Comisiòn 6 : Realidad Penintenciaria LA CRISI DEL RAPPORTO TRA NORMA PENALE E SOCIETA’ CIVILE E LE SUE RIPERCUSSIONI SULL’EFFICACIA DELLA PENA NELLA REALTA’ ITALIANA di Vincenzo Musacchio Professore di Diritto Penale dell’Unione Europea nella Facoltà di Economia dell’Università degli studi del Molise (Italia) e-mail: [email protected] Sommario: 1. Norma penale e società contemporanea tra dogmatica e prassi-. 2. La crisi della norma penale e le sue componenti essenziali in uno Stato democratico-. 3. La crisi della pena come conseguenza della crisi della norma penale-. 4. La funzione della pena nella società contemporanea tra limiti e necessità di riforma-. 5. Il ruolo del diritto penale nel nuovo millennio tra ricostruzioni dogmatiche e necessità pragmatiche-. 6. Considerazioni conclusive. 1. Norma penale e società contemporanea tra dogmatica e prassi-. La norma penale è una rappresentazione della realtà che opera quando gli equilibri della civile convivenza sono messi in grave pericolo. Rispetto alla complessità della società post-moderna, essa opera attraverso un sistema di regole omogeneo e si sviluppa attraverso due componenti indispensabili per qualsiasi scienza giuridica: a) il dogmatismoi che consacra i principi cardine della scienza penale; b) il pragmatismoii che si riferisce alla rappresentazione del contesto sociale in cui tale scienza si attesta. Nella società in cui ha efficacia la fattispecie penale, tutti i cittadini devono essere uguali davanti alla legge ed i valori tutelati dalle norme penali non possono non essere condivisi dalla stragrande maggioranza della collettività, che perciò le rispettanoiii. La rappresentazione secondo cui la violazione della sfera soggettiva dei diritti per effetto del reato, comporterebbe una reazione da parte delle persone offese e della stessa collettività, che la norma penale è chiamata a prevenire e controllare, avocandosi il monopolio delle funzioni reattive contro gli illeciti, può ritenersi attualmente superata. La norma penale non può essere presentata soltanto come strumento insostituibile per garantire la sicurezza generale tra i cittadini o per rispondere ai diffusi sentimenti di sfiducia nella giustizia. Tra allarme per la criminalità, senso di insicurezza, bisogno di reazione punitiva contro il crimine, la norma penale sembra essere l’unica panacea alla criminalità dilaganteiv. Così non è ! 1 Nella società della globalizzazione, essa, va concepita, come uno strumento dalla duplice funzione: preventiva e di garanzia delle vittime del reato. In questa direzione, la stessa assume un ruolo determinante e va a colmare le lacune presenti attualmente nel nostro sistema penale. Nel suo aspetto pratico, la stessa si estrinseca nella sanzione penale e viene rappresentata dalla dottrina dominante come avente carattere retributivo, in quanto riproduce una afflizione proporzionale al disvalore del reato e al danno sociale dallo stesso provocato v; rieducativo, in quanto idonea a instaurare un processo trattamentale del soggetto capace di rimediare ai fattori che ne hanno influenzato il comportamento deviantevi; emendativo, in quanto, la pena è idonea a mutare l’atteggiamento mentale e il sostrato valoriale del reo, riabilitandolo davanti alla società vii; preventivo, in quanto si immagina che svolga una funzione deterrente tanto rispetto alla collettività, orientandone i comportamenti (prevenzione generale), quanto rispetto ai singoli, posti di fronte alle conseguenze delle scelta di un comportamento illecito (prevenzione speciale)viii. La crisi di efficacia che caratterizza oggi la norma penale non può sottrarci al compito di porre l’insieme di questi fattori a confronto con la complessità dei rapporti e delle situazioni concrete in cui il diritto penale contemporaneo si esteriorizza. Non potendo, in questa prestigiosissima assise internazionale, sviluppare una disamina sistematica della distanza tra le stesse e la realtà cui si riferiscono, mi pare opportuno considerare la differenza incolmabile tra la tipizzazione dell’elemento psicologico del reato e la grande differenziazione di motivazioni, di processi mentali, di valutazioni, di criteri e di esperienze che caratterizzano la sfera psichica del comportamento soggettivo, anche sotto il solo profilo della consapevolezza dell’azioneix. Come non valutare in che modo i beni oggetto di tutela da parte delle varie fattispecie criminali - che fanno riferimento a valori generali ed astratti che si pretendono condivisi dalla collettività - si raffrontano con le differenze e le stratificazioni culturali presenti all’interno della società cui la norma penale si rivolge. L’accenno a queste possibili sfasature tra i valori tutelati dalla norma e quelli presenti nella cultura diffusa, mi sia consentito affermare, merita un approfondimentox. In primo luogo non si possono non considerare i riflessi che le trasformazioni della legittimazione del diritto penale in rapporto all’opinione pubblica esercitano nel contesto normativoxi. Il passaggio da un modello di legittimazione di tipo etico, fondato su valori generali ed astratti, e decisamente formalizzabili, ad uno di carattere pragmatico, fondato sulla materialità di esigenze concrete e sull’efficienza dei mezzi addottati a determinati fini non può non riguardare la norma penale. In questo senso, essa non è più solo espressione di valori più o meno presuntivamente diffusi all’interno della collettività, ma diventa anche congegno di coordinazione alla risoluzione di problemi specifici. D’altra parte, questo meccanismo è determinante in tale 2 rapporto biunivoco, in quanto tende ad evitare quelle caratteristiche di disapplicazione, di estraneità, di astrusa tecnicità che determinano una situazione di sostanziale scucitura tra contenuti normativi e società civile, favorendo una indifferenza dei cittadini verso la norma penalexii. In secondo luogo, non posso non considerare come tutta la più recente analisi sociologica sul mutamento culturale descriva un ampio e profondo processo di allontanamento dell’opinione pubblica da riferimenti di valore, quantomeno stabili e generalizzati. Emerge, così, una situazione in cui è evidente la tendenza ad abbandonare criteri di valore generali ed astratti, ideologicamente o istituzionalmente precostituiti e dirigersi verso comportamenti rivolti alla soluzione pratica dei problemi posti dalla vita quotidiana, al raggiungimento di un benessere sempre in via di ridefinizione, all’espressione dell’originalità soggettiva sulle definizioni istituzionali, all’attuazione di forme solidaristico-partecipative, intese come terreno di espressione di una nuova soggettività socialexiii. L’interiorizzazione della norma penale, trova in questo spazio un terreno sempre più ristretto e problematico. Nella società odierna si avverte il bisogno di “giustizia” contro i comportamenti criminali, che la norma penale ha la funzione di prevenire, di controllare e di reprimere. Pertanto, o la norma penale si assume, per delega da parte della società, il compito retribuire in modo razionale e misurato, gli autori dei reati, e allora bisogna presumere che tale disponibilità alla moderazione della risposta debba sussistere nel sentire diffuso, così da privare di fondatezza quel pericolo di eccessi cui il diritto penale deve ovviare. Oppure esiste un’effettiva possibilità di riconoscimento del bisogno diffuso di afflizione nella reazione penale, e allora anch’essa non può che essere sostanzialmente retribuzione, al di là delle forme con cui si legittima. Di fronte a queste ipotesi è inevitabile trovare una soluzione attraverso l’analisi degli atteggiamenti sociali verso la criminalità. Nella prospettiva di questa verifica, va ricordata l’esigenza profondamente connaturata nel sentire collettivo attorno al bisogno di punire. Se all’atto del reo, si associa un senso di colpa motivato dall’inconscia identificazione con la sua capacità trasgressiva, la punizione inflitta assume la valenza di un rito necessarioxiv. Se questo assunto è messo a fuoco dall’antropologia come incongruenza costitutiva della stessa punizione, possiamo a maggior ragione cogliere il senso e l’importanza delle distonie tra legittimazione della norma penale e contraddizioni ed incongruenze diffuse nell’opinione pubblica cui la stessa si riferisce e che l’attuale complessità e diversificazione sociale oggi irreversibilmente determinano. Consideriamo poi il fatto che le ricerche sul rapporto tra norma penale e società civile rivelano molte contraddizionixv. Ad esempio, molti sono i fattori che portano a non denunciare un 3 reato, tra cui, cosa strana a dirsi, una minore gravità attribuita allo stesso, rispetto a quella definita dalla leggexvi. Diversa è spesso la scala di gravità dei comportamenti vietati nell’opinione diffusa, rispetto a quelli risultanti dalla legge penale. Mentre alcuni comportamenti, spesso, neppure definibili reati, destano disapprovazione, senso di insicurezza e reattività, altri, considerati relativamente gravi dalla legge penale, non raccolgono la stessa disapprovazione da parte della società civile. Diverse sono le sfasature emergenti tra la paura, la disapprovazione morale e le richieste punitive. Ancora molto contraddittorie sono le valutazioni verso la pena, infatti, spesso quest’ultima, tanto frequentemente invocata, finisce agli ultimi posti nelle graduatorie dei mezzi possibili per combattere la criminalità. Questo tipo di rilevazioni può dare l’idea di quanto astratti e ideologici siano i presupposti che costituiscono il fondamento della legge penalexvii. Crisi politica complessiva, disorientamento istituzionale e sociale di fronte al cambiamento degli equilibri politici precedenti, decadenza e disorientamento socioculturale, irrompere di nuove emergenze dalla natura e dagli esiti sconosciuti, diffondersi di un esteso e incontrollabile senso di incertezza, di una cultura da “stato d’assedio”, possono essere considerati elementi di una profonda crisi sociale. L’insieme di questi aspetti pongono dunque al centro del dibattito, la reazione verso la devianza come possibile riferimento di riscontro empirico a questo processo. La distanza inevitabile della norma penale dal consenso va assunta come dato problematico, motivo continuo di tensioni, conflitti aggiustamenti tra le due dimensioni, probabilmente in continuo movimento e insuperabili, ma tali da meritare più di qualche attenzione analiticaxviii. 2. La crisi della norma penale e le sue componenti essenziali in uno Stato democratico-. Come abbiamo più volte ribadito, uno degli aspetti più significativi che caratterizzano oggi la crisi della norma penale è la coesistenza, in essa, di due termini che danno luogo ad un’evidente ambivalenza: astrattismo e pragmatismo. Da un lato, la norma penale non può non essere pragmatica, intervenendo nelle situazioni più specifiche e disparate, con l’intento di offrire soluzioni concrete, attraverso l’espediente punitivo, applicato come rimedio polivalente. Dall’altro, essa svolge una funzione fondamentale di produzione simbolica, rappresentando le emergenze di turno e costruendo, di volta in volta, fattispecie incriminatrici ad hoc. La convivenza di questi aspetti, pone il problema se questi due termini siano destinati a comporsi in un quadro di complementarietà funzionale, o se non possano che produrre contraddizioni ingovernabilixix. 