NOTA A SENTENZA: Diritto a non nascere: essere o non essere e “ricerca della felicità”. Corte di Cassazione, sezione III civile; 29 luglio 2004 n.14488 Il sanitario, seppure in colpa per non avere fatto effettuare i dovuti esami onde accertare il pericolo di malformazioni del nascituro, non risponde dei danni nei confronti del minore malformato per non avere la madre optato, stante l’ignoranza del rischio, per l’interruzione volontaria della gravidanza, non essendo concepibile nel nostro ordinamento un diritto a non nascere del minore malformato. 1.Premessa. La sentenza che ci accingiamo a commentare rappresenta la prima pronuncia della nostra S.C. che prende posizione sul delicato problema della c.d. wrongful life, ovvero la vita ingiustificata, o presunta tale, di colui il quale, omesso l’accertamento diagnostico circa la malattia fetale da parte del medico, sia nato malformato, e come tale abbia dovuto trascorrere l’intera sua esistenza. Come ormai ben noto, esistono tre fattispecie di nascite potenzialmente generatrici di responsabilità civile, ognuna di esse coniate con terminologia di derivazione anglosassone; oltre a quella già citata, abbiamo l’ipotesi della c.d. wrongful birth e quella della c.d. wrongful conception: la prima si verifica allorché siano i genitori a chiedere il risarcimento del danno, patrimoniale e non, nel caso di nascita di figlio malformato ed omesso accertamento diagnostico circa la malattia fetale; il secondo si verifica invece qualora il bambino sia sano, ma non sia voluto, in quanto concepito, per esempio, nonostante un intervento di sterilizzazione, fallito per responsabilità medica, che aveva per l’appunto il fine di impedire il concepimento. In tema di wrongful conception la giurisprudenza di merito italiana1 ha stabilito recentemente che “in caso di gravidanza della donna, che si è sottoposta a intervento chirurgico di sterilizzazione (rivelatosi inefficace), il medico è responsabile della nascita non desiderata del figlio e deve risarcire, alla donna, il danno biologico per inabilità temporanea parziale e, a entrambi i genitori, il danno patrimoniale riferito alle spese sostenute in occasione del parto, nonché agli oneri di mantenimento del figlio”. Nella stessa occasione si è affermato che “nella quantificazione di detto danno, peraltro, vanno anche valutati i vantaggi materiali che ai genitori possono verosimilmente derivare dalla nascita del figlio, atteso che, per legge, i figli devono collaborare alla vita familiare secondo le proprie forze, mentre non può escludersi che i genitori possano addirittura vantare un diritto al mantenimento o diventarne eredi”. Ancor prima2 si era giunti alla conclusione che “la scorretta esecuzione dell'intervento di sterilizzazione ha leso il diritto alla procreazione cosciente e responsabile: diritto che trova il proprio referente nell'art. 13 cost. che riconosce la libertà di autodeterminarsi anche in ordine ad atti che coinvolgono il proprio corpo. La sua lesione, in quanto lesione di un diritto assoluto, à apprezzabile ai sensi dell'art. 2043 c.c. e consente, tanto al singolo quanto alla coppia, il diritto di 1 Tribunale Venezia, 10 settembre 2002, Giust. civ. 2003, I, 2597, note Giacobbe e Baldassarri, Resp. civ. e prev. 2003, 117 nota Gorgoni, Gius. 2003, 226. 2 Tribunale Milano, 20 ottobre 1997, Resp. civ. e prev. 1998, 1144 nota Gorgoni. ottenere il risarcimento del danno per la lesione in sè che viene liquidato equitativamente, adottando come parametri di riferimento, per un verso, l'entità del ristoro del danno morale, comunemente riconosciuto per lesioni gravissime o per la perdita dei congiunti, per altro, del risarcimento solitamente liquidato nei casi di lesione dei diritti all'immagine o alla reputazione. Sono risarcibili altresì le conseguenze pregiudizievoli costituite non già dal costo del mantenimento del figlio, ma dall'impossibilità per i genitori di spendere, a proprio esclusivo vantaggio, secondo il modello di vita che si erano prefigurati, parte dei propri redditi”. Dunque il diritto alla procreazione cosciente e responsabile assurge oggi, nel nostro ordinamento, a nuovo diritto della personalità tutelato ex art.2 Cost. in quanto diritto inalienabile dell’uomo, ed il relativo danno non patrimoniale, vista la recente -ed epocale- svolta della nostra Corte Costituzionale3 in tema di interpretazione dell’art.2059 c.c., sarà risarcibile anche qualora la fattispecie sia priva di rilevanza penale. Anche in tema di wrongful birth la giurisprudenza italiana si è pronunciata in via consolidata per il riconoscimento della risarcibilità del danno; in particolar modo quella di merito ha stabilito che sussiste la responsabilità diretta, sia contrattuale che aquiliana, dell’ente ospedaliero per violazione dell’obbligo di informazione ove sia commesso un grave errore di interpretazione nella lettura di un esame diagnostico, consistente nella mancata individuazione di gravi malformazioni del nascituro, che abbiano impedito l’esercizio della facoltà di interruzione volontaria della gravidanza.4 Tuttavia è stato anche affermato che il danno sussiste solo qualora, al momento in cui viene posto in essere il comportamento omissivo, ricorrano le condizioni prescritte dalla legge 1978 n.194, con particolare riferimento al passaggio dei 90 giorni dal concepimento che determina il venir meno della facoltà di interrompere volontariamente la gravidanza, a meno che non si sia in presenza di pericolo non solo serio, ma grave, per la salute psico-fisica della donna.5 La giurisprudenza di legittimità ha successivamente confermato il su citato orientamento, precisando che il diritto di entrambi i genitori al risarcimento, patrimoniale e non, esiste qualora sussistano tutti gli elementi previsti dalla legge perché la gestante possa esercitare il diritto all’interruzione della gravidanza e risulti provato che la stessa, se fosse stata esattamente informata dal medico sulle malformazioni del feto, avrebbe effettivamente esercitato tale diritto.6 Anche nel resto d’Europa non sembrano esserci dubbi tra i giudici circa la riconoscibilità del diritto al risarcimento del danno da wrongful birth: in Francia innanzitutto è stata riconosciuta nella fattispecie in questione una perdita di chance7, ovvero la perdita per la madre della possibilità di optare per l’interruzione volontaria della gravidanza; ancora in Germania, sulla falsariga dell’orientamento italiano, è stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale8, consistente in tutti gli oneri economici gravanti sui genitori ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di 3 Corte Cost. 11 luglio 2003, n.233, in Danno e Resp. n.10/2003, pag.939 ss., note Bona, Cricenti, Ponzanelli, A.P.Mirabelli, Troiano; v. anche Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827, Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828, Giur. it. 2004, 1129, nota Bona. 4 Tribunale Bergamo, 2 novembre 1995, in Danno e resp. n.2/1996, pag.249, nota Palumbo. 5 Tribunale Roma, 13 dicembre 1994, in Dir. di fam. e delle persone, 1995, pag.1474 ss. nota Dogliotti. 6 Cass. civ., Sez. III, 1° dicembre 1998 n.12195, in Foro it., 1999, I, pag.77 ss.; Cass. civ., Sez.III, 24 marzo 1999, n.2793, in Foro it., 1999, I, pag.1804 ss., nota Palmieri; Cass. civ., Sez. III, 10 maggio 2002, n.6735, in Foro it., 2002, pag.3115 ss., nota Simone. 7 App.Paris, 17 febbraio 1989, in Dallaz, 1989, Jurisprudence, pag.316; Trib. Gr. Inst. Montpellier, 15 dicembre 1989, in Sem.jur.,1990, Jurisprudence, n.21556; App. Versailles, 8 luglio 1993, in Dallaz, 1995, Somm., pp.98-99. 8 BGH, 18 gennaio 1983, in Juristenzeitung, 1983, pag.448; BGH, 4 marzo 1997, in FamRZ, 1997,pag.669; BGH, 7 luglio 1987, in Versicherungsrecht, 1988, pag.155. mantenimento, nonché di quello non patrimoniale9, qualora la donna provi che, se adeguatamente informata, avrebbe deciso di interrompere la gravidanza. In Italia e in quegli ordinamenti pertanto si è ritenuto che l’ostacolo concettuale, consistente nel dover identificare la vita, da sempre considerata come protetta in quanto valore non solo religioso, ma anche giuridico, come danno, non rappresentasse un impedimento insormontabile ai fini del riconoscimento del risarcimento del danno, poiché, si è affermato, il danno risarcibile non è la nascita in sé, ma l’onere economico inevitabilmente correlato ad un evento non programmato ( in ipotesi di wrongful conception) e più in generale quello derivante dalla lesione di un nuovo diritto della personalità: il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile. E’ stato detto che “tanto risulta difficilmente contestabile in un ordinamento giuridico che ammette la sterilizzazione volontaria e l’aborto, riconoscendo la capacità di procreare come bene disponibile da parte del singolo e la fecondità come bene solo in quanto il titolare dimostri verso di esso un interesse, poiché, in una società pluralistica è incontestabile una libertà di procreazione: non volere figli o altri figli è una coscienza rimessa al privato, come quella, di pari effetto, dell’uso dei contraccettivi”. Ciò viene ribadito concludendo che “né si può, sulla scia di falsi moralismi, confondere il bene della vita legato alla nascita (che è sempre un