Archeometria
Il termine archeometria fu coniato verso la fine degli anni ’50 del novecento a seguito delle scoperte
scientifiche, e in particolare del metodo basato sulla misurazione del radiocarbonio, che stavano
rivoluzionando le possibilità di datazione in archeologia. Nacquero in quegli anni nuovi istituti di
ricerca e riviste scientifiche, una delle quali, fondata nel 1958 dal Research Laboratory for
Archaeology and the History of Art di Oxford, prese appunto il nome di ‘Archaeometry’.
Attualmente con archeometria si indica tutto il vasto campo delle scienze applicate all’archeologia,
anche se l’accezione esatta del termine dovrebbe essere ristretta alle ricerche scientifiche basate su
metodi quantitativi.
Le ricerche archeometriche coprono molteplici campi: dalla datazione di oggetti e siti archeologici,
allo studio e all’analisi dei materiali al fine di determinarne l’area di origine o la tecnica di
produzione. L’archeometria ha applicazioni anche nel settore del restauro e della conservazione di
reperti, siti e monumenti antichi; da ultimo bisogna ricordare le indagini finalizzate ad accertare
l’autenticità di oggetti sospettati di essere falsificazioni. La vastità e le molte articolazioni
dell’archeometria implicano l’esistenza di molte specializzazioni particolari; per questo non esiste
la figura dell’esperto di archeometria, ma tanti diversi specialisti che si occupano ad esempio solo di
problemi di datazione o di determinazione di origine.
Prenderemo in esame solo i tre campi maggiori in cui l’archeometria risulta principalmente
applicata: la diagnostica archeologica con le prospezioni di superficie, le analisi sui materiali e i
reperti, i metodi di datazione.
Diagnostica archeologica
Uno dei campi di competenza dell’archeometria è quello della cosiddetta diagnostica archeologica
che per mezzo delle prospezioni archeologiche ha lo scopo di individuare siti e oggetti non visibili
sulla superficie del terreno. Rientrano in questo campo le fotografie aeree da palloni aerostatici o
aquiloni, da aerei o da satelliti e la interpretazione e la elaborazione (trattamento e filtraggio delle
immagini satellitari) di tali immagini al fine di mettere in evidenza le anomalie e, in alcuni casi, di
produrre cartografie di supporto alla ricerca.
Fra le prospezioni del suolo vanno incluse le ricerche geofisiche o geognostiche, basate su metodi
non distruttivi che permettono di rilevare resti del passato invisibili o appena percettibili in
superficie. Queste tecniche di indagine, che l’archeologia ha mutuato dalle scienze della terra o
dall’ingegneria civile, permettono di determinare le proprietà fisiche dei suoli e delle rocce e di
conseguenza di riconoscere quando queste proprietà non sono il risultato di processi naturali
(geologici o pedologici) ma sono alterazioni provocate da attività umane.
Il metodo più diffuso e comune, per la sua facilità di uso sul campo è la prospezione geoelettrica o
misura della resistività elettrica del suolo. L’apparecchiatura immette nel suolo attraverso alcuni
picchetti metallici che fungono da elettrodi una leggera corrente elettrica, e misura la resistività
elettrica del terreno nei vari punti, cioè la resistenza opposta dal terreno al passaggio dell’elettricità.
Strutture sepolte danno alti valori di resistività, mentre fosse riempite di terreno umido, al contrario,
oppongono una resistività bassissima perché l’acqua è un buon conduttore. La mappa della
resistività viene elaborata sulla base della quadrettatura di base lungo la quale sono stati spostati i
picchetti durante la rilevazione; le zone di pari resistività vengono rappresentate con toni di grigio o
con curve di livello.
La prospezione geomagnetica misura invece le variazioni del geomagnetismo, in quanto questo può
essere alterato dalla presenza nel sottosuolo di elementi dotati di anomale caratteristiche
magnetiche. Elementi fortemente magnetizzati, segnalati perciò da valori superiori al valore medio
del terreno circostante, sono i metalli e i luoghi che hanno subito forti fasi di riscaldamento (forni,
fornaci, focolari). I dati vengono rilevati con un magnetometro, spostandosi lungo una
quadrettatura che permette in seguito di elaborare i dati sotto forma di mappa delle anomalie.
Nel campo della diagnostica archeologica la principale acquisizione degli ultimi anni è il georadar.
Questa apparecchiatura concepita per indagare la stratificazione geologica, permette di ottenere
profili del sottosuolo fino ad una profondità di 10 metri, registrando le caratteristiche degli strati
incontrati. Particolarmente evidenti appaiono le cavità (tombe e cisterne) ma risultano visibili anche
strutture in muratura. Il georadar, per quanto molto costoso, è l’unico metodo di indagine di
superficie utilizzabile in ricerche di archeologia urbana, dove gli altri metodi, disturbati dalla
presenza di tubature, cavi elettrici e altri elementi tipici del sottosuolo delle città, non sono
applicabili.
Analisi per la deteminazione dell’origine dei reperti
Un campo in cui l’archeometria ha raggiunto risultati particolarmente eccellenti è quello della
determinazione di origine dei materiali: i manufatti antichi raramente sono stati prodotti nel luogo
dove lo scavo archeologico li scopre. La ricostruzione dell’economia del mondo antico e della storia
del commercio e della produzione dipende perciò in modo essenziale dalla possibilità di individuare
l’origine degli oggetti. Le tecniche di laboratorio utilizzate allo scopo sono moltissime. Basilare è la
determinazione della composizione fisico-chimica dell’oggetto, per verificare se ci sono
concordanze con le materie prime presenti o con oggetti prodotti nella zona del ritrovamento o in
zone da cui si ipotizza la provenienza dell’oggetto. La ricerca in questo campo non è semplice e
procede per gradi e per ipotesi successive, per cui la collaborazione fra l’archeologo e il tecnico
archeometrista deve essere particolarmente stretta. Prenderemo in esame il caso della ceramica,
oggetto privilegiato di questo tipo di indagini, in considerazione del fatto che è il materiale più
frequente sugli insediamenti antichi dal neolitico in poi.