4 Ad una lettura più approfondita, l’individuazione dei termini di ambivalenza ora richiamati appare assai più complessa e problematica, piena di ambiguità e sovrapposizioni. Se consideriamo, infatti, le norme penali che più chiaramente rivestono una funzione strumentale, come quelle che tendono ad attenuare il carattere repressivo ed afflittivo, esse rappresentano un livello del diritto penale in cui alla permissività si unisce il carattere prettamente pragmatico delle disposizioni, molto più orientate ad amministrare adeguatamente la quantità dei problemi sollevati dall’applicazione di un qualche tipo di sanzione restrittiva alla complessità della realtà sociale di oggi, ovvero, a raggiungere su questo terreno risultati pratici, più che ad affermare o realizzare principi teorici astratti. È però evidente anche il carattere simbolico di questi provvedimenti, in quanto rappresentano il volto riformatore, democratico, laico e garantista delle istituzioni, in particolare dell’apparato del controllo penale. Per altro verso, i provvedimenti che rivestono un valore prevalentemente simbolico restrittivo, come le produzioni legislative di carattere emergenziale, non sono esenti da una certa pragmaticità, in quanto essi mirano ad attuare tecniche di controllo e a raggiungere risultati concreti, quali la produzione di un clima di allarme sociale, la definizione di pubblici nemici, la rappresentazione della capacità e dell’efficacia repressiva delle istituzionixx. Il punto limite di questa tendenza è rappresentato dall’assunzione, da parte della norma penale, di funzioni puramente pragmatiche di gestione della devianza come rischio sociale, attraverso una gamma disparata e diversificata di interventi, accomunati dall’unica coerenza della congruità rispetto allo scopo. Questo orientamento mette in luce come la norma penale operi sempre meno come risposta individualizzata a singoli soggetti e comportamenti, con il compito di retribuire o rieducare, mentre tende ad amministrare interi gruppi, settori e processi sociali, con provvedimenti che rispondono ad un calcolo statistico delle probabilità di successo o di fallimento nella gestione della devianza. Potrei dire in definitiva che la delicatezza della materia con cui la norma penale ha a che fare - la crucialità della stessa sotto il profilo del senso collettivo di sicurezza, del controllo e dell’amministrazione della violenza, dell’organizzazione del consenso, favorisca il complicarsi, il sovrapporsi, lo scontrarsi dei termini di ambivalenza del modello considerato. A causa di ciò più precaria ne risulta l’integrazione e la capacità operativaxxi. La norma penale si presenta, infatti, particolarmente incline a continue e contraddittorie variazioni, come effetto di evidenti manifestazioni di conflitto, di strumentalità e di contrattazione politica, il che rende la situazione altamente instabile e contraddittoria. Ciò appare tanto più evidente se si considera la tendenza da tempo in atto a rispondere ai problemi più disparati in termini penalistici. Una innumerevole quantità di norme, orientate a risolvere pragmaticamente singole questioni, secondo i caratteri prevalenti assunti oggi dal diritto, contengono disposizioni di carattere 5 penale, a garanzia dell’efficacia della norma. Di fronte alla sempre maggior difficoltà dell’iperproduzione normativa, a risultare incisiva presso i settori cui si rivolge, la norma penale appare assumere la funzione di un simulacro o di una ricetta valida per tutte le malattie xxii. Ma ciò non può che sortire un triplice effetto negativo: 1) la produzione di un insieme caotico e faragginoso di norme, non riconducibili ad un sistema organico, difficilmente coordinabili e interpretabili tanto sul piano della coerenza logica, quanto su quello operativo xxiii. 2) l’impossibilità, da parte delle agenzie preposte a rilevare le violazioni e a far rispettare le norme, di svolgere efficacemente i propri compiti. 3) l’inefficacia e l’estrema selettività dell’intervento penale, a svantaggio dei soggetti più deboli e marginali. Quanto più la norma penale si rivela inefficace, tanto più tende ad essere prodotta in termini quantitativamente più estesi e qualitativamente più afflittivi, amplificando la contraddittorietà del rapporto tra crisi e indurimento dello strumento penale. Quanto più si vorrebbero trovare soluzioni ispirate a criteri di razionalità tecnica, tanto più si rivela la tendenza a ricorrere a soluzioni irrazionali e repressive. Le tendenze riformatrici in senso liberale e garantistico, vengono così periodicamente vanificate da nuove svolte restrittive, indotte da retoriche e climi allarmistici, che nessun orientamento di apertura appare in grado di prevenire. Tutto ciò in definitiva non può che tradursi in ulteriore crisi di legittimazione dello strumento penale, di sfiducia da parte della pubblica opinione, il che appare ulteriormente rilevante e significativo ai fini del problema del rapporto tra pena e sentire diffuso, la cui rilevanza nell’economia del nostro discorso abbiamo poco più sopra consideratoxxiv. 3. La crisi della pena come conseguenza della crisi della norma penale-. Che la pena sia in crisi è ormai un dato certo e lo hanno già confermato in questo convegno, studiosi più autorevoli di me. Alla crisi attuale, vorrei, mio malgrado, aggiungere ulteriori elementi. La crisi del principio retributivo che sancisce, la proporzionalità della pena alla gravità del reato, è ormai una realtà. Tale principio appare da sempre disapplicato, sia per la grande varietà di regimi carcerari, sia per la diversa afflittività della pena in relazione allo status sociale del condannato. Ma la proporzionalità della pena è andata ulteriormente in crisi con il superamento dell’economia di mercato in cui la stessa si era sintonicamente definita. La globalizzazione dell’economia si può porre in relazione con un analogo processo in materia penale, per cui, sulla proporzionalità e la retributività, che segnavano l’equilibrio del sistema penale, sono le sopra ricordate funzioni simboliche a prevalere. Così, la condanna pare assumere una maggiore importanza sia sotto il profilo simbolico, a conclusione della fase processuale, che sotto quello 6 concretamente applicativo. Ma il criterio di retribuzione proporzionale è messo definitivamente in crisi dall’introduzione delle misure alternativexxv. La durata della pena non più solo sulla base della gravità del reato, ma la condotta del detenuto in carcere e le condizioni oggettive del suo ipotetico reinserimento, spostano definitivamente i criteri di quantificazione dell’afflittività penale. Il fatto è che le stesse misure alternative, sul piano applicativo, non appaiono rispondere ad alcun criterio di certezza e di razionalità, così da rispettare un pur minimo livello di effettivitàxxvi. Esiste una relazione tra l’assunzione di provvedimenti che introducono nuove misure alternative o che ne estendono l’applicabilità e l’andamento della effettività penale. E’ scontato che l’estensione dei presupposti che consentono l’applicazione delle misure alternative, si traduca in un effettivo aumento della loro concessione. Nel suo complesso, comunque, in termini assoluti, l’area di applicazione delle misure alternative tende a crescere, nel senso che, al di là delle fasi alterne nell’andamento delle concessioni, sempre maggiore è il numero di soggetti che risultano affidati, agli arresti o in detenzione domiciliare, sottoposti a libertà controllata o vigilata. Tale area cresce parallelamente e in concomitanza con il crescere della popolazione reclusa, delineandosi così una crescita complessiva dei soggetti sottoposti a controllo penale, all’interno e all’esterno del carcerexxvii. In sintesi l’idea che l’estensione dell’intervento penale “soft” segni una decisa tendenza nella prevedibile riduzione dei massimi di pena, all’insegna di una nuova, più contenuta retributività, appare del tutto infondata, inserendosi il fenomeno in una più ampia ridefinizione del sistema di controllo sociale. Il carcere resta costantemente al centro della struttura e della natura delle cosiddette misure alternative. Sia che le stesse siano pensate come strumento di reintegrazione graduale del soggetto nella normalità dei rapporti sociali, sia che vengano concepite come strumento di controllo interno all’istituzione, in quanto l’aspettativa della loro concessione induce il detenuto a comportamenti più disciplinati e a spirito di sopportazione, il carcere resta uno strumento penale purtroppo ancora irrinunciabile. Esso è necessario ed indispensabile come costante minaccia in caso di violazione delle regole trattamentali o di recidiva, ovvero, come oggetto funzione disciplinare che la potenziale concessione di benefici rivestexxviii. Ad un livello di maggiore profondità si può pensare che, al di là delle estemporanee variazioni legislative, si annidino, nel sommerso del rapporto che connette la pena all’organizzazione sociale, molti fattori e processi, i quali fanno della stessa un indicatore particolarmente significativo della crisi della società, del suo sistema di controllo, dei processi di destabilizzazione e di disgregazione sociale che l’attraversano, delle culture variamente emergenziali che si diffondono, tanto all’interno delle istituzioni preposte all’applicazione del 7 diritto, quanto più in generale, anche se in termini, come si è visto, assai più complessi e distonici rispetto alle retoriche del controllo sociale, dell’opinione pubblica nel suo complesso. È altamente controverso il fatto che la minaccia di un inasprimento della sanzione penale svolga un’efficace opera di deterrenza verso i comportamenti illegali. Basti considerare, sul piano della prevenzione speciale, cioè rivolta ai singoli soggetti, l’elevato tasso di recidività, all’interno dell’area di soggetti che hanno sperimentato gli effetti afflittivi della violazione della legge. Sul piano della prevenzione generale non possiamo trascurare il fatto che molto spesso, proprio nelle realtà in cui si adottano inasprimenti di pene, si registrano tendenze all’incremento della criminalità e di aggravamento delle sue manifestazioni. Del resto non è difficile intuire come un indurimento dell’intervento repressivo non appare linearmente destinato a rafforzare sentimenti di sicurezza. Anzi esso appare destinato a rafforzare un circolo vizioso in base a cui quanto più cresce il numero dei denunciati, dei condannati e dei detenuti, tanto più si enfatizza l’immagine del pericolo criminalità, che, in via repressiva, si vorrebbe combattere, e tanto più possono crescere i sentimenti di insicurezza. Questi, a loro volta, possono incrementare l’attitudine denunciatoria diffusa, un ulteriore inasprimento delle pene, come risposta alle istanze sottese alla stessa, con conseguente