(1) L`«evaporazione» della persona giuridica innanzi alla Corte

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CORTE COSTITUZIONALE; sentenza, 24-07-1998, n. 322
(1) L’«evaporazione» della persona giuridica innanzi alla Corte
costituzionale. (*)
I. - Le premesse dell’art. 2941, n. 7, c.c., sono state poste su queste colonne, con
la nota di CARNELUTTI – che, non può sottacersi, interveniva in causa propria – ad
App. Milano 5 luglio 1932, Foro it., 1932, I, 1560, secondo cui la sospensione della
prescrizione (prevista dall’art. 2119 c.c. del 1865 «fra le persone che per legge sono
sottoposte all’amministrazione altrui e quelle a cui l’amministrazione è commessa»)
non si sarebbe applicata ai rapporti fra le società anonime e i loro amministratori: è il
Carnelutti, l’autorevole dottrina accolta, secondo la Relazione al re, con l’art. 2941,
n. 7; è sua la tesi «formulata sotto il vigore del codice civile del 1865», riferita dalla
sentenza in epigrafe.
L’interesse della questione rimessa alla Corte costituzionale, peraltro, non si
esaurisce nella determinazione del dies a quo della prescrizione dell’azione di
responsabilità contro gli amministratori delle società in accomandita semplice.
Condivisibile nella conclusione, la sentenza in epigrafe non sembra, in verità,
pienamente appagante sul piano della motivazione, tutta incentrata, in definitiva,
sulle poche parole dedicate all’inerenza della sospensione della prescrizione al
rapporto gestorio intercorrente tra società ed amministratori e sulla conseguente
irrilevanza della qualità di persona giuridica in ipotesi posseduta dalla società. Se ciò
può valere come (parziale) traguardo, risulta inespresso il processo argomentativo
attraverso il quale vi si perviene. A tale esplicitazione appare arduo sottrarsi quando
si rilevi che l’accento tonico dell’art. 2941, n. 7, cade sulla nozione di persona
giuridica, vale a dire su «una forma tecnica», su un nome, che «non individua un
tipo specifico di ente (come lo individuano i nomi di associazione, fondazione o
società), ma designa un possibile modo di essere dell’associazione o della
fondazione o della società» (GALGANO, Persona giuridica, voce del Digesto civ.,
Torino, 1995, XIII, 392 ss., spec. 397; RESCIGNO, Personalità giuridica e gruppi
organizzati, in Persona e comunità, Padova, 1987, II, 103 ss., spec. 109).
Ne segue che l’indagine volta a risolvere il problema posto alla corte travalica
l’ambito strettamente societario ed investe più in generale la nozione di persona
giuridica, quale si è venuta elaborando anche sotto la spinta di esigenze
pubblicistiche (v. fin d’ora ORESTANO, Il «problema delle persone giuridiche» in
diritto romano, Torino, 1968, 32 ss.; M.S. GIANNINI, Organi (teoria gen.), voce
dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1981, XXXI, 37 ss., spec. 40; per recenti
rassegne delle teorie susseguitesi sulla nozione di persona giuridica, v., altresì,
GALGANO, Diritto civile e commerciale, Padova, 1993, I, 173 ss.; SCALFI, L’idea di
persona giuridica e le formazioni sociali titolari di rapporti nel diritto privato,
Milano, 1968, 2 ss.). Solo da questa più ampia prospettiva è possibile comprendere
aspetti non secondari della questione in esame: ad esempio, perché il legislatore
stimò insufficiente sul punto la formula del già ricordato art. 2119 c.c. del 1865
(riprodotta nel n. 6 dell’art. 2941 c.c.) e ritenne necessaria una norma ad hoc per
quel «modo di essere» degli enti, riassunto nella locuzione «persona giuridica»;
perché, inoltre, detto «modo di essere» fu ritenuto idoneo a giustificare una
disciplina diversa dell’azione di responsabilità verso gli amministratori a seconda
che il gruppo ne fosse contrassegnato o no (nel senso che la sospensione dell’art.
2941, n. 7, c.c. opera solo per le società di capitali e non per le società di persone, v.
Cass. 4 settembre 1985, n. 4603, Foro it., Rep. 1985, voce Prescrizione e
decadenza, n. 47). A quest’ultimo proposito, non basta dire che l’azione di
responsabilità attiene al rapporto con gli amministratori ed è, quindi, estranea al
riconoscimento della personalità giuridica: invero, l’art. 2941, n. 7, c.c. di per sé
dimostra che la qualità di persona giuridica è idonea – o, quanto meno, tale fu
ritenuta dal legislatore – ad imprimere un connotato specifico anche ai rapporti
interni. Né questa constatazione può essere superata grazie all’orientamento (cui
sembra ispirarsi la Corte costituzionale e che, a sua volta, si collega all’art. 42 del
progetto preliminare del codice civile), secondo cui una disparità di disciplina tra
enti privi ed enti muniti di personalità giuridica è giustificata solo per gli aspetti per i
quali quest’ultima è in concreto rilevante: ancora una volta, infatti, vale il rilievo che
l’art. 2941, n. 7, c.c., per l’appunto, assegna rilevanza giuridica al riconoscimento
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della personalità per quanto riguarda lo specifico aspetto della decorrenza della
prescrizione dell’azione di responsabilità contro gli amministratori.
Di qui la necessità non solo di verificare cosa rimane delle virtù (non solo) in
passato attribuite a quel «modo di essere» degli enti e dei gruppi contrassegnato
dalla locuzione «persona giuridica», ma anche e soprattutto di rispondere ad un
quesito inevitabile, che purtroppo la Corte costituzionale, attenta a circoscrivere la
portata della propria decisione alle società in accomandita semplice, lascia aperto:
quid della decorrenza del termine prescrizionale dell’azione di responsabilità contro
amministratori (o comunque, organi esecutivi) di società personali diverse da quelle
prese oggi in considerazione, di enti comunque non riconosciuti persone giuridiche?
La valenza sistematica della questione si delinea, così, in tutta la sua evidenza:
l’art. 2941, n. 7, c.c. è una delle rarissime norme in cui la nozione di persona
giuridica rappresenta un elemento essenziale della fattispecie disciplinata.
L’individuazione della portata normativa di detta nozione, pertanto, si conferma
pregiudiziale per qualsiasi opinione si intenda esprimere intorno alla legittimità
costituzionale della disposizione.
II. - «Qual è il valore di enunciati . . . come ‘la società è persona giuridica’,
‘l’associazione acquista la personalità giuridica’», si chiede ancor recentemente la
dottrina più autorevole (BASILE, FALZEA, Persona giuridica (dir. priv.), voce
dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1983, XXXIII, 234 ss., spec. 238; SCALFI,
Persone giuridiche, I) Diritto civile, voce dell’Enciclopedia giuridica Treccani,
Roma, 1990, XXIII, 6), testimoniando, così, l’inappagamento per i risultati fin qui
raggiunti. In proposito, si è da tempo sottolineata l’estrema difficoltà di individuare
una disciplina specifica, che possa ritenersi implicita nella nozione di persona
giuridica, sì da offrire una base sicura per l’elaborazione di un concetto unitario, in
grado di esprimerne il tratto peculiare (cfr. GALGANO, Struttura logica e contenuto
normativo del concetto di persona giuridica, in Riv. dir. civ., 1965, I, 553 ss., spec.
597). Eppure da questa ricerca non può prescindersi, poiché essa ha il merito di
spostare il baricentro della riflessione dalla «struttura logica» al «contenuto
normativo» della persona giuridica, restituendo, così, la materia ad una dimensione
maggiormente consona al giurista, in quanto mirata alla ricerca del regime positivo
riservato nel vigente ordinamento alle persone giuridiche in quanto tali.
Certo, anche per quanto riguarda questa materia, il ritorno dall’ontologia
all’esperienza, dal concetto assunto come immutabile al fluire del diritto vivente (in
proposito, v. ORESTANO, Azione in generale, voce dell’Enciclopedia del diritto,
Milano, 1959, IV, 785 ss., spec. 814 ss.; ID., Introduzione allo studio del diritto
romano, Bologna, 1987, 393 ss.), non è privo di contraddizioni. Il rilievo, secondo
cui «ciascun ordinamento ha il potere di determinare i soggetti cui attribuisce una
rilevanza giuridica e, in particolare, di riconoscere la personalità giuridica a
determinati centri di interessi» (Cass. 15 febbraio 1993, n. 1853, Foro it., 1993, I,
2535, con nota di CALÒ; sul tema, v. ORESTANO, Il «problema delle persone
giuridiche», cit., 74 ss.; ZATTI, Persona giuridica e soggettività, Padova, 1975, 57
ss.; M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, Milano, 1993, I, 122 ss., 135 ss.; P.
RESCIGNO, Ascesa e declino della società pluralista, in Persona e comunità, cit., 3
ss.; ID., Le società intermedie, ibid., 29 ss.; FUSARO, L’associazione non
riconosciuta. Modelli normativi ed esperienze atipiche, Padova, 1991, 1 ss.;
BIROCCHI, Persona giuridica nel diritto medievale e moderno, voce del Digesto civ.,
Torino, 1995, XIII, 407 ss.), sembra solo apparentemente condiviso da chi, pur
sottolineando come «i fenomeni indicati con l’espressione ‘persona giuridica’ non
sono sempre e dovunque i medesimi, cosicché gli elenchi delle persone giuridiche
variano nei diversi ordinamenti e pure all’interno del medesimo ordinamento»
(BASILE, FALZEA, op. cit., 235), propende a considerare l’evoluzione giuridica che
contraddice le sue premesse concettuali come deviazioni da reprimere con adeguati
interventi legislativi (BASILE, FALZEA, op. cit., 239, 274).
