Le macchine a moto perpetuo Di Michelangelo Fazio

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Le macchine a moto perpetuo
Di Michelangelo Fazio (1978)
Questo interessante documento può essere molto utile a quanti intendano cimentarsi con la
sperimentazione e la ricerca del moto perpetuo. In poche pagine viene raccontata, per sommi capi,
la storia di questa ricerca, puntualizzando in alcuni esempi, il perché alcuni modelli che in passato
hanno fatto gridare al miracolo, in verità non potevano funzionare.
Uno dei problemi che ha assillato per secoli i fisici è stato quello della realizzazione di macchine a moto
perpetuo, cioè di macchine capaci di compiere un lavoro superiore alla quantità di energia che è necessario
fornire loro per farle funzionare, o, come si suoi dire con una diffusa espressione, capaci di produrre qualcosa
dal nulla. Per averne un'idea significativa si pensi, per esempio, a una automobile che brucia un carburante,
quale la benzina, produce calore nel processo di combustione e utilizza interamente tale calore per produrre
energia cinetica dei moto dell'auto stessa; tutta l'energia dissipata in attriti potrebbe essere recuperata e
utilizzata per far percorrere all'auto chilometri in più. Allo stesso modo dovrebbe essere possibile a una nave
solcare le acque dell'oceano utilizzando il calore dell'acqua marina per il funzionamento dei propri motori e
rigettando in mare blocchi di ghiaccio.
Il primo tipo di macchina costituirebbe un esempio di moto perpetuo di I specie, in quanto contrasterebbe il
primo principio della termodinamica, il secondo tipo costituirebbe invece un caso di moto perpetuo di Il specie
in quanto andrebbe contro l'enunciato del secondo principio della termodinamica. Il primo principio della
termodinamica afferma infatti che, data una certa quantità di calore Q, è sempre possibile trasformarla in lavoro
meccanico L e in una variazione di energia interna di un sistema secondo la relazione Q = L + ∆ U; dato che
l'energia interna di un qualsiasi sistema dipende sempre dalla temperatura, una fornitura di calore al sistema (Q
> 0) si traduce nella produzione di lavoro motore (L > 0) e in un aumento di temperatura dei sistema stesso; è
quanto riscontriamo nell'esempio dell'auto: il calore prodotto dalla combustione della benzina si trasforma in
parte in lavoro motore per mettere in moto l'auto e in parte produce un aumento di temperatura, cioè un
riscaldamento del motore; a sua volta il lavoro meccanico viene parzialmente trasformato in calore per attrito
delle ruote sull'asfalto e per la resistenza aerodinamica offerta dall'aria. In altri termini, la quantità di calore Q
può essere utilizzata solo parzialmente per produrre lavoro. L'espressione quantitativa della quantità di calore
utilizzabile per compiere lavoro è data invece dal secondo principio della termodinamica che precisa quale può
essere il rendimento di una macchina termica, ovvero il rapporto n tra il lavoro compiuto e il calore assorbito.
Tale principio afferma che il rendimento dipende in generale dalla temperatura T1 della sorgente, che nel ciclo
termodinamico della macchina cede calore alla macchina, e dalla temperatura T2 della sorgente che invece
assorbe calore ed esattamente, per le macchine che seguono un ciclo di Carnot, è η – T2/T1.Poiché non può mai
essere T2 = 0, ne consegue che non potrà neppure mai essere η = 100%. La nostra auto e la nostra nave non
potranno quindi mai viaggiare gratis. Ma allora - potrebbe chiedersi il lettore - perché, se esistono delle leggi
della fisica che ne vietano la possibilità, c'è stata tanta gente che ha perso il proprio tempo nel tentativo a priori
inutile di realizzare qualcosa di impossibile? E qui sta il punto che gli appassionati dei moto perpetuo invocano
a giustificazione dei loro testardo atteggiamento.
