NOTA A SENTENZA - Studio Miranda

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NOTA A SENTENZA:
Diritto a non nascere: essere o non essere e “ricerca della
felicità”.
Corte di Cassazione, sezione III civile; 29 luglio 2004 n.14488
Il sanitario, seppure in colpa per non avere fatto effettuare i dovuti esami onde
accertare il pericolo di malformazioni del nascituro, non risponde dei danni nei
confronti del minore malformato per non avere la madre optato, stante l’ignoranza
del rischio, per l’interruzione volontaria della gravidanza, non essendo concepibile
nel nostro ordinamento un diritto a non nascere del minore malformato.
1.Premessa. La sentenza che ci accingiamo a commentare rappresenta la prima pronuncia della
nostra S.C. che prende posizione sul delicato problema della c.d. wrongful life, ovvero la vita
ingiustificata, o presunta tale, di colui il quale, omesso l’accertamento diagnostico circa la malattia
fetale da parte del medico, sia nato malformato, e come tale abbia dovuto trascorrere l’intera sua
esistenza.
Come ormai ben noto, esistono tre fattispecie di nascite potenzialmente generatrici di responsabilità
civile, ognuna di esse coniate con terminologia di derivazione anglosassone; oltre a quella già citata,
abbiamo l’ipotesi della c.d. wrongful birth e quella della c.d. wrongful conception: la prima si
verifica allorché siano i genitori a chiedere il risarcimento del danno, patrimoniale e non, nel caso di
nascita di figlio malformato ed omesso accertamento diagnostico circa la malattia fetale; il secondo
si verifica invece qualora il bambino sia sano, ma non sia voluto, in quanto concepito, per esempio,
nonostante un intervento di sterilizzazione, fallito per responsabilità medica, che aveva per
l’appunto il fine di impedire il concepimento.
In tema di wrongful conception la giurisprudenza di merito italiana1 ha stabilito recentemente che
“in caso di gravidanza della donna, che si è sottoposta a intervento chirurgico di sterilizzazione
(rivelatosi inefficace), il medico è responsabile della nascita non desiderata del figlio e deve
risarcire, alla donna, il danno biologico per inabilità temporanea parziale e, a entrambi i genitori,
il danno patrimoniale riferito alle spese sostenute in occasione del parto, nonché agli oneri di
mantenimento del figlio”. Nella stessa occasione si è affermato che “nella quantificazione di detto
danno, peraltro, vanno anche valutati i vantaggi materiali che ai genitori possono verosimilmente
derivare dalla nascita del figlio, atteso che, per legge, i figli devono collaborare alla vita familiare
secondo le proprie forze, mentre non può escludersi che i genitori possano addirittura vantare un
diritto al mantenimento o diventarne eredi”.
Ancor prima2 si era giunti alla conclusione che “la scorretta esecuzione dell'intervento di
sterilizzazione ha leso il diritto alla procreazione cosciente e responsabile: diritto che trova il
proprio referente nell'art. 13 cost. che riconosce la libertà di autodeterminarsi anche in ordine ad
atti che coinvolgono il proprio corpo. La sua lesione, in quanto lesione di un diritto assoluto, à
apprezzabile ai sensi dell'art. 2043 c.c. e consente, tanto al singolo quanto alla coppia, il diritto di
1
Tribunale Venezia, 10 settembre 2002, Giust. civ. 2003, I, 2597, note Giacobbe e Baldassarri,
Resp. civ. e prev. 2003, 117 nota Gorgoni, Gius. 2003, 226.
2
Tribunale Milano, 20 ottobre 1997, Resp. civ. e prev. 1998, 1144 nota Gorgoni.
ottenere il risarcimento del danno per la lesione in sè che viene liquidato equitativamente,
adottando come parametri di riferimento, per un verso, l'entità del ristoro del danno morale,
comunemente riconosciuto per lesioni gravissime o per la perdita dei congiunti, per altro, del
risarcimento solitamente liquidato nei casi di lesione dei diritti all'immagine o alla reputazione.
Sono risarcibili altresì le conseguenze pregiudizievoli costituite non già dal costo del mantenimento
del figlio, ma dall'impossibilità per i genitori di spendere, a proprio esclusivo vantaggio, secondo il
modello di vita che si erano prefigurati, parte dei propri redditi”.
Dunque il diritto alla procreazione cosciente e responsabile assurge oggi, nel nostro ordinamento, a
nuovo diritto della personalità tutelato ex art.2 Cost. in quanto diritto inalienabile dell’uomo, ed il
relativo danno non patrimoniale, vista la recente -ed epocale- svolta della nostra Corte
Costituzionale3 in tema di interpretazione dell’art.2059 c.c., sarà risarcibile anche qualora la
fattispecie sia priva di rilevanza penale.
Anche in tema di wrongful birth la giurisprudenza italiana si è pronunciata in via consolidata per il
riconoscimento della risarcibilità del danno; in particolar modo quella di merito ha stabilito che
sussiste la responsabilità diretta, sia contrattuale che aquiliana, dell’ente ospedaliero per violazione
dell’obbligo di informazione ove sia commesso un grave errore di interpretazione nella lettura di un
esame diagnostico, consistente nella mancata individuazione di gravi malformazioni del nascituro,
che abbiano impedito l’esercizio della facoltà di interruzione volontaria della gravidanza.4 Tuttavia
è stato anche affermato che il danno sussiste solo qualora, al momento in cui viene posto in essere il
comportamento omissivo, ricorrano le condizioni prescritte dalla legge 1978 n.194, con particolare
riferimento al passaggio dei 90 giorni dal concepimento che determina il venir meno della facoltà di
interrompere volontariamente la gravidanza, a meno che non si sia in presenza di pericolo non solo
serio, ma grave, per la salute psico-fisica della donna.5
La giurisprudenza di legittimità ha successivamente confermato il su citato orientamento,
precisando che il diritto di entrambi i genitori al risarcimento, patrimoniale e non, esiste qualora
sussistano tutti gli elementi previsti dalla legge perché la gestante possa esercitare il diritto
all’interruzione della gravidanza e risulti provato che la stessa, se fosse stata esattamente informata
dal medico sulle malformazioni del feto, avrebbe effettivamente esercitato tale diritto.6
Anche nel resto d’Europa non sembrano esserci dubbi tra i giudici circa la riconoscibilità del diritto
al risarcimento del danno da wrongful birth: in Francia innanzitutto è stata riconosciuta nella
fattispecie in questione una perdita di chance7, ovvero la perdita per la madre della possibilità di
optare per l’interruzione volontaria della gravidanza; ancora in Germania, sulla falsariga
dell’orientamento italiano, è stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale8,
consistente in tutti gli oneri economici gravanti sui genitori ai fini dell’assolvimento dell’obbligo di
3
Corte Cost. 11 luglio 2003, n.233, in Danno e Resp. n.10/2003, pag.939 ss., note Bona, Cricenti,
Ponzanelli, A.P.Mirabelli, Troiano; v. anche Cass. civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8827, Cass.
civ., sez. III, 31 maggio 2003, n. 8828, Giur. it. 2004, 1129, nota Bona.
4
Tribunale Bergamo, 2 novembre 1995, in Danno e resp. n.2/1996, pag.249, nota Palumbo.
5
Tribunale Roma, 13 dicembre 1994, in Dir. di fam. e delle persone, 1995, pag.1474 ss. nota
Dogliotti.
6
Cass. civ., Sez. III, 1° dicembre 1998 n.12195, in Foro it., 1999, I, pag.77 ss.; Cass. civ., Sez.III,
24 marzo 1999, n.2793, in Foro it., 1999, I, pag.1804 ss., nota Palmieri; Cass. civ., Sez. III, 10
maggio 2002, n.6735, in Foro it., 2002, pag.3115 ss., nota Simone.
7
App.Paris, 17 febbraio 1989, in Dallaz, 1989, Jurisprudence, pag.316; Trib. Gr. Inst. Montpellier,
15 dicembre 1989, in Sem.jur.,1990, Jurisprudence, n.21556; App. Versailles, 8 luglio 1993, in
Dallaz, 1995, Somm., pp.98-99.
8
BGH, 18 gennaio 1983, in Juristenzeitung, 1983, pag.448; BGH, 4 marzo 1997, in FamRZ,
1997,pag.669; BGH, 7 luglio 1987, in Versicherungsrecht, 1988, pag.155.
mantenimento, nonché di quello non patrimoniale9, qualora la donna provi che, se adeguatamente
informata, avrebbe deciso di interrompere la gravidanza.
In Italia e in quegli ordinamenti pertanto si è ritenuto che l’ostacolo concettuale, consistente nel
dover identificare la vita, da sempre considerata come protetta in quanto valore non solo religioso,
ma anche giuridico, come danno, non rappresentasse un impedimento insormontabile ai fini del
riconoscimento del risarcimento del danno, poiché, si è affermato, il danno risarcibile non è la
nascita in sé, ma l’onere economico inevitabilmente correlato ad un evento non programmato ( in
ipotesi di wrongful conception) e più in generale quello derivante dalla lesione di un nuovo diritto
della personalità: il diritto ad una procreazione cosciente e responsabile.