rappresentazione di un più elevato livello di criminalità e l’induzione di un più intenso allarme sociale; e via di seguito, in una spirale repressiva potenzialmente senza limiti. Ciò che occorre oggi non è affatto l’inasprimento di sanzioni penali fantomatiche ma al contrario è necessario puntare sulla effettività del pena e sul suo aspetto qualitativoxxix. Anche la decadenza della funzione rieducativa rientra tra gli aspetti che contribuiscono notevolmente alla crisi della pena, perché intacca la sua immagine più progressista e avanzata. Eppure anch’essa appare appartenere ad una fase ormai superata dell’evolversi della cultura istituzionale, e più in generale sociale. Il quadro di sfondo è costituito da quella crisi delle motivazioni valoriali. Se non esiste una corrispondenza univoca tra valori tutelati dalla norma penale e valori diffusi, è da chiedersi a quali valori debbano essere rieducati i condannati, che senso abbia pretendere dagli stessi un modello di normalità che nella cultura diffusa appare sempre più precario. La stessa crisi del Welfare State, la riduzione delle spese per interventi sociali, l’enfasi attribuita alla libera iniziativa individuale tolgono spazio economico e culturale alle tematiche assistenzialistiche, quindi anche agli interventi di tipo rieducativo e pedagogico, tanto più che, nella nuova logica di distribuzione della spesa pubblica, essi, se efficacemente attuati, appaiono eccessivamente costosi. Ciò è aggravato dal fatto che lo stato di sovraffollamento del carcere rende assolutamente ingestibile la disparità tra risorse disponibili, in termini di operatori ed attività trattamentali, e numero di “utenti”. Per non dire del fatto che elementari concetti pedagogici fanno dubitare dell’efficacia di un trattamento educativo cui il discepolo è forzatamente e 8 autoritativamente sottoposto, quindi contro sua voglia: tanto più in un ambiente deteriore e deteriorato, artificiale ed estraneo rispetto al contesto in cui si dovrebbe venire reintegrati. Ma soprattutto è il tipo di composizione che caratterizza oggi la popolazione detenuta a dimostrare lo scarso fondamento che può oggi presentare l’idea di rieducazionexxx. La pena attualmente è costituita, per oltre il 70%, da soggetti imputati o condannati per piccoli reati contro il patrimonio; per oltre il 30% da soggetti il cui comportamento deviante è connesso allo stato di tossicodipendente o da immigrati extracomunitari. Con riferimento ai primi, si possono dare due situazioni opposte. Soggetti alle prime esperienze, per i quali il comportamento illegale ha carattere sostanzialmente occasionale e che quindi non richiedono interventi rieducativi in senso pieno, mentre, al contrario, l’esperienza della pena detentiva può costituire causa di rottura traumatica del proprio sistema di relazioni e del proprio equilibrio esistenziale, nonché di socializzazione reattiva a valori socialmente negativi, imperanti nella cultura carceraria. Cosicché la pena, lungi dal rieducare, tende a radicalizzare le tendenze criminogene. Oppure soggetti da tempo dediti ad attività delinquenziali, elette a sistema di vita. Per questi, un episodio detentivo in più o in meno non fa molta differenza, rispetto a un modello esistenziale che ormai fa del carcere un elemento di routine. La stessa offerta di un lavoro dignitoso e consistentemente retribuito, ammesso che sia ottenibile, nell’attuale struttura del mercato del lavoro, difficilmente distoglierebbe questi soggetti dalle loro attività decisamente più redditizie, quantomeno in termini brevi. Solo i “raggiunti limiti di età” li indurranno a cambiare sistema di vita, per salvare il salvabile di una vita totalmente dissestata, tra disordini comportamentali e afflizioni penali. Se poi l’attività delinquenziale si connette all’affiliazione ad un’organizzazione criminale, si può ritenere che essa sia espressione di una “scelta di criminalità”, volontaria e motivata, tale da non essere facilmente destrutturabile, tanto più se si tiene conto delle precarie risorse trattamentali dell’istituzione. Anche in questi casi, a far cambiare atteggiamento da parte del soggetto sono più le dinamiche interne all’organizzazione di appartenenza che la possibile influenza dell’intervento rieducativo. Per quanto riguarda i tossicodipendenti, lo stesso legislatore, con la normativa orientata a sostituire l’intervento terapeutico all’esperienza restrittiva, ha evidenziato la inadeguatezza della sanzione detentiva a carico degli stessixxxi. È evidente che il carcere, nel quale peraltro, come noto, circola tranquillamente ogni tipo di droga, non può rappresentare un valido strumento per la disintossicazione di questi soggetti, né tantomeno un mezzo efficace per ricostruire in modo adeguato il loro sistema di relazioni, tanto che si potrebbe dubitare che per gli stessi siano rispettati (e rispettabili) i principi dell’art. 27 della Costituzione. 9 Quanto agli immigrati, è la stessa normativa che ne prevede l’espulsione in caso di imputazione o che ne incentiva la scelta di ritorno in patria, a testimoniare quanto la detenzione a carico degli stessi non venga concepita in chiave rieducativa, ma puramente incapacitativa; per non dire di quanto più difficile sia attivare per gli stessi risorse trattamentali, in termini di opportunità di lavoro o di adeguati riferimenti sociali di relazionexxxii. A riscontro dell’inconsistenza della funzione rieducativa della pena rileviamo altri due elementi: a) l’alto numero di recidivi presenti in carcere (mediamente circa il 70% della popolazione detenuta), per i quali l’iterazione della “terapia penitenziaria” assume i tratti di una ossessiva, quanto improduttiva “coazione a ripetere”; b) il fatto che, nella concessione delle misure alternative si tiene molto più conto del carattere rassicurante delle condizioni esterne di cui l’ex detenuto potrà fruire, che del suo comportamento e dei progressi trattamentali in carcere, cosa di cui i giudici non sembrano, a buon diritto, particolarmente fidarsi, rivelando così la cattiva coscienza del diritto e dell’istituzione. La crisi evidente dei tre principi di legittimazione della pena, resa irreversibile dal logorarsi delle condizioni storiche, economiche, politiche e culturali, che ne erano all’origine, si inserisce a buon diritto nella recente più generale trasformazione culturale ricorrente: dalle ideologie e le teorie, come spiegazioni generali ed astratte della realtà e grandi narrazioni sui mezzi necessari alla soluzione dei problemi dalla stessa sollevati, alla adozione di saperi tecnologici e di mezzi pragmatici per la gestione degli stessi. Così anche la pena detentiva non può che legittimarsi oggi principalmente in base a criteri di efficienza, di razionalità tecnica, di progressismo laico e pragmaticoxxxiii. Ma la questione della criminalità, della violazione della sfera di integrità soggettiva, patrimoniale e fisica, della minaccia alla sicurezza, costruita ed enfatizzata come bene collettivo messo in pericolo da vari stereotipi di “straniero”, non è questione facilmente risolvibile con meri espedienti tecnici. L’irrazionalità, l’emotività che permeano questa sfera dell’esperienza, insieme alla crisi definitiva delle ideologie e delle filosofie, lasciano il campo al pragmatismo di processi regressivi informali, che sembrano avanzare in direzione opposta ai raggiunti standard di civiltà e di tutela dei diritti soggettivi. D’altro canto l’inevitabile deteriorarsi delle condizioni interne, connesso al rafforzarsi delle istanze disciplinari, fondate sulla premialità, e soprattutto al sempre più elevato sovraffollamento, rimanda a criteri di legittimazione assai più generici e primitivi dei tre, classici, sopra riportati: quelli dell’inevitabilità del carcere in ogni forma di società; della necessità della vendetta sociale, come ritorsione giusta e necessaria contro chi mette in pericolo la convivenza civile; dell’imposizione coattiva di un modello di normalità sopra chi ha manifestato il proprio disadattamento, senza attenzione alla qualità ed all’adeguatezza dei mezzi usati. 10 In questo contesto prevenzione, rieducazione, retribuzione, se perdono la loro fondatezza storica e teorica, possono continuamente riemergere, tradotti in chiave strumentale-simbolica, sacrificati tra molte contraddittorietà, prodotti episodicamente per rassicurare, giustificare, decidere, sperimentare, reprimere, promettere, in un caleidoscopio di messaggi e di simboli tanto incoerente quanto proteso a conservare una realtà sempre più cupa, quanto tendenzialmente inamovibile. Si sottolinea come la crisi di uno o più di essi, causata da limiti strutturali o da mutamenti culturali, determini la sua sostituzione con una maggior enfasi attribuita a uno o più degli altrixxxiv. L’evidente crisi della funzione rieducativa, causata dalle inadeguatezze strutturali e da una nuova enfasi posta sugli elementi di controllo, viene compensata dall’assunzione di maggiore importanza delle funzioni di prevenzione generale. Ma, in realtà tutte le funzioni e i criteri di legittimazione della pena restano in astratto possibili e si conservano come intercambiabili. Una volta che rimanga come irrinunciabile la necessità di punire, come dato di fatto istituzionale e culturale inevitabile, avulso da ogni verifica di realtà, tutte le giustificazioni sono plausibili, necessarie e intercambiabili, al di là dell’evidente inapplicabilità e incongruenza dei principi su cui si reggono. Emerge qui un evidente paradosso, per cui, ancora una volta è il livello schematizzazione predefinito, che caratterizza i fondamenti della norma penale e della pena, a consentire, insieme all’irrilevanza degli elementi di realtà, l’intercambiabilità/coesistenza di tutte le giustificazioni della stessa, in quanto tutte, in linea di principio, ritenute necessarie, fondate ed operanti. Una volta acquisita stabilmente la dimensione della necessità fondante dell’utopia nel diritto penale, diviene paradossalmente impossibile fondarne la coerenza teorica, in termini di funzioni e di valori. È d’altra parte quella stessa utopia a produrre effetti contrari ai principi che dovrebbero legittimarla. Essa infatti consente l’applicazione della pena a masse di soggetti rispetto ai quali, se considerati nella loro concreta dimensione di vita, la pena stessa risulta misura del tutto estranea e inadeguata, cosicché, oltre ad apparire strutturalmente sproporzionata alla loro dimensione motivazionale, non può che risultare incapace tanto di rieducare, quanto di prevenire, quantomeno nel senso della prevenzione specialexxxv. Per altro verso, il conflitto tra funzioni dichiarate e funzioni latenti del diritto penale, coincidenti con la sua operatività di fatto, determina da parte del diritto penale stesso, insieme alla incapacità di prendere concretamente in considerazione i soggetti cui si rivolge e il contesto culturale cui intende riferirsi e che dà per acquisito, anche la violazione di diritti soggettivi, il disconoscimento di bisogni sostanziali, l’incapacità di tutelare gli interessi dei più deboli, la selettività, a loro svantaggio, tanto delle fattispecie di delitto, quanto dell’operatività concreta delle stesse. 