentario con tendenze talora settarie. Jaspers (1983, p. 822) evidenzia altresì l‟aspetto settario delle scuole di psicoterapia. A tal proposito così si esprime: “ Esistono anche psicoterapeuti importanti, liberi, assolutamente indipendenti, ma la massa ha bisogno del raggruppamento; solo in tale modo, infatti, ottengono una specie di istanza oggettiva, nel cui nome agiscono, dalla quale ricavano la sensazione di una conoscenza assoluta e di una superiorità di fronte ad altre sette”. L‟aspetto settario può essere alimentato se una scuola di psicoterapia poggia le sue conoscenze e pratiche sugli aspetti autoreferenziali e ideologici che giustificano teoria e tecnica dei trattamenti psicoterapeutici all‟interno dello stesso gruppo o linea teorica. 100 100 Per Fagioli tale vento poteva liberare “da quella coartazione dell‟inconscio, della fantasia, del desiderio e da quella scissione tra pubblico e privato che avevano costituito la condizione dell‟affermarsi della società borghese” (Armando-Seta,2009: pp. 220). Egli avrebbe proposto la cura dei nefasti effetti di quel vento “che avevano portato chi l‟aveva fatto proprio alla delusione, e da questa alla rabbia distruttrice della lotta armata per poi riconferire valore all‟ignoranza e soccombere alla seduzione della religione e della droga” (Ivi, p. 221). Gli autori del libro riconoscono che tale cura vi fu, come è stato accennato, negli anni sessanta e settanta, ma affermano che poi l‟ac ha avuto un‟involuzione riproponendo gli stessi meccanismi della Società Italiana di Psicoanalisi (SPI) di quegli anni. Secondo loro, ciò che più ha portato a questa involuzione è stato il fatto che Fagioli ha voluto presentare il proprio paradigma come privo di formazione e di storia, per cui “quello che era stato o aveva voluto essere il paradigma di una nascita uguale spariva nell‟affermazione di una nascita diversa e unica e nella volontà di darle credenziali che dicevano di ripetizione, perché erano in tutto simili a quelle che analoghi miti avevano cercato di darsi in passato” (Armando-Seta, 2009: pp. 221-222). Qual è il senso del riferimento del suo titolo al romanzo di Baum Il mago di Oz? Nel romanzo si possono cogliere due aspetti: da un lato l‟imposizione di una determinata visione del mondo, dall‟altro l‟esigenza di ricerca della conoscenza del mondo esterno e di se stessi. Il primo aspetto è connesso all‟autoreferenzialità che, parafrasando il capitolo de Il mago di Oz (Baum, 1987) intitolato “La città degli smeraldi”, è determinata dagli occhiali speciali che si fanno indossare agli abitanti di tale città. La visione che si ha, dopo averli indossati, è a tinta unica. 7 L‟imposizione degli occhiali verdi porta a vedere la realtà stessa in un unico modo sino a farne una verità assoluta in senso ideologico. La visione della realtà infatti non è determinata solo dagli stimoli visivi, o dagli occhi, ma anche dalla percezione medesima che dà significato alla realtà visiva. La percezione tuttavia risulterebbe alterata, sino a limitare la critica personale, non solo per l‟effetto degli occhiali, ma anche per l‟imposizione di tale misura, peraltro propagandata da giustificazioni e credenze mistificate cioè ideologizzate (“perché se non mettete gli occhiali, lo splendore e la bellezza della Città degli Smeraldi vi accecheranno”, Baum,1987, p. 87). Ma è solo un 7 Riporto un passo cruciale del romanzo: „Io sono il guardiano della Città, e poiché mi domandate di vedere il Grande Oz, vi accompagnerò al suo palazzo. Però, prima di tutto, dovete mettervi gli occhiali.‟ „Perché mai?‟ – chiese Dorothy. „Perché, se non mettete gli occhiali, lo splendore e la bellezza della Città degli Smeraldi vi accecheranno. Perfino gli stessi abitanti della città devono portare gli occhiali giorno e notte. E sono tutti assicurati agli occhi con un lucchetto!” (BAUM, 1987, p. 87). 101 101 trucco, come si sa. D‟altra parte gli abitanti della Città degli Smeraldi credono nella bontà del grande Oz. Questi infatti è un buon governatore e, come mago, è molto stimato oltre ad essere temuto per i suoi poteri. Il secondo aspetto è rappresentato da una richiesta della protagonista del romanzo. Dorothy chiede al mago di poter ritornare nel Kansas, cioè nel suo paese dove sono rimasti i suoi parenti, vale a dire i suoi affetti. In senso lato, il viaggio rappresenta la ricerca dell‟identità. Alla fine del viaggio Dorothy scopre che ha sempre posseduto i mezzi per tornare a casa (che simbolicamente esprime un ritorno alla realtà). Ella, tuttavia, non ne era a conoscenza, come le fa notare la fata buona Glinda. Anche i compagni di Dorothy, prima di ricevere ciò che chiedono, cioè intelligenza lo Spaventapasseri, cuore l‟Omino di stagno, e coraggio il Leone, sono avvertiti dallo stesso mago di Oz che già possiedono tali capacità. Infatti, allo Spaventapasseri che reclama un cervello nuovo di zecca, Oz risponde così: “Non ne hai bisogno: ogni giorno tu impari qualche cosa. Un bimbo appena nato il cervello ce l‟ha, eppure non sa servirsene. Non c‟è che l‟esperienza che renda intelligenti, e quanto più a lungo uno vive su questa terra, tanto più è certo di accumulare esperienza” (Ivi, p. 147). Al Leone, sulla stessa falsariga, così dice: “Quel che ti manca è la fiducia in te stesso. Non c‟è creatura al mondo che non provi paura nel trovarsi di fronte al pericolo. Il vero coraggio consiste nell‟affrontare il pericolo proprio quando si ha paura, e questo genere di coraggio a te non manca certo” (Ivi, p. 148). Al Boscaiolo di Stagno, il mago fa notare, in modo piuttosto paradossale, che “un cuore, in generale, rende infelice chi lo possiede. Se tu avessi dell‟esperienza sapresti che è una bella fortuna quella di non averne” (Ivi, p. 149). Il mago di Oz, secondo Baum, rappresenta un prigioniero di se stesso in quanto intrappolato in un ruolo, quello del ciarlatano, che non aveva scelto. Egli infatti era diventato un mago poiché si era venuto a trovare, per caso, a contatto con gente stupida: “Mi trovai subito in mezzo a gente così sciocca che, vedendomi scendere dalle nubi, credé che io fossi un gran mago. Naturalmente io non cercai di dissuaderli, vedendo che avevano grande paura di me, e io promisi loro, invece, di far tutto quello che 8 essi avrebbero desiderato” (Ivi, p. 147) . Il significato del romanzo è evidente: bisogna fare appello alle capacità individuali attraverso un percorso comune. 8 L‟essere intrappolato in un ruolo che non è il proprio è una situazione che può verificarsi nella vita di ogni giorno e dare corso ad equivoci duraturi. Ellenberger (1976, p. 11) racconta di uno studioso che era andato ad osservare l‟arte degli stregoni divenendo in seguito sciamano pur essendo partito da presupposti che negavano ogni fondo di verità alla stregoneria. Questo autore così conclude: “D‟altra parte, Quaselid riferisce i propri successi senza evidentemente ricordare di aver incominciato 102 102 3. Psicoterapia, scienza e ideologia Come ho accennato, Il paese degli smeraldi si serve del discorso sulla vicenda, che considera marginale, dell‟ac per proporre una serie di questioni generali, in particolare quelle riguardanti il rapporto tra psicoterapia, scienza e ideologia e quelle riguardanti gli aspetti sociali della psicoterapia. In questo paragrafo mi soffermo sulla prima questione e nel successivo sull‟altra. In generale, l‟evidenza scientifica di una psicoterapia dovrebbe prevedere la somministrazione di un dato trattamento psicoterapeutico a un gruppo sperimentale di pazienti con stessa diagnosi, attuando un confronto con un gruppo di controllo nonché la verifica, a parità di condizioni, con altra terapia mirante alle medesime finalità. L‟evidenza scientifica in psicoterapia si fonda sul superamento di specifiche prove d‟efficacia attraverso un insieme di procedure basate sull‟EPB (Evidence Based Psychology cioè Psicologia Basata sull’Evidenza). In generale è opportuno: 1) partire da un‟attenta selezione di casi clinici secondo un campionamento casuale, 2) effettuare uno studio differenziale con “gruppi di controllo”, 3) riscontrare che il risultato di ogni procedura psicoterapeutica non sia legato al caso o ad un effetto placebo, 4) controllare 9 gli effetti soggettivi inerenti all‟interpretazione dei risultati . Michielin (2003, p.17) ritiene che l‟efficacia, fondata sull‟EPB, deve essere sottoposta a un confronto con le relative rassegne scientifiche e a un‟attenta meta-analisi. Lo studio delle rassegne scientifiche cerca di evidenziare da svariati punti di vista un particolare tema mettendone in risalto le diversità e le affinità. La meta-analisi, invece, individua i metodi statistici adoperati, vale a dire le forme di stima di gruppi omogenei nonché le standardizzazioni di procedure di ricerche differenziate. Il predetto autore (2003, pp.18-19) ritiene anche che vi sono importanti difficoltà nell‟applicazione dell‟EPB tra cui: 1) le caratteristiche della personalità del terapeuta che incidono in maniera differente sugli stessi risultati; 2) i cambiamenti nel tempo degli interventi; 3) la problematicità ad impiegare la carriera con l‟intenzione di smascherare quei trucchi che adesso applica egli stesso, e con molta fortuna.” 9 Riporto quanto già ho rilevato in un‟analisi specifica dell‟evidenza in psicoterapia nel mio lavoro del 2004 Nuove frontiere in psicoterapia ipnotica. La prospettiva fenomenologico-esistenziale. Si veda in particolare P. MICHIELIN , Prove di efficacia e linee guida per i trattamenti psicologici e le psicoterapie, „‟Psicopuglia‟‟ n.16, 2003, pp.17-28 103 103 una metodologia fondata sulla “cecità” che concerne la validazione dei risultati di una psicoterapia occultando il metodo impiegato, i pazienti e gli stessi valutatori. Lo stesso Michielin (2003, pp.18-20) ritiene infine che la valutazione dell‟efficacia delle psicoterapie deve tener conto: 1) del confronto dei risultati in gruppi di pazienti; 2) della confrontabilità dei gruppi con caratteristiche simili; 3) della confrontabilità delle rilevazioni basate su strumenti oggettivi; 4) della rilevanza dei risultati in quanto riferiti alla qualità della vita del paziente; 5) dell‟ accuratezza del follow-up; 6) della completezza della descrizione dei risultati; 7) di una sufficiente analisi statistica dei risultati. Attualmente molti procedimenti psicoterapeutici non hanno i necessari riscontri con tali metodi poiché l‟orientamento fondato sull‟EPB si va diffondendo, specialmente in Italia, solo in questi ultimi anni. Nella realtà attuale abbiamo due gruppi di psicoterapie: il primo, di matrice psicodinamica (psicoanalitica) o umanistico-esistenziale, non ha ancora sufficienti studi che dimostrino l‟evidenza scientifica, soprattutto per la difficoltà di provare sperimentalmente l‟efficacia di procedimenti interpretativi in cui prevale l‟aspetto soggettivo del terapeuta; il secondo gruppo comprende psicoterapie di ordine cognitivo, comportamentale e relazionale, in cui invece si diffonde sempre più la pratica dell‟EPB. È evidente che le psicoterapie del primo gruppo tendono a basarsi 10 sull‟autoreferenzialità . Le psicoterapie fondate sulla “teoria della nascita” possono essere inquadrate nel primo gruppo e quindi è più difficile ritrovarne l‟evidenza scientifica sia sperimentale che clinica. I curatori de Il paese degli smeraldi sostengono che l‟ac “ha con crescente determinazione eluso ogni confronto critico, accentuando il proprio arroccamento in un‟autoreferenzialità” (Ivi, p. 10). Essi sottolineano pure che la teoria della nascita non si è mai costituita come “scienza normale”, alla 10 L‟autoreferenzialità può essere rapportata a sistemi autoreferenziali o autoricorsivi (autoregolazione, auto-organizzazione, immagine di se stessi) come evidenziato da P. Watzlawick, J. H. Beavin, Don D. Jackson (1971). In filosofia, l‟autoreferenzialità si riferisce: 1) alla problematica della riflessione su cui si fonda la coscienza; 2) all‟ermeneutica in quanto nello studio della storia, dell‟essere e del linguaggio vi è sempre un momento autoreferenziale dal quale si sviluppa il “circolo della comprensione”; 3) alla logica e allo studio del linguaggio e cioè ai paradossi dove si sono sviluppati due orientamenti: a) il primo basato sul principio “antifondazione” secondo cui non sono ammessi insiemi che comprendano se stessi, b) il secondo si fonda su una teoria circolare della verità basata sull‟autoreferenzialità costitutiva del predicato “vero”. In psicoterapia l‟autoreferenzialità si esprime con la mancanza di studi sul piano delle evidenze sperimentali e cliniche. 104 104 11 maniera intesa da Khun (1969) , né la comunità scientifica né la comunità sociale avendo mai riconosciuto che essa fornisse un nuovo paradigma; e che quest‟atteggiamento di chiusura ha favorito un andamento autoreferenziale del percorso fagioliano (Ivi, p. 152). Il riconoscimento è autoreferenziale quindi non solo per la mancanza di verifiche, ma soprattutto perché il paradigma è riconosciuto valido da un ristrettissimo gruppo cementato da un coinvolgimento emotivo. In altre parole, le enunciazioni teoriche non hanno trovato condivisione nella comunità scientifica. Per esempio il libro che contiene le principali “scoperte” di Fagioli (1972), anziché avere i riscontri da tale comunità, in termini sperimentali e clinici, li ha avuti (autoreferenzialmente) dalle enunciazioni teoriche nell‟altro suo libro del 1974, seguito dall‟altro del 1975, e così via. La stessa ac ha seguito questa modalità: invece di ricercare il vaglio, attraverso studi sperimentali e clinici, della comunità scientifica, ha riprodotto le sue forme d‟impianto originario. La mancata verifica e l‟autoreferenzialità della “teoria della nascita” fanno di essa una sorta di ideologia. L‟aspetto autoreferenziale e quello ideologico, nell‟opera di Fagioli, rappresentano così due facce della stessa medaglia. In particolare non è necessario che una “credenza” sia valida o meno, oggettiva o soggettiva, realizzabile o irrealizzabile, ciò che è importante per l‟ideologia è la capacità della stessa credenza di controllare i comportamenti in un contesto specifico. Di conseguenza l‟ideologia è un sistema di idee, una visione del mondo, impregnati di dogmatismo, dottrinarismo ed estremismo dove dominano gli aspetti emotivi e irrazionali. Si può asserire quindi che l‟ideologia, specialmente nelle forme riduttive o estreme, può fuorviare i processi critici, in ogni forma di conoscenza, in quanto li condiziona negativamente con comportamenti emotivi. Gli aspetti autoreferenziale e ideologico, spesso complementari, possono fuorviare il setting psicoterapeutico, connotandolo talora come uno 12 spazio manicomiale “a tempo” in cui vengono agite le dinamiche della follia . 