Premessa Più si combatte il “male”, in modo più chiaro esso si delinea; la lotta contro il male è identica alla produzione del male 1. Heinrich Rombach L’immagine dell’India in Occidente è quella di un paese che ama la pace, un paese dedito alla non-violenza e morale. Quest’idea dell’India è decisamente riconducibile al Mahatma Gandhi. Quanto illusoria però sia quest’immagine – e l’Occidente rimane continuamente stupito a causa dei suoi preconcetti e pregiudizi – diviene chiaro, per esempio, quando l’India conduce una guerra (come dal 1947 sino al 1949, nel 1965 e nel 1971 contro il Pakistan e nel 1962 contro la Cina), come quando mezzo milione di induisti abbatte una moschea (è accaduto il 6 dicembre del 1992 ad Ayodhya) o, ancora, quando l’India conduce con successo esperimenti con armi atomiche e si dichiara potenza nucleare (è accaduto l’11 e il 13 maggio del 1998). Tutto ciò si oppone fortemente alle nostre idee occidentali che vedono nell’India una “superpotenza morale” – una definizione, questa, utilizzata dal giornalista Theo Sommer nel settimanale tedesco “Die Zeit”. Sommer ha intervistato, in occasione della sua visita di stato in Germania nel settembre del 1998, il presidente indiano Kocheril Raman Narayanan, che è stato il primo “intoccabile” a ricoprire questa altissima carica nella democrazia più grande del mondo. Benché Gandhi fosse morto già da oltre cinquant’anni, quest’intervista cominciava con una discussione sul “Mahatma”: Narayanan dovette spiegare che l’India non si è mai sentita moralmente superiore al resto del mondo. Se è vero che l’India certamente ha tratto da Gandhi alcuni principi morali – sosteneva il presidente –, non è possibile tuttavia confondere l’intero paese in generale con la persona di Gandhi. Questi ha dato all’India una determinata direzione, ma è stato contro tutte le armi e ogni tipo di violenza 2. Evidentemente è tuttora necessario che il presidente della potenza nucleare che è l’India, a capo di uno stato di un miliardo di persone, in un’intervista debba per prima cosa stabilire la distinzione tra il suo paese e 9 GANDHI Gandhi, il padre per eccellenza, prima di potersi dedicare a questioni politiche attuali. Se prestiamo fiducia ai sondaggi, molti cittadini europei indicano in Gandhi il loro modello spirituale e morale. Ci viene allora da pensare che Gandhi sia diventato una figura mitica. Ma chi era costui in realtà? Come ha vissuto? Cosa ha pensato? Quali erano i suoi principi morali? Questo libro, che ha carattere introduttivo, vuole gettar luce sul “mito Gandhi” e tratteggiare un quadro di lui realistico e fedele ai fatti. Sulla base della sua biografia introdurremo nei cinque capitoli del libro la sua filosofia, la vita e l’opera. Dopo il CAP. 1, che funge da introduzione, il CAP. 2 tratta della sua infanzia in India e degli anni da studente in Inghilterra, il CAP. 3 del suo impegno in favore della minoranza indiana in Sudafrica e dello sviluppo della sua “etica”, e il CAP. 4 della lotta da lui ingaggiata per l’indipendenza dalla potenza coloniale britannica. Nel CAP. 5, infine, ci si chiederà se l’“etica” di Gandhi è valida anche per il XXI secolo. I miei ringraziamenti vanno a Stefanie Bahl, Mark Berthold e Mirjam Borgaes per avere corretto il manoscritto e avere dato vari suggerimenti. Note 1. H. Rombach, Strukturanthropologie. “Der menschliche Mensch”, Freiburg-München 1987 (II ed. 1993), p. 122. 2. “Wir wollen Abrüstung”: Der indische Staatspräsident Narayanan fordert eine plurale Weltordnung-möglichst ohne Atomwaffen, in “Die Zeit”, n. 38, 10 settembre 1998, p. 12. 