11 4. La funzione della pena nella società contemporanea tra limiti e necessità di riforma-. Cosa si annida nel sommerso del rapporto tra norma penale, pena e società civile, tale da dar luogo alle contraddizioni e ai problemi posti all’attenzione della scienza penale? Una via di ricerca può essere tracciata dalle rilevazioni di altre antinomie che caratterizzano la pena e il suo rapporto con la realtà sociale. La pena è un residuo marginale, anonimo e poco considerato della società, ma, al tempo stesso, ne è lo specchio più fedele e significativo, apparendo al suo interno rappresentate, per quanto spesso in modo mostruosamente deformato, molte delle caratteristiche e delle tendenze che la contrassegnano. Così essa rappresenta un sintomo pregnante della continua tensione tra cambiamento e conservazione, tra progresso e regresso delle istanze democratiche xxxvi. È significativo rilevare come questi conflitti, che riguardano i fondamenti dell’organizzazione sociale e la sua continua evoluzione, si sviluppano in realtà attorno a una questione primitiva e ancestrale, quale quella della violenza, della vendetta, per quanto legalizzata, della sofferenza, per quanto legalmente irrogata. La pena concretizza uno degli effetti più significativi, quanto drammatici, del rapporto tra diritto e società. Essa rappresenta certamente, un impatto fisico delle norme scritte sui rapporti sociali, una materializzazione del diritto penale, la ragione ferrea del controllo e della sicurezza, la non giustiziabilità delle norme e dei diritti pur affermati in linea di principio. La pena, se da un lato sfugge, è ignorata e rimossa, dall’altro, riassume in sé un enorme e variegato potenziale di produzione simbolica. Ad essa si riferiscono infatti le immagini del pericolo, della sicurezza, del castigo, del nemico, dell’autorità e dell’autorevolezza del diritto e dello Stato, dell’onestà, della giustizia, ed altro ancora. Nonostante, dalla legge Gozzini in poi, grande enfasi sia stata attribuita alle funzioni e ai possibili effetti delle misure alternative, si sono radicate, sia sul piano normativo che applicativo, tendenze restrittive, che ne hanno determinato il sostanziale svuotamentoxxxvii. La nuova importanza attribuita, a partire dalle misure alternative stesse, alla funzione rieducativa della pena, con relativo approfondimento degli aspetti assistenzialistici ad essa connessi, ha coinciso con una maggiore enfasi ai meri aspetti repressivi. Se, come si è sottolineato, crisi dell’istituzione, da un lato, e disposizioni legislative, dall’altro, non sono particolarmente correlate, entrambe sono piuttosto il sintomo dei legami strutturali che connettono la pena alla società, del clima culturale in cui questo rapporto si colloca, dell’ambivalenza che caratterizza questi aspettixxxviii. Il continuo bisogno di controllare fasce emergenti di marginalità, non è che un aspetto della complessità e dell’oscurità di queste relazioni. Ma è proprio riferendoci a questa dimensione del rapporto sommerso tra pena e società che è possibile indagare più a fondo sui motivi della non riformabilità della pena, del progressivo 12 deteriorarsi dell’istituzione, così come delle ambivalenze e delle contraddittorietà che hanno caratterizzato la legislazione penale nell’arco degli ultimi vent’anni. In sintesi, nella prospettiva di questa mia relazione, si rileva che, quanto più la pena appare attraversare una crisi di legittimità, che ne pone i fondamenti al centro di ricerche e dibattiti, tanto più la sua realtà tende ad indurirsi e a deteriorarsi. Così assistiamo al paradosso che, tanto più la pena si deteriora e rivela la sua irrazionalità ed inutilità, tanto più appare come legittimata ed accettabile, in base a criteri sempre più estranei alla razionalità classica dei fondamenti dell’istituzione. È in questo contrasto che la coerenza della fondatezza della pena si infrange; nello scontro di queste opposte tensioni, essa si frammenta in una miriade di funzioni e di aspetti, che ne definiscono non solo la polifunzionalità, ma anche la crisi di credibilitàxxxix. Attorno alla pena detentiva si agitano e si esprimono luoghi comuni della vecchia e della nuova cultura, necessarietà ancestrali, residui ideologico istituzionali, inamovibili concrezioni burocratico amministrative, conflitti tra settori amministrativi per il controllo delle rispettive aree di influenza, sperimentazioni operative e innovative, processi di ristrutturazione tecnico-organizzativa, di ridefinizione dei problemi d’intervento, aperture e innovazioni, frammenti di proposte di riforma in senso progressista, aspettative di reale cambiamento. Il tutto circolante in una caotica mescolanza. È in questo contesto che si aprono tensioni e dialettiche tutte da verificare, comunque non riducibili alla banalità del dato di fatto acquisito, per cui si pretenderebbe che a maggiore repressione penale debba corrispondere maggiore sicurezza, all’insegna di un ottimismo funzionale e ideologicoxl. 5. Il ruolo del diritto penale nel nuovo millennio tra ricostruzioni dogmatiche e necessità pragmatiche-. Se nel panorama ora delineato ci chiediamo quali prospettive si aprano per il diritto penale, appare evidente un progressivo ridimensionamento dell’attenzione data all’interpretazione della lettera della norma, alla coerenza della sua applicazione, per gestire di fatto, in modo ondivago tra dimensione simbolica e pragmatica, i sistemi di relazione che si svolgono e si sviluppano attorno allo strumento penale, nel rapporto tra istituzioni e società. Questi vanno letti tanto nella loro dimensione funzionale, rispondente all’insieme contrastante di elementi che abbiamo appena richiamato, quanto in quella più propriamente relazionale, come contesto di rapporti tra soggetti e tra ruoli. In questo quadro caotico e contraddittorio il diritto penale, nonostante abbia toccato, ancora una volta paradossalmente, i massimi livelli storici di inefficacia, pur restando un elemento fondamentale, sotto il profilo simbolico, dell’enfasi attribuita ai temi della sicurezza e della lotta alla criminalità, vede in parte ridimensionata, su questo terreno, la propria egemonia, per l’emergere, al suo fianco, di altri strumenti istituzionali. 13 Se dovessimo definire quali prospettive, da questo punto di vista si stanno effettivamente delineando, sembrano oggi contrapporsi due diversi modelli di gestione della devianza penale e di attuazione di politiche di sicurezza: A) Le politiche “tolleranza zero” che consistono in una serie di interventi di controllo, di sorveglianza e di repressione dislocati nel territorio, in base ai quali non è più tanto l’illegalità come comportamento e responsabilità soggettiva ad essere oggetto del controllo, quanto un calcolo del rischio, rappresentato dalla presenza di gruppi, categorie di soggetti, fenomeni pericolosi o inquietanti, condizioni di insicurezza, ad ispirare il tipo di interventixli. Gli stessi vengono perciò differenziati per diversi livelli e contesti di pericolosità, orientandosi perciò verso particolari zone o categorie di persone. Tutto ciò si traduce in operazioni di valutazione delle probabilità del verificarsi di fenomeni criminali o insecurizzanti, di selezione delle aree di rischio da sottoporsi a particolare sorveglianza, di intervento selettivo, contenitivo o incapacitante, verso determinate categorie di soggetti, a prescindere dal loro effettivo comportamento e da eventuali responsabilità, di differenziazione delle forme di controllo e repressive, a seconda dei gruppi di soggetti, delle aree, delle situazioni, delle condizioni, nell’ottica della prevenzione e della neutralizzazione. Tali politiche si dispiegano tra una prassi tecnicoinformale e la rappresentazione di interventi di elevato carattere simbolico, con il fine di eliminare dal territorio tutto ciò (e tutti coloro) che può rappresentare insicurezza, disordine, alterazione della normalità quotidiana e dei modelli di comportamento acquisiti e socialmente adeguati. È ovvio che l’arresto, la custodia, la pena assumono in questo metodo un ruolo cruciale, ma passano in secondo ordine i fondamenti teorici e le garanzie cui dovrebbero ispirarsi, e anche l’evidenza della loro utilizzazione e dei suoi effetti sui reclusi, mentre assumono un ruolo centrale selettività e differenziazione, nell’organizzazione di diverse forme di contenimento, sostenute da un uso spregiudicato di qualsiasi vecchio o nuovo criterio di giustificazione, all’insegna della massima fungibilità. B) Le politiche di prevenzione che appaiono ispirarsi, in linea di principio, a una prospettiva di ridimensionamento progressivo della materia penalmente rilevante e dell’uso della pena, per dare spazio ad altre forme di intervento, che prevengano appunto il determinarsi e il diffondersi di comportamenti criminosixlii. Ciò dovrebbe in primo luogo comportare l’intervento preventivo sulle cause socio-economiche e i processi culturali che determinano il diffondersi della criminalità, ma anche la sua stigmatizzazione sociale, oltre che istituzionale. Tale prospettiva comporta preliminarmente, da un lato, l’analisi empirica del determinarsi dei fenomeni devianti nei processi di trasformazione socio-economica e del diffondersi delle economie illegali. Dall’altro l’analisi empirica dei fenomeni di vittimizzazione, dei sentimenti di insicurezza, delle reazioni diffuse verso la criminalità e degli atteggiamenti verso gli strumenti istituzionali di gestione della stessa (attitudini punitive), a partire dalla pena e dal carcere. Nel quadro analitico così ricostruito 14 varie misure potranno essere attuate. A livello generale, varie forme di sostegno e assistenza verso le aree sociali più deboli, attenuazione delle differenze sociali, riduzione della disoccupazione, attività di mediazione culturale tra gruppi socialmente o etnicamente diversi, tutela delle garanzie e soddisfazione dei diritti e delle esigenze fondamentali di aree di soggetti marginali o a vario titolo svantaggiate, con particolare riferimento agli immigrati. A livello territoriale gli interventi possono comportare il risanamento strutturale e relazionale di intere aree territoriali, l’attivazione di centri di aggregazione e di partecipazione sociale, a diversi livelli, l’attivazione di vigili di quartiere, di operatori di strada, di tecniche e strategie di riduzione del danno verso aree di soggetti problematici (tossicodipendenti, prostitute, giovani disoccupati, anziani soli, e così via), attraverso strutture di servizio sociale mirate, centri di assistenza per le vittime, case di giustizia di prossimità e di mediazione. Nell’ottica più specifica di ridurre l’intervento del diritto penale, nelle politiche di prevenzione, possono rientrare provvedimenti di depenalizzazione, che riducano la quantità di fattispecie penalmente rilevanti, di abbassamento dei massimali di pena, per accelerare l’attivazione di processi di reinserimento sociale, lo sviluppo di sanzioni diverse dalla