evento positivo) con la possibilità ( o meglio con il diritto riconosciuto dall’ordinamento) di scegliere se diventare genitori o meno”.10 Dunque è alla presenza di tali precedenti giurisprudenziali e posizioni dottrinali che la nostra Cassazione, nella sentenza in commento, si pone un ulteriore, ed ancor più drammatico, problema: quello dell’esistenza di un diritto a non nascere, ovvero il diritto del soggetto nato malformato, in seguito ad omesso accertamento medico della malattia fetale, al risarcimento, per responsabilità medica, del danno consistente nella sua vita “ingiusta” o c.d. wrongful life; nella sua vita disabile che poteva essere evitata qualora il medico avesse informato la madre dell’inevitabile malformazione, e qualora questa, in conseguenza di ciò, avesse deciso di interrompere la gravidanza; una vita considerata qui come danno non perché non voluta, bensì perché infelice; ma soprattutto una vita considerata tale non dai genitori, ma, ed è il punto fondamentale, dal diretto interessato. Una sentenza che ha alle proprie spalle altresì il famoso precedente giurisprudenziale francese noto come “affaire Perruche”11, nel quale le Sezioni Unite della Suprema Corte d’oltralpe sancirono, per 9 OLG Celle, 9 marzo 1987, in Versicherungsrecht, 1988, pag.965. U.Ruffolo,“Un bambino non voluto è un danno risarcibile?”, a cura di A.D’Angelo, Milano, Giuffrè, 1999, pag.88-89. 11 Cour De Cassation, Assemblee plènière, 17.11.2000, in Gazette du Palais, 2001, pag.37 ss. e in Semaine Juridique, 2000, , pag. 2293 ss. ; in tema Chiessi, “Diagnosi prenatale e risarcimento del danno a favore del bambino nato handicappato”, in Familia, 2003, I, 167; Adezati, “Dalla disgrazia al danno: come risarcire chi nasce con l’handicap? L’arte di giudicare della Cassazione francese nell’Affaire Verruche”, in “Dalla disgrazia al danno”, a cura di Braun A., Milano, Giuffrè, 2002, pag.369; Alpa G., l’Affaire Perruche, “Dalla disgrazia al danno”, op. cit., pag.359; Bacchini, “Il diritto di non esistere”, Milano, McGraw-Hill, 2002; Busnelli F.D., Postilla, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2001, pag.215; Carbone V., “Un bambino che nasce minorato ha diritto al risarcimento per nascita indesiderata?”, in Famiglia e diritto, 2001, I, pag.97; Cayla O. e Thomas Y., “Il diritto a non nascere”, Giuffrè, Milano, 2004; Gorgoni M., “Nascere sani o non nascere affatto: verso un nuovo capitolo della storia della naissance d’enfants sains non desirès”, in Danno e Responsabilità, n.5/2001, pag.475; Guarnieri, “Nascita di figlio malformato, errore diagnostico del medico e regola di responsabilità civile”, in Rivista di diritto civile, 2002, pag.849; Liserre A., In tema di danno prenatale, in Rivista di diritto civile, 2002, I, pag.97; Palmerini E., “Il diritto a nascere sani e il rovescio della medaglia: esiste un diritto a non nascere affatto?”, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2001, pag.209; Picker E., Il danno della vita, Milano, Giuffrè, in Derive, 2004; Princigalli A.M., “Nascere infermo o non nascere: quale tutela per il nuovo nato?”, in Rivista critica di Diritto Privato, 2001, pag.675. 10 le motivazioni che più avanti vedremo, l’esistenza del diritto a non nascere e perciò la risarcibilità del danno conseguente alla sua lesione. Una sentenza avente ad oggetto un autentico dilemma che, prima ancora di investire problematiche giuridiche, pone al giurista interrogativi propri di ogni uomo, in quanto coinvolgenti il senso stesso dell’esistenza umana, e di fronte ai quali ogni tentativo di offrire risposte certe e prive di qualsiasi beneficio del dubbio è destinato probabilmente a fallire inesorabilmente. 2.Il nesso di causalità. La sentenza in commento indica tra i motivi di inesistenza del diritto al risarcimento del danno da wrongful life innanzitutto la mancanza di nesso di causalità tra la condotta omissiva colposa del medico e la malattia (talassemia eterozigote), la quale, si afferma, non è addebitabile al sanitario in quanto, secondo le attuali conoscenze della scienza medica, comunque, seppur accertata, essa non sarebbe stata suscettibile di estirpazione. Cosa diversa, sempre secondo la S.C., sarebbe stata se la malattia fosse stata causata da un comportamento colposo e commissivo, oppure se l’omissione avesse impedito un possibile intervento risolutivo; infatti “con il contratto di prestazione professionale tra la gestante ed il medico (generalmente ostetrico-ginecologico), questi si obbliga non soltanto a prestare alla stessa le cure e le attività necessarie al fine di consentirle una corretta gestazione, ma altresì ad effettuare, con la dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto, sì da garantirne la nascita, evitandogli -nei limiti consentiti dalla scienza- qualsiasi possibile danno” La motivazione è analoga a quella adottata anche dalla Corte d’Appello di Parigi12 nel celeberrime caso Perruche, e dalla meno recente giurisprudenza inglese,13 ed è stata oggetto, con riferimento a quella controversia, di diverse prese di posizione dottrinali favorevoli e contrarie: tra quest’ultime alcuni hanno contestato siffatta argomentazione liquidando la questione col dire che “occorre rivisitare il profilo del nesso di causalità, depotenziandone il rilievo, nella consapevolezza ormai risalente che spesso esso è un mero strumento tecnico, posto al servizio di scelte di policy, aliunde assunte e, come tale, ampiamente manipolabile”14. Più interessante sembra altro pensiero, il quale, ravvisando nell’errore medico quantomeno una concausa, afferma l’impossibilità di negare che la carenza o l’inesattezza delle informazioni incidano quanto meno indirettamente anche sugli interessi del feto, che, per effetto della carenza o della inesattezza delle informazioni, viene alla luce “nell’unica condizione in cui avrebbe potuto vivere, cioè affetto da handicap”.15 Tra i favorevoli si sostiene invece che, l’opinione secondo cui -il nesso di causalità possa essere ravvisato tra la colpa dei medici e la circostanza, riferibile al bambino, di essere nato menomato, mentre proprio in ragione della menomazione, se fosse stata tempestivamente diagnosticata, egli poteva non nascere- sotto il profilo strettamente giuridico è censurabile in quanto il nesso di causalità è interrotto in virtù della “libertà inalienabile” della donna di decidere, in presenza dei presupposti stabiliti dalla legge, se interrompere o meno la gravidanza.16 Altri ancora affermano che “è agevole rispondere che per colpa del medico il bambino non nasce affatto disabile, semplicemente nasce, e che quindi il danno eventualmente risarcibile non potrebbe prescindere dalla valutazione della non-vita come punto di riferimento”.17 12 App. Paris, 17 dicembre 1993, in Dallaz, 1996, Jurisprudence, pag.35; Mckay v. Essex Area Health Authority, 1975. 14 A,Guarnieri, op. cit., pag.866. 15 G.Alpa, “L’affaire Perruche”, in “Dalla disgrazia al danno”, a cura di A.Braun, Milano, Giuffrè, 2002, pag.366. 16 F.D.Busnelli, “Postilla”, in Nuova Giur. Civ. Commentata, I, 2001, pag.216. 17 “Un bambino non voluto è un danno risarcibile?”, a cura di A.D’Angelo, Milano, Giuffrè, 1999, pag.175. 13 La Corte di Cassazione francese nel decidere in assemblea plenaria il caso Perruche stabilì che “dès lors que les fautes commises par le mèdecin et le laboratoire dans l’exècution des contrats formès avec M.me X avaient empèchè celle-ci d’exercer son choix d’interrompre su grossesse afin d’èviter la naissance d’un enfant atteint d’un handicap, ce dernier peut demander la rèparation du prèjudice rèsultant de ce handicap et causè par les fautes retenues”(Atteso tuttavia che, dal momento che la condotta colposa imputabile al medico e al laboratorio nell’esecuzione dei contratti stipulati con la signora X aveva impedito a quest’ultima di esercitare la propria scelta di interrompere la gravidanza al fine di evitare la nascita di un figlio affetto da handicap, quest’ultimo può chiedere il risarcimento del danno derivante da questo handicap e legato casualmente alle condotte accertate). Nella dottrina francese la maggior parte degli autori criticarono duramente la posizione della Cour de Cassation18, ma vi fu anche chi la condivise sulla base della possibilità che la madre, in assenza dell’errore medico, scegliesse di abortire evitando al nascituro di dover affrontare una vita disabile.19 In ogni caso, possiamo ritenere che l’affermazione secondo cui, non esiste un efficacia di nesso causale tra la condotta colposa del medico e la malattia, sia impossibile da superare: ciò perchè la malattia, anche se tempestivamente accertata, non sarebbe stata estirpabile; nè il requisito del nesso causale può essere liquidato giudicandolo uno strumento della politica del diritto plasmabile a piacimento secondo le esigenze ed opportunità, in quanto, così facendo, si rischierebbe di estendere oltre misura le fattispecie potenzialmente generatrici di responsabilità, nonché di far dipendere il loro accertamento dal sentire metagiuridico dell’operatore pratico. La diversa opinione che fa leva sull’incidenza quantomeno indiretta dell’errore medico sugli interessi del feto ci appare maggiormente condivisibile dal momento che, come noto, la teoria della causalità non è unica