La ceramica è infatti un importante indicatore dei flussi commerciali se se ne conosce l’area di
produzione. Dopo la fase di classificazione e studio condotta dagli archeologi, le analisi possono
prendere in considerazione l’argilla oppure gli additivi presenti nell’impasto. I metodi possono
essere ricondotti a due grandi gruppi: chimici e mineralogici. Tra i metodi chimici sono più usate la
fluorescenza a raggi X e l’attivazione neutronica, l’analisi chimica per via umida e la spettrografia
ottica; i metodi mineralogici comprendono l’esame al microscopio binoculare o al microscopio
polarizzatore e la difrattometria. In genere si ritiene che i metodi chimici siano più adatti allo studio
delle ceramiche fini e quelli mineralogici per le ceramiche più grossolane; ma in alcuni casi è
necessario ricorrere ad entrambi i tipi.
I metodi chimici permettono di misurare e quantificare gli elementi presenti nell’argilla, sia i
costituenti maggiori, sia quelli rappresentati solo da tracce. I dati che emergono da queste analisi
sono quantitativi, per cui vengono elaborati con metodi statistici, onde poi sottoporli a confronto
con altre situazioni note. I gruppi di riferimento con cui vengono effettuati i confronti sono in
genere rappresentati da scarti di fornace che danno la massima affidabilità riguardo alla
provenienza, al contrario dei reperti rinvenuti in località dove venivano utilizzati e non prodotti.
Argille rinvenute in giacimenti diversi possono avere composizioni molto simili, per cui le indagini
mineralogiche, indirizzate sugli elementi estranei (minerali, frammenti di roccia, microfossili)
inclusi negli impasti possono essere determinanti per definire con certezza l’origine. Alcune
informazioni possono essere ricavate dall’analisi macroscopica, ma solo con il microscopio si
riescono a classificare al meglio i minerali presenti per poi ricostruire il contesto geologico del
luogo di produzione. L’esame al microscopio viene condotto su campioni ridotti ad uno spessore di
30 micron circa (sezione sottile) che vengono posti fra due vetrini. Le presenze individuate
permettono di definire alcune aree possibili di origine; il campo poi può essere ristretto se
l’archeologo e il tecnico di laboratorio lavorano a stretto contatto. I risultati di questo tipo di analisi
non sono quantitativi, ma solo qualitativi, per cui i confronti non possono basarsi su calcoli
statistici.
Altri metodi permettono di accertare il luogo di origine del vetro, dell’ossidiana, dei metalli e delle
pietre, anche se in genere non hanno ancora raggiunto lo sviluppo e la precisione di quelli
riguardanti la ceramica.
Va infine ricordato che anche lo studio dei reperti organici, che ricade nel campo dell’archeologia
ambientale, dell’archeobiologia, dell’archeozoologia, dell’archeobotanica e di altre discipline
specialistiche, si avvale di metodi archeometrici.
Un esempio: l'analisi dei rivestimenti ceramici
Alcune ceramiche di età classica e moltissime di età medievale e post-medievale presentano
rivestimenti di tipo impermeabile e di aspetto vetroso chiamati vetrine (trasparenti) e smalti (opachi
e coprenti). In anni recenti sono state condotte molte indagini su questi rivestimenti della superficie
delle ceramiche, che hanno prodotto risultati particolarmente significativi riguardo alla introduzione
in Italia di questa rivoluzionaria innovazione tecnologica che permetteva la perfetta
impermeabilizzazione delle ceramiche. Le analisi in questo campo, (fluorescenza a raggi X,
l’analisi al microscopio su sezioni sottili e difrattometria a raggi X), tendono a evidenziare i dati
quantitativi della presenza dell’ossido di piombo e del biossido di stagno, elementi collegati alle
varianti tecniche della produzione.
I risultati finora ottenuti hanno rivelato che le varie tecniche sono state introdotte nel XII secolo
dalla Tunisia con diffusione verso la Sicilia e la Puglia, mentre poco più tardi si registra l’inizio
delle produzioni pisane sotto l’evidente influsso delle ceramiche islamiche prodotte in Spagna e in
Marocco.
Metodi di datazione
L’archeometria nacque insieme con le tecniche di datazione assoluta che continuano a rappresentare
uno dei campi più importanti nell’ambito delle scienze applicate alla ricerca archeologica. I metodi
di datazione assoluta infatti hanno aperto nuovi sviluppi non solo alla paletnologia e agli studi di
protostoria, ma, nel continuo perfezionamento delle apparecchiature e delle procedure, questi
metodi hanno acquistato credibilità e si sono rivelati preziosi anche per le età classica e postclassica, che non sono indenni da problemi legati alla cronologia dei reperti e degli insediamenti.
I metodi di datazione possono dividersi in due grandi gruppi: quelli che sfruttano il decadimento
radioattivo naturale e altri basati su proprietà naturali. Capostipite del primo gruppo è il
radiocarbonio che è il più importante metodo di datazione per gli ultimi cinquantamila anni, ma ha
due limiti: si può applicare solo a materiale di origine organica e lascia fuori della sua portata gran
parte della preistoria. Datazioni per lo stesso periodo coperto dal radiocarbonio, ma anche più
antiche possono essere oggi ottenute con la termoluminescenza e con la risonanza da spin
elettronico, mentre i periodi più remoti della storia dell’uomo possono essere datati ricorrendo al
potassio-argo, all’uranio-torio-piombo e alle tracce di fissione. Il secondo gruppo raccoglie metodi
eterogenei quali la dendrocronologia, la tecnica basata sull’idratazione dell’ossidiana, la
racemizzazione degli amminoacidi, il metodo del rapporto tra cationi, il metodo archeomagnetico.
Il radiocarbonio e il problema della datazione in archeologia
La datazione di siti e oggetti è fondamentale in archeologia. Per poter procedere ad interpretazioni
ed analisi conclusive non è sufficiente stabilire la cronologia relativa degli avvenimenti che sono
stati riconosciuti nell’indagine di un determinato sito, ma è necessario mettere in relazione la
sequenza interna (prima…dopo) con la cronologia assoluta, espressa in anni, secoli, millenni e loro
frazioni. Negli scavi di età storica difficilmente ci si trova nell’impossibilità di determinare la
cronologia assoluta di un fenomeno; più di frequente, situazioni di impossibilità di datare o di forte
incertezza si verificano nell’ambito della preistoria e della protostoria. In questi casi le datazioni
possono essere ottenute o verificate in laboratorio applicando a campioni da datare procedure
scientifiche che collocano, con un margine di errore accettabile, il reperto (e quindi tutto quanto era
ad esso connesso) nel tempo.