detenzione, applicate già da parte del giudice del processo di merito, mantenendo la detenzione come “extrema ratio” (effettiva ed efficace); lo sviluppo di esperienze di privatizzazione dei conflitto, di mediazione, di riparazione del danno; la tutela degli interessi materiali della vittimaxliii. Non è questa la sede per approfondire le questioni teoriche e applicative implicate dallo sviluppo e dall’attuazione di questa strategia, i cui risultati, per diversi aspetti positivi, potrebbero essere verificati alla luce di diverse esperienze. Ma la questione di fondo è quella che si pone oggi nel contrasto tra i due modelli, cioè nel rapporto tra il diffondersi di un atteggiamento in linea di principio favorevole a questi metodi preventivi, e l’affermarsi, d’altro lato, delle sopra descritte politiche attuariali, insieme all’intensificarsi dell’uso della pena detentiva. Si assiste infatti oggi all’affermarsi di una serie di “luoghi comuni” di carattere progressista attorno alla questione della pena. L’introduzione di riforme del codice penale ispirate ai principi del diritto penale minimo; l’affermazione di forme di depenalizzazione, tali da riservare alla pena la funzione di “extrema ratio”; l’applicazione diffusa di forme di prevenzione e di interventi di carattere extra-penale; lo sviluppo di esperienze di mediazione per la soluzione dei conflitti impliciti a varie forme di criminalità; il rafforzamento della tutela dei diritti umani, il potenziamento e la garanzia dei diritti della vittima, sono soluzioni divenute indispensabili per un diritto penale di matrice solidaristicosociale. Tutto ciò appare, quantomeno recentemente, essere entrato a far parte di ogni dibattito e di ogni proposta che abbia a che fare con la “questione penale”, dalle più diverse fonti. Eppure non 15 vengono introdotte neppure le misure più tradizionali di attenuazione dell’intervento penale, quali l’amnistia e l’indulto; il sovraffollamento e il deterioramento delle condizioni carcerarie appaiono senza limite, anziché alla riduzione efficace e reale della popolazione detenuta, si pensa alla costruzione di nuove carceri e all’espulsione dei detenuti extracomunitari. Questa ennesima ambivalenza del linguaggio penale rischia di attribuire alle parole d’ordine progressiste il ruolo di semplice copertura e di rinnovamento del lessico istituzionale, a fronte del radicalizzarsi delle rigidità più tradizionali. Per cercare di uscire dalle ambivalenze di questa empasse è necessario riprendere le questioni sostanziali che stanno alla base del persistere dell’afflizione penale e della costruzione sociale della sua necessitàxliv. In quest’ottica, superare le ambiguità che mantengono il diritto penale saldamente ancorato ad un processo di progressivo deterioramento, senza logica e prospettive, vorrebbe dire sviluppare una politica che operi la sintesi dei seguenti aspetti: l’attuazione di interventi concreti verso gli episodi di devianza che, abbandonando le astrazioni penalistiche, elaborino delle misure adeguate alla specificità dei casi. La ridefinizione delle categorie scientifiche e giuridiche idonee ad un’analisi della devianza più vicina alla concretezza e alla complessità dei fatti, per proporre nuove forme di conoscenza e di percezione degli stessi, e, più in generale, di nuovi significati e riferimenti di senso. Il rispetto e la tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte in essi, certo, e in primo luogo, delle vittime, ma anche degli autori, considerati nelle specificità delle loro esperienze, personalità ed umanità. Lo sviluppo di una comunicazione congruente tra istituzioni e opinione pubblica, che dia il senso della razionalità ed adeguatezza degli interventi. L’affermazione di un modello di sicurezza come tutela complessiva, che ponga al centro l’esigenza del miglioramento della qualità della vita, della qualità delle relazioni e della comunicazione tra i soggetti, della tutela dei soggetti più deboli. In quest’ottica, la prevenzione e la persecuzione dei crimini più gravi e socialmente più dannosi (contro la persona, la natura, l’onestà istituzionale, i beni fondamentali) deve avvenire nelle forme insieme più efficaci e più equilibrate. La sintesi di queste esigenze, che di per sé, singolarmente e nel loro insieme, potrebbero trovare riscontro nell’opinione pubblica, almeno a livello di ipotesi, appare nei fatti particolarmente difficile e distante dalle logiche prevalenti che abbiamo testè sintetizzato. Il fatto è che la coesistenza di sfere contrastanti di senso rappresenta non solo il segno di un empasse all’interno delle istituzioni e dei potenziali processi innovativi, di una incapacità comunicativa all’interno dello spazio pubblico, ma è anche il riflesso delle ambiguità e ambivalenze che attraversano l’opinione pubblica. Tra le ambivalenze della stessa, più sopra illustrate, e i paradossi della pena, di cui ci siamo occupati poco sopra, esiste un’evidente sintonia, che se ne 16 rafforza i termini rispettivi, rende la situazione del rapporto pubblico-istituzioni attorno al carcere particolarmente torbida, confusa e indecifrabilexlv. 6. Considerazioni conclusive-. Di fronte ad un quadro così complesso e incerto, si pone l’esigenza di trovare una via d’uscita che, abbandonando le suggestioni allarmistiche e falsamente rassicuranti delle politiche attuariali, ed evitando di perdersi in utopistiche prospettive di rapido superamento dell’afflizione penale, individui forme concrete e realistiche d’intervento, idonee a sviluppare un concreto processo di trasformazione. Si tratta cioè di entrare più decisamente nell’ordine di idee che il problema della criminalità e della devianza si può gestire in altro modo, cercando di evitare, per quanto possibile, l’intervento del diritto penale. Prendendo a riferimento le misure già accennate a proposito del modello di nuova prevenzione, si può pensare di avvicinarci a questo risultato nei seguenti modi: ridimensionare drasticamente la materia oggetto di tutela penale, definendo i valori fondamentali meritevoli di tale protezione, secondo i principi del diritto penale minimo e della riserva di codice. Procedere ad ampie forme depenalizzazione, che non si limitino, come nella legge recentemente approvata (legge n. 507/99), ad abrogare le fattispecie desuete, ma rispondano ad una diversa filosofia dell’intervento penale, partendo dalle fattispecie cui si associa il maggior numero di detenzioni. Limitare la durata delle pene entro limiti massimi tali da non pregiudicare un adeguato reinserimento sociale del reo come soggetto attivo nei rapporti sociali. Introdurre una vasta gamma di misure “particolari di reclusione” (es. detenzione in appositi centri per tossicodipendenti), già applicabili in sede di patteggiamento o di giudizio di merito: oltre alle attuali pene pecuniarie, ridefinizione delle attuali pene accessorie come principali, lavoro socialmente utile, detenzione di fine settimana, attività riparatorie, assegnando effettivamente alla pena detentiva il ruolo residuale di “extrema ratio”. È evidente che il ruolo della pena è tale solo se rappresenta effettivamente il limite estremo dell’intervento sanzionatorio; se si riferisce ai casi più gravi e risulta applicabile in maniera efficace ed effettiva. Sviluppare quelle esperienze di privatizzazione del conflitto, di risarcimento del danno, di mediazione, di attività risarcitorie che, oltre ad evitare all’attore l’esperienza distruttiva e traumatica del carcere, vadano nel senso di una tutela più sostanziale degli interessi della vittima, muovendosi però in un ambito di estraneità strutturale alla competenza penale. Attuare in senso ampio politiche di nuova prevenzione orientate a ridefinire le condizioni sociali della produzione della devianza. Si tratta cioè di intervenire sulle cause socio-economiche, sui processi di etichettamento, sulle norme culturali repressive, sul degrado delle città e del territorio, sulle definizioni sociali negative, sulle 17 rappresentazioni reciproche tra aree socioculturali diverse, sul sistema di relazioni che tra di esse si sviluppa. Decodificare, con gli strumenti dell’indagine empirica, i sentimenti di insicurezza e le richieste d’intervento da parte dell’opinione pubblica, così da individuare, in modo differenziato ed articolato, le risposte più adeguate. Più in generale si tratta di approfondire l’idea che la questione della devianza è una questione di cultura, di mentalità, di riorganizzazione di un sapere e di categorie diverse nella costruzione e nella rappresentazione sociale del problema, di destrutturazione di pregiudizi, di analisi di processi economici e di dinamiche sociali. La scommessa è se tutto ciò è destinato a rimanere una goccia nel deserto, al di sotto della quale, come diverse esperienze all’estero hanno dimostrato, il rapporto strutturale tra norma penale e società continua a sviluppare le sue oscure e irriducibili dinamiche; o se si trova il modo di intaccare una buona volta fattivamente quelle concrezioni e quei sotterranei processi, individuandone i punti più vulnerabili. i Vedi DEVOTO-OLI, Vocabolario della lingua italiana, Firenze 2000, pag. 746 che qualifica dogmatismo ogni atteggiamento che partendo da principi aprioristici, sui quali non ammette dubbio, da questi ricava tutto un sistema indipendentemente dai fatti e dalle esperienze. ii Vedi DEVOTO-OLI, Vocabolario della lingua italiana, Firenze 2000, pag. 1761 che qualifica pragmatismo ogni atteggiamento che afferma la preminenza dello sperimentare e dell’azione pratica rispetto alla ricerca teorica di una verità astratta. iii Cfr. MUSACCHIO, Norma penale e democrazia, Milano 2004 in cui si analizza la crisi della norma penale in rapporto alla crisi della moderna democrazia occidentale. Dopo aver esaminato il rapporto tra norma penale e democrazia, e gli aspetti problematici della genesi della norma penale, si propongono alcuni suggerimenti per la cura dei mali che affliggono quest'ultima. Si veda anche MUSCO, Consenso e legislazione penale. Riv. it. dir. e proc. pen. 1993,II, 80. iv Il principio di sussidiarietà, insieme a quello di proporzionalità tra strumenti e obiettivi, illumina un profilo della riserva di legge penale ulteriore rispetto a quello negativo di sottrazione della potestà normativa ad altri poteri statali. Un profilo positivo e sostanziale, che fissa direttive precise di politica criminale seguendo un'idea del diritto penale come sistema di limiti sostanziali al legislatore, che la Costituzione avrebbe ripreso dall'illuminismo, dopo averne superata la eccessiva e utopistica fiducia nella legge. Su questi aspetti si veda BRICOLA, Politica criminale e scienza del diritto penale, Bologna, 1997; IDEM, Rapporti tra dogmatica e politica criminale, Riv. it. dir. e proc. pen. 1988, DAVID,Globalizzazione, prevenzione del delitto e giustizia penale. Milano, 2001; DOLCINI, Riforma della parte generale del codice e rifondazione del sistema sanzionatorio penale. Riv. it. dir. e proc. pen. 2001,IV, 823; DONINI, Per un codice penale di mille incriminazioni: progetto di depenalizzazione