E’ stato detto che “tanto risulta difficilmente contestabile in un ordinamento giuridico che ammette
la sterilizzazione volontaria e l’aborto, riconoscendo la capacità di procreare come bene
disponibile da parte del singolo e la fecondità come bene solo in quanto il titolare dimostri verso di
esso un interesse, poiché, in una società pluralistica è incontestabile una libertà di procreazione:
non volere figli o altri figli è una coscienza rimessa al privato, come quella, di pari effetto, dell’uso
dei contraccettivi”. Ciò viene ribadito concludendo che “né si può, sulla scia di falsi moralismi,
confondere il bene della vita legato alla nascita (che è sempre un evento positivo) con la possibilità
( o meglio con il diritto riconosciuto dall’ordinamento) di scegliere se diventare genitori o meno”.10
Dunque è alla presenza di tali precedenti giurisprudenziali e posizioni dottrinali che la nostra
Cassazione, nella sentenza in commento, si pone un ulteriore, ed ancor più drammatico, problema:
quello dell’esistenza di un diritto a non nascere, ovvero il diritto del soggetto nato malformato, in
seguito ad omesso accertamento medico della malattia fetale, al risarcimento, per responsabilità
medica, del danno consistente nella sua vita “ingiusta” o c.d. wrongful life; nella sua vita disabile
che poteva essere evitata qualora il medico avesse informato la madre dell’inevitabile
malformazione, e qualora questa, in conseguenza di ciò, avesse deciso di interrompere la
gravidanza; una vita considerata qui come danno non perché non voluta, bensì perché infelice; ma
soprattutto una vita considerata tale non dai genitori, ma, ed è il punto fondamentale, dal diretto
interessato.
Una sentenza che ha alle proprie spalle altresì il famoso precedente giurisprudenziale francese noto
come “affaire Perruche”11, nel quale le Sezioni Unite della Suprema Corte d’oltralpe sancirono, per
9
OLG Celle, 9 marzo 1987, in Versicherungsrecht, 1988, pag.965.
U.Ruffolo,“Un bambino non voluto è un danno risarcibile?”, a cura di A.D’Angelo, Milano,
Giuffrè, 1999, pag.88-89.
11
Cour De Cassation, Assemblee plènière, 17.11.2000, in Gazette du Palais, 2001, pag.37 ss. e in
Semaine Juridique, 2000, , pag. 2293 ss. ; in tema Chiessi, “Diagnosi prenatale e risarcimento del
danno a favore del bambino nato handicappato”, in Familia, 2003, I, 167; Adezati, “Dalla
disgrazia al danno: come risarcire chi nasce con l’handicap? L’arte di giudicare della Cassazione
francese nell’Affaire Verruche”, in “Dalla disgrazia al danno”, a cura di Braun A., Milano,
Giuffrè, 2002, pag.369; Alpa G., l’Affaire Perruche, “Dalla disgrazia al danno”, op. cit., pag.359;
Bacchini, “Il diritto di non esistere”, Milano, McGraw-Hill, 2002; Busnelli F.D., Postilla, in Nuova
giurisprudenza civile commentata, 2001, pag.215; Carbone V., “Un bambino che nasce minorato
ha diritto al risarcimento per nascita indesiderata?”, in Famiglia e diritto, 2001, I, pag.97; Cayla
O. e Thomas Y., “Il diritto a non nascere”, Giuffrè, Milano, 2004; Gorgoni M., “Nascere sani o
non nascere affatto: verso un nuovo capitolo della storia della naissance d’enfants sains non
desirès”, in Danno e Responsabilità, n.5/2001, pag.475; Guarnieri, “Nascita di figlio malformato,
errore diagnostico del medico e regola di responsabilità civile”, in Rivista di diritto civile, 2002,
pag.849; Liserre A., In tema di danno prenatale, in Rivista di diritto civile, 2002, I, pag.97;
Palmerini E., “Il diritto a nascere sani e il rovescio della medaglia: esiste un diritto a non nascere
affatto?”, in Nuova giurisprudenza civile commentata, 2001, pag.209; Picker E., Il danno della
vita, Milano, Giuffrè, in Derive, 2004; Princigalli A.M., “Nascere infermo o non nascere: quale
tutela per il nuovo nato?”, in Rivista critica di Diritto Privato, 2001, pag.675.
10
le motivazioni che più avanti vedremo, l’esistenza del diritto a non nascere e perciò la risarcibilità
del danno conseguente alla sua lesione.
Una sentenza avente ad oggetto un autentico dilemma che, prima ancora di investire problematiche
giuridiche, pone al giurista interrogativi propri di ogni uomo, in quanto coinvolgenti il senso stesso
dell’esistenza umana, e di fronte ai quali ogni tentativo di offrire risposte certe e prive di qualsiasi
beneficio del dubbio è destinato probabilmente a fallire inesorabilmente.
2.Il nesso di causalità. La sentenza in commento indica tra i motivi di inesistenza del diritto al
risarcimento del danno da wrongful life innanzitutto la mancanza di nesso di causalità tra la
condotta omissiva colposa del medico e la malattia (talassemia eterozigote), la quale, si afferma,
non è addebitabile al sanitario in quanto, secondo le attuali conoscenze della scienza medica,
comunque, seppur accertata, essa non sarebbe stata suscettibile di estirpazione.
Cosa diversa, sempre secondo la S.C., sarebbe stata se la malattia fosse stata causata da un
comportamento colposo e commissivo, oppure se l’omissione avesse impedito un possibile
intervento risolutivo; infatti “con il contratto di prestazione professionale tra la gestante ed il
medico (generalmente ostetrico-ginecologico), questi si obbliga non soltanto a prestare alla stessa
le cure e le attività necessarie al fine di consentirle una corretta gestazione, ma altresì ad
effettuare, con la dovuta diligenza, tutte quelle altre prestazioni necessarie al feto, sì da garantirne
la nascita, evitandogli -nei limiti consentiti dalla scienza- qualsiasi possibile danno”
La motivazione è analoga a quella adottata anche dalla Corte d’Appello di Parigi12 nel celeberrime
caso Perruche, e dalla meno recente giurisprudenza inglese,13 ed è stata oggetto, con riferimento a
quella controversia, di diverse prese di posizione dottrinali favorevoli e contrarie: tra quest’ultime
alcuni hanno contestato siffatta argomentazione liquidando la questione col dire che “occorre
rivisitare il profilo del nesso di causalità, depotenziandone il rilievo, nella consapevolezza ormai
risalente che spesso esso è un mero strumento tecnico, posto al servizio di scelte di policy, aliunde
assunte e, come tale, ampiamente manipolabile”14.
Più interessante sembra altro pensiero, il quale, ravvisando nell’errore medico quantomeno una
concausa, afferma l’impossibilità di negare che la carenza o l’inesattezza delle informazioni
incidano quanto meno indirettamente anche sugli interessi del feto, che, per effetto della carenza o
della inesattezza delle informazioni, viene alla luce “nell’unica condizione in cui avrebbe potuto
vivere, cioè affetto da handicap”.15
Tra i favorevoli si sostiene invece che, l’opinione secondo cui -il nesso di causalità possa essere
ravvisato tra la colpa dei medici e la circostanza, riferibile al bambino, di essere nato menomato,
mentre proprio in ragione della menomazione, se fosse stata tempestivamente diagnosticata, egli
poteva non nascere- sotto il profilo strettamente giuridico è censurabile in quanto il nesso di
causalità è interrotto in virtù della “libertà inalienabile” della donna di decidere, in presenza dei
presupposti stabiliti dalla legge, se interrompere o meno la gravidanza.16
Altri ancora affermano che “è agevole rispondere che per colpa del medico il bambino non nasce
affatto disabile, semplicemente nasce, e che quindi il danno eventualmente risarcibile non potrebbe
prescindere dalla valutazione della non-vita come punto di riferimento”.17
12
App. Paris, 17 dicembre 1993, in Dallaz, 1996, Jurisprudence, pag.35;
Mckay v. Essex Area Health Authority, 1975.
14
A,Guarnieri, op. cit., pag.866.
15
G.Alpa, “L’affaire Perruche”, in “Dalla disgrazia al danno”, a cura di A.Braun, Milano,
Giuffrè, 2002, pag.366.
16
F.D.Busnelli, “Postilla”, in Nuova Giur. Civ. Commentata, I, 2001, pag.216.
17
“Un bambino non voluto è un danno risarcibile?”, a cura di A.D’Angelo, Milano, Giuffrè, 1999,
pag.175.
13
La Corte di Cassazione francese nel decidere in assemblea plenaria il caso Perruche stabilì che “dès
lors que les fautes commises par le mèdecin et le laboratoire dans l’exècution des contrats formès
avec M.me X avaient empèchè celle-ci d’exercer son choix d’interrompre su grossesse afin d’èviter
la naissance d’un enfant atteint d’un handicap, ce dernier peut demander la rèparation du
prèjudice rèsultant de ce handicap et causè par les fautes retenues”(Atteso tuttavia che, dal
momento che la condotta colposa imputabile al medico e al laboratorio nell’esecuzione dei contratti
stipulati con la signora X aveva impedito a quest’ultima di esercitare la propria scelta di
interrompere la gravidanza al fine di evitare la nascita di un figlio affetto da handicap, quest’ultimo
può chiedere il risarcimento del danno derivante da questo handicap e legato casualmente alle
condotte accertate). Nella dottrina francese la maggior parte degli autori criticarono duramente la
posizione della Cour de Cassation18, ma vi fu anche chi la condivise sulla base della possibilità che
la madre, in assenza dell’errore medico, scegliesse di abortire evitando al nascituro di dover
affrontare una vita disabile.19
In ogni caso, possiamo ritenere che l’affermazione secondo cui, non esiste un efficacia di nesso
causale tra la condotta colposa del medico e la malattia, sia impossibile da superare: ciò perchè la
malattia, anche se tempestivamente accertata, non sarebbe stata estirpabile; nè il requisito del nesso
causale può essere liquidato giudicandolo uno strumento della politica del diritto plasmabile a
piacimento secondo le esigenze ed opportunità, in quanto, così facendo, si rischierebbe di estendere
oltre misura le fattispecie potenzialmente generatrici di responsabilità, nonché di far dipendere il
loro accertamento dal sentire metagiuridico dell’operatore pratico.
