Guerra, società, lavoro in Giovanni Gentile (dagli scritti sulla guerra

Guerra, società, lavoro in Giovanni Gentile
(dagli scritti sulla guerra all’umanesimo del lavoro)
Stefania Zanardi
L’approccio alla guerra che Gentile mostra negli scritti raccolti in Guerra e fede e Dopo la vittoria non presenta una teorizzazione del
lavoro come la dimensione fondamentale per la formazione dell’uomo. In questa sede analizzo brevemente gli scritti di Gentile sulla
guerra (1914-1920). In particolare sono centrali i concetti di “fedeltà al destino”, alla patria, e un’accentuazione della volontà e del pensiero come dimensioni della creazione di una coscienza sociale e politica. Tuttavia ho riscontrato, studiando l’atteggiamento di Gentile
nei confronti della guerra, alcuni elementi che possono aiutarci a comprendere la “tortuosa strada” che dalle considerazioni sulla guerra
porta alle considerazioni sul lavoro.
The approach to the war that Gentile shows in the writings collected in War and faith and After the victory does not present a theory
of work as the fundamental dimension for the formation of man. Here I analyze briefly the writings of Gentile on the war (1914-1920).
In particular the concepts of “fidelity to fate”, to his country, and an accentuation of the will and of thought as the dimension of the
creation of a social and political conscience are central. However I have found, studying the attitude of Gentile towards the war, some
elements that can help us understand the “winding road” than by considerations on war leads to the considerations on work.
Premessa
Un interessante interrogativo sorge nello studioso, nel
momento in cui si chiede quale sia la genesi del concetto
di “umanesimo del lavoro” in Giovanni Gentile ed in
quale rapporto stia con esso la sua visione relativa al
ruolo che la guerra riveste nella storia umana e nell’ambito della gestione statale dei rapporti sociali.
L’approccio alla guerra che Gentile mostra negli scritti poi
raccolti nei volumi Guerra e fede1 e Dopo la vittoria2 non
presenta una teorizzazione del lavoro come la dimensione fondamentale per la formazione dell’uomo. Riscontriamo, invece, posti in primo piano i concetti di “fedeltà al destino”, alla patria, e un’accentuazione della
volontà e del pensiero quali dimensioni della creazione di
una coscienza sociale e politica. Appare come centrale
nella formazione del cittadino dello Stato il plesso delle discipline umanistico-giuridiche. Del lavoro non si parla
espressamente. Nei suoi interventi sulle questioni scolastiche fin dai primi del Novecento Gentile insiste sulla
centralità della Filosofia. Scarsi sono i riferimenti all’educazione tecnica. Non corrisponde al vero che Gentile
non prendesse in considerazione la formazione scientifica.
Al contrario: troviamo riferimenti al sapere scientifico inteso in una stretta relazione con la filosofia. Quello che
Gentile ha sempre combattuto sono stati lo “scientismo”
e il “materialismo”. Per professare queste due posizioni
non occorre praticare le discipline scientifiche, il cui valore speculativo, al contrario, è essenziale per Gentile3.
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Tuttavia ho riscontrato, studiando l’atteggiamento gentiliano nei confronti della guerra, alcuni elementi che possono aiutarci a comprendere la strada un tantino tortuosa
che dalle considerazioni sulla guerra portano alle considerazioni sul lavoro.
Mi limiterò in questa sede ad un esame degli scritti del periodo dal 1914 al 1920 o giù di lì, periodo nel quale appaiono molte suggestioni anche negli scritti gentiliani
occasionali.
Occorre precisare comunque che negli scritti gentiliani,
anche dopo il 1920, non esiste un forte interesse da parte
di Gentile al mondo del lavoro tale da giustificare le nette
e rilevanti pagine di Genesi e struttura della società4. L’attenzione al tema del lavoro è suscitata in Gentile dalle dottrine circa lo Stato e l’economia corporativi5. Gentile, nel
1. Cfr. G. Gentile, Guerra e fede, Ricciardi, Napoli 1919; De Alberti, Roma
19272; edizione curata da Hervé A. Cavallera, Le Lettere, Firenze 19893 (in questa sede si cita da quest’ultima edizione).
2. Cfr. G. Gentile, Dopo la vittoria. Nuovi frammenti politici, La Voce, Roma
1920; Le Lettere, Firenze 19892, edizione rivista ed ampliata a cura di H. A. Cavallera.