I metodi scientifici di datazione si basano sul fatto che alcune sostanze, ampiamente presenti in
natura, si comportano come orologi naturali, in altre parole si trasformano chimicamente e
fisicamente nel tempo secondo regole ben precise e con velocità costante, per cui i mutamenti
possono essere misurati per stabilire datazioni assolute.
Nella paletnologia l’intreccio fra aspetti disciplinari umanistici e scientifici è oggi particolarmente
stretto, ma non è sempre stato così: è dal dopoguerra in poi che l’introduzione di metodi propri delle
scienze sperimentali e di tecnologie sofisticate, sia nell’attività sul campo che nell’elaborazione dei
dati, ha permesso di modificare radicalmente il panorama di conoscenze relativo alla preistoria.
All’origine di questo processo è la scoperta del metodo di datazione assoluta basato sulle proprietà
del radiocarbonio.
Nella prima metà degli anni ’40 del ’900 il chimico W.F.Libby (1908-1980) iniziò a studiare presso
la Columbia University di New York un isotopo radioattivo del carbonio, il C14, di cui era stata da
poco scoperta l’esistenza in natura.
Il C14 e altri isotopi, prodotti dal bombardamento dei raggi cosmici, si combinano con l’ossigeno e
formano anidride carbonica; questa viene assorbita dalle piante che nel processo di fotosintesi
clorofilliana liberano l’ossigeno e trattengono il carbonio nei loro tessuti, immettendolo così nella
catena alimentare (prima gli erbivori e poi i carnivori). Tutti gli organismi viventi contengono
perciò una quantità sia pure molto piccola di C14, assorbita sia attraverso la respirazione, sia
attraverso gli alimenti, che si mantiene costante per tutto il ciclo vitale, per poi diminuire
gradualmente a partire dalla morte dell’organismo, in quanto la morte interrompe gli scambi, diretti
o indiretti, con l’atmosfera e quindi il C14 disintegrato non viene più sostituito. Libby riuscì a
calcolare che il periodo di dimezzamento, cioè il numero di anni necessario perché una qualsiasi
quantità di C14 si riduca della metà, fosse di circa 5568 anni (oggi si ritiene che questo tempo sia
leggermente più lungo: 5700 anni circa). Nel 1945 Libby cominciò a lavorare sull’ipotesi di datare
materiali organici antichi misurando la quantità di C14 che contenevano; l’anno dopo poté dare
inizio alle verifiche su campioni di materiale organico tratti da reperti egiziani concessi dal
Metropolitan Museum di New York. Già l’anno dopo riuscì a stabilire che si poteva determinare
l’età di residui carboniosi databili tra 1000 e 50.000 anni da oggi, in quanto oltre questo limite
cronologico la quantità di radiocarbonio si riduce troppo per essere misurata. Le scoperte di Libby
furono rese pubbliche a partire dal 1948: una serie di controlli effettuati su campioni di età
conosciuta fece concludere che il margine di errore per gli ultimi 5000 anni era inferiore al 10% e,
subito dopo, lavorando su campioni di età sconosciuta, vennero compilate le prime liste di date
(1951). Nel 1955 esistevano nel mondo già dodici laboratori attrezzati per la misurazione del
radiocarbonio; nel 1960 Libby ottenne il premio Nobel per la chimica.
L’accettazione della validità delle datazioni al radiocarbonio non fu unanime né immediata, dato
che alcuni archeologi non vollero credere alle modifiche spesso notevolissime che le nuove analisi
imponevano alle cronologie da loro proposte nelle ricerche precedenti. Effetto indiretto di queste
resistenze fu la determinazione più accurata dei limiti di errore del metodo; negli ultimi quaranta
anni è stato perciò elaborato un sistema di correzione delle date ottenute con il radiocarbonio,
basato sulla calibrazione di quelle cronologie per confronto con le date ottenute con un altro metodo
di datazione assoluta, la dendrocronologia.
Conseguenze della scoperta
L’introduzione del metodo del radiocarbonio ha avuto ampie conseguenze sull’affinamento delle
metodologie dell’indagine archeologica, anche al di fuori del campo strettamente cronologico. Il
nuovo metodo impose infatti, sin dalle prime sperimentazioni, procedure scrupolose di raccolta dei
campioni dagli strati archeologici e questo provocò una nuova e maggiore attenzione nei confronti
della ricostruzione del clima e dell’ambiente antico. Inoltre la necessità di sottoporre i dati a calcoli
statistici ebbe come effetto l’introduzione generalizzata di metodi matematico-statistici
nell’elaborazione dei dati raccolti negli scavi e nelle ricerche di superficie. Una ulteriore
conseguenza fu lo stabilirsi di contatti sempre più stretti fra paletnologi, archeologi e specialisti di
altre discipline, con un netto innalzamento del livello di scientificità della ricerca archeologica,
specificamente paletnologica. Nacquero così nuovi istituti di ricerca e riviste scientifiche, una delle
quali nel 1958, prese il nome di ‘Archaeometry’ (archeometria) termine con cui si indica tuttora
l’applicazione delle scienze fisiche e chimiche in campo archeologico. Si intensificò inoltre
l’attività di ricerca diretta all’individuazione di nuovi metodi di datazione: negli anni ’50
cominciarono ad essere studiate le possibilità dell’archeomagnetismo, delle datazioni con
l’ossidiana e della termoluminescenza; nel 1961 fu annunciata la scoperta di un metodo di datazione
basato sullo stesso principio del radiocarbonio e applicabile a materiali di natura vulcanica, detto
del potassio-argon. Il tempo di dimezzamento del potassio-argon è lunghissimo, per cui può essere
applicato in genere su reperti che abbiano almeno 300.000 anni e si è rivelato perciò decisivo per
datare gli strati contenenti ominidi fossili.