in un quadro del "sistema". Dir. pen. e processo 2000,I,1652; FERRAJOLI,Sul diritto penale minimo. Foro it. 2000,V, 125. v Su questi aspetti interessante è la lettura di: EUSEBI, Forme e problemi della premialità nel diritto penale. Studium Juris 2001,I, 273;IDEM, Il futuro del principio penalistico di colpevolezza. Note in margine ad un contributo di Gunter Stratenwerth, Riv. it. dir.e proc. pen. 1982,245; IDEM, La riforma del sistema sanzionatorio penale: una priorità elusa? Riv. it. dir. e proc. pen. 2002,IV, 76. vi Cfr. STELLA,"Something works": realtà e prospettive del principio di rieducazione del condannato. Indice pen. 1999,f. 25, 125; UCCELLA, Educazione o rieducazione del detenuto? Spunti propositivi per una modifica (necessitata) dell'art. 27 comma 3 cost., Cass. pen. 1989,1144; D'AMBROSIO, L'ordinamento penitenziario alla luce delle moderne teorie sulla funzione della pena, Legalità e giustizia 1988,26. vii Su questo aspetto si legga il bellissimo scritto di BETTIOL G., La concezione della pena in Aldo Moro, Riv.it.dir. e proc. pen. 1981,1263. viii Vedasi FORTI, Tra criminologia e diritto penale. Brevi note su cifre nere e funzione generalpreventiva della pena, Riv.it.dir. e proc.pen. 1982,160; BARATTA, Legittimazione strumentale e funzione simbolica del sistema punitivo. Per un uso "alternativo" del diritto penale, Difesa pen. 1990,fasc.29,19; NESPOLI, Riflessioni brevi sulla sanzione penale nei suoi rapporti con lo scopo di prevenzione generale e speciale, Giust. pen. 1983,I,310. ix Su questo aspetto si veda MARINUCCI, Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza. Riv. it. dir. e proc. pen. 1996,I, 423; DONINI, Illecito e colpevolezza nell'imputazione del reato, Milano, 1991; FIANDACA, Considerazioni su colpevolezza e prevenzione, Riv. it. dir. e proc. pen. 1987,836; ROXIN, Sul problema del diritto 18 penale della colpevolezza, Riv.it.dir. e proc.pen. 1984,16; EUSEBI, Il futuro del principio penalistico di colpevolezza. Note in margine ad un contributo di Gunter Stratenwerth, Riv.it.dir.e proc.pen. 1982,245. x La norma penale è lo strumento che soddisfa i flussi di bisogni umani e riesce a coinvolgere molti interessi, sia convergenti sia contrastanti fra loro, poiché in tale ottica, tutti i portatori di interessi immediati o mediati, sono meritevoli di tutela. La norma penale, poi, consente la separazione di classi di valori, interessi e bisogni, che concorrono alla formazione dello stato di certezza, da quelli che non la determinano. Essa, quindi, è l'insieme delle regole, che consentono all'individuo di conquistare lo stato di certezza e perciò di indirizzarlo verso la consapevolezza che la ricerca intrapresa e' quella giusta e che gli darà una risposta. La norma penale e' uno strumento dell'operare umano nell'ambito del contesto sociale e deve adempiere anche ad una funzione sociale, soddisfacendo le attese di tutti i soggetti che vengono con essa in contatto. Le attese di conoscenza sono soddisfatte dal suo contenuto. xi Cfr. MUSACCHIO, Norma penale e democrazia, op. cit. 12 in cui si evidenzia come la norma penale non può non essere immersa nei valori che una determinata società esprime in un determinato momento storico. Essa non esce dalla mente del suo “demiurgo” ex abrupto ma cresce e matura sotto la spinta di esigenze politiche, economiche, sociali, culturali e morali che una società ha in sé La norma penale nasce per il perseguimento di un obiettivo specifico: tutelare i valori propri di una collettività. Valori che non possono essere universali ed assoluti ma mutevoli nel tempo e nello spazio. Colui che crea una norma penale è obbligato a valutare le varie istanze che possono provenire dal mondo politico, economico, sociale e culturale. xii Vedi MUSCO, L’illusione penalistica, Milano 2004, 182 in cui l’insigne studioso afferma che le scelte di politica criminale sono condizionate da fattori molto spesso opinabili di tipo culturale, economico, politico, di costume, religioso e acquistano consistenza e spessore solo se ampiamente condivise. Una democrazia bipolare, anche del tipo che si sta costruendo nel Paese, ha addirittura bisogno di questa opzione costituzionale: il gioco delle maggioranze è variabile e la maggioranza qualificata sostituisce non solo il fondamento del divieto penale ma anche il limite ad eventuali arbitri. xiii La norma penale tutela dei “valori” che la società esprime in un determinato momento storico. Mentre colui che la crea deve intuire, vivere e tradurre in forme di tutela questi valori. Il diritto penale moderno non ha bisogno solo di tecnici, ha bisogno anche di tecnici. Il problema della genesi normativa penale costituisce l'orizzonte teoretico dell'attività del legislatore. Ed è un problema radicale poiché non si lascia costringere nell'ambito convenzionale di un'operazione, individuale o collettiva, ma investe la persona umana nella sua interezza. Tale intuizione sorregge e rigenera il diritto penale, conducendo la scienza penalistica contemporanea fuori delle secche del razionalismo formalistico. Dalle radici dei valori sono illuminati i principali istituti del diritto penale e nella complessità dei suoi motivi, il rapporto dialettico di teoria e prassi si pone nella concreta esperienza giuridica. La norma penale, pertanto, è uno strumento perché è il risultato di una attività creatrice. Ogni attività dell’uomo è naturalmente volta al soddisfacimento di un’esigenza. Ecco perché la norma penale è un fenomeno strettamente pertinente all’attività pratica della vita sociale. xiv La punizione che tende a restituire al detenuto il corrispettivo negativo del suo atto illegale, sarà una punizione che non nutrirà particolare interesse nei confronti della persona. Proprio per questa ragione, le moderne concezioni della pena richiedono che essa sia breve ma definitiva, che durante l'esecuzione della condanna non subisca delle flessioni causate dal comportamento del reo o da altre motivazioni. La nostra legge penitenziaria si connota in maniera opposta a quest'ultima concezione: a contare veramente è ciò che accade durante l'esecuzione della pena. Se si presenta una possibilità di recupero nei rapporti con gli altri, questa deve essere ammessa e deve favorire il reinserimento del detenuto nella società. xv Cfr. MUSACCHIO, Norma penale e democrazia, Milano 2004 pag. 12 ss con ivi contenuta una bibliografia aggiornata sugli approfondimenti del caso. xvi Nei confronti della giustizia, intesa come apparato preposto alla concreta applicazione dei precetti di legge e, quindi, della individuazione da parte degli operatori di giustizia di ciò che è obiettivamente giusto, i nostri antenati non hanno mai dimostrato di nutrire grande fiducia. Lo testimonia la gran mole di massime, di detti e di proverbi che ci hanno tramandato e che, ancora oggi, è possibile sentir ripetere dai più anziani o da chi ad essi ricorre per colorire ed arricchire di significati i suoi discorsi. Ed è proprio dallo studio di questi proverbi che viene fuori il profondo pessimismo delle passate generazioni le quali ritenevano davvero estremamente infelice chi, dimostrando una immeritata grande fiducia, sperava in una giustizia “giusta”. xvii L’analisi del contesto, è la prima meta del legislatore penale. Gli ingredienti ed i meccanismi d’indagine sono: tempo, raccolta di informazioni (universali e statistiche), esperienza nella valutazione. Il tempo è un elemento assolutamente necessario nell’analisi del contesto. La norma penale si crea per l’uomo, non contro l’uomo, quindi, occorre meditare bene le scelte che si fanno. L’analisi del contesto si realizza con le informazioni disponibili, raccogliendole ed analizzandole. La prima regola, che a mio giudizio dovrebbe regnare in questo settore, è quella della diffidenza verso ciò che altri hanno scritto o detto sul contesto oggetto di valutazione. Una analisi fatta da altri, può contenere in sè il germe di finalità diverse da quanto interessa al legislatore penale. xviii Nell’accingersi all’opera di creazione della norma penale, dunque, è indispensabile esaminare la sua possibilità, utilità, ed efficacia da due punti di vista: da un lato il condizionamento storico e politico entro cui ha luogo; dall’altro le tecniche di formulazione che la attuano in concreto. La norma penale nasce dall’analisi che a sua volta si fonda 19 sull’ambiente storico e politico. Il condizionamento storico è al di fuori delle possibilità di azione del legislatore, che può soltanto comprenderlo ed utilizzarne la conoscenza. Il contenuto della norma penale, invece, è oggetto della manipolazione del legislatore che può progettarlo ed agire di conseguenza. Il successo di una norma penale dipende in primis dalla qualità della conoscenza del contesto storico e politico. Non può esistere una “buona” norma penale che non abbia compreso il proprio “ambiente” (spazio e tempo). La storia e la politica determinano le condizioni di una società e forgiano la norma penale. xix Cfr. MUSCO, L’illusione penalistica, op. cit. 122; PALIERO, Il principio di effettività del diritto penale, in Studi in memoria di Nuvolone, vol. 1, Milano 1991 , 396. Si condivide pienamente quanto affermato da Musco, il quale ritiene che del principio di effettività si debba discutere innanzitutto sul piano della genesi della fattispecie penale, perché appare ovvio che non ha senso introdurre nel sistema un reato che, fin dall’origine, non possiede attendibilità empirica e criminologica. L’effettività va interpretata sia sotto il profilo normativo, cioè, come capacità della norma penale di ottenere dai consociati l’osservanza di specifici comportamenti, sia nel suo significato sociale quale proiezione, sul piano interattivo con le altre istanze di controllo sociale, dell’attuazione degli scopi legislativamente predeterminati. Le cause della crisi degli effetti della norma penale possono essere ricondotte a categorie di natura endogena e di natura esogena. La prima coinvolge il funzionamento del sistema penale, la seconda riguarda le potenzialità applicative della norma penale. xx La norma penale produce i suoi effetti soprattutto se alla stessa sono concessi mezzi idonei a garantire le varie istanze di controllo della legalità dei comportamenti umani. In una democrazia tendenzialmente pervasa dall’anomia, con scarsa propensione al rispetto dei valori generali, con una conflittualità marcata in campo economico, politico e sociale, con sacche di povertà sempre più diffuse, occorre investire risorse umane ed economiche per creare le condizioni di efficacia della norma penale. xxi Gli effetti della norma penale sono una componente importantissima da considerare nel suo processo genetico. Essi dipendono dal livello di potere e di qualità di valori tra la fonte ed il destinatario. Se la fonte è credibile ed è realmente portatrice di valori sentiti dalla società gli effetti della norma penale sono senz’altro validi. In caso contrario la norma penale è sterile. La modalità di reazione dei consociati, inoltre, è diversa secondo l’atteggiamento nell’ambiente di pertinenza. xxii La