Il problema del moto, da Aristotele a Galileo

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DISPENSA DI FISICA - parte 1
ARISTOTELE
Aristotele, in greco Ἀριστοτέλης, (Stagira, 384 a.C. - Calcide, 322 a.C.), è considerato uno dei più
innovativi e prolifici uomini di cultura del mondo antico e una delle menti filosofiche più stimate e
influenti, nonché un precursore di scoperte in vari campi della conoscenza.
Aristotele nacque nel 384 a.C. a Stagira, città macedone nella penisola Calcidica (Nord Grecia). Si
dice che il padre, Nicomaco, sia vissuto presso Aminta, re dei Macedoni, prestandogli i servigi di
medico e di amico. Aristotele, come figlio del medico reale, doveva pertanto risiedere nella capitale
del Regno di Macedonia, Pella. Rimasto orfano in tenera età, dovette trasferirsi ad Atarneo, cittadina
dell'Asia Minore di fronte all'isola di Lesbo, dal tutore Prosseno, il quale, verso il 367 a.C., lo mandò
ad Atene per studiare nell'Accademia, fondata da Platone circa vent'anni prima, dove rimarrà fino
alla morte del suo maestro.
Quando il diciassettenne Aristotele entra nell'Accademia, Platone è a Siracusa da un anno, su invito
di Dione, parente di Dionigi I, e tornerà ad Atene solo nel 364 a.C.; in questi anni, secondo
l'impostazione didattica dell'Accademia, Aristotele dovette iniziare con lo studio della matematica,
per passare tre anni dopo alla dialettica. A reggere la scuola è Eudosso di Cnido, uno scienziato che
influenzò particolarmente il giovane studente.
LA FISICA DI ARISTOTELE
La fisica di Aristotele chiama moto qualsiasi mutamento, mentre il movimento fisico viene descritto
come “moto locale”. A sua volta il moto locale viene distinto in moto naturale e moto artificiale.
Il moto naturale si riferisce al moto spontaneo, ad esempio dei gravi verso il basso oppure il moto
di risalita dei corpi più leggeri. Il moto artificiale invece si riferisce ai moti prodotti da agenti
esterni (per esempio causato da una fionda o da una spinta).
La fisica di Aristotele è caratterizzata da quattro elementi: l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra; ogni
corpo materiale è composto da una mescolanza di questi quattro elementi.
Il moto naturale è di tipo lineare e tende a farli portare nel loro luogo naturale, dove si dispongono
in uno stato di quiete. La legge dei luoghi naturali afferma infatti che i corpi tendono a raggiungere
la posizione del loro luogo ideale: il fuoco tende verso l’alto più di ogni altro elemento, seguito
dall’aria; l’acqua tende invece verso il basso, ma in maniera minore rispetto alla terra che ha invece
nel basso il suo luogo naturale.
Quando il corpo arriva nel suo luogo naturale, cessa la causa del moto, quindi il moto ha fine.
Ma questa impostazione diventa problematica quando si affronta la questione dei moti artificiali. Ad
esempio, una volta che una freccia è scoccata da un arco, essa continua a muoversi per un periodo di
tempo nella direzione impressa dall’arco, anche se questa non è quella indicata dal suo luogo
naturale; la freccia scagliata verso l’alto va infatti nella direzione opposta da quella prevista dai
luoghi naturali di Aristotele!
Aristotele ricorre perciò al concetto dell’horror vacui (letteralmente, paura del vuoto): la freccia
sposta l’aria che si trova davanti alla sua punta, creando un piccolo vuoto in prossimità della sua
coda. L’aria rientra nel vuoto da dietro, spingendo la freccia nella direzione impressa dall’arco.