Il punto merita di essere approfondito poiché consente una prima verifica del
concreto contenuto normativo da assegnare alla locuzione «persona giuridica»:
secondo la dottrina appena ricordata, infatti, dovrebbe confermarsi la tradizionale
impostazione, per la quale il dato caratterizzante della personalità consisterebbe
nell’acquisizione, da parte dell’ente, della capacità di divenire autonomo titolare di
poteri e doveri, in quanto centro di imputazione di interessi (BASILE, FALZEA, op. cit.,
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240, 265 s.; FERRARA sr., Le persone giuridiche, Torino, 1958, spec. 32 ss.).
Senonché, almeno in diritto italiano, la connessione tra attribuzione della personalità
giuridica e riconoscimento dell’autonoma capacità dell’ente non è esplicitata in
alcuna norma (BASILE, FALZEA, op. cit., 245); in secondo luogo – ed è quel che più
conta – detta connessione è smentita dalla giurisprudenza e (ormai anche) dalla
legislazione vigente. Più precisamente, la capacità di rappresentare un centro di
imputazione di interessi e, dunque, di poteri e doveri, non è idonea a fungere da
catalizzatore della disciplina implicita nella nozione di persona giuridica, dal
momento che una capacità sostanzialmente analoga è ormai riconosciuta anche ad
organizzazioni prive di personalità. E quest’ultima osservazione (per le cui
ascendenze, v. RESCIGNO, Associazione non riconosciuta e capacità di testimoniare,
in Persona e comunità, cit., 247 ss., spec. 253 e 265 ss.) è, sotto certi aspetti,
condivisa dalla stessa dottrina in analisi, allorché – sulla premessa che alla base di
ogni situazione giuridica soggettiva vi è un interesse – dubita che la configurabilità
(e, dunque, l’imputabilità) di interessi «impersonali», cioè non riferibili, secondo
questa dottrina, ad un individuo umano, sia condizione sufficiente ad identificare la
persona giuridica (BASILE, FALZEA, op. cit., 266), con ciò implicitamente ammettendo
che analoghi interessi possono essere imputati anche ad una «formazione sociale»
priva di riconoscimento (e v. infatti BASILE, Comitati duraturi ed accertamento della
titolarità degli acquisti immobiliari dei loro componenti, in Nuova giur. civ., 1995,
I, 33 ss., spec. 37).
E valga il vero: di associazioni e di comitati privi di riconoscimento si è affermato
che «pur non essendo persone giuridiche, sono figure soggettive alle quali può
essere attribuita la titolarità diretta nei rapporti a contenuto patrimoniale» (Cons.
giust. amm. sic. 13 settembre 1995, n. 542, Foro it., Rep. 1996, voce Associazione
non riconosciuta, n. 8; Trib. Napoli 5 febbraio 1994, id., Rep. 1994, voce cit., n. 2;
Trib. Lucca 2 febbraio 1994, ibid., n. 3; Pret. Civitavecchia 9 agosto 1991, id., Rep.
1992, voce cit., n. 34). In particolare, dei comitati e delle «forme associative non
personificate in genere» si è ammessa la capacità ad acquistare direttamente beni
immobili per mezzo dei propri organi (Cass. 23 giugno 1994, n. 6032, id., 1995, I,
1268, con osservazioni di LENOCI; e v. CAROTA, in Contratto e impresa, 1994, 1090).
«La capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapporti giuridici» e
«la capacità di stare in giudizio come tali in persona dei loro componenti o di chi,
comunque, ne abbia la legale rappresentanza secondo il paradigma indicato dall’art.
36 c.c.», sono state riconosciute allo studio professionale (Cass. 23 maggio 1997, n.
4628, Foro it., Rep. 1997, voce Professioni intellettuali, n. 251, e Giur. it., 1998, I,
88); del pari, alle fabbricerie delle chiese cattedrali, pur essendo prive di personalità
giuridica, è stata riconosciuta la capacità di «gestire gli immobili di proprietà della
chiesa, dare attuazione a rapporti di locazione che li riguardano, disporre la
cessazione di quelli esistenti», nonché la «capacità di stare in giudizio a mezzo di
coloro che, secondo l’ordinamento interno dell’ente, ne hanno la rappresentanza»
(Cass. 29 gennaio 1997, n. 901, Foro it., Rep. 1997, voce Enti e beni ecclesiastici,
n. 11). Alla contrada senese, nonché al consorzio per la tutela del Palio di Siena, è
stata riconosciuta la legittimazione attiva con riguardo al diritto sull’immagine e sui
simboli del Palio stesso (Trib. Milano 9 novembre 1992, id., Rep. 1993, voce Nome,
n. 2). L’autonoma soggettività delle società personali è stata affermata da Cass. 28
luglio 1997, n. 7021, id., Rep. 1997, voce Società, n. 499; 7 agosto 1996, n. 7228,
id., 1997, I, 2986, con osservazioni di NAZZICONE. E, a proposito dell’associazione
non riconosciuta, Cass. 18 settembre 1993, n. 9589, id., 1994, I, 3503, con
osservazioni di PATANÈ, ha confermato che essa, al pari dell’ente munito di
personalità giuridica (nonché della «fondazione d’impresa», definita quale
formazione sociale, dedita all’attività imprenditoriale «non a titolo di lucro effettivo
e priva del requisito dell’affectio societatis»: cfr. Trib. Milano 17 giugno 1994,
ibid., 3544, con nota di PONZANELLI; sulla sentenza, v. però GALGANO, in Contratto e
impresa, 1994, 1045), può assumere lo status di imprenditore commerciale quando
l’esercizio dell’impresa esaurisca l’attività dell’ente, ovvero risulti prevalente
rispetto ad altre attività. Sul tema, v. MORANDI, La fallibilità degli enti non profit, in
Contratto e impresa, 1998, 336 ss.
Se si passa all’esame dei diritti della personalità, non muta il delineato quadro di
indifferenza della tutela riconosciuta a persone giuridiche rispetto a quella assegnata
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ad enti di fatto.
Quando la giurisprudenza ha ritenuto di circoscrivere alla persona fisica la tutela
dei diritti della personalità, lo ha (ovviamente) fatto in termini tali da escludere
qualsiasi spazio per una differenziazione tra enti muniti, ed enti privi, di personalità
giuridica: così, per l’esclusiva riferibilità alle persone fisiche della tutela del nome
ex art. 7 c.c. e del ritratto ex art. 10 c.c., v. Cass. 21 ottobre 1988, n. 5716, Foro it.,
1989, I, 764, spec. 777. Per entrambe le categorie di enti può valere quanto
affermato da Cass. 2 maggio 1991, n. 4785, id., 1992, I, 831, con nota di CHIAROLLA,
per escludere la configurabilità di un diritto all’identità personale a favore di soggetti
diversi dalle persone fisiche: «notizie non vere che riguardino una
società-imprenditore possono concretare tutt’al più atti di concorrenza sleale; ma
sempre alla condizione che la diffusione della notizia provenga da un concorrente e
che la diffusione stessa sia idonea a danneggiare l’altrui azienda» (col. 841). In
particolare, mette conto qui sottolineare come le riportate affermazioni, pur originate
da una fattispecie avente ad oggetto una persona giuridica, siano ispirate al tema
dell’«immagine» (in senso lato) dell’impresa, di guisa che esse ben possono
estendersi a tutte le forme giuridicoorganizzative utilizzabili per l’esercizio in forma
collettiva della stessa.
Non diversamente, l’estensione alla persona giuridica della tutela del nome, nelle
sue manifestazioni più recenti (cfr. Trib. Roma 24 gennaio 1994, id., Rep. 1994,
voce Nome, n. 3; Trib. Milano 28 gennaio 1993, id., Rep. 1995, voce cit., n. 14) ha
fatto perno su argomentazioni prive di collegamento con la «piena capacità
giuridica» tradizionalmente riportata al riconoscimento della personalità, dal
momento che l’«interesse ad evitare confusione con altri soggetti» non appare, e non
è connotato proprio, né di detto riconoscimento, né della «piena capacità giuridica».
Infatti, Trib. Roma, ord. 23 marzo 1995, id., 1995, I, 2562, ha ritenuto ammissibile
l’azione, da parte del partito politico, per la tutela del nome e dei segni di
identificazione, sul rilievo che «alle associazioni non riconosciute, oltre agli art. 36,
37, 38 c.c., si applica, in quanto possibile, la normativa prevista per le persone
giuridiche, sicché le stesse sono ritenute titolari di situazioni giuridiche soggettive
tutelabili in via giudiziaria, tra le quali ovviamente deve comprendersi il diritto a
richiedere ed ottenere la tutela della propria denominazione e dell’eventuale sigla
e/o simbolo, come segni che la contraddistinguono dinanzi agli altri soggetti
giuridici che operano nello stesso contesto sociale» (col. 2583) (in materia, ANELLI,
Sul diritto all’uso di segni distintivi dei partiti politici, in Corriere giur., 1995, 961;
LERRO, L’identità personale e i segni distintivi dei partiti politici, in Dir.
informazione ed informatica, 1995, 667). È stata recentemente ammessa la tutela
della sigla (Cass. 28 gennaio 1997, n. 832, Foro it., 1997, I, 2537, con nota di
BELLOMUNNO e COLOMBO), dell’onore e della reputazione (Trib. Roma 18 aprile
1994, id., Rep. 1994, voce Persona fisica, n. 32, e 26 giugno 1993, ibid., n. 30), di
associazioni non riconosciute, nonché del nome di società irregolari o semplici
intraviste nel complesso musicale (Trib. Napoli 2 dicembre 1996, id., Rep. 1997,
voce Nome, n. 9; Trib. Velletri 29 settembre 1994, ibid., n. 11). Il diritto all’identità
personale dei gruppi è stato affermato da Trib. Milano 11 giugno 1994, id., Rep.