Come funziona
Il metodo di datazione al radiocarbonio è applicabile a tutti i materiali contenenti carbonio: legno,
carbone di legna, resti vegetali, animali e umani, conchiglie, paglia, semi. La misurazione del C14
residuo permette di determinare il momento in cui nel campione considerato si è interrotto lo
scambio con l’atmosfera. Le possibilità di datazione vanno da un massimo di 50-60.000 anni (oltre
questa data il radiocarbonio non è più misurabile) fino a un minimo di 3-400 anni fa (per tempi
ancora più recenti le datazioni diventano troppo imprecise per essere prese in considerazione).
Il metodo per la misurazione del C14 è il conteggio radioattivo: ogni atomo di C14 che si decompone
emette un elettrone (radiazione ); il conteggio con un contatore proporzionale per un tempo
determinato del numero degli elettroni permette di calcolare la quantità di radiocarbonio
complessivamente presente nel campione. Prima di essere sottoposto alla misurazione il campione
deve però subire un trattamento che elimini tutte le impurità e le sostanze esterne che possono
averlo contaminato: nel caso di reperti scavo la terra, ricca di sostanze organiche, può essere
sufficiente ad alterare i risultati della misurazione. Il campione purificato viene in seguito bruciato
in una corrente di ossigeno e di azoto; l’anidride carbonica prodotta da questa operazione viene
purificata e introdotta nel contatore proporzionale.
Il calcolo dell’età del campione viene effettuato in base al tempo di dimezzamento del C14 (57105730 anni); le datazioni sono espresse in anni, facendo riferimento per convenzione all’anno 1950;
in genere viene aggiunta la sigla BP (before present, dal presente). Ogni data ottenuta con questo
metodo presenta un certo grado di incertezza, che può essere però determinato con metodi
matematici e statistici. E’ stato calcolato che la data reale ha il 66% di probabilità di essere
compresa in un arco di tempo i cui limiti si ottengono aggiungendo o togliendo il valore dello scarto
tipo al valore medio stimato. Ad esempio la data 5000±200 BP va intesa come 3050±200 a.C. e
l’età reale del campione avrà il 66% di probabilità di essere compresa fra il 2850 e il 3250 a.C.
Il problema principale posto dalla tecnica di datazione con il radiocarbonio deriva dalla inesattezza
di una delle ipotesi di partenza: il rapporto fra C14 e C12 (isotopo stabile del carbonio) nell’atmosfera
e negli organismi viventi nel corso dei millenni non è infatti stabile come si era inizialmente
creduto, ma ha nei vari periodi carattere fluttuante. La correzione è possibile per mezzo della
dendrocronologia, una tecnica di datazione basata sul conteggio degli anelli di accrescimento degli
alberi. In Europa sono già disponibili diverse scale dendrocronologiche che permettono di risalire,
soprattutto per la Gran Bretagna, la Svizzera e la Germania, fino alla protostoria. Sulla base della
considerazione che le scale dendrocronologiche sono costruite sulla base di campioni di legno che
possono essere a loro volta sottoposti al calcolo della datazione con il C14, si stanno attualmente
costruendo delle tavole di correzione delle date al C14 che riguardano gli ultimi otto millenni circa.
La calibrazione delle date ottenute con il radiocarbonio ha innescato una revisione di vasta portata
delle cronologie tradizionali e della periodizzazione della protostoria europea. La disponibilità
disomogenea di date calibrate nelle varie zone non permette però ancora di abbandonare del tutto la
vecchia cronologia a favore della nuova, che peraltro subisce tuttora continui aggiustamenti.
Negli ultimi anni le potenzialità del metodo del radiocarbonio sono aumentate oltre che per effetto
della calibrazione anche grazie all’introduzione di nuove tecniche di misurazione e, in particolare,
della spettrometria di massa con acceleratore (AMS) che ha consentito un aumento della sensibilità
e interventi molto meno distruttivi del metodo classico. La spettrometria permette di eseguire
misurazioni anche se si dispone solo di campioni molto piccoli o comunque contenenti solo pochi
milligrammi di carbonio, grazie all’utilizzo di un acceleratore di particelle.
La calibrazione delle date al radiocarbonio
Quando il quadro cronologico offerto dalle datazioni al radiocarbonio era stato ormai accettato, una
nuova e inattesa scoperta, le cui implicazioni furono per certi aspetti più rivoluzionarie di quelle
delle prime date al radiocarbonio, mise in crisi molti capisaldi cronologici che si ritenevano ormai
acquisiti nella ricostruzione della preistoria. I primi dubbi sulla validità delle date al radiocarbonio
furono sollevati a seguito di determinazioni al C14 sul legno di un albero estremamente longevo, il
pinus aristata, (poi ribattezzato pinus longaevia) che cresce in California. Le datazioni
dendrocronologiche e quelle al C14 divergevano infatti in modo non trascurabile. Nel 1966 il
chimico americano H.E.Suess presentò un diagramma sperimentale di correzione delle datazioni al
C14 da cui si ricavava che le date dovevano essere corrette, o meglio calibrate, sulla base di una
curva piuttosto complessa: non si trattava cioè di aggiungere una quantità fissa di anni
indifferentemente a tutte le date determinate con il C14, ma di correggerle in misura variabile a
seconda dei periodi. In alcuni casi la correzione necessaria è molto alta: alle date intorno al 3000
a.C. ad esempio bisogna aggiungere 7-800 anni, mentre intorno al 2000 a.C. possono essere
sufficienti 500 anni. La calibratura delle date può perciò provocare dei veri e propri rovesciamenti
di relazioni cronologiche. Contrariamente a quanto si credeva in precedenza, le tombe megalitiche
europee sono così risultate più antiche delle piramidi egiziane o delle tombe circolari di Creta; l'uso
del metallo nei Balcani è antecedente all'età del Bronzo Antico della Grecia, e in Inghilterra la
struttura definitiva di Stonehenge precede la civiltà micenea.
