Il problema dell'autonomia di fronte alle scelte bioetiche. Tra morale, diritto e politica Recensione a cura di Lucia Dileo dei testi: AA.VV., Questioni di vita o morte. Etica pratica, Bioetica e Filosofia del Diritto, a cura di M. La Torre, M. Lalatta Costerbosa e A. Scerbo, Giappichelli, Torino 2007, p. 377; M. Lalatta Costerbosa, Il diritto come ragionamento morale. Saggio sul giusnaturalismo contemporaneo e le sue applicazioni bioetiche, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2007, p. 232 Tra i problemi maggiormente dibattuti in ambito bioetico oggi figura quello della concreta realizzazione degli ideali contenuti nelle Costituzioni, tra cui l’autonomia individuale, la libertà di scelta, la dignità degli esseri umani. Le laceranti questioni dell’eutanasia o dell’aborto, ad esempio, hanno a che fare con tutti questi problemi, dal momento che in esse più che mai si sente il bisogno di mediare tra una visione incentrata sull’individuo e una tendente a preferire la salvaguardia di altri valori. Vita, sacralità della vita, inviolabilità della vita sono i principi di fondo con i quali si misura ogni tentativo di legittimazione o di delegittimazione di tali pratiche, le quali, quantunque riguardino essenzialmente gli individui coinvolti, chiamano in causa tutti, poiché rimandano a categorie che universalmente spingono alla riflessione. Non si tratta soltanto dei bisogni, degli interessi o delle preferenze individuali, ma di qualcosa di più vasto e generale, che condiziona la coscienza di ognuno. E benché le Costituzioni degli Stati siano fondate sulla dottrina dei diritti soggettivi, nelle questioni riguardanti la vita o la perdita della vita è difficile, se non impossibile, difendere una tale concezione in maniera unilaterale. Anzi, non c’è autonomia se non ideale in tali questioni, le quali a pieno titolo possono essere definite come “politiche”. Ma d’altra parte, bisogna guardarsi bene dall’anteporre il solo interesse della società al benessere individuale, poiché in questa sfera più che in ogni altra ciascuno ha bisogno di non sentire l’oppressione da parte di terzi, trattandosi di un ambito nel quale come regola generale dovrebbe valere la libertà di coscienza o di pensiero, nonché di scelta. Sono quelli che Ronald Dworkin chiama ideali di moralità politica, facenti capo all’individuo singolo sì, ma nello stesso tempo strumenti per garantire una convivenza pacifica a livello sociale. È questa, del resto, la finalità ultima che il diritto viene ad assumere nel liberalismo moderno. Si pone dunque l’esigenza di mediare tra opposte visioni, di modo che le convinzioni più profonde di ognuno vengano rispettate, le diverse sensibilità non offese, la dignità individuale non calpestata. Occorre, in altre parole, molta cautela, poiché le questioni che affrontiamo sono autentici «dilemmi morali»[1]. Qui non si tratta di respingere i valori come non veri o insondabili, si tratta piuttosto di rispettare qualsivoglia visione della vita e dell’uomo, di collocarsi nel solco di quella che con Giovanni Fornero potremmo definire una «laicità in senso debole», ispirata dai criteri dell’autonomia e della tolleranza[2]. Solo in questo modo sarà possibile pervenire ad un accordo sulle questioni della massima importanza sociale: anzi proprio tali questioni reclamano soluzioni che aspirino ad un certo grado di universalizzabilità e di coerenza[3]. In altri termini, occorre collocarsi in una prospettiva antiscettica e vedere nella pluralità delle tesi, nella controversia e nel dubbio non già un ostacolo, bensì una risorsa da avvalorare. Ciò comporta del pari l’abbandono di quelle visioni sostanzialistiche del bene, le quali per loro natura escludono la possibilità che attraverso l’argomentazione si costituiscano delle prove a sostegno delle proprie tesi[4]. Ciò non toglie che per alcuni vi sono valori, come quello della vita umana, che sono tutto il contrario di una determinazione soggettiva. È stato sempre Dworkin a metterne in evidenza il valore intrinseco, vale a dire «indipendente da quello che alle persone capita di apprezzare, desiderare o avere bisogno, o da ciò che è bene per loro»[5]. Tale valore deriva dalla nostra