Per Aristotele, quindi, non esiste il concetto di “inerzia”, cioè la tendenza di un corpo a mantenere il
suo stato di moto. Anzi, per poter mantenere un oggetto a velocità costante, è necessario
continuare ad imprimere allo stesso una forza costante. Nulla di strano… è infatti esperienza
comune che una freccia, dopo essere stata scagliata, prima o poi si ferma, come il disco lanciato dal
discobolo… Quindi, l’esperienza sembra confermare questa impressione: se applico una forza solo
per un piccolo periodo di tempo (il tempo di scoccare la freccia o lanciare il disco o calciare un
pallone), questo pian piano rallenta fino, necessariamente, a fermarsi.
Inoltre, secondo Aristotele ed il pensiero comune ed “ingenuo” tra due corpi lasciati cadere nel
vuoto, quello più pesante impiega meno tempo nel raggiungere il suolo; più precisamente se un
corpo pesa il doppio di un altro, allora impiegherà per cadere la metà del tempo. Dopotutto, è la
risposta che daremmo anche noi… se non ci pensassimo bene e se non provassimo questa ipotesi
con alcune prove sperimentali. In effetti Aristotele non era un “bischero” qualsiasi… ma uno dei più
grandi pensatori di tutta la storia dell’umanità!
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LA FISICA DOPO ARISTOTELE
Nel corso dei secoli, la visione Aristotelica viene messa più volte in dubbio; in alcune opere traspare
un atteggiamento sempre più critico rispetto alla dottrina da lui proposta.
Nel 533 dC il filosofo Giovanni Filopono (490-570) osserva che c’è qualcosa di assolutamente falso
negli scritti aristotelici già nel caso dei moti naturali. Se uno prende due oggetti molto diversi per
massa e li lascia cadere da una stessa altezza, i tempi di caduta sono sì diversi, ma solo leggermente
e non certo in proporzione alla massa.
Per i moti artificiali Filopono riprende invece una antica ipotesi fatta da Ipparco di Micenea (190 aC
- 120 aC) secondo il quale i corpi continuano nel loro moto a causa di una forza impressa che un
agente esterno trasmette al corpo e che lo fa continuare lungo una traiettoria iniziale fino a quando il
mezzo materiale nel quale il corpo si muove non fa dissipare la forza impressa. Troviamo qui, per la
prima volta nella storia un concetto fondamentali: la dissipazione dell’energia… che ci porterà al
concetto di attrito. Per Filopono quindi il lancio ha impresso al corpo una forza motrice che tende a
far mantenere al corpo la stessa direzione.
Dottrine simili furono sostenute nel Medioevo da Avicenna (980-1037), Avempace (1095-1139) 3
Averroè (1126-1198).
Nel corso del XIII secolo si assiste ad un cambio di impostazione: la forza impressa, da causa del
moto artificiale, si trasforma in un effetto conseguente al moto. Guglielmo da Occam (1288-1349)
sostiene che il moto, una volta che è in atto, non richiede più il mantenimento della sua causa
(cioè della forza che lo ha messo in moto) per continuare ad esistere. Quindi, ogni moto non richiede
necessariamente un motore. A seguito di questa nuova idea, Giovanni Buridano (1290-1358)
formulò la teoria dell’impeto: il motore trasmette al corpo una potenza motrice (cioè l’impetus) pari
al prodotto della quantità di materia e della velocità
Ma nonostante tutti questi dubbi, la visione aristotelica del moto rimarrà indiscussa, fino all’avvento
di due grandi scienziati: Galileo Galilei (1564-1642) ed Isac Newton (1642-1727). Perché?
Galileo ricorda nei suoi testi come già molti altri filosofi e pensatori prima di lui avessero fatto
interessanti osservazioni, ma segnala anche che nessuno di questi aveva cercato di fornire
spiegazioni e dati quantitativi, frutto di esperimenti e di misurazioni. E’ questo che mancava, è
questa la grande rivoluzione galileiana: l’introduzione del “metodo scientifico”, che per ogni ipotesi
formulata richiede di portare a suo sostegno dati e misure sperimentali!
LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA
Galileo nasce a Pisa il15 febbraio 1564. Appena un anno prima si era chiuso il Concilio di Trento e
la Chiesa si stava impegnando con tutte le sue forze per contrastare la circolazione di idee non
conformi all’ortodossia cattolica e che ne potessero mettere in discussione l’autorità.