11 Secondo Khun, un “paradigma” ne sostituisce un altro per risolvere le irregolarità o i limiti di quest‟ultimo ponendosi come nuovo “paradigma” che viene così accettato dalla comunità scientifica; naturalmente anche il nuovo “paradigma” può essere sostituito da un altro per le anomalie che nel tempo può produrre e così via. Peraltro il rafforzamento di un determinato paradigma, nato dalla ricerca, avviene anche per una sorta di consolidamento sociale ed istituzionale. Si veda (Khun1969 e Abbagnano 2006, p. 22). 12 Una testimonianza ne Il paese degli smeraldi (p. 27) evoca il senso ideologico: “Ho vissuto tutte le tappe: la disperazione precedente l‟incontro con lo psicoterapeuta, la diffidenza, il trasporto entusiasta […], il rifiuto dei genitori e amici trasformatosi ben presto in violenza, l‟odio e la paranoia, […] l‟allontanamento”. Il significato ideologico 105 105 Dal discorso fatto sinora emerge che una psicoterapia dà garanzie se vi è una verifica o riscontro da parte della comunità scientifica dove siano condivisi linee teoriche e procedure concrete. In altre parole, un buon procedimento psicoterapeutico deve essere caratterizzato da evidenza scientifica sperimentale e clinica. L‟evidenza scientifica, peraltro, elimina la segretezza e quindi mette al riparo da ogni forma di settarismo o autoreferenzialità. La comunità scientifica infatti si situa all‟interno di un contesto sociale e culturale anche di carattere internazionale includendo la possibilità di dibattiti pubblici a diversi livelli. Il libro stimola una domanda tanto semplice nella formulazione quanto complessa nella risposta: allo stato dell‟arte attuale può la psicoterapia, in quanto settore della psicologia, avere riscontri sul piano dell‟evidenza scientifica? La psicologia, a cui si rifanno i diversi metodi psicoterapeutici, stenta ad avere uno statuto scientifico. Essa si caratterizza, per certi versi, come una “protoscienza”. Attualmente la psicologia è caratterizzata da almeno sei linee di tendenza o di ricerca che, secondo Mecacci (1999, pp. VIII-IX), si identificano con la linea fenomenologica, psicodinamica, comportamentistica, cognitivistica, storico-culturale e biologica, ciascuna delle quali ha proprie metodologie, assunti teorici, specifici campi d‟azione e aree d‟indagine. Di conseguenza, sempre per Mecacci, la psicologia moderna è caratterizzata dalla convivenza di vari orientamenti senza che vi sia ancora una condivisione degli assunti di base che è una condizione necessaria perché essa acquisisca statuto scientifico. Egli pertanto ritiene (Ivi, p. X) che la psicologia abbia le caratteristiche di una “scienza dello spirito”, cioè di “un‟ermeneutica e di una narrazione” del mondo psichico, per cui “anche le prospettive naturalistiche e sperimentali non sarebbero che uno dei tanti e vari modi di studiare la psiche umana”. In altre parole, la nascita della psicologia come scienza, su basi sperimentali, così come è successo 13 per le altre scienze, è ancora lontana . è segnalato pure da A. Seta: “L‟ac non è un luogo di contenimento di patologie psichiatriche, la patologia psichiatrica non vi ha (e forse non vi ha mai avuto) cittadinanza. Il punto è invece quello del fenomeno o gruppo carismatico. Un punto importante, questo, per cui persone altrimenti definibili sane entrano in un sistema tolemaico e su certi argomenti, certe aree, si rivelano di fatto non disponibili al confronto”. La stessa psichiatra continua affermando che nell‟ ac “nessuno è malato, ma si crea un meccanismo che può far star male gli altri, quelli fuori dal gruppo. Mentre per chi sta dentro è garanzia di stabilità” (p. 119). 13 Armando (1986), a tal proposito, attraverso una dettagliata analisi storica, evidenzia come la psicologia, intesa come scienza, sia un‟ invenzione. 106 106 Alla luce di tali considerazioni, lo studio delle evidenze scientifiche dovrebbe essere ricercato in coerenza con la linea o prospettiva a cui si riferisce il ricercatore. Per esempio questi, se si muove nell‟ambito della psicoanalisi (o psicologia dinamica), non può ricercare l‟evidenza con i metodi sperimentali poiché il loro uso fuorvierebbe la stessa natura della ricerca; analogo discorso vale per i comportamentisti, i cognitivisti, relazionali, ecc. proprio per la specificità dei campi d‟indagine: l‟inconscio, il 14 comportamento, gli aspetti cognitivi, le relazioni e così via . L‟elaborazione invece concettuale (o l‟impianto teorico), cioè la manipolazione di essenze, dovrebbe essere ricercata con una metodologia ispirata dalla fenomenologia che è specificatamente orientata verso questo tipo di ricerche. Questo potrebbe essere un modo transitorio per ricercare l‟evidenza scientifica, senza naturalmente escludere quella che attualmente viene praticata su base sperimentale che tuttavia non può essere l‟unica. La “teoria della nascita” e l‟ac non sembrano rapportabili a nessuna di queste linee di ricerca; di conseguenza il loro riscontro di evidenza scientifica resta problematico. 4. Psicoterapia e aspetti sociali Per quanto riguarda i rapporti tra psicoterapia e aspetti sociali nonché politici (un tema centrale nel libro), si può partire dalla distinzione proposta da Jervis (1975, p. 389) tra psicoterapia in senso lato, e psicoterapia in senso stretto. In quest‟ultimo senso si parla di psicoterapia professionale secondo criteri accreditati da un punto di vista scientifico (psicoterapia con evidenza scientifica). Nel primo senso, secondo Jervis (Ivi, p. 390), si tratta di qualcosa di semplice che “rappresenta il grado zero” poiché è “l‟aiuto dato, quasi senza saperlo, da una persona qualsiasi, da un amico, da un‟amica, da un portinaio o dal barista. A volte si tratta di persone disposte ad ascoltare e capaci di reagire con buon senso”. Tuttavia, al fine di evitare equivoci, qualsiasi forma di psicoterapia deve essere utilizzata necessariamente da professionisti, appositamente formati, in riferimento a un 15 ordinamento giuridico . L‟ac, nei suoi primi anni, ha svolto probabilmente una funzione psicoterapeutica in senso lato. 14 Ho sviluppato tale argomento, in “Esistenze artificiali ed addictions” (2008). La difficoltà, nella validazione sperimentale delle psicoterapie, proviene anche dal tipo di psicoterapia stessa che si prende in considerazione. 15 Resta inteso che la psicoterapia (come pure la professione di psicologo) può essere esercitata, nella nostra normativa nazionale, solo dagli iscritti al relativo Ordine e Albo professionale (L. n. 56 del 1989). In definitiva la psicoterapia in senso lato si 107 107 La distinzione tra psicoterapia in senso lato e in senso stretto sottende però la presenza di un filo sottile che le unisce e che può spiegare la complessità dei trattamenti di cura psicologica. Questo legame può spiegare anche l‟interesse sociale verso la psicoterapia stessa e le sue deviazioni. Inoltre nel momento in cui si apre la finestra che tiene unite psicoterapia professionale e forme di aiuto varie (o di sostegno morale o di solidarietà), possono transitare elementi ideologici, connessi a una determinata dimensione politica, anche nelle psicoterapie professionali caratterizzate da evidenza scientifica. Quindi anche attraverso i trattamenti terapeutici con psicoterapie accreditate vi può essere una commistione con aspetti autoreferenziali e ideologici che lo psicoterapeuta, talora in modo inconsapevole, può far passare alterando così il processo psicoterapeutico stesso e trasformando il setting di cura in qualcosa d‟altro. Il paese degli smeraldi evidenzia bene questo aspetto attraverso numerosi racconti e testimonianze che mettono in risalto gli aspetti ideologici. Inoltre la psicoterapia stessa, nel momento in cui non è depurata da questi aspetti, potrebbe essere veicolo di stabilizzazione, 16 destabilizzazione o di trasformazione di determinate visioni politiche . Il paese degli smeraldi quindi può ancor più stimolare ricerche sull‟evidenza scientifica delle psicoterapie, specialmente quelle che direttamente o indirettamente sono rinforzate da visioni ideologiche tendenti ad affermare determinati modelli politici della società. Per esempio, uno psicoterapeuta professionista, nel momento in cui tinge una psicoterapia con un determinato colore politico o credo religioso, tende ad andare oltre il suo mandato professionale. È una questione etica, ma non solo. Vi è in gioco il rapporto, in generale, tra scienza e filosofia. E la psicoterapia (e con essa la psicologia in quanto disciplina empirica) non può sottrarvisi. Le testimonianze, evidenziate nel libro, pur connotate da una pregnante differenzia da quella professionale giacché riguarda proprio l‟aiuto dato alle persone attraverso una capacità empatica che alcuni individui posseggono naturalmente, o tramite il sostegno morale o ancora il rapporto di amicizia, comprese le forme di solidarietà. 16 A ciò il libro accenna quando parla dei rapporti tra alcuni movimenti politici come il „68 e l‟ ac. Il discorso si potrebbe allargare sino ai rapporti tra riforme psichiatriche (legge 180/1978) e movimenti politici che, negli anni settanta del secolo scorso, hanno sostenuto tali movimenti con ideologie di tipo conservatore o progressista Si pensi alla critica ideologica delle classi differenziali degli anni Sessanta e Settanta (anteriori alla legge 517/1977), in Italia, che includevano riferimenti ad una visione riformista o marxista, contro una conservatrice o liberale, ecc. 108 108 soggettività, hanno un valore determinante per quanto concerne le 17. connessioni tra psicoterapia in senso lato e psicoterapia professionale 5. Alcune considerazioni conclusive Ho iniziato questo scritto con una breve sintesi dei capitoli del libro curato da Armando e Seta proponendo poi alcune mie considerazioni sul rapporto tra psicoterapia, scienza e ideologia nonché sulle relative implicazioni sociali. Per rendere più chiaro e concreto quanto ho esposto sin qui mi avvarrò del riferimento a due miei lavori, rispettivamente del 1980 e del 18. 2009 Nel primo ho analizzato l‟ultimo capitolo del celebre romanzo La coscienza di Zeno di Svevo, evidenziando quello che può essere definito il punto di vista del paziente in una terapia psicoanalitica, anche se in una forma “romanzata”. Le osservazioni che Svevo, attraverso l‟interposta persona di Zeno, fa in tale capitolo, sono pertinenti. Eccone una: “La mia cura doveva essere finita perché la mia malattia era stata scoperta. Non era altro che quella diagnosticata dal defunto Sofocle sul povero Edipo: avevo 19 amato mia madre e avrei voluto ammazzare mio padre” . Zeno, 17 La psicoterapia professionale, infatti, non è avulsa dalla realtà e ha il suo riferimento nel mondo quotidiano (Lebenswelt) di ognuno di noi dal quale non si può prescindere; nella realtà quotidiana esistono forme di solidarietà, di sostegno morale e di rapporto empatico che ci danno un‟idea generale della psicoterapia stessa. Tale precomprensione facilita la conoscenza della psicoterapia stessa e la rende attuabile. Inoltre le connessioni tra psicoterapia in senso lato e psicoterapia professionale sono rappresentate dai vissuti dei pazienti e dei terapeuti stessi attraverso un‟analisi fenomenologica. Husserl, in La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, evidenzia la differenza tra psicologia nell‟ambito del mondo quotidiano (psicologia ingenua) e psicologia empirica. Secondo tale autore ciò che serve alle discipline psicologiche empiriche, non sottoposte ad epoché, è la costruzione di un proprio essere in sé e per sé accessibile tramite la “percezione interna” all‟“io” riflettente; in altre parole la psicologia fenomenologica tiene presente il mondo “prescientifico già dato” che rappresenta il depositario di tutte le ovvietà peraltro indispensabili alle scienze obiettive (p. 236). Naturalmente la psicoterapia in senso lato come è stata specificata si pone nel mondo prescientifico. 18 F. TARANTINO, “La critica di Svevo a S. Freud”, in Folia neuropsychiatrica, XXIII, 1980, fascicolo I-IV. F. Tarantino “La psicoterapia ipnotica nella prospettiva fenomenologico-esistenziale”, PsicoPuglia, n. 11, 2009. 19 I. Svevo 1938, p.444. Il romanzo fa anche riferimento agli aspetti autoreferenziali o ideologici della psicoanalisi, per esempio: “Non debbo costringermi ad una fede né ho da simulare di averla. Proprio per celare meglio il mio pensiero, credevo di dimostrargli un ossequio e lui se ne approfittava per inventarne ogni giorno di nuove” (p. 444). 