L'errore di partenza era in uno dei presupposti della teoria del radiocarbonio: Libby infatti
supponeva che la concentrazione originaria del C14 negli organismi del passato fosse uguale alla
concentrazione che si riscontra oggi negli esseri viventi. La dendrocronologia ha invece svelato che
la concentrazione del C14 nell'atmosfera era nel passato più alta di oggi, per cui era maggiore anche
negli organismi viventi. Le datazioni dendrocronologiche sono invece calcolate in anni solari,
perché si basano sugli anelli di accrescimento annuali degli alberi, legati al ciclo delle stagioni; la
correzione delle date ottenute con il C14 si ottiene perciò sottoponendo campioni di legno di cui è
nota la vera età in anni solari alla determinazione del C14; e la divergenza fra le due date indica il
grado di calibrazione necessario. Le tabelle di correzione mostrano tuttavia delle lacune e delle
incertezze, per cui il lavoro di correzione delle date al C14 non può dirsi ancora completato, anche se
nuovi dati si aggiungono con continuità a quelli già noti.
Conferme e incertezze: le nuove cronologie
La calibratura su base dendrocronologica è stata definita 'la seconda rivoluzione del radiocarbonio'
perché non può essere ridotta alla semplice correzione di alcune date, ma varia le relazioni
cronologiche fra importanti avvenimenti della preistoria. Le date relative all'Europa e ad altre
regioni vengono infatti spostate all'indietro, mentre rimangono stabili quelle relative all'Egitto e al
Vicino Oriente, basate su una cronologia storica disponibile dal 3000 a.C. in poi. La cronologia
egiziana era stata in effetti messa in dubbio a seguito delle prime determinazioni col C14, perché
appariva troppo arcaica rispetto alle nuove date, ma era vero il contrario ed è stata infatti
confermata dalla dendrocronologia; altre conferme indirette della cronologia 'lunga' basata sulla
dendrocronologia sono giunte dalla termoluminescenza applicata a materiali ceramici neolitici da
siti danubiani, che sono risultati precedenti alle date C14 non calibrate e in accordo con quelle
dendrocronologiche.
Gli archeologi possono perciò continuare a utilizzare le date tradizionali per l'Egitto e il Vicino
Oriente, ma anche quelle stabilite per l'area egea ricostruite in base a datazioni incrociate con
l'Egitto. Al di fuori di queste aree tutti i quadri cronologici costruiti sulla base del C14 vanno
retrocessi di diversi secoli, spezzando i collegamenti cronologici tradizionali. L'effetto più
drammatico è il crollo delle teorie diffusioniste che sostenevano l'arrivo di tutte le innovazioni
culturali in Europa da Oriente.
Si era ad esempio a lungo ritenuto che le tombe megalitiche della penisola iberica dell'età del Rame
fossero le più antiche d'Europa e che da lì la pratica della sepoltura collettiva si fosse poi diffusa in
Bretagna, Inghilterra, Irlanda ed Europa Settentrionale. L'origine di tale pratica e dei monumenti
connessi veniva identificata nell'area egea; da alcuni era stata ipotizzata una vera e propria
colonizzazione dalle Cicladi alle coste spagnole, da collocare fra il 2700 e il 2400 a.C. La teoria era
peraltro debole già in partenza: a parte alcune analogie strutturali fra le fortificazioni di Los
Millares in Spagna e dell'isola cicladica di Syros, mancavano prove materiali di qualsiasi contatto.
Le prime date al C14 dei monumenti megalitici brettoni, ancora prima della calibratura, risultavano
già troppo alte (fra il 3800 e il 2500 a.C., che con la calibratura vanno ricondotte all'arco di tempo
4600-3350 a.C.) . Oggi le date calibrate disponibili anche per la penisola iberica riconducono il
fenomeno al periodo 3800-2950 a.C. circa, e dimostrano inequivocabilmente che la ricostruzione
precedente si basava su presupposti del tutto falsi e che i monumenti di queste aree erano di gran
lunga più antichi delle tombe cretesi (2500 a.C. circa) per non parlare dei monumenti micenei (il
Tesoro di Atreo risale al 1600 a.C. circa). Si stanno perciò attualmente riconsiderando radicalmente
i problemi delle origini del megalitismo europeo e dell'inizio della metallurgia.
Conclusioni simili sono state raggiunte nell'area medio-danubiana, dove il grande insediamento di
Vinca presso Belgrado doveva diventare uno dei siti chiave della preistoria europea. Prima delle
datazioni al C14 si credeva che la evoluta cultura presente a Vinca fosse contemporanea all'età del
Bronzo Antico dell'Egeo (2700-1900 a.C.) e in buona misura dipendente da quell'area. Le date al
C14 di Vinca e di altri siti simili (4400-3000 a.C.) e le successive calibrature (5300-4000 a.C.) hanno
ribaltato l'ipotesi, permettendo di riconoscere a Vinca e nell'area danubiana una autonoma cultura
neolitica che si esaurisce vari secoli prima del Bronzo Antico dell'Egeo.
Le culture tardo-neolitiche della penisola iberica e dei Balcani si sono così rivelate più antiche dei
supposti antecedenti nel Mediterraneo orientale. Una terza ipotesi che vedeva l'età del Bronzo
Antico europea totalmente dipendente dalla Grecia micenea è molto precaria e ormai rifiutata da
molti. Lo schema diffusionista è quindi in gran parte crollato e nuove ricostruzioni della preistoria
europea si stanno sostituendo a quelle ormai tramontate, per ricreare nuove relazioni fra oriente e
occidente e superare quella che è stata chiamata 'linea di faglia cronologica': la linea di separazione
fra le aree dove le cronologie storiche dal 3000 a.C. in poi sono rimaste pressoché inalterate, e le
aree dove le date sono scivolate indietro di secoli.
IL più antico abitante vivente della terra
Le prime determinazioni dendrocronologiche coprivano un arco di tempo di circa duemila anni, e si
basavano sulle sequenze ottenute dalla Sequoia gigantea. Sulla base di queste, nel 1960 erano state
controllate sperimentalmente le date al C14 corrispondenti, ma era emerso che le fluttuazioni della
concentrazione del C14 soprattutto negli ultimi 1200 anni erano state trascurabili ai fini della
precisione della datazione. Successivamente gli studi sul pino californiano (bristlecone pine, pinus
aristata o longaevia) hanno invece permesso di risalire molto più indietro nel tempo, rilevando
fluttuazioni della concentrazione del C14 ben più estese. Si tratta di un albero che vive a notevole
altezza sulle White Mountains della California e vive incredibilmente a lungo: il più antico
esemplare noto e tuttora vivo ha 4900 anni ed è il più antico essere vivente sulla terra. Inoltre, per
motivi climatici, gli anelli di accrescimento di questo albero sono particolarmente regolari e ben
definiti. Mettendo in sequenza gli anelli degli esemplari viventi con quelli di alberi morti più
antichi, attualmente la cronologia basata sul bristlecone pine è stata fatta risalire fino a 8200 anni fa.