politica di depenalizzazione non rappresenta una fenomenologia normativa capace di incidere sul ruolo svolto dal diritto penale contemporaneo. A noi sembra che sia l’intervento legislativo del 1981 che quello del 1999 non siano riusciti a disboscare neanche il cd. diritto penale extracodicistico. Non si riesce a comprendere neanche le metodologie di legiferazione penali correnti che si servono della delega legislativa contrastante con le garanzie di tutela a livello costituzionale. Si risente a livello politico la necessità di spostare l’equilibrio dei poteri dello Stato a favore del Governo, con l’inevitabile violazione della competenza esclusiva del potere legislativo in materia penale. Il sistema penale, mi rammarico nel dirlo, è sempre meno effettivo e sempre più scenografico. xxiii Una norma penale che non dura, in continuo restauro, è una norma che rovescia la certezza che ci aspettiamo dal diritto penale in una incertezza “disfunzionale” che lo rende nemico. L’attuale legislazione penale denota chiaramente una scarsa preparazione del legislatore ed evidenzia come alcune norme siano state promulgate più per dare una risposta all’allarme destato nell’opinione pubblica da importanti fatti di cronaca che per l’effettiva maturazione dell’ordinamento giuridico. E in questo clima di scarsa chiarezza, che viola in modo evidente ed inaccettabile il principio di certezza del diritto sancito dall’ordinamento, le forze dell’ordine e la magistratura sono chiamate ad espletare un ulteriore e gravoso compito che loro non compete: quello di trarre norme applicabili da disposizioni che tali non sono, travalicando i limiti posti all’interpretazione delle leggi e svolgendo una funzione legislativa che è riservata al Parlamento. E ciò è tanto più grave se si considera che in materia penale, nel nostro ordinamento, vige il divieto assoluto di ricorrere all’analogia. xxiv Nella democrazia italiana, quindi, la forma della norma non può non ottemperare al principio di stretta legalità ed osservare i criteri di formulazione giuridica penale, invece, la sostanza non può non esprimere i valori che una società sente come propri, valori che possono avere anche valenza europea ( ad es. recepimento di direttive) o internazionale (ad es. ratifica di trattati internazionali). L’orizzonte della norma penale, oggi, è molto più ampio che nel passato. Il diritto penale si prepara ad affrontare un viaggio nei meandri dei valori universali (mutabili). Un distacco tra ambiente politico, culturale, economico, sociale e norma penale è, a nostro avviso, inconcepibile se non si vuole ridurre quest’ultima ad un’ombra senza contenuto. La riprova di quanto affermato sta nel fatto che quando cambia l’atmosfera culturale di una collettività, mutano immediatamente i rapporti tra cittadino e Stato e le ripercussioni in campo penale sono immediate. xxv L'idea retributiva della pena, che ha avuto sostenitori illustri come Kant, Bettiol e Santamaria; essa parte dal presupposto che la punizione non possa che essere il contraltare del male commesso ("malum passionis propter malum actionis"). Una volta depurata dalle sue derivazioni etiche e religiose e quindi dall'idea di "punizione per il peccato", la retribuzione è in grado di offrirci la sostanza di un principio fondamentale del nostro sistema punitivo: si tratta del già menzionato principio di proporzionalità tra delitto e castigo (di cui all'art. 3 Cost.). Il valore della sanzione deve essere proporzionale al disvalore della condotta illecita: è palese quanto questa affermazione possa allontanare il fantasma del terrorismo punitivo. Anche la teoria retributiva ha avuto la sua "evoluzione" nel corso del tempo: le visioni "neoretribuzionistiche" riconducono ad un concetto di catarsi, vale a dire di neutralizzazione delle pulsioni criminose 20 dei consociati ottenuta tramite la effettiva punizione dei rei, che dà soddisfazione alla società. (per tutti vedi BETTIOL, Diritto penale, parte generale, Padova 1982, 756) xxvi Su questi aspetti si vedano BRICOLA, La riscoperta delle pene private nell'ottica del penalista, Foro it. 1985,V,1; DOLCINI, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, Riv.it.dir. e proc.pen. 1990,797; IDEM, Riforma della parte generale del codice e rifondazione del sistema sanzionatorio penale. Riv. it. dir. e proc. pen. 2001,II, 823; GIUNTA, L'effettività della pena nell'epoca del dissolvimento del sistema sanzionatorio. Riv. it. dir. e proc. pen. 1998,II, 414; MARINUCCI, Il sistema sanzionatorio tra collasso e prospettive di riforma. Riv. it. dir. e proc. pen. 2000,f. 21, 160. xxvii Il diritto penale è una dottrina che giustifica la punizione «se e solo se è uno degli strumenti di minimizzazione della violenza e dell’arbitrio che in sua assenza si produrrebbero». La distanza della realtà effettuale dal modello normativo dà la misura della crisi della legalità penale e con essa della pena. xxviii La pena è "un dover essere metagiuridico che ha in se stesso il proprio fondamento" (Ferrajoli, 1997). Alla base di questa concezione vi è "una visione dell’uomo come libero e perciò responsabile della propria condotta" (Ponti, 1990). Altri qualificano la detenzione come un intervento di prevenzione secondaria e terziaria nei confronti della commissione dell’illecito: il carcere deve mostrare ai detenuti il loro errore al fine di scoraggiare le recidive (prevenzione secondaria) e deve impedir loro, tramite l’incapacitazione fisica, di delinquere (prevenzione terziaria). Il carcere è visto anche come un luogo in cui trasmettere agli autori di reato un nuovo quadro valoriale. "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato" (Costituzione, art. 27). Tutte queste teorie hanno la loro validità e fin quando sussiste una società nella quale è presente il reato è difficile pensare ad una totale eliminazione del carcere. xxix Ci troviamo effettivamente dinanzi ad una crisi della pena classica, della pena detentiva, intesa come sanzione che di fatto poi manca di quell’effettività che le si chiederebbe di avere, tant’è vero che c’è ormai un costante richiamo alla certezza della pena. Ora, è vero che il nostro ordinamento penitenziario, anche se abbiamo spesso detto che è molto avanzato, di fatto è stato introdotto nel ‘75, in un momento in cui l’ideologia del trattamento, almeno nel suo modello correzionale, inteso come tecnica d’intervento tesa alla modifica della personalità, era già in piena crisi nei sistemi anglosassoni, e quindi c’era già un venir fuori delle istanze retributive, della pena intesa come retribuzione. Ma in questi tempi ci troviamo soprattutto davanti a nuove tendenze della retribuzione, che sono un po’ diverse dalla classica retribuzione, perché la retribuzione poi in sé non è un danno, la retribuzione è comunque un elemento della pena che dà garanzia, garantisce appunto pene che sono determinate e che sono proporzionate alla gravità del reato. Ora il richiamo alla retribuzione che si fa invece all’interno degli attuali orientamenti di politica criminale è un richiamo non tanto alla retribuzione legata alla effettiva gravità del reato, quanto un richiamo all’allarme sociale, alla gravità del reato così come percepita dalla comunità. E quindi si rischia anche di andare a proporzionare le pene a questo allarme sociale, che spesso non è lo specchio di una reale offensività del reato. xxx Con riferimento all'Ordinamento italiano, l'art. 27 della Costituzione, il quale prevede espressamente il trattamento inteso come un programma correzionale, che prenda inizio con la pronuncia della sentenza di condanna e raggiunga il completamento con la cessazione d'ogni controllo, ha trovato attuazione con la riforma penitenziaria del 1975. Con la legge 26 luglio 1975, n. 354 l'amministrazione penitenziaria è venuta ad acquisire l'indispensabile strumento normativo per adeguarsi ai precetti costituzionali dell'umanizzazione delle pene e del trattamento rieducativo per i condannati. Per la prima volta la materia penitenziaria è stata disciplinata con legge invece che con atti amministrativi di carattere generale. La Legge 354/75 mostra l'evidente sfavore verso la completa esecuzione della pena inframuraria, ed introduce la possibilità di ricorrere a misure alternative alla detenzione, in pratica sancendo la fine del principio assoluto di intangibilità della sentenza di condanna. Il principio della funzione rieducativa della pena ha ispirato l'introduzione nel nostro ordinamento delle misure alternative alla detenzione, le quali, sostituendosi alle pene detentive ed abituando il condannato alla vita di relazione, rendono più efficace l'opera di risocializzazione. xxxi Anche nel contesto carcerario solo l'attuazione di una diagnosi psico-patologica che valuti nella sua globalità le cause sociali e intrapsichiche alla base della scelta tossicomania, le capacità individuali sia cognitive che relazionali e la reale motivazione ad intraprendere percorsi riabilitativi, può rappresentare il primo passo per l'impostazione di una proposta terapeutica che non sia meramente assistenziale ma adeguata ai reali bisogni dei singoli utenti e che miri all'educazione, alla formazione e alla salute della persona. Un obiettivo conseguibile solo attraverso un efficace collegamento operativo tra i servizi territoriali competenti e quell'istituzione penitenziaria troppo dipendente, nella predisposizione dei suoi programmi, da scelte politiche ed economiche che delegano a istituti di tipo chiuso il trattamento dei tossicomani e ritengono non conveniente impegnarsi in programmi lunghi e costosi di recupero dei detenuti. xxxii È certo che più stranieri, rispetto agli anni precedenti, commettono reati anche gravi. Ma è altrettanto certo che nei loro confronti esiste una maggior attenzione da parte delle istanze di controllo sociale; essi spesso sono tenuti in condizioni di disagio tali da rendere quasi inevitabile il compimento di reati "di sopravvivenza"; molte violazioni penali (delitti di falso, violazioni di pubblica sicurezza, e così via) attengono alla voglia e alla necessità di regolarizzarsi, di emergere, di cessare di essere un fantasma esposto al ricatto di datori di lavoro senza scrupoli o, peggio, delle organizzazioni criminali che cercano bassa manovalanza a buon mercato e ad alto rischio. A ciò si aggiunga che, sotto il profilo processuale, le ricerche esistenti mostrano che lo straniero ha minori possibilità di accesso al diritto di difesa, 21 cioè è tendenzialmente difeso meno bene. Per esempio: è molto più spesso contumace, anche indipendentemente dalla sua volontà (per problemi di irreperibilità), e non beneficia della sospensione condizionale per tale unica ragione, anche in presenza di violazioni di gravità modestissima, che lo porteranno però in carcere al primo contatto con l’autorità. Naturalmente, anche tale condizione di inferiorità incide sensibilmente sui tassi di incarcerazione e sulle presenza in carcere, e costituisce una inaccettabile fonte di differenziazione, di disuguaglianza e di ingiustizia – in una parola – nella gestione del controllo sociale e dello strumento penale in particolare. xxxiii I sistemi normativi validi non sono quelli che si incentrano nel "principio utilitaristico", bensì nel "principio personalistico" in questi ordinamenti, la "pena" è strumento irrinunciabile di orientamento del comportamento umano e di controllo sociale e la "effettività della pena" per il condannato con un processo "giusto" non è un accidens ma la base prima su cui poggia la credibilità della norma penale e dell' intero sistema giuridico ed infine occorre tener conto che il "perdono sociale" non è automaticamente "perdono penale". xxxiv Su questi aspetti vedi: EUSEBI, La pena in crisi. Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia 1990 MOSCONI, La pena e la crisi, in "dei delitti e delle pene 1994, Vol. III; MOSCONI, La crisi postmoderna del diritto penale ed i suoi effetti sull'istituzione penitenziaria, in Rassegna penitenziaria e criminologica, anno V, gen-dic 2001. xxxv Per ulteriori approfondimenti si rinvia a EUSEBI L., Dibattiti sulle teorie della pena e "mediazione", in Riv. ital. dir. e proc. pen., 1997, 811; IDEM La "nuova" retribuzione. L'ideologia retributiva e la disputa sul principio di colpevolezza, in Riv. ital. dir. e proc. pen., 1983, 1315; IDEM La "nuova" retribuzione. Pena retributiva e teorie preventive, in Riv. ital. dir. e proc. pen., 1983, 914;La pena "in crisi". Il recente dibattito sulla funzione della pena, Brescia, 1990. xxxvi Cfr. MUSACCHIO, Norma penale e democrazia, Milano 2004 in cui si evidenzia che in uno Stato democratico di matrice solidaristica come il nostro, la volontà popolare è mutevole e concede le sue grazie ora ad uno schieramento politico ora ad un altro. In tal senso, sarebbe molto pericoloso che i rapporti tra il potere politico e la genesi della norma penale cambino secondo l’avvicendarsi di una maggioranza. Questo potrebbe esser giustificato solo laddove la maggioranza senta il bisogno di valutare nuove esigenze avvertite nella società e con i dovuti contrappesi istituzionali. xxxvii Su questo aspetto mi piace citare BETTIOL, Gli ultimi scritti e la lezione di congedo, Padova 1984 pag. 14 e 15 in cui l’insigne giurista afferma:” I reati aumentano dappertutto in qualità o in quantità ed il recidivismo è lo stato normale del delinquente. Mai come oggi una concezione pessimistica dell’uomo trova la sua ragion d’essere. Si è abolita la pena di morte, si è tolta di mezzo la reclusione perpetua, si è allargata la sospensione condizionale della pena, si è concesso il regime di semilibertà, si è abolita la convertibilità delle pene pecuniarie in pene detentive, si è esaltata la pena pecuniaria, e ci si è trovati con la delinquenza in casa”. xxxviii La norma penale esige un ruolo di primo piano in uno Stato democratico giacché la sua degenerazione o l’uso strumentale ed utilitaristico della stessa possono far sì che una democrazia si trasformi in una non democrazia. Il demiurgo nel plasmare la norma penale deve raccogliere le istanze sociali, economiche, culturali e politiche che meritano di essere catalogate tra i fatti costituenti reato. xxxix Su questi aspetti: DONINI, Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto tra diritto penale e politica, Riv. ital. dir. e proc. pen. 2001, fasc. 1, pag. 27-55 in cui l’autore espone le sue riflessioni sul rapporto tra diritto penale e politica attraverso l’analisi del metodo democratico e del metodo scientifico. Il primo vizio d’origine del metodo tradizionale della scienza giuridica afferma l’autore è il normativismo integrale, la riduzione del diritto a sola norma, fosse anche, la norma costituzionale e considerando il diritto unitariamente, come norma, l’oggetto della scienza penale è duplice: il diritto penale come norma, decisione e istituzione, e l’oggetto del diritto penale, cioè la criminalità e le singole materie di riferimento. Il secondo vizio d’origine, è il provincialismo nazionalista, la scienza nazionale. xl Su quest’aspetto si rinvia a PADOVANI, L’utopia punitiva, Milano 1981 xli DE GIORGI, Zero Tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo, Roma 2000 che contiene alcune riflessioni utili per una discussione sulla trasformazione del diritto in Italia. Gran parte del materiale cui si riferisce il libro ossia l’origine dell’espressione Zero Tolerance e la messa in atto della politica di sicurezza di Giuliani, trovano accoglienza nella sintetica appendice del volumetto (pp. 103-117), che riassume i termini della questione, risalendo alla suggestiva immagine delle “finestre rotte” avanzata dalla “Monthly Review” nel 1982. In poche parole: esiste un legame diretto fra il degrado urbano e la criminalità. Se un ambiente urbano è abbandonato a se stesso, se i comportamenti devianti, ma non certo criminali, vengono tollerati (le finestre rotte, i bidoni della spazzatura incendiati), presto l’assuefazione impedisce di scorgere la natura violenta dei fatti. Se in un palazzo non ripari subito la finestra rotta, il palazzo subirà presto altri atti di vandalismo: il degrado urbano provoca un senso di abbandono e favorisce il maturare di comportamenti criminali. E’ necessario che la polizia reprima i comportamenti fastidiosi e molesti che offrono immagini degradate delle città: questo favorirebbe la riduzione della criminalità vera e propria. De Giorgi analizza sinteticamente la “cura Giuliani” messa in atto dal New York Police Departement: incremento organico della polizia, massima discrezionalità nella sua azione, pattugliamento aggressivo, e nel dettaglio: fine ai graffiti nella metropolitana, allontanamento degli homeless dai ripari notturni, sanzioni all’elemosina aggressiva e al lavaggio abusivo dei vetri delle auto. Il successo effettivo di queste strategie è messo in dubbio da tutti gli analisti. Il calo degli omicidi a New York è dovuto a queste strategie o alle trasformazioni del mercato della droga e quindi nell’azione delle gang rivali? E’ impossibile rispondere, nota De Giorgi, ma è impossibile non analizzare quali processi di esclusione ed inclusione sociale vengano attivati dalle tematiche della Tolleranza zero. Che conseguenze produce questa politica sui 22 diritti individuali? Sui gruppi sociali marginali? Non si tratta forse di una vera e propria criminalizzazione della povertà, della marginalità? De Giorgi non enfatizza questo paradigma foucaltiano, ma offre illuminanti dati sull’aumento delle cause al NYPD per perquisizioni violente o abusi, sull’aumento delle uccisioni di civili, sulle morti sospette nei locali della polizia, sul consolidarsi delle pratiche razziste del NYPD verso afroamericani e latinoamericani. Chi ha pagato a New York la strategia di Zero Tolerance? Graffitisti, prostitute, spacciatori, giovani dei ghetti. xlii Su questo aspetto illuminante e condivisibile è EUSEBI. Intervento al convegno “Colpa e pena”, Bergamo, Centro Congressi Giovanni XXIII, 2 maggio 2000 in cui l’autore afferma che un serio approccio al problema della criminalità – lo dobbiamo dire nella fase in cui si riforma il codice penale – esige anzitutto la progettazione di serie politiche preventive, le quali intervengano sui fattori economico-finanziari, sui fattori di disagio individuale, sui fattori sociali che determinano spazi percorribili per l’adozione di condotte offensive di beni fondamentali per la convivenza civile. Fare una simile politica preventiva deve coinvolgere tutti i settori dell’ordinamento giuridico e non limitarsi all’uso dello strumento penale. La prevenzione penale non è tanto e solo una questione di diritto penale, è una questione di diritto civile, di diritto societario, di diritto tributario, di diritto amministrativo e, naturalmente, è una questione di politiche sociali, è una questione di presenza educativa. Ciò implica che sia socialmente percepito un senso maturo di corresponsabilità circa la genesi dei fattori summenzionati. xliii Nel terzo millennio, il fenomeno della crisi del diritto penale, sta assumendo, rispetto al passato, una portata dirompente ed inedita. Di qui l’assoluta necessità di comprendere le ragioni di tale crisi degenerativa, individuandone le discriminanti, i caratteri di fondo e le linee di tendenza. Compito fondamentale della scienza penale, in questo contesto, è quello di assimilare queste trasformazioni e renderle coerenti con il sistema penale contemporaneo. Per affrontare questa sfida è però necessario non smarrire lo spessore teorico ed i canoni del diritto penale. Un approccio interpretativo, questo, che certo non vuol dire pregiudiziale estraneità nei confronti delle nuove forme di produzione del diritto penale, ma che vuole costituire un freno nei confronti delle varie prassi di raggiro della volontà popolare registratesi nel recente passato. Di fronte a questo stato di cose l’attività intellettuale del penalista non può né trincerarsi dietro le classiche questioni di metodo, né tanto meno rifiutarsi pregiudizialmente di interpretare le profonde innovazioni della società moderna, rinunciando, a priori, ad avvalersi delle categorie analitiche del diritto penale. E questo, non solo perché una legislazione politica non sorretta dalla dogmatica giuridica è un viaggio verso l’ignoto, ma anche perché la dogmatica giuridica che non è in grado di risolvere problemi - che nelle attuali condizioni del sistema politico potrebbero essere decise politicamente - non può definirsi tale. Di qui l’imprescindibile esigenza, avvertita già da qualche tempo dalla dottrina penalistica, di raccordare scienza giuridica e strutture, enunciato normativo e dinamiche politiche, sociali, economiche e culturali. xliv La scienza penale deve sempre evitare di estraniarsi dalla realtà sociale, allo stesso modo, dovrebbe evitare di legittimare sempre e in ogni caso ogni forma di manifestazione e di comando proveniente dal potere politico, avallando, spesso, a cuor leggero, una interpretazione lassista del sistema penale. Lo studioso di diritto penale, deve, nel caso in cui ravvisi un contrasto tra manifestazioni del potere politico e volontà dell’ordinamento sociale, denunciare prontamente tale pratica eversiva, rimarcando l’inevitabile incidenza di tali violazioni non solo sui principi della produzione normativa, ma anche sulle dinamiche connesse alla forma di governo, alla tutela dei diritti e al sistema delle garanzie costituzionali e internazionalmente riconosciute. xlv Ciò che conta oggi, nella attuale situazione politica istituzionale, è costatare che l’incapacità ad orientare la politica sulle scelte di criminalizzazione dei comportamenti umani finalizzandole verso valori costituzionali, ha creato una deriva di degrado della legislazione penale che appare sempre più marcata dal modello fai da te, così fortemente stigmatizzato anche dalle supreme istanze etiche e religiose del Paese e che appare condizionato, se non proprio governato, dall’azione tenace di non sempre visibili e non sempre trasparenti lobbies di potere: lobbies fortemente manipolabili, economicamente assai attrezzate, in possesso di potere di mobilitazione e non avvezze a disquisire in termini di interessi generali. 23