L`universalismo biforcuto: a oltre mezzo secolo da Razza e storia

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Francesco Spagna
Claude Lévi-Strauss
Francesco Spagna
1
Claude Lévi-Strauss: Tavola rotonda 9 giugno 20101 - Padova
Francesco Spagna
L’universalismo biforcuto: a oltre mezzo secolo
dai temi di “Razza e storia” di Lévi-Strauss
“Estremamente difficile all’etnologo
formulare una giusta valutazione di
un fenomeno come l’universalizzarsi
della civiltà occidentale”1.
Lévi-Strauss scriveva Razza e storia
all’inizio degli anni ’50 in un periodo, per la cultura occidentale, di
forte crisi dei valori, dopo i terribili
eventi della seconda guerra mondiale, in un decennio che si rivelerà
cruciale per la fine del colonialismo
storicamente inteso.
La difficoltà alla quale si riferiva
Lévi-Strauss dipendeva sicuramente
dalla forte ambivalenza che aveva
caratterizzato la relazione tra la
civiltà occidentale e gli altri popoli
del pianeta. La consapevolezza,
espressa con forza e chiarezza in
Tristi Tropici, che l’ordine e l’armonia dell’Occidente avevano comportato “l’eliminazione di una massa
enorme di sottoprodotti malefici”2.
Sottoprodotti che sono stati gettati
addosso agli altri e che hanno
caratterizzato la pesante eredità del
colonialismo. Dalla prospettiva degli
altri, la modernizzazione dell’Occidente, nei suoi aspetti scientificotecnologici, morali o politici, è
arrivata insieme alle più gravi
efferatezze e crimini contro l’umanità compiuti durante il dominio
coloniale. I “diritti umani” sono
arrivati insieme al genocidio su larga
scala, e questo paradossale blend ha
segnato in modo indelebile l’immagi-
ne dell’Occidente.
A mezzo secolo di distanza, la
cosiddetta “civiltà occidentale”
nell’era della globalizzazione cerca
ancora di orientare i destini del
pianeta, riproponendo i valori della
modernità e una ormai traballante
supremazia scientifica e tecnologica.
L’universalismo e i suoi benefici
continuano a rappresentare il nostro
“invito” all’Altro – anche se la fatale
ambivalenza permane e l’Altro (che
sia musulmano, immigrato clandestino o Indiano d’America) continua
a essere rappresentato in termini di
minaccia o di resistenza, o a persistere come elemento di difficile
tematizzazione.
Anche laddove la modernità tenta di
resistere alla corrosione del
postmodernismo, essa subisce
comunque quella azione termodinamica di accelerazione e “surriscaldamento” dei suoi processi che
ha portato l’antropologo Marc Augé
a parlare di “surmodernità”3.
I “valori professati” sono sempre
quelli che Lévi-Strauss aveva individuato in Razza e storia : la quantità
di energia disponibile pro-capite e
l’allungamento della vita umana4. I
recenti progressi nel campo delle
biotecnologie della medicina e della
farmacologia continuano a propagare su scala planetaria questi valori e
la necessità della loro universale
accettazione.
2
Tuttavia, sono ormai diversi decenni
che l’antropologia medica5 mostra
un quadro piuttosto contrastante
rispetto all’immagine della presunta
diffusione dei saperi e delle pratiche
della cosiddetta “medicina occidentale” sul pianeta. Nessuno mi
auguro voglia negare i suoi meriti e i
risultati da essa raggiunti: la consapevolezza, ad esempio, dei milioni di
vite umane salvate dall’invenzione
della penicillina e dall’uso degli
antibiotici. Va considerato però che
se è vero che in alcune regioni del
mondo, specialmente Africa e Sud
America, la medicina occidentale
non arriva anche se sarebbe richiesta – per carenza di strutture e di
personale – è altresì vero che in altre
vaste e densamente popolate aree del
pianeta, come India e Cina, la
“nostra” medicina non arriva perché
non richiesta: laddove sono attivi (ed
evidentemente efficaci) sistemi di
cura autoctoni. A questo quadro va
aggiunto il fatto che un numero
sempre più alto di persone, nel
nostro mondo, decidono di orientarsi
verso le cosiddette medicine “alternative”. Dall’altra parte, in Africa
come in Siberia, in Nord e Sud
America, i guaritori tradizionali6 si
sono adoperati, negli ultimi decenni,
per organizzare e legittimare le loro
pratiche e i loro saperi, aumentando
la loro visibilità.