ed unitaria, ma oltre la prevalente teoria della causalità adeguata (per cui è rilevante solo la causa preponderante, ovvero nel caso di specie la rosolia) esiste la diversa teoria definita usualmente come della prossimità delle cause (per cui è rilevante solo l’ultima causa), nonché infine la teoria c.d. dell’equivalenza delle condizioni ( per cui fra tutti i possibili fattori solo quello senza il quale il danno non si sarebbe prodotto, è da ritenersi causale). Ebbene, accogliendo quest’ultima teoria si potrebbe affermare che, senza l’omissione colposa de qua, il danno non si sarebbe verificato in quanto la donna avrebbe abortito (ovviamente ciò presuppone che sussista la prova di quest’ultima circostanza, come per esempio una dichiarazione della donna in tal senso sottoscritta prima degli esami clinici). Tuttavia, a ben vedere, che comunque un nesso di causalità sussista nella fattispecie in esame è agevolmente dimostrabile anche adottando la teoria della causalità adeguata, che richiede un rapporto di causalità immediato e diretto: infatti esso intercorre indubbiamente -anche nell’ipotesi di assenza di prova che la donna, adeguatamente informata, avrebbe abortito- tra l’errore medico e la perdita di chance del nascituro che la donna optasse conseguentemente per l’interruzione di gravidanza. Non un nesso causale tra la condotta medica colposa e la vita disabile dunque, ma piuttosto un nesso causale tra la prima e la perdita di chance del nascituro. Del resto la giurisprudenza italiana, anche se suscitando le reazioni contrarie di parte della dottrina20, ha ormai 18 V.per es. Aynès, D.Mazeaud, Rade, Seriaux, “Prèjudice de l’enfant né handicapè: la plainte de Job devant la Cour de Cassation”, in Dallaz, 2001, pag.495. 19 Jourdain, in Dallaz, 2001, pag.336 ss.. 20 Busnelli, Foro it., 1965, IV, 50; a favore invece della risarcibilità Monateri, La resp.civ., Tr. Sacco, 586; Bocchiola, R.trim. 1976, 55 ss.; Bianca, La responsabilità, Milano, Giuffrè, 1994, pag. 161 ss.. da tempo riconosciuto l’ammissibilità della responsabilità per perdita di una chance:21 ben può essa costituire interesse meritevole di tutela e la natura di semplice chance inciderà non sulla meritevolezza di tutela, quanto piuttosto sulla quantificazione monetaria del danno, che conseguentemente sarà minore. Censurabile allora è anche l’orientamento della nostra Cassazione e di quella tedesca, che subordinano la risarcibilità del danno c.d. da wrongful birth alla prova che la donna, adeguatamente informata, avrebbe abortito, in quanto, qualora essa mancasse, nessuno mai potrebbe fornire la prova contraria all’esistenza comunque di una perdita di chance che invece la legge le garantiva, al pari della facoltà di ritornare, in tempo utile ex lege ovviamente, sui propri passi ripensando alla propria decisione. Che poi la perdita di chance sia non solo della donna, ma anche del nascituro, potrebbe facilmente desumersi dalla natura di contratto con efficacia protettiva nei confronti di terzi (il padre e, per l’appunto, il bambino) che riveste il contratto di consulenza genetica stipulato dalla madre con il medico, salvo però quanto diremo più avanti in ordine a quest’ultimo istituto. Dunque, in conclusione, il requisito del nesso causalità non appare ai nostri occhi un ostacolo al riconoscimento della risarcibilità del danno da wrongful life, e la contraria opinione espressa nella sentenza in commento ci sembra più che altro il frutto di un ragionamento affrettato indotto da un esame della fattispecie prima facie. 3.L’aborto eugenetico. La S.C. afferma quindi l’inesistenza nel nostro ordinamento del c.d. aborto eugenetico, ovvero l’inesistenza di una facoltà automatica della donna di optare per l’interruzione della gravidanza ogni qual volta sia accertata l’esistenza di una malformazione fetale; infatti, affermano i giudici, la legge 194 del 1978 prevede tale facoltà solo qualora vi sia il pericolo serio di lesioni alla integrità psico-fisica della donna; la malattia fetale, in altri termini, non rileva di per sé, ma in quanto causi alla madre conseguenze dannose per il suo fisico o per la sua psiche, che nel caso di specie non sarebbero state provate dai ricorrenti. L’ordinamento italiano si distinguerebbe così da quello francese, laddove la legislazione vigente in materia non condiziona la facoltà di abortire al pericolo di una lesione psico-fisica per la donna in conseguenza del parto, ma ove “sembra che sia la legge stessa a riconoscere che la nascita di un handicappato sia un danno”. Ma l’aspetto probabilmente più significativo di questo capo della sentenza è l’affermazione della S.C. che perciò in Italia non esisterebbe un diritto di abortire, bensì una mera facoltà esercitabile in presenza di determinate circostanze prescritte dalla legge -il pericolo serio per la salute della donnache fungono da vere e proprie scriminanti; prova ne sarebbe che, in assenza, l’interruzione volontaria della gravidanza continua a costituire reato. Incidentalmente dunque la Corte affronta un altro tema di grande interesse sociale, oltrechè giuridico, ovvero l’interpretazione della legge sull’aborto, con particolare riferimento al requisito del pericolo almeno serio per la salute della donna e alla fattispecie in esame: al riguardo purtroppo la nostra Cassazione non pare aver assunto negli ultimi un’unica posizione, bensì essa ha espresso giudizi che sembrano contrastanti tra loro. Per esempio quasi contemporaneamente alla sentenza in commento, veniva depositata altra sentenza (della stessa sezione) che stabiliva invece che “l'omessa rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel feto, e la correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deve ritenersi circostanza idonea a porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di 21 Cass. civ., sez. lav., 19 dicembre 1985, n. 6506, Giust. civ. 1986, I, 1386, Giur. it. 1986, I, 1, 669, Rass. giur. Enel 1986, 688; Cass. civ., sez. lav., 10 agosto 1987, n. 6864, Giust. civ. Mass. 1987, fasc.8-9, Foro it. 1987, I, 2987; Cass. civ., sez. lav., 12 ottobre 1988, n. 5494; Giust. civ. Mass. 1988, fasc. 10. interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non portare a termine la gravidanza”22. Tale principio sembra in contrasto con il ragionamento della sentenza in commento, per cui “i ricorrenti danno per pacifico che il nostro ordinamento, a tal fine, preveda l’aborto eugenetico, a cui sarebbero tenuti i genitori (quantomeno la gestante), ove correttamente informati delle malformazioni o delle malattie del feto da parte del sanitario, con la conseguenza, nella fattispecie, che la mancata informazione d parte del sanitario della malattia della piccola D., impedendo alla madre di poter esercitare la facoltà di aborto, avrebbe reso il medico stesso unico responsabile della vita non sana o ingiusta della minore, che invece aveva come alternativa quella di non nascere”, in quanto qui si presume che la donna, adeguatamente informata, non avrebbe deciso di abortire in quanto non tenuta a ciò; lì invece si presume esattamente il contrario, ovvero che la donna avrebbe preferito abortire, sulla base di un ragionamento di regolarità causale. In ipotesi di gravi malformazioni fetali poi, sussiste sempre il pericolo serio per la psiche della donna e solo ciò rileva in quanto la legge non richiede l’accertamento medico-legale della lesione psico-fisica, bensì semplicemente l’accertamento di una situazione di rischio; così, anche ex post, il soggetto malformato non dovrà provare una lesione psico-fisica della donna, né peraltro la situazione di pericolo suddetta, in quanto questa è in re ipsa. Il ragionamento espresso nella sentenza in commento, secondo cui non esiste in Italia un diritto di abortire, può essere condiviso, in quanto è certo che esista, ed è costituzionalmente garantito, un diritto alla salute della donna, tramite il quale solo assume carattere di liceità l’interruzione volontaria di gravidanza; in altri termini in conflitto non sono il diritto alla vita del nascituro e il diritto di abortire, che con ogni probabilità non esiste, bensì il primo e il diritto alla salute, ex art.32 Cost. della donna, qualora questa sia posta in pericolo in modo serio, come nell’ipotesi di gravi malformazioni fetali. Il fatto poi che la legge italiana, a differenza di quella francese, ribadisca il requisito del pericolo per la salute anche nell’ipotesi delle malformazioni è evidentemente da interpretare nel senso di una volontà del legislatore di esplicitare la ratio della previsione: la malformazione rileva perché pone in pericolo la salute della donna e non, invece, solo quando ponga in pericolo la salute della donna; è vero altresì che anche qualora volessimo accogliere la seconda interpretazione, la specificazione avrebbe semplicemente la finalità di circoscrivere la facoltà alle ipotesi di gravi malformazioni, in quanto non vi è dubbio che solo gravi malformazioni pongono di per sé in una situazione di serio pericolo la salute della donna. Ma allorché si sia in presenza di questo genere di situazioni è inammissibile richiedere una prova del pericolo. Tale prospettazione giuridica, propria di chi scrive, appare essere confermata anche da autorevole dottrina che all’epoca dell’entrata in vigore della legge sull’aborto assunse il delicatissimo compito di commentare la suddetta legge23; in particolar modo da un lato si affermava che la formula “vaga e permissiva” di cui all’art.4 l.cit. “non può significare, sic et simpliciter l’interruzione della gravidanza è consentita nei primi 90 giorni, come è, invece, chiaramente sancito, sebbene entro limiti di tempo e con procedure variabili, in molti altri paesi”, in quanto nel contemperamento necessario a fronte del conflitto di interessi tra la madre e il nascituro, la giustificazione della compromissione dei secondi risiede nel pericolo almeno serio per la salute psicofisica della madre, il che “impedisce di classificare il suo diritto, tout court, come un diritto di libertà”24; dall’altro lato si affermava che “il medico, anche nella fattispecie in esame, (n.d.s. processi patologici accertati dopo i novanta giorni ex art.6 l.cit.) non può e non deve assumersi tanto la responsabilità di 22 Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2004, n. 11488, Giust. civ. Mass. 2004, f. 6. Commentario a cura di C.M.Bianca e F.D.Busnelli, in “Le nuove leggi civili commentate”, n.6/1978, pag.1593 ss.. 24 L.R.Carleo, op. ult. cit., pag. 1615 e 1617. 