La diversa opinione che fa leva sull’incidenza quantomeno indiretta dell’errore medico sugli
interessi del feto ci appare maggiormente condivisibile dal momento che, come noto, la teoria della
causalità non è unica ed unitaria, ma oltre la prevalente teoria della causalità adeguata (per cui è
rilevante solo la causa preponderante, ovvero nel caso di specie la rosolia) esiste la diversa teoria
definita usualmente come della prossimità delle cause (per cui è rilevante solo l’ultima causa),
nonché infine la teoria c.d. dell’equivalenza delle condizioni ( per cui fra tutti i possibili fattori solo
quello senza il quale il danno non si sarebbe prodotto, è da ritenersi causale).
Ebbene, accogliendo quest’ultima teoria si potrebbe affermare che, senza l’omissione colposa de
qua, il danno non si sarebbe verificato in quanto la donna avrebbe abortito (ovviamente ciò
presuppone che sussista la prova di quest’ultima circostanza, come per esempio una dichiarazione
della donna in tal senso sottoscritta prima degli esami clinici).
Tuttavia, a ben vedere, che comunque un nesso di causalità sussista nella fattispecie in esame è
agevolmente dimostrabile anche adottando la teoria della causalità adeguata, che richiede un
rapporto di causalità immediato e diretto: infatti esso intercorre indubbiamente -anche nell’ipotesi di
assenza di prova che la donna, adeguatamente informata, avrebbe abortito- tra l’errore medico e la
perdita di chance del nascituro che la donna optasse conseguentemente per l’interruzione di
gravidanza. Non un nesso causale tra la condotta medica colposa e la vita disabile dunque, ma
piuttosto un nesso causale tra la prima e la perdita di chance del nascituro. Del resto la
giurisprudenza italiana, anche se suscitando le reazioni contrarie di parte della dottrina20, ha ormai
18
V.per es. Aynès, D.Mazeaud, Rade, Seriaux, “Prèjudice de l’enfant né handicapè: la plainte de
Job devant la Cour de Cassation”, in Dallaz, 2001, pag.495.
19
Jourdain, in Dallaz, 2001, pag.336 ss..
20
Busnelli, Foro it., 1965, IV, 50; a favore invece della risarcibilità Monateri, La resp.civ., Tr.
Sacco, 586; Bocchiola, R.trim. 1976, 55 ss.; Bianca, La responsabilità, Milano, Giuffrè, 1994, pag.
161 ss..
da tempo riconosciuto l’ammissibilità della responsabilità per perdita di una chance:21 ben può essa
costituire interesse meritevole di tutela e la natura di semplice chance inciderà non sulla
meritevolezza di tutela, quanto piuttosto sulla quantificazione monetaria del danno, che
conseguentemente sarà minore.
Censurabile allora è anche l’orientamento della nostra Cassazione e di quella tedesca, che
subordinano la risarcibilità del danno c.d. da wrongful birth alla prova che la donna, adeguatamente
informata, avrebbe abortito, in quanto, qualora essa mancasse, nessuno mai potrebbe fornire la
prova contraria all’esistenza comunque di una perdita di chance che invece la legge le garantiva, al
pari della facoltà di ritornare, in tempo utile ex lege ovviamente, sui propri passi ripensando alla
propria decisione. Che poi la perdita di chance sia non solo della donna, ma anche del nascituro,
potrebbe facilmente desumersi dalla natura di contratto con efficacia protettiva nei confronti di terzi
(il padre e, per l’appunto, il bambino) che riveste il contratto di consulenza genetica stipulato dalla
madre con il medico, salvo però quanto diremo più avanti in ordine a quest’ultimo istituto.
Dunque, in conclusione, il requisito del nesso causalità non appare ai nostri occhi un ostacolo al
riconoscimento della risarcibilità del danno da wrongful life, e la contraria opinione espressa nella
sentenza in commento ci sembra più che altro il frutto di un ragionamento affrettato indotto da un
esame della fattispecie prima facie.
3.L’aborto eugenetico. La S.C. afferma quindi l’inesistenza nel nostro ordinamento del c.d. aborto
eugenetico, ovvero l’inesistenza di una facoltà automatica della donna di optare per l’interruzione
della gravidanza ogni qual volta sia accertata l’esistenza di una malformazione fetale; infatti,
affermano i giudici, la legge 194 del 1978 prevede tale facoltà solo qualora vi sia il pericolo serio di
lesioni alla integrità psico-fisica della donna; la malattia fetale, in altri termini, non rileva di per sé,
ma in quanto causi alla madre conseguenze dannose per il suo fisico o per la sua psiche, che nel
caso di specie non sarebbero state provate dai ricorrenti.
L’ordinamento italiano si distinguerebbe così da quello francese, laddove la legislazione vigente in
materia non condiziona la facoltà di abortire al pericolo di una lesione psico-fisica per la donna in
conseguenza del parto, ma ove “sembra che sia la legge stessa a riconoscere che la nascita di un
handicappato sia un danno”.
Ma l’aspetto probabilmente più significativo di questo capo della sentenza è l’affermazione della
S.C. che perciò in Italia non esisterebbe un diritto di abortire, bensì una mera facoltà esercitabile in
presenza di determinate circostanze prescritte dalla legge -il pericolo serio per la salute della donnache fungono da vere e proprie scriminanti; prova ne sarebbe che, in assenza, l’interruzione
volontaria della gravidanza continua a costituire reato.
Incidentalmente dunque la Corte affronta un altro tema di grande interesse sociale, oltrechè
giuridico, ovvero l’interpretazione della legge sull’aborto, con particolare riferimento al requisito
del pericolo almeno serio per la salute della donna e alla fattispecie in esame: al riguardo purtroppo
la nostra Cassazione non pare aver assunto negli ultimi un’unica posizione, bensì essa ha espresso
giudizi che sembrano contrastanti tra loro. Per esempio quasi contemporaneamente alla sentenza in
commento, veniva depositata altra sentenza (della stessa sezione) che stabiliva invece che “l'omessa
rilevazione, da parte del medico specialista, della presenza di gravi malformazioni nel feto, e la
correlativa mancata comunicazione di tale dato alla gestante, deve ritenersi circostanza idonea a
porsi in rapporto di causalità con il mancato esercizio, da parte della donna, della facoltà di
21
Cass. civ., sez. lav., 19 dicembre 1985, n. 6506, Giust. civ. 1986, I, 1386, Giur. it. 1986, I, 1, 669,
Rass. giur. Enel 1986, 688; Cass. civ., sez. lav., 10 agosto 1987, n. 6864, Giust. civ. Mass. 1987,
fasc.8-9, Foro it. 1987, I, 2987; Cass. civ., sez. lav., 12 ottobre 1988, n. 5494; Giust. civ. Mass.
1988, fasc. 10.
interrompere la gravidanza, in quanto deve ritenersi rispondente ad un criterio di regolarità
causale che la donna, ove adeguatamente e tempestivamente informata della presenza di una
malformazione atta ad incidere sulla estrinsecazione della personalità del nascituro, preferisca non
portare a termine la gravidanza”22. Tale principio sembra in contrasto con il ragionamento della
sentenza in commento, per cui “i ricorrenti danno per pacifico che il nostro ordinamento, a tal fine,
preveda l’aborto eugenetico, a cui sarebbero tenuti i genitori (quantomeno la gestante), ove
correttamente informati delle malformazioni o delle malattie del feto da parte del sanitario, con la
conseguenza, nella fattispecie, che la mancata informazione d parte del sanitario della malattia
della piccola D., impedendo alla madre di poter esercitare la facoltà di aborto, avrebbe reso il
medico stesso unico responsabile della vita non sana o ingiusta della minore, che invece aveva
come alternativa quella di non nascere”, in quanto qui si presume che la donna, adeguatamente
informata, non avrebbe deciso di abortire in quanto non tenuta a ciò; lì invece si presume
esattamente il contrario, ovvero che la donna avrebbe preferito abortire, sulla base di un
ragionamento di regolarità causale.
In ipotesi di gravi malformazioni fetali poi, sussiste sempre il pericolo serio per la psiche della
donna e solo ciò rileva in quanto la legge non richiede l’accertamento medico-legale della lesione
psico-fisica, bensì semplicemente l’accertamento di una situazione di rischio; così, anche ex post, il
soggetto malformato non dovrà provare una lesione psico-fisica della donna, né peraltro la
situazione di pericolo suddetta, in quanto questa è in re ipsa.
Il ragionamento espresso nella sentenza in commento, secondo cui non esiste in Italia un diritto di
abortire, può essere condiviso, in quanto è certo che esista, ed è costituzionalmente garantito, un
diritto alla salute della donna, tramite il quale solo assume carattere di liceità l’interruzione
volontaria di gravidanza; in altri termini in conflitto non sono il diritto alla vita del nascituro e il
diritto di abortire, che con ogni probabilità non esiste, bensì il primo e il diritto alla salute, ex art.32
Cost. della donna, qualora questa sia posta in pericolo in modo serio, come nell’ipotesi di gravi
malformazioni fetali.