Alla prima tabella di calibratura, che copriva il periodo 4100-1500 a.C., proposta da Suess nel 1967,
sono seguite versioni aggiornate e cronologicamente più estese; sussistono però tuttora problemi e
divergenze, anche se la fiducia degli archeologi nella validità della calibratura è ormai
generalizzata.
Altri metodi di datazione che sfruttano la radioattività naturale
Negli anni successivi alla scoperta, resa pubblica nel 1948, del metodo di datazione assoluta basato
sulle proprietà del radiocarbonio vennero messe a punto altre tecniche di datazione che sfruttavano
il decadimento radioattivo naturale. Il radiocarbonio è infatti il più importante metodo di datazione
per gli ultimi cinquantamila anni, ma ha due limiti: si può applicare solo a materiale di origine
organica e lascia fuori della sua portata gran parte della preistoria. Datazioni per lo stesso periodo
coperto dal radiocarbonio, ma anche più antiche possono essere oggi ottenute con la
termoluminescenza e con la risonanza da spin elettronico, mentre i periodi più remoti della storia
dell’uomo possono essere datati ricorrendo al potassio-argo, all’uranio-torio-piombo e alle tracce di
fissione.
Metodo del Potassio-Argo (K-Ar)
Si applica alle rocce vulcaniche di età non inferiore a centomila anni. I geologi lo usano per datare
rocce risalenti a centinaia di milioni di anni fa o anche miliardi; risulta perciò particolarmente adatto
a datare i siti abitati dagli ominidi in Africa, che risalgono anche a cinque milioni di anni fa.
Il principio su cui si basa questo metodo è simile a quello del radiocarbonio: nelle rocce vulcaniche
l’isotopo radioattivo potassio40 (K40) decade molto lentamente trasformandosi nel gas inerte argo40
(Ar40) secondo una velocità di decadimento nota: il tempo di dimezzamento è di circa un miliardo e
trecento milioni di anni. Misurando la quantità di Ar40 contenuto in un campione di dieci grammi di
roccia si può perciò stimarne l’età di formazione. L’attività vulcanica infatti azzera ogni traccia di
argo precedentemente presente.
Le date ottenute con questo metodo sono quindi date geologiche che riguardano le rocce e non
direttamente i reperti archeologici. Bisogna però considerare che le zone frequentate dagli ominidi,
e in particolare la valle del Rift in Africa orientale, erano caratterizzate da intensissima attività
vulcanica, per cui i resti archeologici giacciono su strati geologici formatisi per l’attività vulcanica;
la datazione geologica viene perciò ad essere il riferimento cronologico anteriore per la formazione
del deposito archeologico, che si sarà formato comunque dopo l’evento vulcanico. Nei casi più
fortunati gli strati archeologici sono racchiusi fra due strati di materiale vulcanico; la data dei resti
sarà quindi compresa fra un termine di partenza dato dalla cronologia dello strato vulcanico
inferiore e un termine certamente posteriore che è la data dello strato superiore. E’ questo il caso
della gola di Olduvai in Tanzania dove spessi strati di tufo vulcanico si alternano a strati con resti
fossili di ominidi e manufatti litici.
Metodo della serie Uranio-Torio-Piombo
Per il periodo che va da cinquecentomila a cinquantamila anni fa (fuori della portata del
radiocarbonio) e in assenza di rocce vulcaniche databili con il potassio-argo, risulta particolarmente
utile il metodo dell’uranio-torio-piombo che si basa sul decadimento radioattivo dell’uranio in
piombo.
Due isotopi radioattivi dell’uranio (U235 e U238) decadono secondo una successione di stadi
discendenti trasformandosi in altri elementi. Due di questi, il torio e il protattinio (Th230 e Pa231),
decadono a loro volta con tempi di dimezzamento noti. Gli isotopi dell’uranio sono però solubili in
acqua, mentre il torio e il protattinio non lo sono. Nell’acqua che filtra nelle grotte calcaree, ad
esempio, sono presenti solo isotopi dell’uranio; nel momento in cui gli elementi presenti in
soluzione in queste acque precipitano, sul fondo e sulle pareti delle grotte si deposita carbonato di
calcio, sotto forma di travertino e stalagmiti, che conterrà gli isotopi di uranio, ma anche, col tempo,
i prodotti discendenti non solubili. La datazione della formazione del travertino dipenderà dal
rapporto fra la quantità di isotopi di uranio e quella dei prodotti discendenti presenti in un campione
di almeno cento grammi. Qualora all’interno delle concrezioni siano inclusi manufatti o ossa
umane, questo metodo di datazione può dare utili indicazioni, anche se, per evitare valutazioni
errate, devono essere misurati più campioni e i risultati vanno verificati con quelli ottenuti con altri
metodi.
Tracce di uranio si trovano anche nelle conchiglie, e nei denti e nelle ossa degli esseri viventi.
Stando a lungo sottoterra, all’interno di questi resti si formano dei minerali nei quali è racchiusa una
certa quantità di uranio, mentre almeno inizialmente mancano i suoi discendenti. Il metodo
dell’uranio-torio-piombo può perciò essere applicato anche su ossa e conchiglie, anche se, come nel
caso delle concrezioni calcaree, va verificato possibilmente con altri tipi di datazione.
Metodo delle tracce di fissione
Questo metodo di datazione si basa sul fenomeno della fissione spontanea dell’isotopo dell’uranio
U238 e può essere utilizzato per accertare la cronologia di campioni geologici molto antichi,
ossidiana, minerali, ma anche vetro, ceramica e rivestimenti vetrosi. Le potenzialità del metodo si
sovrappongono a quelle del potassio-argo, anche se recenti miglioramenti permettono di applicarlo
anche su materiali più recenti.