1995, voce Persona fisica, n. 31, dove, peraltro, ancora una volta si parla di un
«diritto dell’impresa», senza alcun collegamento, dunque, con la personalità
giuridica; Trib. Milano 9 novembre 1992, id., Rep. 1993, voce Nome, n. 9; Pret.
Roma 23 marzo 1990, id., Rep. 1990, voce Partiti politici, n. 7, le quali confermano
(ma v. già Pret. Roma 2 giugno 1980, id., 1980, I, 2046, con osservazioni di
PARDOLESI) l’estensibilità alle associazioni non riconosciute dei rilievi che hanno
indotto Cass. 22 giugno 1985, n. 3769, id., 1985, I, 2211, con osservazioni di
PARDOLESI, a riconoscere alla persona giuridica il diritto all’identità personale. Sulla
riferibilità a persone giuridiche e ad enti non riconosciuti, dei diritti della
personalità, v. RESCIGNO, Personalità (diritti della), voce dell’Enciclopedia giuridica
Treccani, Roma, 1990, XXIII, 7; ZENO ZENCOVICH, Personalità (diritti della), voce
del Digesto civ., Torino, 1995, XIII, 430 ss., spec. 440. In via generale, sul diritto
all’identità personale, v. Cass. 7 febbraio 1996, n. 978, Foro it., 1996, I, 1253, con
osservazioni di PALMIERI.
III. - La ricognizione della giurisprudenza più recente non lascia intravedere quali
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maggiori e diversi diritti, doveri, interessi siano imputabili alle persone giuridiche,
rispetto agli enti non riconosciuti.
Peraltro, la rilevata tendenza giurisprudenziale ad espandere la capacità giuridica
degli enti privi di personalità, fino ad equipararla sostanzialmente a quella delle
persone giuridiche, ha riscontro in dottrina: vuoi, in sede teorica, con la
configurazione di un concetto di «persona», come centro di imputazione riferibile,
oltre che all’uomo, al «gruppo organizzato istituito tramite la posizione di un
ordinamento» (ZATTI, op. cit., 208 s.), senza, dunque, assegnare alcun rilievo al
positivo riconoscimento della qualità di «persona giuridica» per concessione
amministrativa o al ricorrere di requisiti predefiniti e, anzi, con l’esplicito rifiuto
dell’«arbitrio logico», consistente nel negare la qualità di «soggetto» agli enti non
riconosciuti pur utilizzando per loro un «criterio di unificazione» omogeneo a quello
delle persone giuridiche (ibid., 288 ss.); vuoi quando, attraverso l’analisi del diritto
positivo, lungi dal considerare l’esposto orientamento giurisprudenziale una «fuga in
avanti», se ne sono rinvenuti i presupposti negli art. 2, 3, 18, 19, 20, 33, 39, 49
Cost., osservando che essi non tollerano che su un aspetto fondamentale, come
quello della capacità giuridica, perduri una discriminazione a svantaggio degli enti
di fatto, in virtù, non già di un’intrinseca diversità di scopi e funzioni, ma della
mancata richiesta o della mancata concessione del riconoscimento amministrativo
(BASILE, Associazione, III) Associazioni non riconosciute, voce dell’Enciclopedia
giuridica Treccani, Roma, 1988, III, 5; e v. già GALGANO, Delle persone giuridiche,
Bologna-Roma, 1969, 133 ss.; RESCIGNO, Personalità giuridica e gruppi
organizzati, cit., 114; ID., in Associazioni e fondazioni, Proposte per una riforma del
primo libro del codice civile, Rimini, 1995, 37 ss., spec. 39; contra, SCALFI, L’idea
di persona giuridica, cit., 50, 71).
Su una linea di analoga equiparazione, d’altra parte, si è mosso il legislatore
ordinario. Non mi riferisco solo all’art. 2659 c.c., che – malgrado i dubbi sollevati
(v. COSTANZA, Associazioni e comitati (acquisto di beni e trascrizione), voce
dell’Enciclopedia del diritto, aggiornamento, Milano, 1997, I, spec. 153 ss.) –
conferma la capacità di tutti gli enti di acquistare direttamente beni immobili (cfr.
Cass. 24 luglio 1989, n. 3498, Foro it., 1990, I, 1617, con osservazioni di
PAGANELLI; 23 giugno 1994, n. 6032, cit., col. 1276).
Maggiore attenzione meritano interventi più recenti: in primo luogo, l’art. 13 l. 15
maggio 1997 n. 127, «misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa
e dei procedimenti di decisione e di controllo», che pone il problema se il
riconoscimento ancora rilevi al fine di determinare la capacità degli enti di
acquistare beni a titolo gratuito. Le interpretazioni offerte dalla dottrina sono più
d’una: a fianco a chi ritiene immutata la situazione per tutti gli enti non riconosciuti
(TONDO, Nuovo regime degli acquisti degli enti non profit, in Notariato, 1997, 305;
DE GIORGI, L’autorizzazione all’acquisto delle persone giuridiche: ingloriosa fine di
un istituto secolare, in Studium iuris, 1997, 1010), ovvero solo per gli enti privi di
controlli analoghi a quelli conseguenti al riconoscimento (VITTORIA, L’abrogazione
dell’art. 17 c.c.: l’incidenza sull’assetto normativo degli enti del I libro del codice
civile, in Contratto e impresa, 1998, 314 ss.), vi è chi ritiene caduti gli ostacoli per
gli acquisti a titolo gratuito degli enti di fatto (CARNEVALI, L’abrogazione dell’art.
17 c.c., in Contratti, 1997, 229; PONZANELLI, Abrogazione dell’art. 17 c.c.: verso
una riforma degli enti non profit?, in Corriere giur., 1997, 841; VIOLA,
L’autorizzazione agli acquisti delle persone giuridiche dopo la Bassanini «bis», in
Giust. civ., 1997, II, 541).
A favore di quest’ultima opinione v’è la lettera dell’art. 13 l. 127/97, (che, a ben
vedere, non abroga solo le disposizioni che prescrivono autorizzazioni all’acquisto –
e all’«alienazione»: v. art. 2, comma 26, l. 16 giugno 1998 n. 191 – di beni da parte
delle «persone giuridiche», ma anche quelle riferite alle «associazioni e fondazioni»
in genere e, dunque, anche non riconosciute), il concorrere delle norme
costituzionali a favore di una lettura dell’art. 37 c.c. comprensiva degli acquisti a
titolo gratuito, nonché considerazioni sulla valenza politica della novella.
L’art. 17 c.c. è stato preposto alle finalità più varie, dalla prevenzione della
«manomorta» (Cass. 7 settembre 1992, n. 10281, Foro it., Rep. 1992, voce Persona
giuridica, n. 10), alla politica economica, alla tutela dei legittimari, alla lotta
antiriciclaggio (DE GIORGI, L’abrogazione dell’art. 17 c.c., in Nuove leggi civ.,
IL FORO ITALIANO 1987 - luglio-agosto 2008
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1997, 1307), al controllo delle Anstalten operanti in Italia (BORGIOLI,
Treuunternehmen, Anstalten e la Cassazione, in Riv. società, 1977, 1156). Si è,
peraltro, sottolineato come la norma, in quanto strumento di controllo sulle fonti di
finanziamento degli enti intermedi, costituisse elemento essenziale di un quadro
complessivo, non di favore, ma di tolleranza, di diffidenza verso gli stessi
(RESCIGNO, in Associazioni e fondazioni, cit., 41 ss.; LARICCIA, ibid., 83; COSTANZA,
op. cit., 147). In questa prospettiva, la sua abrogazione può essere letta come un
momento essenziale del passaggio della disciplina dei gruppi «dal dominio dello
Stato al diritto dei privati», che, obiettivo dei progetti di riforma degli enti del primo
libro, si sta delineando già nei recenti interventi di settore (CASSESE, Le persone
giuridiche e lo Stato, in Contratto e impresa, 1993, 1). Più precisamente, questo
nuovo contesto risulta caratterizzato, da un lato, dalla consapevolezza che la capacità
degli enti di acquistare beni a titolo gratuito non è una sovrana concessione, ma
un’espressione dell’autonomia privata, e dall’altro lato dalla svalutazione della
dicotomia persona giuridica/ente non riconosciuto a favore di un’altra distinzione,
quella tra ente privato munito di privilegi, quali agevolazioni fiscali, contributi
statali e altri (da ultimo, la legittimazione ad agire per la tutela degli interessi dei
consumatori: v. art. 3, 4 e 6 l. 30 luglio 1998 n. 281 «disciplina dei diritti dei
consumatori e degli utenti»), concessi in virtù degli interessi perseguiti, ed ente
senza privilegi (DE GIORGI, op. cit., 1316; VITTORIA, op. loc. cit.). Con lo scenario
delineato sono coerenti, sia una mutata «filosofia» dei controlli – non più attenti
all’acquisizione di risorse da parte degli enti privati, riconosciuti e no, quanto
piuttosto all’effettiva sussistenza dei requisiti ritenuti necessari per accedere al
regime privilegiato – sia la circostanza che l’esito negativo del controllo determinerà
l’esclusione dai privilegi e non lo scioglimento dell’ente o la sua incapacità ad
acquistare immobili a titolo gratuito (così, invece, VITTORIA, op. cit., 323, 332).