10 1 Introduzione: il mito di Gandhi Con Gandhi verso il XXI secolo? Il 30 gennaio del 1948 Nathuram Godse sparò a Mahatma Gandhi da una distanza ravvicinata. Egli in quel momento era diretto verso il luogo della preghiera serale. Come ogni sera verso le cinque, già cinquecento persone lo attendevano nel giardino del Birla House, l’abitazione dell’industriale presso il quale da più di quattro mesi Gandhi era ospite. Sostenuto dalle sue due accompagnatrici, anche quella sera egli, all’età di 78 anni, si recò nel luogo di preghiera. Improvvisamente Godse gli si parò davanti, gli fece un inchino e sparò tre colpi. Gandhi, colpito a morte, si accasciò al suolo. Le sue ultime parole furono: He Ram! (espressione simile a “Oh Dio!”). La notizia della sua morte si diffuse immediatamente in tutto il paese. Chi aveva commesso questo orribile delitto? Un mussulmano o un induista? Appena sei mesi prima, nella notte tra il 14 e il 15 agosto del 1947, l’India si era finalmente resa indipendente dalla potenza coloniale inglese. I britannici per circa 150 anni avevano dominato sull’enorme subcontinente. Essi riuscirono per la prima volta nella storia a porre grosso modo sotto un’unica amministrazione i vari principati e piccoli regni. Dapprima fu una società commerciale privata, la British East India Company (fondata nel 1600), a coinvolgersi vieppiù nella politica locale indiana, finché, dopo la grande insurrezione del 1857, la corona britannica tolse alla Società delle Indie Orientali il monopolio commerciale, assumendo così improvvisamente la responsabilità diretta del governo dell’India. In seguito a ciò la regina Vittoria si fece incoronare nel 1877 “Imperatrice d’India”, evento che rappresenta il capitolo più triste del colonialismo europeo. L’Inghilterra sfruttava l’India senza provare alcun imbarazzo, motivo per il quale anche l’industrializzazione europea conobbe un momento di decisivo avanzamento. Nel frattempo in India si diffondeva sempre di più il malcontento nei confronti dei dominatori stranieri. 11 GANDHI Si considera come la grande conquista di Gandhi l’aver costretto la potenza coloniale britannica a consegnare e abbandonare l’India, il “gioiello della corona”, richiamando la popolazione alla non-collaborazione e alla disobbedienza civile, rinunciando cioè ad ogni forma di violenza. Ma questa libertà dal dominio straniero aveva un prezzo alto: l’India venne divisa in due stati, Pakistan e Bharat (questo il nome ufficiale della Repubblica Indiana). Le zone mussulmane vennero tagliate via dalla carta geografica del paese per costituire la Repubblica Islamica del Pakistan, il cui nome stesso è una parola inventata ed è cioè l’acronimo formato dalle iniziali dei nomi delle sue province (Punjab, Afghanistan, Kashmir, Sind) e dalla terminazione del nome Balucistan. Dopo la separazione milioni di persone si spostarono da un paese all’altro: nel 1947 8,5 milioni di induisti e di sikh migrarono dal Pakistan nel Bharat e 6,5 milioni di mussulmani dal Bharat nel Pakistan. In tale contesto nacquero gravi tensioni tra questi gruppi, che costarono la vita a più di un milione di persone. In seguito alla scissione del Bangladesh dal Pakistan circa 10 milioni di profughi nuovamente fuggirono in India. In tutto, nel XX secolo migrarono all’interno del subcontinente indiano quasi 26 milioni di persone: il più grande movimento migratorio nella storia dell’umanità! 1 Gandhi in un primo momento era contrario alla divisione dell’India, ma siccome non poteva impedirla, si impegnò perché si procedesse secondo giustizia. Non solo il paese, quindi, ma anche l’esercito e le casse dello stato dovevano essere divisi. È vero che gli induisti e i mussulmani avevano combattuto insieme contro l’oppressione dell’egemonia britannica, la formazione dell’induismo però escluse sempre di più gli indiani mussulmani, benché questi fossero indiani tanto quanto gli induisti. In effetti, l’induismo si costituì sin dal XIX secolo come un subsistema all’interno della società indiana, riunendo al suo interno correnti religiose molto diverse 2. Gli indiani mussulmani, che non poterono identificarsi