LA DIAGNOSI IN PSICOLOGIA E LO SGUARDO FENOMENOLOGICO: RIFLESSIONI E APPROFONDIMENTI © Dott.ssa Giulia Palmieri Le domande da cui ritengo opportuno partire nella trattazione del problema della diagnosi in ambito psicologico sono le seguenti: Che cosa fa uno psicologo? In cosa consiste la sua professionalità? La legge che ha istituito nel 1989 l’ordine degli psicologi è Legge 18 Febbraio 1989, n.56, la quale recita: “La professione dello psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-­‐riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e le comunità”. (art.1) Questa legge arriva dopo un secolo dalla nascita della psicologia come disciplina scientifica e, più che una definizione, sembra una presa d’atto di ciò che normalmente fanno gli psicologi, o di ciò che si crede comunemente che essi facciano nello svolgimento della propria professione. Se l’obiettivo delle definizioni è porre limiti ad un significato, questa non è una definizione che definisce. Vengono elencate alcune attività di competenza dello psicologo, con riferimento ad un ambito tautologicamente nominato come psicologico. “Ambito psicologico”: non è definito nella legge e non c’è riuscita neanche la psicologia definire lo “psicologico”in modo univoco. Lo psicologo lavora quindi in un ambito non chiaramente definito e definibile, neanche a livello istituzionale. Se accettiamo che lo “psicologico” è ciò che è studiato dalla psicologia e che dunque la psicologia è la scienza che studia lo psichico, viene da se la necessità di definire cosa è la psiche e lo psichico. Psiche: (psychè, “soffio, respiro”; anemos, “vento”) in passato (prima del V sec. A.C.) non era considerata oggetto di conoscenza perché nella psiche erano comprese l’origine e la fonte di ogni conoscere: questo termine si riferiva infatti alla forza vitale, un soffio che da un lato è ciò che infonde vita all’intero cosmo, e da un lato è una forza particolarizzata in un singolo individuo. In particolare, facendo riferimento alla cultura greca antica, Omero asseriva che non ci fosse distinzione tra anima e corpo e che l’anima non fosse un entità spirituale dietro al corpo. Per Omero, l’uomo era concepibile solo nei termini di corpo vivente, un corpo espressivo, non rappresentativo cioè di uno scenario psichico che si svolgeva nell’interiorità, ossia l’anima. Lo scrittore infatti utilizza, nelle proprie opere un linguaggio per così dire “corporeo”: il corpo è in relazione al mondo e riceve gli stimoli del mondo. L’interazione omerica corpo-­‐mondo, non ha bisogno di nessun elemento psichico per essere declinata. Poiché il corpo non è materia vivificata dall’anima, il corpo è vivo di per sé. Il corpo è soggetto e non oggetto, e il mondo è l’abbozzo delle sue possibilità! Questo modo pluralistico di concepire il corpo viene superato da Platone, il quale , introducendo il concetto di anima come principio di vita e movimento si pone come primo netto sostenitore del dualismo mente-­‐corpo. PLATONE (427-­‐347 a.C.): IDEAZIONE DELL’ANIMA E LA NASCITA DEL DUALISMO ANTROPOLOGICO All’interno della filosofia platonica, il concetto di anima nasce e si sviluppa da un'esigenza epistemologica, dal bisogno di pervenire a una verità. L’anima è principio di vita e di movimento e possiede la stessa natura astratta delle idee e dei numeri. Nel Fedone, Platone sostiene che “fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità… liberati dalla follia del corpo,…, ci troveremo con esseri puri come noi e conosceremo, nella purezza della nostra anima, tutto ciò che è puro” (p. 66 b) L’anima e il corpo rappresentano due entità separate, l’una immortale, l’altro sottoposto ai processi di decadimento e mortalità. Ordunque, l'anima, o se preferiamo l'io razionale (psyché), potrà recuperare la sua vera natura quando la morte o l'esercizio di morte (meléte thanátou) l'avranno purgata