percezione di “esserci” ed è ciò che fa della vita qualcosa la cui perdita è vissuta sempre come un dramma degli esseri umani. Ma in questo caso, l’assoluto o l’incondizionato, lungi dall’essere un motivo di paralisi, si presenta come un fattore di forza all’interno dei dibattiti, capace di fungere da collante tra le opposte posizioni[6]. Le controversie nascono allorché si passa dall’astratto al concreto, allorché si tenta di caricare questo valore di contenuti particolari, ricavati dall’esistenza. E così, seguendo sempre Dworkin, si potrebbe dire che da un lato vi è chi privilegia il suo significato biografico ed esistenziale dall’altro c’è chi insiste su quello biologico nonché ontologico[7]. Nel primo senso il valore della vita non si presenta mai da solo, ma è associato a contesti, condizioni, trame di relazioni intersoggettive. Più specificamente esso è associato ad un altro valore relativo. Si parla infatti non tanto di vita (il che farebbe pensare in questi casi all’esistenza di un diritto alla vita) quanto di “dignità della vita umana”, intendendo con ciò la vita buona, il vivere bene, cioè qualcosa che va al di là del mero dato dell’esistere, qualcosa per cui diciamo che essa merita di essere vissuta[8]. Ma la dignità è essa stessa un assoluto. Essendo stata estesa a tutti gli esseri umani dai Padri della Chiesa, ancora oggi i credenti ritengono che essa sia un attributo di tutti, indipendentemente dal fatto che gli individui abbiano o meno una vita morale o di coscienza, ed indipendentemente dalla qualità delle loro condizioni di vita. In questa prospettiva embrioni, feti, infanti, persone in coma irreversibile, con disabilità, dementi hanno dignità. A voler dunque esasperare la dicotomia, si potrebbe dire che da un lato vi sono quelli che la intendono in maniera individualistica, connettendola alle capacità e alle prestazioni, e coloro che invece ritengono che essa sia una dote di tutti gli esseri umani. I rischi insiti in entrambe le posizioni sono evidenti. Abbracciando infatti la prima si finisce per negare tutela agli individui più deboli, quelli che non sono in grado di autodeterminarsi. Viceversa, la soluzione offerta dai secondi presenta il rischio di connettere troppo strettamente la dignità al diritto alla vita[9]. Anche qui occorre dunque un tentativo di mediazione tra le opposte posizioni. Anziché limitarci a dire che la dignità è una dote di tutti, cosa in linea di principio vera, sarebbe perciò preferibile interrogarsi sulla “qualità” di certe condizioni di vita e prendere atto che vi sono delle vite che degne non sono. In altre termini, si tratta di rendere concreta e operante quella dignità che si vorrebbe di tutti. Ciò dovrebbe indurre a riconoscere che vi sono circostanze che spingono a favore di pratiche che comportano la perdita della vita, l’eutanasia e l’aborto, considerate inizialmente. Nel primo caso si tratta di situazioni terminali o di situazioni in cui non vi è alcuna possibilità di un ritorno ad una vita normale[10] (si pensi alle malattie degenerative gravemente invalidanti o allo stato vegetativo permanente). L’aborto invece potrebbe apparire legittimo quando si tratta di salvare la vita della madre, o nel caso dello stupro, o in quello dei feti deformati e dei bambini destinati ad una grave indigenza. Nelle questioni di cui ci occupiamo dobbiamo immaginare uno stato che, attraverso la scienza, ha il potere di vita sugli individui, situazioni in cui la morte diventa problematica, qualcosa da allontanare, quantunque spesso ci imbattiamo in condizioni di vita intollerabili dal punto di vista dei soggetti coinvolti. Questioni morali si fanno pertanto politiche. Vi è, come dicevamo, un’autonomia che di fatto è eteronomia, vi è una sacralità riferita alla vita che la trasforma in un bene collettivo e indisponibile, vi sono degli interessi dei pazienti che la comunità è chiamata a soddisfare. A tal proposito, vorrei qui riferirmi a due opere di carattere bioetico-politico, uscite di recente, le quali in comune hanno proprio la tendenza a contrastare visioni incentrate sul “bene comune”: Questioni di vita o morte. Etica pratica, Bioetica e Filosofia del Diritto, a cura di Massimo La