LA CRISI DEL DIRITTO PENALE E I SUOI EFFETTI SULLA PENA

Comisiòn 6 : Realidad Penintenciaria
LA CRISI DEL RAPPORTO TRA NORMA PENALE E SOCIETA’
CIVILE E LE SUE RIPERCUSSIONI SULL’EFFICACIA DELLA
PENA NELLA REALTA’ ITALIANA
di
Vincenzo Musacchio
Professore di Diritto Penale dell’Unione Europea
nella Facoltà di Economia dell’Università degli studi del Molise (Italia)
e-mail: [email protected]
Sommario: 1. Norma penale e società contemporanea tra dogmatica e prassi-. 2. La crisi della
norma penale e le sue componenti essenziali in uno Stato democratico-. 3. La crisi della pena come
conseguenza della crisi della norma penale-. 4. La funzione della pena nella società
contemporanea tra limiti e necessità di riforma-. 5. Il ruolo del diritto penale nel nuovo millennio
tra ricostruzioni dogmatiche e necessità pragmatiche-. 6. Considerazioni conclusive.
1. Norma penale e società contemporanea tra dogmatica e prassi-. La norma penale è una
rappresentazione della realtà che opera quando gli equilibri della civile convivenza sono messi in
grave pericolo. Rispetto alla complessità della società post-moderna, essa opera attraverso un
sistema di regole omogeneo e si sviluppa attraverso due componenti indispensabili per qualsiasi
scienza giuridica: a) il dogmatismoi che consacra i principi cardine della scienza penale; b) il
pragmatismoii che si riferisce alla rappresentazione del contesto sociale in cui tale scienza si attesta.
Nella società in cui ha efficacia la fattispecie penale, tutti i cittadini devono essere uguali
davanti alla legge ed i valori tutelati dalle norme penali non possono non essere condivisi dalla
stragrande maggioranza della collettività, che perciò le rispettanoiii.
La rappresentazione secondo cui la violazione della sfera soggettiva dei diritti per effetto del
reato, comporterebbe una reazione da parte delle persone offese e della stessa collettività, che la
norma penale è chiamata a prevenire e controllare, avocandosi il monopolio delle funzioni reattive
contro gli illeciti, può ritenersi attualmente superata. La norma penale non può essere presentata
soltanto come strumento insostituibile per garantire la sicurezza generale tra i cittadini o per
rispondere ai diffusi sentimenti di sfiducia nella giustizia. Tra allarme per la criminalità, senso di
insicurezza, bisogno di reazione punitiva contro il crimine, la norma penale sembra essere l’unica
panacea alla criminalità dilaganteiv. Così non è !
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Nella società della globalizzazione, essa, va concepita, come uno strumento dalla duplice
funzione: preventiva e di garanzia delle vittime del reato. In questa direzione, la stessa assume un
ruolo determinante e va a colmare le lacune presenti attualmente nel nostro sistema penale.
Nel suo aspetto pratico, la stessa si estrinseca nella sanzione penale e viene rappresentata
dalla dottrina dominante come avente carattere retributivo, in quanto riproduce una afflizione
proporzionale al disvalore del reato e al danno sociale dallo stesso provocato v; rieducativo, in
quanto idonea a instaurare un processo trattamentale del soggetto capace di rimediare ai fattori che
ne hanno influenzato il comportamento deviantevi; emendativo, in quanto, la pena è idonea a mutare
l’atteggiamento mentale e il sostrato valoriale del reo, riabilitandolo davanti alla società vii;
preventivo, in quanto si immagina che svolga una funzione deterrente tanto rispetto alla collettività,
orientandone i comportamenti (prevenzione generale), quanto rispetto ai singoli, posti di fronte alle
conseguenze delle scelta di un comportamento illecito (prevenzione speciale)viii.
La crisi di efficacia che caratterizza oggi la norma penale non può sottrarci al compito di
porre l’insieme di questi fattori a confronto con la complessità dei rapporti e delle situazioni
concrete in cui il diritto penale contemporaneo si esteriorizza.
Non potendo, in questa prestigiosissima assise internazionale, sviluppare una disamina
sistematica della distanza tra le stesse e la realtà cui si riferiscono, mi pare opportuno considerare la
differenza incolmabile tra la tipizzazione dell’elemento psicologico del reato e la grande
differenziazione di motivazioni, di processi mentali, di valutazioni, di criteri e di esperienze che
caratterizzano la sfera psichica del comportamento soggettivo, anche sotto il solo profilo della
consapevolezza dell’azioneix. Come non valutare in che modo i beni oggetto di tutela da parte delle
varie fattispecie criminali - che fanno riferimento a valori generali ed astratti che si pretendono
condivisi dalla collettività - si raffrontano con le differenze e le stratificazioni culturali presenti
all’interno della società cui la norma penale si rivolge.
L’accenno a queste possibili sfasature tra i valori tutelati dalla norma e quelli presenti nella
cultura diffusa, mi sia consentito affermare, merita un approfondimentox.
In primo luogo non si possono non considerare i riflessi che le trasformazioni della
legittimazione del diritto penale in rapporto all’opinione pubblica esercitano nel contesto
normativoxi. Il passaggio da un modello di legittimazione di tipo etico, fondato su valori generali ed
astratti, e decisamente formalizzabili, ad uno di carattere pragmatico, fondato sulla materialità di
esigenze concrete e sull’efficienza dei mezzi addottati a determinati fini non può non riguardare la
norma penale. In questo senso, essa non è più solo espressione di valori più o meno
presuntivamente diffusi all’interno della collettività, ma diventa anche congegno di coordinazione
alla risoluzione di problemi specifici. D’altra parte, questo meccanismo è determinante in tale
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rapporto biunivoco, in quanto tende ad evitare quelle caratteristiche di disapplicazione, di estraneità,
di astrusa tecnicità che determinano una situazione di sostanziale scucitura tra contenuti normativi e
società civile, favorendo una indifferenza dei cittadini verso la norma penalexii.
In secondo luogo, non posso non considerare come tutta la più recente analisi sociologica sul
mutamento culturale descriva un ampio e profondo processo di allontanamento dell’opinione
pubblica da riferimenti di valore, quantomeno stabili e generalizzati. Emerge, così, una situazione in
cui è evidente la tendenza ad abbandonare criteri di valore generali ed astratti, ideologicamente o
istituzionalmente precostituiti e dirigersi verso comportamenti rivolti alla soluzione pratica dei
problemi posti dalla vita quotidiana, al raggiungimento di un benessere sempre in via di
ridefinizione, all’espressione dell’originalità soggettiva sulle definizioni istituzionali, all’attuazione
di forme solidaristico-partecipative, intese come terreno di espressione di una nuova soggettività
socialexiii. L’interiorizzazione della norma penale, trova in questo spazio un terreno sempre più
ristretto e problematico.
Nella società odierna si avverte il bisogno di “giustizia” contro i comportamenti criminali,
che la norma penale ha la funzione di prevenire, di controllare e di reprimere. Pertanto, o la norma
penale si assume, per delega da parte della società, il compito retribuire in modo razionale e
misurato, gli autori dei reati, e allora bisogna presumere che tale disponibilità alla moderazione
della risposta debba sussistere nel sentire diffuso, così da privare di fondatezza quel pericolo di
eccessi cui il diritto penale deve ovviare. Oppure esiste un’effettiva possibilità di riconoscimento
del bisogno diffuso di afflizione nella reazione penale, e allora anch’essa non può che essere
sostanzialmente retribuzione, al di là delle forme con cui si legittima.
Di fronte a queste ipotesi è inevitabile trovare una soluzione attraverso l’analisi degli
atteggiamenti sociali verso la criminalità.
Nella prospettiva di questa verifica, va ricordata l’esigenza profondamente connaturata nel
sentire collettivo attorno al bisogno di punire. Se all’atto del reo, si associa un senso di colpa
motivato dall’inconscia identificazione con la sua capacità trasgressiva, la punizione inflitta assume
la valenza di un rito necessarioxiv.
Se questo assunto è messo a fuoco dall’antropologia come incongruenza costitutiva della
stessa punizione, possiamo a maggior ragione cogliere il senso e l’importanza delle distonie tra
legittimazione della norma penale e contraddizioni ed incongruenze diffuse nell’opinione pubblica
cui la stessa si riferisce e che l’attuale complessità e diversificazione sociale oggi irreversibilmente
determinano.
Consideriamo poi il fatto che le ricerche sul rapporto tra norma penale e società civile
rivelano molte contraddizionixv. Ad esempio, molti sono i fattori che portano a non denunciare un
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reato, tra cui, cosa strana a dirsi, una minore gravità attribuita allo stesso, rispetto a quella definita
dalla leggexvi. Diversa è spesso la scala di gravità dei comportamenti vietati nell’opinione diffusa,
rispetto a quelli risultanti dalla legge penale. Mentre alcuni comportamenti, spesso, neppure
definibili reati, destano disapprovazione, senso di insicurezza e reattività, altri, considerati
relativamente gravi dalla legge penale, non raccolgono la stessa disapprovazione da parte della
società civile.
Diverse sono le sfasature emergenti tra la paura, la disapprovazione morale e le richieste
punitive. Ancora molto contraddittorie sono le valutazioni verso la pena, infatti, spesso
quest’ultima, tanto frequentemente invocata, finisce agli ultimi posti nelle graduatorie dei mezzi
possibili per combattere la criminalità. Questo tipo di rilevazioni può dare l’idea di quanto astratti e
ideologici siano i presupposti che costituiscono il fondamento della legge penalexvii.
Crisi politica complessiva, disorientamento istituzionale e sociale di fronte al cambiamento
degli equilibri politici precedenti, decadenza e disorientamento socioculturale, irrompere di nuove
emergenze dalla natura e dagli esiti sconosciuti, diffondersi di un esteso e incontrollabile senso di
incertezza, di una cultura da “stato d’assedio”, possono essere considerati elementi di una profonda
crisi sociale. L’insieme di questi aspetti pongono dunque al centro del dibattito, la reazione verso la
devianza come possibile riferimento di riscontro empirico a questo processo. La distanza inevitabile
della norma penale dal consenso va assunta come dato problematico, motivo continuo di tensioni,
conflitti aggiustamenti tra le due dimensioni, probabilmente in continuo movimento e insuperabili,
ma tali da meritare più di qualche attenzione analiticaxviii.
2. La crisi della norma penale e le sue componenti essenziali in uno Stato democratico-. Come
abbiamo più volte ribadito, uno degli aspetti più significativi che caratterizzano oggi la crisi della
norma penale è la coesistenza, in essa, di due termini che danno luogo ad un’evidente ambivalenza:
astrattismo e pragmatismo.
Da un lato, la norma penale non può non essere pragmatica, intervenendo nelle situazioni
più specifiche e disparate, con l’intento di offrire soluzioni concrete, attraverso l’espediente
punitivo, applicato come rimedio polivalente. Dall’altro, essa svolge una funzione fondamentale di
produzione simbolica, rappresentando le emergenze di turno e costruendo, di volta in volta,
fattispecie incriminatrici ad hoc. La convivenza di questi aspetti, pone il problema se questi due
termini siano destinati a comporsi in un quadro di complementarietà funzionale, o se non possano
che produrre contraddizioni ingovernabilixix.