I processi di globalizzazione e i nuovi
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consistenti flussi di immigrazione in
Europa hanno portato le strutture
socio-sanitarie a confrontarsi sempre
maggiormente con pazienti di
origine straniera e a dover valutare
quella che in antropologia medica ed
etnopsichiatria viene definita come
“dimensione culturale del disturbo”,
oltre alla necessità di porre i percorsi
di ospedalizzazione e di cura su un
terreno di mediazione culturale7.
Tutto questo delinea uno scenario
che mette in seria difficoltà le
retoriche sull’egemonia della biomedicina occidentale e sulla sua
effettiva diffusione e applicazione su
scala planetaria.
Le infuocate critiche lanciate da
Ivan Illich negli anni settanta sono
quanto mai attuali1. Le strutture
sanitarie intese come “aziende” nel
sistema di mercato neo-liberista, la
corsa sempre più spregiudicata al
profitto, la pressione delle multinazionali farmaceutiche a confezionare
sempre nuove “sindromi” da inserire
nel Manuale Diagnostico e Statistico
(DSM), stanno ingenerando una crisi
della fiducia che rischia di farsi
sempre più profonda.
La vita, nel mondo occidentale
industrializzato e super-tecnologico,
appare sempre più “bilanciata” nel
rapporto stress / consumismo.
Laddove lo stress accorcia la vita,
favorendo lo sviluppo di patologie
difficilmente curabili - con il consumismo, come ha scritto il filosofo
Aldo Giorgio Gargani, “si consuma e
dissipa la stessa vita umana”2.
La “medicina occidentale” – ovvero
il lato forte dell’universalismo e della
propagazione dei suoi valori –
procede con due ancelle, la genetica
e la statistica.
Si potrebbe dire, parafrasando
Nietzche, che il modello biomedico
tende ad appoggiarsi da un lato alla
dis-umanità della statistica e dall’altro alla troppo-umanità della genetica. Tanto quanto la statistica è
“fredda” e disincarnata, la genetica
scende nel profondo dei corpi a
cercare i suoi codici. Ambedue
sviluppano una retorica della
prevedibilità e del controllo. Da due
direzioni diverse, ambedue trascendono i destini e i vissuti concreti
Claude Lévi-Strauss
delle persone. Da un lato i diagrammi, le tavole e i modelli, dall’altro il
genotipo concepito come “disegno
formale” dell’organismo. Riprendendo la metafora di Lévi-Strauss, la
purezza architettonica di questi
sistemi modellizzanti esige l’espulsione di un sottoprodotto.
Sottoprodotto che si manifesta come
frattura, o slittamento, tra la concezione di “organismo” e quella di
“persona”; o tra quella di “persona”
e quella di “caso statistico”.
Questa frattura urta sia qualsiasi
concezione metafisica tradizionale
dell’Uomo e sia alcune delle più
avanzate riflessioni dell’antropologia
e dell’epistemologia. Le nozioni di
“mero” organismo e di “mero” fatto
statistico appaiono frutto di una
duplice costruzione culturale. Come
ha sostenuto Tim Ingold, ognuno di
noi è sempre, indissolubilmente
organismo e persona e non c’è nulla
di “mero” (parziale o residuale)
nell’essere un organismo3.
L’essere “puro e semplice” – e anche
“chiaro” – del significato del termine
“mero” rende ragione del suo uso
epistemologico: “la nozione di mero
fatto” scriveva A. N. Whitehead, “è il
trionfo dell’intelletto astrattivo”4.
“Con le pietre dei fatti” fa dire
Agatha Christie al suo personaggio,
l’investigatore Poirot, “si costruiscono le strade delle nostre ipotesi”. Ma
sono strade occidentali: possiamo
invitare gli altri a percorrerle con
noi, ma non necessariamente pensare che esse siano universalizzabili,
così come non lo sono i baffi
impomatati di Poirot.