con esso, si sentivano sempre di più discriminati dalla maggioranza indù. Mohammed Ali Jinnah (1867-1948), controparte islamica di Gandhi, rese nota nel 1940 la sua “teoria delle due nazioni”, secondo la quale non esisteva una nazione indiana, ma gli indù e i mussulmani sotto ogni punto di vista facevano parte di due diverse nazioni, poiché non avevano nulla in comune né nella lingua, né nella cultura, né nella religione (per quanto fossero tutti indiani). Essi appartenevano – secondo questa teoria – a due diverse filosofie religiose con usi e costumi diversi e con letterature diverse; non si univano in matrimonio gli uni con gli altri, né mangiavano insieme; rappresentavano, dunque, all’interno dell’India, due culture fondate su idee e concetti opposti tra loro. Non sarebbe quindi stato 12 1. INTRODUZIONE : IL MITO DI GANDHI possibile per queste due “nazioni”, gli induisti e i mussulmani d’India, venire come stipati in un unico stato indipendente: bisognava creare uno stato a parte per i mussulmani. Jinnah riuscì infine a far prevalere questa sua richiesta. Ma molti induisti erano dell’opinione che al nuovo nemico non bisognasse dare altro denaro e armi, visto che i mussulmani avevano già ottenuto il loro proprio stato all’interno del territorio indiano. Per questo motivo gli estremisti indù vedevano in Gandhi un traditore. Subito dopo la sua morte molti avanzarono l’ipotesi che fosse stato un mussulmano ad assassinare Gandhi. Ma l’uccisore era un indù della casta più alta, un brahmano. Nathuram Godse era membro di Rashtriya Svayamsevak Sangh (Organizzazione volontaria nazionale, d’ora in poi RSS), un’organizzazione induista fanatica e nazionalista. La RSS aveva come scopo quello di fare dell’induismo una realtà unitaria che comprendesse tutta l’India, di formare una comunità composta da tutti gli indù, di creare insomma uno stato religioso e non secolare. La RSS voleva un induismo che fosse presente in tutti gli aspetti della vita e che rappresentasse la base di una nazione indù. A questa civiltà induistica si sarebbero dovuti sottomettere tutti gli indiani mussulmani. Godse venne arrestato mentre si trovava ancora con la pistola in mano sul luogo del delitto e più tardi venne condannato a morte. La sentenza contro di lui e un complice venne eseguita mediante impiccagione il 15 novembre del 1949. Cinque altri partecipanti all’attentato furono condannati all’ergastolo. Le spoglie di Gandhi, secondo l’usanza indù, furono cremate su un rogo in riva a un fiume, lo Yamuna, e le sue ceneri versate nelle acque. Poiché non esiste per questo motivo una tomba, il luogo della cremazione a Old Delhi rappresenta una grande attrazione turistica. Jawaharlal Nehru (1889-1964), allora primo ministro indiano e vecchio amico di Gandhi, così si espresse immediatamente dopo la morte di questi nel suo discorso alla radio: «La luce è scomparsa dalla nostra vita e ovunque regnano le tenebre. La nostra amata guida, bapu, come lo chiamavamo, il padre della nazione, non è più». La luce, è vero – proseguiva Nehru –, ha lasciato la nostra vita, ma la luce che splendeva in India non era una luce normale. Infatti questa luce, cioè Gandhi, sarà ancora visibile tra mille anni. Sarà il futuro a dimostrare se Nehru avrà avuto ragione. Gandhi, già in vita definito “Mahatma”, cioè “grande anima”, dopo la sua morte raggiunse definitivamente il rango di mito. Il titolo “Mahatma” è in tutto il mondo più noto del suo vero nome, anche se a lui stesso quest’epiteto non piaceva particolarmente. Il 26 novembre 13 GANDHI del 1925 Gandhi, nell’introduzione alla sua autobiografia, scriveva: «Spesso questo appellativo mi ha profondamente addolorato e non ricordo che mi abbia mai rallegrato» (A, 8). Egli prendeva la sua stessa vita più come la Storia dei miei esperimenti con la verità, come recita il sottotitolo dell’autobiografia. Questi