dalla "follia del corpo" al quale è stata incatenata. L'anima rappresenta il centro della vita intellettiva ed etica dell'uomo, è l'essenza dell'uomo ed è concepita come immateriale. Aristotele sosterrà più tardi l’impossibilità di sparare il corpo dall’anima, al contrario, identificherà l'anima con capacità specifiche, ovvero quelle che consentono all'organismo di vivere. ARISTOTELE (384-­‐322 a.C.): IL RICONOSCIMENTO DEL CORPO E LA RESTAURAZIONE DELL’UNITA’ ANTROPOLOGICA L’anima è il principio di organizzazione di quel complesso di capacità e di funzioni che permette di distinguere un corpo vivente da un corpo inanimato. Vi è un’intima connessione tra anima e corpo, dove il corpo, se è strumento dell'anima, lo è allo stesso modo di come l'anima è strumento dell'uomo: "l'anima [psyché] è identica a vita [bíos], e come tale non è separabile dal corpo” (Sull’Anima, libro II, 414 a). Aristotele dunque definisce l'anima come "qualcosa del corpo [sómatos dé ti]”, stabilendo una volta per tutte che la vera differenza di natura è tra il corpo vivente impegnato in un mondo e il cadavere ridotto a cosa nel mondo. Di qui la conclusione di Aristotele: “affermiamo dunque, dopo aver dato inizio alla ricerca, che chi ha l'anima si distingue da chi non ce l'ha per l'atto del vivere” (Sull’Anima, libro II, 413 a). LO STUDIO DELLA PSICHE Prima dell’illuminismo soltanto il corpo è passibile di sezionamento e di classificazione, mentre resta impensabile un analogo trattamento dell’anima; la separazione cartesiana tra materia e cogito, esprimeva questa differenza. Cartesio, infatti, sosteneva una visione dualisitica del rapporto tra corpo e anima, per cui solo il corpo poteva essere passibile di manipolazione, di studio freddo “scientifico” e naturalistico; lo spirito o la psiche rappresentava qualcosa di totalmente “altro”. In altre parole, il corpo appartiene al mondo ed è un corpo-­‐macchina passibile di manipolazione, di studio freddo, naturalistico e scientifico; ma proprio la separazione e la differenza fanno sì che lo spirito sia totalmente altro. La psiche è di fatto inattingibile allo studio scientifico, attraverso l’utilizzo di strumenti misurazione. Distinzione tra res cogitans e res extensa: il corpo da soggetto che esplora con i suoi sensi il mondo, viene risolto in oggetto, relegato alla res extensa, e inteso, al pari di tutti gli altri corpi, in base alla leggi fisiche che presiedono l’estensione e il movimento; l’anima come puro intelletto, nelle cui “cogitazioni”, rigorosamente eseguite con metodo matematico, c’è ogni possibile senso del mondo e di ogni io personale e soggettivo che abita il mondo. L’oggettivazione del mondo è il presupposto della scienza moderna, la quale trae le proprie origini dall’oggettivazione del corpo, dalla sua esclusione dall’ambito della soggettività. Da un lato, si assiste ad una apertura allo studio scientifico dell’uomo, dall’altro si impone il divieto di assimilazione della soggettività agli oggetti scientifici. ILLUMINISMO E RAZIONALISMO Con l’Illuminismo, la separazione cartesiana (già presente in Platone e Aristotele), che aveva dato l’avvio ai procedimenti scientifici, viene risolta con la trasposizione dello psichico in una dimensione funzionale-­‐energetica, senza per questo essere annullata. Se può essere oggetto di studio scientifico solo ciò che si comporta come una macchina, ovvero ciò che risponde ai principi di funzionamento, allora anche la psiche dovrà essere necessariamente trattata allo stesso modo; dovrà essere reificata per essere studiata. Ne consegue che ciò che non è razionale (follia) deve essere concepito come folle e dunque come negativo. Secondo Siri (1985), la diagnosi psicologica prende forma dalle ideologie settecentesche che introducono per la prima volta i criteri di “normalità” e di “devianza dalla norma” nell’ambito