Lo sviluppo come passione
Pietro Veglio. Ticinese, oggi settantenne e attivo come presidente
della Federazione delle Organizzazioni non governative, è stato
una figura di spicco all’interno della Banca Mondiale e in seguito
dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(OCSE). Ha quindi maturato un’esperienza profonda delle
economie dei paesi in via di sviluppo oltre che una visione globale
e articolata dei problemi connessi alla crescita del pianeta
di Silvano De Pietro; fotografia ©Sabine Biedermann
“È
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un’esperienza interessantissima, che consiglio a
qualsiasi giovane”. Parla così del suo lavoro svolto in giro per il mondo Pietro Veglio, specialista
di politiche di aiuto allo sviluppo. Originario di Acquarossa e nato a Bellinzona, ha vissuto per 37 anni lontano
dal Ticino (per oltre due decenni all’estero), dapprima
quale funzionario della DSC (Direzione dello sviluppo e
della cooperazione presso il Dipartimento federale degli
affari esteri), occupandosi dell’America Latina, poi quale
consigliere del direttore esecutivo svizzero presso la Banca
mondiale (BM) e senior evaluation officer presso la stessa
istituzione. In seguito, è stato direttore della Divisione di
analisi delle politiche di aiuto allo sviluppo presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico
(OCSE) a Parigi, e infine direttore esecutivo per la Svizzera
del gruppo della BM, rappresentando anche Azerbaijan,
Kirghizistan, Polonia, Serbia e Montenegro, Tagikistan,
Turkmenistan e Uzbekistan.
Oggi, a settant’anni, Veglio è presidente della FOSIT, la Federazione delle ONG (le Organizzazioni non governative) della
Svizzera italiana, quasi a dimostrare che il suo non è stato
soltanto un prestigioso lavoro, ma una passione che ancora
non si è spenta. Tant’è vero che continua a trasmetterla,
quale visiting professor all’università della Svizzera italiana
e all’università di San Gallo. Il suo messaggio ai giovani e
agli studenti – “con i quali sono sempre in contatto”, tiene
a sottolineare Veglio – è che si tratta di “una prospettiva
allettantissima occuparsi di cooperazione e aiuto allo sviluppo,
il che non vuol dire necessariamente fare quello che ho fatto io;
ma se si vuol intraprendere qualcosa di simile lo si può fare a
livello di governi, di istituzioni internazionali, di ONG anche
combattive, e lo si può fare nel settore privato imprenditoriale,
che ha bisogno di gente che porti una visione un po’ diversa su
queste problematiche”.
Ma quale sia la sua visione cerchiamo di capirlo con questa
intervista. Veglio ha scelto di studiare economia “con l’aiuto
del professor Bruno Caizzi”, racconta, “che ho avuto la fortuna
di avere come insegnante al liceo economico e che ha stimolato
in me l’interesse per l’economia, in generale, e per l’economia
dei paesi del Sud, in particolare”.
Cosa l’ha poi indotta a entrare nella DSC?
Mio nonno, con i suoi sette figli, emigrò in Inghilterra nel 1914,
proprio all’inizio della prima guerra mondiale, per lavorare con
suo fratello in un piccolo ristorante nei sobborghi di Londra.
E forse il fatto di essermi confrontato con mio padre che parlava correntemente l’inglese e con le mie zie che lo parlavano
altrettanto bene, e anche l’aver sentito parlare parecchio di
altre realtà, mi ha condizionato o forse anche aiutato nelle mie
scelte successive.
Ma il suo passaggio dai programmi per l’America Latina
della DSC alla Banca mondiale come è avvenuto?
Ci sono state delle circostanze. Il 17 maggio 1992, un po’ a
sorpresa, il voto popolare sancì l’adesione della Svizzera al
Fondo monetario internazionale (FMI) e alla Banca mondiale.
Non solo la Svizzera aderì, ma a fine agosto ottenne anche un
posto al tavolo delle decisioni: una cosa inaspettata. In quel
momento fui avvicinato dal nuovo direttore svizzero della BM
designato dal Consiglio federale, che mi voleva come collaboratore personale. Per me non fu una scelta facile per ragioni di
famiglia (avevo ambedue i figli iscritti al liceo); ma dopo alcune
riflessioni con mia moglie decisi di accettare questa nuova sfida.
E sono molto contento di aver preso questa decisione, perché
ho scoperto un’istituzione che, nonostante la fama di cui gode,
forse anche per giudizi un po’ superficiali, vista dall’interno è
molto più aperta di quanto si pensi.
In che senso?