I due principi della termodinamica sono dei postulati, ovvero delle affermazioni di principio valide non in
quanto rigorosamente dimostrabili, ma solo per il fatto che in natura non è mai stato osservato un fenomeno che
non li rispetti pienamente. Si può perciò affermare che un eventuale fenomeno che si verifichi senza rispettare il
primo e il secondo principio della termodinamica non deve essere considerato impossibile, ma solo
estremamente improbabile; è proprio sulla piccolissima, ma non nulla probabilità di fenomeni di questo genere
che gli studiosi dei problema hanno fatto affidamento per sperare di realizzare le macchine a moto perpetuo. Per
esempio, se dovesse capitarci di osservare che una moneta metallica, lasciata cadere dalla nostra mano, anziché
cadere sul pavimento prende la strada opposta verso il soffitto, non verrebbe pregiudicata la validità della legge
di gravità, perché nulla vieta che in un certo istante le molecole dell'aria, in perenne moto disordinato e caotico,
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abbiano tutte velocità orientata verso l'alto in modo tale da spingere la moneta verso l'alto. Allo stesso modo
nulla vieta che aprendo il rubinetto di una bombola di gas a una pressione maggiore di quella atmosferica
anziché il gas a uscire sia l'aria a entrare (come ipotizzò Maxwell con la figura dei suo mitico diavoletto). Solo
che ben difficilmente potrà accaderci nel corso di un'intera esistenza di osservare fenomeni dei genere per la
piccolissima possibilità che essi hanno!
Prima di citare alcuni esempi che a un esame sommario sembrerebbero avere le carte in regola per costituire
casi di moto perpetuo, è interessante analizzare la situazione dal punto di vista cronologico. Il primo a proporre
una macchina a moto perpetuo fu nel secolo XVII il medico inglese R. Fludd, mentre il primo a scoprire
l'impossibilità di tale moto con la prima formulazione del primo principio della termodinamica fu un altro
medico, il tedesco J.R. Mayer, nel secolo XIX. La suggestiva idea di produrre energia dal nulla risale ai tempi
di Archimede, che inventò la leva proprio allo scopo di risparmiare fatica all'uomo. In particolare un tipo di
leva che interessava le attività umane era il mulino ad acqua, per il quale Fludd propose nel 1618 una curiosa
variante: se l'acqua che mette in moto la ruota di un mulino si potesse raccogliere in un serbatoio posto al di
sopra della ruota, non sarebbe più necessario ricorrere a una sorgente di acqua corrente. Allora, dato che le
ruote dei mulini si erano rivelate capaci di far ruotare enormi macine, perché non avrebbe dovuto essere in
grado di far funzionare una pompa capace di rimettere in circolo l'acqua dei mulino? Un secolo più tardi un
discorso analogo venne ripreso da J. Wilkins, vescovo di Chester e membro della Royal Society, che studiò il
comportamento delle ruote sbilanciate, cioè di quelle ruote che girano perché da una parte sono più appesantite
che dall'altra; va però detto che lo stesso Wilkins non fu capace di progettare alcun meccanismo capace di
realizzare un siffatto moto perpetuo.
fig. 1. Il mulino di Fludd, proposto nel 1618, e che non riuscì mai a funzionare.
Nella fig. 1 è illustrato lo schema dei mulino di Fludd: l'acqua che cade dall'alto mette in moto una ruota ad
acqua (3) che comanda contemporaneamente, mediante due ingranaggi, una macina (4) e una vite di Archimede
(2) che riporta l'acqua dalla vasca al serbatoio superiore; di là (1) l'acqua ricade e il moto dei mulino può
continuare all'infinito. Tutto ciò in linea di principio, ma tale mulino non riuscì mai a funzionare ed è oggi
evidente, anche se la cosa venne scoperta solo due secoli dopo Fludd: la ruota ad acqua gira perché l'energia
potenziale dell'acqua del serbatoio si trasforma durante la caduta in energia cinetica della ruota; la stessa
energia cinetica non può trasformarsi in energia potenziale dell'acqua che risale nel serbatoio e in più produrre
il movimento della macina (senza poi tener conto della dissipazione di energia negli attriti dei due ingranaggi!).
Nel frattempo era stato formulato da Mayer il primo principio della termodinamica, che altro non è che una
estensione del principio di conservazione dell'energia; tra le diverse formulazioni che di tale principio vennero
date quella più significativa per i nostri scopi è che l'energia può essere trasformata in lavoro o calore, ma non
può essere né creata né distrutta, cioè l'energia totale dell'universo è costante. Tale risultato era stato raggiunto
con i decisivi contributi dello scozzese J. Black, che per primo stabilì la relazione fondamentale della
termologia tra calore e temperatura, e dell'americano B. Thompson (più noto coi nome di Conte Rumford) che
verificò sperimentalmente per primo la relazione tra lavoro e calore nella perforazione dei cannoni dell'arsenale
bavarese del quale egli era il responsabile tecnico. Nel 1840 fu lo scozzese J. P. Joule a misurare l'equivalente
dinamico dei calore (o equivalente termico dei lavoro) ottenendo che il calore di 1 caloria produceva lavoro per
complessivi 4,18 J. Nel 1847 H. von Helmholtz annunciò l'impossibilità delle macchine a moto perpetuo
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presentando a sostegno delle sue conclusioni i risultati ottenuti dal francese L. S. Carnot nel 1824, che
costituivano l'essenza dei secondo principio della termodinamica. Tutto ciò non distolse tuttavia molte persone
dai tentativi di realizzare il moto perpetuo: quello che più di ogni altro merita di essere ricordato quale esempio
di totale aberrazione è dovuto a un ingegnere statunitense, E. P. Willis, il quale costruì una grande ruota dentata
inclinata orizzontalmente (fig. 2) e bilanciata con diversi pesi a comandare un volano cilindrico cavo. Il moto
della ruota era apparentemente perpetuo, ma ben presto si scoprì che era l'aria compressa introdotta attraverso la
colonnina A a mantenere in moto l'intero meccanismo.