Non sono universali e neppure
facilmente “negoziabili” in una
prospettiva interculturale, e lo scopo
di questo mio contributo è di mostrare che la difficoltà di cui parlava
Lévi-Strauss permane, nell’ambito
delle relazioni tra la cultura occidentale e le altre culture, e che sarebbe
ipocrita pensare di risolverla nel
nostro universalismo.
Il razionalismo, il calcolo costi/
benefici, il concetto di “utile” e il
rapporto tra “sapere” e “potere”
sono tratti culturali, che nel particolare percorso di secolarizzazione del
mondo occidentale5 hanno acquisito
3
un carattere al tempo stesso implicito e preponderante. La verità è che
essi rivestono un ruolo parziale
anche in seno stesso a quella cultura
che li vorrebbe totalizzanti. L’uomo
occidentale è razionale “a fasce
orarie” e il dosaggio quotidiano tra
razionalità e irrazionalità è un
problema analogo nell’isola di
Manhattan come nel fitto delle
foreste del Congo.
Tuttavia, l’attribuzione di valore che
può essere data al calcolo sui costi/
benefici dipende essenzialmente
dalla visione del mondo che ne è
sottesa. Nello scenario desertificato
del mondo materialista, il calcolo
costi/benefici è la risorsa finale, e chi
la possiede risulta vincente. L’utile è
un concetto estremo, che galleggia
sopra tutte le varie e possibili forme
di dissipazione. Restringe le relazioni sociali e tende a sviluppare
differenziali di potere. L’utile per
l’umanità si rovescia spesso nell’utile per pochi e dunque nell’utile per
me, qui ed ora. Tra “umanità” e
“individuo” si determina una sorta
di oscillazione polare e un vuoto. Il
vuoto è la comunità: “l’utile per la
comunità” si rivela
come una variabile culturale molto
significativa, che può cambiare
radicalmente la visione del mondo.
L’utile per la comunità passa attraverso il dono, le feste, la solidarietà,
la famiglia, le relazioni… in tutta la
loro essenza dissipativa e – razionalmente parlando – “inutile”1. La
visione comunitaria allude però a un
mondo ad ampio respiro, per il quale
gli interessi individuali possono
anche venire sacrificati.
Nel mondo “occidentale” – che oltre
il suo tramonto si pensa ancora
come unico mondo e, come la strega
cattiva di Biancaneve, lo chiede al
suo specchio – il senso comune pensa
alla vita umana come un segmento.
Nascita e morte sono concepiti come
due estremi alla soglia di un nulla
che da secoli tormenta la nostra
filosofia. Possiamo pensare che
questa concezione sia l’inevitabile
punto di arrivo di un pensiero laico,
moderno e disincantato, ma sarebbe
ingiusto generalizzare la nostra
Claude Lévi-Strauss: Tavola rotonda 9 giugno 20101 - Padova
inquietudine. Sarebbe ingiusto
riversare il nostro “nulla” nei
territori delle ex colonie e seppellirlo
nelle loro discariche.
La concezione della vita umana
come un segmento appeso nel nulla indipendentemente dal margine di
dubbio o di consolazione lasciato alla
sfera religiosa, o al grado di compensazione ed esaltazione esercitato
dalla tecnologia – rischia di apparire
agli altri semplicemente come un
pensiero mutilato.
Il distacco dalla tradizione metafisica compiuto dal pensiero occidentale
all’alba dell’età moderna, rischia di
essere percepito, agli occhi degli
altri, come una perdita. “Qualcosa di
meno”, che nello scambio interculturale diventa poco negoziabile. Un materialismo che suscita
diffidenza.
La concezione della vita come un
segmento (o una parabola) appesa
nel nulla implica che tutti i valori
siano concentrati, ritirati, nell’intervallo significativo (o nell’apice della
parabola). La ricerca sul genoma
umano, vista da quest’ottica, fa
pensare a una sorta di spedizione
nello spazio (nel nulla), all’esterno
della vita fenotipica, per carpire
elementi, codici, segreti e stratagemmi per migliorare o allungare la vita
nella sua parabola esistenziale. La
genetica non si incarica di portare
particolari elementi e valori a
sostegno della discendenza e della
continuità delle generazioni. Il suo
compito è, ovviamente, puramente
scientifico. Tuttavia, fa riflettere il
fatto che essa viene alla ribalta in un
clima culturale suicidarlo e catastrofista, dove è costantemente rappresentata nell’immaginario la fine del
genere umano o del mondo, e dove
qualcuno predica la necessità di
smettere di fare figli.