109 109 protagonista del capolavoro di Svevo, spera con la psicoanalisi di cominciare una nuova vita, ma ben presto si ricrede ed emette un giudizio alquanto negativo. Un merito de Il paese degli smeraldi può essere scorto nel fatto che esso si situa nella linea della riflessione critica sulla psicoterapia inaugurata dal romanzo di Svevo. Al pari del racconto e della testimonianza sulla propria esperienza dell‟analisi che questi propone attraverso Zeno, anche i racconti e le testimonianze raccolti ne Il paese degli smeraldi mancano di verifica oggettiva sotto il profilo sperimentale e clinico; tuttavia, proprio il fatto che nei due casi non siano i terapeuti a presentare i casi clinici ma i pazienti o ex pazienti esprimendo la propria esperienza, i propri vissuti e la sperimentazione sulla propria pelle della validità o meno dei procedimenti psicoterapeutici, può costituire un punto di partenza per ulteriori studi nel campo della ricerca di evidenze scientifiche in psicoterapia. 20 Nel lavoro del 2009 si è mostrato come la psicoterapia, nella prospettiva feonomenologico-esistenziale, sia rapportabile all‟esserci come cura in quanto chiarisce i rapporti con le dimensioni squisitamente umane; la cura è qualcosa che si dispiega nel tempo, cercando, nel suo divenire, incessantemente l‟essere nella sua autenticità, in quanto già “gettato” in una determinata situazione. Tale lavoro, che è una sintesi di miei precedenti 21 studi , sviluppa in modo particolare alcune tematiche di Heidegger (1970, 2006), trattate in Essere e Tempo e nella sua opera postuma Contributi alla filosofia (dall‟evento). Naturalmente l‟“esserci come cura” non riguarda in senso stretto un determinato procedimento psicoterapeutico, ma il prendersi cura di se stessi (l‟esserci) e dell‟Altro, cioè il prendersi cura reciproco. In altre parole l “esserci” si caratterizza appunto come un “prendersi cura”, in un processo formativo personale, in cui l‟incontro con l‟altro è determinante. L‟approccio fenomenologico è importante perché può limitare gli aspetti fuorvianti dell‟autoreferenzialità (o ideologici) che possono transitare nello svolgimento dei trattamenti psicologici, pure in maniera indiretta, alterando, sotto la parvenza di scientificità, il normale processo psicoterapeutico. Qui la riflessione attraverso la fenomenologia, soprattutto in relazione alla sistematizzazione di concetti derivanti dai dati empirici o di fatto, può arrecare un contributo specifico proprio laddove non è possibile trattare con i 20 Ho sviluppato in modo particolare questi tempi nel primo capitolo del mio volume Nuove Frontiere in psicoterapia ipnotica. La prospettiva fenomenologico- esistenziale, Amisi, Milano, 2004. 21 In particolare mi riferisco ai miei volumi: Tossicomanie ed esistenza. Aspetti psicologici e psicoterapeutici, Capone, Cavallino di Lecce, 1995 e Nuove Frontiere in psicoterapia ipnotica. La prospettiva fenomenologico- esistenziale, Amisi, Milano, 2004. 110 110 metodi sperimentali (oggettivi) gli aspetti della realtà interiore, cioè lo psichismo nelle sue variegate dimensioni. D‟altro canto, l‟approccio fenomenologico può dare un apporto nella ricerca delle evidenze scientifiche in psicoterapia proprio per la peculiarità del suo metodo che permette di cogliere i vissuti (e quindi le soggettività). Questi difficilmente possono essere studiati con i metodi psicologici sperimentali. La fenomenologia, poiché permette una forma di conoscenza basata sulla sospensione del nostro atteggiamento naturale o dei nostri giudizi sul mondo esterno (epoché), può depurare dall‟autoreferenzialità i rapporti umani e quelli psicoterapeutici. In termini psicodinamici, non mi riferisco solo al transfert e al controtransfert, o al contenimento dei meccanismi di identificazione introiettiva e proiettiva, ma a qualcosa di più ampio. Mi riferisco ad un abito mentale, o ad uno stile di vita, che lo psicoterapeuta deve adottare, per limitare gli aspetti negativi dell‟autoreferenzialità, nella pratica professionale. Calvi (2005) ritiene che l‟epochè sia un metodo importante non solo nella psicoterapia fenomenologica ma in ogni forma di psicoterapia nel 22 momento in cui prende in esame i vissuti del paziente . La psicoterapia dunque non può in generale fare a meno dell‟approccio fenomenologico che permette indagini particolari sui vissuti o sul rapporto empatico tra terapeuta e paziente, dove i metodi sperimentali o tradizionali della psicologia incontrano seri limiti. A tal proposito sono molti gli autori sia a livello internazionale, come Binswanger (1964), Jaspers (1965) e May (1977), sia a livello nazionale, come Cargnello (1967), Callieri (1980,2001) e lo stesso Calvi (2005) che hanno messo in evidenza l‟importanza dell‟approccio fenomenologico ed esistenziale in psicopatologia e in psicoterapia. Callieri (2004) inoltre, in una postfazione ad un mio volume del 23 2004 , ha messo in risalto l‟utilità dell‟approccio fenomenologico in Psicoterapia attraverso opportuni riferimenti a Schapp e all‟analisi narrativa. La psicoterapia stessa secondo tale autore (Callieri, 2000, p.15) è una variante del colloquio narrativo. Per questo motivo mi sono soffermato in modo particolareggiato sull‟analisi narrativa del racconto di Baum da cui è tratto il titolo del libro curato da Armando e Seta. In particolare i vissuti che appaiono nei post raccolti ne Il paese degli smeraldi, possono assumere un rilevante significato se analizzati 22 Ho messo in risalto l‟importanza dell‟epochè in un lavoro dedicato alla gruppoanalisi dell‟esserci del Di Petta (si veda F. TARANTINO, Di Petta e la gruppoanalisi dell’esserci nella cura delle tossicomanie: la prospettiva fenomenologica ad “alzo zero”, “Comprendre. Archive International pour l‟Anthropologie et la Psychopatyologie Phénomènologiques”, n.15,2005). 23 B. CALLIERI, “Postfazione”, in F. Tarantino, Nuove Frontiere in psicoterapia ipnotica. La prospettiva fenomenologico- esistenziale, Amisi, Milano, 2004. 111 111 proprio alla luce di un‟analisi narrativa data dal filosofo Schapp. Questo autore inverte il primato della percezione husserliana della cosa per dare importanza alla storia, poiché la cosa al di fuori della storia non sarebbe niente; in altri termini “nell‟uomo la storia prende il posto della percezione” (citato da Callieri, 2000, p.12). In altre parole vi è un legame stretto tra come le persone si impigliano nelle loro storie (autoimpigliamemto) e la connessione con le storie degli altri in un intreccio molto complicato. Lo stesso Invitto (2002, p.23) valorizza la funzione della storia nello sviluppo del pensiero umano mettendo in risalto come l‟ultimo Husserl non valutasse più “l‟essenza fuori del fatto, l‟eternità fuori del tempo e il pensiero filosofico fuori dalla storia”. L‟analisi dei vissuti dei post de Il paese degli smeraldi mette in evidenza proprio questo intreccio (o invischiamento) tra le storie personali (peraltro succedutesi nel tempo) e le storie delle altre persone che hanno condiviso il percorso dell‟ ac nonché di quelle che se ne sono allontanate. L‟analisi dei vissuti dei post, sia pure nella loro estrema diversità o opposizione, inoltre mette in evidenza modalità esistenziali peculiari dei partecipanti all‟ac in cui la possibilità di essere, in una forma diversa (o nuova), prende il sopravvento sull‟essere concepito come semplice presenza. L‟esistenza, concepita come semplice presenza o possibilità di 24 essere, è stata trattata in modo particolare da Longhi (1993) nella sua importante opera Il segno psicopatologico. La possibilità di essere, insieme al significato delle cose stesse, può essere colta anche nei vissuti (Erlebnisse) personali naturalmente dopo che sono stati depurati attraverso l‟azione riflessiva dell‟epochè. Il senso dunque che emerge dal libro curato da Armando e Seta, attraverso l‟analisi dei vissuti manifestati nei “post”, è rapportabile agli aspetti scientifici ed etici della psicoterapia che peraltro sono tematiche attuali ed importantissime. Per quanto riguarda la questione dello statuto scientifico della psicoterapia ho messo in risalto, in più occasioni, come questa, per evitare le distorsioni dell‟autoreferenzialità e dell‟ ideologismo, debba rapportarsi alle evidenze scientifiche all‟interno della comunità scientifica stessa e del suo contesto storico e sociale. Qui può essere utile la riflessione di Heidegger (1999, p.76) secondo cui “le scienze dello spirito e anche le scienze che si occupano degli esseri viventi, debbono necessariamente essere inesatte per poter restare rigorose”. La fenomenologia, con il suo metodo dell‟epochè, offre un 24 L. LONGHI, Il segno psicopatologico, Capone, Cavallino di Lecce, 1993. Tale autore si muove sulla scia tracciata, in Essere e Tempo, da Heidegger (1970. p.70) secondo il quale l‟ “essenziale non sta nel reale, più in alto si trova la possibilità”. 112 112 contributo peculiare nella ricerca delle evidenze scientifiche tenendo sotto controllo gli aspetti fuorvianti legati all‟autoreferenzialità e all‟ideologismo, che rappresentano delle “variabili” dal difficile controllo sperimentale o clinico. In questa direzione, allora, Il paese degli smeraldi, attraverso i suoi dati grezzi, riferiti ai vissuti agiti nel mondo quotidiano della vita (Lebenswelt) di coloro i quali hanno interagito con l‟ac, offre un contributo soprattutto nelle fasi preliminari nella ricerca sperimentale e clinica delle evidenze scientifiche in psicoterapia. Per quanto riguarda gli aspetti etici della psicoterapia, vale la riflessione di Husserl (1961, pp. 287-289) secondo la quale la scienza “essendo la funzione necessariamente più alta dell‟umanità”, favorisce un “auto comprensione ultima dell‟uomo come essere responsabile del suo essere umano” Queste breve considerazioni ed accenni ad importanti temi psicopatologici e psicoterapeutici ad orientamento fenomenologico ci portano a precisare meglio il contributo che il lavoro di Armando e Seta può offrire. Il paese degli smeraldi, in definitiva offre un insieme di dati interessanti, da analizzare con l‟approccio fenomenologico-esistenziale tenendo presenti ovviamente i principali contributi in campo nazionale ed internazionale. Naturalmente ciò richiede uno specifico lavoro differente, ma senza soluzione di continuità, con quello effettuato in questo scritto che pertanto ha le caratteristiche di un‟analisi fenomenologica propedeutica. Lo scopo di questo mio lavoro infatti, come ho accennato nella premessa, è finalizzato a porre alcune considerazioni sul problema del rapporto tra psicoterapia, scienza e ideologia nonché sulle relative implicazioni sociali. Riferimenti bibliografici AGOSTINO D‟IPPONA. Le confessioni, Ed. Paoline, Milano, 1987. AMMANITI M.: ANTONUCCI, F., JACCARINO, B., Appunti di Psicopatologia, Bulzoni, Roma, 1975. ARENDT H., HEIDEGGER M.:(Briefe 1925 bis 1975. Unde andere Zeugnisse). Trad. it.: Lettere 1925-1975, Edizioni di Comunità, Torino, 1998. ARMANDO L. 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Honneth, Capitalismo e riconoscimento, trad. it. di Marco Solinas, Firenze, Firenze University Press 2010, che è una raccolta di saggi di Honneth, per la prima volta tradotti in italiano e riuniti dal curatore sotto il titolo di Capitalismo e riconoscimento, è proprio quello di non disperdere il potenziale critico della teoria del riconoscimento. Nel testo, nonostante la sua discontinuità, sono riconoscibili due direttrici: da un lato l‟autore si misura ripetutamente con il compito di giungere ad una definizione sufficientemente precisa del concetto, tale da sfuggire al rischio di un suo uso improprio (capitoli I, II e V); dall‟altro si impegna nell‟analisi del determinato rapporto tra socializzazione ed individualizzazione, tra riproduzione sociale e formazione dell‟identità individuale che viene a crearsi nell‟epoca del “capitalismo reticolare” (III e IV capitolo). Il titolo scelto privilegia questa seconda linea di riflessioni e da essa partiremo. Nei capitoli III (“Autorealizzazione organizzata. Paradossi della individualizzazione” ) e IV (“Paradossi del capitalismo”, scritto insieme a Martin Hartmann) Axel Honneth spinge a fondo l‟analisi sociologica delle contraddizioni indotte dal neoliberismo sulla vita individuale attraverso lo strumento del paradosso, mostrando che le contraddizioni di origine economica, traslate nelle sfere non economiche, si rovesciano in esiti paradossali sul processo di autorealizzazione. La tesi fondamentale del libro consiste nell‟affermare che l‟individualizzazione ha perduto quel carattere di crescita dell‟autonomia che aveva nel passato, grazie al quale aveva assunto anche un valore critico verso l‟ordine costituito, ma si sta rovesciando in un sistema istituzionalizzato di attese che, da un lato, alimenta il mercato e, dall‟altro, genera un senso di vuoto interiore e di inutilità personale. L‟analisi procede tenendo come riferimento la fenomenologia dell‟individualizzazione descritta da Georg Simmel (Individualismus, 1917), secondo cui questo processo era accompagnato da una crescente differenziazione dei percorsi di vita, da un sempre maggiore isolamento degli attori sociali, dall‟aumento delle facoltà riflessive e dalla crescita dell‟autenticità dei singoli. Se non c‟è dubbio che il fondamento su cui è cresciuta, nella “età socialdemocratica”, la conquista dell‟autonomia è stata la soddisfazione dei bisogni materiali, è * Docente di Filosofia e Storia. 