3. G. Gentile, Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Sansoni,
Firenze 1936, pp. 271-293. Si tratta della conferenza Economia ed etica, tenuta
a Roma da Gentile il 19 aprile 1934 presso l’Istituto Nazionale Fascista di Cultura. Essa è stata pubblicata per la prima volta nella rivista «Leonardo», 5
(1934), V, pp. 197-205.
4. Cfr. Id., Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica, Sansoni,
Firenze 1946; 19552. Si citerà dalla ristampa: Le Lettere, Firenze 2014.
5. G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Giunti, Firenze 1995, pp. 413, 506507.
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GUERRA, SOCIETÀ, LAVORO IN GIOVANNI GENTILE
periodo da me preso in considerazione, non presenta alcuna dottrina dello “Stato corporativo”, in quanto si trova
impegnato a far emergere dal tema della guerra il ruolo
dello Stato.
Analisi del concetto di guerra
Il significato della guerra nella prospettiva gentiliana è
fondamentale. Nella Prefazione al volume Guerra e fede
(1919), comprendente gli scritti composti durante il periodo bellico, tra il 1914 e il 1918, Gentile afferma che le
questioni scaturite dalla guerra si sarebbero ripresentate
con la pace:
il problema della guerra era un problema superiore alla guerra
stessa, e tale da impegnare tutto l’avvenire della vita italiana:
un problema dal quale la dichiarazione e la condotta della
guerra sarebbe stato solo il primo punto: superato il quale, il
problema stesso sarebbe rinato, in nuove forme, ma sostanzialmente immutato: gravi difficoltà da vincere, scarsità di
mezzi finanziari e deficienza di organi amministrativi, impreparazione politica e necessità urgente di conquistarsi a ogni
costo una posizione nel mondo, e però di stringersi in più salda
disciplina all’interno6.
Il complesso guerra-pace viene quindi presentato da Gentile unitariamente.
Per comprendere l’analisi del concetto di guerra appaiono
significative le pagine della conferenza La Filosofia della
guerra tenuta da Gentile presso la Biblioteca filosofica di
Palermo l’11 ottobre 1914 e in quella di Firenze il 22 novembre del medesimo anno7.
Gentile inizia la sua disamina con l’affermare che tre
sono state gli incontri della filosofia con la guerra: la
guerra di Eraclito intesa come principio metafisico; la
guerra concepita da Kant nello scritto Per la pace perpetua come concetto empirico; la guerra considerata nella
prospettiva di Fichte come concetto storico nei suoi Discorsi al popolo tedesco8. Si tratta di tre concetti che sovente nella speculazione filosofica vengono confusi tra
loro. Ad avviso di Gentile un tale atteggiamento comporta
«un vero abuso gnoseologico» per cui
mentre pare che la portata di un principio metafisico, trasportato
a spiegare un fenomeno sociale, si amplii e si estenda, in realtà
si limita e restringe, poiché il principio stesso diviene incapace
di spiegare i fenomeni divergenti, che dovrebbero essere intelligibili anch’essi alla luce d’un principio veramente universale9.
La genesi che ha originato la suddetta confusione risiede
nel concetto empirico (di primo acchito «termine medio» tra gli altri due concetti), che viene considerato da
Gentile «un ostacolo alla corretta intelligenza di ciascuno
di essi e del loro profondo rapporto»10. In altre parole oc-
4
corre affrancarsi da tale significato empirico di guerra, che
nella prospettiva gentiliana non esiste.
Il passaggio da tre a due concetti della guerra è una sorta
di “operazione” attuata da Gentile per eliminare il significato della guerra tipico dei pacifisti. Problematiche
«come quella della pace perpetua, son prive affatto d’ogni
significato filosofico; e la propaganda dei pacifisti è uno
dei modi più ingenui e donchisciotteschi di perdere il
tempo»11.
Se pur Eraclito ha volto il giusto sguardo all’aspetto della
guerra, non è stato in grado di vederlo se non in maniera
superficiale, senza prenderne coscienza. Per Gentile la
vera guerra non è quella che ci appare fuori di noi in antitesi armonica con la natura, dove tutto al contempo si
suddivide e unifica; la guerra vera e autentica «è quella
che si combatte nell’atto stesso che la si avverte dentro
l’animo nostro»12. Gentile prosegue il suo discorso sottolineando il carattere necessario della guerra: essa è necessaria, in quanto non sorge da principi tra loro antitetici,
bensì dalla «loro originaria unità, fuori della quale non è
possibile che alcuno di essi sia concepito»13. Ciò su cui bisogna porre l’accento è «la guerra in atto» che viene a
configurarsi nella visione gentiliana come la «guerra viva
e concreta; la realtà in atto, si può dire del principio metafisico dell’unità dei contrari»14. Il concetto storico della
guerra non viene aggiunto a quello metafisico. Scrive infatti Gentile:
Principio metafisico e fatto storico, atto di Dio e atto umano,
non fanno due: sono un atto unico, nella sua intera realtà logica.
