prelimine «De gustibus» discuterà (e deciderà) la scienza?

NUOVA INFORMAZIONE BIBLIOGRAFICA 4/16
Andrea Lavazza
«De gustibus» discuterà (e deciderà) la scienza?
Modificare i titoli originali delle
opere nell’offrire la traduzione a
un pubblico linguistico diverso
è una pratica tanto discutibile
quanto spesso giustificata. Il
titolo deve essere efficace in
senso assoluto e, soprattutto,
trasmettere il senso del testo con termini comprensibili, precisi e non fuorvianti1. L’edizione originale del libro di Harry Francis Mallgrave è Architecture
and Embodiment. Quest’ultimo termine è una delle chiavi delle nuove scienze cognitive «incorporate» (sebbene il concetto fosse ben noto a numerosi
fenomenologi) e in inglese se ne può intuire il significato anche da parte dei
non specialisti per il richiamo al body (il corpo). In italiano, non esiste una
parola che possa corrispondere a Embodiment. L’espressione più vicina è
quella di «processi incorporati» o «incarnati».
Non a caso, la prefazione al volume è firmata da Vittorio Gallese, assai
citato dall’autore per i neuroni specchio: il neuroscienziato dell’Università
di Parma ha contribuito a svelarne e a descriverne il ruolo, parlando proprio
di «simulazione incarnata». Tale abilità che queste speciali cellule nervose
paiono conferirci – capaci come sono di attivarsi sia quando compiamo
un’azione sia quando la osserviamo – è posta in relazione alla nozione di
«empatia», cioè (in generale) al mettersi in risonanza e sintonia con una realtà
emotiva esterna a noi. Se una forma preriflessiva di empatia è quella guidata
1
Anche chi scrive è colpevole di un simile tradimento in quanto curatore di edizioni italiane di opere
straniere.
Nuova informazione bibliografica, anno XIII, n. 4 / Ottobre-Dicembre 2016
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L’empatia degli spazi. Architettura e neuroscienze, di Harry Francis Mallgrave, Milano,
Raffaello Cortina, 2015 (ed. or. Architecture
and Embodiment. The Implications of the New
Sciences and Humanities for Design, New York,
Routledge, 2013).
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dai neuroni specchio, ovvero da processi essenzialmente corporei e non
specificamente cognitivi e disincarnati, e se tale capacità comune agli esseri
umani è quella che l’architettura (l’arte di riempire e modulare lo spazio)
sembra avere oggi dimenticato e che dovrebbe recuperare, ecco che allora
L’empatia degli spazi è il titolo evocativo e programmatico che perfettamente
riflette l’intenzione di Mallgrave.
Il merito va probabilmente al traduttore (Alessandro Gattara, architetto
sensibile alla teoria) e, una volta entrati nello spirito del libro, si coglie per
intero l’efficacia della locuzione scelta, epitome della tesi dell’autore, mentre
il sottotitolo – Architettura e neuroscienze – perde, rispetto all’originale più
didascalico – The Implications of New Sciences and Humanities for Design –; il
riferimento all’antropologia e alle altre discipline che non si possono assimilare alle scienze del cervello. La lunga premessa dedicata al titolo e alla sua
traduzione non è frutto di pedanteria filologica, bensì un modo per arrivare
direttamente al cuore di una ricerca che apre scenari e indica vie di interesse
non soltanto per gli addetti ai lavori del progetto costruttivo. Infatti, il volume
si qualifica anche come utile introduzione alle neuroscienze delle emozioni
e alle loro ampie possibilità applicative. Una lettura densa e informativa, non
priva tuttavia – sia detto come anticipo di valutazione – di limiti e parzialità.
Harry Francis Mallgrave, architetto e versatile uomo di cultura, è professore emerito presso l’Illinois Institute of Technology. Autore di opere storiche
e teoriche, da tempo si occupa dell’applicazione delle neuroscienze alla teoria
architettonica, nel solco di una riflessione che negli Stati Uniti ha portato nel
2003 alla nascita della Academy of Neuroscience for Architecture, con sede a
San Diego2. La premessa e il filo conduttore dell’opera, pur ricca e fin troppo
sfaccettata, è quanto espresso nell’introduzione.