Il fatto poi che la legge italiana, a differenza di quella francese, ribadisca il requisito del pericolo
per la salute anche nell’ipotesi delle malformazioni è evidentemente da interpretare nel senso di una
volontà del legislatore di esplicitare la ratio della previsione: la malformazione rileva perché pone
in pericolo la salute della donna e non, invece, solo quando ponga in pericolo la salute della donna;
è vero altresì che anche qualora volessimo accogliere la seconda interpretazione, la specificazione
avrebbe semplicemente la finalità di circoscrivere la facoltà alle ipotesi di gravi malformazioni, in
quanto non vi è dubbio che solo gravi malformazioni pongono di per sé in una situazione di serio
pericolo la salute della donna. Ma allorché si sia in presenza di questo genere di situazioni è
inammissibile richiedere una prova del pericolo.
Tale prospettazione giuridica, propria di chi scrive, appare essere confermata anche da autorevole
dottrina che all’epoca dell’entrata in vigore della legge sull’aborto assunse il delicatissimo compito
di commentare la suddetta legge23; in particolar modo da un lato si affermava che la formula “vaga
e permissiva” di cui all’art.4 l.cit. “non può significare, sic et simpliciter l’interruzione della
gravidanza è consentita nei primi 90 giorni, come è, invece, chiaramente sancito, sebbene entro
limiti di tempo e con procedure variabili, in molti altri paesi”, in quanto nel contemperamento
necessario a fronte del conflitto di interessi tra la madre e il nascituro, la giustificazione della
compromissione dei secondi risiede nel pericolo almeno serio per la salute psicofisica della madre,
il che “impedisce di classificare il suo diritto, tout court, come un diritto di libertà”24; dall’altro lato
si affermava che “il medico, anche nella fattispecie in esame, (n.d.s. processi patologici accertati
dopo i novanta giorni ex art.6 l.cit.) non può e non deve assumersi tanto la responsabilità di
22
Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2004, n. 11488, Giust. civ. Mass. 2004, f. 6.
Commentario a cura di C.M.Bianca e F.D.Busnelli, in “Le nuove leggi civili commentate”,
n.6/1978, pag.1593 ss..
24
L.R.Carleo, op. ult. cit., pag. 1615 e 1617.
23
valutare il rapporto tra la situazione patologica e il grave pericolo per la salute, quanto quella di
certificare l’esistenza di determinati processi patologici, poiché la presenza stessa di questi
processi diviene ineluttabile sintomo di grave pericolo”25.
In conclusione la Cassazione ha ragione quando dice che non esiste un diritto di abortire e che
“l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute
della gestante, serio (entro i primi novanta giorni di gravidanza) o grave (successivamente)”, ma
non quando afferma che “le eventuali malformazioni o anomalie del feto, rilevano solo nei termini
in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante e non in sé considerate, con
riferimento al nascituro” (rimproverando così al ricorrente di aver dato per scontato siffatta
rilevanza), in quanto, ribadiamo, la rilevanza è invece in re ipsa, allorchè le malformazioni siano
gravi come nel caso di specie.
Anche questo capo di motivazione della decisione della S.C. non appare pertanto idoneo a negare la
riconoscibilità del diritto azionato in giudizio.
4.L’azione contro la madre. La S.C. prosegue nel suo ragionamento diretto a negare la
riconoscibilità del diritto a non nascere, affermando che, qualora così non fosse, si correrebbe
seriamente il rischio di trasformare l’interruzione di gravidanza da volontaria ad obbligatoria
nell’ipotesi di gravi malformazioni fetali tempestivamente accertate; in altri termini, qualora non
ricorresse l’errore medico, e la madre, pur se adeguatamente informata circa la malattia, decidesse
ugualmente di portare a termine la gravidanza, il figlio, divenuto maggiorenne o adeguatamente
rappresentato, potrebbe agire nei confronti della madre addebitandole di averlo fatto nascere
nonostante la patologia e quindi in violazione del suo diritto a non nascere ed arrecandogli il danno
di una vita disabile.
Analoga argomentazione è rintracciabile in un precedente giurisprudenziale francese, nel quale si
affermava che « un enfant ne peut pas se plaindre d’ètre né tel qu’il a ètè concu par ses parents,
mème s’il est atteint d’une malarie incurabile ou d’un dèfaut gènètique, dès lors que la science
mèdicale n’offrait aucun traitement pour le guèrir in utero. Affirmer l’inverse serait juger qu’il
existe des vies qui ne valent pas d’ètre vècues et imposer à la mère une sorte d’obligation de
recourir, en cas de diagnostic alarmant, à une interruption de grossesse. Ce serait aller contre tous
les principes qui fondent le droit en matière biomèdicale (un bambino non può sporgere denuncia
contro il fatto di essere nato quale è stato concepito dai suoi genitori, anche se è affetto da una
malattia incurabile o da un difetto genetico, dal momento che la scienza medica non offriva nessuna
cura per guarirlo in utero. Affermare il contrario vorrebbe dire ritenere che esistono delle vite che
non valgono la pena di essere vissute e imporre alla madre una sorta di obbligo di agire in giudizio
in caso di diagnosi pericolosa per un’interruzione di gravidanza)»26.
Anche recentissimi commentatori della sentenza de qua hanno espresso analoga opinione,
affermando che riconoscendo il diritto a non nascere, e segnatamente l’esistenza del c.d. aborto
eugenetico, “un simile diritto sarebbe opponibile erga omnes, sicchè il soggetto, una volta nato,
potrebbe agire anche nei confronti dei genitori…”27.
Molti anni addietro destò grande scalpore una sentenza di merito28 che riconobbe per l’appunto che
“i genitori, siano legittimi o naturali, sono responsabili per fatto illecito nei confronti dei figli,
quando abbiano loro trasmesso, attraverso il concepimento, una condizione morbosa che ne
menomi l’efficienza fisica”. La sentenza fu duramente criticata dalla dottrina di allora che mise
25
L.R.Carleo, op. ult. cit., pag.1637.
Conseil d’Etat, 14 fèvrier 1997.
27
A.Pinna, “Nascere sani o non nascere: la Cassazione nega l’esistenza di un tale diritto”, in
Contratto e Impresa, n.1/2005, pag. 30-33.
28
Tribunale Piacenza, 31 luglio 1950, in Foro it., 1951, I, 989.
26
l’accento sul valore della vita, affermando che “se un malato val meno d’un sano, a fortiori la vita,
anche d’un malato, vale qualcosa, mentre la non vita non vale nulla”29; altri rimproverarono ai
giudici di aver posto in essere “un principio quanto mai pericoloso, ove si pensi in astratto a
possibilità di azioni simili per ipotesi di ben altre trasmissioni ereditarie dannose, dall’estetica al
carattere morale o addirittura alla condizione sociale, cui certo il Tribunale non intendeva
giungere, ma che, una volta intrapresa la strada tracciata, sarebbe forse difficile evitare”.30
Oggi il problema si presenta di tremenda attualità se solo pensiamo alla trasmissibilità per via
ereditaria del virus HIV, sorgendo spontanea la domanda se il malato di AIDS sia tenuto o meno a
non procreare, e se quindi esista un diritto a non nascere in relazione a siffatta fattispecie: non è
probabilmente questa la sede per occuparsi anche di questo problema delicatissimo degno di una
trattazione specifica che ci riserviamo per il futuro. Basti per il momento osservare che il diritto di
procreazione non solo deve essere cosciente, ma anche responsabile; volendo dire che i genitori a
conoscenza di un alto rischio di trasmissione di malattie ereditarie, hanno il dovere morale e
giuridico di adeguare i propri comportamenti ad un canone di responsabilità nei confronti di colui
che dovrà subirne le conseguenze; basti altresì osservare che la fattispecie or ora segnalata si
distingue nettamente da quella oggetto della sentenza in commento, in quanto la prima è un’ipotesi
di wrongful conception mentre la seconda di wrongful birth o life.
E’ stato giustamente affermato in giurisprudenza che, in ipotesi di fallito intervento di
sterilizzazione, il medico non possa invocare il carattere di evitabilità del danno giusta la facoltà di
abortire della donna, in quanto l’interruzione volontaria della gravidanza costituisce pur sempre un
atto di violenza sul proprio corpo, cui nessuna donna può essere obbligata; in particolar modo è
stato affermato che “la decisione di non interrompere la gravidanza non solo non può essere
valutata come concorso di colpa, ma non può neanche essere intesa come consenso alla nascita di
un nuovo bambino” in quanto “ai genitori non può essere richiesto di separarsi dal bambino contro
la loro volontà” e “vertendosi in un ambito così personale e coinvolgente convinzioni morali e
religiose, deve ancora una volta escludersi che il mancato ricorso all’aborto o all’adozione possa
essere oggetto di imputazione per concorso di colpa”31.
Nessun incertezza, a nostro modesto parere, deve permanere di fronte al quesito se possa esistere un
obbligo ad interrompere una gravidanza: la risposta ci pare dover essere negativa in quanto si tratta
di un atto di disposizione del proprio corpo da parte della donna, ed in quanto tale sottoposto al
limite della permanente diminuzione dell’integrità fisica ex art.5 c.c., e soprattutto, una volta
all’interno di tale limite, qualificabile come lecito soltanto se il soggetto interessato vi abbia
prestato un consenso libero e consapevole; in tal senso l’art.5 c.c. viene tradizionalmente accostato
all’art.50 c.p. (“non è punibile chi lede o pone in pericolo un diritto, col consenso della persona che
può validamente disporne”), quali norme aventi la medesima estensione ovvero norme
complementari, in cui il precetto “in bianco” della disposizione penale verrebbe ad essere integrato
da quella civile32.