Per l’antico idealismo altro era l’idea, altro l’effettività reale.
Per noi l’idea non è altro che l’effettività dello stesso reale, che
è spirito […]. L’idea della guerra non è un prius della guerra effettuale. Nasce con la guerra stessa come quella idealizzazione
o coscienza, in cui essa attinge la sua concreta realtà. E invero
la guerra che si combatte, è guerra, reale e vivente guerra, non
come fatto da apprendere, ma come atto dell’anima nostra,
come nostra volontà, nostro pensiero, nostro sentimento, e in-
6. G. Gentile, Guerra e fede, cit., p. V.
7. Id., La filosofia della guerra, Ergon, Palermo 1914. È stata raccolta in G. Gentile, Guerra e fede, cit., pp. 3-21. Per quanto riguarda l’attività di Gentile alla Biblioteca filosofica di Palermo cfr. E. Garin, Cronache di filosofia italiana 19001960, Laterza, Bari 1997, vol. I, pp. 44-46 (prima edizione 1955); G. Turi,
Giovanni Gentile, cit., pp. 203-210. Sull’esordio politico gentiliano: S. Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Bompiani, Milano 1984, pp. 147148; e G. Galasso, Il debutto politico di Gentile. Introduzione agli scritti sulla
prima guerra mondiale, «Giornale Critico della Filosofia Italiana», 2-3 (1994),
LXXIII, pp. 401-413.
8. G. Gentile, Guerra e fede, cit., pp. 235-238.
9. Ibi, p. 4.
10. Ibidem.
11. Ibi, p. 6.
12. Ibidem.
13. Ibi, p. 7.
14. Ibidem.
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somma come quella vita che noi viviamo attualmente nella nostra coscienza15.
Nell’evidenziare la natura della guerra Gentile pone il filosofo in una prospettiva singolare, non tanto perché il filosofo debba raggiungere una posizione elevata e superiore da cui guardare il conflitto bellico, quanto perché
egli necessita di acquisire la consapevolezza di partecipare
a un ‘movimento’ da vivere e condividere. Nessuno oggi
può porsi in un atteggiamento di indifferenza nei confronti
della guerra. La guerra è il concetto concreto di essa medesima. In altri termini è «la stessa vera filosofia della
guerra»16.
L’analisi gentiliana si spinge oltre fino a mettere in luce
che la guerra non è solo una crisi di carattere economico,
politico, giuridico che coinvolge diversi popoli. Essa è
«un dramma divino», nonché il «cimento […] di tutte le
forze che si sono organizzate sulla faccia della terra, ossia nell’universo guardato dal nostro centro di osservazione». Si tratta «di un atto assoluto» che è il dovere imposto in maniera categorica:
Quello che nell’istante del nostro operare ci è dettato dalla nostra coscienza morale. È ciò che assolutamente deve farsi: un
atto, che è l’unico atto che si possa compiere dallo spirito conscio della propria universalità, e però consapevole di non aver
nulla fuori di sé: né natura, né altra volontà, né umana né divina. Il mondo è tutto lì: nell’atto morale17.
Comprendere profondamente il significato autentico della
guerra consiste, nella visione gentiliana, nel «sentire questa intimità della guerra nell’animo nostro, sentire la propria unità nazionale in un’unità universale, travagliata, necessariamente […] da un vasto tragico conflitto
interiore»18.
Colpisce di non trovare in queste argomentazioni alcun riferimento a quello che era, anche per Gentile, un fattore
rilevante nella conduzione della guerra, il fattore del lavoro e dell’economia. La conferenza palermitana aveva
lo scopo di “preparare” gli italiani allo sforzo bellico. Pertanto non occorreva far riferimento al lavoro. Le premesse per considerare il lavoro una realtà di cui si deve
tener conto, anche nella prospettiva spirituale della guerra,
si possono rintracciare ne I Fondamenti della filosofia del
diritto, sui cui ci soffermeremo nel paragrafo successivo19.
