A PROPOSITO del MONUMENTO AI CADUTI e del 25 APRILE Si commemorerà con la medesima enfasi con cui si è ricordato il 14 aprile u.s. il centenario dell’affondamento del Titanic, la collisione dell’Europa della Belle Epoque, contro l’iceberg serbo, avvenuta circa 100 anni fa in una strada di Sarajevo? In quel caso i morti nell’Oceano Atlantico furono circa 1500, nel caso dello sprofondamento dell’Europa nella barbarie di una guerra mondiale i morti furono oltre 9 milioni tra i soldati e circa 7 milioni fra i civili, dovuti non solo agli effetti diretti delle operazioni di guerra, ma anche alla carestia e alle malattie concomitanti il conflitto Gavrilo Princip e la sua cattura A Sarajevo lo studente serbo Gavrilo Princip, attentando alla vita dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico il 28 giugno 1914 diede fuoco alle polveri di una delle guerre più sanguinose dell’umanita: la cosiddetta grande guerra ( 1^ guerra mondiale). Il Ponte Latino di Sarajevo, luogo dell'attentato L’Italia lacerata tra le fazioni dei favorevoli alla guerra (interventisti) ed i contrari (neutralisti), dopo la rottura della Triplice Alleanza con l’Austria-Ungheria e la Prussia e l’adesione nel 1915 al Patto di Londra con l’Inghilterra, Francia e Russia, dichiarò guerra agli imperi centrali il 24 maggio 1915. La leggenda del Piave Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio Dei primi fanti il ventiquattro maggio: l’Esercito marciava per raggiunger la frontiera, per far contro il nemico una barriera. …………………………………………………………… L’Italia, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto il Trentino, Trieste, l'Istria, la Dalmazia, il porto di Valona e altri territori da stabilire. Iniziò così quella che fu ricordata come una sorta di 4^ guerra d’indipendenza, con lo scopo di unire alla madre-patria le terre irredente, cioè quelle comprese nella regione geografica italiana o popolate da italofoni e collegate all'Italia da secolari legami storici, linguistici e culturali. Antonio Salandra, allora primo ministro, commentando alla Camera dei Deputati l'entrata in guerra del paese, affermò che il destino aveva data a quella generazione il compito di completare l'opera del Risorgimento. L'interpretazione della prima guerra mondiale come parte integrante del processo risorgimentale è ancora sostenuta da un accreditato modello storiografico che parla di Risorgimento lungo intendendo tutto il periodo dalla fine del XVIII secolo fino alla fine della Grande guerra, visto come periodo di costruzione della nazione italiana, interpretazione sostenuta anche da storici non italiani come Gilles Pécout. Migliaia di giovani di tutte le regioni d’Italia persero la vita nelle trincee del Carso e, nonostante la terribile ferita di Caporetto, col loro tributo di sangue, poco dopo il 50° dell’unità (1911), riuscirono finalmente a realizzare la completa unificazione territoriale, ma soprattutto quella morale del paese. Mai, come nel comune sacrificio in termini di giovani vite umane offerte alla patria, villaggi, paesini, cittadine e grandi città, si sentirono stretti in un sentimento di fratellanza davvero condiviso. Questo sentimento patriottico suggellato col patto di sangue di migliaia di giovani morti nelle dolìne del Carso ebbe un coronamento nell’idea, del colonnello Giulio Douhet, della creazione a Roma di un monumento al milite ignoto. Sotto la statua della dea Roma, nel complesso del Vittoriano, sarebbe stata tumulata la salma di un soldato italiano sconosciuto, selezionata tra quelle dei caduti pochi mesi prima nella grande guerra. La scelta venne affidata a Maria Bergamas, madre del volontario irredento Antonio Bergamas che aveva disertato dall'esercito austriaco per unirsi a quello italiano ed era caduto in combattimento senza che il suo corpo fosse ritrovato. Il 26 ottobre 1921, nella