fig. 2. Le ruote dentate di Willis, apparentemente dotate di moto perpetuo, erano invece mantenute in
movimento dall'aria compressa.
Dispositivi quali il mulino ad acqua di Fludd, le ruote dentate di Willis, o il moto perpetuo magnetico della fig.
3 o quello della macchina della fig. 4, nella quale un elettromagnete attrae una manovella che mette in moto una
ruota che dovrebbe generare una quantità di elettricità sufficiente ad alimentare l'elettromagnete (ma anche qui
si trascurano le dissipazioni di energia in attriti!) si basano sull'ipotesi che il primo principio della
termodinamica possa essere violato, data la sua natura di carattere probabilistico.
Fig.3. Nel valutare il moto della sferetta di ferro non si teneva conto degli attriti.
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Fig.4. L’elettromagnete con bilanciere ignorava le perdite di energia del sistema
Altre macchine invece non violano affatto tale principio, nel senso che non vi sono nel loro progetto problemi
di dissipazione sotto forma di attriti; esse sono tuttavia ugualmente impossibili perché violano il secondo
principio. Le basi di tale principio furono gettate da Carnot nello studio dei rendimento delle macchine
termiche, ma la prima rigorosa formulazione si deve a R. Clausius e a W. Thomson (più noto come Lord
KeIvin). fl primo principio afferma che una data quantità di lavoro meccanico può essere sempre convertita in
un'equivalente quantità di calore; ma, se osserviamo il funzionamento di una macchina termica (si noti che la
funzione di tale macchina è quella di produrre lavoro a spese dei calore assorbito e non quella di produrre
calore, nonostante il nome che può trarre in inganno) si vede che non accade mai l'opposto, ovvero una data
quantità di calore non può mai essere interamente trasformata in lavoro, in quanto la macchina durante il
funzionamento è sottoposta a dispersioni di energia non eliminabili, quali gli attriti nelle parti mobili, il
riscaldamento dell'aria circostante, fughe di calore, ecc. Carnot provò a progettare una macchina perfetta che
fosse completamente isolata termicamente, senza attriti e dispersioni e che doveva funzionare con un ciclo
chiamato in seguito ciclo di Carnot costituito da un insieme di quattro trasformazioni, due isotermiche, a
temperatura costante, e due adiabatiche, senza scambi di calore con l'esterno. Per averne un'idea pratica, in tale
ciclo l'acqua viene riscaldata e trasformata in vapore e la pressione dei vapore fa muovere il pistone; il vapore
nell'espansione del pistone si raffredda e condensa riformando acqua e riportando il pistone nella posizione
iniziale. Anche con un ciclo ideale di questo tipo Carnot si rese conto dell'impossibilità della completa
trasformazione in lavoro del calore fornito all'acqua per muovere il pistone, in quanto, anche se si riusciva a
eliminare ogni attrito, erano presenti perdite di energia termica nel processo di raffreddamento e di
condensazione. Carnot usò un linguaggio che a noi oggi appare inconsueto, in quanto parlava in termini di
calorico, intendendo con tale nome un fluido contenuto nei corpi e responsabile degli scambi termici fra essi.
Oggi tale concetto è superato e rifiutato, ma suonano ugualmente chiare le parole di Carnot, secondo il quale la
trasformazione di calore in energia meccanica « dipende solo dalla temperatura dei corpi tra i quali è eseguito lo
scambio di calorico ». in termini più precisi oggi diciamo che il rendimento di una macchina di Carnot dipende
solo dalle temperature delle due sorgenti con le quali la macchina scambia calore durante il ciclo. In altri
termini il calore può trasformarsi in lavoro a patto che fluisca da un corpo più caldo a uno più freddo.