Questo comportò una forte repressione nei confronti del pensiero libero e di tutti coloro che
potessero mettere in dubbio la Sacra Scrittura (Bibbia) e l’autorità del pensiero fino a quel punto
assunta come veritiera (Aristotele, Tolomeo (100-175), Tommaso d’Aquino(1225-1274)).
In questa situazione storica l’opera di Galileo diviene per la Chiesa una vera e propria sfida.
Egli per primo formulò le regole fondamentali del metodo scientifico, fondato sulla verità
sperimentale, ed elaborò l’idea della ricerca come cammino mai concluso, aperto al dubbio,
conquista faticosa di risultati che non si possono mai ritenere definitivi.
Galileo difese la libertà di pensiero e l’idea di una scienza intesa come osservazione ed esperienza,
non più basata sui dogmi religiosi e le certezze dei grandi filosofi del passato.
In pratica il metodo scientifico/sperimentale si fonda su due fattori essenziali:
• L’uso della matematica come “linguaggio” universale (comprensibile da tutti) per lo studio
della natura. Nel “Saggiatore”, scritto nel 1623, Galileo scrive:
•
“Il libro della Natura non si può intendere se prima non si impara la lingua e conoscere i
caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica e i caratteri sono i triangoli, i
cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali è impossibile intendere umanamente parola;
senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”.
L’uso dell’esperimento come prova in quanto l’ipotesi scientifica deve essere verificata
attraverso i momenti essenziali dell’osservazione e dell’esperimento.
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Nella pratica, il metodo scientifico si struttura nelle seguenti fasi:
1. Osservazione del fenomeno e misurazione delle grandezze fisiche che lo caratterizzano.
2. Formulazione di un’ipotesi che spieghi il fenomeno osservato.
3. Ideazione di un esperimento che possa confermare o falsificare l’ipotesi fatta.
4. Formulazione di una legge matematica di valenza generale (cioè che valga per tutti i
fenomeni simili a quello osservato e per cui si è formulata la prima ipotesi).
Le conseguenze di questo nuovo modo di pensare e di fare scienza sono devastanti:
• La negazione del “principio di autorità”, secondo il quale la parola di Aristotele e dei suoi
discepoli era considerata al pari di una prova, dunque valida anche se contraddetta
dall’esperienza.
• L’affermazione del diritto dello scienziato di procedere senza condizionamenti dal parte
della Chiesa e del potere politico, in nome della libertà della ricerca.
La condanna per eresia di Galileo, per aver sostenuto l’ipotesi copernicana (Niccolò Copernico
1473-1543) dell’universo, dimostrò che in Italia il clima per uno sviluppo della scienza non fosse
propizio. I suoi libri furono tutti banditi e qualsiasi attività scientifica divenne sospetta. I suoi allievi
e le accademie che seguivano il suo metodo furono osteggiati e limitati nelle loro ricerche.
L’egemonia scientifica passò quindi alle nazioni dell’Europa settentrionale, nelle quali lo Stato era
più potente della Chiesa. Si può considerare quasi simbolico il fatto che l’anno in cui morì Galileo è
l’anno di nascita di Newton e che l’Accademia del Cimento fu sciolta cinque anni dopo la
fondazione della Royal Society di Londra.
L’OPERA DIVULGATIVA DI GALILEO
Galileo non è solo il primo vero scienziato e fisico “moderno”, ma è anche il primo divulgatore del
suo pensiero e delle sue scoperte.
Il suo successo si deve a:
• La scelta di non usare il latino ma una lingua più comune ed utilizzata come il”volgare”.
• L’uso del dialogo e dell’epistola, i generi che nel Seicento erano privilegiati per la
divulgazione culturale.
• L’invenzione del genere del “resoconto scientifico”, che consisteva nel mettere in forma
semplice e comprensibile ad un largo pubblico i risultati della ricerca scientifica.