Basilica di Aquileia, Maria scelse il corpo di un soldato, tra undici altre salme di caduti non identificabili, raccolti in diverse aree del fronte. La donna venne posta di fronte a undici bare allineate, e dopo essere passata davanti alle prime, non riuscì a proseguire nella ricognizione e gridando il nome del figlio si accasciò al suolo davanti a una bara, che venne scelta. La bara prescelta. Fu collocata sull'affusto di un cannone e, accompagnata da reduci decorati con la Medaglia d'oro al Valore Militare e più volte feriti, deposta su un carro ferroviario appositamente disegnato. Il viaggio si compì sulla linea Aquileia-Roma, passando fra le altre città, per Udine, Venezia, Padova, Bologna, Firenze, Arezzo, Orvieto a velocità moderatissima in modo che presso ciascuna stazione la popolazione avesse modo di onorare il caduto simbolo. Furono molti gli Italiani che attesero, a volte anche per ore, il passaggio del convoglio al fine di poter rendere onore al caduto. Il treno infatti si fermò praticamente in tutte le stazioni. Il trasferimento al Vittoriano (Monumento a Vittorio Emanuele II°), del feretro del soldato sconosciuto da Aquileia a Roma, fu quanto di più commossa partecipazione fisica ed emotiva un intero paese potesse offrire. La salma avanzò a passo d’uomo lungo i binari fino a Roma tra due ali di folla commossa che lanciava fiori sulla salma. La cerimonia ebbe il suo epilogo nella capitale. Tutte le rappresentanze dei combattenti, delle vedove e delle madri dei caduti, con il Re Vittorio in testa, e le bandiere di tutti i reggimenti mossero incontro al Milite Ignoto, che da un gruppo di decorati di medaglia d'oro fu portato nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. La salma venne posta nel monumento il 4 novembre 1921. Sacello del Milite Ignoto La tomba del milite ignoto posta sull’alto del monumento ribattezzato Altare della Patria, viene sorvegliata giorno e notte da due soldati di guardia appartenenti alle varie armi e corpi dell’esercito che quotidianamente si avvicendano al servizio di onore. Non c’è comunità in Italia, piccoli paesi o grandi città, che non possieda un luogo della memoria: un monumento ai caduti, una lapide, un piccolo o grande tempio, ecc. a perenne ricordo del piccolo o grande contributo di sangue alla patria. Alcuni esempi di monumenti ai caduti, sparsi per l’Italia. Amantea, come anche i paesi del suo hinterland, sentì il dovere di erigere negli anni ’20 un Monumento ai Caduti, al centro di una piccola area, il Parco della Rimembranza, circondata da pini marittimi, ed a ridosso di una stradina che dalla città bassa (‘A Taverna), attraverso il popolare quartiere della Calavecchia, conduceva alla città antica ( ‘A Chiazza), tragitto percorso a piedi, non essendo ancora diffusa l’automobile. L’architetto che progettò il monumento probabilmente trasse ispirazione, nella fattezze delle colonne, dei capitelli corinzi e della trabeazione da quelli del Vittoriano (confronta con la 1^ foto di sotto). Inoltre per finanziare l’opera si utilizzò una fonte allora molto in voga, cioè la vendita di etichette chiudilettera (tecnicamente etichette erinnofile vedi 2^ foto sotto) che avevano sostituito per praticità la ceralacca nella sigillatura delle corrispondenze e che col tempo erano diventate rettangolari per praticità di fabbricazione e somiglianti ai francobolli. Agli inizi del Novecento si fece un grande uso di etichette in occasione di esposizioni, fiere, commemorazioni civili e patriottiche ed in occasione di manifestazioni sportive; erano molto richieste perchè si prestavano alla personalizzazione e alla decorazione delle buste e delle cartoline in un periodo in cui la posta era il principale mezzo di comunicazione. Furono emesse e vendute massicciamente anche dalla Croce Rossa e da enti ed associazioni assistenziali a