La mappatura genetica si inscrive in
una retorica del controllo in un
mondo fuori controllo.
In questa nuova versione dell’universalismo, il genoma umano
arriva “a pacchetto” con il sentimento incombente della fine delle
generazioni: l’ultimo paradosso
colonialista?
Non ci deve sorprendere – ma
neppure deve essere sottovalutato –
come questo pensiero possa apparire, agli occhi degli altri, come un
pensiero mutilato, che ha perso la
connessione con una visione d’insieme e che non ha direzione.
Il punto di vista degli altri è una
generalizzazione antropologica da
comprendere e valutare nel suo
intento retorico. Prendiamo l’esempio dei popoli amerindiani, che molte
volte nella nostra storia – da
Montaigne e Rousseau a LéviStrauss - hanno fornito un pretesto
antropologico per la nostra retorica.
Parlare di visione del mondo o di
cosmologia degli Indiani del Nord
America è possibile, a un certo livello
di discorso, senza però dimenticare o
mistificare le molteplici differenze
interne a queste visioni e cosmologie; senza pretendere di ridurre
l’incredibile caleidoscopio di queste
culture, in tutte le loro diverse
espressioni.
Come hanno sostenuto Bonnie ed
Eduardo Duran, psicoterapeuta
Apache/Tewa, “Nella visione del
mondo dei Nativi Americani,
un’ideologia compartimentalizzante
viene vissuta come imposizione,
come tentativo di soffocare forme di
esperienza più interconnesse. La
maggior parte dei Nativi Americani
fa esperienza del proprio essere al
mondo con la propria intera personalità e non attraverso sistemi
separati all’interno della persona
(…). La visione del mondo nativa
americana è quella in cui l’individuo
è parte di tutta la creazione, vivendo
la vita come un insieme integrato e
non attraverso unità separate,
obiettivamente in relazione le une
con le altre”.2
Nella concezione olistica degli
Indiani d’America, in particolare
negli insegnamenti tradizionali della
Ruota di Medicina, o in cerimonie
sciamaniche comunitarie quali la
Midewiwin, che ho potuto conoscere
da vicino1, la nascita e la morte sono
rappresentati come due passaggi
significativi, che aprono a due
dimensioni, quella degli “antenati” e
quella di “coloro che devono ancora
nascere”. L’essere umano è collocato
e orientato in quest’orizzonte: i
4
morti e gli spiriti dei nascituri sono
una realtà spirituale con la quale i
viventi intrattengono un costante
scambio, regolato dalle offerte
simboliche o dalle preghiere. Il posto
dell’uomo nel mondo è centrato in
un eterno presente, in una dimensione ciclica e autoriproducente. Le
preghiere, le offerte, il cerimoniale
sono la rappresentazione simbolica
di questa metafisica. Una metafisica
tradizionale, derivante da un insegnamento tenuto in vita e gelosamente custodito, che si ritrova un
po’ ovunque nelle culture dei popoli
nativi americani.
Evidente, in questo come in molti
altri esempi nell’universo spirituale
dei popoli cosiddetti primitivi, che
siamo di fronte all’espressione di un
pensiero impegnato a preservare la
sua complessità culturale e il suo
potere di simbolizzazione di fronte
alle sfide del mondo tecnologico e
della società dominante. Una metafisica che non può che esercitare una
resistenza e manifestarsi come
resistenza.
Da questa prospettiva, la storia
stessa è percepita come una dimensione inautentica, accidentale e
secondaria. La Tradizione va invece
intesa come un sistema cognitivo,
passato da generazione in generazione da una visione originaria o
molteplici visioni incrociate. Una
dimensione vivente, metastorica, che
non può essere ridotta nelle categorie di “modernità” e tradizione” per
come sono state prodotte dal pensiero occidentale 2.