Il metodo si basa su una proprietà dell’isotopo U238, che oltre a decadere in un isotopo stabile del
piombo, talvolta si divide (fissione spontanea). Durante questo processo le due parti che risultano
dalla fissione si allontanano rapidamente l’una dall’altra, danneggiando le strutture che
attraversano. Le aree danneggiate, dette tracce di fissione, possono essere misurate con un
microscopio, dopo aver trattato il campione con acidi che aumentano la visibilità delle tracce.
Calcoli successivi permettono di determinare la data in cui il fenomeno si è fermato, che
corrisponde, nel caso delle rocce, al momento in cui si sono formate e consolidate, mentre, nel caso
dei vetri artificiali, al momento della fabbricazione.
Si tratta di un metodo particolarmente utile su campioni del Paleolitico Inferiore, quando non sia
possibile applicare il metodo del potassio-argo: ha avuto infatti un carattere decisivo nella datazione
definitiva di alcuni livelli di circa due milioni di anni fa nella gola di Olduvai in Tanzania e a East
Turkana in Kenia. L’arco cronologico coperto va da oltre 300.000 anni fa fino ad almeno due
miliardi e mezzo di anni fa. Risulta poco conveniente per materiali più recenti, anche se è stato
applicato con successo su vetri e rivestimenti vetrosi su ceramiche che risalgono a meno di 2000
anni fa.
Metodo della termoluminescenza (TL)
La termoluminescenza permette di datare la ceramica e alcuni minerali che sono stati sottoposti a
riscaldamento prolungato (forni ceramici, selci bruciate, terre di fusione contenute nei bronzi). Una
sua applicazione particolare è nella verifica dell’autenticità di manufatti in ceramica e terracotta. Le
datazioni ottenute (come nel caso della datazione con le tracce di fissione e della datazione
archeomagnetica) misurano il tempo trascorso dal momento in cui l’oggetto è stato sottoposto a
riscaldamento (almeno 500° C circa).
I materiali a struttura cristallina, come la ceramica, contengono piccole quantità di elementi
radioattivi (uranio, torio e potassio radioattivo). Questi elementi decadono a velocità costante
emettendo radiazioni alfa, beta e gamma ( che bombardano la struttura cristallina. Per effetto
di questo bombardamento alcuni elettroni si spostano andandosi a fermare nei punti di imperfezione
del reticolo cristallino, dove il loro numero aumenta con il passare del tempo. Il riscaldamento ad
almeno 500° C libera gli elettroni, che in questo processo emettono luce, secondo il fenomeno detto
appunto termoluminescenza.
Nel caso della ceramica i fenomeno si verifica la prima volta al momento della cottura, per poi
riprendere. In laboratorio viene prima misurato il contenuto di radioattività del campione che si
vuole datare, poi il campione viene riscaldato rapidamente a 500°C e, dalla misura della luce
emessa, confrontata con le misure acquisite in precedenza, si può calcolare il tempo trascorso dalla
cottura. Nel caso di un falso, la luce emessa è debolissima e permette di collocare la realizzazione
del pezzo in tempi recenti. Ovviamente uno stesso campione non può essere sottoposto più di una
volata alla misurazione, perché anche il procedimento di laboratorio azzera la termoluminescenza
accumulata nel tempo.
I risultati della misurazione possono però essere distorti da altre sorgenti di radioattività esterne al
campione, ad esempio dal terreno in cui il manufatto è stato rinvenuto. Il sistema più semplice per
evitare errori è quello di inviare in laboratorio il campione di ceramica insieme con una certa
quantità del terreno di giacitura.
La termoluminescenza può essere applicata anche a manufatti prodotti oltre cinquantamila anni fa.
In depositi così antichi manca la ceramica, che risale al massimo a circa diecimila anni fa, ma
possono esserci materiali litici a struttura cristallina che si datano se, nel procedimento di
fabbricazione o nel corso del loro uso, sono stati scaldati ad almeno 500° C. Nel caso di pietre il
riscaldamento avrà azzerato la termoluminescenza geologica, attivando un nuovo processo che
consente di individuare l’epoca di creazione o di uso (e non la data geologica di formazione della
pietra). Molti manufatti di selce bruciata del Paleolitico Medio sono stati datati in Francia con
questo metodo, ottenendo date comprese fra 70.000 e 40.000 anni fa.
Anche i travertini e le stalagmiti nelle grotte frequentate dall’uomo preistorico possono essere
datate con la termoluminescenza, anche se in questo caso non si tratta di depositi che hanno subito
un riscaldamento. Nel caso delle concrezioni calcaree delle grotte infatti il processo di accumulo
della termoluminescenza si attiva nel momento in cui il carbonato di calcio cristallizza e solidifica.
Questo metodo conserva tuttavia un grado piuttosto alto di imprecisione, per cui viene applicato
solo quando non è possibile ricorrere al radiocarbonio.
Metodo della risonanza di spin elettronico (ESR) o risonanza paramagnetica elettronica.
Si tratta di un metodo di acquisizione recente che, sfruttando un principio simile a quello della
termoluminescenza, può essere usato per datare ossa, denti, conchiglie e sedimenti calcarei e risulta
particolarmente utile per quei periodi che non rientrano nelle possibilità di datazione del
radiocarbonio. Come nel caso della termoluminescenza, la dose naturale di radiazioni del campione
viene messa in rapporto con una dose artificiale; in altre parole il campione viene posto in un forte
campo magnetico esterno: l'energia assorbita, al variare del campo magnetico esterno, fornisce uno
spettro che permette di misurare il numero degli elettroni contenuti nel campione, e quindi ricavare
la data. A differenza della termoluminescenza, la misura piò essere ripetuta più volte sullo stesso
campione e non necessita di riscaldamento. Si tratta di un metodo non distruttivo per il quale sono
sufficienti piccolissimi campioni (anche meno di un grammo). E’ però ancora allo stadio
sperimentale e sembra, almeno per il momento, meno sensibile della termoluminescenza.