scopo benefico durante il primo conflitto mondiale. Essendo vendute per beneficenza, vennero stampate inserendo nelle diciture valori monetari creando un pò di confusione sul loro uso postale. Etichetta chiudilettera (erinnofila) da 10 centesimi utilizzata per la raccolta di fondi per la costruzione del Monumento ai caduti di Amantea (Archivio Antonio Furgiuele. Nella documentazione fotografica Monumento Caduti. Le tre versioni della struttura nel tempo presentata da Antonio Cima il 12 aprile u.s. su webiamo http://www.webiamo.it/webiamo-story/28-anno-2012/807-amantea-cs-la-storia-del-monumento-aicaduti.html si colgono le fasi evolutive di un luogo che, a causa del ciclone abbattutosi sulla città dal 23 al 25 gennaio 1981, ha visto il crollo della coppia di colonne, con relativa trabeazione, del monumento e lo sradicamento dei magnifici pini marittimi che si vedono nella prima foto di Cima, sicuramente scattata a cavallo dei decenni 60/70, come si può evincere dall’abbigliamento in uso in quegli anni e dalla presenza di un’associazione scoutistica. Sarebbe stato giusto il ripristino esatto dei luoghi, con l’impianto di nuovi pini, ciascuno in memoria di un soldato caduto, come apprendiamo con piacere dalla Sig.ra Silvana Sicoli, ma la superficialità delle amministrazioni del tempo ha visto snaturare la sacralità del luogo, con interventi maldestri, dei quali soprattutto il primo è l’esempio più eclatante dell’imbarbarimento che ha attraversato ed attraversa il nostro paese. A prescindere dalla giustificata rabbia del Dott. Mario De Munno che da sempre lamenta la distrazione usata nell’attribuzione dell’onomastica stradale, favorendo l’uso di nomi di città o di toponimi di montagne, vulcani e corsi d’acqua, a danno di eroi di guerra, come suo zio il Tenente Giuseppe Carratelli, medaglia d’argento al valor militare, morto in guerra a Boscomalo (Hudi Log) nel 1917, la polemica sterile innescata dalla documentazione di Cima, non mette a fuoco il vero dato che si può cogliere dalla evoluzione delle foto nel tempo: la celebrazione del IV novembre in occasione della Festa dell’Unità Nazionale, col passare del tempo si è trasformata da una commossa ricorrenza, con una vasta partecipazione di tutte le componenti della società civile e relativi rappresentanti, in un ridicolo incontro di sparuti gruppetti di associazioni d’arma. Il monumento ai caduti di Belmonte Calabro I monumenti ai caduti di San Pietro in A. e Longobardi La lapide-ricordo del sacrificio di alcuni eroi di Terrati, frazione di Lago Per quanto riguarda la Festa dell’Unità Nazionale del IV novembre, che rappresentava l’unica occasione d’incontro di ogni comunità presso il proprio monumento ai caduti, essa getta le sue radici in tempi lontani, da molti forse dimenticati: il 4 novembre 1918 quando, con la firma dell'armistizio a Villa Giusti, veniva sancita la sconfitta delle truppe austriache a seguito dell'affermazione italiana sul Piave e nella battaglia campale di Vittorio Veneto. L'Italia era così pronta a sedersi al tavolo dei vincitori. Il Giorno della Memoria, ufficializzato nell'ottobre 1922 dall'ultimo governo liberale, doveva contribuire tanto a celebrare la vittoria dell'Italia quanto a ricordare il sacrificio di chi perse la vita durante il sanguinoso conflitto ed è l'unica festività presente nei calendari civili dei sistemi politici – liberale, fascista, repubblicano - che si sono susseguiti nell'Italia del ventesimo secolo. Con la caduta del regime fascista nel '43, che aveva puntato sulla celebrazione della data della Marcia su Roma del 28 ottobre, l'anniversario della vittoria assunse i caratteri di una festa nazionale destinata a celebrare l'unità del popolo nel sacrificio, ricollegando tale occasione con la memoria delle lotte risorgimentali. La fine del secondo conflitto portò inevitabilmente