Torre, Marina Lalatta Costerbosa e Alberto Scerbo[11] e Il diritto come ragionamento morale. Saggio sul giusnaturalismo contemporaneo e le sue applicazioni bioetiche di Marina Lalatta Costerbosa. Ciò che viene contestato qui dagli autori è soprattutto il paternalismo, il suo appiattimento dell’interesse dell’individuo singolo sulla visione del bene predominante all’interno della società. Si tratta della tensione evidenziata dai filosofi analitici della scuola di Sheffield, Deryck Beyleveld e Roger Brownsword tra dignità as empowerment e dignità as constraint (in Human dignity in Bioethics and Biolaw, Oxford University Press, Oxford, 2001). «Nel primo significato la dignità umana conduce alla difesa dell’autonomia individuale e diventa il fondamento dei diritti umani […] Nel secondo significato invece la dignità umana porta all’individuazione del criterio di limitazione della libera scelta degli individui. Si è di fronte alla giustificazione di un bene comune che limita l’autonomia individuale alla difesa dei valori sociali»[12]. Si tratta di due posizioni apparentemente inconciliabili. Da ciò la domanda presente in entrambe le opere di un responsabile tentativo di giustificazione degli argomenti che si utilizzano a favore o contro il riconoscimento di un diritto. Immaginiamo che tutte le norme e le scelte compiute in ambito giuridico fossero precedute da una discussione intorno ai valori. Tali norme acquisterebbero un valore etico oltre che un significato politico, si perverrebbe in altri termini ad un concetto «normativo» di diritto. Questo è, ad esempio, l’ideale che percorre Il diritto come ragionamento morale. Per l’autrice è molto importante che gli argomenti che si utilizzano siano in certa misura universalizzabili, e tuttavia ella non considera i diritti umani come principi moralmente presupposti, quanto piuttosto come ‘buone ragioni per agire’, la cui validità «dipende in parte, seppur non strutturalmente, dalla comunità, dal tempo, dal luogo»[13]. Da ciò scaturisce, di conseguenza, l’esigenza di un’attenzione maggiore per le sfumature, per gli interessi particolari e, di volta in volta, rilevanti dei soggetti che si trovano a vivere situazioni drammatiche. La questione centrale qui è quella se sia lecito o meno disporre, nel senso più generale del termine, della vita umana. Prendiamo il caso dell’aborto, così come analizzato da Cristina García Pascual in Questioni di vita o morte. Certamente esiste un dovere morale, oltre che giuridico, di proteggere ogni embrione o feto, in quanto «promessa di vita umana»[14]. D’altra parte però, tale dovere incontra un limite serio nell’autonomia delle donne e nella loro facoltà di scelta. Si tratta di un equilibrio difficile che il diritto dovrebbe costruire, ma sappiamo anche ad oggi la legislazione vigente in molti paesi contiene solo una serie di proibizioni che lo fanno apparire come una pratica assolutamente immorale, sottoponendo la donna ad una trafila burocratica a dir poco umiliante, attraverso cui se ne costituisce la giustificazione, facendo leva sulla sua angoscia, sul suo squilibrio, sul suo stato di radicale necessità. Più precisamente, l’aborto è autorizzato solo in considerazione della condizione socio-economica della madre, o della sua salute fisica e mentale nonché delle circostanze che hanno portato alla gravidanza. E così, ancora una volta, si ribadisce il divieto di disporre della vita umana anche laddove il diritto si mostra accondiscendente alla soppressione di un embrione o di un feto. Non che le motivazioni non siano importanti in questi casi, al contrario nessuna legge può costruirsi senza il riferimento ad esse, ma d’altra parte non si può tacere completamente sul diritto alla libera scelta della donna, sul suo statuto di persona responsabile, capace di compiere scelte che hanno per oggetto la vita[15]. Analoghe considerazioni sull’autonomia individuale possono essere fatte valere se ci spostiamo al polo opposto del segmento della vita e ci riferiamo alla questione dell’eutanasia. A differenza di pratiche come la tortura o la pena di morte[16], per le quali in linea di principio non sorge confusione sulla loro esecrabilità, dal momento che c’è