23 valutare il rapporto tra la situazione patologica e il grave pericolo per la salute, quanto quella di certificare l’esistenza di determinati processi patologici, poiché la presenza stessa di questi processi diviene ineluttabile sintomo di grave pericolo”25. In conclusione la Cassazione ha ragione quando dice che non esiste un diritto di abortire e che “l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi novanta giorni di gravidanza) o grave (successivamente)”, ma non quando afferma che “le eventuali malformazioni o anomalie del feto, rilevano solo nei termini in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante e non in sé considerate, con riferimento al nascituro” (rimproverando così al ricorrente di aver dato per scontato siffatta rilevanza), in quanto, ribadiamo, la rilevanza è invece in re ipsa, allorchè le malformazioni siano gravi come nel caso di specie. Anche questo capo di motivazione della decisione della S.C. non appare pertanto idoneo a negare la riconoscibilità del diritto azionato in giudizio. 4.L’azione contro la madre. La S.C. prosegue nel suo ragionamento diretto a negare la riconoscibilità del diritto a non nascere, affermando che, qualora così non fosse, si correrebbe seriamente il rischio di trasformare l’interruzione di gravidanza da volontaria ad obbligatoria nell’ipotesi di gravi malformazioni fetali tempestivamente accertate; in altri termini, qualora non ricorresse l’errore medico, e la madre, pur se adeguatamente informata circa la malattia, decidesse ugualmente di portare a termine la gravidanza, il figlio, divenuto maggiorenne o adeguatamente rappresentato, potrebbe agire nei confronti della madre addebitandole di averlo fatto nascere nonostante la patologia e quindi in violazione del suo diritto a non nascere ed arrecandogli il danno di una vita disabile. Analoga argomentazione è rintracciabile in un precedente giurisprudenziale francese, nel quale si affermava che « un enfant ne peut pas se plaindre d’ètre né tel qu’il a ètè concu par ses parents, mème s’il est atteint d’une malarie incurabile ou d’un dèfaut gènètique, dès lors que la science mèdicale n’offrait aucun traitement pour le guèrir in utero. Affirmer l’inverse serait juger qu’il existe des vies qui ne valent pas d’ètre vècues et imposer à la mère une sorte d’obligation de recourir, en cas de diagnostic alarmant, à une interruption de grossesse. Ce serait aller contre tous les principes qui fondent le droit en matière biomèdicale (un bambino non può sporgere denuncia contro il fatto di essere nato quale è stato concepito dai suoi genitori, anche se è affetto da una malattia incurabile o da un difetto genetico, dal momento che la scienza medica non offriva nessuna cura per guarirlo in utero. Affermare il contrario vorrebbe dire ritenere che esistono delle vite che non valgono la pena di essere vissute e imporre alla madre una sorta di obbligo di agire in giudizio in caso di diagnosi pericolosa per un’interruzione di gravidanza)»26. Anche recentissimi commentatori della sentenza de qua hanno espresso analoga opinione, affermando che riconoscendo il diritto a non nascere, e segnatamente l’esistenza del c.d. aborto eugenetico, “un simile diritto sarebbe opponibile erga omnes, sicchè il soggetto, una volta nato, potrebbe agire anche nei confronti dei genitori…”27. Molti anni addietro destò grande scalpore una sentenza di merito28 che riconobbe per l’appunto che “i genitori, siano legittimi o naturali, sono responsabili per fatto illecito nei confronti dei figli, quando abbiano loro trasmesso, attraverso il concepimento, una condizione morbosa che ne menomi l’efficienza fisica”. La sentenza fu duramente criticata dalla dottrina di allora che mise 25 L.R.Carleo, op. ult. cit., pag.1637. Conseil d’Etat, 14 fèvrier 1997. 27 A.Pinna, “Nascere sani o non nascere: la Cassazione nega l’esistenza di un tale diritto”, in Contratto e Impresa, n.1/2005, pag. 30-33. 28 Tribunale Piacenza, 31 luglio 1950, in Foro it., 1951, I, 989. 26 l’accento sul valore della vita, affermando che “se un malato val meno d’un sano, a fortiori la vita, anche d’un malato, vale qualcosa, mentre la non vita non vale nulla”29; altri rimproverarono ai giudici di aver posto in essere “un principio quanto mai pericoloso, ove si pensi in astratto a possibilità di azioni simili per ipotesi di ben altre trasmissioni ereditarie dannose, dall’estetica al carattere morale o addirittura alla condizione sociale, cui certo il Tribunale non intendeva giungere, ma che, una volta intrapresa la strada tracciata, sarebbe forse difficile evitare”.30 Oggi il problema si presenta di tremenda attualità se solo pensiamo alla trasmissibilità per via ereditaria del virus HIV, sorgendo spontanea la domanda se il malato di AIDS sia tenuto o meno a non procreare, e se quindi esista un diritto a non nascere in relazione a siffatta fattispecie: non è probabilmente questa la sede per occuparsi anche di questo problema delicatissimo degno di una trattazione specifica che ci riserviamo per il futuro. Basti per il momento osservare che il diritto di procreazione non solo deve essere cosciente, ma anche responsabile; volendo dire che i genitori a conoscenza di un alto rischio di trasmissione di malattie ereditarie, hanno il dovere morale e giuridico di adeguare i propri comportamenti ad un canone di responsabilità nei confronti di colui che dovrà subirne le conseguenze; basti altresì osservare che la fattispecie or ora segnalata si distingue nettamente da quella oggetto della sentenza in commento, in quanto la prima è un’ipotesi di wrongful conception mentre la seconda di wrongful birth o life. E’ stato giustamente affermato in giurisprudenza che, in ipotesi di fallito intervento di sterilizzazione, il medico non possa invocare il carattere di evitabilità del danno giusta la facoltà di abortire della donna, in quanto l’interruzione volontaria della gravidanza costituisce pur sempre un atto di violenza sul proprio corpo, cui nessuna donna può essere obbligata; in particolar modo è stato affermato che “la decisione di non interrompere la gravidanza non solo non può essere valutata come concorso di colpa, ma non può neanche essere intesa come consenso alla nascita di un nuovo bambino” in quanto “ai genitori non può essere richiesto di separarsi dal bambino contro la loro volontà” e “vertendosi in un ambito così personale e coinvolgente convinzioni morali e religiose, deve ancora una volta escludersi che il mancato ricorso all’aborto o all’adozione possa essere oggetto di imputazione per concorso di colpa”31. Nessun incertezza, a nostro modesto parere, deve permanere di fronte al quesito se possa esistere un obbligo ad interrompere una gravidanza: la risposta ci pare dover essere negativa in quanto si tratta di un atto di disposizione del proprio corpo da parte della donna, ed in quanto tale sottoposto al limite della permanente diminuzione dell’integrità fisica ex art.5 c.c., e soprattutto, una volta all’interno di tale limite, qualificabile come lecito soltanto se il soggetto interessato vi abbia prestato un consenso libero e consapevole; in tal senso l’art.5 c.c. viene tradizionalmente accostato all’art.50 c.p. (“non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che può validamente disporne”), quali norme aventi la medesima estensione ovvero norme complementari, in cui il precetto “in bianco” della disposizione penale verrebbe ad essere integrato da quella civile32. Tutto questo ragionamento, che apparentemente potrebbe sembrare voler sviare dall’oggetto centrale del presente commento, è utile per capire che il sillogismo posto in essere dalla S.C. e dalla dottrina sopra citata, anche recente (se riconoscessimo il diritto al risarcimento del danno verso il medico, dovremmo riconoscerlo anche verso la madre, qualora in futuro venisse ciò domandato), non ci sembra condivisibile per il semplice motivo che sarebbe ben possibile riconoscere la responsabilità del medico per procurato danno da wrongful life e allo stesso tempo negare quella 29 F.Carnelutti, “Postilla”, in Foro it., 1951, I, 990. M.Elia, in Foro it, 1951, I, 989. 