esperimenti erano per lui spirituali o meglio morali; era infatti convinto che l’essenza della religione fosse la morale. Sino ad oggi Gandhi appare come un rivoluzionario non-violento che ha dedicato la sua vita all’eliminazione del razzismo e del colonialismo, ed è venerato, non solo in India ma in tutto il mondo, come un modello. Non di rado il suo nome è stato pronunciato insieme a quello di Gesù. È forse Gandhi destinato a diventare l’idolo del XXI secolo? È però meno noto che Gandhi rifiutava generalmente la civiltà moderna occidentale: essa non rispettava, secondo lui, né la religione né la morale ed era materialista. Il progresso materiale era per lui l’opposto del progresso morale 3. L’uso moderno delle macchine, per esempio, non costituiva nella sua visione un alleggerimento del lavoro umano, ma rappresentava piuttosto un elemento minaccioso che avrebbe finito per sostituire l’uomo stesso e per creare migliaia di disoccupati. Pertanto individuava il benessere collettivo solo nella società agricola indiana tradizionale, nella quale secondo lui si trovava la vera civiltà. Egli considerava le moderne metropoli indiane, come Bombay o Calcutta, “veri e propri bubboni”, nient’altro che luoghi della prostituzione e del vizio. Rifiutava anche il moderno sistema giuridico e soprattutto gli avvocati, in quanto essi vivono delle liti altrui e quindi non possono avere nessun interesse ad appianare le discordie; anzi, al contrario, gli avvocati sono causa diretta di litigi. Era contro il sistema moderno d’istruzione, che per lui non significava null’altro che la conoscenza dei caratteri dell’alfabeto (in esso mancherebbe l’elemento che forgia il carattere, cioè l’educazione religioso-morale). Ed ancora, era contro la medicina moderna, che considerava “l’essenza concentrata della magia nera”: da un lato, i medici, similmente agli avvocati, vivono delle malattie altrui; dall’altro, al posto di badare alla propria salute, le persone, se malate, si fanno semplicemente dare un farmaco dal medico. Un tale atteggiamento indebolisce lo spirito, mentre ciò che era importante per lui era soprattutto avere uno spirito forte; e per dimostrarlo ha persino scritto una Guida alla salute (1925). Come nota lo storico delle religioni Hans Joachim Klimkeit, Gandhi si avvicinava vieppiù all’idea secondo la quale «l’induismo è la migliore di tutte le religioni, in quanto la più completa» 4, parole in cui si svela lo sciovinismo di Gandhi e nelle quali egli si distingue a malapena dal suo assassino. 14 1. INTRODUZIONE : IL MITO DI GANDHI Il film monumentale Gandhi, della durata di tre ore (Inghilterra1981-82), di Richard Attenborough, riproduce forse nel modo più chiaro l’immagine distorta che il mondo si è fatta del combattente per la libertà, dell’eroe impegnato socialmente, non-violento, morale e spiritual-religioso. Questo film è in realtà un’agiografia! Per lo scrittore indiano Salman Rushdie (nato nel 1947) il film su Gandhi, premiato con otto Oscar, è un esempio del modo astorico della cultura occidentale di crearsi i propri santi. Nel film – così come nell’opinione pubblica, verrebbe da aggiungere – viene dipinta un’immagine di Gandhi come guru, divulgatore di un prodotto ben preciso: la saggezza orientale. USA-India La sua filosofia della non-violenza sembrava funzionare nella misura in cui essa serviva a privare gli inglesi del loro onore, tanto che in fine essi erano costretti ad abbandonare il campo. La libertà – sembrava suggerire il film – può essere raggiunta se ci si pone su di un piano di superiorità morale rispetto al proprio oppressore, che sarebbe così costretto dal proprio codice morale stesso a battere la ritirata 5. Se è vero che il film ha influenzato molti movimenti di liberazione d’oggi, come in Sudafrica e in Sudamerica, è pur vero però che nel proprio paese, in India, la figura