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Ad una lettura più approfondita, l’individuazione dei termini di ambivalenza ora richiamati
appare assai più complessa e problematica, piena di ambiguità e sovrapposizioni. Se consideriamo,
infatti, le norme penali che più chiaramente rivestono una funzione strumentale, come quelle che
tendono ad attenuare il carattere repressivo ed afflittivo, esse rappresentano un livello del diritto
penale in cui alla permissività si unisce il carattere prettamente pragmatico delle disposizioni, molto
più orientate ad amministrare adeguatamente la quantità dei problemi sollevati dall’applicazione di
un qualche tipo di sanzione restrittiva alla complessità della realtà sociale di oggi, ovvero, a
raggiungere su questo terreno risultati pratici, più che ad affermare o realizzare principi teorici
astratti. È però evidente anche il carattere simbolico di questi provvedimenti, in quanto
rappresentano il volto riformatore, democratico, laico e garantista delle istituzioni, in particolare
dell’apparato del controllo penale. Per altro verso, i provvedimenti che rivestono un valore
prevalentemente simbolico restrittivo, come le produzioni legislative di carattere emergenziale, non
sono esenti da una certa pragmaticità, in quanto essi mirano ad attuare tecniche di controllo e a
raggiungere risultati concreti, quali la produzione di un clima di allarme sociale, la definizione di
pubblici nemici, la rappresentazione della capacità e dell’efficacia repressiva delle istituzionixx.
Il punto limite di questa tendenza è rappresentato dall’assunzione, da parte della norma
penale, di funzioni puramente pragmatiche di gestione della devianza come rischio sociale,
attraverso una gamma disparata e diversificata di interventi, accomunati dall’unica coerenza della
congruità rispetto allo scopo. Questo orientamento mette in luce come la norma penale operi sempre
meno come risposta individualizzata a singoli soggetti e comportamenti, con il compito di retribuire
o rieducare, mentre tende ad amministrare interi gruppi, settori e processi sociali, con
provvedimenti che rispondono ad un calcolo statistico delle probabilità di successo o di fallimento
nella gestione della devianza. Potrei dire in definitiva che la delicatezza della materia con cui la
norma penale ha a che fare - la crucialità della stessa sotto il profilo del senso collettivo di
sicurezza, del controllo e dell’amministrazione della violenza, dell’organizzazione del consenso, favorisca il complicarsi, il sovrapporsi, lo scontrarsi dei termini di ambivalenza del modello
considerato. A causa di ciò più precaria ne risulta l’integrazione e la capacità operativaxxi.
La norma penale si presenta, infatti, particolarmente incline a continue e contraddittorie
variazioni, come effetto di evidenti manifestazioni di conflitto, di strumentalità e di contrattazione
politica, il che rende la situazione altamente instabile e contraddittoria. Ciò appare tanto più
evidente se si considera la tendenza da tempo in atto a rispondere ai problemi più disparati in
termini penalistici.
Una innumerevole quantità di norme, orientate a risolvere pragmaticamente singole
questioni, secondo i caratteri prevalenti assunti oggi dal diritto, contengono disposizioni di carattere
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penale, a garanzia dell’efficacia della norma. Di fronte alla sempre maggior difficoltà
dell’iperproduzione normativa, a risultare incisiva presso i settori cui si rivolge, la norma penale
appare assumere la funzione di un simulacro o di una ricetta valida per tutte le malattie xxii. Ma ciò
non può che sortire un triplice effetto negativo: 1) la produzione di un insieme caotico e faragginoso
di norme, non riconducibili ad un sistema organico, difficilmente coordinabili e interpretabili tanto
sul piano della coerenza logica, quanto su quello operativo xxiii. 2) l’impossibilità, da parte delle
agenzie preposte a rilevare le violazioni e a far rispettare le norme, di svolgere efficacemente i
propri compiti. 3) l’inefficacia e l’estrema selettività dell’intervento penale, a svantaggio dei
soggetti più deboli e marginali.
Quanto più la norma penale si rivela inefficace, tanto più tende ad essere prodotta in termini
quantitativamente più estesi e qualitativamente più afflittivi, amplificando la contraddittorietà del
rapporto tra crisi e indurimento dello strumento penale. Quanto più si vorrebbero trovare soluzioni
ispirate a criteri di razionalità tecnica, tanto più si rivela la tendenza a ricorrere a soluzioni
irrazionali e repressive. Le tendenze riformatrici in senso liberale e garantistico, vengono così
periodicamente vanificate da nuove svolte restrittive, indotte da retoriche e climi allarmistici, che
nessun orientamento di apertura appare in grado di prevenire. Tutto ciò in definitiva non può che
tradursi in ulteriore crisi di legittimazione dello strumento penale, di sfiducia da parte della pubblica
opinione, il che appare ulteriormente rilevante e significativo ai fini del problema del rapporto tra
pena e sentire diffuso, la cui rilevanza nell’economia del nostro discorso abbiamo poco più sopra
consideratoxxiv.
3. La crisi della pena come conseguenza della crisi della norma penale-. Che la pena sia in crisi
è ormai un dato certo e lo hanno già confermato in questo convegno, studiosi più autorevoli di me.
Alla crisi attuale, vorrei, mio malgrado, aggiungere ulteriori elementi.
La crisi del principio retributivo che sancisce, la proporzionalità della pena alla gravità del
reato, è ormai una realtà. Tale principio appare da sempre disapplicato, sia per la grande varietà di
regimi carcerari, sia per la diversa afflittività della pena in relazione allo status sociale del
condannato. Ma la proporzionalità della pena è andata ulteriormente in crisi con il superamento
dell’economia di mercato in cui la stessa si era sintonicamente definita. La globalizzazione
dell’economia si può porre in relazione con un analogo processo in materia penale, per cui, sulla
proporzionalità e la retributività, che segnavano l’equilibrio del sistema penale, sono le sopra
ricordate funzioni simboliche a prevalere. Così, la condanna pare assumere una maggiore
importanza sia sotto il profilo simbolico, a conclusione della fase processuale, che sotto quello
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concretamente applicativo. Ma il criterio di retribuzione proporzionale è messo definitivamente in
crisi dall’introduzione delle misure alternativexxv.
La durata della pena non più solo sulla base della gravità del reato, ma la condotta del
detenuto in carcere e le condizioni oggettive del suo ipotetico reinserimento, spostano
definitivamente i criteri di quantificazione dell’afflittività penale. Il fatto è che le stesse misure
alternative, sul piano applicativo, non appaiono rispondere ad alcun criterio di certezza e di
razionalità, così da rispettare un pur minimo livello di effettivitàxxvi.
Esiste una relazione tra l’assunzione di provvedimenti che introducono nuove misure
alternative o che ne estendono l’applicabilità e l’andamento della effettività penale. E’ scontato che
l’estensione dei presupposti che consentono l’applicazione delle misure alternative, si traduca in un
effettivo aumento della loro concessione. Nel suo complesso, comunque, in termini assoluti, l’area
di applicazione delle misure alternative tende a crescere, nel senso che, al di là delle fasi alterne
nell’andamento delle concessioni, sempre maggiore è il numero di soggetti che risultano affidati,
agli arresti o in detenzione domiciliare, sottoposti a libertà controllata o vigilata. Tale area cresce
parallelamente e in concomitanza con il crescere della popolazione reclusa, delineandosi così una
crescita complessiva dei soggetti sottoposti a controllo penale, all’interno e all’esterno del
carcerexxvii. In sintesi l’idea che l’estensione dell’intervento penale “soft” segni una decisa tendenza
nella prevedibile riduzione dei massimi di pena, all’insegna di una nuova, più contenuta
retributività, appare del tutto infondata, inserendosi il fenomeno in una più ampia ridefinizione del
sistema di controllo sociale.
Il carcere resta costantemente al centro della struttura e della natura delle cosiddette misure
alternative. Sia che le stesse siano pensate come strumento di reintegrazione graduale del soggetto
nella normalità dei rapporti sociali, sia che vengano concepite come strumento di controllo interno
all’istituzione, in quanto l’aspettativa della loro concessione induce il detenuto a comportamenti più
disciplinati e a spirito di sopportazione, il carcere resta uno strumento penale purtroppo ancora
irrinunciabile. Esso è necessario ed indispensabile come costante minaccia in caso di violazione
delle regole trattamentali o di recidiva, ovvero, come oggetto funzione disciplinare che la potenziale
concessione di benefici rivestexxviii.
Ad un livello di maggiore profondità si può pensare che, al di là delle estemporanee
variazioni legislative, si annidino, nel sommerso del rapporto che connette la pena
all’organizzazione sociale, molti fattori e processi, i quali fanno della stessa un indicatore
particolarmente significativo della crisi della società, del suo sistema di controllo, dei processi di
destabilizzazione e di disgregazione sociale che l’attraversano, delle culture variamente
emergenziali che si diffondono, tanto all’interno delle istituzioni preposte all’applicazione del
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diritto, quanto più in generale, anche se in termini, come si è visto, assai più complessi e distonici
rispetto alle retoriche del controllo sociale, dell’opinione pubblica nel suo complesso.
È altamente controverso il fatto che la minaccia di un inasprimento della sanzione penale
svolga un’efficace opera di deterrenza verso i comportamenti illegali. Basti considerare, sul piano
della prevenzione speciale, cioè rivolta ai singoli soggetti, l’elevato tasso di recidività, all’interno
dell’area di soggetti che hanno sperimentato gli effetti afflittivi della violazione della legge. Sul
piano della prevenzione generale non possiamo trascurare il fatto che molto spesso, proprio nelle
realtà in cui si adottano inasprimenti di pene, si registrano tendenze all’incremento della criminalità
e di aggravamento delle sue manifestazioni. Del resto non è difficile intuire come un indurimento
dell’intervento repressivo non appare linearmente destinato a rafforzare sentimenti di sicurezza.
Anzi esso appare destinato a rafforzare un circolo vizioso in base a cui quanto più cresce il numero
dei denunciati, dei condannati e dei detenuti, tanto più si enfatizza l’immagine del pericolo
criminalità, che, in via repressiva, si vorrebbe combattere, e tanto più possono crescere i sentimenti
di insicurezza. Questi, a loro volta, possono incrementare l’attitudine denunciatoria diffusa, un
ulteriore inasprimento delle pene, come risposta alle istanze sottese alla stessa, con conseguente
rappresentazione di un più elevato livello di criminalità e l’induzione di un più intenso allarme
sociale; e via di seguito, in una spirale repressiva potenzialmente senza limiti. Ciò che occorre oggi
non è affatto l’inasprimento di sanzioni penali fantomatiche ma al contrario è necessario puntare
sulla effettività del pena e sul suo aspetto qualitativoxxix.