Altri metodi di datazione
IL FUN test
Il FUN test non è un metodo di datazione assoluta, ma permette di stabilire se le ossa trovate in un
deposito archeologico siano contemporanee fra loro o riferibili a momenti diversi. Si basa sulla
determinazione delle quantità di fluoro, uranio e azoto presenti nelle ossa. Le ossa a partire dal
momento della deposizione perdono infatti gradualmente il loro contenuto proteico e, quindi,
l’azoto, mentre assorbono il fluoro e l’uranio contenuti nell’acqua che cola attraverso il terreno. La
velocità di diminuzione dell’azoto, come la velocità di aumento del fluoro e dell’uranio variano da
un luogo all’altro, per cui non è possibile utilizzarle per ricavarne datazioni assolute, né per
comparare le cronologie di ossa rinvenute in siti diversi. Tuttavia su un singolo sito il FUN test può
risultare molto utile . Il risultato più noto ottenuto con questo metodo fu lo smascheramento nel
1953 del falso cranio dell’ ‘Uomo di Piltdown’, attribuito al Paleolitico Inferiore e a lungo
considerato il cosiddetto ‘anello mancante’: si trattava in realtà di un cranio umano di circa seicento
anni a cui era stata applicata una mandibola di orango.
Metodo basato sulla racemizzazione degli amminoacidi
Si tratta di un metodo applicato dagli anni ’70, che permette di datare ossa umane e animali. Si può
applicare su reperti databili fino a 100.000 anni fa, ben oltre le possibilità di datazione del
radiocarbonio. Il metodo si basa su un processo naturale (racemizzazione) che trasforma gli
amminoacidi presenti nelle proteine, che sono in tutti gli organismi viventi, a partire dal momento
della morte e con velocità costante. La velocità di racemizzazione è influenzata dal clima, per cui,
per ricavare datazioni assolute e comparabili fra siti diversi, è necessario determinare la velocità
specifica di ciascun sito sottoponendo qualche campione ad altri metodi di datazione. Ad esempio si
possono sottoporre alcuni campioni all’analisi del radiocarbonio, per poi sfruttare i dati di
calibrazione della racemizzazione così ottenuti al fine di datare sullo stesso sito i depositi più
antichi e fuori dalla portata temporale della datazione al radiocarbonio. La affidabilità del metodo
si basa perciò sulla precisione con cui viene determinata la velocità di racemizzazione su ciascun
sito.
Metodo basato sull’idratazione dell’ossidiana
L’ossidiana è una pietra vetrosa di origine vulcanica, utilizzata come la selce per produrre
strumenti. Ha la proprietà di assorbire acqua dall’ambiente circostante, per cui gli strumenti fatti
con questo materiale presentano sulle facce uno strato di idratazione che ha cominciato a formarsi
nel momento in cui il blocco originario di ossidiana è stato spezzato per ricavarne il manufatto. In
laboratorio lo strato di idratazione può essere osservato al microscopio ottico e misurato. La
velocità di accrescimento dello strato di idratazione non è costante e varia nelle ossidiane
provenienti da giacimenti diverse e anche in dipendenza dalle situazioni climatiche a cui il pezzo è
stato esposto. Non si tratta perciò di un metodo di datazione assoluta, ma, come nel caso della
racemizzazione degli amminoacidi e del FUN test, di un utile strumento cronologico che va
calibrato con altri metodi. All’interno di uno stesso sito l’ossidiana può dare tuttavia indicazioni di
cronologia relativa.
Questo metodo risulta particolarmente utile su siti e manufatti relativi agli ultimi 10.000 anni, anche
se buoni risultati sono stati ottenuti su materiali africani che risalgono a circa 120.000 anni fa.
Metodo del rapporto tra cationi
Si tratta di un metodo elaborato di recente che permette di datare tagli e incisioni nella roccia: può
perciò essere applicato su strumenti preistorici che siano stati rinvenuti sulla superficie del terreno
in regioni aride.
Nel deserto sulle superfici delle rocce esposte alla polvere desertica si forma una patina particolare
composta di minerali argillosi, ossidi e idrossidi di manganese e di ferro e piccolissime quantità di
materiali organici e di altri elementi chimici. I cationi di alcuni elementi sono più solubili di altri e
perciò scompaiono dalla patina più rapidamente di quelli meno solubili. Il metodo si basa perciò
sulla misurazione del rapporto fra i cationi più solubili (in genere potassio e calcio) e quelli più
stabili (titanio). La velocità di diminuzione ha carattere di regolarità, anche se non è ovunque
uguale, come accade invece nel caso del decadimento degli isotopi radioattivi. Anche in questo
caso, per ottenere datazioni assolute, è perciò necessario ricorrere ad altri metodi che consentano di
calibrare la curva di diminuzione dei cationi.
Questo metodo è stato applicato con successo nella datazione di petroglifi (incisioni su roccia) in
un’area desertica della California. La calibrazione è stata fatta confrontando le patine da datare con
altre patine presenti su rocce della zona circostante datate con metodi geologici e su affioramenti
vulcanici datati con il metodo del potassio-argo.
Metodo archeomagnetico
Il campo magnetico terrestre varia continuamente sia nella direzione e nel verso, sia nell’intensità.
Le variazioni del polo Nord magnetico sono note per gli ultimi quattrocento anni in base a
testimonianze storiche, ma è possibile ricostruirle anche per periodi molto più antichi sfruttando una
proprietà dell’argilla cotta: quando l’argilla viene riscaldata a 650-700° C e non subisce ulteriori
forti riscaldamenti successivi, le particelle di ferro presenti in essa si immobilizzano nella direzione
e nel verso che il polo nord magnetico aveva in quel momento, conservandone anche la specifica
intensità. Misurando la magnetizzazione termoresidua di strutture in argilla cotta datate con il
radiocarbonio o con altri metodi di datazione assoluta e conservate in situ, si possono perciò
costruire diagrammi delle variazioni del campo magnetico terrestre nel tempo. Sulla base di questi
diagrammi è poi possibile datare altre strutture di argilla cotta di età sconosciuta, la cui
magnetizzazione termoresidua viene confrontata con la sequenza nota. Ovviamente la misurazione
va eseguita in loco, oppure estraendo un campione con cura particolare, al fine di conservarne con
la massima precisione i dati di orientamento. Buone sequenze geomagnetiche sono attualmente
disponibili per la Gran Bretagna e per il sud-est degli Stati Uniti, dove è possibile risalire fino a
oltre 2000 anni fa; in altre aree la costruzione delle sequenze è in corso.