IV. - La dottrina ha ormai chiaramente percepito l’insufficienza del criterio
dell’imputabilità all’ente di diritti, doveri, qualità, ecc., vale a dire il criterio della
soggettività giuridica, della capacità giuridica, al fine di pervenire ad una netta
distinzione tra persone giuridiche ed enti privi di personalità (cfr. ad es. RESCIGNO,
Associazione non riconosciuta e capacità di testimoniare, cit., 253; GALGANO, Delle
associazioni non riconosciute e dei comitati, Roma-Bologna, 1976, 119 ss.; ROSSI,
Persona giuridica, proprietà e rischio d’impresa, Milano, 1967, 54; COSTI,
Fondazione e impresa, in Riv. dir. civ., 1968, I, 1 ss., 34 ss.; ROPPO, Istituzioni di
diritto privato, Bologna, 1994, 202; G. MARICONDA, in Associazioni e fondazioni,
cit., 74; IUDICA, ibid., 150; TORRENTE-SCHLESINGER, Manuale di diritto privato,
Milano, 1997, 101 s.). Ha, così, proposto di ricercare altrove lo specifico contenuto
normativo del concetto di persona giuridica, con particolare attenzione, innanzi
tutto, al profilo oggettivo, ossia ai rapporti tra il gruppo, i suoi componenti, la
struttura organizzativa adottata ed i terzi. Il tutto, peraltro, con esiti deludenti se
confrontati con la disciplina complessivamente risultante dalla legge.
Infatti, l’art. 38 c.c. esclude la responsabilità dei membri dell’associazione non
riconosciuta per le obbligazioni dell’ente (cfr. Cass. 18 settembre 1993, n. 9589,
cit.), mentre l’art. 2291 c.c. la impone per tutti i componenti della società in nome
collettivo (e per la relativa ampiezza, v. Cass. 24 giugno 1997, n. 5624, Foro it.,
Rep. 1997, voce Società, n. 826), e, a loro volta, gli art. 2267 e 2313 c.c. la limitano
a quei soci della società semplice e della società in accomandita semplice che (con
accettabile approssimazione possiamo designare come coloro i quali) gestiscono
l’impresa sociale, ammettendo il primo che i patti sociali possano limitare con
efficacia verso i terzi la suddetta responsabilità degli altri soci. D’altra parte, la
posizione verso i terzi dei soci di una società di capitali, di regola, non è dissimile da
quella dei soci accomandanti dell’accomandita semplice, o da quella di quei soci di
una società semplice che beneficino del patto di limitazione di responsabilità di cui
all’art. 2267, 2° comma, c.c., ovvero da quella degli associati di una associazione
non riconosciuta. Mentre, sotto questo aspetto, gli accomandatari di una società in
accomandita per azioni non godono di un trattamento diverso da quello dei soci di
una società in nome collettivo o da quello dei componenti il comitato «qualora
[questo] non abbia ottenuto la personalità giuridica» (art. 41 c.c.), ovvero di quanti
abbiano agito in nome e per conto dell’associazione non riconosciuta (art. 38 c.c.).
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Il frastagliato quadro normativo esibisce un duplice profilo di interesse: innanzi
tutto, esso è tale da frustrare i tentativi di risalire al comun denominatore, alla
«speciale disciplina», riassunta nella locuzione «persona giuridica», sulla base
dell’autonomia patrimoniale (più o meno perfetta) e della limitazione della
responsabilità.
In proposito, è stato agevole osservare che la destinazione di determinati beni ad
un’attività, con «la possibilità di quanti sono creditori in relazione all’esercizio
dell’attività . . . di soddisfarsi sui beni destinati all’attività stessa, escludendosi la
possibilità di diretta soddisfazione su detti beni di altri creditori» (ASCARELLI,
Personalità giuridica e problemi delle società, in Problemi giuridici, Milano, 1959,
I, 236 ss., spec. 261), non sono connotati propri solo delle persone giuridiche o delle
società (anche personali: v. art. 149 l. fall., con le pallide eccezioni degli art. 2270,
2° comma, e 2307 c.c.), ma si riscontrano in tutti i gruppi organizzati, ivi comprese
le associazioni non riconosciute, gli enti di fatto (GALGANO, Struttura logica e
contenuto normativo, cit., 608). Per altro verso, l’illimitata responsabilità degli
amministratori della s.a.p.a., ossia di un’organizzazione classificata tra le persone
giuridiche dall’art. 2498 c.c., esclude che il nesso amministrazione-responsabilità sia
tipico dell’associazione priva di riconoscimento (v., invece, FERRO LUZZI, I contratti
associativi, Milano, rist. 1976, 247 ss.), e, al tempo stesso, depotenzia l’idea,
secondo cui «lo specifico contenuto normativo della personalità giuridica . . . risiede
. . . nel beneficio della responsabilità limitata» (GALGANO, op. cit., 611): lo riconosce
lo stesso A., Delle associazioni, cit., 124 ss., declinando verso la conclusione che «la
sola costante . . . che può dirsi garantita dal concetto di persona giuridica, è . . .
suscitare l’immagine di una distinta soggettività giuridica del gruppo rispetto ai suoi
membri» (GALGANO, Diritto civile e commerciale, cit., 180). Conclusione, questa,
che però non riesce a connotare gli enti muniti di personalità giuridica, atteso che –
lo si è già evidenziato e sarà ribadito infra – anche negli altri enti sussiste la netta
separazione tra il singolo ed il gruppo, col conseguente corollario della distinta
soggettività di questo.
Si innesta, a questo punto, un’ulteriore osservazione. Essa trae spunto dal rilievo
che – per quanto sviluppatesi autonomamente (SCALFI, L’idea di persona giuridica,
cit., 58 ss.; GALGANO, Delle persone giuridiche, cit., 24 ss.; ID., Persona giuridica,
voce cit., 401) – personalità giuridica ed autonomia patrimoniale costituiscono due
diverse tecniche legislative (se si vuole: l’una imperniata sul profilo soggettivo,
l’altra su quello oggettivo) utilizzate per realizzare un medesimo disegno di politica
economica: creare le condizioni di diritto privato più propizie per la diffusione e lo
sviluppo delle imprese societarie, attraverso, in particolare, il trattamento
preferenziale assegnato ai creditori sorti a seguito dell’attività e la limitazione del
rischio di quanti partecipano all’attività stessa (CAMPOBASSO, Diritto commerciale,
2, Diritto delle società, Torino, 1997, 58).
Senonché – e siamo al secondo profilo di interesse del quadro normativo sopra
riassunto – queste caratteristiche percorrono trasversalmente le organizzazioni
contemplate dal codice civile; non solo non valgono a distinguere le persone
giuridiche dalle organizzazioni prive di tale qualità, ma sono di fatto condivise dagli
enti del primo come del quinto libro: tutti sono preordinati all’esercizio di un’attività
utilizzando beni posti dai partecipanti in comune; in tutti è garantito il trattamento
preferenziale dei creditori; in quasi tutti si riscontra la limitazione del rischio del
partecipante al conferimento o al contributo. Queste circostanze comuni hanno
aperto la via allo sviluppo di attività economiche, anche importanti, da parte del c.d.
mondo non profit (su cui v. PONZANELLI, Non profit organization, voce del Digesto
civ., Torino, 1997, XVI, 667 ss.), ossia da parte degli enti del primo libro, persone
giuridiche e no, tanto da sollecitare la riflessione della dottrina in più direzioni: da
un lato, si è rilevata la flessibilità delle forme giuridiche a fini diversi da quelli che
ne determinarono la maturazione e si è autorevolmente parlato di una loro neutralità
(RESCIGNO, Fondazione e impresa, in Persona e comunità, cit., II, 55 ss., spec. 75
ss.; SANTINI, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali, in Riv. dir.
civ., 1973, I, 151 ss.); per altro verso, si è ripensato il criterio di distinzione tra enti
collettivi del primo libro ed enti del quinto libro del codice (il tema è ripercorso da
FUSARO, op. cit., 128 ss.), concludendosi nel senso che esso ormai possa essere
individuato con sicurezza solo nella obbligatoria non distribuzione di utili da parte
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dei primi (v., per tutti, PONZANELLI, in Foro it., 1994, I, 3545, del quale v. anche i
rilievi a col. 3547 s., sui limiti della teorizzata neutralità delle forme giuridiche; e su
quest’ultimo punto, cfr. Cass. 10 dicembre 1996, n. 10970, id., 1998, I, 212,
commentata da GALGANO, in Contratto e impresa, 1998, 1); infine, quasi a trarre le
inevitabili conseguenze, si è suggerito di imprimere sulla riforma delle persone
giuridiche del primo libro il segno dell’organizzazione interna delle società di
capitali (cfr. COSTI, La riforma delle «fondazioni bancarie», in Banca impr. società,
1997, 507 ss.).
Peraltro, proprio il fatto che la limitazione del rischio (svalutata, dunque,
ingiustamente da SCALFI, op. cit., 62 ss.) si riscontra e ha un ruolo anche nell’ente a
scopo «ideale», a prescindere dalla personalità giuridica eventualmente riconosciuta
all’ente stesso, conferma che è inoperante – fosse anche circoscritta alle
organizzazioni di cui al primo libro del codice – la conclusione per la quale «il
concetto di persona giuridica assolve . . . la funzione, che gli è propria, di occultare
discipline speciali» rispetto al regime di responsabilità patrimoniale delineato
dall’art. 2740 c.c. (GALGANO, Delle persone giuridiche, cit., 44), in quanto analogo
risultato derogatorio alla norma appena cit. si verifica per il tramite di forme
giuridiche diverse da quelle aventi il crisma della personalità (cfr. ROSSI, op. cit., 72
ss., 110 ss., sia pure con riguardo alle società).
V. - Si profila, pertanto, l’alternativa: o si rinuncia – come già accennato – ad
assegnare alcun significato normativo unificante alla nozione di persone giuridica, al
più rilevandone il diverso «contenuto normativo», a seconda che sia adoperata nel
primo o nel quinto libro del codice (GALGANO, Delle associazioni, cit., 126 s.);
ovvero, si ricerca un ulteriore elemento distintivo del concetto.