Anche la decadenza della funzione rieducativa rientra tra gli aspetti che contribuiscono
notevolmente alla crisi della pena, perché intacca la sua immagine più progressista e avanzata.
Eppure anch’essa appare appartenere ad una fase ormai superata dell’evolversi della cultura
istituzionale, e più in generale sociale. Il quadro di sfondo è costituito da quella crisi delle
motivazioni valoriali. Se non esiste una corrispondenza univoca tra valori tutelati dalla norma
penale e valori diffusi, è da chiedersi a quali valori debbano essere rieducati i condannati, che senso
abbia pretendere dagli stessi un modello di normalità che nella cultura diffusa appare sempre più
precario. La stessa crisi del Welfare State, la riduzione delle spese per interventi sociali, l’enfasi
attribuita alla libera iniziativa individuale tolgono spazio economico e culturale alle tematiche
assistenzialistiche, quindi anche agli interventi di tipo rieducativo e pedagogico, tanto più che, nella
nuova logica di distribuzione della spesa pubblica, essi, se efficacemente attuati, appaiono
eccessivamente costosi. Ciò è aggravato dal fatto che lo stato di sovraffollamento del carcere rende
assolutamente ingestibile la disparità tra risorse disponibili, in termini di operatori ed attività
trattamentali, e numero di “utenti”. Per non dire del fatto che elementari concetti pedagogici fanno
dubitare dell’efficacia di un trattamento educativo cui il discepolo è forzatamente e
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autoritativamente sottoposto, quindi contro sua voglia: tanto più in un ambiente deteriore e
deteriorato, artificiale ed estraneo rispetto al contesto in cui si dovrebbe venire reintegrati. Ma
soprattutto è il tipo di composizione che caratterizza oggi la popolazione detenuta a dimostrare lo
scarso fondamento che può oggi presentare l’idea di rieducazionexxx.
La pena attualmente è costituita, per oltre il 70%, da soggetti imputati o condannati per
piccoli reati contro il patrimonio; per oltre il 30% da soggetti il cui comportamento deviante è
connesso allo stato di tossicodipendente o da immigrati extracomunitari. Con riferimento ai primi,
si possono dare due situazioni opposte. Soggetti alle prime esperienze, per i quali il comportamento
illegale ha carattere sostanzialmente occasionale e che quindi non richiedono interventi rieducativi
in senso pieno, mentre, al contrario, l’esperienza della pena detentiva può costituire causa di rottura
traumatica del proprio sistema di relazioni e del proprio equilibrio esistenziale, nonché di
socializzazione reattiva a valori socialmente negativi, imperanti nella cultura carceraria. Cosicché la
pena, lungi dal rieducare, tende a radicalizzare le tendenze criminogene. Oppure soggetti da tempo
dediti ad attività delinquenziali, elette a sistema di vita. Per questi, un episodio detentivo in più o in
meno non fa molta differenza, rispetto a un modello esistenziale che ormai fa del carcere un
elemento di routine. La stessa offerta di un lavoro dignitoso e consistentemente retribuito, ammesso
che sia ottenibile, nell’attuale struttura del mercato del lavoro, difficilmente distoglierebbe questi
soggetti dalle loro attività decisamente più redditizie, quantomeno in termini brevi. Solo i “raggiunti
limiti di età” li indurranno a cambiare sistema di vita, per salvare il salvabile di una vita totalmente
dissestata, tra disordini comportamentali e afflizioni penali.
Se poi l’attività delinquenziale si connette all’affiliazione ad un’organizzazione criminale, si
può ritenere che essa sia espressione di una “scelta di criminalità”, volontaria e motivata, tale da
non essere facilmente destrutturabile, tanto più se si tiene conto delle precarie risorse trattamentali
dell’istituzione. Anche in questi casi, a far cambiare atteggiamento da parte del soggetto sono più le
dinamiche interne all’organizzazione di appartenenza che la possibile influenza dell’intervento
rieducativo.
Per quanto riguarda i tossicodipendenti, lo stesso legislatore, con la normativa orientata a
sostituire l’intervento terapeutico all’esperienza restrittiva, ha evidenziato la inadeguatezza della
sanzione detentiva a carico degli stessixxxi. È evidente che il carcere, nel quale peraltro, come noto,
circola tranquillamente ogni tipo di droga, non può rappresentare un valido strumento per la
disintossicazione di questi soggetti, né tantomeno un mezzo efficace per ricostruire in modo
adeguato il loro sistema di relazioni, tanto che si potrebbe dubitare che per gli stessi siano rispettati
(e rispettabili) i principi dell’art. 27 della Costituzione.
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Quanto agli immigrati, è la stessa normativa che ne prevede l’espulsione in caso di
imputazione o che ne incentiva la scelta di ritorno in patria, a testimoniare quanto la detenzione a
carico degli stessi non venga concepita in chiave rieducativa, ma puramente incapacitativa; per non
dire di quanto più difficile sia attivare per gli stessi risorse trattamentali, in termini di opportunità di
lavoro o di adeguati riferimenti sociali di relazionexxxii.
A riscontro dell’inconsistenza della funzione rieducativa della pena rileviamo altri due
elementi: a) l’alto numero di recidivi presenti in carcere (mediamente circa il 70% della
popolazione detenuta), per i quali l’iterazione della “terapia penitenziaria” assume i tratti di una
ossessiva, quanto improduttiva “coazione a ripetere”; b) il fatto che, nella concessione delle misure
alternative si tiene molto più conto del carattere rassicurante delle condizioni esterne di cui l’ex
detenuto potrà fruire, che del suo comportamento e dei progressi trattamentali in carcere, cosa di cui
i giudici non sembrano, a buon diritto, particolarmente fidarsi, rivelando così la cattiva coscienza
del diritto e dell’istituzione.
La crisi evidente dei tre principi di legittimazione della pena, resa irreversibile dal logorarsi
delle condizioni storiche, economiche, politiche e culturali, che ne erano all’origine, si inserisce a
buon diritto nella recente più generale trasformazione culturale ricorrente: dalle ideologie e le
teorie, come spiegazioni generali ed astratte della realtà e grandi narrazioni sui mezzi necessari alla
soluzione dei problemi dalla stessa sollevati, alla adozione di saperi tecnologici e di mezzi
pragmatici per la gestione degli stessi. Così anche la pena detentiva non può che legittimarsi oggi
principalmente in base a criteri di efficienza, di razionalità tecnica, di progressismo laico e
pragmaticoxxxiii. Ma la questione della criminalità, della violazione della sfera di integrità
soggettiva, patrimoniale e fisica, della minaccia alla sicurezza, costruita ed enfatizzata come bene
collettivo messo in pericolo da vari stereotipi di “straniero”, non è questione facilmente risolvibile
con meri espedienti tecnici. L’irrazionalità, l’emotività che permeano questa sfera dell’esperienza,
insieme alla crisi definitiva delle ideologie e delle filosofie, lasciano il campo al pragmatismo di
processi regressivi informali, che sembrano avanzare in direzione opposta ai raggiunti standard di
civiltà e di tutela dei diritti soggettivi. D’altro canto l’inevitabile deteriorarsi delle condizioni
interne, connesso al rafforzarsi delle istanze disciplinari, fondate sulla premialità, e soprattutto al
sempre più elevato sovraffollamento, rimanda a criteri di legittimazione assai più generici e
primitivi dei tre, classici, sopra riportati: quelli dell’inevitabilità del carcere in ogni forma di società;
della necessità della vendetta sociale, come ritorsione giusta e necessaria contro chi mette in
pericolo la convivenza civile; dell’imposizione coattiva di un modello di normalità sopra chi ha
manifestato il proprio disadattamento, senza attenzione alla qualità ed all’adeguatezza dei mezzi
usati.
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In questo contesto prevenzione, rieducazione, retribuzione, se perdono la loro fondatezza
storica e teorica, possono continuamente riemergere, tradotti in chiave strumentale-simbolica,
sacrificati tra molte contraddittorietà, prodotti episodicamente per rassicurare, giustificare, decidere,
sperimentare, reprimere, promettere, in un caleidoscopio di messaggi e di simboli tanto incoerente
quanto proteso a conservare una realtà sempre più cupa, quanto tendenzialmente inamovibile. Si
sottolinea come la crisi di uno o più di essi, causata da limiti strutturali o da mutamenti culturali,
determini la sua sostituzione con una maggior enfasi attribuita a uno o più degli altrixxxiv.
L’evidente crisi della funzione rieducativa, causata dalle inadeguatezze strutturali e da una
nuova enfasi posta sugli elementi di controllo, viene compensata dall’assunzione di maggiore
importanza delle funzioni di prevenzione generale. Ma, in realtà tutte le funzioni e i criteri di
legittimazione della pena restano in astratto possibili e si conservano come intercambiabili. Una
volta che rimanga come irrinunciabile la necessità di punire, come dato di fatto istituzionale e
culturale inevitabile, avulso da ogni verifica di realtà, tutte le giustificazioni sono plausibili,
necessarie e intercambiabili, al di là dell’evidente inapplicabilità e incongruenza dei principi su cui
si reggono. Emerge qui un evidente paradosso, per cui, ancora una volta è il livello
schematizzazione predefinito, che caratterizza i fondamenti della norma penale e della pena, a
consentire, insieme all’irrilevanza degli elementi di realtà, l’intercambiabilità/coesistenza di tutte le
giustificazioni della stessa, in quanto tutte, in linea di principio, ritenute necessarie, fondate ed
operanti. Una volta acquisita stabilmente la dimensione della necessità fondante dell’utopia nel
diritto penale, diviene paradossalmente impossibile fondarne la coerenza teorica, in termini di
funzioni e di valori. È d’altra parte quella stessa utopia a produrre effetti contrari ai principi che
dovrebbero legittimarla. Essa infatti consente l’applicazione della pena a masse di soggetti rispetto
ai quali, se considerati nella loro concreta dimensione di vita, la pena stessa risulta misura del tutto
estranea e inadeguata, cosicché, oltre ad apparire strutturalmente sproporzionata alla loro
dimensione motivazionale, non può che risultare incapace tanto di rieducare, quanto di prevenire,
quantomeno nel senso della prevenzione specialexxxv.
Per altro verso, il conflitto tra funzioni dichiarate e funzioni latenti del diritto penale,
coincidenti con la sua operatività di fatto, determina da parte del diritto penale stesso, insieme alla
incapacità di prendere concretamente in considerazione i soggetti cui si rivolge e il contesto
culturale cui intende riferirsi e che dà per acquisito, anche la violazione di diritti soggettivi, il
disconoscimento di bisogni sostanziali, l’incapacità di tutelare gli interessi dei più deboli, la
selettività, a loro svantaggio, tanto delle fattispecie di delitto, quanto dell’operatività concreta delle
stesse.