psichico, mescolando, fino a confonderle, categorie morali e ideologiche. Il folle è colui che nega i principi della ragione e del benessere; egli è la negazione di quanto deve riconoscersi come positivo, razionale, produttivo e efficiente. Tale processo di razionalizzazione viene portato a compimento dal positivismo e dall’evoluzionismo nel XIX secolo: “un concetto di diagnostica che si impernia sugli assi concettuali della forza/debolezza, del flusso/ostacolo, nonché della prestazione/inefficienza” (Siri, 1985; p. 111). La psicologia nasce in questo clima positivista e razionalista; la nozione di adattamento è il suo principio guida e il funzionamento il modello euristico della sua ricerca. Il concetto di “adattamento” (termine tratto dalla biologia) introdotto dall’evoluzionismo darwiniano e funzionalismo, fa riferimento alle risorse che l’organismo investe per la sua sopravvivenza e riguarda anche i processi di coscienza; l’adattamento implica una serie di trasformazioni che l’individuo deve affrontare per sopravvivere nell’ambiente sociale; se fallisce in questo tentativo, ciò deve essere letto come un difetto di funzionamento. La vittoria del metodo sulle esigenze dell’anima ha l’effetto di lasciare un vuoto in quella parte destinata alla soggettività; stabilito che la conoscenza coincide con la conoscenza scientifica, l’anima è semplicemente lasciata fuori dalle possibilità di conoscenza e ridotta a non-­‐ esistenza. Le malattie psichiche sono dunque malattie del cervello e questa identità consente di non infrangere i principi conoscitivi tradizionali. Il funzionamento inceppato è sempre quello del corpo, la psiche resta totalmente altro. “Anima e sintomo sono spezzati in due” (Hillman, 1975; p. 139) In quest’ottica, la diagnostica psicologica si pone dunque come giudizio sulle capacità prestazionali dell’individuo considerate quali indici della sua plasticità adattiva, giudizio la cui norma è quella della prestazione media. Anastasi (1976): “I test si propongono di dimostrare quello che un individuo è in grado di fare in un dato momento e non ci possono perciò dire il perchè della sua prestazione”. L’obiettivo di questo tipo di valutazione è l’ affrancamento da ogni legame con criteri di valore per ottenere una conoscenza oggettiva delle caratteristiche dell’uomo empiricamente rilevabili e misurabili. “La diagnostica, così come la psicologia, perde la nozione di soggetto lungo la sua strada” (Siri, 1985; p. 113) LA DIAGNOSI PSICOLOGICA Diagnosi (dia-­‐gnosis): “conoscenza ottenuta attraverso” segni; in origine si riferiva ai segni del corpo che indicavano la presenza di malattie fisiche. Diagnosticare la psiche è un’idea che solo nei tempi moderni può essere pensabile. La concezione della psiche è qualcosa di radicalmente diverso rispetto a ciò che un tempo gli uomini vivevano: non è più un’entità misteriosa e trascendente (anima), ma un oggetto che può “essere posto di fronte”, guardato, frazionato, ispezionato e conosciuto nelle sue condizioni. “La soggettività dell’uomo, che aveva trovato nell’anima la propria sede, cede alla sempre maggior complessità dei sistemi di riferimento che si incaricano anche di parlare dell’anima e del soggetto come di un loro contenuto. Detto altrimenti, l’anima non è più la fonte del discorso, ma l’effetto di una procedura discorsiva; il suo essere non preesiste, ma è posto dal discorso che parla di lei” (Galimberti, 1987). E’ possibile conservare, relativamente al concetto di psiche, il “mistero” che le tecniche di misurazione volevano risolto? PSICHE E SOGGETTIVITA’: KARL JASPERS La psiche allude a significati e a realtà non facilmente esprimibili nel linguaggio formalizzato della disciplina e impone, piuttosto che escludere, la considerazione della soggettività conoscente all’interno del metodo. Nel linguaggio di Jaspers il termine comprensione assume