31 Tribunale Venezia, 10 settembre 2002, op. loc. cit.. 32 Ansaldo, “Le persone fisiche”, Comm. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1996, pag. 251 ss.; Dogliotti, Trattato di Diritto Privato, a cura di Rescigno, II, Torino, Utet, pag.96; Riz, “Il consenso dell’avente diritto”, Padova, Cedam, 1979, pag.98 ss.; De Cupis, “I dir. della personalità”, Tr. Diritto Civile e Commerciale, Milano, Giuffrè, 1959, pag. 117. 30 della madre che, correttamente informata, abbia deciso lo stesso di partorire: nel secondo caso, infatti, avremmo in conflitto due diritti, tra i quali, per le ragioni sopra esposte, sarebbe destinato inevitabilmente a prevalere il diritto della donna a procreare. Nella fattispecie che si presentava ai giudici di legittimità mancava invece un conflitto del genere ed anzi la responsabilità del medico nei confronti del figlio sarebbe stata sancita proprio alla luce della facoltà della donna di optare per l’interruzione di gravidanza, il cui mancato possibile esercizio fu dovuto alla condotta colposa dell’operatore sanitario. In altri termini un conto è la situazione ante concepimento, laddove i genitori sono soggetti all’obbligo di protezione nei confronti del futuro ed eventuale concepito; un conto la situazione successiva, in cui, salva la responsabilità per l’ipotetica violazione di quell’obbligo, la sanzione giuridica non può certamente consistere in un aborto imposto. Alcuni hanno obiettato, anche molto polemicamente, che l’antiperruchiste giudicherebbe il caso in cui la donna avrebbe voluto, se adeguatamente informata, abortire per evitare l’handicap (ma sarebbe rectius dire “per evitare la vita disabile”) applicando una valutazione concernente fatti esattamente contrari; ovvero concernente la diversa ipotesi in cui la donna invece avrebbe deciso comunque di portare a termine la gravidanza: si afferma infatti che “l’antiperruchiste è così anti che si riduce, in fondo, a non poter più esercitare il suo giudizio se non sull’anti-caso Perruche!”33 In realtà si tratta di una critica che, così argomentata, non pare condivisibile, in quanto è perfettamente normale che una Corte di legittimità nello stabilire un principio, ed in generale nell’esercitare la sua funzione di nomofilachia, si ponga l’interrogativo della validità del principio in via generale ed astratta, e non semplicemente con riferimento al caso concreto; ciò a meno che, ovviamente, non si trovasse ad operare in un sistema di case-law. Altri ancora puntano invece sull’ammissibilità morale dell’obbligo dei genitori di rispondere al figlio circa la loro scelta di metterlo al mondo, nonostante la loro consapevolezza di far venire alla luce un soggetto gravemente disabile34; in sostanza costoro rispondono all’obiezione formulata dalla nostra Corte, ed ancor prima da quella francese, accogliendone le conseguenze ma valutandole, anziché negativamente, positivamente. La questione pare essere un’altra: in un caso, in cui si valuta la sussistenza o meno della responsabilità della madre, c’è in gioco il diritto della donna a procreare; nell’altro caso, in cui è invocata la responsabilità del medico, manca un analogo diritto contrapposto a quello azionato in giudizio; il diritto a procreare toglie al fatto il requisito indispensabile per l’esistenza di ogni responsabilità civile, ovvero il carattere di antigiuridicità. Non solo vi deve essere danno, ma questo danno deve essere ingiusto. 5.La vita disabile come danno. I giudici di legittimità utilizzano peraltro anche un altro argomento, anch’esso a prima vista particolarmente efficace: l’esistenza del diritto a nascere sani non comporta l’obbligo di non far nascere disabili: “il diritto a nascere sani significa solo che (…) nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso) (…) non significa invece, come ritengono i ricorrenti, che il feto, che presenti gravi anomalie genetiche, non deve essere lasciato nascere”. Il ragionamento citato non fa una grinza, esso è del tutto condivisibile, e peraltro sconfessa quello con cui, la stessa Corte, paventava il rischio di future azioni risarcitorie fondate sull’obbligo della madre di abortire; tuttavia, a prescindere da quanto esposto dai ricorrenti, non è certo decisivo nella soluzione della fattispecie de qua, in quanto l’obbligo violato non è certo quello di non far nascere un soggetto disabile, in quanto tale obbligo non esiste; quanto piuttosto l’obbligo di informare la gestante sulla grave malformazione e quindi porla in grado di esercitare la facoltà riservata a lei dalla legge di interrompere la gravidanza. 33 34 O.Cayla e Y.Thomas, op.cit., pag.39. Denys de Bèchillon, Revue trimestrielle de droit civil, 2002. Il punto cruciale di tutta la questione sembra invece essere proprio un altro, ovvero se la vita disabile possa essere considerata un danno e rientrare così nel concetto di perdita, di diminutio rispetto ad uno status quo ante: la risposta corretta, a nostro modesto parere, a questo fondamentale quesito ci viene data dalla giurisprudenza anglosassone, la quale, con lo spirito pratico ed empirico che da sempre la contraddistingue ha affermato che “it is impossibile to measure the damages for being born with defects, because it is impossibile to compare the life of a child born with defects and non-existence as a human being (…) but how can a court begin to evacuate non existence, the undiscovered country from whose bourn no traveller returns?. No comparison is possibile and therefore no damage can be established which a court could recognise”.35 La Corte inglese ha colto l’aspetto fondamentale nel momento in cui ha affermato la non comparabilità tra vita disabile e morte, in quanto non è possibile stabilire cosa, in parole semplici, sia meglio tra le due, e ciò, a nostro avviso, non tanto, o comunque non solo, per la non conoscenza dell’aldilà e di ciò che ci aspetta nell’undiscovered country from whose bourn no traveller returns36, quanto piuttosto per l’elementare dato che è impossibile stabilire in termini astratti e generali se un soggetto invalido, anche gravemente, consideri la sua vita disabile come un danno o come comunque un dono: il dato empirico ci insegna che esistono casi in cui persone disabili conducono la propria esistenza con una forza d’animo ed una gioia di vivere assai più intensa di soggetti privi di alcuna disabilità; mentre invece vi sono indubbiamente altri casi in cui la vita disabile è accompagnata da atroci sofferenze che rendono l’esistenza umana una vera e propria tortura; ciò dipende non soltanto dalla gravità della malformazione, quanto anche e soprattutto dall’intimo essere del soggetto interessato, ovvero dalla grandiosa, ed insidiosa allo stesso tempo, diversità insita in ogni essere umano rispetto a qualunque altro. Diversamente ritiene la nostra Corte -nonché chi37 più recentemente si è cimentato nella nostra stessa opera- secondo cui “l’omessa o errata informazione non ha apportato per il concepito una posizione peggiore rispetto a quella che precedeva l’inadempimento informativo da parte del medico nei confronti della gestante. (…) Infatti, indipendentemente da considerazioni etiche (pur comuni alla maggior parte della cultura occidentale secondo cui il bene della vita è il massimo dei valori e non esiste una perdita maggiore della morte) va osservato che tale principio è trasfuso anche nel nostro ordinamento che sanziona in modo più severo l’aggressione alla vita (art.575 c.p.) rispetto all’aggressione all’integrità fisica, per quanto gravissima (art.582-583 c.p.)”. Ma il richiamo alla norma penale non ci induce a mutare opinione, in quanto forse anch’essa andrebbe rivisitata nel senso di punire gravissime lesioni all’integrità fisica che possano rendere la vita insopportabile alla stessa stregua degli omicidi: del resto non a caso nella giurisprudenza civile fu coniata la nuova voce risarcitoria del danno esistenziale sub art.2043 c.c., categoria oggi ricondotta all’art.2059 c.c. come danno alla persona distinto dal danno morale puramente soggettivo; l’attribuzione di rilevanza giuridica a danni alla persona come quello alla carriera (in cui non si considera però il lavoro come fonte di reddito, bensì come sviluppo della propria personalità), alla capacità sessuale, alla serenità familiare etc...sono il frutto di una civiltà occidentale -quella stessa evocata dalla sentenza in commento- che, a torto o a ragione, non si accontenta più della vita, ma appare sempre più interessata alla qualità di essa; in altri termini possiamo ben dire che il nostro ordinamento sembra ormai riconoscere, se non esplicitamente, quantomeno implicitamente, quel right of happiness che la Costituzione americana, unica fra tutte, prevede fin dalla sua promulgazione. Anche altri38 sembrano pensarla allo stesso modo, rilevando che “anche la giurisprudenza, d’altra parte, di contro a quanto sembrerebbe prospettabile dalla motivazione della sentenza in commento, 35 Court of Appeal, (England), 19 febbraio 1982, Mckay and another v. Essez Area Health Authority [1982] 1 QB 1166 [1982] 2 All ER 771, [1982] 2 WLR 890. 36 Shakespeare, Hamlet, 3,1. 37 A.Pinna, op. cit., pag. 38,39. 