117 RESOCONTI FORME DEL RICONOSCIMENTO E TEORIA CRITICA. A PROPOSITO DI AXEL HONNETH * di Roberto Pettenati 117 anche vero che questa tendenza ha assunto oggi un valore diverso, come se fosse necessario per l‟individuo compensare attraverso l‟acquisto compulsivo di beni di consumo una carenza di modelli culturali e significati alternativi che dovrebbero far parte del mondo della vita. La soddisfazione dei bisogni materiali è stato anche il terreno preferito del consumismo, sul quale il mercato ha continuato ad agire creando le nuove dipendenze dal superfluo, da prodotti che sono in grado di restituire una qualche gioia di vivere a persone che l‟hanno perduta. Il sogno romantico di costruire la propria biografia come un percorso sperimentale di autorealizzazione si è trasformato in quell‟individualismo edonistico che è oggi uno dei fattori principali per orientare il mercato e la produzione. La ricerca di uno stile di vita inconfondibile (l‟aspirazione romantica) ha innescato una spirale tra stili di vita originali e offerte pubblicitarie che li sfruttano, riproponendoli come modelli apprezzati socialmente e quindi persuasivi a livello subliminale, specie per le giovani generazioni. La ricerca della autorealizzazione individuale viene sfruttata come l‟ultima e la più efficace forza produttiva poiché lega a sé direttamente i soggetti nella fase della loro formazione, quindi senza che possano disporre di una coscienza critica di fronte a modelli contraffatti: l‟emancipazione individuale che in passato era una conquista, o comunque una richiesta interna, del soggetto diventa oggi una richiesta esterna, un obbligo che genera a sua volta forme di disagio di fronte alla fatica di essere originali ad ogni costo. L‟ampliamento degli orizzonti esistenziali in cui sperimentare se stessi, che si può anche descrivere come sradicamento, sta sicuramente all‟origine dell‟acutizzarsi delle crisi adolescenziali. La paradossalità della situazione consiste nel rovesciamento degli ideali in obblighi e nella fine di ogni individualismo autentico proprio nell‟epoca che ne fa la sua bandiera: esito paradossale generato dal fatto che la lotta per il riconoscimento delle individualità avviene sullo sfondo delle trasformazioni indotte dalla rivoluzione neoliberale. Lo spirito del neocapitalismo, infatti, vuole l‟anima del lavoratore, cioè la condivisione degli obiettivi e la dedizione personale ad essi, secondo dinamiche già sperimentate dalla manipolazione totalitaria delle masse. Lungo questa strada si perdono i confini tra sfera pubblico-professionale e sfera privata: l‟individualizzazione creata dal neoliberismo è connotata da una richiesta di totale flessibilità della vita privata rispetto alle esigenze dell‟impresa e degli investimenti in cui è impegnata, addirittura da una richiesta di creatività nel senso di dover mobilitare tutte le energie di cui si è dotati per scovare nuove soluzioni; il dipendente deve avere un completo coinvolgimento emotivo e motivazionale verso gli obiettivi dell‟impresa sacrificando ogni altra dimensione di sé. 118 118 Senza seguire tutti passaggi del discorso, ci trasferiamo sul piano categoriale per delineare rapidamente le principali questioni affrontate. All‟inizio del volume è posto il saggio “Riconoscimento e riproduzione sociale” in cui Honneth affronta il nodo del rapporto tra conflitti redistributivi e conflitti identitari secondo la distinzione operata da Nancy Fraser per cui alla fase delle lotte per il controllo dei beni e dei mezzi di produzione sarebbe subentrata una serie di conflitti di natura diversa, quella per l‟affermazione dell‟identità di gruppi e/o movimenti; il legame tra i primi e i secondi risulta così scisso in modo da rendere i conflitti per il riconoscimento un fatto essenzialmente culturale, generato da differenze di valori, rispetto alle lotte secolari dei lavoratori e dei popoli del Terzo Mondo. Honneth rifiuta decisamente questa distinzione netta: storicamente i movimenti di liberazione coloniale e dei lavoratori erano sia lotte per il controllo delle risorse sia affermazione della volontà di costituirsi come soggetti politici indipendenti. Infatti le rivendicazioni ad una maggiore giustizia sociale nascono tanto dalle implicazioni normative dell‟uguaglianza di diritto (ai membri di uno stato democratico viene promesso un trattamento egualitario) quanto dall‟idea che ogni individuo, in una società democratica, debba avere la possibilità di essere stimato socialmente per le sue prestazioni. Le regole sociali della redistribuzione non possono essere ricondotte semplicemente ai rapporti di produzione: in realtà “sono sempre delle lotte simboliche sulla legittimità del dispositivo socio-culturale che fissa il valore di occupazioni, qualità e contributi sociali. Ne consegue che la lotta redistributiva stessa, di contro a quanto sostenuto da Nancy Fraser, è sempre ancorata ad una lotta per il riconoscimento” (p.18). Chiarito che le lotte per il controllo delle risorse rientrano pienamente nella categoria di conflitti per il riconoscimento, Honneth affronta, nel secondo saggio (“Lavoro e riconoscimento”), il limite più evidente delle versioni in chiave puramente identitaria-culturale della teoria, vale a dire la rinuncia a difendere una qualsiasi concezione emancipativa ed umanizzante del lavoro; lavoro che nell‟epoca moderna è sempre stato il medium fondamentale dell‟integrazione e dei diritti. La teoria critica della società vive oggi una grande difficoltà ad affrontare gli sviluppi attuali del sistema di produzione e la posizione determinata che gli uomini vanno ad occupare al suo interno: “la distanza tra le esperienze del mondo della vita sociale e i temi della riflessione negli studi sociali verosimilmente non è mai stata tanto ampia quanto oggi: mentre in questi ultimi il concetto di lavoro sociale non riveste più un significato prioritario, attorno ad esso ruotano invece, ancor più che in passato, le necessità, le paure, le speranze dei soggetti interessati” (p. 20). Né per Honneth vale rifugiarsi in una critica esterna al mercato globale, magari ispirandosi alle riflessioni di Richard Sennett in The Craftsman (2008, trad. it. 119 119 L’uomo artigiano, Feltrinelli): anche riconoscendo il valore del recupero dell‟attività manuale per la formazione umana, la debolezza di queste posizioni sta nel fatto che l‟arte e l‟artigianato oggi sono marginali per la riproduzione sociale. Occorre piuttosto sviluppare la „critica immanente‟ al sistema economico, richiamandosi a quelle norme morali che sono implicite nello scambio sociale di prestazioni e mostrare così gli aspetti paradossali del mercato rispetto al tema dell‟autorealizzazione individuale. Il mercato e l‟organizzazione del lavoro non possono venir considerati solo nella prospettiva dell‟efficienza economica: in esse si gioca la vita degli individui, in un sistema di aspettative implicite (ad esempio, la legittima pretesa di dare un contributo alla cooperazione sociale e di conquistarsi perciò una autonomia personale); in altri termini deve consentire alle persone di entrare a far parte della cooperazione attraverso cui il sistema si riproduce, e in questa prospettiva emergono le norme morali in esso implicite. Per svolgere questo ruolo di integrazione sociale il mercato deve soddisfare alcune condizioni: anzitutto offrire a tutti la possibilità di un lavoro in grado di garantire l‟autonomia personale; poi fare in modo che gli individui dispongano di un‟occupazione stimata pubblicamente; renderli consapevoli della dignità del proprio contributo al benessere collettivo; rendere trasparente il sistema delle ricompense sulla base dell‟importanza delle funzioni svolte. La critica immanente ci pone così dinanzi alle domande radicali: veramente il mercato è in grado di integrare progressivamente le persone nello scambio sociale? Davvero il capitalismo neoliberista è in grado di garantire ad un numero sempre maggiore di persone la libertà e l‟autorealizzazione? A quale genere di riconoscimento possono aspirare i giovani, dato il carattere strutturale e non più congiunturale, della crisi dell‟occupazione? Nell‟ultimo saggio (“Riconoscimento come ideologia”) Honneth prende spunto da una riflessione di Althusser, formulata peraltro in un contesto discorsivo del tutto diverso, con cui si attribuiva al riconoscimento una funzione ideologica come meccanismo gratificante all‟interno di un sistema: si pone perciò il problema di indicare le condizioni nelle quali la lotta per il riconoscimento mantenga il suo potenziale critico verso le pratiche del dominio e giustifichi normativamente forme di resistenza. La sfida è impegnativa poiché gli individui si muovono sempre all‟interno di un sistema culturale che prevede sempre forme di pubblica valutazione dell‟agire, fondamentali per la costruzione dell‟identità. Come distinguere, anche in epoche passate, le forme ideologiche del riconoscimento da quelle motivate da un‟esigenza morale universalizzabile? Honneth crede di poter individuare alcune condizioni storiche: ad esempio, una forma di riconoscimento è falsa quando la maggior parte dei soggetti coinvolti si ribella apertamente contro di 120 120 essa. Ma può accadere che una forma di riconoscimento possieda una certa credibilità, come avviene quando la rivoluzione neoliberale definisce i lavoratori dipendenti come imprenditori di se stessi, in quanto suggerisce una prospettiva allettante. Tali forme ideologiche però si scontrano con un limite oggettivo, con il loro deficit strutturale: sono impossibilitate a mantenere le promesse. In altre parole si spalanca un abisso tra le forme di riconoscimento promesse e le soddisfazioni realmente ottenute. Il criterio di cui disponiamo è verificare se e quanto le condizioni materiali, istituzionali e giuridiche dei soggetti riconosciuti mutano nel senso desiderato: mentre le forme ideologiche di riconoscimento soddisfano soltanto la condizione di migliorare l‟autostima (per ciò è sufficiente l‟immaginario), ma non quella di cambiamento materiale, le forme autentiche dovrebbero soddisfare sia la condizione di una migliore autostima sia quella di produrre nello stesso tempo una trasformazione reale dei rapporti intersoggettivi. 121 121 CHIARA ZAMBONI E IL PENSIERO IN PRESENZA * di Stefania Macaluso Chiara Zamboni esplicita nell‟introduzione di Pensare in presenza. Conversazioni, luoghi, improvvisazioni (Liguori, Napoli 2009, pp. 185) l‟intento di questa sua pubblicazione: “Ho scritto questo libro perché volevo sapere quali pratiche fossero all‟opera nel ragionare con altri e nel pensare in presenza “. Il testo si presenta come un‟articolata disamina dell‟incontro intersoggettivo che genera pensiero autorevole, condizione che si verifica quando si mette in circolo energia riflessiva in grado di attivare contatti spirituali, di cogliere significati arricchenti. Il ritrovarsi insieme per discutere secondo tali modalità, origina scambio cognitivo, apertura veritativa, confronto creativo, piuttosto che dialettica sofistica, potere della parola, scontro conflittuale. L‟Autrice analizza le peculiarità di questa pratica positiva, cioè incarnata e vissuta, attraverso percorsi trasversali storico-filosofici a partire da incisivi contributi di diversi autori ed autrici sulla relazione dialogica come pratica filosofica. Viene chiarita anche la finalità del discorso ragionato in presenza che consiste nel “dare parola” alle interrogazioni ineludibili del pensare, non per la pretesa di risolvere le questioni ma gli esseri umani, perché “in quanto mancanti e imperfetti, hanno bisogno del discorso di altri esseri umani” (p. 28). La stessa Zamboni ha appreso tale pratica dagli “scambi tra donne in presenza” finalizzati a liberare la forza riflessiva delle donne desiderose di mettere in discussione il “simbolico dominante”, esperienza inaugurata dalla rivoluzione femminista con lo scopo di reinterpretare il pensiero egemone, ed elevata a metodo di lavoro all‟interno della comunità di filosofia femminile di Diotima della quale l‟Autrice fa parte. Docente di Filosofia del linguaggio, Chiara Zamboni, nella prima parte del testo, “Le forme dello spazio vivo di pensiero”, individua nell‟aderenza personale al linguaggio, una peculiarità del genere femminile che fa del pensare in presenza una performance, un mettersi in gioco secondo una reciprocità carica di efficacia creativa del sé e significativa del reale. L‟aderenza del linguaggio all‟essere, la corrispondenza tra la realtà del vivere e la ricerca del senso della vita, la coerenza tra il desiderio di pensiero e il desiderio di verità senza pretesa di possesso, conferiscono autorità alla discussione filosofica che scaturisce dall‟armonia tra l‟io pensante e l‟io biografico nel suo darsi agli altri in modo reale, incarnato, sessuato. Il pensiero in presenza non teme l‟andamento dialogico privo di premesse * Dottore di ricerca di Filosofia. 