una vittima, vale a dire una persona contro la cui volontà tali pratiche sono poste in essere, e dal momento che la funzione del boia o del carnefice è soltanto strumentale al loro compimento, con l’eutanasia sorge tensione poiché, se ci poniamo dal punto di vista del paziente, essa può in talune circostanze apparire anche giusta e doverosa. Ma il vero problema, tanto etico quanto giuridico, deriva dal porsi nei panni di colui che dovrebbe fornire l’aiuto a morire. Molti di noi sono favorevoli all’uccisione pietosa, ma quanti ucciderebbero per pietà? Questa è una domanda a cui soltanto le circostanze possono dare una risposta. Ad ogni modo, data la presenza di una morale religiosa, quella cattolica, e dato l’approccio penalistico che il diritto ha di fronte a una questione così delicata, processare le intenzioni di chi aiuta a morire sembra essere più importante dell’interrogare i bisogni del morente. Come rilevato da Francisco Javier Ansuategui Roig, il problema qui è morale prima ancora che giuridico. Si tratta infatti di fornire una giustificazione a determinate richieste nonché alle risposte a tali richieste in determinate circostanze. Si tratta, come accennato, di situazioni terminali o di situazioni in cui un soggetto si trova come in un limbo, sospeso tra la vita e la morte: la morte non è imminente e tuttavia non vi è possibilità alcuna di un ritorno ad una vita normale. Ora, è evidente che le circostanze a cui facciamo riferimento di per se stesse non forniscono una giustificazione alle condotte eutanasiche. Non stiamo infatti dicendo che l’eutanasia dovrebbe applicarsi a tutti i malati terminali, piuttosto che a tutti i malati di sclerosi laterale. Occorre altresì che vi sia un desiderio o una volontà di morire nonché di fornire l’aiuto a morire, occorre in altri termini che le persone coinvolte, in autonomia, giudichino l’atto in sé come un bene. Quanto a colui che desidera morire, il suo giudizio deve basarsi su una valutazione delle proprie condizioni di vita attuali, egli deve giungere alla conclusione che vivere sia per lui più un male che un bene, ai suoi occhi la sua vita dovrà caratterizzarsi per una «irreversibile assenza di dignità»[17]. Ciò avviene perché, come abbiamo detto, accanto all’idea oggettiva, di matrice cristiana, della dignità, ve n’è un’altra, la quale si configura come una determinazione soggettiva, fatta sulla base di criteri scelti personalmente e non imposti da terzi. Parallelamente, lo stesso giudizio dovrà essere formulato dal medico affinché egli non solo consenta, ma, come detto, desideri fornire l’aiuto a morire. E dunque, qual è l’argomento più valido quando si tenta di legittimare le condotte eutanasiche? In verità, la risposta è già presente nel discorso che abbiamo fatto sin qui, ma cerchiamo di chiarire meglio i termini della questione. Sempre Ansuategui sottolinea, a questo punto, come al vertice della scala dei valori che devono ispirare ogni ordinamento giuridico democratico vi sia la dignità, quale elemento distintivo dell’essere umano, del quale l’autonomia è un’esigenza imprescindibile, il nucleo irriducibile del suo significato. Riconoscere in alcuni casi e in determinate circostanze un diritto a morire significa dunque non soltanto rispettare l’autonomia, ma anche la dignità di un individuo che soffre. Ora, secondo l’autore, al sistema dei diritti è demandato il compito di realizzare compiutamente tali valori, i diritti sono dunque strumentali rispetto ad essi, nel senso che prendere sul serio i valori comporta la messa a punto di un sistema di diritti. E d’altra parte, tanto il contenuto dei diritti quanto quello dei valori non può essere fissato una volta per tutte. I valori, in particolare, devono essere oggetto di una riflessione morale e razionale continua, capace di fornire giustificazioni ricavate dall’esperienza e dunque suscettibili di prova. Perché l’etica è qui concepita essenzialmente come una “creazione umana”[18] alla quale il diritto è chiamato a conformarsi. Così come il fine della riflessione morale deve essere quello di armonizzare tra loro le differenti concezioni particolari, allo stesso modo il fine del diritto deve essere quello di impedire