di Gandhi diviene – sempre nell’opinione dello scrittore – ancora meno importante. Rushdie considera questa figura idealizzata di Gandhi noiosa, poiché restituisce solo l’immagine di un portavoce di prediche morali e di massime spicciole. Al contrario, l’uomo reale Gandhi, secondo lui, è stato di gran lunga più interessante, una delle personalità più complesse e contraddittorie del XX secolo. Sarà proprio la complessità e la contraddittorietà della sua persona che verrà qui di seguito delineata e messa in evidenza. Questa trattazione introduttiva si prefigge di mostrare un quadro di Gandhi e della sua filosofia più differenziato, e per questo più appropriato, dei luoghi comuni che circolano presso l’opinione pubblica di tutto il mondo. Ci chiediamo allora: cosa possiamo oggi imparare da Gandhi? E appunto perché esistono già molte più biografie di Gandhi di quanto sarebbe necessario, in questo libro, piuttosto che limitarsi a illustrare l’elemento biografico, si cercherà di fornire un’introduzione alla filosofia di Gandhi, per quanto contraddittoria essa possa essere. Il termine filosofia è qui inteso nel suo senso più ampio, visto che sappiamo bene che Gandhi non ha lasciato nessun sistema filosofico pienamente sviluppato. Ma cos’è veramente la filosofia? O meglio, è lecito, in realtà, parlare nel caso di Gandhi di “filosofia”? 15 GANDHI Gandhi come “filosofo”, ovvero: cos’è la filosofia? La filosofia è il suo tempo trattato in pensieri, diceva George Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831). Con tempo egli intendeva qui non ciò che viene misurato dall’orologio, ma il nostro tempo, in quanto storia e “spirito del tempo”. In questo caso stupisce che Hegel prenda la filosofia per “un mondo alla rovescia”, non adatto alla grande massa o all’intelletto umano sano, come egli diceva, al “volgo”. Per tutte le scienze, le arti, le abilità, i mestieri si è convinti che, per possederli, sia necessario impararli faticosamente ed esercitarli. Così, mentre ciascuno, pur possedendo occhi e dita, se gli si mettano a disposizione cuoio e arnesi è poi incapace di fare delle scarpe, pare invece che, quanto alla filosofia, domini ora il pregiudizio che ciascuno sappia immediatamente filosofare e giudicare di filosofia, possedendo egli nella sua ragione naturale la misura a ciò adatta: come se ciascuno non possedesse, similmente, nel suo piede la misura di una scarpa 6. Ma i cattivi calzolai non sono anch’essi calzolai? Qualsiasi persona, se le si danno cuoio e attrezzi, sarà comunque in grado di fabbricarsi qualcosa per i piedi che in senso lato potrebbe essere definito “scarpa”. O forse sono filosofi soltanto i professori di filosofia? Contro la filosofia universitaria aveva già espresso energica opposizione Arthur Schopenhauer (1788-1860), che ha più volte definito il sistema hegeliano come “saggezza dell’ano”; egli era infatti dell’opinione che non si dovrebbe proprio affidare la filosofia ai professori 7. Anche secondo Karl Jaspers (1883-1969) la filosofia è «il pensiero che regge la vita, che rischiara l’azione nell’esistenza personale e nella politica» 8. Questa definizione si adatta perfettamente a Gandhi, che durante tutta la sua vita fu alla ricerca della filosofia così intesa. Filosofia in questo caso deve sempre essere intesa come “filosofia di vita”. Martin Heidegger (1889-1976) ha una volta fatto notare in proposito che questo termine dice tanto quanto “botanica delle piante” 9: l’espressione “filosofia di vita” sarebbe una tautologia, in quanto la filosofia è sempre filosofia di vita come la botanica è botanica delle piante! Il filosofo di Würzburg Heinrich Rombach (nato nel 1923) ha trovato una definizione molto ampia: la filosofia, a differenza della scienza, non è vincolata da un’immediata corrispondenza con la realtà, visto che in riferimento al tutto non esiste qualcosa