122 122 apodittiche; è aperto piuttosto al disvelarsi intuitivo della verità all‟intelligenza la quale procede nella sofferta tensione dello stare in paziente attesa pur di fronte allo scacco della contraddizione, all‟ambiguità degli abbozzi intuitivi, all‟impossibilità di trarre dal confronto orale una sintesi definitoria. L‟Autrice avverte che il rischio di un tale scacco è in realtà ciò che dà valore alla discussione perché garantisce l‟originalità e la creatività da “pratiche filosofiche positiviste” che sclerotizzano il pensiero in reiterazioni dommatiche e lo irrigidiscono nella reificazione della realtà. Il pensare in presenza è un “ruminare in silenzio” che apre alla verità implicita, mette in comunicazione spirituale i corpi, accende la possibilità di riconoscere le “parole vere dette da altri”, fa dell‟ascolto un passaggio comunicativo che sprigiona il “potenziale di verità” presente nelle parole ma anche in certi silenzi che penetrano tutto l‟essere al di là delle intelligenze. L‟Autrice analizza vari contesti del dialogo in presenza, mettendo in luce il valore filosofico del linguaggio orale comune, il quale, come il linguaggio di scrittura, sebbene in forme diverse, è dotato di articolazione retorica; inoltre sfata l‟assunto che fa corrispondere la complessità retorica del linguaggio alla comprensione della realtà. Lo scambio orale in presenza viene colto come reciprocità tra i soggetti in dialogo sui temi oggetto di riflessione, una “contrattazione implicita” che può fare a meno della mediazione esplicita del linguaggio. L‟Autrice passa in rassegna le varie figure retoriche del discorso in presenza, per esempio quella dell‟allusione la cui forza evocativa travalica l‟esigenza descrittiva o definitoria, poiché il vissuto concreto della realtà passa attraverso la parola che narra esperienze la cui realtà è comunicata prima che spiegata: la presenza stessa autorizza la narrazione allusiva, frammentaria, efficacemente evocativa. Pensare in presenza secondo le regole dell‟ascolto, dell‟attenzione, della stima e della fiducia reciproche, crea uno scambio comunicativo che va al di là dell‟esplicitazione del pensiero stesso. Il vissuto che comprova tale modalità di “incontro” è quello dell‟empatia il cui concetto l‟Autrice estende oltre quello di “esperienza di un vissuto che è dell‟altro” riferendolo “anche alla capacità di cogliere l‟intenzione significante che guida il discorso dell‟altro” (p. 61). Nei dialoghi platonici Chiara Zamboni indica il modello di retorica della persuasione che qualifica il discutere in presenza quale via filosofica orientata verso la verità, meta di un procedere dialettico che non esaurisce il proprio percorso. Lo stile del persuadere è quello maieutico che presuppone una tensione d‟eros verso la verità, esercizio dell‟arte di dialogare con altri che crea comunità di pensiero. La persuasione è sorgiva quando è aperta all‟incontro fiducioso, quando è pura, libera da ogni ansia di convincimento, aperta al disvelamento a noi dell‟altro e di noi stessi, diversamente dalla 123 123 “falsa persuasione” a cui induce il tecnicismo dell‟argomentare e la retorica formalizzata. A questo proposito la differenza di genere nel propendere verso l‟una o l‟altra forma di “persuasione” costituisce un interessante paradigma che Zamboni frequentemente ripropone per focalizzare la novità di un fare filosofico con cui vale la pena confrontarsi per illuminare una modalità che non è affatto nuova ma piuttosto affonda le radici nella filosofia antica e che tuttavia nel corso dei secoli ha finito per rimanere adombrata dall‟istituzionalizzarsi di altre posture filosofiche. Il pensiero maschile, genericamente inteso ma non necessariamente attribuibile a tutti gli uomini, assume la coincidenza parmenidea tra pensare ed essere quale esito dell‟azione formale del pensiero che sola può garantire l‟accesso alla verità. In modo collaterale piuttosto che contraddittorio, l‟argomentare dialogico che tendenzialmente è proprio delle donne, si pone al di là della comprensione intellettuale solipsistica della verità, scopre e gusta la rivelazione di una forza trasformatrice intrinseca al rapporto di fiducia che si stabilisce nella stessa relazione tra dialoganti, per il solo fatto di pensare in presenza accomunati dallo stesso desiderio di verità. Nella seconda parte del volume l‟Autrice abbandona l‟analisi trasversale storico-filosofica per scendere nelle profondità del “sentimento della presenza”. La presenza umana possiede una tipicità ben distinta da quella cosale: è coinvolgimento corporeo che crea legami invisibili di natura affettivo-spirituale che s‟intersecano in una complessità che né il linguaggio né la percezione possono portare ad evidenza. L‟Autrice, arricchendo ancora la sua analisi con citazioni autorevoli, focalizza tale complessità della relazionalità umana nell‟intrecciarsi del misterioso gioco tra le molteplici componenti consce e inconsce, psichiche e sensoriali, corporee e spirituali. Infinite connessioni non delimitabili di legami intersoggettivi attraversano gli spazi e i tempi della storia di ciascun io e fondano i dinamismi di trasformazione che la relazione implica. L‟analisi dell‟ontologia relazionale così condotta da Chiara Zamboni, include, oltre alla relazione io-tu, quella col divino la cui presenza trasformatrice si rivela nello stesso logos filosofico. L‟Autrice passa infine a considerare altre forme di pratica relazionale come quelle psicanalitica e teatrale per ampliare ancora la prospettiva ai luoghi del discutere, mettendo in luce come lo spazio stabilisca la possibilità stessa della coesistenza relazionale. L‟ordine delle relazioni che si pone tra le cose e le persone che abitano i luoghi del nostro stare, provoca una “risonanza d‟anima”: l‟architettura della casa ne diventa una metafora. Il percorso di C. Zamboni nell‟universo della relazione intersoggettiva, al fine di comprendere lo specifico del pensare in presenza, si conclude con una sorprendente connessione di natura estetica: il 124 124 godimento della presenza giova alla politica. La tesi non poteva che essere proposta da una donna filosofa impegnata a cercare la verità in un pensare politico, cioè carico di efficacia rappresentativa del bello e del buono, tale da costituire forza trasformatrice. La sintesi è tanto sorprendente quanto coerente e la stessa Autrice ne attribuisce la matrice alla modalità rivoluzionaria con cui il femminismo ha riproposto il passaggio ontologico tra il pensare l‟essere come oggetto e il mettere la soggettività di chi pensa al centro del pensare stesso. La relazione intersoggettiva implica la piacevole percezione dell‟altro come trascendenza. Tale riconoscimento dell‟irriducibilità dell‟altro che non ammette esercizio alcuno di dominio, rivela un godimento d‟essere, un piacere contemplativo verso cui è maggiormente sensibile il genere femminile, rispetto al “sapere simbolico fallico” che aspira a codificarsi in un linguaggio regolato e controllabile che soddisfa lo spirito di appropriazione. La conclusione alla quale ci conduce l‟Autrice è che solo la relazione aperta all‟alterità, come il caso dei legami singolari che le donne sanno creare, può costituire un “movimento metonimico di contatto e di compresenza” (p. 166) tale da proiettarci verso la pratica politica tesa a tradurre il pensare in presenza in azione trasformatrice. 125 125 BURKE E L’INDIA * di Paolo Armellini La questione del rapporto tra cultura e istituzioni indiane con il modello costituzionale inglese alla fine del „700 costituisce un tema di grande interesse per il pensiero politico. Se ne è interessata Donatella Buonfiglio che ha dedicato il suo libro a La questione indiana nel pensiero politico di Edmund Burke (FrancoAngeli, Milano 2008, collana del Dipartimento di Studi politici, Facoltà di Scienze politiche, Sapienza - Università di Roma), il quale presenta caratteri di approfondimento riguardo ad uno degli aspetti meno conosciuti del pensiero di Burke, cioè il rapporto tra il costituzionalismo britannico e la civiltà indiana, attraverso la polemica condotta contro W. Hastings lungo l‟arco di un ventennio di discorsi parlamentari. Tale questione è stata tra l‟altro poco affrontata negli studi italiani su Burke, se si esclude la pubblicazione ora di E. Burke, Scritti sull’Impero (a cura di Abbatista, UTET, Torino 2009). Orientandosi con spiccato senso storico fra una gran messe di saggi e scritti e valutando con perizia le diverse ma frammentarie interpretazioni offerte dalla critica al problema indiano in Burke, l‟autrice ha condotto uno studio che si può ritenere uno dei più aggiornati e sistematici sul tema. La tesi è corredata da un articolato quadro storico, che riguarda sia la situazione inglese che quella indiana. Ciò permette al lettore di stabilire un contatto coi diversi eventi che hanno contraddistinto un‟epoca complessa come quella della colonizzazione britannica dell‟India, paese che al suo interno presenta diversi orientamenti culturali e religiosi e una complessa struttura istituzionale. Ciò ha spinto l‟autrice ad elaborare una nozione di civiltà che ha un carattere dinamico e non statico, per poter dar conto della insufficienza della categoria di dispotismo, derivante per lo più da Montesquieu, che, applicato al mondo orientale e in modo specifico all‟India da molta cultura dell‟epoca, ha finito per giustificare da parte di W. Hastings, per esempio, l‟utilizzo di metodi tirannici nei confronti delle autorità e delle popolazioni indiane durante il suo periodo di potere. Oltre a offrire un corretto quadro storico e filologico, Donatella Buonfiglio cerca di cogliere il nesso tra la lunga storia della questione indiana e gli altri molteplici temi che accompagnano la produzione burkeana volta a difendere la peculiarità della storia inglese nel periodo delle rivoluzioni settecentesche, evitando tentativi di frazionarne gli aspetti, ma cercando di offrire una visione organica del suo pensiero. La questione dei diritti dei coloni americani e degli irlandesi come anche la difesa delle popolazioni * Ricercatore in Storia delle Dottrine Politiche presso l‟Università La Sapienza, Roma. 126 126 indiane vanno cioè poste in relazione al problema della natura umana e della sua piena realizzazione nella società, attraverso il rifiuto di teorizzazioni astratte e la convinzione che l‟ordine sociale sia garantito non soltanto dall‟affermazione dei diritti, ma anche e soprattutto da quella saggezza pratica sedimentata nei costumi e nella tradizione. In Burke cioè va sempre considerato il legame che esiste nella concretezza storica fra l‟elemento puramente razionale della natura umana e la dimensione delle passioni e dei sentimenti, che permettono di cogliere della politica l‟aspetto per cui autorità e libertà non si trovano disgiunte, ma trovano nei costumi e nelle istituzioni una forma di razionalità storica capace di consegnarsi alle generazioni senza menomare la possibilità di innovazioni dettate dalle circostanze e dall‟attualità. L‟asistematicità risulta coessenziale ad una mente come quella del filosofo irlandese che rimane sempre ancorata alle circostanze e al dato storico. Ma Donatella Buonfiglio mostra come l‟ordine dei pensieri e delle riflessioni in Burke non si pieghi mai ad una visuale di tipo storicistico, illustrando in modo originale che i discorsi da lui tenuti alla commissione non si siano limitati a illustrare i rapporti fra il governo coloniale britannico e le autorità indiane, ma si siano nutrite dei contenuti più pregnanti della sua riflessione politica riguardo alla società, la costituzione, i diritti dei popoli e la rappresentanza politica. 127 127 IL FONDO E LA FORMA. LA SEMIOSI, LA SEMIOTICA,L’UMANO * di Andrea D’Urso L‟idea di semiotica che viene fuori dalla prospettiva di Hjelmslev, maestro di segni danese prediletto negli studi di Cosimo Caputo, torna a fare da pre-testo nel volume Il fondo e la forma. La semiosi, la semiotica, l’umano (Pensa Multimedia, Lecce-Brescia 2010), che riunisce tre saggi inediti e tre rivisitati da precedenti miscellanee. Il primo capitolo (inedito) prende il la dalla “semiotica del non”. Si tratta della riapertura del discorso sulla sub-logica del linguaggio, già discussa dal nostro autore in Semiotica e linguistica (2006) e in Hjelmslev e la semiotica (2010), entrambi editi da Carocci. L‟opposizione non esclusiva, bensì dialettico-dialogica, tra intensivo ed estensivo sostenuta da Hjelmslev – per il quale il primo termine è sempre una specificazione restrittiva del secondo che in sé lo include come possibilità – è ora applicata alle distinzioni già discusse da Rossi-Landi, qui esplicitamente citato da Caputo, tra segnico e non segnico, e alle sottocategorie che ne conseguono: segnico-comunicativo e non segnico-comunicativo; segnico-comunicativo verbale e segnico-comunicativo non verbale. Il lettore, soprattutto il meno specialista, noterà perciò di trovarsi immediatamente proiettato nell‟articolata terminologia hjelmsleviana, ampiamente illustrata nella coeva monografia succitata. Il rapporto dialettico e di possibilità – termine trascurato ma forse appropriato sarebbe quello d‟interpenetrazione – che sussiste tra il segnico e il non segnico (o ciò che Rossi-Landi definiva il “residuo corporale dei messaggi non-verbali”) permette a Caputo non solo di riprendere il discorso sulla molteplice messa in forma della materia (materia signata), disquisito in altri suoi studi, e rimarcare la simultanea compresenza nell‟uomo delle corporeità (o materialità) semiosica e semiotica, ma anche di evidenziare, con ciò, la continuità esistente tra mondo naturale e animale e mondo umano, per il fatto che l‟uomo è al contempo “spazio fisico che vive nel flusso della comunicazione-vita al pari di tutte le altre corporeità viventi” e “spazio logico per la soluzione di problemi pratici legati alla sopravvivenza sotto la spinta problematica dell‟ambiente” (p. 40). Il salto qualitativo dell‟umano, “che costituisce il vero vantaggio evolutivo sulle altre specie viventi” (pp. 67, 77), * Insegna Semiotica e Letterature comparate nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Siena 128 128 sta proprio nell‟avere, oltre alla possibilità (zoosemiosica) di comunicazione non verbale, la capacità di “modellazione sintattica”, come la chiama Sebeok, ossia lo hjelmsleviano “universale principio di formazione”, la saussuriana “facoltà di linguaggio”, che poi è pure ciò che permette di assolvere le funzioni indicate come “simbolica” da Cassirer e “metaoperativa” da Garroni (p. 45), “e che filosoficamente possiamo anche chiamare logos”, dice Caputo (p. 60). È per questo che l‟uomo può essere considerato un “animale linguistico” (p. 42) o “semiotico” (pp. 84, 101, 127) e che, seguendo una formula di Augusto Ponzio che dà il titolo al secondo capitolo del libro, “tutto il segnico umano è linguaggio”: esso, aggiunge Caputo, “è caratterizzato da questo doppio livello, segnaletico e semiotico, formale e materiale, naturale e soprattutto storico” (p. 62) che contraddistingue rispettivamente la “creatività normalizzante o segnaletica” dei linguaggi limitati (come quello della matematica) e la “creatività semiotica” di quelli illimitati (come le lingue verbali). Se l‟umano “è il nodo delle relazioni vitali in cui il bíos, la materia o la corporeità vivente prende una piega più complessa” (p. 100), ossia “è quella forma di vita nella quale il reagire vira nel rispondere” (p. 101), non v‟è più scissione tra semiosi e vita, semiosfera e biosfera, studio