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4. La funzione della pena nella società contemporanea tra limiti e necessità di riforma-. Cosa
si annida nel sommerso del rapporto tra norma penale, pena e società civile, tale da dar luogo alle
contraddizioni e ai problemi posti all’attenzione della scienza penale? Una via di ricerca può essere
tracciata dalle rilevazioni di altre antinomie che caratterizzano la pena e il suo rapporto con la realtà
sociale.
La pena è un residuo marginale, anonimo e poco considerato della società, ma, al tempo
stesso, ne è lo specchio più fedele e significativo, apparendo al suo interno rappresentate, per quanto
spesso in modo mostruosamente deformato, molte delle caratteristiche e delle tendenze che la
contrassegnano. Così essa rappresenta un sintomo pregnante della continua tensione tra
cambiamento e conservazione, tra progresso e regresso delle istanze democratiche xxxvi. È
significativo rilevare come questi conflitti, che riguardano i fondamenti dell’organizzazione sociale
e la sua continua evoluzione, si sviluppano in realtà attorno a una questione primitiva e ancestrale,
quale quella della violenza, della vendetta, per quanto legalizzata, della sofferenza, per quanto
legalmente irrogata. La pena concretizza uno degli effetti più significativi, quanto drammatici, del
rapporto tra diritto e società. Essa rappresenta certamente, un impatto fisico delle norme scritte sui
rapporti sociali, una materializzazione del diritto penale, la ragione ferrea del controllo e della
sicurezza, la non giustiziabilità delle norme e dei diritti pur affermati in linea di principio.
La pena, se da un lato sfugge, è ignorata e rimossa, dall’altro, riassume in sé un enorme e
variegato potenziale di produzione simbolica. Ad essa si riferiscono infatti le immagini del pericolo,
della sicurezza, del castigo, del nemico, dell’autorità e dell’autorevolezza del diritto e dello Stato,
dell’onestà, della giustizia, ed altro ancora. Nonostante, dalla legge Gozzini in poi, grande enfasi sia
stata attribuita alle funzioni e ai possibili effetti delle misure alternative, si sono radicate, sia sul
piano normativo che applicativo, tendenze restrittive, che ne hanno determinato il sostanziale
svuotamentoxxxvii. La nuova importanza attribuita, a partire dalle misure alternative stesse, alla
funzione rieducativa della pena, con relativo approfondimento degli aspetti assistenzialistici ad essa
connessi, ha coinciso con una maggiore enfasi ai meri aspetti repressivi.
Se, come si è sottolineato, crisi dell’istituzione, da un lato, e disposizioni legislative,
dall’altro, non sono particolarmente correlate, entrambe sono piuttosto il sintomo dei legami
strutturali che connettono la pena alla società, del clima culturale in cui questo rapporto si colloca,
dell’ambivalenza che caratterizza questi aspettixxxviii. Il continuo bisogno di controllare fasce
emergenti di marginalità, non è che un aspetto della complessità e dell’oscurità di queste relazioni.
Ma è proprio riferendoci a questa dimensione del rapporto sommerso tra pena e società che è
possibile indagare più a fondo sui motivi della non riformabilità della pena, del progressivo
12
deteriorarsi dell’istituzione, così come delle ambivalenze e delle contraddittorietà che hanno
caratterizzato la legislazione penale nell’arco degli ultimi vent’anni.
In sintesi, nella prospettiva di questa mia relazione, si rileva che, quanto più la pena appare
attraversare una crisi di legittimità, che ne pone i fondamenti al centro di ricerche e dibattiti, tanto
più la sua realtà tende ad indurirsi e a deteriorarsi. Così assistiamo al paradosso che, tanto più la
pena si deteriora e rivela la sua irrazionalità ed inutilità, tanto più appare come legittimata ed
accettabile, in base a criteri sempre più estranei alla razionalità classica dei fondamenti
dell’istituzione. È in questo contrasto che la coerenza della fondatezza della pena si infrange; nello
scontro di queste opposte tensioni, essa si frammenta in una miriade di funzioni e di aspetti, che ne
definiscono non solo la polifunzionalità, ma anche la crisi di credibilitàxxxix. Attorno alla pena
detentiva si agitano e si esprimono luoghi comuni della vecchia e della nuova cultura, necessarietà
ancestrali, residui ideologico istituzionali, inamovibili concrezioni burocratico amministrative,
conflitti tra settori amministrativi per il controllo delle rispettive aree di influenza, sperimentazioni
operative e innovative, processi di ristrutturazione tecnico-organizzativa, di ridefinizione dei
problemi d’intervento, aperture e innovazioni, frammenti di proposte di riforma in senso
progressista, aspettative di reale cambiamento. Il tutto circolante in una caotica mescolanza. È in
questo contesto che si aprono tensioni e dialettiche tutte da verificare, comunque non riducibili alla
banalità del dato di fatto acquisito, per cui si pretenderebbe che a maggiore repressione penale
debba corrispondere maggiore sicurezza, all’insegna di un ottimismo funzionale e ideologicoxl.
5. Il ruolo del diritto penale nel nuovo millennio tra ricostruzioni dogmatiche e necessità
pragmatiche-. Se nel panorama ora delineato ci chiediamo quali prospettive si aprano per il diritto
penale, appare evidente un progressivo ridimensionamento dell’attenzione data all’interpretazione
della lettera della norma, alla coerenza della sua applicazione, per gestire di fatto, in modo ondivago
tra dimensione simbolica e pragmatica, i sistemi di relazione che si svolgono e si sviluppano attorno
allo strumento penale, nel rapporto tra istituzioni e società. Questi vanno letti tanto nella loro
dimensione funzionale, rispondente all’insieme contrastante di elementi che abbiamo appena
richiamato, quanto in quella più propriamente relazionale, come contesto di rapporti tra soggetti e
tra ruoli. In questo quadro caotico e contraddittorio il diritto penale, nonostante abbia toccato,
ancora una volta paradossalmente, i massimi livelli storici di inefficacia, pur restando un elemento
fondamentale, sotto il profilo simbolico, dell’enfasi attribuita ai temi della sicurezza e della lotta
alla criminalità, vede in parte ridimensionata, su questo terreno, la propria egemonia, per
l’emergere, al suo fianco, di altri strumenti istituzionali.
13
Se dovessimo definire quali prospettive, da questo punto di vista si stanno effettivamente
delineando, sembrano oggi contrapporsi due diversi modelli di gestione della devianza penale e di
attuazione di politiche di sicurezza: A) Le politiche “tolleranza zero” che consistono in una serie di
interventi di controllo, di sorveglianza e di repressione dislocati nel territorio, in base ai quali non è
più tanto l’illegalità come comportamento e responsabilità soggettiva ad essere oggetto del
controllo, quanto un calcolo del rischio, rappresentato dalla presenza di gruppi, categorie di
soggetti, fenomeni pericolosi o inquietanti, condizioni di insicurezza, ad ispirare il tipo di
interventixli. Gli stessi vengono perciò differenziati per diversi livelli e contesti di pericolosità,
orientandosi perciò verso particolari zone o categorie di persone. Tutto ciò si traduce in operazioni
di valutazione delle probabilità del verificarsi di fenomeni criminali o insecurizzanti, di selezione
delle aree di rischio da sottoporsi a particolare sorveglianza, di intervento selettivo, contenitivo o
incapacitante, verso determinate categorie di soggetti, a prescindere dal loro effettivo
comportamento e da eventuali responsabilità, di differenziazione delle forme di controllo e
repressive, a seconda dei gruppi di soggetti, delle aree, delle situazioni, delle condizioni, nell’ottica
della prevenzione e della neutralizzazione. Tali politiche si dispiegano tra una prassi tecnicoinformale e la rappresentazione di interventi di elevato carattere simbolico, con il fine di eliminare
dal territorio tutto ciò (e tutti coloro) che può rappresentare insicurezza, disordine, alterazione della
normalità quotidiana e dei modelli di comportamento acquisiti e socialmente adeguati. È ovvio che
l’arresto, la custodia, la pena assumono in questo metodo un ruolo cruciale, ma passano in secondo
ordine i fondamenti teorici e le garanzie cui dovrebbero ispirarsi, e anche l’evidenza della loro
utilizzazione e dei suoi effetti sui reclusi, mentre assumono un ruolo centrale selettività e
differenziazione, nell’organizzazione di diverse forme di contenimento, sostenute da un uso
spregiudicato di qualsiasi vecchio o nuovo criterio di giustificazione, all’insegna della massima
fungibilità. B) Le politiche di prevenzione che appaiono ispirarsi, in linea di principio, a una
prospettiva di ridimensionamento progressivo della materia penalmente rilevante e dell’uso della
pena, per dare spazio ad altre forme di intervento, che prevengano appunto il determinarsi e il
diffondersi di comportamenti criminosixlii. Ciò dovrebbe in primo luogo comportare l’intervento
preventivo sulle cause socio-economiche e i processi culturali che determinano il diffondersi della
criminalità, ma anche la sua stigmatizzazione sociale, oltre che istituzionale. Tale prospettiva
comporta preliminarmente, da un lato, l’analisi empirica del determinarsi dei fenomeni devianti nei
processi di trasformazione socio-economica e del diffondersi delle economie illegali. Dall’altro
l’analisi empirica dei fenomeni di vittimizzazione, dei sentimenti di insicurezza, delle reazioni
diffuse verso la criminalità e degli atteggiamenti verso gli strumenti istituzionali di gestione della
stessa (attitudini punitive), a partire dalla pena e dal carcere. Nel quadro analitico così ricostruito
14
varie misure potranno essere attuate. A livello generale, varie forme di sostegno e assistenza verso
le aree sociali più deboli, attenuazione delle differenze sociali, riduzione della disoccupazione,
attività di mediazione culturale tra gruppi socialmente o etnicamente diversi, tutela delle garanzie e
soddisfazione dei diritti e delle esigenze fondamentali di aree di soggetti marginali o a vario titolo
svantaggiate, con particolare riferimento agli immigrati.
A livello territoriale gli interventi possono comportare il risanamento strutturale e
relazionale di intere aree territoriali, l’attivazione di centri di aggregazione e di partecipazione
sociale, a diversi livelli, l’attivazione di vigili di quartiere, di operatori di strada, di tecniche e
strategie di riduzione del danno verso aree di soggetti problematici (tossicodipendenti, prostitute,
giovani disoccupati, anziani soli, e così via), attraverso strutture di servizio sociale mirate, centri di
assistenza per le vittime, case di giustizia di prossimità e di mediazione.
Nell’ottica più specifica di ridurre l’intervento del diritto penale, nelle politiche di
prevenzione, possono rientrare provvedimenti di depenalizzazione, che riducano la quantità di
fattispecie penalmente rilevanti, di abbassamento dei massimali di pena, per accelerare l’attivazione
di processi di reinserimento sociale, lo sviluppo di sanzioni diverse dalla detenzione, applicate già
da parte del giudice del processo di merito, mantenendo la detenzione come “extrema ratio”
(effettiva ed efficace); lo sviluppo di esperienze di privatizzazione dei conflitto, di mediazione, di
riparazione del danno; la tutela degli interessi materiali della vittimaxliii.