di simile alla “realtà immediata”. La realtà dipende molto di più dall’interpretazione che ne danno gli uomini e dal tempo in cui essi vivono. L’inter16 1. INTRODUZIONE : IL MITO DI GANDHI pretazione del mondo precede ogni attività filosofica, e persino ogni azione, e viene definita da Rombach “filosofia basilare”, “filosofia nel vero senso della parola” o ancora “filosofia attiva”. La filosofia basilare si esprime nel credere e nel sapere, nel pensiero e nell’azione, nel lavoro e nella festa, cioè nella vita attiva e forse essa è anche ciò che viene altrimenti definito “cultura”, “tempo”, “mentalità” o “spirito”. Questo “spirito” però non appartiene all’uomo, ma costituisce il drammatico evento della presa di coscienza dell’uomo. Con questa considerazione Rombach assegna la filosofia ad una dimensione fondamentale: Si è abituati a considerare la filosofia come un determinato insieme di nozioni e questioni che sono disponibili in testi del passato o contemporanei. Questa filosofia astratta e testuale, la sola ad essere per lo più presa in considerazione, è a mio avviso solo un fenomeno secondario, che dipende dalla filosofia basilare. È questa prima di ogni altra cosa a rendere possibile e accessibile all’uomo ogni condotta e soprattutto ogni conoscenza 10. La filosofia universitaria rappresenta quindi solo la punta di un iceberg, quello cioè della filosofia basilare. Ad essa appartengono l’etica e la morale e anche la religione deve essere trattata come una parte della filosofia. Così anche l’induismo è una filosofia come il pensiero moderno e illuminato. Ogni cultura e ogni epoca hanno la loro filosofia, persino ogni uomo ne ha una propria: ogni uomo è un filosofo, non importa quanto chiara sia la sua filosofia. Anche colui che rifiuta la filosofia ne possiede una. Questo significato ampio del termine è stato una volta spiegato da Jaspers in un altro passo con queste parole: Poiché la filosofia è indispensabile per gli uomini, essa è sempre presente nella vita pubblica, nei proverbi che sono stati tramandati, nelle correnti espressioni filosofiche, nelle credenze dominanti, come anche nel linguaggio degli spiriti illuminati e delle visioni politiche, ma soprattutto, ancor prima dell’inizio della storia, nei miti. Alla filosofia nulla si sottrae. L’unica questione è se essa è cosciente o no, se è buona o cattiva, se è confusa o chiara. Chi rifiuta la filosofia, compie egli stesso un atto filosofico senza rendersene conto 11. Detto altrimenti: non si può non filosofeggiare! Filosofia significa letteralmente “amore per la saggezza” (dal greco philein/amare e sophia/saggezza). Nell’antica Grecia i primi filosofi erano convinti che la saggezza appartenesse solo agli dèi; il filosofo quindi non è saggio (come invece suppone di essere il sofista), ma 17 GANDHI solo un amico della saggezza, del sapere e della verità. Il filosofo sa che in fondo egli non sa nulla. Così prosegue Jaspers: La parola greca philosophos è opposta a sophòs. Ciò vuol dire: colui che ama la conoscenza (l’essenza) diversamente da colui che, poiché in possesso della conoscenza, si definisce sapiente. Il senso della parola si mantiene sino ad oggi: la ricerca della verità, non il suo possesso, costituisce l’essenza della filosofia, anche se essa spesso si rivela come dogmatismo, cioè in un sapere espresso in proposizioni, definitivo, completo e dottrinario. Filosofia vuol dire essere in cammino. Le domande che essa si pone sono più essenziali delle risposte che si dà e ogni sua risposta si trasforma in una nuova domanda 12. Gandhi cercava la verità in tal modo, quindi egli era un filosofo nel vero senso della parola. Per questo motivo la mia tesi è che bisogna leggere Gandhi come un filosofo. E proprio attorno a questa filosofia di Gandhi, che si esprime non solo nei suoi testi ma anche nelle sue azioni, si svilupperà il