Siamo esseri incarnati, in cui menti, corpi, ambiente e cultura sono connessi tra di loro
a livelli diversi. Se un’affermazione simile può apparire ovvia a molti lettori, le implicazioni
di vasta portata che essa ha hanno cominciato a essere comprese appieno solo negli ultimi
anni – sollecitate, per così dire, da molte scoperte incredibili e sensazionali delle scienze
biologiche (p. 10).
L’entusiasmo epistemico che emerge dagli aggettivi utilizzati è confermato poche righe dopo: «Non è un grande atto di fede dire che probabilmente
abbiamo imparato di più sulla nostra natura biologica ed emotiva nell’ultimo
2
Per una panoramica recente di questo filone di ricerca, si veda S. Robinson, J. Pallasmaa (a cura di), Mind
in Architecture: Neuroscience, Embodiment, and the Future of Design, Cambridge (MA), The Mit Press, 2015.
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quarto di secolo che in tutta la storia umana». Un’enfasi che sembra ridimensionarsi subito quando si ricorda, correttamente, che già studiosi come
Merleau-Ponty avevano ben presente quanto il dualismo ragione-sentimento
e la svalutazione del ruolo del corpo fossero erronei e da superare, a favore
di una prospettiva immersa nella fisicità dell’organismo e dell’ambiente.
Siamo organismi in contesti materiali che evolvono e si auto-organizzano.
Concettualismo e astrazione della nuova architettura fatta al computer
con un algido sguardo tecnologico sono gli obiettivi polemici di Mallgrave,
affrontati sotto varie prospettive nei cinque capitoli del libro, dedicati rispettivamente all’estetica, alla cultura, alle emozioni, all’esperienza in architettura
e alle basi delle sensibilità artistiche.
La trattazione dedicata alla bellezza, quella più chiara e circoscritta, si
presta meglio delle altre a discutere le tesi esplicite (e implicite) che la prospettiva neuroscientifica assunta dall’autore suggerisce. La bellezza in quanto
tale – argomenta Mallgrave – sembra scomparire dall’orizzonte dell’arte con
l’affermarsi delle avanguardie d’inizio XX secolo e, in architettura, con il
prevalere della funzione sull’elemento puramente estetico. Ma la bellezza,
ci dicono ora le tecniche di visualizzazione in vivo dell’attività cerebrale,
non è qualcosa di soggettivo e mutevole, bensì qualcosa che suscita reazioni
automatiche e profonde, di carattere universale. E lo fa in quanto specifico
indicatore che riguarda noi stessi, in particolare l’«idoneità biologica», ovvero
tutte quelle caratteristiche fisiologiche che sono funzionali alla riproduzione e alla fitness ambientale e che si manifestano come caratteri capaci di
attrazione sessuale. L’aveva intuito Darwin, l’hanno esplicitato gli psicologi
evoluzionistici, e più di tutti, a parere di Mallgrave, Geoffrey Miller3.
[Egli] insiste sul fatto che per un’ampia parte le nostre presunte abilità culturali sono,
di fatto, adattamenti biologici che, come la coda dei pavoni, «sono strumenti di corteggiamento evoluti per attrarre e intrattenere i partner sessuali». A questo riguardo il talento
artistico nella produzione della bellezza, come un affidabile indicatore della creatività e
dell’intelligenza umana, non è che una più recente manifestazione dell’istinto umano per
l’ornamento. In breve, i successi artistici, come la bellezza fisica, dovrebbero essere visti
come promozioni visive della nostra idoneità biologica (p. 35).
Ciò non significa negare che la cultura abbia portato a uno sviluppo
dell’arte e della sensibilità estetica che si sono andate sganciando dalle funzioni evolutive originarie della bellezza come fatto naturale. Ciò che però
3
G. Miller (2000), Uomini, donne e code di pavone. La selezione sessuale e l’evoluzione della natura
umana, Torino, Einaudi, 2002.