Questa seconda opzione è stata coltivata da quanti, di fatto collegandosi con una
delle teorie tradizionalmente più accreditate, hanno rinvenuto il tratto caratterizzante
della persona giuridica nella necessaria esistenza di una struttura organizzativa in
grado di determinare, attraverso la divisione delle competenze, un reciproco
controllo tra gli organi (per la dottrina volta a collegare la personalità giuridica con
l’organizzazione corporativa, v. GALGANO, Il principio di maggioranza nelle società
personali, Padova, 1960, 24 ss.). Più precisamente, da un lato, si è valorizzato il
nesso tra personalità giuridica, limitazione della responsabilità ed organizzazione
corporativa, ravvisando in quest’ultima il necessario presupposto della persona
giuridica, nel senso che se ne è individuata la «sola e specifica funzione» in ciò che
«essa opera quale condizione alla presenza della quale è subordinata la concessione,
ai membri del gruppo, del beneficio della responsabilità limitata» (GALGANO,
Struttura logica e contenuto normativo, cit., 624; SCALFI, op. cit., 78). Dall’altro
lato, si è aggiunto che, a seguito della rilevata strutturazione organizzativa delle
persone giuridiche – secondo la tesi in esame, loro propria perché prevista per esse
in modo inderogabile (in tal senso, già GALGANO, Il principio di maggioranza, cit.,
235, 250, ove ulteriori citazioni) – solo in queste ultime vi sarebbe il riconoscimento
di posizioni giuridiche (diritti, obblighi) dei componenti del gruppo, nelle loro
diverse qualifiche (soci, amministratori, sindaci), nei confronti dell’ente, mentre, per
quanto riguarda i gruppi privi di personalità, «nei rapporti interni non è disposta
un’alterità tra soggetto e socio» (SCALFI, op. cit., 70 ss., spec. 87 s.; meno netto
EROLI, Le associazioni non riconosciute, Napoli, 1990, 139 ss.).
Questi rilievi aprono il campo ad ulteriori riflessioni. Innanzi tutto, inducono ad
interrogarsi sull’effettiva pregnanza del momento organizzativo a descrivere il
contenuto normativo (o piuttosto, a questo punto, il presupposto normativo?) della
persona giuridica; in secondo luogo, sollecitano un approfondimento del significato
dell’organizzazione negli enti non riconosciuti, che, come si è detto, parte della
dottrina revoca in dubbio.
Per quanto riguarda il primo punto, occorre essere consapevoli che l’equazione tra
organizzazione corporativa e personalità giuridica non può ritenersi affidante per
estrapolare il «contenuto normativo» di quest’ultima. Quell’equazione, di cui già si è
dubitato in passato (v. ad es., CARLO, Il contratto plurilaterale associativo, Napoli,
1967, 187 ss.), infatti, è stata definitivamente messa in crisi dall’introduzione della
s.r.l. unipersonale (v., anche per riferimenti, WEIGMANN, Società di un solo socio,
voce del Digesto comm., Torino, 1997, XIV, 209 ss., spec. 212 ss.).
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Invero, se tratto distintivo dell’organizzazione corporativa non è la mera esistenza
di una pluralità di organi, ma la sostanziale esigenza che il gruppo sia costituito in
assemblea e che i suoi membri concorrano alla formazione della volontà del gruppo
stesso secondo le regole del metodo collegiale (GALGANO, Struttura logica e
contenuto normativo, cit., 619 ss.), è escluso che gruppo e collegialità delle
decisioni siano ravvisabili nella società costituita da un solo socio, malgrado la
riconosciuta natura di persona giuridica di detta società (v., sotto quest’ultimo
aspetto, OPPO, Società, contratto, responsabilità, in Riv. dir. civ., 1993, II, 183 ss.,
spec. 184; G. SCOGNAMIGLIO, La disciplina della s.r.l. unipersonale: profili
ricostruttivi, in Giur. comm., 1995, I, 237 ss., spec. 238). In proposito, la stessa XII
direttiva dà atto che tutte le decisioni sono prese dal socio unico in qualità di
assemblea e che i poteri di questa sono esercitati dal predetto socio unico. Del pari, è
dubbio che in tale società in concreto sussista la divisione di competenze tra
assemblea ed amministratori (su entrambi i profili qui considerati, v. NAZZICONE, Le
società unipersonali, Milano, 1993, 27 ss., 39 ss.), con particolare riferimento
all’esclusione di un incontrollato potere dei soci sull’organizzazione corporativa
elevata a persona giuridica (CALANDRA BONAURA, Gestione dell’impresa e
competenze dell’assemblea nella società per azioni, Milano, 1985). Questa
conclusione è condivisa dalla stessa dottrina qui analizzata, laddove scrive che «una
società di capitali con unico socio non è diversa, sotto l’aspetto patrimoniale, da una
società di capitali con pluralità di soci: la riunione delle azioni o delle quote in unica
mano non diminuisce le garanzie dei creditori sociali, né determina l’inapplicabilità
di alcuna delle norme che tutelano il patrimonio sociale. Essa fa cadere, invece, quel
complesso sistema di controlli reciproci tra organi diversi nel quale è l’essenza
dell’organizzazione corporativa» (GALGANO, op. cit., 626 s.; v., altresì, ROSSI, op.
cit., 85 s.). Essa, in altre parole, conferisce all’unico detentore delle quote quel
controllo sulla società e sull’impresa, che, per diritto vigente, ormai non vale ad
estendere la responsabilità di costui a tutte le obbligazioni connesse all’esercizio
dell’impresa stessa.
Occorre aggiungere che a connotare in qualche modo la persona giuridica nei
confronti degli enti non riconosciuti, non varrebbe accogliere l’orientamento meno
rigoroso rispetto a quello appena analizzato, che fa salva l’organizzazione
corporativa tipica delle società di capitali in presenza di un organo amministrativo
dotato del potere di sindacare la conformità delle decisioni assembleari a criteri di
corretta gestione, a pena della propria diretta responsabilità verso i terzi, verso i
creditori sociali (cfr. CALANDRA BUONAURA, op. cit., 269 ss.). Un’analoga
responsabilità degli amministratori, infatti, sussiste nelle società personali e, in
genere, nei gruppi non riconosciuti. Anzi, qui la responsabilità degli amministratori,
e dunque la tutela dei creditori, è più ampia, in quanto estesa a tutti i casi di
insufficienza del patrimonio comune a far fronte alle passività, e non limitata
all’ipotesi di mancata diligenza nella conservazione del patrimonio stesso.
Si ritorna, così, alla conclusione, secondo cui «perde . . . importanza l’antico
problema se determinati gruppi . . . siano o no persone giuridiche» (v. citazioni in
GALGANO, op. cit., 597).
L’altro orientamento, secondo cui nelle società di persone i rapporti interni si
risolverebbero in rapporti tra soci, investe un tema particolarmente dibattuto, quello
sulla rilevanza e la struttura dell’organizzazione degli enti non riconosciuti (v. Cass.
10 gennaio 1998, n. 153, Foro it., Mass., 17; 12 giugno 1996, n. 5416, id., 1996, I,
3093, con nota di NAZZICONE).
Che l’organizzazione sorta dal contratto associativo non sia preordinata solo ai
rapporti esterni, ma anche a disciplinare l’utilizzazione dei beni comuni da parte di
ciascun partecipante e l’incidenza di questo sull’attività comune, è ormai
insegnamento risalente (ASCARELLI, Il contratto plurilaterale, in Studi in tema di
contratti, Milano, 1952, 97 ss., 116 ss.). In proposito, il riferimento alla comunione
può essere utile, non per ripercorrere il raffronto degli enti non riconosciuti con la
comunione di tipo germanico, ovvero con quella romanistica (G. BONELLI, I concetti
di comunione e di personalità nella teorica delle società commerciali, in Riv. dir.
comm., 1903, I, 285 ss.; CARNELUTTI, Personalità giuridica e autonomia
patrimoniale nella società e nella comunione, id., 1913, I, 86 ss.; FERRARA, op. cit.,
69 ss.; RUBINO, Le associazioni non riconosciute, Milano, 1952, 172 ss.; PUGLIATTI,
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La proprietà e le proprietà, Milano, rist. 1964, 176 s.; RESCIGNO, Enti di fatto e
personalità giuridica, in Persona e comunità, cit., II, 119 ss., spec. 132 ss.), quanto
piuttosto per rilevare un omogeneo dato strutturale, vale a dire «la coesistenza di più
diritti: un diritto spettante alla collettività dei partecipanti sulla cosa nella sua
interezza; ed un complesso di diritti spettanti a ciascuno di essi, di partecipare alla
comunione secondo la misura della rispettiva quota» (PUGLIATTI, op. cit., 170; e v.
D’ALESSANDRO, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, Padova, 1989, 114,
161; SPADA, La tipicità delle società, 1974, 114), o, se si preferisce, di partecipare
alle decisioni relative alle modalità di utilizzazione dei beni comuni. A dirimere
questa situazione, a sciogliere il nodo tra «sfera dell’interesse individuale» e «sfera
dell’interesse collettivo» sta l’organizzazione interna (cfr. FERRO LUZZI, op. cit., 322
s., in nota; SERRA, Unanimità e maggioranza nelle società di persone, Milano, 1980,
spec. 163 ss.; FUSARO, op. cit., 231 ss., 266 ss.; COSTA, Le assemblee speciali, in
Trattato delle società per azioni diretto da G.E. COLOMBO e G.B. PORTALE, Torino,
1993, vol. 3, II, 499 ss., spec. 518; CAMPOBASSO, op. cit., 49): il problema delle
regole di funzionamento interno del gruppo non riconosciuto – se, cioè, nel silenzio
della legge e del contratto, le decisioni debbano prendersi a maggioranza o
all’unanimità (sul dibattito, v. VOLPE PUTZOLU, La tutela dell’associato in un sistema
pluralistico, Milano, 1977, 197 ss.; CAMPOBASSO, op. cit., 101 ss.) – presuppone
proprio la rilevanza giuridica della contrapposizione tra il gruppo ed il singolo
componente ed esprime l’esigenza di conciliare la tutela di quest’ultimo con valori
diversi, quali, per quanto riguarda le società di persone, l’efficienza di gestione e la
sicurezza dei traffici, ossia gli interessi degli altri soci e dei terzi.