della logica del segno o semio-logi(c)a e studio della logica della vita o bio-logi(c)a: la semiotica diventa pertanto una bio-semio-antropo-logi(c)a che tiene cioè conto tanto dei tratti della semiosi prettamente umani e sociali quanto di quelli animali e in comune col resto del vivente (cfr. pp. 74-75, 77). “La scienza dei segni è intrinseca alla scienza della vita”, riassume dunque Caputo con Sebeok (p. 110). “La questione del segno mette in campo […] la questione della relazione. […] La relazione in tutte le sue declinazioni è la condizione della vita in tutte le sue forme, da quelle più elementari e semplici a quelle più complesse e astratte della metacultura” (p. 115). Ecco allora che le radici della semiotica possono essere individuate nella semeiotica: “di conseguenza la storia della semiotica può cominciare, come appunto fa Sebeok, con l‟antica medicina e con Ippocrate, con le pratiche magiche, fisiognomiche, astrologiche, anziché con le prime riflessioni sulle lingue verbali o storico-naturali” (p. 111). Proprio dopo un excursus storiografico sulle filosofie del segno succedutesi da Aristotele a Bacone, da Ockham a Cartesio, da Locke a Leibniz, Caputo discute l‟approccio logico-filosofico di Jean Poinsot e quello medico-magico di Giovan Battista Della Porta, rispettivamente nei capitoli quinto (inedito) e sesto. Per limiti di spazio, lasciamo al lettore la ricerca di quel che può avere di peculiare il Tractatus de signis (1632) del frate domenicano Giovanni di San Tommaso (al secolo Jean Poinsot) rispetto all‟aristotelismo tomistico, e di cosa possa ricavare la semiotica su questa 129 129 scia, prolungata da Locke e Peirce, nell‟essere considerata un altro nome della Logica, “nel senso in cui la intendevano gli Antichi, ossia facoltà di ragionamento, o di pensiero” (p. 116), soprattutto se tale ars logica è quella di un futuro censore dell‟Indice dei libri proibiti della Santa Inquisizione. In questa lista nera era già finito Della Porta, col cui De humana Physiognomonia (1586) si va ancora più indietro nel tempo e sul fronte opposto dell‟inquisito e di una rilettura dell‟aristotelismo non proprio “canonica”. Per quanto questa sia accattivante, specialmente nel rintracciare i possibili rapporti tra uomo e natura in quella che Caputo definisce “cosmosemiotica” (p. 159), le “inferenze dellaportiane”, storicamente determinate “dal discorso sociale” dell‟epoca in cui cercano conferma (cfr. p. 181), non mancano di far presentire certi risvolti dell‟antropologia lombrosiana… Presagendo fin dal 1777-78 tali possibili degenerazioni, lo scienziato gobbo, nonché aforista satirico, G. C. Lichtenberg criticava la fisiognomica del pastore protestante J. K. Lavater, emulo svilente di Della Porta, preferendole una meno pregiudiziosa patognomica o “semiotica degli affetti” e immaginando una sarcastica analisi delle code (degli animali e dei parrucconi): “Taglia pure il tuo alberello come ti pare, e pianta i tuoi fiorellini secondo le sfumature che ti sono più comprensibili, ma non giudicare il giardino della natura in base al tuo orticello”, scriveva mordacemente. Insomma, rileggendo intrigantemente le categorie dellaportiane in chiave hjelmsleviana e segnalando le affinità delle riflessioni che vanno da Della Porta e Poinsot a Peirce e Sebeok, nel Fondo e la forma il percorso dalla glossematica alla fisiognomica si svolge a ritroso (“dal presente verso il passato”, scrive Caputo, per indicare la direzione della “prospettiva storiografica”, p. 104). Se allora l‟ottica del volume può apparire retrospettiva è forse anche perché manca di una conclusione prospettica, non però nel senso additato da Caputo, “dal passato verso il presente”, in cui lo sguardo si volgerebbe sempre all‟indietro; bensì dal presente verso il futuro. Compito che l‟autore lascia al lettore. Magari, la prospettiva semiotica ci guadagnerebbe ad aprirsi su territori che restano purtroppo solitamente esclusi dal suo panorama. Vorremmo qui provare a suggerire qualche esempio. Il discorso filosofico di Garroni sull‟immagine e sul gioco del fantasticare (cfr. cap. 2) può essere espandibile verso la poesia in base agli apporti del XX secolo; anche la “menzogna”, nel libro discussa solo a livello logico-filosofico (pp. 63-65), può essere vista come mistificazione del linguaggio, cui non si esimerebbe la stessa fisiognomica: “Ogni uomo ha il suo backside morale che non mostra se non vi è costretto e nasconde il più a lungo possibile con i calzoni delle belle maniere”, scriveva ancora 130 130 ironicamente Lichtenberg. Nel terzo capitolo, poi, la distinzione metodologica e ad uso analitico compiuta da Rossi-Landi tra analogia e omologia (pp. 7576) può essere riconsiderata dal punto di vista di alcuni poeti che usano i due vocaboli come sinonimi, nonché dell‟accezione negativa che assume l‟omologo come omologazione (riconducimento del due all‟uno, sì, ma nel senso di riduzione del molteplice all‟Unico; in altre parole: uni-formazione), e di una valutazione positiva dell‟analogia (sovrapposizione dell‟uno – che però in realtà è spesso un terzo dialettico, unificante ma non omologante – al due). In fondo se, come scrive Caputo, il logos “consente dei salti, raccordando elementi anche molto lontani” (p. 60), non è proprio grazie all‟analogia, base peraltro presunta della fisiognomica dellaportiana? Così, il simbolo, “gloria e fardello dell‟uomo”, osservato solo nei suoi usi comunicazionali mistificatori (su Auschwitz, cfr. pp. 84-88), può essere scrutato sul piano poetico, su cui maggiormente si espleta; per esempio, giusto negli anni evocati del nazismo e contro la sua mitologia mortifera, i surrealisti lottavano per “l‟elaborazione di un mito collettivo proprio della nostra epoca”: insomma, la distinzione rossilandiana dell‟ideologia in reazionaria e rivoluzionaria varrebbe anche nell‟analisi socio-(semio)-logica della poesia… Ma in semiotica si parla raramente di essa, e del sogno che talvolta la crea giacché il sogno è, come il linguaggio, elemento antropogenico, degli ominidi; infatti, il problema è lo stesso: se la poesia è modellazione analogica e il sogno vi contribuisce, resterebbe sempre da capire come linguaggio e metalinguaggio (in cui rientrano quindi anche analogia, poesia, sogno e interpretazione del sogno) permettano di trasformare il mondo. Ora, benché Caputo omologhi il logos, “modalità di formazione” (p. 127) nelle sue varie definizioni suddette, alla “logica poetica” di cui parlava Vico (pp. 45, 62), la questione non è risolta: se la logica della poesia è in realtà analogi(c)a – cioè logica superiore o contraria, come vuole l‟etimologia, il che è di per sé significativo – resta il problema del mutamento (quasi in senso aristotelico) dell‟ana-logico in mero logico, e così del logos da linguaggio (come modellazione generale) a discorso (logico), ragione (come mera razionalità). Tale problematica non emerge nel libro, ma è implicita fin dalle pagine introduttive che citano Locke, il quale pare ben lungi da Vico (rappresentante della versione forte del Paradigma della sostanza), già solo per il fatto di segnare il punto di transito tra forma debole (aristotelismo) e forma forte (Saussure) del Paradigma dell‟arbitrarietà del segno. Del resto, la sua distinzione tra Filosofia naturale, Semiotica ed Etica (ossia Filosofia morale), ricorda quella di Zenone di Cizio che distingueva già tra Fisica, Logica ed Etica. È invece un altro Zenone (di Elea), allievo di Parmenide, a riportarci al paradigma del suo maestro, origine della onto-teo-logi(c)a metafisica, di cui Caputo non manca giustamente di evocare i rischi (cfr. pp. 86, 122). 131 131 Dal nostro punto di vista, il fatto è quindi che c‟è sem(e)iotica e semio(e)tica. Se l‟analisi “scientifica” serve e si asservisce alle ragioni di una Logica e ai fini di un‟Etica prefissate, è un a priori, quindi ideo-logica, cioè funzionale al discorso di un modello presupposto e preposto a una egemonia socio-culturale: perciò Rossi-Landi parlava della “scienza buona mamma”. L‟analisi materiale e materialista del segno, che è quindi una semeiotica, dovrebbe favorire la comprensione dello stato attuale del mondo vivente o inanimato (physis). L‟interpretazione non è certo dissociabile bensì presente fin già dall‟intervento analitico. Ma è la valutazione o conoscenza (gnome) dello stato delle condizioni ottenuta dall‟interpretazione dei sintomi e delle sindromi che deve portare a una relativa legge (nomos) di comportamento etico e azione pratica, la quale viene cioè a posteriori anziché essere posta a monte dell‟operazione analitica come pre-giudizio, dettame da non violare, norma cui attenersi, insomma deontologia che è appunto discorso (logos) sul dovere (deon). Il dovere andrebbe cioè inteso non rispetto all‟obbligatorietà di un precetto, ma semmai nel senso – che è anche direzione, che va dall‟analisi alla condotta come risposta – di quell‟atto necessario di fronte allo stato di cose esaminato. Potremmo concluderne che la fisio(g)nomi(c)a, quale filosofia naturale, non più solo viso-(g)nomica, è con ciò chiamata a superare la sfida di quel dibattito pretestuoso e per nulla dialettico che la vuole divisa già nella sua ambigua etimologia (cfr. p. 14), per essere invece connotata come una fisiognomica semiotica e diventare connotante di una semiotica fisiognomica come la chiama Caputo, ossia al contempo determinata e determinante – e qui rischiamo la terminologia hjelmsleviana. E sempre in tal senso (e direzione) l‟analisi sem(e)iotica può ambire a essere o mutarsi in una semioetica, ravvisabile, come rivela l‟etimologia, quale filosofia morale del segno e del sintomo al contempo: (semio)etica critica, senza escludere che una critica (semio)etica, cioè filosofico(-linguistico)-morale, impregni d‟argomentazioni teoriche l‟atto pratico suddetto. Così si cementa il rapporto dialettico tra teoria e prassi, e tra interpretazione – che è comunque valutazione, quindi sempre ideologica – e trasformazione della materia. Già il poeta André Breton mise in risalto il nesso irrinunciabile tra le due nel discorso destinato al Congresso degli scrittori per la difesa della cultura, nel 1935 a Parigi, sostenendo, contro ogni assimilazione dogmatica dell‟XI Tesi su Feuerbach di Marx, “che l‟attività di interpretazione del mondo deve continuare ad essere legata all‟attività di trasformazione del mondo”. Il fondo e la forma è quindi un libro da leggere, magari in senso inverso, per capire utilmente quali sono (e quali non sono) le basi teor-etiche, come direbbe Caputo, da cui si potrebbe giungere a simili conclusioni. 132 132 SENTIMENTI RAGIONE FEDE * di Gianni Donati Nel presentare il volume Pensieri varî di Santino Cavaciuti (Pensieri vari: tra sentimento, ragione e fede, Le Mani, Recco – Genova 2009, pp. 260), la densa introduzione di Adriana Dentone puntualizza, come lei dice, l‟Ontologia cristiana di Santino Cavaciuti, una specie di summa delle riflessioni di questo filosofo, che si riferiscono cronologicamente soprattutto agli ultimi anni e sono armonizzate sul leit-motiv del concetto di libertà, l‟idea centrale dell‟Autore. I Pensieri sono raccolti in sei Parti dedicate ad altrettanti problemi „fondamentali‟: estetico-linguistico, gnoseologico, ontologico, antropologico, morale, religioso, visti nello spazio delle „sfere‟ del Sentimento, della Ragione e della Fede. Data la dovizia di temi trattati, mi limiterò a rilevare alcune idee tra quelle che mi paiono particolarmente significative. Nella parte dedicata al primo problema, quello estetico-linguistico, Cavaciuti alterna fresche visioni personali poetiche ed estetiche, annotate nell‟età più giovane, alle complesse, ma chiaramente articolate, intuizioni dell‟età più matura e, nella sezione di pensieri di linguistica, tratta, fra l‟altro, della distinzione tra parola e contenuto, dell‟origine del linguaggio – sviluppando la tesi dell‟origine “poetica” dello stesso – e va alla ricerca di conferme (nel pensiero di autori antichi, moderni e contemporanei) di sue proprie idee (ad es. con Leopardi sul “ruolo fondamentale delle metafore nel processo di appercezione del reale” (p. 28). Talvolta, si limita a confutare asserzioni di vari pensatori, spiegando, sempre garbatamente, il senso del proprio intervento; altre volte risale alle fonti primarie di concetti espressi da studiosi contemporanei. O ancora: questo processo a ritroso può tornare fino alle Sacre Scritture per individuarvi espressioni a base di fondamentali acquisizioni culturali giunte fino a noi: come quella riguardante l‟Iconografia cristiana (p. 39) nel detto del salmista “Ostende faciem tuam et salvi erimus”. La seconda parte, relativa al problema gnoseologico, argomenta su Libertà e Conoscenza, sul “conoscere” proprio delle Scienze naturali e intorno all‟idea di “verità” in rapporto all‟ “amore”. Sovente Cavaciuti prende spunto da autori di diversa estrazione per esplicitare, però, idee non comuni, come quella del senso ultimo delle cose, che risiede nelle Idee, le quali, a loro volta, esistono in una Mente Infinita: ecco, allora, l‟idea del mondo quale “ambiente” del Verbo (p. 45): se il mondo è tale (creato, cioè, proprio in * Insegnante di scuola primaria. Laureato in Materie Letterarie e in Pedagogia presso l'Università di Genova, ha collaborato con le riviste "Studi Sciacchiani", "Segni e comprensione", "Chiesa Locale" (dioc. La Spezia). 