I tentativi di “individuazione”
dell’Indiano d’America come cittadino americano, tutelato nei suoi
diritti e nella salute “dalla culla alla
bara” – ma resecato dal suo orizzonte simbolico, collettivo e archetipico
– sono stati percepiti dai diretti
interessati come mortiferi e - aspetto
non secondario - sono stati spesso di
fatto mortiferi. Da una prospettiva
tradizionale, è solo la morte che
“individua” le persone, separandole
dalla collettività. Inoltre, i nuovi
cittadini nativi americani erano sì
individui tutelati, ma che molto
spesso finivano per essere socialmente esclusi, marginalizzati, candidati
Francesco Spagna
all’auto-estinzione o direttamente
ammazzati. La spirale di deculturazione, marginalizzazione e violenza a
cui sono stati sottoposti, fino oltre la
metà del Novecento, i bambini nativi
americani nelle famigerate “scuole
residenziali” in Canada e Stati
Uniti3 va compresa nella logica più
ampia - implicita o esplicita, consapevole o inconsapevole – dell’etnogenocidio. Anche considerando
quanto fosse lontana quella realtà
scolastica dai modelli pedagogici che
proprio in quel periodo venivano
elaborati nel mondo occidentale e
universalmente propagandati.
I nativi americani hanno dunque già
sperimentato il lato oscuro e “biforcuto” del nostro universalismo. Essi
stanno cercando, come molti altri
popoli indigeni del pianeta, di
sollevarsi dalla povertà e disgregazione delle loro comunità, e disegnarsi un proprio spazio nel futuro.
Da parte loro è emersa, negli ultimi
decenni, una richiesta chiara, in una
direzione completamente opposta
rispetto ai valori correnti della
società dominante e della secolarizzazione. Il Repatriatrion Act4 ha
riconosciuto alle comunità native
americane il diritto di ottenere la
restituzione dei resti dei propri
antenati, laddove si trovassero
conservati nei musei antropologici.
La richiesta, in senso più ampio, di
poter ricollocare i propri defunti in
un orizzonte simbolico, in un luogo
cerimoniale dove sia nuovamente
possibile riattualizzare uno scambio.
Questo bisogno di simbolizzazione
va visto come espressione vitale di
una cultura che resiste e non si
sente votata alla scomparsa. Semplicemente un altro “schema di civiltà”, ma profondamente diverso dal
nostro e per molti aspetti non
negoziabile.
In un mondo universalizzato, a
senso unico, le ossa dei loro antenati
sarebbero costrette a rimanere in
quelle polverose scatole verdi che ho
visto all’Anthropological Branch del
Museum of Natural History di
Washington, in quei tristi corridoi
che, oltre alla solerzia scientifica,
forse rispecchiano anche la nostra
inquietudine…
Claude Lévi-Strauss
In conclusione, il progresso e lo
sviluppo dell’Occidente, per quello
che oggi ancora può significare,
continuano a mettersi al servizio del
benessere e del prolungamento della
vita individuale, ma strettamente
rinserrati in una cornice valoriale
sempre più asfittica e sempre più
segnata da paradossi e controversie.
La partita, tutta da giocare, è da una
parte tra una visione del mondo
postmoderna, plurale e fuori controllo
– dove il negoziato sui valori è
difficilmente mediabile e il nostro
universalismo tende a naufragare.
Dall’altra parte, una visione del mondo
nel quale il processo di secolarizzazione
avanza graduale ma inesorabile,
portando a compimento il nostro
progetto universalista.
Note
LÉVI-STRAUSS C., Razza e storia e altri studi di
antropologia, Torino, Einaudi, 1967, p. 124
[Race et histoire, Paris, Unesco, 1952 ].
2
LÉVI-STRAUSS C., Tristi tropici, Milano Il
Saggiatore, 1982, p. 36 [Tristes Tropiques,
Paris, Plon, 1955].
3
AUGÉ Marc, Nonluoghi. Introduzione a una
antropologia della surmodernità, Milano,
Eleuthera, 1993 [Non-lieux, Paris, Seuil, 1992];
L Y O TA R D Jean-François, La condizione
postmoderna ,Milano, Feltrinelli, 1981 [La
condition postmoderne, Paris, Les Edition de
Minuit, 1979].
4
LÉVI-STRAUSS C., 1967, p. 125.
5
QUARANTA Ivo (ed.), Antropologia medica. I
testi fondamentali, Milano, Raffaello Cortina,
2006; LANTERNARI Vittorio – CIMINELLI Maria
Luisa (eds.) Medicina, magia, religione, valori. Volume secondo. Dall’antropologia
all’etnopsichiatria, Napoli, Liguori, 1998.