ad un allentamento del ricordo della Grande Guerra. Cambiata denominazione, da “Festa della Vittoria” a “Giorno dell'Unità nazionale”, il 4 novembre divenne l'occasione in cui le Forze Armate dichiaravano la loro fedeltà alla Repubblica. La ridefinizione del calendario delle feste civili portò ad un declassamento, a partire dal '77, del 4 novembre che perse lo status di giorno festivo. Negli anni Ottanta e Novanta, sebbene l'evento avesse perso smalto con il venir meno della memoria della Grande guerra, si compì un tentativo, in particolar modo per volontà di Pertini e Spadolini, di farne nuovamente e soprattutto una festa dell'unità nazionale, giornata destinata a cementare un'identità collettiva in cui ricomprendere anche le Forze armate e lo stesso ricordo della Seconda guerra mondiale. In effetti, depurata da ogni eccesso retorico, la data del IV novembre, in occasione delle celebrazioni del 150° appena ultimate, dovrebbe contribuire alla memoria della Grande Guerra quale compimento di quell' unità nazionale invocata dai padri del Risorgimento. Furono infatti le trincee a far incontrare per la prima volta siciliani e veneti, liguri e pugliesi, tragicamente consapevoli di appartenere finalmente ad una stessa comunità. Se, come ripetono pamphlet e organi di informazione, l'Italia è attraversata da una profonda crisi d'identità, la sua ridefinizione non può che passare dalla conoscenza e dalla tutela del nostro passato. Ad Amantea, come in tutta Italia, fino alla metà degli anni ’70 sentita era la ricorrenza del IV novembre, rispettata all’interno del Parco delle Rimembranze ed ai piedi del Monumento ai Caduti, considerato il Pantheon del Milite Ignoto della città. Lì in quella data veniva spesso celebrata una messa di suffragio per le anime dei caduti con la presenza di folto pubblico ed associazioni combattentistiche e d’arma. Durante la 1^ ed ancor più durante la 2^ repubblica, con la graduale caduta dei valori risorgimentali e nazionali, il Monumento con l’annesso Parco delle Rimembranze, cementificato con opere in evidente contrasto con la sacralità del luogo e successivamente trasformato in giardino pubblico, ha definitivamente perduto il significato di luogo della memoria per la nostra comunità. In effetti, la festa nazionale del IV novembre, anniversario della vittoria del 1918, ricorrenza fortemente condivisa dalla società italiana, veniva osteggiata da parte della sinistra perché ritenuta, a torto, una festa nazionalista più che nazionale. Questa parte della sinistra, vissuta per decenni all’ombra dell’antifascismo e che si riconosceva nei valori sopranazionali dell’internazionalismo socialista ha creato danni irreparabili alla coscienza nazionale. dai quali ha tratto vantaggio la Lega Nord, per instillare disvalori anti-unitari, in aree del paese dalle quali provenivano gran parte degli eroi delle imprese garibaldine e mazziniane. Il fascismo invero aveva trasformato il patriottismo di origine ottocentesca in un nazionalismo imperialista che si era poi concluso nella triste guerra civile-guerra di liberazione che per due anni aveva nuovamente diviso in due il paese. Si è cercato, con risultati a dir il vero deludenti, con l’avvento della repubblica di sostituire le date del 4 novembre e del 24 maggio, con quelle del 2 giugno (festa della repubblica) e del 25 aprile (festa della liberazione), date sulle quali non esiste una vera condivisione di valori. Perché purtroppo il nostro paese è ancora profondamente diviso da antiche ruggini ideologiche che non favoriscono una vera unificazione all’interno di moderni valori patriottici. Bisogna riscoprire il senso dell’unità della nazione nella “volontà di vivere insieme”, cosa non facile, perché la classe politica ha perso nel corso degli ultimi venti anni gli essenziali punti di riferimento nazionali. A sinistra