133 133 relazione al Verbo), allora ha un significato diverso da quello che si pensa normalmente. Questa tesi, del mondo inteso appunto come “ambiente” del Verbo, è una delle proposte più importanti tra le molte idee nuove di questo libro e comporta necessariamente la dottrina della creazione: secondo l‟Autore, pertanto, la creazione non solo è opera del Verbo divino, ma ne sarebbe anche in funzione, quale “ambiente” del Verbo che si incarna. Esplorando, poi, i modi della conoscenza, è possibile trovare conferme al primato della libertà, un primato ontologico oltre che morale: riconoscerlo consente di uscire sia dal solipsismo, cui giunge l‟idealismo, sia dal monismo, cui secondo Cavaciuti giunge l‟intellettualismo: basandosi, infatti, solo sul pensiero diventa molto difficile comprendere la pluralità dell‟essere. Ancor più della conoscenza, a fondamento dell‟essere, e quindi dell‟esistenza, c‟è soprattutto l‟amore, che è la “realizzazione” piena della libertà. Questa – spiega l‟Autore – in quanto libertà “iniziale”, è destinata a “svilupparsi”, a “maturare”, a “realizzarsi”, e la “realizzazione” della libertà è l‟amore, poiché la libertà “iniziale” è possibilità di creatività, di donazione; e la donazione in atto è appunto amore (p. 48). Ben undici paragrafi costituiscono il corpus concernente il problema ontologico (Terza Parte) che riporta riflessioni sull‟essere, su libertà ed essere, su essere e “possibilità”, sulla “libertà”, sull‟essere del Mondo, sulla Bellezza, la Molteplicità, lo Spirito, l‟Eternità, la Relazione, il “caso”. In queste pagine si arriva al nucleo del pensiero cavaciutiano: il dinamismo ontologico che scaturisce dal ”primato” della libertà comporta la concezione dell‟ essere come essenzialmente creante. Connessa con il dinamismo ontologico è quella che l‟Autore chiama “vocazione”, “chiamata”. È questa un‟altra tesi caratteristica e nuova: la libertà “iniziale”, in quanto possibilità di donazione, di creatività, avverte, come tale, in se stessa un‟innata vocazione a realizzare questa sua possibilità. Nella misura in cui la libertà ascolta la propria “vocazione”, si attua, assieme alla posizione in essere di nuove entità, la “realizzazione” della libertà e, con essa, l‟amore e il bene (morale); nella misura in cui, invece, la volontà non ascolta la propria vocazione, si ha il “rifiuto” dell‟essere, e, con esso, il male (morale). Nel prosieguo della Terza Parte si ha un susseguirsi di riscontri còlti nelle tesi di vari Autori, che il Nostro commenta dimostrando l‟aderenza, ora totale ora parziale, con le proprie idee di fondo. Così per Marcel, Rigobello, Pareyson e altri. Cavaciuti, inoltre, sostiene come al fondo dell‟essere non vi sia il determinismo, ma la libertà, e parla di una certa “trinità”, riscontrabile nell‟essere quale libertà, data dalla libertà come possibilità; quindi dalla “vocazione” della stessa libertà; infine dal “frutto” della libertà, cioè dal ”nuovo” che essa pone in essere. Questa “trinità” dell‟ essere-libertà potrebbe ritenersi, secondo l‟Autore, come, una “traduzione” del Mistero Trinitario. Nella sezione 134 134 Sull‟“essere” del mondo spunta nuovamente l‟idea del mondo quale “ambiente” del Verbo incarnato, e, naturalmente, il discorso si sofferma sul principio creazionistico. Cavaciuti propone una revisione del concetto di creatio ex nihilo, un principio – si legge, infatti, a pag. 99 – forse “non del tutto esatto, in quanto ritengo che il mondo sia, in realtà, una “riproduzione” – se così si può dire – delle qualità, o almeno di certe qualità del Verbo, in particolare della sua “bellezza”“. La sezione comporta anche altri numerosi temi e tesi. Fra essi mi limito a segnalare: l‟idea di bellezza come “annuncio” dell‟amore; la molteplicità del reale, giustificata dalla libertà in quanto “creatività”); la tesi dell‟eternità divina come animata da un certo dinamismo qual è quello dell‟amore; l‟idea dell‟essere come relazione, sulla base dell‟idea dell‟essere come amore; la critica del casualismo, in quanto intrinsecamente autocontraddittorio. Le sezioni Pensieri genericamente antropologici, Sulla Corporeità, Pensieri di carattere sociologico, Sulla Storia e la Filosofia, Sull’Alterità, formano la Parte Quarta, dedicata al problema antropologico. Cavaciuti accosta l‟espressione di J. Ratzinger, dell‟uomo come essere in fieri, tratta dal libro Introduzione al Cristianesimo, alla sua tesi che, come detto, vede l‟uomo come un “invitato” a “realizzarsi” (p. 116). L‟Autore mette, poi, in guardia da certe concezioni antropologiche miranti a risolvere tutto nella dimensione temporale (vedasi la cosiddetta “donazione degli organi”) in un‟ottica di riduzione del corpo a cosa (p. 124). E a proposito di corporeità, nelle pagine che seguono, si ribadisce un aspetto che caratterizza l‟uomo: quello di essere usufruttuario e non padrone del proprio corpo. I „pensieri‟ di tipo sociologico commentano anche tematiche attuali: tra queste, i “mascheramenti” politici nel dare nuove connotazioni ai vari movimenti. Cavaciuti denuncia, inoltre, la crisi di certi valori che hanno fatto la civiltà: crisi del matrimonio, della famiglia, della religiosità, citando il verso del Foscolo “Dal dì che nozze, tribunali ed are”, un “trinomio” di cui oggi rimane efficiente solo quello dei “tribunali”. I tre paragrafi della quinta parte accorpano le osservazioni relative al problema morale: Morale e libertà, Sull’amore, Sul Male. Cavaciuti presenta il problema del male, forse “il più grave” − dice – della Teologia e della filosofia. La sua interpretazione riprende il concetto di possibilità insita nella libertà, cosicché la sezione Sul Male inizia trattando della “possibilità” del male stesso, “possibilità” presente nella libertà come tale. Tratta, quindi, del concetto di “invito” a passare dalla “possibilità” alla sua realizzazione, con la connessa conseguenza di accoglimento e rifiuto. In definitiva, il male è effetto della non-accoglienza dell‟invito stesso, di quella “vocazione” propria della libertà. 135 135 La sesta ed ultima parte concerne “pensieri” Sulla Religione in generale, Sull’idea di Dio, Intorno al Cristo, Sulla Sacra Scrittura, Sulla liturgia, Sulla Vergine Maria. Nella prima sezione, tra molte considerazioni sugli scritti di Santi e Padri della Chiesa, risalta quella su “uno dei problemi più difficili anche storicamente della dottrina cristiana […] quello della conciliazione della libertà dell‟uomo con la “grazia” soprannaturale di Dio” (p. 181). Cavaciuti propone la riconsiderazione del concetto di Grazia, la quale non è sostituzione della libertà umana, ma un aiuto, che prevede pure l‟intervento dell‟ intelligenza, della volontà libera e della corporeità. Un altro pensiero che emerge per originalità, e che già A. Dentone, in prefazione, definisce “straordinariamente forte”, riguarda il problema di un dialogo religioso con l‟Islam: perfino San Francesco, che lo aveva tentato, ha dovuto recedere. Secondo il nostro Autore, “si potrà trattare con i musulmani su questioni che non toccano la Fede, ma non oltre” (p. 184), ed è da ritenersi un‟illusione anche il tentativo di assimilare l‟Islam − “corpo non assimilabile” – tramite una sua progressiva laicizzazione: proprio questo puntare sulla laicizzazione costituirebbe un‟indebolimento, sempre maggiore, del nostro mondo postcristiano. Nella sezione Sull‟idea di Dio, troviamo il pensiero che ne parla come Causa incausata, da Cavaciuti avvicinata al concetto di Dio come Libertà, che è, appunto, causa incausata. La sezione più corposa di tutto il testo (oltre trenta pagine) è intitolata Intorno al Cristo. Fra le numerose idee espresse qui dal Cavaciuti segnalo quella del “legame diretto” del Cristo stesso con gli Apostoli, legame - si direbbe “fisico” - che pare continuare, nelle relazioni delle Comunità cristiane dei secoli seguenti, sia con la Chiesa Vescovile sia, nella campagna, con la Chiesa Plebana; oggi, ci restano i Sacramenti a conservare questo legame “fisico” nella realtà cristiana. Seguono i commenti ad espressioni del Salmista, di Santi e di Filosofi, commenti tutti ancorati all‟idea più sopra esposta del mondo quale “ambiente” del Verbo incarnato. Cavaciuti la riprende spesso: ora per chiarire il “senso” del mondo, ora per evitare, proprio con questa idea del mondo come “ambiente”, lo sfociare nel panteismo, ora per trovare nelle lettere di San Paolo le ragioni di tale concezione. V‟è da citare, inoltre, l‟idea della “consistenza ontologica” del male, inteso come possibilità radicale, anche se non come realtà radicale (p. 240). Nei “pensieri” Sulla Sacra Scrittura, si afferma che Antico e nuovo Testamento sono sulla linea dell‟ “invito”. Vi è, poi, lo spazio di uno sguardo al mondo protestante, per dire che l‟attenzione alla sola Scrittura non pare sufficiente – la storia lo dimostra – a fondare una solida religiosità. Questo concetto viene ripreso nella penultima sezione Sulla Liturgia, e in cui, fra l‟altro, viene sottolineata l‟importanza dell‟Ufficio Divino, che è “la preghiera più alta e perfetta”, in quanto costituita soprattutto da preghiere-poesie. 136 136 Come i grandi Padri della nostra lingua, Cavaciuti conclude i suoi “pensieri” nella figura della Vergine, figura rigeneratrice e salvifica nei confronti non solo dell‟uomo ma anche della natura. È una similitudine a chiudere la riflessione sulla Vergine: come la bellezza delle giovani donne è in funzione dei figli, mediante l‟amore da questa suscitata, la bellezza integrale di Maria sussiste “in funzione dell‟Amore”, suscitato in funzione alla Redenzione e, con essa, alla ragione ultima del mondo. L‟insieme di tutti i “pensieri”, che spaziano – come abbiamo visto − in vari campi della problematica filosofica, e anche religiosa, dà l‟impressione di un impianto piuttosto originale − le idee che abbiamo rilevato ne possono essere una prova, se pur parziale − e merita la nostra attenzione. Quanto qui esposto vuole essere soltanto una indicazione necessariamente limitata della ricchezza di questo pensiero, per il quale esorterei a compiere una lettura diretta del volume, di cui ho cercato di tracciare almeno alcune linee di fondo. 137 137 IL VOLTO NEL PENSIERO CONTEMPORANEO * di Maurzio Daggiano Nella stratificazione dell‟esserci umano e, in particolar modo, in quella regione dell‟umano come corporeità, il pensiero filosofico del Novecento ha portato il volto umano in quanto tema etico, antropologico ed ontologico. Questo non vuol dire che il volto non sia stato mai considerato significativo in precedenza, ma il rapporto con l‟ontologia cartesiana delle due res e la scissione dell‟essere umano tra anima e corpo, conduceva ad una devitalizzazione del volto nell‟oggettualità di un realismo ingenuo, oppure, ad una rarefatta spiritualizzazione idealistico-speculativa, versanti filosofici non più accettabili dopo la fenomenologia di Husserl-Heidegger. Il volume a cura di Daniele Vinci Il volto nel pensiero contemporaneo (Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2010, pp. 553) si propone come una guida (ovviamente non esaustiva ma estremamente utile) nel realizzare una mappa cognitiva molto ampia, ben articolata, sulla produzione filosofico-tematica attorno al volto dell‟uomo contemporaneo. Come sostiene il curatore, i nomi imprescindibili che hanno ispirato questa monografia, in un intreccio costante (ora implicito ora esplicito), sono: Max Picard, Emmanuel Lévinas e George Simmel . Da qui “il panorama, con sorpresa, si è andato rapidamente allargando. Risalendo alla radice fenomenologica del discorso levinasiano, sono emersi i nomi di Edmund Husserl, Edith Stein e Max Scheler con i loro studi sull‟empatia e la corporeità espressiva” (p. 7). Il volume raccoglie, secondo una scansione in cinque sessioni, il contributo di ben trentatré autori fra italiani e stranieri (autori specialisti in diversi ambiti di ricerca), in un percorso che parte dalle premesse bibliche del tema del volto (Radici), giunge ad esplorare, tramite un approccio teoretico, la declinazione ontico-antropologica del volto e “la dimensione gnoseologica che approda ad istanze etiche” (Alla luce del volto/ Pensatori del volto), per poi passare a tematizzare il volto come raffigurazione, ritratto, auto-ritratto (Rifigurazioni); ed infine il nesso del volto umano con il nostro tempo negli ambiti della letteratura, del cinema, della medicina estetica e dei nuovi media, ora, con la diffusione capillare e globale dell‟identità virtuale tramite l‟idea di volto vissuta con Facebook (Tornino i volti). Sebbene il lavoro complessivamente non sostiene una tesi, ma intende offrire al lettore gli strumenti concettuali e bibliografici (e i possibili approcci) per accostarsi al tema, secondo il curatore l‟idea di fondo, che * Dottore di ricerca in Filosofia presso l‟Università del Salento. 