38 E.Giacobbe, “Wrongful life e problematiche connesse”, Giust. Civ. n.1/2005, pag.136. sembra ormai orientata verso un’utilizzazione sempre più ampia della categoria del danno esistenziale, nelle più svariate fattispecie”. Ciò che viene detto giustamente dalla S.C. è invece altro, ovvero la difficoltà -o meglio impossibilità- di stabilire con certezza il grado di tollerabilità della vita stessa, in quanto, come già detto, esso dipende da quella variabile insopprimibile costituita dall’animo umano: “va poi osservato che se esistesse detto diritto a non nascere, se non sano, se ne dovrebbe ritenere l’esistenza, indipendentemente dal pericolo per la salute della madre, derivante dalle malformazioni fetali, e si porrebbe l’ulteriore problema, in assenza di normativa in tale senso, di quale sarebbe il livello di handicap per legittimare l’esercizio di quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe ritenere che detto livello è legittimante della non nascita”. 6. Il contratto con efficacia protettiva di terzi. Autori tedeschi hanno agganciato l’azione diretta del figlio contro il medico al contratto con effetti protettivi per i terzi39; tuttavia è stata la stessa dottrina tedesca a smentire questa impostazione del problema affermando giustamente, nello stesso senso da noi sopra indicato, che “l’inadempimento del medico potrebbe rilevare anche nei confronti del neonato se si riesce ad individuare l’interesse del figlio all’interruzione della gravidanza, ammesso che la legge consenta alla donna di perseguire tale scopo. Ma proprio questo interesse manca, in quanto bisognerebbe essere proprio sicuri che per il bambino la non esistenza sarebbe un’alternativa degna di essere preferita. Inoltre tale decisione non potrebbe essere presa da persone diverse dall’interessato perché il valore soggettivo della vita anche se sofferente non può essere misurato oggettivamente prendendo come punto di riferimento la vita di un uomo sano”40. In altri termini il problema non è tanto dell’esistenza o meno del diritto a non nascere, quanto dell’esistenza o meno di un qualcosa che possa essere definito, in termini oggettivi, come danno. Quando invece, da un punto di vista strettamente di filosofia politica, si qualifica il diritto a non nascere come espressione del “diritto al rifiuto di se stesso” e si considera questa possibilità come una “condizione di pensabilità della categoria politica della libertà”41, si urta, anche, ed almeno nel nostro ordinamento, nel divieto di atti che diminuiscano in modo permanente la propria integrità fisica ex art.5 c.c. che, come affermato tradizionalmente in dottrina, rende impossibile giuridicamente il riconoscimento, per esempio, di un diritto al suicidio: è stato giustamente affermato che, con riferimento al suicidio e all’autolesione, si pongono in contrasto il principio di autodeterminazione con quello di responsabilità solidaristica di ciascun soggetto, per cui mentre per il suicida e l’autolesionista resta una situazione di pura liceità, per i consociati esiste un dovere personale di solidarietà che li autorizza ad intervenire: colui che quindi tenti di salvare qualcuno dal suicidio non potrà essere perseguito grazie ad una legittimazione positiva che ratifica la meritorietà civile dell’intervento come adempimento di un dovere giuridico o civico.42 Tuttavia, anche qualora non si ritenesse qualificabile il suicidio come un atto illecito, considerando che peraltro si tratterebbe di un illecito privo di sanzione, resterebbe l’alternativa di considerarlo come un atto 39 V.E. Deutsch, in nota a BGH 18 gennaio 1983, in JZ, 1983, p.451; Id., Medizinrecht, Berlin, 1998, pag.187. Favorevole alla tutela del figlio anche Giesen, International Medical Malpractice Law, pag.89. Contra, v. K. Waibl, Kindesunterhalt als Schaden, 1986, pag.348. V. anche BGHZ 86, 240, con nota di Grunsky, in JZ, 1986, pag.171; Picker, Schadensersatz fur das unerwunschte Kind, in AcP, 1995, pag.484; Backhaus, MedR 1996, pag.201. 40 V.K. Waibl., “Nascere infermo o non nascere: quale tutela per il nuovo nato?”, a cura di A.M.Princigalli, Riv. Critica di D.Priv., 2001, pag.693. 41 O.Cayla e Y.Thomas, op. cit., pag.64: in realtà l’autore cita Henri Caillavet, facendola però propria. 42 Bellini, Aspetti Costituzionali, “Trattamenti sanitari tra libertà e doverosità”, Napoli, 1983. meramente lecito, non vietato ma giammai garantito come un diritto di libertà43: i diritti inalienabili dell’uomo, in cui autorevole pensiero individua il fondamento del diritto al suicidio44, sono infatti diritti la cui funzione è di rendere possibile l’espressione della personalità dell’individuo, isolatamente considerato o in seno alle formazione sociali, dal che deriva l’impossibilità logicagiuridica di riconoscere un diritto di libertà teso all’annullamento di quella stessa personalità. E’ innegabile peraltro che, come è stato giustamente sostenuto45, specie nel nostro ordinamento con la svolta giurisprudenziale del 2003 -che ha sganciato definitivamente la risarcibilità del danno non patrimoniale, e segnatamente del c.d. danno morale, dalla rilevanza penale della fattispecie civile- si corra il rischio di sostituire in detta materia un sistema di tutela dalle maglie eccessivamente ristrette con uno caratterizzato dal problema diametralmente opposto: ciò potrebbe avvenire qualora si trascuri la necessità di un’applicazione rigorosa del requisito dell’ingiustizia del danno, in particolar modo con riferimento ai parametri costituzionali che costituiscono il criterio fondamentale per stabilire la violazione dei c.d. nuovi diritti della personalità. Più in generale questo rischio dovrebbe quindi evitarsi attraverso la riscoperta di quei presupposti la cui ricorrenza tradizionalmente distingue, sotto il piano della responsabilità, le ipotesi rilevanti da quelle irrilevanti: il nesso causale, la colpa, il danno, il danno ingiusto. A proposito ancora dell’impostazione basata sulla figura del contratto con efficacia protettiva di terzi, alcuni hanno evidenziato con stupore come la sentenza in commento, dopo aver ricordato una serie di norme dalle quali poter desumere il riconoscimento dell’ordinamento della tutela dell’individuo fin dal concepimento, affermi successivamente come attraverso di esse non venga “ovviamente” attribuita soggettività giuridica al concepito, il che ha reso necessario alla Corte, al fine di superare l’ostacolo, rappresentato da questa affermazione, all’adozione dello schema del contratto a favore di terzo, di elaborare la figura del contratto ad effetti protettivi a favore di terzo46. La domanda che a questo punto ci si pone è di fondamentale rilevanza, ovvero se il concepito sia soggetto di diritto o meno; domanda da porsi con la consapevolezza che, qualora rispondessimo positivamente, tutte le ipotesi di wrongful life originate direttamente, e non solo indirettamente, dalla condotta colposa di terzi (che siano medici o conducenti di autoveicoli), sarebbero certamente suscettibili di essere risarcite su iniziativa dello stesso danneggiato, in quanto in quelle ipotesi l’alternativa non sarebbe più tra vita disabile o morte, ma tra vita sana e vita disabile, laddove quest’ultima è determinata direttamente dal fatto illecito del terzo. L’art. 1 del c.c., dopo aver sancito che “la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita”, prevede che i diritti che la legge riconosce a favore del concepito siano subordinati all’evento della nascita; tale ultima disposizione è stata considerata inizialmente, in giurisprudenza e in dottrina, un’eccezione rispetto alla regola prevista al primo comma, e come tale valevole solo per casi tassativamente determinati dalla legge e non estensibile in via analogica47. Tuttavia più recentemente è stato affermato in giurisprudenza che “nonostante che l’acquisto della capacità giuridica sia dall’art.1 c.c. subordinato all’evento della nascita, deve ritenersi che anche prima di tale evento il concepito sia titolare di posizioni giuridiche soggettive aventi una propria rilevanza: tra queste vi è la legittima aspettativa alla nascita (..omissis..), e di riflesso l’aspettativa dell’individuo a nascere sano; ne consegue che la lesione subita dal nascituro durante la gestione ben può essere qualificata come danno ingiusto, e può, conseguentemente, far sorgere in capo al 43 In questo senso Ondei, “Persone fisiche e diritti della personalità”, Torino, Utet, 1965, in Giurisprudenza sistematica civile e commerciale. 44 Barile, “Diritti dell’uomo e libertà fondamentali”, Bologna, Il Mulino, 1984. 45 Catalano, “Di cassette per la corrispondenza piene e danno esistenziale derivante”, in Danno e Responsabilità n.89/2004, pag.887; 46 E.Giacobbe, op. cit., pag.136, 137 e 141. 