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lamenta Miller – e Mallgrave sembra sottoscrivere almeno in parte – è che
recentemente si sia prodotta una separazione tra «estetica popolare» ed estetica elitaria, tra artisti che hanno elaborato codici di riconoscimento lontani
dalla sensibilità diffusa e la stragrande maggioranza del pubblico, che non
apprezza la produzione contemporanea perché non la «comprende». Quella
che era un’intuizione condivisa; e che la sociologia dell’arte spiega con i suoi
strumenti interpretativi, può essere ora riportata allo studio scientifico delle
basi neuronali della percezione e del sistema emotivo umano. In questo senso, il «cervello non mente»; negli esperimenti, i picchi di attività delle cellule
di specifiche aree dell’encefalo correlano con diversi artefatti e con diverse
rappresentazioni; esistono dipinti, sculture, paesaggi ed edifici che tendiamo
a preferire per come siamo fatti, probabilmente in seguito all’evoluzione in
certi ambienti fisici e sociali. In altre parole, avremmo un’attrazione irriflessa, cablata nel nostro cervello, per certi tipi di artefatti e di rappresentazioni,
anche se poi ci siamo costruiti un gusto sociale che «copre» quello ancestrale.
La neuroestetica, di cui è campione Semir Zeki4, ipotizza che la produzione e la fruizione dell’arte siano in continuità con lo scopo del cervello, il
quale ha il compito di cercare le proprietà peculiari, essenziali e permanenti
degli oggetti. Ne segue che la neurobiologia ci può aiutare a spiegare l’arte, la
quale non potrebbe che cercare a sua volta le costanti «nascoste» nel mondo
esterno e, per fare questo, deve sfruttare i meccanismi cerebrali. Studi pionieristici segnalano, per esempio, che la gratificazione suscitata da opere di
autori come Cézanne, Malevič e Mondrian risulta connessa alla fisiologia del
campo recettoriale: alcuni neuroni della corteccia visiva rispondono soltanto
alle linee verticali, mentre altri sono specializzati nel riconoscimento delle
linee orizzontali; altri ancora sono sensibili (e quindi si attivano) a specifici
colori o a quei colori se posti su un certo sfondo. «Mondrian sembra aver
composto i propri quadri sfruttando quei neuroni che elaborano i colori primari, insieme a quelli che elaborano le linee orizzontali e verticali» (p. 54).
Non si può non notare, pur di fronte a questi sintetici accenni, come sia
prematuro avanzare interpretazioni totalizzanti da un ambito di ricerca ancora agli albori. Gli esempi di Zeki sono i più semplici perché la scienza deve
lavorare su pochi elementi controllabili, ma circa tali esempi va sottolineato
che Mondrian e Malevič sono più artisti d’avanguardia ed elitari che esponenti
di un’estetica popolare, di presa immediata. Benché i loro quadri mimino (non
4
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Cfr. S. Zeki, La visione dall’interno. Arte e cervello, Torino, Bollati Boringhieri, 2007.
è dato di sapere quanto deliberatamente) la fisiologia del sistema visivo che
tutti condividiamo, anche il loro progressivo successo può probabilmente
essere spiegato più con la diffusione del loro tratto nel panorama iconico, per
iniziativa di critici, curatori e intellettuali, che non attraverso lo spontaneo e
immediato apprezzamento estetico del largo pubblico.
