14-23 giugno 2012
CENTRO ESPOSITIVO BERTI
CENTRO ESPOSITIVO
ANTONIO BERTI
Via Pietro Bernini 57 - Sesto Fiorentino
orario: 16.00-19.30 - chiuso domenica
mariolago.com
[email protected]
50 ANNI
IN 25 QUADRI
Mostra di pittura
di
Mario
Lagomarsino
Mario Lagomarsino nasce a Firenze il 27 novembre 1935 in una
famiglia operaia: babbo ferroviere a sua volta figlio di operaio e
nipote di un sergente garibaldino, mamma casalinga, figlia di
boscaioli della zona di Montalcino, vicino Siena.
Da bambino si trasferisce per qualche tempo a Montalcino, in
casa degli zii, dove vive insieme al cugino Sergio, anche lui futuro
pittore. La sua infanzia, influenzata dalla severa ma solida etica
protestante dei genitori e degli zii, si articola quindi fra i bassi dei
quartieri operai fiorentini e la campagna senese, che gli forniscono un patrimonio di simboli, immagini, di archetipi vorremmo
dire, che si ritroveranno praticamente in tutta la sua produzione
pittorica.
Soggiorni di case operaie odorose
di caffè, sempre ornati di piante,
banchi di officina, ruote di carro,
viti, galli che litigano, ma anche
ritratti di bambini magri con occhi grandissimi, adolescenti che
fumano o giocano a carte, nudi
di donne normali, che sembrano sempre pensare alle faccende
che gli restano da fare prima di
andare a letto e, più avanti negli
anni, ritratti di vecchi che non
esistono più, che sembrano presi
direttamente da memorie distanti almeno mezzo secolo.
Giovanissimo, all’uscita dalla bottega di intagliatore in legno che
ha cominciato a frequentare dopo le elementari, subisce il fascino
dei negozi di colori: giallo ocra, blu oltremare, nomi che gli fanno
venire un’acquolina in bocca che i suoi coetanei provano quando
passano davanti alle pasticcerie. Appena può si compra qualche
pennello e dei colori e si prova a dipingere, compra della carta e
traccia centinaia di disegni.
Delle sue prime prove non rimane quasi nulla. Quando un dipinto non gli piace ci passa sopra una mano di cementite e ci
ridipinge di nuovo, perché le tele costano.
Nell’arco di pochi anni, però, aiutato anche dal babbo Ado, che
gli fa da agente, accumula un curriculum corposo come quello
dei suoi amici pittori di dieci anni più vecchi: tra il ‘57 e il ‘62,
anno della nascita del suo primo figlio, partecipa a non meno
di 23 iniziative fra premi, mostre nazionali, mostre collettive e
personali. I primi anni il suo mestiere di intagliatore serve quasi
esclusivamente per finanziare la sua attività di pittore (oltre che
per versare il contributo da dare in casa).
La critica si accorge di questo giovane pittore fiorentino e ne dà
giudizi lusinghieri.
Nel frattempo, si è innamorato di una ragazza di Civitavecchia,
Nini, e se l’è sposata. In dodici anni hanno cinque figli (una morirà piccolissima) e la vita di Mario Lagomarsino cambia molto.
Le necessità della famiglia lo portano a
trascurare gli amici, le frequentazioni
degli ambienti artistici fiorentini, e a
concentrarsi su quello che lo interessa
veramente: dipingere.
La sera tira tardi nella cantina che ha attrezzato a studio pittorico, di solito solo,
ma non di rado in compagnia di Chopin, suonato da un vecchio giradischi,
e dei figli che lo guardano in silenzio
mentre dipinge. Il sabato frequenta le
mostre, subisce le suggestioni degli artisti che espongono a Firenze, a Roma,
ma poi si rinchiude in cantina e dipinge.
Emblematico di questo periodo è un
episodio in occasione del premio annuale che si tiene in Borgo San Iacopo,
a Firenze. L’opera che invia, una delle
poche che fa vedere in pubblico, ormai,
ritrae una donna che tiene in braccio un bambino morto, sotto
un cielo rosso fiamma. Si capisce, dagli occhi a mandorla e dalla
pelle olivastra della donna, che il cielo è quello del Vietnam degli
anni settanta, ma potrebbe essere il cielo di Firenze del ’43.
La giuria ritiene la tela inammissibile, invocando il regolamento
che esclude dal concorso le opere “a sfondo politico”. Il giorno
dopo un fotografo dell’Unità viene a fotografare il quadro, insieme a un giornalista che dovrebbe scrivere il pezzo. Ma di lì a poche ore il Lagomarsino telefona al giornalista, e gli dice che non
se ne fa più di nulla, il pezzo non si deve fare. Dopo trent’anni, e
dopo aver votato a sinistra tutta la vita, spiegherà quella telefonata laconicamente: “non volevo finire a fare il pittore di partito”.
Da quel momento, in ogni modo, il suo modo di dipingere cambia: le vecchie ruote di carro si trasfigurano, i loro raggi si intersecano a cercare nuove dimensioni spaziali, si inaugura un periodo
cubo-futurista che si prolungherà per circa dieci anni, durante i
quali l’interesse per i soggetti sembra
stemperarsi a favore di un interesse per
il colore, per l’effetto pittorico fine a se
stesso. In realtà, il soggetto non scompare, ma acquista nuove dimensioni:
quella temporale prima di tutto, quando
un volo di colombi, un acquario, un fabbro o un musicista, collezionano tutte le
possibili traiettorie seguite dal soggetto
nel suo divenire. Non di rado, però la
dimensione esplorata è soprattutto quella psicologica.
In seguito, il soggetto diventerà sempre
più esangue, rarefatto.
Sembra che esso ormai sia poco più che
un pretesto per parlare d’altro.
È il colore, a questo punto dello sviluppo dell’arte del Lagomarsino, che lo
interessa sopra ogni cosa.
La sempre più consapevole ricerca coloristica approda, verso la
fine degli anni ottanta, all’astratto informale. Eppure, per i suoi
estimatori e per i collezionisti che lo conoscono, le sue tele non
perdono il contatto con i soggetti della giovinezza: i gialli e i neri
non possono non continuare a rappresentare vecchi muri scrostati di periferia, col sole in tralice, i manifesti pubblicitari strappati, i grigi richiamano le penombre degli ingressi fumosi. Come
scrive un giornalista in occasione di una delle poche mostre collettive di questo periodo, i suoi riferimenti, come un Burri e un
Fontana per esempio, non possono che essere problematici.
Visto il percorso seguito fin qui, non meraviglia il suo parziale
ritorno al figurativo, una volta superata la soglia del 2000. Ma
quale diversità di soggetti, rispetto a 40 anni prima: negli anni
del futuro, ritrae vecchi sconosciuti su sfondi scuri, rappresenta
vasi di fiori secchi, oppure traccia incredibilmente vividi ritratti
di persone care, che prendono spunto da fotografie degli anni
della loro forza, o della loro giovinezza.
Sembra prevalere, in questi anni, una pensosa riflessione sul senso dello scorrere del tempo e sul significato stesso della pittura, che si configura come un tentativo di eternare sentimenti,
emozioni, consapevolmente fallimentare ma proprio per questo
assolutamente necessario. Come aveva scritto in una delle poesie
che aveva cominciato a scrivere dagli anni della maturità, la sua
concezione dell’arte è proprio questa: un tentativo, umano, fallace, ma necessario e onesto.
Posare i colori sul vento,
come fa l’iride sulla bolla di sapone.
Poi nulla.
Ma il tempo,
ne tiene memoria.
(da una poesia dell’autore)