sopravvive dopo il 1992 una classe politica che non si è posta il problema di governare il cambiamento ma si è lasciata galleggiare nella transizione, e a destra sono cresciuti la Lega come forza antiunitaria, che non vuole le celebrazioni dell’Unità d’Italia perché non vuole l’Italia unita, e il berlusconismo come anomala concentrazione di potere nelle mani di un uomo solo, in un’Italia assuefatta alla corruzione, al declino morale, all’accettazione passiva dell’illegalità. Nell’appena trascorso 150° anniversario dell’Unità nazionale bisogna pensare ad una nuova fase di rinascita del paese, coscienti che, solo dalla storia dell’Italia unita si può ripartire per costruire un futuro migliore per tutti gli italiani. L’eredità della storia che portò allo stato unitario e i valori fondanti del Risorgimento, indipendenza, libertà e laicità, sono i punti di forza ai quali gli italiani dovrebbero aggrapparsi per pensare di uscire dalle difficoltà con qualche possibilità di successo. Dobbiamo farlo oggi con coraggio e sarebbe giusto che i socialisti (quei pochi ancora rimasti!) diano il proprio contributo. Perché quella storia ha avuto buona parte della cultura socialista come protagonista. Craxi lo capì per primo quando restituì all’autonomia socialista non solo il terreno della pratica parlamentare, ma anche quello storico e ideologico legato ai nostri valori nazionali. Craxi andando a ritroso nella storia, dando per scontato quanto ci appartenessero già i valori della Repubblica, della Resistenza e dell’antifascismo, (incarnati nelle figure di Pertini, Nenni e Matteotti) ci obbligò a riscoprire il Risorgimento, dalle Cinque giornate di Milano a Garibaldi e all’Unità d’Italia. Rinverdì il Risorgimento nell’Italia repubblicana quando quei ricordi sembravano lontani e superati. Lo fece per diverse ragioni, per riproporre in un momento altrettanto difficile della vita italiana una prospettiva di speranza nazionale nella riscoperta dei valori di unità del paese, della lotta per l’indipendenza e della lotta per la giustizia sociale. Lo fece sapendo che i socialisti avevano le carte in regola per farlo, diversamente dal Pci, da tutta la sinistra comunista, e dalla DC. Il PCI, nonostante la svolta togliattiana, rimaneva un partito antinazionale. La parola patria e nazione non avevano a sinistra alcuna cittadinanza, e l’avevano poco anche per quei socialisti che erano ancora condizionati da antichi legami unitari a sinistra o dall’esperienza frontista del ’48. Né la DC poteva sentirsi legata al Risorgimento perché fondato sui valori della libertà e della cultura liberale, nei quali faceva fatica a riconoscersi. Craxi e i socialisti potevano essere diversi, potevano riscoprirsi patrioti e Craxi sapendolo, ripropose nel dibattito politico italiano i valori risorgimentali della libertà e della Patria. Fece riscoprire al popolo socialista l’orgoglio della nazione e il socialismo tricolore. Ancorò il PSI di allora alla cultura del Risorgimento. Legò il PSI a due tradizionali radici risorgimentali: il senso dello Stato senza essere statalisti, la laicità senza essere anticlericali. L’esatto contrario di come si esprime oggi la politica italiana: statalisti senza senso dello stato, laicisti anticlericali, avendo perso il significato pratico e quotidiano della antica battaglia per uno Stato laico e indipendente. Le incertezze sono tali, che viviamo in un’Italia in cui la fragilità si manifesta persino nelle contrapposizione delle date da celebrare. Abbiamo festività nazionali che ricordano alcuni momenti importanti della storia italiana dopo il 1945, ma non ce n’é una anteriore a quella data. Strano Paese, al confronto con la Francia per esempio, che rinuncerebbe a tutto fuorché alla festa del 14 luglio (commemorazione della Rivoluzione e dell’assalto alla Bastiglia, del 14 luglio 1789). La