un valore fortemente in opposizione alle tendenze esplicative e riduzioniste della psicologia oggettiva. La psichiatria dell’Ottocento era votata soprattutto alla contenzione dei pazienti; era orientata non tanto alle cause o alla terapia dei sintomi, quanto alle rimozione della follia dalla visibilità pubblica. In questo senso, la psichiatria era legata più che alla medicina, alla criminologia, ovvero ai saperi disciplinari destinati a costruire e amministrare l’ordine pubblico. L’obiettivo dello psichiatra era la messa a punto di strumenti di segregazione di quella che appariva in primo luogo come una devianza dalla norma. Contro queste tendenze, l’atteggiamento fenomenologico si pone lo scopo di riaffermare la specificità della psiche di fronte ai fatti di natura e la peculiarità dei metodi con cui può esserne affrontata la conoscenza. Jaspers : “la psiche è da considerare non come un oggetto con qualità peculiari, ma come essere nel suo mondo” (Jaspers, 1913; p. 10). Jaspers nell’opera “Psicopatologia generale” (1913) articola una psicologia comprensiva in cui “non c’è contrapposizione fra soggetto-­‐oggetto ma un insieme di relazioni, perché l’oggetto si risolve nel significato che esso assume per l’Io e l’Io nell’oggetto in cui la sua intenzionalità emotiva si evidenzia”. Attraverso il superamento dualismo psiche-­‐soma, Jaspers imposta il problema psicologico a partire dall’essere umano considerato nella sua completezza “come un tutto” (Ib. 795-­‐872). Due sono in particolare i principi che Jaspers riprende da Husserl e dalla fenomenologia: 1) l’opposizione al riduzionismo del modello biologico della scienza positivistica che considera la psiche come un “oggetto inanimato” da scomporre e ridurre entro una griglia quantitativa. 2) il tentativo di riproporre la dimensione soggettiva dell’individuo, che può essere indagato e conosciuto solo attraverso un metodo che permetta di coglierne la peculiarità. “… ben presto ci renderemo conto che alla problematicità che è propria della psicologia, non soltanto ai giorni nostri, ma da secoli, alla “crisi” che le è peculiare, occorre riconoscere un significato centrale; essa rivela le enigmatiche e a prima vista inestricabili oscurità delle scienze moderne, perfino di quelle matematiche, l’enigma del mondo di un genere che era completamente estraneo a epoche passate. Tutti questi enigmi riconducono all’enigma della soggettività e sono quindi inseparabilmente connessi all’enigma della tematica e del metodo della psicologia” (Husserl, 1954; p. 147) “… se la scienza può nascere solo in presenza e ad opera di un cogito depsicologizzato, se la non interferenza dello psichico è la prima condizione per la produzione di un discorso scientifico, se la soggettività empirica e individuale è proprio ciò che non deve intervenire dove l’analisi pretende di essere oggettiva, può la psicologia prodursi come scienza?” (Galimberti, 1987; p.168) La realtà psicologica non è una cosa, ma qualcosa che significa e che necessita di interpretazione. Qualsiasi espressione, in ambito psichico, non è leggibile in termini di oggettualità, ma è comunicazione portatrice di un senso che deve essere de-­‐cifrato. Il disturbo psichico può essere indagato solo con la comprensione, non con la spiegazione. ¨Lo psichico non è mai percepibile con i sensi in modo diretto, lo è invece nell’espressione” (Jaspers, 1913; trad. ita. P.328) Non si tratta di definire il soggetto attraverso la quantificazione delle sue componenti reali, di classificarlo in base alla prestazione media, ma di comprendere, attraverso la comunicazione, e dunque attraverso metodi del tutto diversi da quelli oggettivi, la peculiare modalità di essere al mondo dell’altro. L’obiettivo non è tracciare una patologia dello psicologico ma una psicologia del patologico, rileggendo l’esperienza psicopatologica alla luce