Ho vissuto dibattiti molto intensi su temi difficili come la privatizzazione e l’approccio alle riforme economiche nei paesi in
transizione (partendo dalla Russia). In quel momento il capo
parte l’FMI si accorgessero che l’imposizione di politiche economiche ai
paesi membri non funzionava in
parecchi casi. Molti paesi tendevano
ad accettare le ricette della BM e
dell’FMI per avere i finanziamenti,
ma poi, a livello di politiche economiche, decidevano per proprio
conto quello che c’era da fare. BM
e FMI hanno quindi condonato il
debito estero dei paesi più poveri,
permettendo loro di investire una
parte dei soldi, che utilizzavano per
rimborsare i creditori occidentali,
per fare altro.
Oggi, però, le ONG criticano le
politiche ambientali di BM e
FMI. In modo giustificato?
La critica era giustificatissima negli
anni ottanta. Ma è anche vero che
in quel momento la BM non aveva
ancora incorporato la dimensione
ambientale nel disegno delle proprie
politiche e nell’analisi dell’impatto
dei propri progetti. Ci sono stati
alcuni casi clamorosi che hanno spinto le ONG a intervenire in
questo campo. Ma dal 1992/’93 le
cose sono cambiate definitivamente
in meglio. Non bisogna però mai
dimenticare che la responsabilità
delle politiche ambientali incombe
ai paesi membri della BM, i cui governi in molti casi si oppongono, per
esempio, all’introduzione di strumenti che penalizzino le imprese
che emettono CO2 nell’atmosfera.
Pietro Veglio
economista della Banca mondiale era Joseph Stiglitz, premio Nobel nel 2001, che fu molto critico nei confronti degli interventi
del FMI e della BM. C’era una certa pressione dall’esterno, da
parte di ONG che facevano un lavoro di lobbying molto efficace.
per spingere la BM a entrare in campi sociali, con un approccio
diverso da quello tradizionale.
Diciamo che la BM è stata duramente criticata per le
sue politiche troppo orientate alla crescita economica
e poco alla riduzione della povertà.
C’è stato un periodo, gli anni otanta, in cui effettivamente la
BM e l’FMI hanno avuto un approccio troppo economicistico e
anche eccessivamente semplicistico verso i problemi dello sviluppo. La tendenza era quella di considerare, generalizzando,
che solo l’economia classica fosse valida e che si trattasse di
ridurre il ruolo dello stato, di contenere la spesa pubblica ecc. La
grande critica a questa tendenza ha fatto sì che la stessa BM e in
Dovendo puntare sulla crescita
dei paesi poveri, come si fa a
individuare l’equilibrio giusto
tra sviluppo dell’agricoltura,
che significa rischio di promuovere colture OGM, danni
alla biodiversità ecc., e sviluppo industriale, che comporta maggiore inquinamento?
Domanda da un milione. Purtroppo vari paesi hanno trascurato lo sviluppo dell’agricoltura, con il risultato che assistiamo
a un aumento dei prezzi dei prodotti agricoli che penalizza i
paesi poveri che devono importare gli alimenti. Questo è stato
un grosso errore; e le istituzioni internazionali, compresa la
BM, non hanno sempre svolto un buon lavoro per convincere i
paesi a dare priorità allo sviluppo agricolo. L’esempio positivo
che cito sempre è quello del Vietnam, che oggi è autosufficiente
nella produzione di riso, mentre non lo era venti o trent’anni
fa. Per quanto riguarda lo sviluppo industriale, se guardiamo
all’Africa (che, contrariamente a quello che raccontano i media,
non è tutta un disastro) bisogna differenziare tra paesi e regioni.
Alcuni paesi stanno compiendo dei progressi: insufficienti, ma
pur sempre progressi.
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“Ma nella gabbia dei cattivi non metterei solo le multinazionali:
oggi constatiamo che purtroppo parecchi governi avviano
iniziative non proprio «sante», per esempio, accaparrandosi nei
paesi poveri terreni per la produzione di alimenti. Lo fanno alcuni
paesi arabi, lo fa la Cina ecc.”
E il ruolo delle multinazionali?
Tra le multinazionali c’è di tutto. Ci sono alcune imprese, come
quelle legate all’estrazione delle energie fossili, che in maggior
parte non sono sensibili a queste problematiche. Non è un caso
che si utilizzi ancora così tanto carbone, petrolio, gas naturale. Altre imprese, però, hanno capito che, anche operando in
un’ottica di profitto su un mercato aperto, possono avere un
interesse concreto nello stimolare e lanciarsi nel campo delle
energie verdi.
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Ci sono, però, anche le multinazionali dell’alimentare,
degli OGM……È possibile lasciarle fuori dallo sviluppo
agricolo? O si può dire che ricattano un po’?
È evidente che le multinazionali condizionano, non sempre
positivamente, le scelte dei paesi. Ricattano? Diciamo che
sono alla ricerca del maggior profitto; e siccome molte volte
non incontrano resistenze degne di questo nome da parte dei
paesi poveri, fanno quello che fanno. Ma nella gabbia dei
cattivi non metterei solo le multinazionali: oggi constatiamo
che purtroppo parecchi governi avviano iniziative non proprio
“sante”, per esempio accaparrandosi nei paesi poveri terreni per
la produzione di alimenti. Lo fanno alcuni paesi arabi, lo fa
la Cina ecc. Questo dimostra che, senza rafforzare la capacità
dei governi di questi paesi di determinare essi stessi le proprie
priorità e le proprie politiche, il rischio è che i loro partner più
spregiudicati traggano profitto solo per se stessi.