i conflitti e di risolverli. Quelle a cui abbiamo fatto riferimento sono questioni di enorme importanza sociale, alle quali il diritto deve, per quanto gli è concesso, dare una risposta. È evidente che una norma soltanto repressiva o punitiva, oltre a mal adattarsi alle questioni di inizio e fine vita, viola l’autonomia dei soggetti coinvolti. Nel caso dell’eutanasia volontaria ancor più che in quello dell’aborto è evidente che non si può parlare di assassinio o di omicidio, dal momento che c’è un desiderio di morire. È evidente inoltre che qualsiasi soluzione il diritto troverà per dirimere tali questioni sarà sempre parziale, se è vero che qui ci muoviamo nella sfera del sacro. Ma è altrettanto evidente che nessuna decisione collettiva che non tenga conto degli interessi e dei bisogni reali dei soggetti coinvolti sarà mai giusta, e anzi apparirà come una forma di tirannia odiosa e distruttiva della personalità[19]. Ora, l’esperienza, negli Stati Uniti e in Europa, ha mostrato che i cosiddetti “casi difficili” in materia di eutanasia hanno avuto quasi sempre una risposta di tipo giudiziario, che le leggi vigenti nei paesi democratici sono state per lo più disattese o messe in discussione nell’ambito dei procedimenti[20], e che il lavoro delle corti si è basato essenzialmente sulla dottrina dei diritti soggettivi, quasi a significare che in questo ambito i problemi non possono essere risolti a colpi di maggioranza: la maggioranza, per quanto mossa da buone intenzioni, è pur sempre orientata alla difesa di specifici valori sociali. Prima di trarre delle conclusioni da quanto abbiamo appena affermato, vorrei però considerare una situazione per così dire “ideale”, una situazione nella quale il diritto dà una risposta, e non una risposta parziale del tipo che abbiamo messo in luce, ma una risposta soddisfacente, che va incontro alle aspettative individuali. Dobbiamo immaginare una situazione in cui morale, diritto e politica “comunicano”. Il diritto come ragionamento morale percorre proprio questa via e, rifacendosi alla prospettiva tracciata da Habermas in Faktizität und Geltung (1992), offre un concetto di diritto non subordinato alla morale, e nemmeno subordinato all’interpretazione che ne danno i giudici nelle corti, bensì collegato con la sovranità popolare e basato sull’autonomia del giudizio morale. Si tratta di dare avvio a discussioni pubbliche sulle buone e sulle cattive leggi, che coinvolgano non solo giuristi e filosofi, ma in certa misura tutti gli interessati. Com’è noto, Habermas sposa un concetto normativo di democrazia deliberativa. Nel suo caso la democrazia non è soltanto applicazione dei diritti umani, ma è altresì riconoscimento e giustificazione di essi: sono i cittadini stessi a decidere delle regole della loro convivenza. Ciò è reso possibile dalla sostituzione da lui operata della ragion pratica, potremmo dire pre-politica, con la ‘ragione comunicativa’, in virtù della quale nella procedura dell’autolegislazione si manifesta non soltanto l’autonomia pubblica, la legalità, ma anche l’autonomia individuale di ognuno. La ragione comunicativa, questa sorta di morale intersoggettiva, fa sì che le opinioni individuali possano essere mutate fino alla formazione dell’«opinione orientata alla verità», della quale si parla nelle Tanner Lectures. Per questa via il principio di maggioranza diventa «legittimo», permettendo al tempo stesso la costituzione dell’ordinamento dal basso. In altri termini, il fattore decisivo qui è costituito dalla possibilità che la comunicazione sia di per se stessa momento razionale, che vi sia appunto una ‘ragione’ comunicativa, la quale favorisca la creazione di norme connotate moralmente. Dunque la procedura democratica non sfocia in semplici accordi, ma in accordi che potremmo qualificare come “buoni”. È evidente, come rileva Marina Lalatta, che l’obiettivo dell’autore è quello di «ridurre la centralità dell’istituzione statuale». Egli pensa sostanzialmente che la società possa autoregolarsi, che i diritti non debbano essere una concessione o una promessa dello Stato. Anzi in questo procedimento governanti e governati si identificano. Democrazia «procedurale» dunque (e, si