Lezioni pisane sulla filosofia del diritto (1916)
Lo scritto I Fondamenti della filosofia del diritto riassume
un corso di lezioni incentrato sulla filosofia del diritto tenute da Gentile nei mesi invernali 1915-1916, come supplente di Carlo Francesco Gabba, presso la Facoltà di Giu© Nuova Secondaria - n. 9, maggio 2016 - Anno XXXIII
risprudenza di Pisa. Considerato il momento critico dell’entrata in guerra del nostro paese (24 maggio 1915),
queste lezioni sul diritto si propongono l’obiettivo di
chiarire la legittimità della guerra stessa. Nella terza edizione del 1937 sono inclusi due rilevanti capitoli su Lo
Stato (VII) e La politica (VIII) che sono però il risultato
di meditazioni successive alla Grande Guerra, in cui Gentile prende in esame più approfonditamente la questione
del diritto naturale20.
Concetti espressi nella Filosofia della guerra quali «la
guerra è oggi il vero atto assoluto di ognuno di noi: è la
sola cosa che si possa fare, perché la sola che realmente
si faccia nel modo» accompagnati dall’identificazione
della guerra come «atto assoluto», cioè il «nostro dovere»21, verranno ribaditi due anni dopo nelle lezioni pisane – «c’è un solo dovere» richiamandosi ai passi sopraccitati22.
Se si affronta la concezione gentiliana della guerra come
impegno di volontà occorre chiarire che, secondo Gentile,
il diritto non è una parte esteriore della morale, bensì ne
rappresenta un aspetto, laddove esso esiste in funzione
della volontà su cui si fonda l’etica.
Come nasce la guerra? A giudizio di Gentile essa sorge
«dalla cattiva posizione morale nei singoli individui»,
ma non è fine in sé medesima: «la guerra è l’instaurazione
della pace, risoluzione di una dualità o pluralità nel volere
unico, la cui realizzazione è immanente nel conflitto, e ne
rappresenta la vera ragion d’essere e il significato profondo»23. Pertanto c’è la guerra, ma vi sono gli interessi
particolari in antitesi alle diverse volontà. Tuttavia «il conflitto in cui le singole volontà appariscono nella loro par15. Ibi, p. 9.
16. Ibi, p. 11.
17. Ibi, p. 12.
18. Ibi, p. 20.
19. G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, «Annali delle Università
toscane», 1916, n. s., I, 5, Mariotti, Pisa (complessivamente 76 pp.). Il testo fu
ripubblicato per De Albertis, Roma 1923. Infine ci fu una terza edizione: Sansoni, Firenze 1937, che vede l’aggiunta dello scritto gentiliano giovanile La filosofia di Marx. In questa sede si cita dall’ultima edizione nell’ambito delle
Opere complete di Giovanni Gentile, IV, Sansoni, Firenze 1961, concepita come
terza edizione rivista e accresciuta, priva però della Filosofia di Marx, che mantenne una propria indipendenza all’interno delle edizioni delle opere di Gentile.
20. Occorre precisare che l’edizione del 1937, concepita come seconda sotto il
profilo formale, presenta come capitolo VII l’intervento di Gentile al Congresso
hegeliano di Berlino del 21 ottobre 1931: Il concetto dello Stato in Hegel,
«Nuovi studi di diritto, economia, politica», 5 (1931), IV, (cfr. Sansoni, Firenze
1937, pp. 103-120) e come capitolo VIII il contributo Diritto e politica, «Archivio
di studi corporativi», I, 1930, pp. 1-14. (cfr. Sansoni, Firenze 1937, pp. 121-132).
Per una ricognizione bibliografica degli scritti gentiliani: cfr. V. A. Bellezza, Bibliografia degli scritti di Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze 1950 (vol. III della
Collana: Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a cura della Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi filosofici).
21. G. Gentile, Guerra e fede, cit., p. 13.
22. G. Turi, Giovanni Gentile, cit., p. 223.
23. G. Gentile, I fondamenti della filosofia del diritto, cit., p. 72.
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GUERRA, SOCIETÀ, LAVORO IN GIOVANNI GENTILE
ticolarità, scoppia e permane, finché permane», in quanto
ognuna di queste volontà non ha preso «coscienza della
propria particolarità e si sforza di realizzarsi come universale». Il conflitto termina, quando termina, perché
trova la sua soluzione «in una volontà dimostratasi, mediante il conflitto, universale»24.