• Il ricorso ad uno stile sobrio, elegante e razionale
Le sue principali opere:
• Sidereus Nuncius - 1610
Con questo “annuncio astronomico” Galileo vuole rendere note le prime scoperte fatte con il
cannocchiale: i satelliti di Giove, la natura della Via Lattea e della superficie lunare, …
• Le lettere copernicane - 1615
In cui Galileo sostiene la teoria eliocentrica di Copernico e affronta il problema del rapporto
tra scienza e teologia.
• Il Saggiatore - 1623
Da questo libro emerge l’idea moderna di una scienza sperimentale e di un linguaggio
scientifico autonomo.
• Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo - 1632
In cui Galileo vuole difendere il sistema cosmico copernicano, mettendo alle strette la
visione tolemaica, basata su “verità di fatto” chiaramente falsificate dalle osservazioni.
E’ scritto sotto forma di dialogo tra tre protagonisti:
- Filippo Salviati, accademico dei Lincei, che ha il compito di esporre e mettere a
confronto le teorie tolemaica e copernicana.
- Simplicio, rappresentante della vecchia cultura aristotelica, sempre pronta a
richiamarsi all’autorità dei testi anche di fronte all’evidenza delle dimostrazioni.
- Giovan Francesco Sagredo, personaggio pieno di ingegno, di intuizione e di passione
per la scienza, che si assume il ruolo di giudice imparziale tra i due contendenti.
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IL PROBLEMA DEL MOTO PER GALILEO
Galileo, grazie ad una serie di esperimenti da lui stesso ideati e costruiti (non era solo un pensatore,
ma un grande tecnico dotato di genialità e manualità), riuscì a dimostrare l’inconsistenza di alcune
affermazioni aristoteliche. Le leggi matematiche da lui formulate rimarranno valide fino ai primi del
Novecento e non saranno sostituite ma solamente migliorate con l’avvento della teoria della
relatività di un certo Albert Einstein (1879-1955), che del suo illustre predecessore afferma:
“Il motivo di fondo che io trovo nell’opera di Galileo è costituito dalla lotta appassionata
contro ogni tipo di dogma basato sull’autorità. Per Galileo, solo l’esperienza e la riflessione
accurata sono criteri accettabili di verità. Per noi, oggi, è difficile capire sino in fondo come
una tendenza del genere potesse essere insolita e rivoluzionaria nell’epoca galileiana, e cioè in
un’epoca durante la quale il fatto stesso di nutrire dubbi a proposito della verità di opinioni,
prive di ogni base che non fosse quella dell’autorità, era considerato un fatto criminoso e
soggetto a punizioni.
Quello che faremo nei prossimi giorni è cercare di ripetere quanto fatto da Galileo, per verificare, o
meno, le tre affermazioni aristoteliche sul moto dei corpi:
1. Se applico una forza solo per un piccolo periodo di tempo, il corpo pian piano rallenta fino,
necessariamente, a fermarsi.
2. Per poter mantenere un oggetto a velocità costante, è necessario continuare ad imprimere allo
stesso una forza costante.
3. Tra due corpi lasciati cadere nel vuoto, quello più pesante impiega meno tempo nel
raggiungere il suolo.
Ma per far ciò, bisogna aver prima bene inteso quanto scritto in queste pagine,
eseguendo a tal fine i seguenti compiti:
1. Riportare tutti i termini non conosciuti e scrivere al loro fianco la definizione data dal
dizionario.
2. Fare una “linea del tempo” in cui compaiano, ciascuno nel proprio “tempo” tutti i personaggi
storici citati in questa dispensa.
e rispondendo alle seguenti domande:
3. Perché le ipotesi dei successori di Aristotele non furono comprese ed accettate?
4. Quali novità porta Galileo nel campo della scienza e della fisica?
5. Perché Galileo viene osteggiato dalla Chiesa, nonostante egli non si occupi di questioni
religiose ma solo di questioni scientifiche (l’astronomia, il moto dei corpi, la meccanica,...)?