47 Cass. 28 dicembre 1973, n. 3467; Rescigno, voce “Capacità di agire”, Digesto CIV., 1988; Corte Cost. 25 giugno 1981, nn.108 e 109, FI, 1981, I, 1971; Carnelutti, “Nuovo profilo dell’istituzione di nascituri”, FI, 1954, IV, 57. soggetto leso, una volta nato, il diritto al relativo risarcimento”48: è stata così riconosciuta in via generale la legittimazione attiva del soggetto che abbia subito danni nella vita prenatale ex art.2043 c.c., sulla base del diritto del concepito a nascere come individuo sano, pur considerandolo soltanto un centro di interessi giuridicamente tutelato49, nonché si è qualificato il contratto concluso tra ente ospedaliero e partoriente come contratto con efficacia protettiva nei confronti di terzo, per cui sull’ente non grava solamente l’obbligo principale di cura ed assistenza al parto, ma anche quello accessorio di evitare al feto qualsiasi danno. Anche in dottrina posizioni più condivisibili sono state espresse da chi50, esaminando il problema delle varie forme di tutela anticipata del concepito, è giunto alla conclusione che il concepito, portatore di interessi attualmente tutelati, gode di una “capacità provvisoria” che diventa definitiva con la nascita o si risolve retroattivamente se la nascita non segue. Ed allora, invece di evocare complesse figure di contratti con efficacia protettiva di terzo (che a ben guardare avrebbero probabilmente anch’essi bisogno di misurarsi con qualcosa dotato di soggettività giuridica), o di eludere il problema considerando solo il nascituro poi effettivamente nato (e quindi non curandosi della situazione antecedente), bisognerebbe forse ammettere, in via generale, e non solo eccezionale, la capacità giuridica fin dal concepimento, una capacità giuridica condizionata in via risolutiva all’evento della nascita. In questo senso la recentissima legge sulla procreazione medicalmente assistita51 “assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”, optando per il riconoscimento in via generale della soggettività giuridica fin dal concepimento, seppure una soggettività pur sempre condizionata, di guisa che il concepito leso dalla condotta colposa del medico o del conducente di autoveicolo potrà, una volta nato, chiedere egli stesso il risarcimento del danno, mentre i prossimi parenti potranno invocare esclusivamente i danni da essi personalmente subiti, in quanto vittime secondarie. Tornando invece alla fattispecie in esame, caratterizzata dalla circostanza della condotta colposa del medico consistente nell’omissione dell’accertamento della malattia fetale, la figura del contratto con efficacia protettiva del terzo è peraltro stata richiamata dalla Corte, nella sentenza in commento, anche per giustificare il riconoscimento del risarcimento del danno in favore del padre, cui la legge non prevede alcuna forma o grado di partecipazione al processo decisionale concernente l’interruzione di gravidanza, “atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione” ed atteso che il padre “deve perciò ritenersi tra i soggetti protetti dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano risarcitorio”. In dottrina questo capo della sentenza in commento è stato criticato da chi52, partendo dal presupposto che nel nostro ordinamento ormai sia un dato acquisito che il padre non abbia alcuna voce in capitolo in merito alle sorti del concepito medesimo, evidenzia come, a suo dire, non risulterebbe ben chiaro il diritto o interesse, riconducibile al padre, violato dal comportamento del medico. A tal proposito l’opinione di chi scrive, in un certo qual modo, combacia con l’orientamento appena in ultimo citato, in quanto l’uso disinvolto dello strumento del contratto con efficacia protettiva del terzo rischia di compromettere o vanificare oltremodo il principio indiscutibile secondo cui “il contratto ha forza di legge tra le parti” e soltanto esse; mentre invece alcune delle ipotesi che sono 48 Tribunale Verona, 15.10.90, in Giur. merito 1992, 329. Tribunale Monza, 8 maggio 1998; Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2000, n.11625. 50 Bianca, Diritto Civile, I, Milano, 1978, pag.202-203; cfr. l’opinione favorevole ad una lettura non restrittiva dell’art.1 c.c., argomentando giustamente ex artt.462 e 784 c.c., di A.Pinna, op. cit., pag. 45. 51 Art.1 L.19 febbraio 2004, n.40 (G.U. 24.2.2004, n.45). 52 E.Giacobbe, op. cit., pag. 147. 49 ascritte solitamente a tale creazione dottrinale sono forse riconducibili più correttamente al principio del neminem laedere e conseguentemente ad un tipo di responsabilità extracontrattuale. Nel caso di specie così il contratto con efficacia protettiva del terzo appare svolgere la funzione di uno strumento necessario ad ovviare ad un’incongruenza legislativa: l’omessa previsione di una qualsiasi facoltà di accesso per il padre al processo decisionale di interruzione di gravidanza contrasta nettamente con il principio espresso dal secondo comma dell’art.29 Cost., secondo cui “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, nonché con ogni probabilità con l’art.2 Cost., in quanto tra i diritti inviolabili dell’uomo deve essere compreso certamente il diritto di essere padre; contrasta altresì con tutte quelle norme del codice civile che, in attuazione del principio costituzionale, esprimono l’uguaglianza dei genitori nei diritti e doveri di cui sono titolari nei confronti della prole. L’obiezione per cui la posizione particolare della madre, per ragioni di tipo prettamente naturale, giustifichi tale disparità di trattamento, rischia forse di tralasciare eccessivamente il rapporto di tipo biologico intercorrente tra padre e figlio, nonchè il diritto del primo ad una procreazione cosciente e responsabile, che, se non è meritevole di tutela al pari di quello di una donna, non può essere considerato neppure totalmente irrilevante per il diritto, così come sembrerebbe essere invece allo stato dell’attuale legislazione italiana in materia: quest’ultima peraltro, sotto questo profilo, appare in contrasto con lo spirito che ha mosso la più recente normativa dell’Unione Europea53 a parlare di responsabilità genitoriale, quasi a sottolineare la comune ed eguale responsabilità che discende in capo ai genitori dal rapporto di filiazione. 7. L’eutanasia. Un ulteriore spunto di riflessione, degno di essere menzionato, che ci viene offerto dalla sentenza in commento, è altresì l’accostamento della fattispecie in esame con quella diversa dell’eutanasia, quando si afferma che “sostenere che il concepito abbia un diritto a non nascere, sia pure in determinate situazioni di malformazione, significa affermare l’esistenza di un principio di eugenesi o di eutanasia prenatale, che è in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’art.2 Cost., nonché con i principi di indisponibilità del proprio corpo di cui all’art.5 c.c.”. A tal riguardo occorre premettere che, nel nostro ordinamento, il consenso del soggetto non rende mai lecita per il medico la c.d. eutanasia terapeutica attiva54: tipico è il caso della somministrazione di farmaci per alleviare il dolore e causare la morte, che si ritiene giustamente costituisca senza dubbio reato. Oggetto di discussione sembra essere invece in dottrina la diversa ipotesi di c.d. eutanasia passiva volontaria, ossia il rifiuto di cure, che talvolta è già stato ammesso55, e l’eutanasia passiva non volontaria (sospensione dei mezzi di sostentamento artificiali ad un soggetto in stato vegetativo), per la quale si è fatto ricorso sapientemente alla nozione del divieto di accanimento terapeutico, quale ostinazione in un trattamento da cui non possa ragionevolmente derivare o un beneficio alla salute o un miglioramento della qualità della vita56. Pur non volendo entrare nel merito della questione, che richiederebbe certamente anch’essa una trattazione autonoma, tuttavia possiamo dire che anche il problema dell’eutanasia c.d. passiva rimane, nonostante la denunciata difficoltà di argomentare l’ammissibilità dell’eutanasia in 53 Cfr. Regolamento (CE) n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, in Gazzetta ufficiale n. L 367 del 14/12/2004 pag. 0001 – 0002. 54 Giusti, “L’eutanasia”, Padova, Cedam, 1982, pag.13. 55 Dogliotti, in Trattato di Diritto Privato, a cura di Rescigno, Torino, Utet, 88; Pret. Roma 9.4.1997, R.it. d. proc. P. 98, 1422. 56 Santosuosso, Fecondaz. Artific., Enc. g. Treccani, 194; App.Milano, 31.12.99, Foro it. 00, I, 2022, nota di Ponzanelli e Santosuosso. presenza degli attuali principi costituzionali57, un problema sostanzialmente aperto, che non può, a nostro modesto parere, essere liquidato così facilmente come sembra aver fatto la nostra S.C. incidenter tantum nella sentenza de qua. 8. La vita come bene assoluto. Più in generale il problema che si pone, in ogni ipotesi di nascita potenzialmente generatrice di responsabilità civile, consiste, come già detto, nel giustificare quest’ultima nonostante la valutazione della vita come bene assoluto: nelle ipotesi di wrongful conception è esattamente il diritto alla procreazione cosciente e responsabile che viene violato, mentre la valutazione positiva della vita non viene scalfita dal riconoscimento di un danno, in quanto quest’ultimo è da identificarsi non nella nascita, quanto piuttosto nel non aver potuto scegliere, come era invece nel diritto dei genitori, se e quando concepire (e quindi poi procreare). Nell’ ipotesi di wrongful birth bisogna tener presente invece che l’aborto non è strumento di controllo delle nascite, ma facoltà esercitabile esclusivamente qualora ricorrano le circostanze elencate dalla legge 194, in primis il serio pericolo per la salute della donna. In altri termini l’aborto non è lo strumento attraverso il quale si esercita il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile, in