del suo significato soggettivo, nel tentativo di assumere il punto di vista del pz, sforzandosi per quanto possibile di ripensare le esperienze del paziente come esperienze piene di significato e impegnate ad esprimere un senso ben preciso. “Ci sono emozioni, friabili e impalpabili, come sono ad esempio la gioia e la mitezza, che non si accompagnano a modificazioni nei modi con cui si esprima il corpo (il corpo vissuto); ma ci sono emozioni, come l’angoscia in particolare, alle quali si accompagnano istantaneamente modificazioni radicali nel linguaggio del corpo, nel linguaggio dei volti e dei gesti. Quando l’angoscia, quella neurotica e quella psicotica, ma anche quella esistenziale, scende in noi, si oscurano gli orizzonti della nostra vita… Risalire dalle parole che non ci sono più, e dai gesti (dai volti e dagli occhi) che si sono compiuti, a quelle che sono le esperienze interiori delle pazienti e dei pazienti, è cosa di radicale importanza non solo al fine di una diagnosi (ci sono sguardi che dicono le lacerazioni dell’anima e che alludono al terrore dell’essere perseguitati e alle voci che annunciano il tracollo del mondo) ma anche al fine di una decifrazione degli stati d’animo dolorosi e disperati: altrimenti insondabili”. E. Borgna FENOMENOLOGIA DELLA COSCIENZA Secondo Husserl, nel momento in cui l'uomo si rende conto di esistere, scopre anche di trovarsi in un rapporto conoscitivo con il mondo: egli cioè conosce, sente, crede, spera, teme, e cosi via. Essendo una struttura fondamentale della coscienza, l'intenzionalità può solo essere nominata, ma non può essere analizzata in quanto tale, indipendentemente cioè dai contenuti in cui la coscienza si realizza. La coscienza è sempre coscienza di qualcosa, cioè è sempre in rapporto con gli oggetti. L’intenzionalità non può essere né spiegata, né predetta ma solo compresa empaticamente assumendo il punto di vista dell’altro, guardando il mondo con gli occhi dell’altro. Dunque l’analisi della coscienza sarà l’analisi degli atti con cui la coscienza si rapporta ai suoi oggetti, ovvero l’analisi con cui questi oggetti si danno alla coscienza. Gli atti di coscienza esprimono l’intenzionalità dell’io, il suo non essere cosa ma puro rapportarsi a…, puro tendere verso… qualcosa che rappresenta l’elemento trascendentale in cui la soggettività si oltrepassa. Il metodo fenomenologico descrive ciò che appare della soggettività, ossia gli atti del suo trascendere, le sue esperienze vissute quali la percezione, il ricordo, l’emozione, la volontà. LA COMPRENSIONE DELL’ALTRO Insieme al sintomo accade un vissuto soggettivo che la psicopatologia cerca di comprendere" (in senso jaspersiano) mentre la psichiatria a orientamento naturalistico cerca di "spiegare" con il metodo della scienza e della natura. La "spiegazione" prescinde dalla soggettività a cui la "comprensione" si rivolge. Ma per questo occorre ”essere in relazione", "essere in dialogo”. Per Jaspers la follia “vuol dire” qualcosa. Il sintomo è un simbolo, non una disfunzione organica o un malfunzionamento sociale. Porre come fa Jaspers una domanda circa il senso del sintomo del pz, circa il significato della sua esperienza di sofferenza, significa abbandonare uno sguardo che investe il paziente da fuori, considerandolo come un oggetto di cui spiegare il funzionamento o il malfunzionamento, biologico o sociale. Già verso la fine del XIX secolo Dilthey, trattando il problema epistemologico dei metodi conoscitivi che caratterizzano rispettivamente le scienze dello spirito e le scienze della natura, aveva posto la prima grande distinzione tra spiegare e comprendere. Chi “spiega” guarda fuori da un oggetto, chi “comprende” invece rintraccia i nessi interni alle cose che conducono da un significato all’altro, che fanno sbocciare da un senso un altro senso, conservando in ogni significato di