potrebbe aggiungere, «radicale»), ma nello stesso tempo fiducia nell’argomentazione razionale, nella capacità che essa ha non soltanto di mediare tra interessi contrastanti, ma anche di creare «una opinione e una volontà» che portino all’istituzionalizzazione dei diritti. È un modo politico di fondarli, di dotarli cioè di una giustificazione, un modo che fa leva sul potere della parola e che non ha alcuna pretesa di assolutezza. In Habermas la ragione comunicativa è ciò che rende possibile il superamento della dicotomia tra fatti e norme, vale a dire tra realtà e ragione. Come egli spiega, si è soliti pensare alla ragione come ad una facoltà autonoma rispetto al mondo dei fatti sociali e per lo più associata a dei concetti “limite”, potremmo dire assolutizzanti, indipendenti cioè dal tempo, dal luogo e dalla prassi sociale. La ragione comunicativa invece è una ragione “incarnata” in tali fatti, e ciò, se pure non incide sui suoi presupposti, ha tuttavia delle conseguenze rilevanti dal punto di vista del contenuto e delle modalità attraverso cui essa si esprime. Nella prospettiva della teoria del discorso, i valori possono essere discussi e problematizzati, non occorre assumerli come validi in modo incondizionato[21]. Questa è, dunque, la situazione ideale. Se non ci si può aspettare molto dalla procedura della legislazione democratica, non resta che fidarsi del ruolo creativo dei giudici: al pessimismo legislativo contrapponiamo l’ottimismo giudiziario, lo stesso che caratterizza, ad esempio, l’opera di Dworkin. Il suo è stato opportunamente definito un «giusnaturalismo sui generis»[22], poiché, data l’importanza che egli attribuisce al momento interpretativo del diritto, il «principio dell’uguale considerazione e rispetto», che è alla base già di Taking Rights Seriously, lungi dal comportare l’adesione a un fondamento stabile, fa sì che il diritto si configuri come qualcosa di aperto, di dialogico, sensibile alle richieste che provengono dal corpo sociale. Ciò è particolarmente evidente nei «casi difficili» e dà conto del carattere “relativistico” del suo giusnaturalismo[23]. Il diritto all’uguale considerazione e rispetto tuttavia può realizzarsi per Dworkin soltanto in uno Stato democratico-costituzionale, fondato sui principi della «partecipazione», della «reciprocità tra governanti e cittadini» e dell’«indipendenza rispetto alla sfera privata e alle convinzioni personali e politiche»[24]. In questa prospettiva la morale, lungi dall’essere un fatto privato, qualcosa che si manifesta in modo assolutamente individuale nell’attività del legislatore o in quella del giudice che deve applicare la legge, è connessa in maniera inestricabile al diritto e alla politica. In altri termini, ciò che si propone qui è una connessione tra diritti umani e democrazia, l’idea che la democrazia costituzionale, essendo espressione della ‘ragione pubblica’, possa costituire un terreno fertile per una loro definizione, specificazione ed evoluzione continue[25]. L’articolo 2 della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina del 1997 stabilisce che il benessere della persona umana deve prevalere sul solo interesse della società o della scienza. Pertanto, l’unica risposta convincente che il diritto può offrire di fronte ai problemi di natura bioetica sembra essere quella che si fonda sulla reinterpretazione dei valori costituzionali alla luce delle condizioni di vita attuali, primo tra tutti la libertà di coscienza, o se preferiamo la libertà di religione[26]. Lucia Dileo Questo documento è soggetto a una licenza Creative Commons [1] F.J. Ansuategui, Eutanasia, in Questioni di vita o morte..., cit. p. 199. [2] Cfr. il dibattito sul tema in G. Fornero, Laicità debole e laicità forte: il contributo della bioetica al dibattito sulla laicità, Mondadori, Milano 2008. [3] E. Lecaldano, Bioetica, Le scelte morali, Laterza, Roma-Bari 20052, p. 52. [4] Questo uno dei motivi della Presentazione di Massimo La Torre a Questioni di vita o morte, cit. [5] R. Dworkin, Il dominio della vita: aborto, eutanasia, e libertà individuale, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 98. [6] Cfr. C. García Pascual, Aborto, in Questioni di vita o morte..., cit., p. 82. [7] G. Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Mondadori, Milano 2005, p. 162. [8] Lo stesso Dworkin pone la questione del vivere bene, e sottolinea come le opinioni a riguardo siano sempre molto differenti. «Tuttavia» egli scrive «è assolutamente cruciale notare che tutte queste opinioni e convinzioni, siano esse espresse o tacite, sono critiche nel senso che riguardano ciò che rende una vita riuscita anziché disastrosa, identificano la situazione di chi ha fatto qualcosa della propria vita e non l’ha sprecata. Non sono cioè opinioni che vertono semplicemente su come rendere la vita piacevole o divertente, minuto per minuto, giorno per giorno» (Il dominio della vita, cit., p. 277). [9] P. Becchi, Dignità, in Filosofia del diritto: concetti fondamentali, a cura di U. Pomarici, Giappichelli, Torino 2007, pp. 153-181. [10] F.J. Ansuategui, Eutanasia, in Questioni di vita o morte..., cit., p. 204. [11] L’opera si sostanzia in una raccolta di tredici saggi di autori diversi, alcuni dei quali hanno un contenuto politico e sociologico, altri un contenuto bioetico. Tra questi ultimi, oltre a quelli sull’aborto e l’eutanasia dei quali darò conto, figurano anche quello sull’eugenetica di Stefano Bertea (pp. 93-118), quello sulla clonazione umana di Marina Lalatta (pp. 119-169), ed il capitolo sulla procreazione medicalmente assistita di Alberto Scerbo (pp. 170-190). Nello scritto di Marina Lalatta è possibile rinvenire un’analisi del concetto di dignità umana (pp. 73-80), nonché una ricostruzione della riflessione di Habermas sui temi qui trattati. [12] M. L. Costerbosa, cit., p. 77. L’autrice rileva come per i due filosofi tale duplice prospettiva, quella liberale da un lato e quella comunitarista dall’altro, sia alla base della dottrina morale kantiana, in particolare della Fondazione della Metafisica dei Costumi, e come le osservazioni di Kant sul suicidio, ad esempio, permettano di sostenere entrambe le visioni della dignità (p. 78). [13] M. Lalatta Costerbosa, cit., p. 10. [14] C. García Pascual, Aborto, in Questioni di vita o morte..., cit., p. 82. [15] Ivi, pp. 69-92. [16] Su questi temi si vedano rispettivamente i saggi di E. Bea Perez (pp. 293-313) e di A. Porciello (pp. 248-291) in Questioni di vita o morte..., cit. [17] F.J. Ansuategui, Eutanasia, in Questioni di vita o morte..., cit., p. 218. [18] Ivi, cit. p. 199. [19] R. Dworkin, Il dominio della vita, cit., p. 300. [20] Cfr. L. Bender, Un’analisi femminista della morte medicalmente assistita e dell’eutanasia attiva volontaria, in C. Faralli, S. Zullo (a cura di), Questioni di fine vita: riflessioni bioetiche al femminile, Bologna, Bononia University Press, 2008, pp. 105133. [21] J. Habermas, Fatti e norme: contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, a cura di Leonardo Ceppa, Guerini, Milano 1996, spec. cap. 1. Ma, come rilevato da Marina Lalatta nel suo saggio sul giusnaturalismo, quanto abbiamo appena sostenuto non sembra trovare conferma nella riflessione del filosofo tedesco sui temi di rilevanza bioetica della clonazione umana, dell’eugenetica, della procreazione medicalmente assistita, riflessione che si esprime soprattutto attraverso Il futuro della natura umana (2002). L’autrice osserva come su questo terreno Habermas si sia distanziato dai presupposti della teoria del discorso per aderire invece a dei concetti idealizzanti, di matrice razionale-filosofica, quali l’uomo come fine in sé, la dignità, l’identità personale. Tali principi sembrano più presupposti che scoperti per via argomentativa, sembrano derivare più dalle convinzioni personali dell’autore che dalla ponderazione tra le opposte visioni. Ad esempio, c’è un forte nesso tra l’idea che egli ha dell’identità personale e l’idea di determinazione casuale del genoma umano, la quale sembra escludere a priori la possibilità di regolamentare o di fissare dei limiti alla deliberazione umana in questo campo (cfr. M. Lalatta, cit., pp. 163-171). [22] Cfr. M. Lalatta, cit., p. 117. [23] Ivi, pp. 109-118. [24] Ivi, p. 138. [25] Questa sostanzialmente l’idea che sta alla base delle due opere a cui ho fatto riferimento.. [26] R. Dworkin, cit., p. 34.