Per rappresentare quantitativamente la quantità di calore inevitabilmente dissipata in un ciclo, Clausius inventò
una nuova grandezza fisica battezzandola entropia. Senza entrare in dettagli matematici troppo complessi, ci
limitiamo a citare in termini di entropia la formulazione dei secondo principio data da Clausius: L'entropia
dell'universo è in continuo aumento che, con parole più semplici suona anche così: « l'energia dissipata nei fenomeni che hanno luogo nell'universo è in continuo aumento ». A parte le considerazioni di carattere
cosmologico che fanno pensare a un progressivo esaurimento delle fonti di energia dell'universo, l'inevitabile
conseguenza di tale affermazione è che alla fine l'intero universo sarà alla stessa temperatura in quanto non vi
potranno più essere scambi di calore. Questo vuol dire che non potrà più funzionare nessuna macchina termica
e sarà pertanto cessata ogni produzione di lavoro. Il fatto che l'entropia complessiva dell'universo debba aumentare non esclude che possano verificarsi localmente qua e là delle diminuzioni di entropia: per esempio, il
letto di un fiume potrebbe. improvvisamente raffreddarsi cedendo la sua energia termica all'acqua che potrebbe
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trasformarla in energia cinetica per scorrere controcorrente. Ma un processo di questo tipo non è mai stato osservato e pertanto è da ritenersi estremamente improbabile, anche se non proprio impossibile. In termini di
probabilità, eventi di questo tipo, che dei resto richiamano quello della moneta che cade verso l'alto o quello del
diavoletto di Maxwell, hanno la stessa probabilità di evenienza di quella che può avere una scimmia, battendo a
caso sui tasti di una macchina per scrivere, di comporre la Divina Commedia.
Il fatto che esista una minima probabilità di certi eventi ha incoraggiato gli studiosi dei moto perpetuo a
persistere nei foro tentativi: J. Gamgee verso il 1880 progettò una macchina termica che egli stesso chiamò
zeromotore perché funzionava normalmente alla temperatura di 0 °C. Tale macchina, indicata schematicamente
nella fig. 5 usava come fluido ammoniaca anziché acqua e non differiva dalle comuni macchine termiche.
L'ammoniaca diventava vapore a bassa temperatura (a 0 °C esercita una pressione di 4 atm) e, secondo il suo
ideatore, lo scambio di calore con l'ambiente esterno doveva essere sufficiente per trasformare l'ammoniaca da
liquido a gas; inoltre l'ammoniaca allo stato di vapore, spingendo indietro il pistone ed espandendosi, avrebbe
dovuto raffreddarsi, condensare e precipitare in un serbatoio, riprendendo poi daccapo il ciclo. In effetti, se si fa
qualche conto si scopre che lo scambio di calore con l'esterno può davvero bastare per vaporizzare
l'ammoniaca, ma tale vantaggio è annullato dal raffreddamento dei gas che espande. Partendo da 0 °C e a
pressione 4 atm, la temperatura dei vapore è scesa a - 33 °C, mentre il volume si è quadruplicato. Se il vapore
deve condensare, sia il condensatore che la sorgente devono essere mantenuti a - 33 °C. La cosa più ridicola è
che molti uomini autorevoli dell'epoca credettero alla macchina di Gamgee finanziandone le ricerche,
nonostante che ambienti scientifici di una certa serietà - tra i quali l'Accademia delle Scienze di Parigi e
l'Ufficio Brevetti degli Stati Uniti - avessero già da tempo rifiutato di esaminare qualsiasi progetto dei genere se
non accompagnato da un piccolo prototipo funzionante in perfetta regola.
fig. 5. La macchina di Gamgee, chiamata zeromotore perché funzionava a O °C.