Non è questa la sede per approfondire le questioni teoriche e applicative implicate dallo
sviluppo e dall’attuazione di questa strategia, i cui risultati, per diversi aspetti positivi, potrebbero
essere verificati alla luce di diverse esperienze. Ma la questione di fondo è quella che si pone oggi
nel contrasto tra i due modelli, cioè nel rapporto tra il diffondersi di un atteggiamento in linea di
principio favorevole a questi metodi preventivi, e l’affermarsi, d’altro lato, delle sopra descritte
politiche attuariali, insieme all’intensificarsi dell’uso della pena detentiva. Si assiste infatti oggi
all’affermarsi di una serie di “luoghi comuni” di carattere progressista attorno alla questione della
pena.
L’introduzione di riforme del codice penale ispirate ai principi del diritto penale minimo;
l’affermazione di forme di depenalizzazione, tali da riservare alla pena la funzione di “extrema
ratio”; l’applicazione diffusa di forme di prevenzione e di interventi di carattere extra-penale; lo
sviluppo di esperienze di mediazione per la soluzione dei conflitti impliciti a varie forme di
criminalità; il rafforzamento della tutela dei diritti umani, il potenziamento e la garanzia dei diritti
della vittima, sono soluzioni divenute indispensabili per un diritto penale di matrice solidaristicosociale. Tutto ciò appare, quantomeno recentemente, essere entrato a far parte di ogni dibattito e di
ogni proposta che abbia a che fare con la “questione penale”, dalle più diverse fonti. Eppure non
15
vengono introdotte neppure le misure più tradizionali di attenuazione dell’intervento penale, quali
l’amnistia e l’indulto; il sovraffollamento e il deterioramento delle condizioni carcerarie appaiono
senza limite, anziché alla riduzione efficace e reale della popolazione detenuta, si pensa alla
costruzione di nuove carceri e all’espulsione dei detenuti extracomunitari. Questa ennesima
ambivalenza del linguaggio penale rischia di attribuire alle parole d’ordine progressiste il ruolo di
semplice copertura e di rinnovamento del lessico istituzionale, a fronte del radicalizzarsi delle
rigidità più tradizionali. Per cercare di uscire dalle ambivalenze di questa empasse è necessario
riprendere le questioni sostanziali che stanno alla base del persistere dell’afflizione penale e della
costruzione sociale della sua necessitàxliv.
In quest’ottica, superare le ambiguità che mantengono il diritto penale saldamente ancorato
ad un processo di progressivo deterioramento, senza logica e prospettive, vorrebbe dire sviluppare
una politica che operi la sintesi dei seguenti aspetti: l’attuazione di interventi concreti verso gli
episodi di devianza che, abbandonando le astrazioni penalistiche, elaborino delle misure adeguate
alla specificità dei casi.
La ridefinizione delle categorie scientifiche e giuridiche idonee ad un’analisi della devianza
più vicina alla concretezza e alla complessità dei fatti, per proporre nuove forme di conoscenza e di
percezione degli stessi, e, più in generale, di nuovi significati e riferimenti di senso. Il rispetto e la
tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte in essi, certo, e in primo luogo, delle vittime,
ma anche degli autori, considerati nelle specificità delle loro esperienze, personalità ed umanità. Lo
sviluppo di una comunicazione congruente tra istituzioni e opinione pubblica, che dia il senso della
razionalità ed adeguatezza degli interventi. L’affermazione di un modello di sicurezza come tutela
complessiva, che ponga al centro l’esigenza del miglioramento della qualità della vita, della qualità
delle relazioni e della comunicazione tra i soggetti, della tutela dei soggetti più deboli. In
quest’ottica, la prevenzione e la persecuzione dei crimini più gravi e socialmente più dannosi
(contro la persona, la natura, l’onestà istituzionale, i beni fondamentali) deve avvenire nelle forme
insieme più efficaci e più equilibrate. La sintesi di queste esigenze, che di per sé, singolarmente e
nel loro insieme, potrebbero trovare riscontro nell’opinione pubblica, almeno a livello di ipotesi,
appare nei fatti particolarmente difficile e distante dalle logiche prevalenti che abbiamo testè
sintetizzato. Il fatto è che la coesistenza di sfere contrastanti di senso rappresenta non solo il segno
di un empasse all’interno delle istituzioni e dei potenziali processi innovativi, di una incapacità
comunicativa all’interno dello spazio pubblico, ma è anche il riflesso delle ambiguità e ambivalenze
che attraversano l’opinione pubblica. Tra le ambivalenze della stessa, più sopra illustrate, e i
paradossi della pena, di cui ci siamo occupati poco sopra, esiste un’evidente sintonia, che se ne
16
rafforza i termini rispettivi, rende la situazione del rapporto pubblico-istituzioni attorno al carcere
particolarmente torbida, confusa e indecifrabilexlv.
6. Considerazioni conclusive-. Di fronte ad un quadro così complesso e incerto, si pone l’esigenza
di trovare una via d’uscita che, abbandonando le suggestioni allarmistiche e falsamente rassicuranti
delle politiche attuariali, ed evitando di perdersi in utopistiche prospettive di rapido superamento
dell’afflizione penale, individui forme concrete e realistiche d’intervento, idonee a sviluppare un
concreto processo di trasformazione. Si tratta cioè di entrare più decisamente nell’ordine di idee che
il problema della criminalità e della devianza si può gestire in altro modo, cercando di evitare, per
quanto possibile, l’intervento del diritto penale. Prendendo a riferimento le misure già accennate a
proposito del modello di nuova prevenzione, si può pensare di avvicinarci a questo risultato nei
seguenti modi: ridimensionare drasticamente la materia oggetto di tutela penale, definendo i valori
fondamentali meritevoli di tale protezione, secondo i principi del diritto penale minimo e della
riserva di codice. Procedere ad ampie forme depenalizzazione, che non si limitino, come nella legge
recentemente approvata (legge n. 507/99), ad abrogare le fattispecie desuete, ma rispondano ad una
diversa filosofia dell’intervento penale, partendo dalle fattispecie cui si associa il maggior numero
di detenzioni. Limitare la durata delle pene entro limiti massimi tali da non pregiudicare un
adeguato reinserimento sociale del reo come soggetto attivo nei rapporti sociali. Introdurre una
vasta gamma di misure “particolari di reclusione” (es. detenzione in appositi centri per
tossicodipendenti), già applicabili in sede di patteggiamento o di giudizio di merito: oltre alle attuali
pene pecuniarie, ridefinizione delle attuali pene accessorie come principali, lavoro socialmente
utile, detenzione di fine settimana, attività riparatorie, assegnando effettivamente alla pena detentiva
il ruolo residuale di “extrema ratio”.
È evidente che il ruolo della pena è tale solo se rappresenta effettivamente il limite estremo
dell’intervento sanzionatorio; se si riferisce ai casi più gravi e risulta applicabile in maniera efficace
ed effettiva.
Sviluppare quelle esperienze di privatizzazione del conflitto, di risarcimento del danno, di
mediazione, di attività risarcitorie che, oltre ad evitare all’attore l’esperienza distruttiva e traumatica
del carcere, vadano nel senso di una tutela più sostanziale degli interessi della vittima, muovendosi
però in un ambito di estraneità strutturale alla competenza penale. Attuare in senso ampio politiche
di nuova prevenzione orientate a ridefinire le condizioni sociali della produzione della devianza. Si
tratta cioè di intervenire sulle cause socio-economiche, sui processi di etichettamento, sulle norme
culturali repressive, sul degrado delle città e del territorio, sulle definizioni sociali negative, sulle
17
rappresentazioni reciproche tra aree socioculturali diverse, sul sistema di relazioni che tra di esse si
sviluppa. Decodificare, con gli strumenti dell’indagine empirica, i sentimenti di insicurezza e le
richieste d’intervento da parte dell’opinione pubblica, così da individuare, in modo differenziato ed
articolato, le risposte più adeguate. Più in generale si tratta di approfondire l’idea che la questione
della devianza è una questione di cultura, di mentalità, di riorganizzazione di un sapere e di
categorie diverse nella costruzione e nella rappresentazione sociale del problema, di
destrutturazione di pregiudizi, di analisi di processi economici e di dinamiche sociali.
La scommessa è se tutto ciò è destinato a rimanere una goccia nel deserto, al di sotto della
quale, come diverse esperienze all’estero hanno dimostrato, il rapporto strutturale tra norma penale
e società continua a sviluppare le sue oscure e irriducibili dinamiche; o se si trova il modo di
intaccare una buona volta fattivamente quelle concrezioni e quei sotterranei processi,
individuandone i punti più vulnerabili.
i
Vedi DEVOTO-OLI, Vocabolario della lingua italiana, Firenze 2000, pag. 746 che qualifica dogmatismo ogni
atteggiamento che partendo da principi aprioristici, sui quali non ammette dubbio, da questi ricava tutto un sistema
indipendentemente dai fatti e dalle esperienze.
ii
Vedi DEVOTO-OLI, Vocabolario della lingua italiana, Firenze 2000, pag. 1761 che qualifica pragmatismo ogni
atteggiamento che afferma la preminenza dello sperimentare e dell’azione pratica rispetto alla ricerca teorica di una
verità astratta.
iii
Cfr. MUSACCHIO, Norma penale e democrazia, Milano 2004 in cui si analizza la crisi della norma penale in
rapporto alla crisi della moderna democrazia occidentale. Dopo aver esaminato il rapporto tra norma penale e
democrazia, e gli aspetti problematici della genesi della norma penale, si propongono alcuni suggerimenti per la cura
dei mali che affliggono quest'ultima. Si veda anche MUSCO, Consenso e legislazione penale. Riv. it. dir. e proc. pen.
1993,II, 80.
iv
Il principio di sussidiarietà, insieme a quello di proporzionalità tra strumenti e obiettivi, illumina un profilo della
riserva di legge penale ulteriore rispetto a quello negativo di sottrazione della potestà normativa ad altri poteri statali.
Un profilo positivo e sostanziale, che fissa direttive precise di politica criminale seguendo un'idea del diritto penale
come sistema di limiti sostanziali al legislatore, che la Costituzione avrebbe ripreso dall'illuminismo, dopo averne
superata la eccessiva e utopistica fiducia nella legge. Su questi aspetti si veda BRICOLA, Politica criminale e scienza
del diritto penale, Bologna, 1997; IDEM, Rapporti tra dogmatica e politica criminale, Riv. it. dir. e proc. pen. 1988,
DAVID,Globalizzazione, prevenzione del delitto e giustizia penale. Milano, 2001; DOLCINI, Riforma della parte
generale del codice e rifondazione del sistema sanzionatorio penale. Riv. it. dir. e proc. pen. 2001,IV, 823; DONINI, Per
un codice penale di mille incriminazioni: progetto di depenalizzazione in un quadro del "sistema". Dir. pen. e processo
2000,I,1652; FERRAJOLI,Sul diritto penale minimo. Foro it. 2000,V, 125.
v
Su questi aspetti interessante è la lettura di: EUSEBI, Forme e problemi della premialità nel diritto penale. Studium
Juris 2001,I, 273;IDEM, Il futuro del principio penalistico di colpevolezza. Note in margine ad un contributo di Gunter
Stratenwerth, Riv. it. dir.e proc. pen. 1982,245; IDEM, La riforma del sistema sanzionatorio penale: una priorità elusa?