Lei è passato dalla BM a una piccola organizzazione
non governativa in Svizzera. Come operano le ONG?
Prima di tutto devo dire che sono contento di essere passato a
una organizzazione non governativa. Per me non c’è una rottura. Nel 1991, l’anno dell’anniversario della Confederazione,
le ONG svizzere hanno lanciato una petizione per spingere il
Consiglio federale e il Parlamento ad azzerare il debito dei
paesi poveri nei confronti della Svizzera. Da funzionario pubblico ho imparato che senza la mobilitazione delle ONG questo
non sarebbe successo. Sono le ONG che hanno promosso la
campagna, coinvolto la classe politica, i parlamentari, l’amministrazione ecc., riuscendo a far cambiare la politica della
Confederazione. La Svizzera è stata uno dei primi paesi, se non
il primo, ad azzerare i crediti che avevano nei confronti dei
paesi più poveri. Nella BM, nel corso di undici anni, ho visto
l’attività delle ONG per convincere la BM a lavorare nella promozione dell’educazione primaria (in particolare delle bambine, che in vari paesi non hanno ancora accesso all’istruzione)
e sono riuscite a ottenere risultati impressionanti. Potrei fornire ancora molti altri esempi, soprattutto nel campo della
coerenza delle politiche, perché attuare una buona politica di
aiuto allo sviluppo è una cosa, ma fare in modo che ci sia
coerenza con altre politiche che hanno un impatto sui paesi in
via di sviluppo è un’altra faccenda, ben più difficile. Inoltre,
in Svizzera le ONG hanno lanciato due anni fa una petizione
per sensibilizzare il Consiglio federale e il parlamento sulla
necessità di responsabilizzare le oltre 500 multinazionali che
hanno qui la loro sede, sull’Arco del Lemano, a Zugo, perfino
nel canton Ticino, e che sono attive soprattutto nell’estrazione
e nel commercio di materie prime. Si tratta di richiamarle al
dovere di assumersi la responsabilità per le attività delle loro
filiali nei paesi del Sud del pianeta. Il Consiglio federale ha
dovuto riconoscere che esiste questa problematica e che esiste
un rischio per la reputazione della Svizzera.
Ma lei, facendo questo lavoro appassionante, si è sentito
più funzionario della Confederazione e delle istituzioni
internazionali, o più “missionario”?
Non credo di essermi sentito “missionario”. Funzionario sì, in
una certa misura, perché ho sempre considerato non solo un
obbligo ma anche un onore poter difendere determinati principi:
ho sempre cercato di applicare criteri di etica nei miei giudizi e
nei miei comportamenti. Penso di essermi sentito funzionario
e anche cittadino libero. Una cosa in cui credo fermamente è
che, se dovessi ritornare indietro, rifarei probabilmente le stesse
scelte. Per me è stato un enorme piacere, che coltivo ancora: a
volte ho l’impressione di essere quasi più appassionato adesso,
dal momento che magari ho un po’ più di distanza rispetto a
certi aspetti. Lo dico perché considero questi problemi come i
“nostri problemi”. E questa non è una visione da “missionario”,
ma una visione improntata al realismo. Il mondo è ormai globalizzato: siamo tutti cittadini dello stesso pianeta e su molti
temi dobbiamo trovare delle soluzioni comuni.
Lei ha vissuto tanti anni all’estero. Come ritorna in
questo cantone, come ritrova il Ticino?
È vero, ho passato più anni della mia vita professionale all’estero che in Svizzera. Il ritorno nel Ticino non è stata una scelta
facile, anche per ragioni familiari, perché i nostri figli vivono
a Ginevra. A un certo punto, ci siamo detti con mia moglie
che dovevamo ritornare dove siamo cresciuti, e da questo punto
di vista è stata senz’altro una scelta positiva, anche perché
abbiamo mantenuto dei legami. Confesso, tuttavia, che ritornare in questa realtà dopo trentasette anni non è stato e non è
ancora facile. Faccio fatica a capire certi comportamenti, per
esempio, questa tendenza presente nel ticinese medio a essere
litigioso su questioni di poca importanza. Dal mio punto di
vista, mi sembra uno spreco di energie. Spero semplicemente
che gli aspetti positivi di questo cantone (e ce ne sono) prendano
il sopravvento. E credo nei giovani: la formazione, qui come
altrove, è di primaria importanza. E attraverso la FOSIT spero
di contribuire a mostrare che in Ticino c’è una solidarietà
internazionale, molto semplice ma importante.