Tutto questo ragionamento, che apparentemente potrebbe sembrare voler sviare dall’oggetto
centrale del presente commento, è utile per capire che il sillogismo posto in essere dalla S.C. e dalla
dottrina sopra citata, anche recente (se riconoscessimo il diritto al risarcimento del danno verso il
medico, dovremmo riconoscerlo anche verso la madre, qualora in futuro venisse ciò domandato),
non ci sembra condivisibile per il semplice motivo che sarebbe ben possibile riconoscere la
responsabilità del medico per procurato danno da wrongful life e allo stesso tempo negare quella
29
F.Carnelutti, “Postilla”, in Foro it., 1951, I, 990.
M.Elia, in Foro it, 1951, I, 989.
31
Tribunale Venezia, 10 settembre 2002, op. loc. cit..
32
Ansaldo, “Le persone fisiche”, Comm. Schlesinger, Milano, Giuffrè, 1996, pag. 251 ss.;
Dogliotti, Trattato di Diritto Privato, a cura di Rescigno, II, Torino, Utet, pag.96; Riz, “Il consenso
dell’avente diritto”, Padova, Cedam, 1979, pag.98 ss.; De Cupis, “I dir. della personalità”, Tr.
Diritto Civile e Commerciale, Milano, Giuffrè, 1959, pag. 117.
30
della madre che, correttamente informata, abbia deciso lo stesso di partorire: nel secondo caso,
infatti, avremmo in conflitto due diritti, tra i quali, per le ragioni sopra esposte, sarebbe destinato
inevitabilmente a prevalere il diritto della donna a procreare. Nella fattispecie che si presentava ai
giudici di legittimità mancava invece un conflitto del genere ed anzi la responsabilità del medico nei
confronti del figlio sarebbe stata sancita proprio alla luce della facoltà della donna di optare per
l’interruzione di gravidanza, il cui mancato possibile esercizio fu dovuto alla condotta colposa
dell’operatore sanitario.
In altri termini un conto è la situazione ante concepimento, laddove i genitori sono soggetti
all’obbligo di protezione nei confronti del futuro ed eventuale concepito; un conto la situazione
successiva, in cui, salva la responsabilità per l’ipotetica violazione di quell’obbligo, la sanzione
giuridica non può certamente consistere in un aborto imposto.
Alcuni hanno obiettato, anche molto polemicamente, che l’antiperruchiste giudicherebbe il caso in
cui la donna avrebbe voluto, se adeguatamente informata, abortire per evitare l’handicap (ma
sarebbe rectius dire “per evitare la vita disabile”) applicando una valutazione concernente fatti
esattamente contrari; ovvero concernente la diversa ipotesi in cui la donna invece avrebbe deciso
comunque di portare a termine la gravidanza: si afferma infatti che “l’antiperruchiste è così anti che
si riduce, in fondo, a non poter più esercitare il suo giudizio se non sull’anti-caso Perruche!”33
In realtà si tratta di una critica che, così argomentata, non pare condivisibile, in quanto è
perfettamente normale che una Corte di legittimità nello stabilire un principio, ed in generale
nell’esercitare la sua funzione di nomofilachia, si ponga l’interrogativo della validità del principio
in via generale ed astratta, e non semplicemente con riferimento al caso concreto; ciò a meno che,
ovviamente, non si trovasse ad operare in un sistema di case-law.
Altri ancora puntano invece sull’ammissibilità morale dell’obbligo dei genitori di rispondere al
figlio circa la loro scelta di metterlo al mondo, nonostante la loro consapevolezza di far venire alla
luce un soggetto gravemente disabile34; in sostanza costoro rispondono all’obiezione formulata
dalla nostra Corte, ed ancor prima da quella francese, accogliendone le conseguenze ma
valutandole, anziché negativamente, positivamente.
La questione pare essere un’altra: in un caso, in cui si valuta la sussistenza o meno della
responsabilità della madre, c’è in gioco il diritto della donna a procreare; nell’altro caso, in cui è
invocata la responsabilità del medico, manca un analogo diritto contrapposto a quello azionato in
giudizio; il diritto a procreare toglie al fatto il requisito indispensabile per l’esistenza di ogni
responsabilità civile, ovvero il carattere di antigiuridicità.
Non solo vi deve essere danno, ma questo danno deve essere ingiusto.
5.La vita disabile come danno. I giudici di legittimità utilizzano peraltro anche un altro
argomento, anch’esso a prima vista particolarmente efficace: l’esistenza del diritto a nascere sani
non comporta l’obbligo di non far nascere disabili: “il diritto a nascere sani significa solo che (…)
nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo
colposo o doloso) (…) non significa invece, come ritengono i ricorrenti, che il feto, che presenti
gravi anomalie genetiche, non deve essere lasciato nascere”. Il ragionamento citato non fa una
grinza, esso è del tutto condivisibile, e peraltro sconfessa quello con cui, la stessa Corte, paventava
il rischio di future azioni risarcitorie fondate sull’obbligo della madre di abortire; tuttavia, a
prescindere da quanto esposto dai ricorrenti, non è certo decisivo nella soluzione della fattispecie de
qua, in quanto l’obbligo violato non è certo quello di non far nascere un soggetto disabile, in quanto
tale obbligo non esiste; quanto piuttosto l’obbligo di informare la gestante sulla grave
malformazione e quindi porla in grado di esercitare la facoltà riservata a lei dalla legge di
interrompere la gravidanza.
33
34
O.Cayla e Y.Thomas, op.cit., pag.39.
Denys de Bèchillon, Revue trimestrielle de droit civil, 2002.
Il punto cruciale di tutta la questione sembra invece essere proprio un altro, ovvero se la vita
disabile possa essere considerata un danno e rientrare così nel concetto di perdita, di diminutio
rispetto ad uno status quo ante: la risposta corretta, a nostro modesto parere, a questo fondamentale
quesito ci viene data dalla giurisprudenza anglosassone, la quale, con lo spirito pratico ed empirico
che da sempre la contraddistingue ha affermato che “it is impossibile to measure the damages for
being born with defects, because it is impossibile to compare the life of a child born with defects
and non-existence as a human being (…) but how can a court begin to evacuate non existence, the
undiscovered country from whose bourn no traveller returns?. No comparison is possibile and
therefore no damage can be established which a court could recognise”.35
La Corte inglese ha colto l’aspetto fondamentale nel momento in cui ha affermato la non
comparabilità tra vita disabile e morte, in quanto non è possibile stabilire cosa, in parole semplici,
sia meglio tra le due, e ciò, a nostro avviso, non tanto, o comunque non solo, per la non conoscenza
dell’aldilà e di ciò che ci aspetta nell’undiscovered country from whose bourn no traveller returns36,
quanto piuttosto per l’elementare dato che è impossibile stabilire in termini astratti e generali se un
soggetto invalido, anche gravemente, consideri la sua vita disabile come un danno o come
comunque un dono: il dato empirico ci insegna che esistono casi in cui persone disabili conducono
la propria esistenza con una forza d’animo ed una gioia di vivere assai più intensa di soggetti privi
di alcuna disabilità; mentre invece vi sono indubbiamente altri casi in cui la vita disabile è
accompagnata da atroci sofferenze che rendono l’esistenza umana una vera e propria tortura; ciò
dipende non soltanto dalla gravità della malformazione, quanto anche e soprattutto dall’intimo
essere del soggetto interessato, ovvero dalla grandiosa, ed insidiosa allo stesso tempo, diversità
insita in ogni essere umano rispetto a qualunque altro.
Diversamente ritiene la nostra Corte -nonché chi37 più recentemente si è cimentato nella nostra
stessa opera- secondo cui “l’omessa o errata informazione non ha apportato per il concepito una
posizione peggiore rispetto a quella che precedeva l’inadempimento informativo da parte del
medico nei confronti della gestante. (…) Infatti, indipendentemente da considerazioni etiche (pur
comuni alla maggior parte della cultura occidentale secondo cui il bene della vita è il massimo dei
valori e non esiste una perdita maggiore della morte) va osservato che tale principio è trasfuso
anche nel nostro ordinamento che sanziona in modo più severo l’aggressione alla vita (art.575 c.p.)
rispetto all’aggressione all’integrità fisica, per quanto gravissima (art.582-583 c.p.)”.
Ma il richiamo alla norma penale non ci induce a mutare opinione, in quanto forse anch’essa
andrebbe rivisitata nel senso di punire gravissime lesioni all’integrità fisica che possano rendere la
vita insopportabile alla stessa stregua degli omicidi: del resto non a caso nella giurisprudenza civile
fu coniata la nuova voce risarcitoria del danno esistenziale sub art.2043 c.c., categoria oggi
ricondotta all’art.2059 c.c. come danno alla persona distinto dal danno morale puramente
soggettivo; l’attribuzione di rilevanza giuridica a danni alla persona come quello alla carriera (in cui
non si considera però il lavoro come fonte di reddito, bensì come sviluppo della propria
personalità), alla capacità sessuale, alla serenità familiare etc...sono il frutto di una civiltà
occidentale -quella stessa evocata dalla sentenza in commento- che, a torto o a ragione, non si
accontenta più della vita, ma appare sempre più interessata alla qualità di essa; in altri termini
possiamo ben dire che il nostro ordinamento sembra ormai riconoscere, se non esplicitamente,
quantomeno implicitamente, quel right of happiness che la Costituzione americana, unica fra tutte,
prevede fin dalla sua promulgazione.
Anche altri38 sembrano pensarla allo stesso modo, rilevando che “anche la giurisprudenza, d’altra
parte, di contro a quanto sembrerebbe prospettabile dalla motivazione della sentenza in commento,
35
Court of Appeal, (England), 19 febbraio 1982, Mckay and another v. Essez Area Health
Authority [1982] 1 QB 1166 [1982] 2 All ER 771, [1982] 2 WLR 890.