Ne segue che la prospettiva della tesi qui contestata dovrebbe essere invertita:
l’organizzazione (più o meno sofisticata) rileva, innanzi tutto, all’interno, quale
rapporto giuridico, costituito ex art. 1321 e 1374 c.c. tra le parti del contratto
associativo, diretto a determinare il ruolo di ciascun contraente nel perseguimento
dello scopo comune. Questa osservazione non è affatto ostacolata dalle diverse
valutazioni espresse in dottrina sul rapporto tra contratto ed organizzazione (v.,
anche per riferimenti, GAMBINO, Il principio di correttezza nell’ordinamento delle
società per azioni, Milano, 1987, 107 ss.; GALGANO, Diritto civile e commerciale,
cit., II, 1, 259 ss.), dal momento che detta disparità di vedute non esclude caratteri
comuni a tutte le organizzazioni di derivazione contrattuale (v., infatti, GAMBINO, op.
cit., 131 s., in nota).
D’altra parte, la contrapposizione tra socio e gruppo (e, dunque, società) si
intravede in precise vicende delle società personali, quali il regime dei conferimenti
non in denaro, la revoca dell’amministratore, la sua responsabilità (cfr. i richiami in
nota a Cass. 7 agosto 1996, n. 7228, cit., col. 2988, cui adde Trib. Napoli 14 marzo
1996, Foro it., Rep. 1996, voce Società, n. 490; nonché CAMPOBASSO, op. cit., 94 s.),
l’esclusione del socio (Cass. 10 giugno 1998, n. 5757, Foro it., Mass., 645; 20 aprile
1994, n. 3773, id., 1995, I, 233), il diritto del socio alla distribuzione degli utili dopo
l’approvazione del bilancio (Cass. 20 aprile 1995, n. 4454, id., 1997, I, 920;
BUSSOLETTI, Società semplice, voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano, 1990,
XLII, 908 ss., spec. 914 s.; ID., Società in accomandita semplice, ibid., 951 ss., spec.
964 s.; CAGNASSO, La società semplice, Torino, 1998).
Dottrina e giurisprudenza hanno segnalato l’incidenza delle norme costituzionali
sull’impianto codicistico dell’organizzazione dei gruppi non riconosciuti: infatti, per
quanto riguarda le società personali, gli art. 3 e 41 Cost. sono stati invocati al fine di
eliminare il paradosso di regole più severe in ipotesi di revoca dell’amministratore,
che non nel più grave caso di esclusione del socio (WEIGMANN, Il procedimento di
esclusione del socio nelle società di persone: profili di incostituzionalità, in Giur.
comm., 1996, I, 539); gli art. 2 e 18 Cost., poi, limitano la libertà di regolare gli
ordinamenti interni, assegnata agli accordi degli associati dall’art. 36 c.c. (cfr. Cass.
14 maggio 1997, n. 4244, Foro it., 1997, I, 2484, con osservazioni di LAGHEZZA;
Trib. Torino 15 febbraio 1996, id., Rep. 1996, voce Associazione non riconosciuta,
n. 11; sembra invertire la gerarchia delle fonti, VOLPE PUTZOLU, op. cit., 86). Più
precisamente, diritti inviolabili del singolo e consapevole esercizio della libertà di
associazione, ragionevolmente non possono non specificarsi in un minimo di
partecipazione degli associati alla determinazione delle decisioni dell’associazione
(per il relativo dibattito, v. FUSARO, op. cit., 167 ss.), partecipazione che, sempre più
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spesso pretesa dal legislatore quale requisito per l’accesso delle associazioni a
benefici di vario genere (e v. i richiami di legislazione ordinaria di S. TOFFOLI, in
Foro it., 1992, I, 924, 928, cui adde art. 10, 1° comma, lett. h, d.leg. 460/97; 5, 2°
comma, lett. a, l. 281/98), a sua volta postula, proprio nei rapporti interni,
un’adeguata struttura organizzativa del gruppo (sul problema, v. VOLPE PUTZOLU, op.
cit., 172 ss.; BASILE, op. cit., 5 s.; FUSARO, op. cit., 216 ss.).
Pertanto, se unanimità, principio di maggioranza e collegialità sono in varia
misura preordinati (anche) alla tutela dei singoli (SCHLESINGER, L’approvazione del
rendiconto annuale nelle società di persone, in Riv. società, 1965, 807; GRIPPO,
Deliberazione e collegialità nella società per azioni, Milano, 1979, 23 ss.;
WEIGMANN, op. loc. cit.; PREITE, La destinazione dei risultati nei contratti
associativi, Milano, 1988, 123 ss.), una coerente struttura organizzativa non può
mancare nelle formazioni sociali in discorso senza contraddire la «garanzia»
costituzionale di diritti e libertà dell’individuo, siano essi l’uguaglianza, l’intrapresa
anche in forma collettiva, l’associazione.
Così, l’organizzazione ed il conseguente incanalamento dei rapporti interni in un
dialogo tra i singoli e gli organi associativi costituiscono il risultato «tecnico»
pressoché obbligato di quel processo che, muovendo dalla visione dell’uomo quale
sostrato sostanziale di tutti i gruppi, di tutte le formazioni sociali, si conclude
nell’individuazione degli aspetti tipici – e, pertanto, di generale validità – del
contratto associativo e dei suoi moduli esecutivi, uno dei quali – va evidenziato fin
d’ora – è l’amministratore (v., per i diversi aspetti accennati, RUBINO, op. cit., 128;
PERSICO, Associazioni non riconosciute, voce dell’Enciclopedia del diritto, Milano,
1958, III, 878 ss., spec. 884; GALGANO, op. cit., I, 209 ss., 226 ss., 241 ss.; RESCIGNO,
Personalità giuridica e gruppi organizzati, cit., 103 ss.; ID., Enti di fatto e persona
giuridica, cit., 119), ovvero, secondo l’art. 1332 c.c., l’«organo . . . costituito per
l’attuazione del contratto» stesso.
VI. - Dalle precedenti osservazioni non consegue solo l’infondatezza della tesi,
che, risolvendo ogni relazione associativa sempre in un rapporto tra singoli associati,
di fatto nega un preciso ruolo agli organi dei gruppi privi di personalità. In esse,
infatti, sono già presenti spunti in grado di avviare a soluzione la questione rimessa
alla Corte costituzionale.
Più precisamente, dal non breve (e pur tuttavia sommario) resoconto delle ipotesi
formulate in dottrina sul contenuto normativo della personalità giuridica può trarsi la
seguente conclusione: la personalità giuridica contraddistingue non più il soggetto di
diritto, quanto piuttosto l’ente che, per l’organizzazione interna e/o per gli oneri di
pubblicità e/o per le modalità di tenuta della contabilità, imposti dalla legge,
assicura, in varia misura, una qualche forma di tutela per i terzi circa la correttezza
(almeno in teoria) della gestione delle attività economiche esercitate, inclusa la
(teorica) rispondenza patrimoniale dell’ente stesso (v., infatti, in teoria generale,
GIANNINI, Diritto amministrativo, cit., 123). A questo livello di genericità la nozione
di persona giuridica può accomunare sia gli enti ex art. 19 ss. c.c., sia quelli
auspicati nei progetti di riforma (cfr. MARICONDA, cit., 76; COSTI, op. cit., 510), sia le
società di capitali, da quelle quotate alle s.r.l. unipersonali. Così, se si vuole
necessariamente tradurre la nozione di persona giuridica in termini di privilegio, si
deve ammettere che il privilegio in realtà assegnato dal riconoscimento è solo
indiretto, nel senso che consiste, non già nell’esenzione da determinate normative o
nell’esclusiva possibilità di svolgere attività economiche, quanto nell’incentivo
indotto sui terzi ad intrattenere relazioni economiche con gli enti riconosciuti
piuttosto che con gli altri, in ragione delle minori asimmetrie informative subite nei
confronti dei primi.
Con il delineato connotato della personalità giuridica, quale suggello di una
maggiore tutela dei terzi, sono a ben vedere coerenti le origini e gli svolgimenti della
teoria generale dell’organo, in quanto strumento di imputazione giuridica di atti ed
effetti in guisa tale da non consentire alla persona giuridica di sottrarsi alle
conseguenze dell’attività posta in essere dai propri esponenti (cfr. SANTI ROMANO,
voce Organi, Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, rist. 1983, 167;
GIANNINI, Organi, voce cit., 40 s.; ID., Diritto amministrativo, cit., 145).
Peraltro, se questo è il (si ripete: vago) connotato tipizzante, che al cader del
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secolo è possibile riconoscere alla qualità di persona giuridica, l’art. 2941, n. 7, c.c.
si rivela, prima ancora che incostituzionale, irrazionale.