quanto attraverso di esso si interviene, a nostro avviso, su di una vita umana già formata, seppure allo stato embrionale: esso rimane una pratica sanzionata anche penalmente, la quale tuttavia viene scriminata in presenza di circostanze tassativamente stabilite dalla legge; su questo l’opinione della sentenza in commento ci pare del tutto condivisibile, in quanto, in altri termini, dopo il concepimento il diritto alla procreazione cosciente e responsabile non assurge più quella rilevanza che aveva invece nella fase precedente, laddove soltanto si può parlare o del suo rispetto o della sua violazione. Così ragionando ci sembrerebbe più opportuno parlare di diritto (e dovere) di concepimento cosciente e responsabile, in quanto dopo di quello gli unici valori in gioco, tra i quali porre in essere un opportuno bilanciamento, diventano il diritto alla vita del nascituro, il principio di indisponibilità del proprio corpo nonché il diritto alla salute della donna (e auspicabilmente anche del padre). Così ritiene anche dottrina autorevole, secondo cui “nel nostro sistema non si può parlare di un diritto all’aborto. Certo la legge sulla interruzione volontaria della gravidanza presenta degli aspetti di notevole ambiguità, ma a mio avviso non vi è dubbio che la legittimazione alla interruzione volontaria di gravidanza ha alla sua base un serio pericolo alla salute della donna”58. Né ci convince il ragionamento di chi invoca il rispetto del principio di uguaglianza per contestare il diverso trattamento riconosciuto dalla giurisprudenza per le ipotesi di wrongful birth e wrongful life, affermando che “se il bene della vita è assolutamente indisponibile per il bambino, allora la vita dovrà essere fondamentalmente indisponibile per tutti”59; o di chi in Francia ha invece sostenuto che, dal punto di vista della filosofia del diritto, il diritto a non nascere sarebbe stato riconosciuto in quel paese dalla stessa legislazione sull’aborto, che, prevedendo espressamente il c.d. aborto terapeutico in caso di malformazioni fetali, avrebbe necessariamente esteso questo diritto al bambino stesso, sotto forma di un diritto virtuale e non reale60. A nostro modo di vedere invece, il riconoscimento della risarcibilità del danno da wrongful birth ha il proprio fondamento non nella disponibilità della vita, quanto invece nel diritto alla salute della donna, che è posta in serio pericolo a causa delle gravi malformazioni. Il danno che subisce allora la donna non è più soggettivo, ma oggettivo perché l’alternativa che le si pone davanti è tra, da un 57 Busnelli-Palmerini, Bioetica e dir. priv., Enc. del diritto, Garzanti, Milano, 2001, in Appendici, pag.23 ss.. 58 F.D.Busnelli, “Un bambino non voluto è un danno risarcibile?”, a cura di A.D’Angelo, Milano, Giuffrè, 1999, pag.83; in questo senso più recentemente, A.Pinna, op. cit., pag. 35-38. 59 Eduard Picker E., Il danno della vita, Milano, Giuffrè, in Derive, 2004, pag.110. 60 O.Cayla e Y.Thomas, op. cit., pag.64. lato, una vita da condurre senza un figlio gravemente malformato e con la possibilità invece di avere in seguito figli sani; dall’altro, una vita da condurre con un figlio gravemente malformato con il conseguente pericolo serio di lesioni alla sua salute psichica. Nell’ipotesi di wrongful life il principio di uguaglianza non può essere invocato correttamente; manca, infatti, la situazione uguale per cui si potrebbe pretendere analogo trattamento, perché il fatto è lo stesso, ma la fattispecie giuridica diverge nel momento in cui chi pretende il risarcimento non è la madre, che ha davanti a sè un’alternativa oggettivamente preferibile, quantomeno di regola, ed a cui la legge riserva pertanto la facoltà di abortire in presenza di circostanze tassativamente elencate; bensì il figlio nato malformato, cui la legge non riserva alcunché sotto questo profilo, in quanto non si può qualificare in termini oggettivi come danno la vita disabile, quando l’unica alternativa che si pone è la stessa morte. Assai recentemente, chi61 si è cimentato a commentare la sentenza in questione prima di noi, ha evidenziato che la presente S.C. abbia inquadrato l’aborto nell’alveo dell’art.54 c.p., rilevando tuttavia che proprio “la sua presunta inapplicabilità all’ipotesi di interruzione della gravidanza ha dato origine, sia pure simbolicamente, alla legge sull’aborto”, presunta inapplicabilità stabilita dalla Corte Costituzionale62 in occasione di una richiesta di verifica circa la conformità o meno alla Costituzione dell’art.546 c.p., che sanzionava con la reclusione chiunque cagionasse l’aborto di donna consenziente, unitamente alla donna medesima. La stessa autrice critica le ragioni che portarono allora la nostra Consulta ad affermare detta inapplicabilità, propugnando in particolar modo una concezione non assoluta del presupposto di attualità dello stato di necessità, nonché l’idea che, se si ammette la prevalenza del diritto alla salute di chi è già persona sulla salvaguardia dell’embrione di chi persona deve ancora divenire (come faceva la Consulta), a maggior ragione bisognerebbe ricondurre la fattispecie dell’interruzione di gravidanza all’art.54 c.p.. In sostanza il ragionamento di cui sopra, anche non troppo velato, è il seguente: per scriminare l’aborto in ipotesi di danno alla salute della donna era sufficiente l’art.54 c.p., per cui, se una legge ad hoc è stata realizzata, è per attribuire un contenuto più ampio all’aborto, che prescinda dal diritto alla salute della donna o che comunque possa rivestire a pieno titolo la qualifica di diritto. Non possiamo condividere tuttavia siffatta impostazione, in quanto, anche volendo ammettere che l’art.54 c.p. fosse sufficiente da solo a rendere lecita l’interruzione di gravidanza costituente serio pericolo per la salute della donna, la legge 194 ben potrebbe considerarsi un esempio di attuazione del citato principio generale, che è stato necessario esplicitare alla luce della particolare rilevanza sociale della fattispecie di cui si trattava: del resto il nostro ordinamento presenta numerosi esempi di norme che attuano un principio generale, come l’art.1375 c.c., il quale prevede l’obbligo di buona fede delle parti in fase di esecuzione del contratto, nonostante l’art.1175 che già avrebbe potuto costituire fonte di siffatto obbligo; ancora come l’art.1358 c.c. che prescrive esplicitamente l’obbligo di buona fede in pendenza della condizione; e così via dicendo di tutte le norme che, nonostante l’esistenza di un principio generale di buona fede nel nostro ordinamento, esplicitano di volta in volta i suoi contenuti in relazione alle diverse fattispecie che si possono presentare in concreto. Di ciò probabilmente si rende comunque conto anche l’autrice citata, quando afferma che “in vero la Cassazione, in relazione alla posizione del concepito, propone una rilettura della legge sull’aborto, probabilmente in linea con il sistema, ma certamente distante dalla prassi operativa”, dimostrando pertanto di condividere con noi anche l’idea di un’applicazione che distorce il reale spirito della legge. 61 62 E.Giacobbe, op. cit., pag.136. Corte Cost. 18 febbraio 1975, Giur.it., 1975, I, 1, 1416, note Raveraira e Andrini. 9. Conclusioni. In definitiva allora, se il risultato cui è giunta la Corte, ovvero l’accertamento dell’inesistenza del diritto a non nascere, può essere condiviso, invece le motivazioni che stanno dietro di esso non ci paiono convincenti, o meglio ci sembrano quasi delle tecniche argomentative ricercate e plasmate allo scopo predeterminato di negare l’esistenza di un simile diritto, che non esiste non perché manca il nesso causale, o perché le gravi malformazioni fetali non necessariamente causano un pericolo serio per la salute della donna, o ancora perché ammettendolo si aprirebbe la strada al riconoscimento di un obbligo di abortire; ma perché la vita disabile, qualora l’unica alternativa possibile sia la morte, non necessariamente per ogni soggetto, né per la maggior parte, costituisce un danno di cui poter chiedere il risarcimento. Né sarebbe applicabile del resto una valutazione di tipo oggettivo e generale al riguardo, che competa a qualsivoglia autorità o soggetto terzo. E’ stato giustamente detto allora -questo è il punto su cui occorre destare l’attenzione- che “la ricerca della felicità non è un diritto inviolabile, ma inalienabile. Spetta all’individuo provvedervi e alle leggi compete il compito di non mortificare la ricerca, non già di surrogare la felicità con il denaro, secondo gli aforismi di B. Shaw o in una rivisitazione dell’uomo ad una dimensione, immaginando che l’avere possa costituire (o sostituire?) l’essere”63. Dal canto nostro possiamo aggiungere che il concetto di felicità non è univoco, bensì suscettibile di assumere innumerevoli sfaccettature, quali sono quelle proprie dell’essere umano: ciò lo rende un oggetto misterioso di fronte al quale l’esigenza di certezza del diritto preclude forme di tutela che pure il singolo individuo potrebbe talvolta percepire come collimanti con il proprio personale sentimento di giustizia. 63 M.Costanza, “Ancora sul danno esistenziale”, nota a Cass. 11 novembre 2003 n.16946, e Cass. 19 agosto 2003, n.12124, Foro it., 2004, I, 434.