base, un’impronta in filigrana, un’eredità e una fedeltà, una sorta di stile di fondo. Nel caso di Jaspers è in primo piano, nella lettura dei casi, la vita dei pazienti, ossia il tessuto delle connessioni interne alla base delle vicende di vita. “Fenomenologico è lo sguardo o la capacità di seguire l’altro nell’abisso della soggettività”. (E. Borgna) E’ lo sguardo che, libero da pregiudizi, coglie e costituisce i vissuti del pz nelle loro configurazioni essenziali. All’interno della relazione terapeutica, è possibile comprendere l’esperienza dell’altro solo attingendo dalla propria esperienza soggettiva mediante i processi intuitivi ed empatici. La spiegazione può utilizzare come punto di partenza i significati del paziente per sviluppare un’ipotesi; le ipotesi esplicative possono aiutare ad approfondire la comprensione in modo sempre più approfondito (CICLICITA’ DEL PROCESSO DI COMPRENSIONE-­‐SPIEGAZIONE). Non c’è un soggetto conoscente di fronte a un oggetto da conoscere MA un soggetto di fronte ad un altro soggetto. Non è possibile fingere una conoscenza asettica e oggettiva, perché la conoscenza dell’altro avviene attraverso i propri schemi conoscitivi e la propria presenza; analogamente la presenza dell’altro non può essere ridotta ad un insieme di “indizi di realtà” ma deve essere riconosciuta come specifica e globale espressione di un modo di essere e di conoscere. “Le diagnosi cliniche sono importanti perché consentono al medico di orientarsi in qualche modo, ma non servono ad aiutare il paziente. Il fatto decisivo è il problema della sua «storia», perché essa sola mostra lo sfondo umano e l'umana sofferenza: e solo allora la terapia medica può mettersi all'opera” (Jung, 1921; p. 162) IL PROCESSO PSICODIAGNOSTICO Le diagnosi classificatorie mostrano delle carenze in questo senso poiché non rispondono alla questione “che cosa fare con quella persona”. Il processo diagnostico dovrebbe essere visto come sistema in cui si alternano e si intersecano momenti oggettivi e momenti soggettivi e in cui convivono strumenti di misura e vissuti soggettivi , definizione e dialogo. La diagnosi nosografica è uno strumento di comunicazione utile in ambito clinico e di ricerca, ma non ci dice niente della persona che ci troviamo di fronte (il modo, ad esempio, in cui la sig. ra X declinerà il suo modo di essere ossessiva) (Stanghellini & Rossi Monti, 2009) All’interno del processo diagnostico, il terapeuta assume una posizione, per così dire, paradossale: da un lato deve sostenere un ruolo di imparziale osservatore, dall’altro di partecipare emotivamente ai significati dell’altro. L’oggettività “a tutti i costi” diventa una posizione ideologica che allontana dalla comprensione profonda dei significati e dei vissuti dell’altro. “Serve un’attitudine allo ‘sbilanciamento’ personale, una rinuncia a quella neutralità asettica tanto perseguita quanto impossibile da ottenere di fronte ai significati, in favore di una consapevole presa in carico della responsabilità di fronte alla scelte di campo che la disciplina psicologica richiede” (Armezzani, 1995). E’ necessaria un’integrazione tra elementi di oggettività e soggettività per poter “dipingere” il quadro della complessità del paziente, per comprendere i suoi bisogni, le sue difficoltà e per formulare un progetto terapeutico adeguato. Cargnello (1980): il clinico dovrebbe sempre oscillare tra la posizione dell’avere-­‐qualcosa-­‐di-­‐ fronte ed essere-­‐con-­‐qualcosa. Ciò significa “ondeggiare” tra questi due poli senza perderne di vista nessuno. Il clinico si immerge nella relazione con una persona, poi ne esce per poter considerare da un punto di vista diverso i fenomeni che si sono prodotti e che ha osservato (facendo ricorso alle conoscenze teoriche). Il percorso terapeutico deve essere indirizzato non solo disturbo ma anche, e soprattutto, alla