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Tuttavia è interessante citare un caso davvero singolare di macchina a moto perpetuo il cui funzionamento era
basato unicamente sulla... ingenuità popolare: un certo J. Keely aveva dato a intendere dal 1875 al 1898, anno
della sua morte, di essere riuscito a realizzare una macchina a moto perpetuo ottenendo prestiti, fideiussioni
bancarie e finanziamenti di mecenati creduIoni per la realizzazione in grande stile di impianti per la produzione
di energia in modo del tutto gratuito. Aveva montato un misterioso e complicato giocattolo a base di globi
metallici, tubi, condutture, valvole e strumenti di misura; Kee1y soffiava in un ugello per circa mezzo minuto e
riusciva a far fuoriuscire 25 litri d'acqua dallo stesso ugello; dopo di che, manovrando alcune valvole in modo
da confondere le idee agli spettatori, dimostrava che la macchina era piena di vapore a una pressione di 7000
atm. In questo modo riusciva a vendere la sua macchina capace di sfruttare, come egli diceva, la grande energia
dell'acqua, capace di far deviare il mondo dal proprio corso. Peccato che alla sua morte si scoprì, durante i
lavori di sistemazione effettuati dagli eredi, che nella sua villa di Philadelphia c'era un enorme serbatoio dì aria
compressa abilmente nascosto nelle cantine e che era il responsabile della produzione gratuita di energia.
Ancora oggi, tramontata definitivamente la speranza di violare i due principi della termodinamica con le
macchine a moto perpetuo, la fisica ci offre molti esempi paradossali di fenomeni che, se analizzati senza la
necessaria attenzione, sembrano davvero contrastare il principio di conservazione dell'energia; ne citiamo
qualcuno per curiosità dei lettore. Il più semplice è il paradosso dei torchio idraulico (fig. 6) costituito da: due
cilindri cavi di sezione differente a e A nei
fig. 6. Il torchio idraulico non fa risparmiare energia ma riduce soltanto lo sforzo.
quali scorrono due pistoni tra i quali è contenuto un liquido praticamente incomprimibile. Se esercitiamo una
forza f sulla sezione a, la pressione corrispondente esercitata sul liquido è p = f/a, per la stessa definizione di
pressione; dato che il liquido è incomprimibiIe, la stessa pressione p la dobbiamo ritrovare sulla sezione
maggiore A, che risulta quindi in grado di sostenere una forza data da F = p A = f A/a. Essendo A normalmente
molto maggiore di a, sarà anche F molto maggiore di f, e ciò vuoi dire che, applicando una piccola forza f in a,
possiamo sollevare un grosso peso in A, principio elementare comune a tutte le leve. A questo punto, però,
qualcuno ha pensato che abbiamo trovato il modo di fare meno fatica per sollevare un grosso peso, quindi di
compiere meno lavoro e risparmiare energia, ma è facile smentirlo, in quanto il lavoro compiuto per sollevare
di un tratto H il peso F è dato da L = F H e lo stesso lavoro - essendo il liquido incomprimibile e non
richiedendo pertanto alcun lavoro per la sua compressione - lo dobbiamo compiere per abbassare di un tratto h
la sezione più piccola con l'applicazione della forza f; dovrà essere pertanto í h = F H, ovvero, essendo F > 1,
dovrà anche essere h < H. In altre parole, con una forza molto piccola possiamo sollevare un peso molto
grande, ma il sollevamento di tale peso è molto minore dell'abbassamento della sezione più piccola. Il torchio
idraulico non ci fa quindi risparmiare fatica, ma ci consente di distribuirla in tanti piccoli spostamenti
successivi.
Un altro curioso paradosso che sembra realizzare il moto perpetuo è il seguente: è noto che se immergiamo un
capillare in un recipiente pieno d'acqua, l'acqua nel capillare non si dispone allo stesso livello dei recipiente, ma
sale fino a un'altezza h calcolabile dalla legge di Borelli-Jurin: h = 2 τ / (ρ g r),
dove τ è la tensione superficiale dell'acqua, ρ la sua densità, g l'accelerazione di gravità ed r il raggio dei
capillare. Supponiamo ora di aver calcolato per un capillare di dimensioni note l'altezza di innalzamento
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capillare dell'acqua e di immergere quel capillare nella vasca in modo che sporga per un tratto minore
dell'altezza così calcolata. Dovrebbe accadere che l'acqua sale nel capillare e ne trabocca dovendo arrivare a
un'altezza maggiore dei tratto immerso: poiché però l'azione della tensione superficiale alla quale è dovuto
l'innalzamento continua, l'acqua caduta nella vasca risale nel capillare costituendo un vero e proprio moto
perpetuo. Anche qui è facile dimostrare che non è vero dapprima eseguendo l'esperimento e poi con una
giustificazione fisica: quando l'acqua raggiunge l'estremo superiore del capillare risulta soggetta a una forza
diretta verso l'alto minore della forza di tensione superficiale che la attira verso il basso e non potrà quindi
fuoriuscire dall'orifizio (fig. 7).
fig. 7, La fontana a capillarità non funziona a causa della tensione superficiale.
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