138 138 ispira l‟intero progetto, è l‟eclissi del volto dell‟uomo contemporaneo: “L‟eclissi del volto è una preziosa chiave ermeneutica attraverso la quale leggere i grandi fenomeni che hanno segnato la nostra contemporaneità. La massificazione, il totalitarismo, la guerra su scala mondiale non hanno forse significato la perdita, la discriminazione, la distruzione dei volti umani?” (p. 9). Se nel secolo scorso il totalitarismo ha distrutto la libertà espressiva della singolarità del volto (lo ha negato, deturpato, discriminato), la perdita del volto è la chiave ermeneutica per guardare all‟oggi, proprio in un periodo storico in cui il nostro sguardo è sempre più assediato nel suo percepire il mondo dalla moltiplicazione di vissuti e dall‟esposizione massiva ed oggettuale di una folla-di-visi: nei giornali, nelle pubblicità, sullo schermo di un televisore, di un cinema, o di un computer. E qui notiamo un fenomeno singolare. Di fronte all‟esposizione violenta e continua di cui viene fatto oggetto, il volto umano sembra rispondere ritraendosi. Lo si vede nei volti televisivi, in particolare in quelli femminili. È come se, davanti a una doppia esposizione – luce artificiale degli studi e sguardo meccanico della telecamera –, il volto preferisca nascondersi, lasciando a propria protezione un simulacro “plastificato” (p. 10). Ma come è possibile che il volto si nasconda? E si nasconde a chi? Nel saggio di Mauro Maria Morfino possiamo comprendere che: “la trasparenza del corpo non è di questo mondo” (p. 15); partiamo quindi ancora una volta dalla corporeità. La lingua ebraica coglie questo aspetto della corporeità poiché non consente di dire il volto, al singolare, ma i volti della persona: il termine plurale panim “non è mai attestato al singolare e viene considerato un plurale tantum” (p. 13). In questa eccedenza il nostro volto è il volto di volti. In questo dinamismo del volto, il suo essere relazionale si esprime continuamente e si manifesta, nel senso non-oggettuale di Lévinas. Relazionalità interna e relazionalità esterna; sono dunque i nostri volti. Come sta l‟esserci in questa relazionalità infinita con i volti nostri, quelli interiori, e i volti ai quali rispondo all‟appello relazionale del Mitsein?: “L‟essere interiore e l‟aspetto esteriore non coincidono mai esattamente. E ciascuno ha la propria collezione di maschere che utilizza a perdita d‟occhio! Sottrarsi si contrappone ad “affacciarsi” e a partire dalla propria faccia un gettare un velo sulla propria manifestazione”. In questo caso solo un lavoro sulla propria attenzione circa questi aspetti della corporeità, la connessione di sé e la sottrazione di sé, permette di orientarsi nella dis-attenzione, di non inciampare e farsi del male. Vedere il volto vuol dire essere accolti alla presenza di qualcuno. L‟altro ci prende in considerazione, e nel rispondere all‟appello dell‟altro richiediamo pari riconoscimento: “Dato che il volto è quella parte del corpo umano, quindi dell‟uomo, che meglio è in grado di manifestare espressioni 139 139 differenziate, è ovviamente logico che il linguaggio abbia preso il termine panim come punto di partenza per numerosi modi di dire riguardanti i rapporti interpersonali e quelli tra l‟uomo e Dio. […] Panim è un termine relazionale, che descrive relazioni […] indica presenza reale e personale, denota rapporto e incontro (o rifiuto di questo)”. Quindi gli stessi attributi semantici dell‟incontro dell‟uomo con il proprio partner sono vissuti a posteriori rispetto alle possibilità dei vissuti che rispondono all‟appello dell‟assolutamente altro. Lo spazio di questo stare “faccia a faccia” possiede come Gestalt la sua qualità d‟incontro. La tonalità ambientale è emotivamente intonata nell‟estroflessione del cuore: “Il testo biblico quando pronuncia il singolarissimo plurale panim riguardo all‟umano, è quella di trovarsi davanti al sigillo indelebile, allo sphragis dell‟estroflessione del cuore, luogo per eccellenza della registrazione-esternazione dell‟interiorità” (p. 15). Ed in nota: “In antropologia biblica è improponibile parlare di panim senza chiamare in causa il leb, il cuore”. In ogni “faccia a faccia ” sta l‟esempio fenomenologico fondamentale per comprendere il volto nel suo donarsi. Nella ricerca sul fenomeno originario della donazione del volto, la fenomenologia rappresenta il metodo più adeguato. Negli studi sull‟empatia, con il saggio di Laura Boella, sappiamo che per tematizzare qualcosa come l‟empatia si suppone intercorporeità, il vissuto empatico si fonda sull‟originaria interdipendenza corporea che lega gli esseri umani: “permette di cogliere a livello percettivo-motorio gli aspetti che fanno da ponte tra sé e l‟altro […]. L‟empatia in effetti si sviluppa dalla quasi immediata intuizione della prospettiva dell‟altro a una costruzione e messa in relazione di questa con la propria che porta a valutare le distanze o le affinità” (p. 132). Per comprendere fenomenologicamente la relazionalità spaziale dello stare “faccia a faccia”, in breve l‟empatia, lo sguardo percettivo è, qui, più legato al sentire della corporeità emotivamente intonata, vale a dire, non comprende affatto il sistema relazionale dello spazio intersoggettivo della corporeità cinestetica, ma del sentire diretto con il campo di espressione pre-verbale del corpo altrui, in quanto trasposizione intuitiva e sintetica del corpo dell‟altro con il proprio corpo, come afferma Max Scheler “possiamo percepire internamente anche gli altri, in quanto cogliamo il loro corpo come il campo di espressione delle loro esperienze” (p.137). La percezione empatica coinvolge diversi livelli della costituzione antropologica dell‟essere umano, a partire dai livelli profondi emozionali della naturalità del corpo come organismo vivente, semplicemente emozionale, e che condividiamo con gli animali, così come i processi di attivazione dei sistemi neuronali: “È ormai acquisito che per empatizzare ci vuole attività corporea, che le neuroscienze oggi stanno esplorando a livello di attivazione di specifici sistemi neuronali (i mirror, ma non solo) correlati alla percezione innanzitutto visiva, a movimenti 140 140 e reazioni del corpo e emozioni (gesti, mimica facciale e delle labbra, conduttanza cutanea)” (p. 133). Il volto si costituisce sempre come relazione, anzi è relazione con l‟estraneità. Relazionalità non oggettuale, e nemmeno ingenua. Il volto dell‟altro, come ci ricorda Levinas mette in questione la mia spontaneità: “L‟estraneità dell‟Altro – la sua irriducibilità a Me – ai miei pensieri e ai miei processi, si attua appunto come una messa in questione della mia spontaneità, come etica” (p. 297). Il volto, infatti, in quanto incarnazione del mostrarsi dell‟altro, sfugge di per sé ad ogni processo di afferramento simbiotico delle proprie aspettative emozionali. Di fronte ad una simile inafferrabilità del volto come mai pienamente agguantabile, mai afferrabile, la filosofia continua instancabilmente il suo lavoro di visione fenomenologica dell‟unità dell‟essere animato umano di fronte all‟eclissi del volto. Ciò non riguarda soltanto la risposta alle radicali forme di eclissi del mondo contemporaneo, ma anche dell‟impossibilità di vivere quotidianamente il volto come tema. Atteggiati naturalmente, noi viviamo i volti ma non ne facciamo mai tema filosofico, non lo viviamo come tema. Questa mancanza non è una deficienza del nostro esserci ma di una modalità di pensiero che, per ragioni intrinseche alla costituzione umana, vive direttamente nel contenuto fenomenico della propria esperienza del volto senza interrogarsi sull‟originarietà fenomenologica del volto. 141 141 LE STANZE DELLA MODERNITÀ * dI Ardian Ndreca L‟amore per la verità ha portato Paolo Miccoli, in Stanze della modernità (Urbaniana University Press, Studia 57, Città del Vaticano 2010, pp. 276), ad esplorare nella sua ricerca, in un vasto arco di tempo, diversi percorsi filosofici, che vanno dagli antichi ai contemporanei. Egli ha concepito la sua indagine, in questa raccolta di saggi pubblicati in tempi diversi, come un procedere attraverso le “stanze della modernità”, divise in dialettica, storia, morale/religione, estetica. In questa analisi si sente l‟esigenza di approfondire la struttura stratificata della realtà sia in senso diacronico sia in quel che risulta dallo stesso plesso essenziale dei fenomeni presi in considerazione. Nella parte denominata “dialettica” l‟Autore ha incluso scritti che riguardano G. Bruno, G. Vico, G. W. F. Hegel, H. Bergson, M. Heidegger, Th. W. Adorno, C. Fabro. Del pensiero di Giordano Bruno lo stimola la tensione verso un modo nuovo di dialogare, che portava il Nolano ad un linguaggio autonomo e libero dagli schemi aristotelici. Questo amore per la verità, espresso nella forte attrazione che esercitò su di lui il pensiero antico, rende Bruno, agli occhi di Miccoli, un filosofo che parla della sapienza degli antenati con un linguaggio nuovo. Qui lo studioso coglie le avvincenti indicazioni dell‟autore della nova filosofia riguardanti la concezione della vita polimorfa e della natura stessa. Di Giambattista Vico gli interessa il modo particolare di guardare il passato come un fare verace, nonché le riflessioni sull‟estetica. Della filosofia della storia di Vico, Miccoli apprezza molto l‟intreccio con la metafisica e l‟idea che la Provvidenza rimane, anche dopo la caduta, una “maestra di sapienza volgare”, pronta a svelare in tutti i tempi e in tutte le circostanze la via verso l‟ideale. Nella lettura del giovane Hegel egli nota criticamente come il vizio di fondo sia stato la strumentalizzazione storica dell‟idea di Dio, la quale non regge di fronte ad una ragione onnivora che si guadagna il primato sulla realtà delle cose. In questa critica gli viene in aiuto anche l‟esegesi hegeliana di C. Fabro, condotta sia da un punto di vista metafisico tomista sia dalla critica di Kierkegaard. Uno degli autori della “stanza dialettica” che ha interessato Miccoli è anche Bergson, la cui metafisica della volontà viene delineata come * Docente di Storia della filosofia moderna presso la Pontificia Università Urbaniana, dove dirige l‟Istituto per lo Studio dell‟Ateismo e delle culture (I.S.A.). 142 142 conoscenza unificante alla luce di un‟esperienza unitaria della vita. La Lebensphilosophie bergsoniana è intenta ad “auscultare il palpito fontale della realtà”, donde scaturisce l‟energia creativa che guida la materia. L‟emergere delle nostre azioni attraverso la durée, porta all‟incontro con l‟Assoluto e al superamento della molteplicità. Proprio l‟Assoluto, rileva Miccoli, assume in Bergson un triplice significato: “ciò che si sottrae al linguaggio dei concetti e dei simboli, ciò che qualifica intensivamente il reale finito come empirismo radicale, ciò che fa tutt‟uno con l‟intuizione intesa come atto di vita nella vita” (p. 59). La riflessioni heideggeriana invece viene letta come un tentativo diretto ad “arginare lo strabismo teorico della tradizione classica che ha confuso e identificato l‟essere (Sein) con l‟ente (Seiende)”. Due sono gli itinerari seguiti da Heidegger: 1) il ritorno all‟idea parmenidea dell‟essere attraversando il disagio e la decadenza dell‟Occidente, descritti da Nietzsche come compimento naturale delle metafisiche, 2) la scoperta nel “Dire originario” della “poesia pensante” e della “verità nascosta” che si rivela. Nel linguaggio, interpretato come “casa dell‟essere”, accade la non-ascosità dell‟originario, ovvero il dis-velamento nel tempo della connessione con l‟essere. Così Heidegger pensa di aver superato la Seinsvergessenheit, malattia strutturale dell‟uomo, il quale finalmente si palesa “pastore dell‟essere”. Anche le riflessioni che riguardano le altre “stanze” puntellano il percorso filosofico di Paolo Miccoli, il quale si mostra pronto a interloquire con pensatori lontani dalla sua visione, senza però rinunciare alla critica serrata. Questa diventa un‟esigenza e un‟opportunità nei confronti di una metafisica impigritasi entro schemi che assomigliano a delle corazze pesanti e inutili, nei riguardi del cogito cartesiano e della riduzione fenomenologica, nei confronti della tendenza di psicologizzare il soggetto agente e pensante oppure di ridurre la sua densità ontologica nel linguaggio semantico. Per questo Miccoli ripropone temi antichi e moderni, non esita e prendere spunti dall‟antropologia di Agostino e dalla visione storica di Vico, dall‟estetica di Schiller e di R. Assunto. Tutto si concentra all‟interno di un‟esigenza etica, che, nel dire di Bergson, è quella di “invertire la direzione abituale del pensiero”. All‟interno di un tempo accelerato che coinvolge sempre più parzialmente la struttura antropologica dell‟uomo, Miccoli avverte l‟urgenza di individuare i “bisogni essenziali” (G. Capograssi) e di indicare con realismo la possibilità di realizzarli. In quest‟ottica lo scandaglio delle quattro “stanze” assume significato poietico, perché volge a completare una visione filosofica ben precisa che da una parte declina facili soluzioni artefatte, mentre dall‟altra 143 143 coniuga l‟antropologia all‟estetica, l‟etica alla filosofia del linguaggio, la metafisica della volontà alla mistica. Questa maturazione di pensiero ha portato l‟Autore, peraltro impegnato per lungo tempo nello studio del fenomeno dell‟ateismo, della secolarizzazione, del nichilismo e della filosofia della storia, a diffidare – all‟interno del pensiero - sia delle vedute parziali sia degli sguardi sinottici. Il postmoderno, nel tentativo di stringere l‟assedio alla modernità lacerata dalla fine delle grandi ideologie e dalla crisi del pensiero forte, ha prodotto una serie di diffrazioni seducenti che vanno dall‟estetica alla morale, dall‟ermeneutica alla critica delle grandi narrazioni e dei loro presupposti. È dunque in questione l‟attualità del pensiero stesso e la possibilità di ancoraggio a dei punti fissi. Ma un pensiero senza presupposti (voraussetzungslose) pare impossibile, perché siamo noi stessi il presupposto del pensiero. Nell‟Ottocento sembrava che quei punti fissi dovevano essere indicati dalla scienza, ma questa, come notava Leon Tolstoj, non è in grado di indicarci come dobbiamo vivere. Dalla lettura di questa raccolta di saggi di Paolo Miccoli cogliamo molteplici tracce e suggestioni, che vanno dall‟etica all‟estetica, dalla politica alla metafisica. Tutto ciò è presentato in modo organico, poiché è preceduto dalla consapevolezza di un pensiero imparentato con l‟esigenza pratica di cogliere la verità per vivere in essa. Affiora così l‟urgenza di educare e di formare l‟uomo (Schiller), l‟importanza della storia come storia di salvezza (Agostino, Vico), la dimensione mistica della vita, il rapporto uomo-natura, l‟estetica come pedagogia verticale (R. Assunto), ecc. La ricerca di Miccoli non si arresta in nessuna stanza o cubicolo che attraversa; egli si protende nella direzione dell‟Assoluto, di cui tutte le stanze sono anticipazioni distanziate, quasi “cifre” jaspersiane. Gli uomini, ripetiamo con Eric Weil, sono il dolore e la pena della negatività finita, ed è da qui che inizia l‟accesso all‟Assoluto; per questo è utile ripercorrere insieme a Miccoli, con coraggio e con senso critico, tutte le stanze della modernità. 144 144