Si apre qui anche l’ampio capitolo della cosiddetta educazione del gusto,
dell’affinamento culturale e dell’elaborazione estetica, un capitolo che resta
sullo sfondo delle considerazioni di Mallgrave, bersaglio mai esplicitamente
considerato se non per il tema dell’architettura «visuale», dimentica dei corpi
che deve ospitare (su cui torneremo tra breve). Se è vero che non possiamo
astrarre dal funzionamento del nostro cervello, dalle spinte pulsionali e dalle reazioni emotive, frutto di un percorso adattativo, la storia ci mostra che
gli esseri umani hanno cercato costantemente di elevarsi dalle «attivazioni
primarie» (per esprimerci con un lessico neuroscientifico) e di costruire un
livello culturale di «attivazioni seconde»; le quali a livello estetico sappiano
a volte andare oltre o contro le gratificazioni immediate, con l’ausilio di una
riflessione cognitiva complessa che (a complicare ulteriormente le cose) nelle
sue realizzazioni più ermetiche e fredde veniva spesso definita «cerebrale»
o «cerebralistica».
Parliamo di un’arte – si tratti di pittura astratta o di musica atonale – che
entra invece in attrito con il funzionamento del cervello il quale, interrogato
dai neuroscienziati con le più avanzate tecniche di analisi, esprime in media
gusti ben diversi, più grevi e banali secondo alcuni canoni, oppure più «veri»
e meno manipolati secondo una certa prospettiva naturalistica. C’è questa
sfida al fondo dell’interrogazione che le neuroscienze portano all’interno
delle discipline umanistiche. Naturalizzare significa allora che l’ultima parola
l’abbiano le scienze empiriche con le loro misurazioni oggettive (e le loro
ricostruzioni evoluzionistiche)?
Nella prefazione all’edizione italiana, Vittorio Gallese, pur all’interno di un
quadro «bioculturale», definisce «eccessivamente deterministico» l’approccio
che tende a interpretare tutte le manifestazioni della natura umana come
espressione dell’istinto di riproduzione sessuale. A suo avviso, è più plausibile
che nella nostra comprensione dell’esperienza dell’architettura sia decisivo il
ruolo svolto dalle emozioni e dalle competenze simulativo-mimetiche (leggi:
sistema specchio). Secondo Gallese, le «neuroscienze affettive» indicano che
a ogni percezione del mondo corrisponde un’esperienza edonico-emotiva che
condiziona tutte le nostre valutazioni, comprese quelle ritenute più razionali.
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In altre parole, tutte le esperienze sono soffuse di un sottofondo piacevole o
spiacevole che le marca (pp. XII-XIII). Il nostro sguardo sul mondo è sempre soggettivo in quanto situato nel tempo e nello spazio, ma non nel senso
banale che non esiste una prospettiva da nessun luogo, bensì per il fatto che
è costituito dalle potenzialità motorie del corpo. È come se in ogni momento
simulassimo il movimento che lo spazio architettonico ci permetterebbe
di compiere stanti le nostre capacità; inoltre, i parametri fisiologici, dalla
frequenza cardiaca e respiratoria fino alla risposta ormonale allo stress, conferiscono una coloritura specifica all’esperienza, che viene tuttavia vissuta
come unitaria e descritta generalmente in termini psicologici.
Se sappiamo superare l’intellettualismo che ha preso il sopravvento
in architettura, ma sarebbe facile estendere il discorso – dice in sostanza
Mallgrave –, possiamo recuperare una pratica incarnata che si costituisce
attraverso l’emozione e una pluralità sensoriale, in opposizione ad astrazioni
concettuali e primato della vista. Il fatto che percepiamo (e quindi concepiamo) l’ambiente costruito tramite l’intero nostro corpo (e non semplicemente
mediante i nostri sensi o il nostro cervello) – scrive l’autore – può sembrare
una cosa del tutto ovvia, ma per formazione gli architetti tendono a pensare
gli edifici come oggetti astratti o composizioni formali che esistono in uno
spazio geometrico libero, piuttosto che come luoghi esistenziali della nostra
coscienza tattile (p. 82).