Riv. it. dir. e proc. pen. 2002,IV, 76.
vi
Cfr. STELLA,"Something works": realtà e prospettive del principio di rieducazione del condannato. Indice pen.
1999,f. 25, 125; UCCELLA, Educazione o rieducazione del detenuto? Spunti propositivi per una modifica (necessitata)
dell'art. 27 comma 3 cost., Cass. pen. 1989,1144; D'AMBROSIO, L'ordinamento penitenziario alla luce delle moderne
teorie sulla funzione della pena, Legalità e giustizia 1988,26.
vii
Su questo aspetto si legga il bellissimo scritto di BETTIOL G., La concezione della pena in Aldo Moro, Riv.it.dir. e
proc. pen. 1981,1263.
viii
Vedasi FORTI, Tra criminologia e diritto penale. Brevi note su cifre nere e funzione generalpreventiva della pena,
Riv.it.dir. e proc.pen. 1982,160; BARATTA, Legittimazione strumentale e funzione simbolica del sistema punitivo. Per
un uso "alternativo" del diritto penale, Difesa pen. 1990,fasc.29,19; NESPOLI, Riflessioni brevi sulla sanzione penale
nei suoi rapporti con lo scopo di prevenzione generale e speciale, Giust. pen. 1983,I,310.
ix
Su questo aspetto si veda MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza. Riv. it. dir. e
proc. pen. 1996,I, 423; DONINI, Illecito e colpevolezza nell'imputazione del reato, Milano, 1991; FIANDACA,
Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, Riv. it. dir. e proc. pen. 1987,836; ROXIN, Sul problema del diritto
18
penale della colpevolezza, Riv.it.dir. e proc.pen. 1984,16; EUSEBI, Il futuro del principio penalistico di colpevolezza.
Note in margine ad un contributo di Gunter Stratenwerth, Riv.it.dir.e proc.pen. 1982,245.
x
La norma penale è lo strumento che soddisfa i flussi di bisogni umani e riesce a coinvolgere molti interessi, sia
convergenti sia contrastanti fra loro, poiché in tale ottica, tutti i portatori di interessi immediati o mediati, sono
meritevoli di tutela. La norma penale, poi, consente la separazione di classi di valori, interessi e bisogni, che concorrono
alla formazione dello stato di certezza, da quelli che non la determinano. Essa, quindi, è l'insieme delle regole, che
consentono all'individuo di conquistare lo stato di certezza e perciò di indirizzarlo verso la consapevolezza che la
ricerca intrapresa e' quella giusta e che gli darà una risposta. La norma penale e' uno strumento dell'operare umano
nell'ambito del contesto sociale e deve adempiere anche ad una funzione sociale, soddisfacendo le attese di tutti i
soggetti che vengono con essa in contatto. Le attese di conoscenza sono soddisfatte dal suo contenuto.
xi
Cfr. MUSACCHIO, Norma penale e democrazia, op. cit. 12 in cui si evidenzia come la norma penale non può non
essere immersa nei valori che una determinata società esprime in un determinato momento storico. Essa non esce dalla
mente del suo “demiurgo” ex abrupto ma cresce e matura sotto la spinta di esigenze politiche, economiche, sociali,
culturali e morali che una società ha in sé La norma penale nasce per il perseguimento di un obiettivo specifico: tutelare
i valori propri di una collettività. Valori che non possono essere universali ed assoluti ma mutevoli nel tempo e nello
spazio. Colui che crea una norma penale è obbligato a valutare le varie istanze che possono provenire dal mondo
politico, economico, sociale e culturale.
xii
Vedi MUSCO, L’illusione penalistica, Milano 2004, 182 in cui l’insigne studioso afferma che le scelte di politica
criminale sono condizionate da fattori molto spesso opinabili di tipo culturale, economico, politico, di costume,
religioso e acquistano consistenza e spessore solo se ampiamente condivise. Una democrazia bipolare, anche del tipo
che si sta costruendo nel Paese, ha addirittura bisogno di questa opzione costituzionale: il gioco delle maggioranze è
variabile e la maggioranza qualificata sostituisce non solo il fondamento del divieto penale ma anche il limite ad
eventuali arbitri.
xiii
La norma penale tutela dei “valori” che la società esprime in un determinato momento storico. Mentre colui che la
crea deve intuire, vivere e tradurre in forme di tutela questi valori. Il diritto penale moderno non ha bisogno solo di
tecnici, ha bisogno anche di tecnici. Il problema della genesi normativa penale costituisce l'orizzonte teoretico
dell'attività del legislatore. Ed è un problema radicale poiché non si lascia costringere nell'ambito convenzionale di
un'operazione, individuale o collettiva, ma investe la persona umana nella sua interezza. Tale intuizione sorregge e
rigenera il diritto penale, conducendo la scienza penalistica contemporanea fuori delle secche del razionalismo
formalistico. Dalle radici dei valori sono illuminati i principali istituti del diritto penale e nella complessità dei suoi
motivi, il rapporto dialettico di teoria e prassi si pone nella concreta esperienza giuridica. La norma penale, pertanto, è
uno strumento perché è il risultato di una attività creatrice. Ogni attività dell’uomo è naturalmente volta al
soddisfacimento di un’esigenza. Ecco perché la norma penale è un fenomeno strettamente pertinente all’attività pratica
della vita sociale.
xiv
La punizione che tende a restituire al detenuto il corrispettivo negativo del suo atto illegale, sarà una punizione che
non nutrirà particolare interesse nei confronti della persona. Proprio per questa ragione, le moderne concezioni della
pena richiedono che essa sia breve ma definitiva, che durante l'esecuzione della condanna non subisca delle flessioni
causate dal comportamento del reo o da altre motivazioni. La nostra legge penitenziaria si connota in maniera opposta a
quest'ultima concezione: a contare veramente è ciò che accade durante l'esecuzione della pena. Se si presenta una
possibilità di recupero nei rapporti con gli altri, questa deve essere ammessa e deve favorire il reinserimento del
detenuto nella società.
xv
Cfr. MUSACCHIO, Norma penale e democrazia, Milano 2004 pag. 12 ss con ivi contenuta una bibliografia
aggiornata sugli approfondimenti del caso.
xvi
Nei confronti della giustizia, intesa come apparato preposto alla concreta applicazione dei precetti di legge e, quindi,
della individuazione da parte degli operatori di giustizia di ciò che è obiettivamente giusto, i nostri antenati non hanno
mai dimostrato di nutrire grande fiducia. Lo testimonia la gran mole di massime, di detti e di proverbi che ci hanno
tramandato e che, ancora oggi, è possibile sentir ripetere dai più anziani o da chi ad essi ricorre per colorire ed arricchire
di significati i suoi discorsi. Ed è proprio dallo studio di questi proverbi che viene fuori il profondo pessimismo delle
passate generazioni le quali ritenevano davvero estremamente infelice chi, dimostrando una immeritata grande fiducia,
sperava in una giustizia “giusta”.
xvii
L’analisi del contesto, è la prima meta del legislatore penale. Gli ingredienti ed i meccanismi d’indagine sono:
tempo, raccolta di informazioni (universali e statistiche), esperienza nella valutazione. Il tempo è un elemento
assolutamente necessario nell’analisi del contesto. La norma penale si crea per l’uomo, non contro l’uomo, quindi,
occorre meditare bene le scelte che si fanno. L’analisi del contesto si realizza con le informazioni disponibili,
raccogliendole ed analizzandole. La prima regola, che a mio giudizio dovrebbe regnare in questo settore, è quella della
diffidenza verso ciò che altri hanno scritto o detto sul contesto oggetto di valutazione. Una analisi fatta da altri, può
contenere in sè il germe di finalità diverse da quanto interessa al legislatore penale.
xviii
Nell’accingersi all’opera di creazione della norma penale, dunque, è indispensabile esaminare la sua possibilità,
utilità, ed efficacia da due punti di vista: da un lato il condizionamento storico e politico entro cui ha luogo; dall’altro le
tecniche di formulazione che la attuano in concreto. La norma penale nasce dall’analisi che a sua volta si fonda
19
sull’ambiente storico e politico. Il condizionamento storico è al di fuori delle possibilità di azione del legislatore, che
può soltanto comprenderlo ed utilizzarne la conoscenza. Il contenuto della norma penale, invece, è oggetto della
manipolazione del legislatore che può progettarlo ed agire di conseguenza. Il successo di una norma penale dipende in
primis dalla qualità della conoscenza del contesto storico e politico. Non può esistere una “buona” norma penale che
non abbia compreso il proprio “ambiente” (spazio e tempo). La storia e la politica determinano le condizioni di una
società e forgiano la norma penale.
xix
Cfr. MUSCO, L’illusione penalistica, op. cit. 122; PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in Studi in
memoria di Nuvolone, vol. 1, Milano 1991 , 396. Si condivide pienamente quanto affermato da Musco, il quale ritiene
che del principio di effettività si debba discutere innanzitutto sul piano della genesi della fattispecie penale, perché
appare ovvio che non ha senso introdurre nel sistema un reato che, fin dall’origine, non possiede attendibilità empirica e
criminologica. L’effettività va interpretata sia sotto il profilo normativo, cioè, come capacità della norma penale di
ottenere dai consociati l’osservanza di specifici comportamenti, sia nel suo significato sociale quale proiezione, sul
piano interattivo con le altre istanze di controllo sociale, dell’attuazione degli scopi legislativamente predeterminati. Le
cause della crisi degli effetti della norma penale possono essere ricondotte a categorie di natura endogena e di natura
esogena. La prima coinvolge il funzionamento del sistema penale, la seconda riguarda le potenzialità applicative della
norma penale.
xx
La norma penale produce i suoi effetti soprattutto se alla stessa sono concessi mezzi idonei a garantire le varie istanze
di controllo della legalità dei comportamenti umani. In una democrazia tendenzialmente pervasa dall’anomia, con
scarsa propensione al rispetto dei valori generali, con una conflittualità marcata in campo economico, politico e sociale,
con sacche di povertà sempre più diffuse, occorre investire risorse umane ed economiche per creare le condizioni di
efficacia della norma penale.
xxi
Gli effetti della norma penale sono una componente importantissima da considerare nel suo processo genetico. Essi
dipendono dal livello di potere e di qualità di valori tra la fonte ed il destinatario. Se la fonte è credibile ed è realmente
portatrice di valori sentiti dalla società gli effetti della norma penale sono senz’altro validi. In caso contrario la norma
penale è sterile. La modalità di reazione dei consociati, inoltre, è diversa secondo l’atteggiamento nell’ambiente di
pertinenza.