6
Riconosciuti formalmente al convegno dell’Organizzazione Mondiale della Sanità tenutosi ad Alma Ata nel 1978.
7
NATHAN Tobie, Non siamo soli al mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 [Nous ne
sommes pas seuls au monde, Paris, Le Seuil,
2001]; GOOD Byron J., Narrare la malattia. Lo
sguardo antropologico sul rapporto medicopaziente, Torino, Edizioni di Comunità, 1999
[Medicine, Rationality and Experience: An
Anthropological Perspective, Cambridge,
Cambridge University Press, 1994].
8
ILLICH Ivan, Nemesi medica. L’espropriazione
della salute, Milano, Mondadori, 1977 [Limits
to Medicine – Medical Nemesis: the
Expropriation of Health, London, Marion
Boyars Pubbl., 1976].
9
GARGANI Aldo Giorgio, Stili di analisi. L’unità perduta del metodo filosofico, Milano,
Feltrinelli, 1993, p.26.
10
INGOLD Tim, Ecologia della cultura, Roma,
Meltemi, 2001, p. 64 [“Evolving skills”, in:
1
5
H.ROSE – S.ROSE (eds.) Alas Poor Darwin.
Arguments against Evolutionary Psychology,
London, Jonathan Cape, 2000. pp. 225-246].
11
WHITEHEAD Alfred North, Modes of Thought,
New York, McMillan, [1938] 1968, p. 9 (trad.
mia).
12
Sul concetto di secolarizzazione vedi: Talal
ASAD, Formations of the Secular: Christianity,
Islam, Modernity, Stanford University Press,
2003.
13
HYDE Lewis, Il dono. Immaginazione e vita
erotica della proprietà, Torino, Bollati
Boringhieri, 2005 [The Gift. Imagination and
Erotic Life of Property, New York, Vintage
Books, 1983]. Sui valori comunitari vedi anche
M ELIÀ Bartolomeu, Educação indigena e
alfabetização, São Paolo, Ed.Loyola, 1979.
14
“Within the Native American worldview,
compartmentalization ideology is an
imposition that attempts to displace a more
interconnected experience. Most Native
American people experience their being in the
world as a totality of personality and not as
separate systems within the person. […] the
Native American worldview is one in which the
individual is a part of all creation, living life as
one system and not in separate units that are
objectively relating with each other”. DURAN
Bonnie – DURAN Eduardo, “Applied Postcolonial
Clinical and Research Strategies”, in: BATTISTE
Marie (ed.), Reclaiming Indigenous Voice and
Vision, Vancouver –Toronto, University of
British Columbia Press, 2000, p. 91 (trad. mia).
Bonnie Duran è assistant professor alla
University of New Mexico School of Medicine.
15
SPAGNA Francesco, “La Midewiwin e gli
antropologi: campi magnetici”, in: G. LANOUE,
F. SPAGNA (eds.), La forza nelle parole. Percorsi
narrativi degli Indigeni canadesi da Jacques
Cartier a oggi, Rivista di Studi Canadesi, suppl.
al n. 13, 2000, pp. 45-64. SPAGNA Francesco,
“The Anthropologist and the Magic Shell”, Acta
Americana, in corsodi stampa.
SPAGNA Francesco, Sulle orme della tradizione. Gli Indiani d’America e noi, Padova,
Imprimitur, 2008. Cfr. SAHLINS Marshall, “Two
or three things I know about culture”, The
Journal of the Royal Anthropological Institute,
5, 3, 1999, pp.399-421.
17
MILLOY John S. (1999). A National Crime:
The Canadian Government and the Residential
School System 1879–1986. Winnipeg,
University of Manitoba Press, 1999. WARD
Churchill, Kill the Indian, Save the Man:
The Genocidal Impact of American Indian
Residential Schools, San Francisco, City
Lights Books, 2004.
18
FINE-DARE Kathleen S., Grave Injustice: The
American Indian Repatriation Movement and
NAGPRA, Lincoln, University of Nebraska
Press, 2002.
16
Claude Lévi-Strauss: Tavola rotonda 9 giugno 20101 - Padova
6
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