6. Quale compito Galileo affida alla matematica?
7. C’è qualcosa si ancora moderno ed attuale nel pensiero e nel modo di lavorare di Galileo?
Il tutto dovrà essere fatto su dei fogli protocollo da riconsegnare all’insegnate mercoledì 12 gennaio.
Essi verranno valutati anche dall’insegnante di Lettere.
Ad ogni giorno di ritardo nella consegna corrisponderà un voto in meno nella valutazione.
L’utilizzo di altre fonti (enciclopedie, riviste, internet, …) è vivamente consigliato. In tal caso però
esse vanno citate al termine dello scritto (cioè va indicato il testo o il sito da cui sono state prelevate
le informazioni).
In caso di elaborati tra loro troppo simili, non si escludono votazioni “punitive”!
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DISPENSA DI FISICA - parte 2
Brano tratto da “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo”, opera di Galileo Galilei
Salviati:
Simplicio:
Salviati:
Simplicio:
Salviati:
Simplicio:
Salviati:
Simplicio:
Salviati:
Simplicio:
Salviati:
Simplicio:
Salviati:
Simplicio:
Salviati:
Simplicio:
Salviati:
Simplicio:
Salviati:
Simplicio:
Io non desidero che voi diciate o rispondiate di saper nient’altro che quello che voi
sicuramente sapete. Però ditemi: quando voi aveste una superficie piana, pulitissima
come uno specchio e di materia dura come l’acciaio, e che fosse non parallela
all’orizzonte, ma alquanto inclinata, e che sopra di essa voi poneste una palla
perfettamente sferica e di materia grave e durissima, come di bronzo, lasciata in sua
libertà che credete voi che ella facesse? Non credete voi (sì come credo io) che ella
stesse ferma?
Se quella superficie fosse inclinata?
Sì, ché così già ho supposto.
Io non credo che ella si fermasse altrimenti, anzi, pur son sicuro ch’ella si moverebbe
verso il declive spontaneamente.
Così sta. E quanto durerebbe a muoversi quella palla, e con che velocità? E avvertite
che io ho nominata una palla perfettamente rotonda ed un piano squisitamente pulito,
per rimuover tutti gli impedimenti esterni ed accidentali.
Ho compreso il tutto benissimo: e quanto alla vostra domanda, rispondo che ella
continuerebbe a muoversi in infinito, se tanto durasse la inclinazione del piano, e con
movimento accelerato continuamente.
Ma quand’altri volesse che quella palla si muovesse all’insù sopra quella medesima
superficie, credete voi che ella vi andasse?
Spontaneamente no, ma ben strascinatavi o con violenza gettatavi.
E quando da qualche impeto violentemente impressole ella fosse spinta, quale e
quanto sarebbe il suo moto?
Il moto andrebbe sempre languendo e ritardandosi, per essere contro a natura, e
sarebbe più lungo o più breve secondo il maggiore o minore impulso e secondo la
maggiore o minore acclività.
Ora ditemi quel che accadrebbe del medesimo mobile sopra una superficie che non
fosse né acclive né declive.
Qui bisogna che io pensi un poco alla risposta. Non vi essendo declività, non vi può
essere direzione naturale al moto, e non vi essendo acclività, non vi può esser
resistenza all’esser mosso, talché verrebbe ad essere indifferente tra la propensione e
la resistenza al moto: mi pare dunque che dovrebbe restarvi naturalmente fermo.
Così credo, quando altri ve lo posasse fermo; ma se gli fosse dato impeto verso
qualche parte, che seguirebbe?
Seguirebbe il muoversi verso quella parte.
Ma di che sorte di movimento? Di continuamente accelerato, come nei piani declivi,o
di successivamente ritardato, come negli acclivi?
Io non ci so scorgere causa di accelerazione né di ritardamento, non vi essendo né
declività né acclività.