xxii
La politica di depenalizzazione non rappresenta una fenomenologia normativa capace di incidere sul ruolo svolto dal
diritto penale contemporaneo. A noi sembra che sia l’intervento legislativo del 1981 che quello del 1999 non siano
riusciti a disboscare neanche il cd. diritto penale extracodicistico. Non si riesce a comprendere neanche le metodologie
di legiferazione penali correnti che si servono della delega legislativa contrastante con le garanzie di tutela a livello
costituzionale. Si risente a livello politico la necessità di spostare l’equilibrio dei poteri dello Stato a favore del
Governo, con l’inevitabile violazione della competenza esclusiva del potere legislativo in materia penale. Il sistema
penale, mi rammarico nel dirlo, è sempre meno effettivo e sempre più scenografico.
xxiii
Una norma penale che non dura, in continuo restauro, è una norma che rovescia la certezza che ci aspettiamo dal
diritto penale in una incertezza “disfunzionale” che lo rende nemico. L’attuale legislazione penale denota chiaramente
una scarsa preparazione del legislatore ed evidenzia come alcune norme siano state promulgate più per dare una risposta
all’allarme destato nell’opinione pubblica da importanti fatti di cronaca che per l’effettiva maturazione
dell’ordinamento giuridico. E in questo clima di scarsa chiarezza, che viola in modo evidente ed inaccettabile il
principio di certezza del diritto sancito dall’ordinamento, le forze dell’ordine e la magistratura sono chiamate ad
espletare un ulteriore e gravoso compito che loro non compete: quello di trarre norme applicabili da disposizioni che tali
non sono, travalicando i limiti posti all’interpretazione delle leggi e svolgendo una funzione legislativa che è riservata al
Parlamento. E ciò è tanto più grave se si considera che in materia penale, nel nostro ordinamento, vige il divieto
assoluto di ricorrere all’analogia.
xxiv
Nella democrazia italiana, quindi, la forma della norma non può non ottemperare al principio di stretta legalità ed
osservare i criteri di formulazione giuridica penale, invece, la sostanza non può non esprimere i valori che una società
sente come propri, valori che possono avere anche valenza europea ( ad es. recepimento di direttive) o internazionale
(ad es. ratifica di trattati internazionali). L’orizzonte della norma penale, oggi, è molto più ampio che nel passato. Il
diritto penale si prepara ad affrontare un viaggio nei meandri dei valori universali (mutabili). Un distacco tra ambiente
politico, culturale, economico, sociale e norma penale è, a nostro avviso, inconcepibile se non si vuole ridurre
quest’ultima ad un’ombra senza contenuto. La riprova di quanto affermato sta nel fatto che quando cambia l’atmosfera
culturale di una collettività, mutano immediatamente i rapporti tra cittadino e Stato e le ripercussioni in campo penale
sono immediate.
xxv
L'idea retributiva della pena, che ha avuto sostenitori illustri come Kant, Bettiol e Santamaria; essa parte dal
presupposto che la punizione non possa che essere il contraltare del male commesso ("malum passionis propter malum
actionis"). Una volta depurata dalle sue derivazioni etiche e religiose e quindi dall'idea di "punizione per il peccato", la
retribuzione è in grado di offrirci la sostanza di un principio fondamentale del nostro sistema punitivo: si tratta del già
menzionato principio di proporzionalità tra delitto e castigo (di cui all'art. 3 Cost.). Il valore della sanzione deve essere
proporzionale al disvalore della condotta illecita: è palese quanto questa affermazione possa allontanare il fantasma del
terrorismo punitivo. Anche la teoria retributiva ha avuto la sua "evoluzione" nel corso del tempo: le visioni
"neoretribuzionistiche" riconducono ad un concetto di catarsi, vale a dire di neutralizzazione delle pulsioni criminose
20
dei consociati ottenuta tramite la effettiva punizione dei rei, che dà soddisfazione alla società. (per tutti vedi BETTIOL,
Diritto penale, parte generale, Padova 1982, 756)
xxvi
Su questi aspetti si vedano BRICOLA, La riscoperta delle pene private nell'ottica del penalista, Foro it. 1985,V,1;
DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, Riv.it.dir. e proc.pen. 1990,797;
IDEM, Riforma della parte generale del codice e rifondazione del sistema sanzionatorio penale. Riv. it. dir. e proc. pen.
2001,II, 823; GIUNTA, L'effettività della pena nell'epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio. Riv. it. dir. e
proc. pen. 1998,II, 414; MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma. Riv. it. dir. e proc.
pen. 2000,f. 21, 160.
xxvii
Il diritto penale è una dottrina che giustifica la punizione «se e solo se è uno degli strumenti di minimizzazione della
violenza e dell’arbitrio che in sua assenza si produrrebbero». La distanza della realtà effettuale dal modello normativo
dà la misura della crisi della legalità penale e con essa della pena.
xxviii
La pena è "un dover essere metagiuridico che ha in se stesso il proprio fondamento" (Ferrajoli, 1997). Alla base di
questa concezione vi è "una visione dell’uomo come libero e perciò responsabile della propria condotta" (Ponti, 1990).
Altri qualificano la detenzione come un intervento di prevenzione secondaria e terziaria nei confronti della commissione
dell’illecito: il carcere deve mostrare ai detenuti il loro errore al fine di scoraggiare le recidive (prevenzione secondaria)
e deve impedir loro, tramite l’incapacitazione fisica, di delinquere (prevenzione terziaria). Il carcere è visto anche come
un luogo in cui trasmettere agli autori di reato un nuovo quadro valoriale. "Le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (Costituzione, art. 27). Tutte
queste teorie hanno la loro validità e fin quando sussiste una società nella quale è presente il reato è difficile pensare ad
una totale eliminazione del carcere.
xxix
Ci troviamo effettivamente dinanzi ad una crisi della pena classica, della pena detentiva, intesa come sanzione che di
fatto poi manca di quell’effettività che le si chiederebbe di avere, tant’è vero che c’è ormai un costante richiamo alla
certezza della pena. Ora, è vero che il nostro ordinamento penitenziario, anche se abbiamo spesso detto che è molto
avanzato, di fatto è stato introdotto nel ‘75, in un momento in cui l’ideologia del trattamento, almeno nel suo modello
correzionale, inteso come tecnica d’intervento tesa alla modifica della personalità, era già in piena crisi nei sistemi
anglosassoni, e quindi c’era già un venir fuori delle istanze retributive, della pena intesa come retribuzione. Ma in questi
tempi ci troviamo soprattutto davanti a nuove tendenze della retribuzione, che sono un po’ diverse dalla classica
retribuzione, perché la retribuzione poi in sé non è un danno, la retribuzione è comunque un elemento della pena che dà
garanzia, garantisce appunto pene che sono determinate e che sono proporzionate alla gravità del reato. Ora il richiamo
alla retribuzione che si fa invece all’interno degli attuali orientamenti di politica criminale è un richiamo non tanto alla
retribuzione legata alla effettiva gravità del reato, quanto un richiamo all’allarme sociale, alla gravità del reato così
come percepita dalla comunità. E quindi si rischia anche di andare a proporzionare le pene a questo allarme sociale, che
spesso non è lo specchio di una reale offensività del reato.
xxx
Con riferimento all'Ordinamento italiano, l'art. 27 della Costituzione, il quale prevede espressamente il trattamento
inteso come un programma correzionale, che prenda inizio con la pronuncia della sentenza di condanna e raggiunga il
completamento con la cessazione d'ogni controllo, ha trovato attuazione con la riforma penitenziaria del 1975. Con la
legge 26 luglio 1975, n. 354 l'amministrazione penitenziaria è venuta ad acquisire l'indispensabile strumento normativo
per adeguarsi ai precetti costituzionali dell'umanizzazione delle pene e del trattamento rieducativo per i condannati. Per
la prima volta la materia penitenziaria è stata disciplinata con legge invece che con atti amministrativi di carattere
generale. La Legge 354/75 mostra l'evidente sfavore verso la completa esecuzione della pena inframuraria, ed introduce
la possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione, in pratica sancendo la fine del principio assoluto di
intangibilità della sentenza di condanna. Il principio della funzione rieducativa della pena ha ispirato l'introduzione nel
nostro ordinamento delle misure alternative alla detenzione, le quali, sostituendosi alle pene detentive ed abituando il
condannato alla vita di relazione, rendono più efficace l'opera di risocializzazione.
xxxi
Anche nel contesto carcerario solo l'attuazione di una diagnosi psico-patologica che valuti nella sua globalità le
cause sociali e intrapsichiche alla base della scelta tossicomania, le capacità individuali sia cognitive che relazionali e la
reale motivazione ad intraprendere percorsi riabilitativi, può rappresentare il primo passo per l'impostazione di una
proposta terapeutica che non sia meramente assistenziale ma adeguata ai reali bisogni dei singoli utenti e che miri
all'educazione, alla formazione e alla salute della persona. Un obiettivo conseguibile solo attraverso un efficace
collegamento operativo tra i servizi territoriali competenti e quell'istituzione penitenziaria troppo dipendente, nella
predisposizione dei suoi programmi, da scelte politiche ed economiche che delegano a istituti di tipo chiuso il
trattamento dei tossicomani e ritengono non conveniente impegnarsi in programmi lunghi e costosi di recupero dei
detenuti.
xxxii
È certo che più stranieri, rispetto agli anni precedenti, commettono reati anche gravi. Ma è altrettanto certo che nei
loro confronti esiste una maggior attenzione da parte delle istanze di controllo sociale; essi spesso sono tenuti in
condizioni di disagio tali da rendere quasi inevitabile il compimento di reati "di sopravvivenza"; molte violazioni penali
(delitti di falso, violazioni di pubblica sicurezza, e così via) attengono alla voglia e alla necessità di regolarizzarsi, di
emergere, di cessare di essere un fantasma esposto al ricatto di datori di lavoro senza scrupoli o, peggio, delle
organizzazioni criminali che cercano bassa manovalanza a buon mercato e ad alto rischio. A ciò si aggiunga che, sotto il
profilo processuale, le ricerche esistenti mostrano che lo straniero ha minori possibilità di accesso al diritto di difesa,
21
cioè è tendenzialmente difeso meno bene. Per esempio: è molto più spesso contumace, anche indipendentemente dalla
sua volontà (per problemi di irreperibilità), e non beneficia della sospensione condizionale per tale unica ragione, anche
in presenza di violazioni di gravità modestissima, che lo porteranno però in carcere al primo contatto con l’autorità.