persona. IL MISTERO DELL’INTERIORITA’ Compito dell’approccio fenomenologico è quello di trovare un senso soggiacente alla follia, scavalcando l’apparente insensatezza, scavalcando la tentazione di liquidare la follia come il semplice prodotto di superficie di una macchina mal funzionante. La malattia racchiude un significato che non trova le parole per dirsi ma che richiede di essere decifrato e interpretato. “Cosa significa riflettere sulla vita interiore, sugli aspetti interiori della conoscenza, in un mondo nel quale dominano schemi mentali e operativi a cui tendono ad essere estranei modelli di vita e di riflessione nutriti da interiorità e di attenzione?” (Borgna, 2011; p. 193) Per procedere nella comprensione degli orizzonti di vita dei pazienti, è necessario accostarsi all’ ascolto attento della loro “interiorità”. Dunque, la premessa indispensabile per la decifrazione dei vissuti altrui, è l’analisi del senso dei nostri vissuti. “Muoversi lungo i sentieri scoscesi della interiorità significa confrontarsi allora con quello che sentiamo, con quello che proviamo, con le emozioni che nascono in noi quando siamo impregnati in qualcosa e siamo interessati a qualcosa, quando curiamo e quando diamo una mano a chi chieda il nostro aiuto”. (Borgna, 2011; p. 194) L’ASCOLTO L’ascolto dell’altro non può avvenire se non inserito nell’orizzonte di colloquio. Tale dimensione d’ascolto non può comunque prescindere dall’interpretazione di ciò che si ascolta. Come definire le dimensioni fenomenologiche dell’ascolto? La struttura portante dell’ascolto fenomenologico è l’epochè (messa-­‐tra-­‐parentesi, sospensione) che consiste nella “sospensione di ogni giudizio e di ogni pregiudizio nella decifrazione di un discorso e anche nell’ascolto di un discorso… Solo liberandoci da ogni tentazione di una rigida classificazione e di una schematica ricomposizione delle cose che ci sono dette e ascoltandole nella loro immediatezza e nella loro spontaneità, nella loro eidetica donazione di senso, ci è possibile ritrovare e rimettere in evidenza le strutture di significato che sono in esse” (Borgna, 2011; p. 196) L’epochè ci consente l’accesso al mondo dei fenomeni, è l’evidenza che ogni atto conoscitivo non può prescindere dal soggetto che lo compie, che tutto può essere messo tra parentesi tranne questa presenza viva ai significati; si basa sul presupposto che ogni conoscenza è soggettiva. L’ascolto fenomenologico prevede che il terapeuta si accosti al paziente libero da pregiudizi, evitando qualsiasi intervento sui valori, al fine di comprendere le narrazioni dei pazienti ed il loro personale (o soggettivo) rapportarsi al mondo. Fare epochè ci consente di riflettere su argomenti a cui altrimenti non avremmo dato spazio nel flusso della nostra coscienza. La soggettività rappresenta di fatto un limite alla conoscenza dell’altro, ma anche l’imprescindibile punto di partenza di ogni osservazione. Ne consegue che l’altro non può essere visto come insieme di elementi conoscibili analiticamente e oggettivamente, ma come un costruttore di realtà. “Una volta che il ricercatore sia giunto al punto da poter considerare anche il suo proprio modo di esistere, il suo essere-­‐nel-­‐mondo in quanto suo modo di essere se stesso, egli è costretto ad ammettere che molti altri modi di essere se stessi sono possibili e di fatto vengono vissuti”. (Binswanger, 1955; p. 194) In sintesi, l’atteggiamento fenomenologico riguarda “quel modo di fare” che ci dispone ad accogliere l’altro così com’è. Lo psicologo clinico ha il compito di rendere presenti ed evidenti di per sé gli stati d’animo che i malati vivono. Dato che non è possibile percepire direttamente gli stati psichici degli altri, si tratterà sempre e soltanto di un’attualizzazione, di una partecipazione affettiva, di un’interpretazione, di una comprensione per immedesimazione.