La conferma è offerta dalla vicenda processuale alle radici della disposizione. A
Carnelutti, che, nel difendere la società anonima contro i suoi ex amministratori,
richiamava le teoriche meno recenti sulla persona giuridica, assimilandola al minore,
ovvero, più in generale alle «persone che per legge sono sottoposte
all’amministrazione altrui», App. Milano 5 luglio 1932, cit., replicò, facendo propri
stadi successivi della riflessione dottrinale, che «nessuna analogia corre fra la
persona giuridica che agisce per mezzo dei suoi organi rappresentativi e il minore
sottoposto a tutela. La rappresentanza dell’ente non deriva dalla sua incapacità, e la
volontà della rappresentanza non è volontà eteronoma, che si sostituisce a quella
dell’ente» (col. 1565). Del pari, in primo grado, Trib. Milano 17 dicembre 1931,
Foro it., 1932, I, 1504, con nota di MONTEL (che inserisce N. COVIELLO tra gli autori
d’accordo con la decisione: v. invece Manuale di diritto civile italiano, Milano,
1924, 469; sulla sentenza, v. altresì PUGLIATTI, Rappresentanza legale e sospensione
della prescrizione, ora in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, 385 ss.), aveva
osservato che «la dottrina parla nel caso di rappresentanza ex lege di sostituzione
della volontà di una persona con quella di un’altra; ma per la società questa
sostituzione non si verificherebbe, perché il suo volere si identifica con quello
dell’organo, mentre l’incapace, psicologicamente, può avere una volontà, ma
l’ordinamento giuridico non l’utilizza per i fini che esso intende proporsi». Dunque,
quel che per i giudici milanesi degli anni trenta rendeva impossibile estendere alla
società anonima le disposizioni relative al minore o alle «persone per legge soggette
all’amministrazione altrui» era la dualità soggettiva intravista in questi ultimi casi tra
amministrato ed amministratore ed esclusa, invece, nell’ipotesi dell’anonima,
rispetto al suo organo: qui si postulava l’esistenza di un solo soggetto, la persona
giuridica, di cui l’amministratore avrebbe rappresentato il «cervello», la «bocca», la
parte che non si distingue dal tutto.
A questa prospettazione sembra implicitamente aderire il legislatore del 1941,
quando, nel riproporre con l’art. 2941 c.c. le medesime fattispecie del previgente art.
2119, ha aggiunto quella oggi dichiarata incostituzionale. Ciò significa che l’art.
2941, n. 7, c.c. predica un ordinamento, nel quale alla persona giuridica, quale
centro unitario dotato di soggettività (v., infatti, Relazione al re, n. 60), privo della
capacità d’agire se non a mezzo dei suoi organi, si contrappone l’ente non
riconosciuto, non «nuova unità giuridica», ma «contrattuale riunione di più
persone», che, nella loro qualità di effettive titolari delle situazioni giuridiche
astrattamente riferite al gruppo, sarebbero legittimate a far valere le stesse
direttamente, ovvero a mezzo di loro mandatari, contro i quali ciascun mandante
potrebbe sempre agire in ipotesi di inadempimento. Di qui, la non necessità di una
specifica causa di sospensione della prescrizione di tale azione.
Senonché, la precedente analisi ha mostrato come questa impostazione –
modellata, si direbbe, sulla vecchia società civile (cfr. FERRARA, op. cit., 72;
PUGLIATTI, Il rapporto di gestione sottostante alla rappresentanza, ora in Studi, cit.,
spec. 177 s.), ma smentita già dallo stesso art. 38 c.c.: cfr. VOLPE PUTZOLU, op. cit.,
152 – sia sicuramente estranea al diritto vigente: gli enti non riconosciuti sono
autonomi centri di imputazione giuridica, soggetti di diritto distinti dai loro
componenti; sulla rilevanza interna ed esterna della loro organizzazione non vi è
spazio per dubbi; essi esibiscono, quale elemento strutturale necessario, un organo
deputato all’espletamento dell’attività necessaria al conseguimento del loro scopo.
Sono, in altre parole, mutate «le esigenze storiche di politica legislativa», che,
proprio in quanto «relativizzano» la nozione di persona giuridica (v. § 2), ne
determinano le differenze di disciplina con gli enti non riconosciuti (v. già COVIELLO,
op. cit., 207; RUBINO, op. cit., 31). Per questi ultimi, dunque, ha avuto luogo
l’evoluzione che si è voluta intravedere a proposito della comunione: si è proceduto
«dalla pluralità (sciolta, indistinta, numerica), alla collettività (organizzata), al
gruppo (giuridicamente unificato)» (PUGLIATTI, La proprietà, cit., 168 ss.).
Giurisprudenza, dottrina, legislazione, e oggi la Corte costituzionale, hanno segnato
la misura di quest’evoluzione giuridica e storico sociale.
Peraltro, il processo di parificazione degli enti non riconosciuti alle persone
giuridiche rinviene il proprio motivo di fondo nel comune sostrato sostanziale:
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l’origine di tutti gli enti di diritto privato – riconosciuti e no – da un atto di
autonomia, il quale sancisce, da un lato, la pertinenza a tutti i componenti del gruppo
dello scopo e degli interessi perseguiti dall’ente, e dall’altro lato la natura
strumentale dell’ente stesso alla realizzazione dei fini propri dei membri (cfr. Cass.
26 ottobre 1995, n. 11151, Foro it., Rep. 1995, voce Società, n. 607, e Giur. comm.,
1996, II, 329, con note di JAEGER, ANGELICI, GAMBINO, COSTI, CORSI; nonché di
GALGANO, in Contratto e impresa, 1996, 1).
Tutto ciò è stato colto dalla dottrina, quando, in sede di approfondimento del
contratto associativo – superati i dubbi (BASILE, op. cit., 3; VINCENZI AMATO,
Associazione e tutela dei singoli, Napoli, 1984, 144 ss.) sulla sussistenza del
requisito della patrimonialità negli «accordi» di cui all’art. 36 c.c. (cfr. VOLPE
PUTZOLU, op. cit., 19 ss.; EROLI, op. cit., 101 ss.): il perseguimento di qualsiasi scopo
«ideale» comporta l’impiego di risorse! – ne ha posto in risalto il momento
esecutivo, caratterizzato dall’attività svolta in comune dalle parti «sia, mediante
un’unitaria organizzazione, nei rapporti interni, sia attraverso l’unitaria
rappresentanza del gruppo nei rapporti esterni» (GALGANO, Diritto civile e
commerciale, cit., II, 1, 268; e v. già ASCARELLI, op. cit., 134 ss.). In questa
prospettiva – l’unica corretta, in quanto, si ripete, fondata sul dato sostanziale
dell’ente, della sua organizzazione e della sua attività quale espressione strumentale
degli interessi e degli scopi fissati nell’atto di autonomia a base dell’ente stesso,
riconosciuto o no – l’amministratore non si configura mai (o, se si preferisce, non si
configura più) come il mandatario dei singoli componenti, ma assume rilevanza in
quanto elemento essenziale del contratto associativo, l’organo necessario per
l’attuazione del contratto (l’inciso dell’art. 1332 c.c. relativo alla sua eventuale
mancanza va riferito ai contratti aperti all’adesione di terzi, ma non associativi), per
il conseguimento dello scopo comune (e v., infatti, la dottrina, cit., in fine del § V).
Risulta, in proposito, ancora prezioso il contributo di PUGLIATTI, op. cit., 187 s.:
egli pose in luce come il rapporto sostanziale tra l’amministratore e i componenti del
gruppo, sia esso munito di formale riconoscimento o no, consista sempre in una
«rappresentanza di interessi» del gruppo da parte del primo: «il rappresentante della
collettività agisce in vista della realizzazione del fine per cui il gruppo si è costituito,
e vincola il patrimonio destinato a quel fine». Merita qui sottolineare che ciò avviene
anche quando, per la natura dell’ente (società in nome collettivo), ovvero a seguito
degli accordi dei componenti (associazione non riconosciuta, società semplice),
ciascun aderente sia legittimato ad agire per il conseguimento dello scopo comune:
in tali ipotesi, infatti, viene perseguito un interesse condiviso dal gruppo e non
esclusivo dell’agente. Si profila così un preciso rapporto di gestione tra chi agisce e
gli altri componenti, che non è circoscritto ad atti determinati, ma si estende alla
complessiva attività volta al perseguimento dello scopo comune: di qui il divieto di
utilizzare le risorse comuni per fini estranei a quelli del gruppo (art. 2256 c.c.); di
qui la responsabilità verso il gruppo in ordine alla complessiva gestione (art. 2260
c.c.); di qui l’imputabilità al gruppo non dei soli negozi, ma della complessiva
attività, con connessa estensione della responsabilità civile (Cass. 4 aprile 1998, n.
3512, Foro it., Mass., 372; GALGANO, op. cit., 389; BASILE, op. cit., 9).
Questo rapporto di gestione – proprio perché fondato sul comune dato sostanziale
del contratto associativo – si configura come assolutamente omogeneo, sia che
intercorra tra l’amministratore ed un gruppo la cui organizzazione abbia ottenuto il
formale riconoscimento della personalità giuridica, sia che detto riconoscimento non
sia intervenuto: questo dato è espresso dal – e, ad un tempo, ispira il – costante
rinvio alle norme sul mandato quale parametro normativo del rapporto tra
amministratori e gruppo (art. 18, 2260, 2392, 2608 c.c.).
Dubbi sul rapporto gestorio qui messo a fuoco, sulla sua configurazione, possono
filtrare dal versante delle persone giuridiche, dove nell’ultimo scorcio di secolo non
sono mancati esempi di frattura tra contratto associativo e organizzazione societaria,
vuoi per quanto riguarda la fonte di quest’ultima, vuoi con riferimento alla disciplina
dell’imputazione al gruppo dell’attività dei rappresentanti. Sotto il primo profilo (sul
quale v. anche, per riferimenti, ANGELICI, Società in generale (appendice), voce del
Digesto comm., Torino, 1997, XIV, 267 ss.), la rappresentanza di interessi,
intravista a base del rapporto gestorio in discorso, sussiste almeno fino a quando
all’organizzazione societaria venga conservata la natura di strumento per la
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realizzazione di interessi privati, o comunque autoreferenziali, fino a quando, in
altre parole, non si profilino (nihil sub sole novi) ipotesi di funzionalizzazione. Ma,
in questo caso, giustamente ci si chiede se con la parola «società» non si designi una
«cosa» diversa da quella finora chiamata così (ibid., 269).