Naturalmente, anche tale condizione di inferiorità incide sensibilmente sui tassi di incarcerazione e sulle presenza in
carcere, e costituisce una inaccettabile fonte di differenziazione, di disuguaglianza e di ingiustizia – in una parola –
nella gestione del controllo sociale e dello strumento penale in particolare.
xxxiii
I sistemi normativi validi non sono quelli che si incentrano nel "principio utilitaristico", bensì nel "principio
personalistico" in questi ordinamenti, la "pena" è strumento irrinunciabile di orientamento del comportamento umano e
di controllo sociale e la "effettività della pena" per il condannato con un processo "giusto" non è un accidens ma la base
prima su cui poggia la credibilità della norma penale e dell' intero sistema giuridico ed infine occorre tener conto che il
"perdono sociale" non è automaticamente "perdono penale".
xxxiv
Su questi aspetti vedi: EUSEBI, La pena in crisi. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia 1990
MOSCONI, La pena e la crisi, in "dei delitti e delle pene 1994, Vol. III; MOSCONI, La crisi postmoderna del diritto
penale ed i suoi effetti sull'istituzione penitenziaria, in Rassegna penitenziaria e criminologica, anno V, gen-dic 2001.
xxxv
Per ulteriori approfondimenti si rinvia a EUSEBI L., Dibattiti sulle teorie della pena e "mediazione", in Riv. ital. dir.
e proc. pen., 1997, 811; IDEM La "nuova" retribuzione. L'ideologia retributiva e la disputa sul principio di
colpevolezza, in Riv. ital. dir. e proc. pen., 1983, 1315; IDEM La "nuova" retribuzione. Pena retributiva e teorie
preventive, in Riv. ital. dir. e proc. pen., 1983, 914;La pena "in crisi". Il recente dibattito sulla funzione della pena,
Brescia, 1990.
xxxvi
Cfr. MUSACCHIO, Norma penale e democrazia, Milano 2004 in cui si evidenzia che in uno Stato democratico di
matrice solidaristica come il nostro, la volontà popolare è mutevole e concede le sue grazie ora ad uno schieramento
politico ora ad un altro. In tal senso, sarebbe molto pericoloso che i rapporti tra il potere politico e la genesi della norma
penale cambino secondo l’avvicendarsi di una maggioranza. Questo potrebbe esser giustificato solo laddove la
maggioranza senta il bisogno di valutare nuove esigenze avvertite nella società e con i dovuti contrappesi istituzionali.
xxxvii
Su questo aspetto mi piace citare BETTIOL, Gli ultimi scritti e la lezione di congedo, Padova 1984 pag. 14 e 15 in
cui l’insigne giurista afferma:” I reati aumentano dappertutto in qualità o in quantità ed il recidivismo è lo stato normale
del delinquente. Mai come oggi una concezione pessimistica dell’uomo trova la sua ragion d’essere. Si è abolita la pena
di morte, si è tolta di mezzo la reclusione perpetua, si è allargata la sospensione condizionale della pena, si è concesso il
regime di semilibertà, si è abolita la convertibilità delle pene pecuniarie in pene detentive, si è esaltata la pena
pecuniaria, e ci si è trovati con la delinquenza in casa”.
xxxviii
La norma penale esige un ruolo di primo piano in uno Stato democratico giacché la sua degenerazione o l’uso
strumentale ed utilitaristico della stessa possono far sì che una democrazia si trasformi in una non democrazia. Il
demiurgo nel plasmare la norma penale deve raccogliere le istanze sociali, economiche, culturali e politiche che
meritano di essere catalogate tra i fatti costituenti reato.
xxxix
Su questi aspetti: DONINI, Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto tra diritto penale e politica, Riv.
ital. dir. e proc. pen. 2001, fasc. 1, pag. 27-55 in cui l’autore espone le sue riflessioni sul rapporto tra diritto penale e
politica attraverso l’analisi del metodo democratico e del metodo scientifico. Il primo vizio d’origine del metodo
tradizionale della scienza giuridica afferma l’autore è il normativismo integrale, la riduzione del diritto a sola norma,
fosse anche, la norma costituzionale e considerando il diritto unitariamente, come norma, l’oggetto della scienza penale
è duplice: il diritto penale come norma, decisione e istituzione, e l’oggetto del diritto penale, cioè la criminalità e le
singole materie di riferimento. Il secondo vizio d’origine, è il provincialismo nazionalista, la scienza nazionale.
xl
Su quest’aspetto si rinvia a PADOVANI, L’utopia punitiva, Milano 1981
xli
DE GIORGI, Zero Tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, Roma 2000 che contiene alcune
riflessioni utili per una discussione sulla trasformazione del diritto in Italia. Gran parte del materiale cui si riferisce il
libro ossia l’origine dell’espressione Zero Tolerance e la messa in atto della politica di sicurezza di Giuliani, trovano
accoglienza nella sintetica appendice del volumetto (pp. 103-117), che riassume i termini della questione, risalendo alla
suggestiva immagine delle “finestre rotte” avanzata dalla “Monthly Review” nel 1982. In poche parole: esiste un
legame diretto fra il degrado urbano e la criminalità. Se un ambiente urbano è abbandonato a se stesso, se i
comportamenti devianti, ma non certo criminali, vengono tollerati (le finestre rotte, i bidoni della spazzatura incendiati),
presto l’assuefazione impedisce di scorgere la natura violenta dei fatti. Se in un palazzo non ripari subito la finestra
rotta, il palazzo subirà presto altri atti di vandalismo: il degrado urbano provoca un senso di abbandono e favorisce il
maturare di comportamenti criminali. E’ necessario che la polizia reprima i comportamenti fastidiosi e molesti che
offrono immagini degradate delle città: questo favorirebbe la riduzione della criminalità vera e propria. De Giorgi
analizza sinteticamente la “cura Giuliani” messa in atto dal New York Police Departement: incremento organico della
polizia, massima discrezionalità nella sua azione, pattugliamento aggressivo, e nel dettaglio: fine ai graffiti nella
metropolitana, allontanamento degli homeless dai ripari notturni, sanzioni all’elemosina aggressiva e al lavaggio
abusivo dei vetri delle auto. Il successo effettivo di queste strategie è messo in dubbio da tutti gli analisti. Il calo degli
omicidi a New York è dovuto a queste strategie o alle trasformazioni del mercato della droga e quindi nell’azione delle
gang rivali? E’ impossibile rispondere, nota De Giorgi, ma è impossibile non analizzare quali processi di esclusione ed
inclusione sociale vengano attivati dalle tematiche della Tolleranza zero. Che conseguenze produce questa politica sui
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diritti individuali? Sui gruppi sociali marginali? Non si tratta forse di una vera e propria criminalizzazione della povertà,
della marginalità? De Giorgi non enfatizza questo paradigma foucaltiano, ma offre illuminanti dati sull’aumento delle
cause al NYPD per perquisizioni violente o abusi, sull’aumento delle uccisioni di civili, sulle morti sospette nei locali
della polizia, sul consolidarsi delle pratiche razziste del NYPD verso afroamericani e latinoamericani. Chi ha pagato a
New York la strategia di Zero Tolerance? Graffitisti, prostitute, spacciatori, giovani dei ghetti.
xlii
Su questo aspetto illuminante e condivisibile è EUSEBI. Intervento al convegno “Colpa e pena”, Bergamo, Centro
Congressi Giovanni XXIII, 2 maggio 2000 in cui l’autore afferma che un serio approccio al problema della criminalità –
lo dobbiamo dire nella fase in cui si riforma il codice penale – esige anzitutto la progettazione di serie politiche
preventive, le quali intervengano sui fattori economico-finanziari, sui fattori di disagio individuale, sui fattori sociali
che determinano spazi percorribili per l’adozione di condotte offensive di beni fondamentali per la convivenza civile.
Fare una simile politica preventiva deve coinvolgere tutti i settori dell’ordinamento giuridico e non limitarsi all’uso
dello strumento penale. La prevenzione penale non è tanto e solo una questione di diritto penale, è una questione di
diritto civile, di diritto societario, di diritto tributario, di diritto amministrativo e, naturalmente, è una questione di
politiche sociali, è una questione di presenza educativa. Ciò implica che sia socialmente percepito un senso maturo di
corresponsabilità circa la genesi dei fattori summenzionati.
xliii
Nel terzo millennio, il fenomeno della crisi del diritto penale, sta assumendo, rispetto al passato, una portata
dirompente ed inedita. Di qui l’assoluta necessità di comprendere le ragioni di tale crisi degenerativa, individuandone le
discriminanti, i caratteri di fondo e le linee di tendenza. Compito fondamentale della scienza penale, in questo contesto,
è quello di assimilare queste trasformazioni e renderle coerenti con il sistema penale contemporaneo. Per affrontare
questa sfida è però necessario non smarrire lo spessore teorico ed i canoni del diritto penale. Un approccio
interpretativo, questo, che certo non vuol dire pregiudiziale estraneità nei confronti delle nuove forme di produzione del
diritto penale, ma che vuole costituire un freno nei confronti delle varie prassi di raggiro della volontà popolare
registratesi nel recente passato. Di fronte a questo stato di cose l’attività intellettuale del penalista non può né trincerarsi
dietro le classiche questioni di metodo, né tanto meno rifiutarsi pregiudizialmente di interpretare le profonde
innovazioni della società moderna, rinunciando, a priori, ad avvalersi delle categorie analitiche del diritto penale. E
questo, non solo perché una legislazione politica non sorretta dalla dogmatica giuridica è un viaggio verso l’ignoto, ma
anche perché la dogmatica giuridica che non è in grado di risolvere problemi - che nelle attuali condizioni del sistema
politico potrebbero essere decise politicamente - non può definirsi tale. Di qui l’imprescindibile esigenza, avvertita già
da qualche tempo dalla dottrina penalistica, di raccordare scienza giuridica e strutture, enunciato normativo e dinamiche
politiche, sociali, economiche e culturali.
xliv
La scienza penale deve sempre evitare di estraniarsi dalla realtà sociale, allo stesso modo, dovrebbe evitare di
legittimare sempre e in ogni caso ogni forma di manifestazione e di comando proveniente dal potere politico, avallando,
spesso, a cuor leggero, una interpretazione lassista del sistema penale. Lo studioso di diritto penale, deve, nel caso in cui
ravvisi un contrasto tra manifestazioni del potere politico e volontà dell’ordinamento sociale, denunciare prontamente
tale pratica eversiva, rimarcando l’inevitabile incidenza di tali violazioni non solo sui principi della produzione
normativa, ma anche sulle dinamiche connesse alla forma di governo, alla tutela dei diritti e al sistema delle garanzie
costituzionali e internazionalmente riconosciute.
xlv
Ciò che conta oggi, nella attuale situazione politica istituzionale, è costatare che l’incapacità ad orientare la politica
sulle scelte di criminalizzazione dei comportamenti umani finalizzandole verso valori costituzionali, ha creato una
deriva di degrado della legislazione penale che appare sempre più marcata dal modello fai da te, così fortemente
stigmatizzato anche dalle supreme istanze etiche e religiose del Paese e che appare condizionato, se non proprio
governato, dall’azione tenace di non sempre visibili e non sempre trasparenti lobbies di potere: lobbies fortemente
manipolabili, economicamente assai attrezzate, in possesso di potere di mobilitazione e non avvezze a disquisire in
termini di interessi generali.
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