Discende di qui la parte più tecnica e specialistica del volume: bisogna
tornare a disegnare a mano, non essere succubi dei software di progettazione che allontano dalla concretezza sensoriale del manufatto, della sua
materialità, delle sue superfici; ci si richiama a figure esemplari in questo
senso come lo svizzero Peter Zumthor, secondo il quale l’architettura ha a
che fare con l’anatomia, e il finlandese Juhani Pallasmaa, interpreti della
fisicità del progetto, ma ugualmente lontani dall’assolutismo neuroscientifico,
come dimostrano le ispirazioni heideggeriane di Pallasmaa. D’altra parte,
nel lettore può riemergere qui la preoccupazione che si proponga una nuova visione prescrittiva, la quale faccia poggiare il progetto architettonico su
quantificazioni dell’attività cerebrale misurata nel potenziale fruitore di un
edificio, affinché quest’ultimo sia davvero un’espressione incorporata delle
nostre tendenze più «autentiche».
Cosa che in effetti si è cominciata a fare registrando i segnali encefalografici di soggetti posti in ambienti virtuali, al fine di misurare i correlati della
percezione architettonica che coinvolge i circuiti cerebrali dell’integrazione
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senso-motoria, della navigazione spaziale e dell’embodiment 5. Come scrivono
gli autori dello studio, «queste osservazioni possono aiutare a testare ipotesi
progettuali allo scopo di costruire ambienti che vadano incontro ai mutevoli
bisogni degli esseri umani». Resta l’interrogativo su quali siano i migliori
strumenti con cui cogliere le necessità e le gratificazioni estetiche delle
persone, la cui mutevolezza nel tempo dice del loro radicamento biologico
ma anche del loro scorrimento culturale, connesso a meccanismi sociali che
vanno dalla coerenza con altri valori del gruppo al desiderio di segmentazione e distinzione tra individui che si esercita anche con il consumo artistico,
«facendosi piacere» ciò che non sarebbe la prima, «naturale» scelta, ma che
diventa poi una seconda natura, nel senso che già evidenziava Aristotele6.
La chiusura del volume, dedicata alle analisi estetiche di Ellen Dissanayake, in cui ha un ruolo importante la funzione presimbolica ed emotiva dell’arte
ma la cui analisi è basata principalmente sulle osservazioni etologiche, chiude
il cerchio di una ricognizione che non ha ancora trovato il passepartout per
la comprensione dei fenomeni artistici (che peraltro non sembrano coincidere con l’architettura) malgrado la ricchezza delle chiavi neuroscientifiche
messe in campo7. Forse l’effetto dei raffinati studi di neuroimmagine sulla
simulazione incarnata non è tanto quello di dirci che il corpo conta. Questo
lo sappiamo. Con l’autorità della scienza verrà invece legittimata una sua
maggiore considerazione. Gusti più concreti e oggetti più immediatamente
risonanti potranno tornare a essere nobili quanto altre espressioni artistiche.
Ma non è difficile vedere quanto l’industria culturale di massa, già ora, abbia
spesso il sopravvento, senza il bisogno di una sua rivalutazione propiziata
dal brain imaging. La partita sembra dunque aperta tra archistar intellettualistiche e artigiani sostenuti dalle neuroscienze. Eppure, anche formulando
così tale dualismo, qualcosa sembra non convincere. In definitiva, notevole
merito di questo libro imperfetto è lo stimolo a riconsiderare uno snodo chiave
del nostro tempo – cioè l’oggetto del naturalismo scientifico sulla cultura –
attraverso la riflessione, solo apparentemente di interesse specialistico, circa
il rapporto tra scienze del cervello e architettura.
5
G. Vecchiato et al., Electroencephalographic Correlates of Sensorimotor Integration and Embodiment
during the Appreciation of Virtual Architectural Environments, in «Frontiers in Psychology», 6 (2015), p. 1944,
doi: 10.3389/fpsyg.2015.01944.
6
Cfr. E. Arielli, Farsi piacere. La costruzione del gusto, Milano, Raffaello Cortina, 2016.
7
Mi permetto qui di rimandare a A. Lavazza, Art as a metaphor of the mind, in «Phenomenology and
the Cognitive Sciences», 8 (2009), pp. 159-182.
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