36
Shakespeare, Hamlet, 3,1.
37
A.Pinna, op. cit., pag. 38,39.
38
E.Giacobbe, “Wrongful life e problematiche connesse”, Giust. Civ. n.1/2005, pag.136.
sembra ormai orientata verso un’utilizzazione sempre più ampia della categoria del danno
esistenziale, nelle più svariate fattispecie”.
Ciò che viene detto giustamente dalla S.C. è invece altro, ovvero la difficoltà -o meglio
impossibilità- di stabilire con certezza il grado di tollerabilità della vita stessa, in quanto, come già
detto, esso dipende da quella variabile insopprimibile costituita dall’animo umano: “va poi
osservato che se esistesse detto diritto a non nascere, se non sano, se ne dovrebbe ritenere
l’esistenza, indipendentemente dal pericolo per la salute della madre, derivante dalle
malformazioni fetali, e si porrebbe l’ulteriore problema, in assenza di normativa in tale senso, di
quale sarebbe il livello di handicap per legittimare l’esercizio di quel diritto, e, poi, di chi dovrebbe
ritenere che detto livello è legittimante della non nascita”.
6. Il contratto con efficacia protettiva di terzi. Autori tedeschi hanno agganciato l’azione diretta
del figlio contro il medico al contratto con effetti protettivi per i terzi39; tuttavia è stata la stessa
dottrina tedesca a smentire questa impostazione del problema affermando giustamente, nello stesso
senso da noi sopra indicato, che “l’inadempimento del medico potrebbe rilevare anche nei confronti
del neonato se si riesce ad individuare l’interesse del figlio all’interruzione della gravidanza,
ammesso che la legge consenta alla donna di perseguire tale scopo. Ma proprio questo interesse
manca, in quanto bisognerebbe essere proprio sicuri che per il bambino la non esistenza sarebbe
un’alternativa degna di essere preferita. Inoltre tale decisione non potrebbe essere presa da
persone diverse dall’interessato perché il valore soggettivo della vita anche se sofferente non può
essere misurato oggettivamente prendendo come punto di riferimento la vita di un uomo sano”40. In
altri termini il problema non è tanto dell’esistenza o meno del diritto a non nascere, quanto
dell’esistenza o meno di un qualcosa che possa essere definito, in termini oggettivi, come danno.
Quando invece, da un punto di vista strettamente di filosofia politica, si qualifica il diritto a non
nascere come espressione del “diritto al rifiuto di se stesso” e si considera questa possibilità come
una “condizione di pensabilità della categoria politica della libertà”41, si urta, anche, ed almeno nel
nostro ordinamento, nel divieto di atti che diminuiscano in modo permanente la propria integrità
fisica ex art.5 c.c. che, come affermato tradizionalmente in dottrina, rende impossibile
giuridicamente il riconoscimento, per esempio, di un diritto al suicidio: è stato giustamente
affermato che, con riferimento al suicidio e all’autolesione, si pongono in contrasto il principio di
autodeterminazione con quello di responsabilità solidaristica di ciascun soggetto, per cui mentre per
il suicida e l’autolesionista resta una situazione di pura liceità, per i consociati esiste un dovere
personale di solidarietà che li autorizza ad intervenire: colui che quindi tenti di salvare qualcuno dal
suicidio non potrà essere perseguito grazie ad una legittimazione positiva che ratifica la meritorietà
civile dell’intervento come adempimento di un dovere giuridico o civico.42 Tuttavia, anche qualora
non si ritenesse qualificabile il suicidio come un atto illecito, considerando che peraltro si
tratterebbe di un illecito privo di sanzione, resterebbe l’alternativa di considerarlo come un atto
39
V.E. Deutsch, in nota a BGH 18 gennaio 1983, in JZ, 1983, p.451; Id., Medizinrecht, Berlin,
1998, pag.187. Favorevole alla tutela del figlio anche Giesen, International Medical Malpractice
Law, pag.89. Contra, v. K. Waibl, Kindesunterhalt als Schaden, 1986, pag.348. V. anche BGHZ 86,
240, con nota di Grunsky, in JZ, 1986, pag.171; Picker, Schadensersatz fur das unerwunschte Kind,
in AcP, 1995, pag.484; Backhaus, MedR 1996, pag.201.
40
V.K. Waibl., “Nascere infermo o non nascere: quale tutela per il nuovo nato?”, a cura di
A.M.Princigalli, Riv. Critica di D.Priv., 2001, pag.693.
41
O.Cayla e Y.Thomas, op. cit., pag.64: in realtà l’autore cita Henri Caillavet, facendola però
propria.
42
Bellini, Aspetti Costituzionali, “Trattamenti sanitari tra libertà e doverosità”, Napoli, 1983.
meramente lecito, non vietato ma giammai garantito come un diritto di libertà43: i diritti inalienabili
dell’uomo, in cui autorevole pensiero individua il fondamento del diritto al suicidio44, sono infatti
diritti la cui funzione è di rendere possibile l’espressione della personalità dell’individuo,
isolatamente considerato o in seno alle formazione sociali, dal che deriva l’impossibilità logicagiuridica di riconoscere un diritto di libertà teso all’annullamento di quella stessa personalità.
E’ innegabile peraltro che, come è stato giustamente sostenuto45, specie nel nostro ordinamento con
la svolta giurisprudenziale del 2003 -che ha sganciato definitivamente la risarcibilità del danno
non patrimoniale, e segnatamente del c.d. danno morale, dalla rilevanza penale della fattispecie
civile- si corra il rischio di sostituire in detta materia un sistema di tutela dalle maglie
eccessivamente ristrette con uno caratterizzato dal problema diametralmente opposto: ciò potrebbe
avvenire qualora si trascuri la necessità di un’applicazione rigorosa del requisito dell’ingiustizia del
danno, in particolar modo con riferimento ai parametri costituzionali che costituiscono il criterio
fondamentale per stabilire la violazione dei c.d. nuovi diritti della personalità. Più in generale
questo rischio dovrebbe quindi evitarsi attraverso la riscoperta di quei presupposti la cui ricorrenza
tradizionalmente distingue, sotto il piano della responsabilità, le ipotesi rilevanti da quelle
irrilevanti: il nesso causale, la colpa, il danno, il danno ingiusto.
A proposito ancora dell’impostazione basata sulla figura del contratto con efficacia protettiva di
terzi, alcuni hanno evidenziato con stupore come la sentenza in commento, dopo aver ricordato una
serie di norme dalle quali poter desumere il riconoscimento dell’ordinamento della tutela
dell’individuo fin dal concepimento, affermi successivamente come attraverso di esse non venga
“ovviamente” attribuita soggettività giuridica al concepito, il che ha reso necessario alla Corte, al
fine di superare l’ostacolo, rappresentato da questa affermazione, all’adozione dello schema del
contratto a favore di terzo, di elaborare la figura del contratto ad effetti protettivi a favore di terzo46.
La domanda che a questo punto ci si pone è di fondamentale rilevanza, ovvero se il concepito sia
soggetto di diritto o meno; domanda da porsi con la consapevolezza che, qualora rispondessimo
positivamente, tutte le ipotesi di wrongful life originate direttamente, e non solo indirettamente,
dalla condotta colposa di terzi (che siano medici o conducenti di autoveicoli), sarebbero certamente
suscettibili di essere risarcite su iniziativa dello stesso danneggiato, in quanto in quelle ipotesi
l’alternativa non sarebbe più tra vita disabile o morte, ma tra vita sana e vita disabile, laddove
quest’ultima è determinata direttamente dal fatto illecito del terzo.
L’art. 1 del c.c., dopo aver sancito che “la capacità giuridica si acquista dal momento della
nascita”, prevede che i diritti che la legge riconosce a favore del concepito siano subordinati
all’evento della nascita; tale ultima disposizione è stata considerata inizialmente, in giurisprudenza
e in dottrina, un’eccezione rispetto alla regola prevista al primo comma, e come tale valevole solo
per casi tassativamente determinati dalla legge e non estensibile in via analogica47.
Tuttavia più recentemente è stato affermato in giurisprudenza che “nonostante che l’acquisto della
capacità giuridica sia dall’art.1 c.c. subordinato all’evento della nascita, deve ritenersi che anche
prima di tale evento il concepito sia titolare di posizioni giuridiche soggettive aventi una propria
rilevanza: tra queste vi è la legittima aspettativa alla nascita (..omissis..), e di riflesso l’aspettativa
dell’individuo a nascere sano; ne consegue che la lesione subita dal nascituro durante la gestione
ben può essere qualificata come danno ingiusto, e può, conseguentemente, far sorgere in capo al
43
In questo senso Ondei, “Persone fisiche e diritti della personalità”, Torino, Utet, 1965, in
Giurisprudenza sistematica civile e commerciale.
44
Barile, “Diritti dell’uomo e libertà fondamentali”, Bologna, Il Mulino, 1984.
45
Catalano, “Di cassette per la corrispondenza piene e danno esistenziale derivante”, in Danno e
Responsabilità n.89/2004, pag.887;
46
E.Giacobbe, op. cit., pag.136, 137 e 141.