Sì, ma se non vi fosse causa di ritardamento, molto meno vi dovrebbe esser causa di
quiete: quando dunque vorreste voi che il mobile durasse a muoversi?
Tanto quanto durasse la lunghezza di quella superficie né erta né china.
Adunque se tale spazio fosse interminato, il moto in esso sarebbe parimente senza
termine, cioè perpetuo?
Mi pare di sì.
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Dopo aver letto attentamente il brano ed aver compreso il significato delle parole non note, rispondi
alle seguenti domande:
1. Come definiresti i due protagonisti del dialogo Salviati e Simplicio? Quali sono le loro
caratteristiche e quali aggettivi useresti per descriverli?
2. Salviati incalza Simplicio con una serie di domande. Secondo te Salviati ha già in mente dove
vuole condurre Simplicio nel ragionamento oppure il dialogo si sviluppa in modo casuale?
Rispondi portando a tuo credito alcune frasi del brano.
3. Salviati propone a Simplicio tre situazioni diverse; individuale nel brano e poi esegui qui sotto
una semplice descrizione grafica di tutte e tre.
4. A quali conclusioni giungono i due sul comportamento di una palla perfettamente sferica posta
su un piano perfettamente liscio che fosse:
a. Inclinato verso il basso:
b. Inclinato verso l’alto:
c. Parallelo all’orizzonte, quindi non inclinato:
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Brano tratto da “L’evoluzione della Fisica” , opera Albert Einstein e Leopold Infeld
I tentativi intesi a decifrare il grande romanzo giallo della natura sono altrettanto antichi
quanto il pensiero umano. Tuttavia sono trascorsi appena più di trecento anni dacché gli scienziati
cominciarono a comprendere il linguaggio in cui quel romanzo è scritto. Da allora in poi, dall’epoca
cioè di Galileo e Newton, la sua lettura ha proceduto speditamente. Mezzi e metodi di indagine, volti
a scoprire e seguire nuovi indizi, vennero sempre più accresciuti e perfezionati. Fu così possibile
risolvere degli enigmi della natura; tuttavia in non pochi casi le soluzioni proposte inizialmente sono
apparse effimere e superficiali, alla luce di ulteriori indagini.
Uno dei problemi fondamentali, durante millenni completamente oscurato dalla sua
complessità, è quello del moto. Invero, i moti che abbiamo occasione di osservare intorno a noi,
come quelli di un sasso lanciato in aria, di una nave veleggiante in mare, di un carrello spinto lungo
la strada, sono tutti assai intricati. Per capire tali fenomeni è consigliabile cominciare dal più
semplice dei casi per poi passare ai più complessi. Consideriamo un corpo a riposo, vale a dire del
tutto privo di moto. Per cambiarne la posizione occorre esercitare su di esso un’azione qualsiasi,
ossia, spingerlo, sollevarlo o ricorrere ad altri corpi, quali un cavallo o una macchina a vapore, che
agiscano su di esso. La nostra idea intuitiva è che il moto sia connesso con l’azione di spingere,
sollevare o tirare. Ripetute esperienze ci inducono a ritenere che bisogna spingere con maggiore
forza se si vuole che il corpo si muova più celermente. La conclusione che quanto maggiore è
l’azione esercitata su un corpo, tanto maggiore è la sua velocità, si presenta come la più naturale.
L’intuizione ci dice che la velocità è essenzialmente legata all’azione.
Com’è noto ai lettori di novelle poliziesche, un falso indizio imbroglia le cose e ritarda la
soluzione! Così è avvenuto nel caso del moto: il ragionamento suggerito dall’intuizione era erroneo
e condusse a false idee che prevalsero durante i secoli. La grande autorità di Aristotele in tutta
Europa fu probabilmente la ragione principale per cui durante tanto tempo si continuò a credere che
nella suddetta conclusione intuitiva. Nella “Meccanica” di Aristotele si legge:
“Il corpo in moto si arresta, allorché la forza che lo spinge non può agire più oltre in modo da spingerlo.”