nostro discorso. Un ruolo centrale in essa gioca il satyagraha, cioè la “vera forza”, che aspira alla verità. Satya vuol dire “verità”, parola in cui traspare sat, “essere”, che in questo senso coincide sempre con “essere vero”. Per Gandhi non v’è nella realtà nient’altro che la verità e la sua concezione della verità è molto simile a quella di Heidegger, secondo cui essa è il “disvelamento dell’essere” ovvero il non rimanere nascosto. Ciò va molto al di là della consueta concezione attuale della verità come funzione delle proposizioni. Secondo Heidegger le proposizioni possono essere solo vere (o false), perché esiste la verità. Gandhi si spinge anche oltre nell’identificare la verità con Dio. Poiché per lui non esiste niente al di fuori della verità, dal momento che la verità è l’essere, essere o verità è il nome più importante di Dio. Egli in effetti considerava più giusto dire che la verità è Dio piuttosto che Dio è la verità. Chi riflettesse più attentamente, secondo Gandhi, si accorgerebbe da solo che sat o satya è l’unico nome giusto per Dio e anche quello più significativo. Gandhi credeva nella “dedizione alla verità”, come giustificazione della nostra esistenza. Per lui la verità deve essere il “respiro” della nostra vita. Di conseguenza, rispettare la legge della verità significava per lui non solo dover dire la verità, ma anche rispettare satya nel pensiero, nelle parole e nelle azioni. Secondo lui era necessario realizzare la verità, dopo di che non ci sarebbe stato nient’altro da conoscere, giacché ogni nozione era necessariamente in essa contenuta. Questo attenersi alla verità, satyagraha, significava anche non-violenza, poiché ciò che per uno appare come verità, può per un altro essere un errore. Egli voleva piuttosto andare incontro al suo avversario con 18 1. INTRODUZIONE : IL MITO DI GANDHI pazienza e con amore. Per questo ha riassunto la sua filosofia in questa formula: Dio è verità, e la via verso la verità sta nell’ahimsa, la non-violenza. A suo avviso la dottrina del satyagraha è così semplice che anche i bambini potrebbero comprenderla: essa dovrebbe direttamente confluire in un’etica. Possiamo considerare il pensiero di Gandhi come etica per il XXI secolo? Note 1. Cfr. P. J. Opitz, Das Weltflüchtlingsproblem im 20. Jahrhundert, in Id. (hrsg.), Weltprobleme, Bonn 19903, pp. 361-408, qui pp. 36 e 83. 2. Cfr. inoltre A. Becke, Hinduismus zur Einführung, Hamburg 1996, in particolare pp. 9-28 e 81-127. 3. Cfr. per quanto segue J. Lütt, Mahatma Gandhis Kritik an der modernen Zivilisation, in “Saeculum. Jahrbuch für Universalgeschichte”, vol. 37, 1986, pp. 96-112. 4. H.-J. Klimkeit, Der politische Hinduismus. Indische Denker zwischen religiöser Reform und politischem Erwachen, Wiesbaden 1981, p. 293. 5. S. Rushdie, Gandhi heute: Der spindeldürre Freiheitskämpfer einer Nation sizt Modell für Apple, in “Die Zeit”, n. 19, 29-4-1998, pp. 37 s. Cfr. inoltre la critica di Rushdie al film in Id., Attenboroughs Gandhi, in Heimatländer der Phantasie. Essays und Kritiken 1981-1991, München 1992, pp. 109-13. 6. G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. de Negri, Firenze 1973, p. 56. 7. Cfr. A. Schopenhauer, Ueber die Universitätsphilosophie, in Parerga und Paralipomena. Kleine philosophische Schriften, vol. 1, Zürich 1988, pp. 139-99. 8. K. Jaspers, Philosophie I. Philosophische Weltorientierung, Berlin-Heidelberg 1932 (ristampa München 1994), p. XXI. 9. Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, ed. it. a cura di P. Chiodi, Torino 1969, p. 112. 10. H. Rombach, Die Gegenwart der Philosophie. Die Grundprobleme der abendländischen Philosophie und der gegenwärtige Stand des philosophischen Fragens, III ed. riveduta, Freiburg-München 1988, p. 6. 11. K. Jaspers, Einführung in die Philosophie. Zwölf Radiovorträge, München 1953 (nuova ed. 1971), p. 12. 12. Ibid. 19