Sotto il secondo aspetto sopra evidenziato, è agevole constatare che il suddetto
rapporto di gestione emerge anche all’esterno, nei rapporti tra enti privati
riconosciuti e terzi: invero, l’imputazione dell’attività dell’organo alle persone
giuridiche private non è assoluta, ma circoscritta ai poteri in effetti conferiti e
pubblicizzati (art. 19 c.c.: Cass. 9 aprile 1990, n. 2965, Foro it., Rep. 1990, voce
Persona giuridica, n. 7), con la possibilità di eccepire l’eventuale conflitto di
interessi dell’organo (Cass. 24 febbraio 1998, n. 1998, Corriere giur., 1998, 665,
con nota di FICI; Trib. Milano 20 ottobre 1997, Giur. it., 1998, I, 965; Cass. 19
settembre 1992, n. 10749, Foro it., Rep. 1993, voce Rappresentanza nei contratti,
n. 9; 1° febbraio 1992, n. 1089, id., 1992, I, 2139, con osservazioni di LENOCI), o la
rappresentanza apparente (Cass. 19 settembre 1995, n. 9902, id., Rep. 1996, voce
cit., nn. 10-12), secondo moduli non dissimili da quelli propri della rappresentanza
volontaria (Cass. 21 agosto 1996, n. 1625, id., 1996, I, 3355; 10 novembre 1994, n.
9381, id., Rep. 1995, voce cit., n. 10) e condivisi dalla rappresentanza commerciale
(Cass. 1° ottobre 1997, n. 9594, id., Rep. 1997, voce cit., n. 16; Trib. Cagliari 27
giugno 1995, id., Rep. 1996, voce cit., nn. 15-16; App. Milano 25 giugno 1993, id.,
Rep. 1995, voce cit., nn. 22-25; Cass. 19 febbraio 1993, n. 2020, id., 1994, I, 159,
con osservazioni di DONATIVI) e dagli enti non riconosciuti (App. Roma 22 febbraio
1996, id., 1997, I, 1612; Cass. 24 giugno 1995, n. 7166, id., Rep. 1995, voce
Società, n. 653). La sola eccezione apparentemente configurabile (art. 2384 e 2384
bis c.c.: Cass. 6 febbraio 1993, n. 1506, id., 1994, I, 165, con osservazioni di
NAZZICONE) è finalizzata, oltre che a tutelare i terzi, a consentire una piena
operatività mercantile alle società di capitali, ad agevolare il traffico economico, e,
comunque, si discute dell’incidenza degli art. 2383, 6° comma, e 2457 ter c.c.
sull’art. 2384 c.c. onde consentire alla società di opporre al terzo l’eventuale difetto
di potere rappresentativo dell’organo (cfr. Cass. 1° dicembre 1995, n. 12420, id.,
Rep. 1996, voce cit., n. 647, e Giust. civ., 1996, I, 1355, con nota di VIDIRI, cui si
rinvia per riferimenti).
Tutto ciò, ovviamente, non autorizza l’equiparazione tra rappresentanza
volontaria e rappresentanza degli enti privati (v., infatti, SPADA, op. cit., 227), ma
segnala che i due fenomeni non appartengono a «mondi» diversi. Piuttosto, la
matrice contrattuale, la «rappresentanza di interessi» di persone fisiche per essa
realizzata – se rende ragione sia di taluni forti rifiuti della prospettazione
tradizionale (D’ALESSANDRO, op. cit., 129 s.), sia dei tentativi di tracciare itinerari
comuni ai due tipi di rappresentanza sopra menzionati (TASSINARI, La
rappresentanza delle società di persone, Milano, 1993) – per altro verso sgancia le
persone giuridiche private da quelle pubbliche e non rende possibile un’automatica
estensione alle prime delle teoriche elaborate per le seconde, ivi comprese quelle
sull’organo, sensibili, da un lato, all’esigenza di ridurre quanto più possibile
l’alterità giuridica tra lo Stato, la persona giuridica pubblica ed i suoi agenti
(MARONGIU, Organo e ufficio, voce dell’Enciclopedia giuridica Treccani, Roma,
1990, XXII), e dall’altro lato all’esigenza di tutelare i destinatari dell’azione dei
poteri pubblici nel senso che si è già accennato: esigenze entrambe destinate a
rafforzare la c.d. immedesimazione organica e, quindi, a disconoscere la
meritevolezza di tutela dell’ente, che nel caso di società, associazioni e fondazioni si
risolverebbe in un assoluto diniego di tutela per l’interesse dei privati che ad esse
fanno capo (l’ulteriore riflessione sulla materia mi induce a precisare nei termini quì
riferiti talune affermazioni formulate in La scrittura privata tra rappresentanza
organica e volontaria, in Foro it., 1998, I, 524, le cui conclusioni, nel segno di una
disciplina processuale analoga di rappresentanza organica e volontaria, sono,
peraltro, confermate dallo studio odierno).
La rilevata circostanza che ciò non avviene, che il rapporto gestorio tra la persona
giuridica privata ed il suo organo assume rilevanza anche nei confronti dei terzi, che
– secondo le parole di un autore lontano per impianto dogmatico dai rilievi qui
formulati – «la personalità giuridica non pone la società al di fuori dei soci in un
piano superiore e diverso, non la estrania dai loro particolari interessi» (G. FERRI,
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Fideiussioni prestate da società, oggetto sociale, conflitto di interessi, in Banca,
borsa, ecc., 1959, II, 27 ss., spec. 37), tutto ciò, si diceva, allontana l’organo della
persona giuridica privata dal suo omologo di diritto pubblico e, al tempo stesso, ne
favorisce l’accostamento all’amministratore, all’organo dell’ente di fatto.
A ridurre ad unità i molteplici aspetti della problematica in esame vale osservare
che nella medesima direzione si colloca l’ormai ammessa soggettività giuridica degli
enti non riconosciuti. In sede di teoria generale (GIANNINI, Diritto amministrativo,
cit., 131 ss.), sul presupposto della negata idoneità di tali enti ad essere centri di
imputazione di atti, situazioni ed effetti giuridici (ibid., 140), è stata elaborata la
distinzione tra officium («strumento dell’agire giuridico degli enti di fatto») ed
organo (meccanismo per l’imputazione di fatti ed effetti alla persona giuridica).
Come si è anticipato, questa distinzione, ed in particolare la figura dell’officium,
costituisce la diretta e coerente conseguenza del ritenuto difetto di capacità giuridica
dei c.d. enti di fatto: più precisamente, una volta escluso che, a causa del mancato
riconoscimento, a tali enti potessero imputarsi atti ed effetti giuridici, si è delineata
la necessità di configurare un tertium genus tra il rappresentante e l’organo,
caratterizzato dal fatto che «esso imputa a sé stesso atti ed effetti» (ibid., 148).
Senonché, venuta meno la premessa, cade l’esigenza di un’ulteriore figura
soggettiva.
A questo punto, la fondamentale analogia dei meccanismi di imputazione
giuridica tra enti privati riconosciuti ed enti privi di riconoscimento si intravede con
chiarezza: «il concetto di organo è ormai disancorato da quello di persona giuridica e
vale per ogni organizzazione collettiva con attività esterna, anche se non elevata al
rango di persona giuridica» (GALGANO, op. cit., 389; GIAMPIERI, Organo della
persona giuridica, voce del Digesto civ., Torino, 1995, XIII, 189 ss.; e v. già
ROMANO, op. cit., 150 ss., ma per motivi diversi da quelli qui esposti; contra, BASILE,
voce cit., 7).
In pari tempo, si comprendono i motivi dell’irrazionalità dell’art. 2941, n. 7, c.c.:
la norma pretende di diversificare la decorrenza dei termini di prescrizione
dell’azione di responsabilità – dunque, un aspetto strettamente inerente al rapporto
di gestione, interno, tra amministratori e gruppo – sulla base di qualità (quelle di
persona giuridica, di organo e dei rapporti tra loro), delle quali la prima ha ormai
una qualche sua specificità non nel rapporto interno, ma esclusivamente nei rapporti
esterni, vale a dire nei rapporti tra il gruppo, la sua organizzazione ed i terzi, mentre
le altre sono condivise da persone giuridiche ed enti non riconosciuti (v. quanto
appena osservato a proposito della rappresentanza organica) e non possono, dunque,
giustificare una disparità di trattamento. La rilevata irrazionalità si traduce
nell’incostituzionalità della disposizione per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte
in cui detta una disciplina diversa per rapporti sostanzialmente omogenei: quelli tra
ente, gruppo organizzato per il conseguimento dello scopo del contratto associativo
e l’organo designato per l’attuazione dello stesso.
GIOACCHINO LA ROCCA
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Vai a: sentenza, nota a sentenza
Voci e sottovoci Repertorio:
Prescrizione e decadenza [5110]
Persona giuridica
Autore: Gioacchino La Rocca
Titolo: L’«evaporazione» della persona giuridica innanzi alla Corte costituzionale.
Giudicante: CORTE COSTITUZIONALE; sentenza, 24-07-1998, n. 322
(Gazzetta ufficiale, 1ª serie speciale, 29 luglio 1998, n. 30);
Magistrati: Pres. Granata, Est. Marini
Parti e avvocati: Soc. Ge. Col. (Avv. Paoli) c. Romaldi.
Giudizio precedente: Ord. Cass., sez. I, 5 novembre 1996-12 febbraio 1997, n. 127
(G.U., 1ª s.s., n. 16 del 1997).
Nella rivista: anno 1998, parte I, col. 2617
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--- Note ---
(*) In ricordo di Carlo Scialoja.
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