La scoperta e l’uso del ragionamento scientifico, ad opera di Galileo, fu uno dei più
importanti avvenimenti nella storia del pensiero umano e segna il vero inizio della fisica. Questa
scoperta insegnò che non sempre ci si può fidare delle conclusioni intuitive basate sull’osservazione
immediata, perché esse conducono talvolta fuori strada.
Proviamo allora ad esaminare più da vicino i fatti fondamentali del moto, partendo da
esperienze quotidiane. Supponiamo che un uomo segua una strada diritta e piana, spingendo innanzi
a sé un carrello a quattro ruote e che ad un tratto cessi di spingere. Il carrello non si fermerà subito
ma continuerà a muoversi per una breve distanza. Domandiamoci: come faremmo per accrescere
questa distanza? I mezzi idonei sono diversi e cioè unguendo le ruote e spianando meglio la strada.
Quanto più facilmente gireranno le ruote e quanto più liscia sarà la strada, tanto più a lungo seguirà
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a muoversi il carrello. Ma cosa è avvenuto in realtà con la lubrificazione delle ruote e con il
levigamento della strada? Semplicemente questo: le influenze e le resistenze esterne sono state
ridotte. Gli effetti di ciò che chiamiamo “attrito”, tanto fra le ruote ed il carrello, quanto tra le ruote e
la strada, sono scemati.
Immaginiamo allora una strada perfettamente piana e liscia, nonché ruote assolutamente
senza attrito. In tal caso nulla arresterebbe più il carrello, cosicché esso potrebbe continuare a
muoversi indefinitamente. Siamo giunti a questa conclusione avvalendoci di un esperimento ideale
che però in realtà non può venire eseguito, poiché è materialmente impossibile eliminare tutte le
influenze esterne. Questo esperimento ideale conduce comunque all’indizio basilare della meccanica
del moto.
Secondo l’idea intuitiva, quanto maggiore è la forza, tanto maggiore è la velocità, e perciò la
velocità indica se forze esterne agiscono o no sul corpo. Invece, secondo il nuovo indizio scoperto
da Galileo, un corpo, né spinto né tirato, né comunque sollecitato, o in altre parole un corpo sul
quale non agisce nessuna forza esterna, si muove uniformemente, vale a dire sempre con la stessa
velocità e lungo una linea retta. Pertanto la velocità non denota affatto se forze esterne agiscono su
un corpo. La conclusione di Galileo venne enunciata una generazione più tardi da Newton, sotto
forma della:
Legge di inerzia:
“Ogni corpo persevera nel suo stato di riposo, oppure di moto rettilineo uniforme,
a meno che non sia costretto a cambiare tale stato da forze esterne agenti su di esso”
Domande aperte:
1. Perché il problema del moto (cioè del movimento dei corpi) fu di così difficile risoluzione,
tanto da non trovare soluzione per molti secoli?
2. Quali erano le ipotesi sul moto formulate da Aristotele? Su quali osservazioni basava le
proprie affermazioni?
3. In cosa sbagliava Aristotele? Cosa lo portò “fuori strada”?
4. Cosa condusse invece Galileo e Newton sulla retta via? Quali esperimenti confermano le loro
ipotesi, dimostrando inoltre l’inesattezza delle tesi di Aristotele?
Le risposte vanno argomentate, facendo riferimento al testo senza però ricopiarlo integralmente!
Rispondi con parole tue, dando significato alle tue affermazioni e utilizzando anche le conoscenze
acquisite durante l’anno scolastico.
Lavoro domestico:
Dopo aver letto i brani di Galileo ed Einstein, ed aver realizzato il laboratorio un esperimento che si
avvicinasse quanto più possibile agli esperimenti ideali che i due grandi scienziati ci proponevano,
siamo finalmente in grado di dare una risposta alla prima affermazione di Aristotele che ci eravamo
posti di verificare e cioè: “Se applico una forza solo per un piccolo periodo di tempo, il corpo pian
piano rallenta fino, necessariamente, a fermarsi”.
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