festa del 29 maggio, rivendicata dalla Lega, come festa della Lombardia nel ricordo della sconfitta del Barbarossa nel 1176 in contrapposizione con la festa dell’Unità di Italia è un grave errore storico: il 29 maggio 1176, in quanto momento eroico della storia dei comuni, è parte della storia d’Italia piuttosto che di una sola regione. Nel filo rosso che unisce Risorgimento, Resistenza e Repubblica bisogna avere tre date storiche riconosciute e da celebrare. Il 4 novembre, data in cui si compì definitivamente l’unità nazionale, 25 aprile, data in cui fu ripristinata l’unità nazionale dopo la triste e terribile parentesi della divisione operata dal nazifascismo ed il 2 giugno, completamento del sogno mazziniano dell’avvento della repubblica. Al contrario, per quanti sforzi abbiano fatto gli ambienti ed i sindacati di sinistra, non si è riusciti a far diventare la festa della Liberazione del 25 aprile, una festa partecipativa, ma soprattutto appartenente all’intera collettività. Frequenti episodi di intolleranza, alcuni dei quali eclatanti: dalla contestazione del partigiano Mario Bottazzi, l’84-enne presidente dell’ANPI del II municipio di Roma, da parte di uno studente neofascista del Liceo Avogadro di Roma, a quella della governatrice del Lazio Renata Polverini e del presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti, questa volta da parte del pubblico di sinistra che era presente alla manifestazione della ricorrenza del 25 aprile 2010 a Porta San Paolo, dimostrano che la festa di liberazione non è ancora considerata patrimonio dell’intera collettività, benché siano trascorsi 67 anni da quegli eventi. Vani risultano gli inviti del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano alla concordia, soprattutto in considerazione del difficile momento economico che il paese attraversa: infatti nei giorni scorsi l’Anpi (Assoc. Naz. Partigiani d’Italia) aveva fatto sapere di non aver voluto invitare il sindaco di Roma e la governatrice Polverini alla manifestazione della celebrazione del 25 aprile, in quanto non avrebbero avuto interesse a essere presenti. Immediata era scoppiata la polemica, con la Polverini che si appellava proprio a Napoletano che, proprio per lanciare un segnale di unità, ha invitato alla cerimonia di ieri sul Colle tutti i protagonisti della vicenda dei mancati inviti: il presidente dell’Anpi Vito Francesco Polcaro, il sindaco Gianni Alemanno, il presidente della Provincia Nicola Zingaretti e la governatrice Polverini. Queste le notizie di condannabili avvenimenti in alcune celebrazioni del 25 aprile in Italia. Ad Ascoli Piceno, Salerno e a Sanremo contestati i rappresentanti politico istituzionali in quota al Pdl. A Cagliari scontri tra centri sociali e militanti dell’ultra destra. L’episodio più grave a Milano con la contestazione a Guido Podestà, presidente della Provincia, duramente contestato. Nel bergamasco un monumento dedicato a 13 martiri partigiani è stato imbrattato. All’episodio si è aggiunto il rogo di una targa dedicata ad un altro partigiano bergamasco. A Roma, Milano e in altre città sono comparse scritte e manifesti antisemiti e pro fascismo. Manifestazioni di Forza Nuova contro Napolitano a Pesaro. Nella capitale si registra l’assenza di Alemanno e Polverini al corteo indetto dall’Anpi per timore di facinorosi. E’ difficile quindi pensare che, alla luce di tali esecrabili comportamenti, diventeranno condivise le nobili parole del Presidente, pronunciate a proposito del 25 aprile, durante l’incontro al Quirinale con le Associazioni Combattentistiche e d’Arma, nell’anniversario della Liberazione: "Una ricorrenza fondamentale nella storia dell'Italia unita, di quelle che più ne hanno segnato il cammino sulla via dell'indipendenza, della dignità, della libertà, della coesione nazionale". Amantea 26 aprile 2012 Dante Perri