47
Cass. 28 dicembre 1973, n. 3467; Rescigno, voce “Capacità di agire”, Digesto CIV., 1988;
Corte Cost. 25 giugno 1981, nn.108 e 109, FI, 1981, I, 1971; Carnelutti, “Nuovo profilo
dell’istituzione di nascituri”, FI, 1954, IV, 57.
soggetto leso, una volta nato, il diritto al relativo risarcimento”48: è stata così riconosciuta in via
generale la legittimazione attiva del soggetto che abbia subito danni nella vita prenatale ex art.2043
c.c., sulla base del diritto del concepito a nascere come individuo sano, pur considerandolo soltanto
un centro di interessi giuridicamente tutelato49, nonché si è qualificato il contratto concluso tra ente
ospedaliero e partoriente come contratto con efficacia protettiva nei confronti di terzo, per cui
sull’ente non grava solamente l’obbligo principale di cura ed assistenza al parto, ma anche quello
accessorio di evitare al feto qualsiasi danno.
Anche in dottrina posizioni più condivisibili sono state espresse da chi50, esaminando il problema
delle varie forme di tutela anticipata del concepito, è giunto alla conclusione che il concepito,
portatore di interessi attualmente tutelati, gode di una “capacità provvisoria” che diventa definitiva
con la nascita o si risolve retroattivamente se la nascita non segue.
Ed allora, invece di evocare complesse figure di contratti con efficacia protettiva di terzo (che a ben
guardare avrebbero probabilmente anch’essi bisogno di misurarsi con qualcosa dotato di
soggettività giuridica), o di eludere il problema considerando solo il nascituro poi effettivamente
nato (e quindi non curandosi della situazione antecedente), bisognerebbe forse ammettere, in via
generale, e non solo eccezionale, la capacità giuridica fin dal concepimento, una capacità giuridica
condizionata in via risolutiva all’evento della nascita.
In questo senso la recentissima legge sulla procreazione medicalmente assistita51 “assicura i diritti
di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito”, optando per il riconoscimento in via generale
della soggettività giuridica fin dal concepimento, seppure una soggettività pur sempre condizionata,
di guisa che il concepito leso dalla condotta colposa del medico o del conducente di autoveicolo
potrà, una volta nato, chiedere egli stesso il risarcimento del danno, mentre i prossimi parenti
potranno invocare esclusivamente i danni da essi personalmente subiti, in quanto vittime
secondarie.
Tornando invece alla fattispecie in esame, caratterizzata dalla circostanza della condotta colposa del
medico consistente nell’omissione dell’accertamento della malattia fetale, la figura del contratto con
efficacia protettiva del terzo è peraltro stata richiamata dalla Corte, nella sentenza in commento,
anche per giustificare il riconoscimento del risarcimento del danno in favore del padre, cui la legge
non prevede alcuna forma o grado di partecipazione al processo decisionale concernente
l’interruzione di gravidanza, “atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si
incentrano sul fatto della procreazione” ed atteso che il padre “deve perciò ritenersi tra i soggetti
protetti dal contratto col medico e quindi tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o
inesatta può qualificarsi come inadempimento, con tutte le relative conseguenze sul piano
risarcitorio”.
In dottrina questo capo della sentenza in commento è stato criticato da chi52, partendo dal
presupposto che nel nostro ordinamento ormai sia un dato acquisito che il padre non abbia alcuna
voce in capitolo in merito alle sorti del concepito medesimo, evidenzia come, a suo dire, non
risulterebbe ben chiaro il diritto o interesse, riconducibile al padre, violato dal comportamento del
medico.
A tal proposito l’opinione di chi scrive, in un certo qual modo, combacia con l’orientamento appena
in ultimo citato, in quanto l’uso disinvolto dello strumento del contratto con efficacia protettiva del
terzo rischia di compromettere o vanificare oltremodo il principio indiscutibile secondo cui “il
contratto ha forza di legge tra le parti” e soltanto esse; mentre invece alcune delle ipotesi che sono
48
Tribunale Verona, 15.10.90, in Giur. merito 1992, 329.
Tribunale Monza, 8 maggio 1998; Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2000, n.11625.
50
Bianca, Diritto Civile, I, Milano, 1978, pag.202-203; cfr. l’opinione favorevole ad una lettura
non restrittiva dell’art.1 c.c., argomentando giustamente ex artt.462 e 784 c.c., di A.Pinna, op. cit.,
pag. 45.
51
Art.1 L.19 febbraio 2004, n.40 (G.U. 24.2.2004, n.45).
52
E.Giacobbe, op. cit., pag. 147.
49
ascritte solitamente a tale creazione dottrinale sono forse riconducibili più correttamente al principio
del neminem laedere e conseguentemente ad un tipo di responsabilità extracontrattuale.
Nel caso di specie così il contratto con efficacia protettiva del terzo appare svolgere la funzione di
uno strumento necessario ad ovviare ad un’incongruenza legislativa: l’omessa previsione di una
qualsiasi facoltà di accesso per il padre al processo decisionale di interruzione di gravidanza
contrasta nettamente con il principio espresso dal secondo comma dell’art.29 Cost., secondo cui “il
matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi”, nonché con ogni
probabilità con l’art.2 Cost., in quanto tra i diritti inviolabili dell’uomo deve essere compreso
certamente il diritto di essere padre; contrasta altresì con tutte quelle norme del codice civile che, in
attuazione del principio costituzionale, esprimono l’uguaglianza dei genitori nei diritti e doveri di
cui sono titolari nei confronti della prole.
L’obiezione per cui la posizione particolare della madre, per ragioni di tipo prettamente naturale,
giustifichi tale disparità di trattamento, rischia forse di tralasciare eccessivamente il rapporto di tipo
biologico intercorrente tra padre e figlio, nonchè il diritto del primo ad una procreazione cosciente e
responsabile, che, se non è meritevole di tutela al pari di quello di una donna, non può essere
considerato neppure totalmente irrilevante per il diritto, così come sembrerebbe essere invece allo
stato dell’attuale legislazione italiana in materia: quest’ultima peraltro, sotto questo profilo, appare
in contrasto con lo spirito che ha mosso la più recente normativa dell’Unione Europea53 a parlare di
responsabilità genitoriale, quasi a sottolineare la comune ed eguale responsabilità che discende in
capo ai genitori dal rapporto di filiazione.
7. L’eutanasia. Un ulteriore spunto di riflessione, degno di essere menzionato, che ci viene offerto
dalla sentenza in commento, è altresì l’accostamento della fattispecie in esame con quella diversa
dell’eutanasia, quando si afferma che “sostenere che il concepito abbia un diritto a non nascere, sia
pure in determinate situazioni di malformazione, significa affermare l’esistenza di un principio di
eugenesi o di eutanasia prenatale, che è in contrasto con i principi di solidarietà di cui all’art.2
Cost., nonché con i principi di indisponibilità del proprio corpo di cui all’art.5 c.c.”.
A tal riguardo occorre premettere che, nel nostro ordinamento, il consenso del soggetto non rende
mai lecita per il medico la c.d. eutanasia terapeutica attiva54: tipico è il caso della somministrazione
di farmaci per alleviare il dolore e causare la morte, che si ritiene giustamente costituisca senza
dubbio reato. Oggetto di discussione sembra essere invece in dottrina la diversa ipotesi di c.d.
eutanasia passiva volontaria, ossia il rifiuto di cure, che talvolta è già stato ammesso55, e l’eutanasia
passiva non volontaria (sospensione dei mezzi di sostentamento artificiali ad un soggetto in stato
vegetativo), per la quale si è fatto ricorso sapientemente alla nozione del divieto di accanimento
terapeutico, quale ostinazione in un trattamento da cui non possa ragionevolmente derivare o un
beneficio alla salute o un miglioramento della qualità della vita56.
Pur non volendo entrare nel merito della questione, che richiederebbe certamente anch’essa una
trattazione autonoma, tuttavia possiamo dire che anche il problema dell’eutanasia c.d. passiva
rimane, nonostante la denunciata difficoltà di argomentare l’ammissibilità dell’eutanasia in
53
Cfr. Regolamento (CE) n. 2201/2003 relativo alla competenza, al riconoscimento e all'esecuzione
delle decisioni in materia matrimoniale e in materia di responsabilità genitoriale, in Gazzetta
ufficiale n. L 367 del 14/12/2004 pag. 0001 – 0002.
54
Giusti, “L’eutanasia”, Padova, Cedam, 1982, pag.13.
55
Dogliotti, in Trattato di Diritto Privato, a cura di Rescigno, Torino, Utet, 88; Pret. Roma
9.4.1997, R.it. d. proc. P. 98, 1422.
56
Santosuosso, Fecondaz. Artific., Enc. g. Treccani, 194; App.Milano, 31.12.99, Foro it. 00, I,
2022, nota di Ponzanelli e Santosuosso.
presenza degli attuali principi costituzionali57, un problema sostanzialmente aperto, che non può, a
nostro modesto parere, essere liquidato così facilmente come sembra aver fatto la nostra S.C.
incidenter tantum nella sentenza de qua.
8. La vita come bene assoluto. Più in generale il problema che si pone, in ogni ipotesi di nascita
potenzialmente generatrice di responsabilità civile, consiste, come già detto, nel giustificare
quest’ultima nonostante la valutazione della vita come bene assoluto: nelle ipotesi di wrongful
conception è esattamente il diritto alla procreazione cosciente e responsabile che viene violato,
mentre la valutazione positiva della vita non viene scalfita dal riconoscimento di un danno, in
quanto quest’ultimo è da identificarsi non nella nascita, quanto piuttosto nel non aver potuto
scegliere, come era invece nel diritto dei genitori, se e quando concepire (e quindi poi procreare).
Nell’ ipotesi di wrongful birth bisogna tener presente invece che l’aborto non è strumento di
controllo delle nascite, ma facoltà esercitabile esclusivamente qualora ricorrano le circostanze
elencate dalla legge 194, in primis il serio pericolo per la salute della donna.
In altri termini l’aborto non è lo strumento attraverso il quale si esercita il diritto ad una
procreazione cosciente e responsabile, in quanto attraverso di esso si interviene, a nostro avviso, su
di una vita umana già formata, seppure allo stato embrionale: esso rimane una pratica sanzionata
anche penalmente, la quale tuttavia viene scriminata in presenza di circostanze tassativamente
stabilite dalla legge; su questo l’opinione della sentenza in commento ci pare del tutto condivisibile,
in quanto, in altri termini, dopo il concepimento il diritto alla procreazione cosciente e responsabile
non assurge più quella rilevanza che aveva invece nella fase precedente, laddove soltanto si può
parlare o del suo rispetto o della sua violazione.
Così ragionando ci sembrerebbe più opportuno parlare di diritto (e dovere) di concepimento
cosciente e responsabile, in quanto dopo di quello gli unici valori in gioco, tra i quali porre in essere
un opportuno bilanciamento, diventano il diritto alla vita del nascituro, il principio di indisponibilità
del proprio corpo nonché il diritto alla salute della donna (e auspicabilmente anche del padre). Così
ritiene anche dottrina autorevole, secondo cui “nel nostro sistema non si può parlare di un diritto
all’aborto. Certo la legge sulla interruzione volontaria della gravidanza presenta degli aspetti di
notevole ambiguità, ma a mio avviso non vi è dubbio che la legittimazione alla interruzione
volontaria di gravidanza ha alla sua base un serio pericolo alla salute della donna”58.
Né ci convince il ragionamento di chi invoca il rispetto del principio di uguaglianza per contestare il
diverso trattamento riconosciuto dalla giurisprudenza per le ipotesi di wrongful birth e wrongful
life, affermando che “se il bene della vita è assolutamente indisponibile per il bambino, allora la
vita dovrà essere fondamentalmente indisponibile per tutti”59; o di chi in Francia ha invece
sostenuto che, dal punto di vista della filosofia del diritto, il diritto a non nascere sarebbe stato
riconosciuto in quel paese dalla stessa legislazione sull’aborto, che, prevedendo espressamente il
c.d. aborto terapeutico in caso di malformazioni fetali, avrebbe necessariamente esteso questo
diritto al bambino stesso, sotto forma di un diritto virtuale e non reale60.
A nostro modo di vedere invece, il riconoscimento della risarcibilità del danno da wrongful birth ha
il proprio fondamento non nella disponibilità della vita, quanto invece nel diritto alla salute della
donna, che è posta in serio pericolo a causa delle gravi malformazioni. Il danno che subisce allora la
donna non è più soggettivo, ma oggettivo perché l’alternativa che le si pone davanti è tra, da un
57
Busnelli-Palmerini, Bioetica e dir. priv., Enc. del diritto, Garzanti, Milano, 2001, in Appendici,
pag.23 ss..
58
F.D.Busnelli, “Un bambino non voluto è un danno risarcibile?”, a cura di A.D’Angelo, Milano,
Giuffrè, 1999, pag.83; in questo senso più recentemente, A.Pinna, op. cit., pag. 35-38.
59
Eduard Picker E., Il danno della vita, Milano, Giuffrè, in Derive, 2004, pag.110.
60
O.Cayla e Y.Thomas, op. cit., pag.64.
lato, una vita da condurre senza un figlio gravemente malformato e con la possibilità invece di
avere in seguito figli sani; dall’altro, una vita da condurre con un figlio gravemente malformato con
il conseguente pericolo serio di lesioni alla sua salute psichica. Nell’ipotesi di wrongful life il
principio di uguaglianza non può essere invocato correttamente; manca, infatti, la situazione uguale
per cui si potrebbe pretendere analogo trattamento, perché il fatto è lo stesso, ma la fattispecie
giuridica diverge nel momento in cui chi pretende il risarcimento non è la madre, che ha davanti a
sè un’alternativa oggettivamente preferibile, quantomeno di regola, ed a cui la legge riserva
pertanto la facoltà di abortire in presenza di circostanze tassativamente elencate; bensì il figlio nato
malformato, cui la legge non riserva alcunché sotto questo profilo, in quanto non si può qualificare
in termini oggettivi come danno la vita disabile, quando l’unica alternativa che si pone è la stessa
morte.
Assai recentemente, chi61 si è cimentato a commentare la sentenza in questione prima di noi, ha
evidenziato che la presente S.C. abbia inquadrato l’aborto nell’alveo dell’art.54 c.p., rilevando
tuttavia che proprio “la sua presunta inapplicabilità all’ipotesi di interruzione della gravidanza ha
dato origine, sia pure simbolicamente, alla legge sull’aborto”, presunta inapplicabilità stabilita
dalla Corte Costituzionale62 in occasione di una richiesta di verifica circa la conformità o meno alla
Costituzione dell’art.546 c.p., che sanzionava con la reclusione chiunque cagionasse l’aborto di
donna consenziente, unitamente alla donna medesima.
La stessa autrice critica le ragioni che portarono allora la nostra Consulta ad affermare detta
inapplicabilità, propugnando in particolar modo una concezione non assoluta del presupposto di
attualità dello stato di necessità, nonché l’idea che, se si ammette la prevalenza del diritto alla salute
di chi è già persona sulla salvaguardia dell’embrione di chi persona deve ancora divenire (come
faceva la Consulta), a maggior ragione bisognerebbe ricondurre la fattispecie dell’interruzione di
gravidanza all’art.54 c.p..
In sostanza il ragionamento di cui sopra, anche non troppo velato, è il seguente: per scriminare
l’aborto in ipotesi di danno alla salute della donna era sufficiente l’art.54 c.p., per cui, se una legge
ad hoc è stata realizzata, è per attribuire un contenuto più ampio all’aborto, che prescinda dal diritto
alla salute della donna o che comunque possa rivestire a pieno titolo la qualifica di diritto.
Non possiamo condividere tuttavia siffatta impostazione, in quanto, anche volendo ammettere che
l’art.54 c.p. fosse sufficiente da solo a rendere lecita l’interruzione di gravidanza costituente serio
pericolo per la salute della donna, la legge 194 ben potrebbe considerarsi un esempio di attuazione
del citato principio generale, che è stato necessario esplicitare alla luce della particolare rilevanza
sociale della fattispecie di cui si trattava: del resto il nostro ordinamento presenta numerosi esempi
di norme che attuano un principio generale, come l’art.1375 c.c., il quale prevede l’obbligo di buona
fede delle parti in fase di esecuzione del contratto, nonostante l’art.1175 che già avrebbe potuto
costituire fonte di siffatto obbligo; ancora come l’art.1358 c.c. che prescrive esplicitamente
l’obbligo di buona fede in pendenza della condizione; e così via dicendo di tutte le norme che,
nonostante l’esistenza di un principio generale di buona fede nel nostro ordinamento, esplicitano di
volta in volta i suoi contenuti in relazione alle diverse fattispecie che si possono presentare in
concreto.
Di ciò probabilmente si rende comunque conto anche l’autrice citata, quando afferma che “in vero
la Cassazione, in relazione alla posizione del concepito, propone una rilettura della legge
sull’aborto, probabilmente in linea con il sistema, ma certamente distante dalla prassi operativa”,
dimostrando pertanto di condividere con noi anche l’idea di un’applicazione che distorce il reale
spirito della legge.
61
62
E.Giacobbe, op. cit., pag.136.
Corte Cost. 18 febbraio 1975, Giur.it., 1975, I, 1, 1416, note Raveraira e Andrini.
9. Conclusioni. In definitiva allora, se il risultato cui è giunta la Corte, ovvero l’accertamento
dell’inesistenza del diritto a non nascere, può essere condiviso, invece le motivazioni che stanno
dietro di esso non ci paiono convincenti, o meglio ci sembrano quasi delle tecniche argomentative
ricercate e plasmate allo scopo predeterminato di negare l’esistenza di un simile diritto, che non
esiste non perché manca il nesso causale, o perché le gravi malformazioni fetali non
necessariamente causano un pericolo serio per la salute della donna, o ancora perché ammettendolo
si aprirebbe la strada al riconoscimento di un obbligo di abortire; ma perché la vita disabile, qualora
l’unica alternativa possibile sia la morte, non necessariamente per ogni soggetto, né per la maggior
parte, costituisce un danno di cui poter chiedere il risarcimento. Né sarebbe applicabile del resto una
valutazione di tipo oggettivo e generale al riguardo, che competa a qualsivoglia autorità o soggetto
terzo.
E’ stato giustamente detto allora -questo è il punto su cui occorre destare l’attenzione- che “la
ricerca della felicità non è un diritto inviolabile, ma inalienabile. Spetta all’individuo provvedervi e
alle leggi compete il compito di non mortificare la ricerca, non già di surrogare la felicità con il
denaro, secondo gli aforismi di B. Shaw o in una rivisitazione dell’uomo ad una dimensione,
immaginando che l’avere possa costituire (o sostituire?) l’essere”63. Dal canto nostro possiamo
aggiungere che il concetto di felicità non è univoco, bensì suscettibile di assumere innumerevoli
sfaccettature, quali sono quelle proprie dell’essere umano: ciò lo rende un oggetto misterioso di
fronte al quale l’esigenza di certezza del diritto preclude forme di tutela che pure il singolo
individuo potrebbe talvolta percepire come collimanti con il proprio personale sentimento di
giustizia.
63
M.Costanza, “Ancora sul danno esistenziale”, nota a Cass. 11 novembre 2003 n.16946, e Cass.
19 agosto 2003, n.12124, Foro it., 2004, I, 434.
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