Gentile concepisce la volontà come concordia discors:
egli non ammette il primato della ragione pratica, basata
sulla legge del dovere. Anche qui, come nella Filosofia
della guerra, Gentile polemizza aspramente nei confronti
dell’utopismo pacifistico che emergeva dalla concezione
kantiana della pace perpetua:
Ci saranno conflitti più violenti, e conflitti meno violenti; ma la
volontà è sempre concordia discors: e la discordia in cui appariscono gl’interessi particolari è momento della concordia, in
cui gli interessi divergenti sono pacificati nell’universalità del
volere unico25.
Gentile vede l’individuo e la società entro il processo di
realtà spirituale. In particolare Gentile distingue tra la società considerata dal punto di vista empirico e la società
concepita sotto il profilo speculativo. Se la prima è «l’accordo tra gli individui», la seconda spiritualmente non è
altro che lo Stato interiore all’individuo. Speculativamente la società è «la realtà del volere nel suo processo».
Quindi il valore universale si “istituisce” con l’immanente
eliminazione di quello che è l’elemento particolare. La società scrive Gentile:
Gentile non parla comunque mai di “lavoro”, ma sempre
di impegno della ‘volontà’.
Nell’esaminare il concetto di nazione Gentile afferma
che la vera idea di nazione come realtà spirituale è in sinergia con quella che avevano i grandi pensatori, da Vico
e Alfieri a Mazzini e Gioberti. Sottolinea, infatti, Gentile:
Ma la nazione, come quella realtà spirituale, che l’Italia, per
esempio, sentì vigorosamente di essere alla vigilia del suo risorgimento politico, e che fu il principio attivo della sua organizzazione politica, non era un fatto, ma una coscienza, un
bisogno interiore, un processo morale, un atto insomma di vita,
che trovò la massima espressione nel pensiero dei nostri scrittori, da Vico e Alfieri a Mazzini e Gioberti29
Gentile ritiene che una nazione così intesa si debba realizzare con impegno e zelante lavoro:
La nazione non c’è, se non in quanto si fa; ed è quella che la facciamo noi col nostro serio lavoro, coi nostri sforzi, non credendo mai che essa ci sia già, anzi pensando proprio il contrario:
che essa non c’è mai, e rimane sempre da creare30.
Una serie di espressioni gentiliane ci fa intendere che l’accrescimento della coscienza nazionale, cioè «l’individualità concreta del popolo stesso», si ottiene anche grazie all’azione delle persone che fanno parte di questo
popolo. «Giacché la volontà d’un popolo è la stessa volontà di chi lo governa, e la volontà di chi governa è la
stessa volontà del suo popolo»31. Lavoro, cultura e vita sociale contribuiscono ad incrementare la «coscienza conon è perciò inter homines, ma in interiore homine; e tra gli uomune d’un popolo». Un popolo è un popolo sia dal punto
mini è solo in quanto tutti gli uomini sono, rispetto al loro esdi vista morale che da quello politico, in quanto si sente
sere spirituale, un uomo solo; che ha un solo interesse, in
tale soprattutto «nella volontà operosa ed efficace onde si
continuo incremento e svolgimento: il patrimonio dell’umafa
valere nel mondo»32. L’Italia si è ‘fatta valere’ nell’ocnità26.
casione della guerra, in quanto il suo popolo ha operato
La dottrina dell’interiorizzazione dello Stato nell’indivi- con tutte le sue forze, ivi comprese quelle del lavoro.
duo è rilevante27 e verrà poi in vario modo rielaborata La guerra ha rappresentato per il nostro paese il suo batnello scritto che viene considerato il testamento spiri- tesimo:
tuale di Gentile: Genesi e struttura della società28, in cui
Non vinsero gli ufficiali, né i soldati, che eroicamente aspettaverrà formulata l’altrettanto significativa dottrina delrono e combatterono la grande battaglia: vinse tutta l’Italia, prol’umanesimo del lavoro e verranno altresì riprese tematiletaria e borghese, dei contadini e dei proprietari, di tutte le
che già trattate ne I Fondamenti della filosofia del diritto.
regioni33.
Dalle riflessioni sulla guerra
all’umanesimo del lavoro
Il complesso delle trattazioni relative a guerra e diritto, nel
periodo della primo conflitto bellico, non ci svela una concezione del lavoro del tipo di quella successivamente
elaborata sulla base della dottrina fascista dello stato corporativo. Troviamo, tuttavia, sfumature di pensiero che
coinvolgono atteggiamenti etici circa l’impegno “bellico”, che viene considerato anche impegno di lavoro.
6
24. Ibidem.
25. Ibi, p. 73.
26. Ibi, pp. 75-76.
27. Cfr. anche G. Gentile, Dopo la vittoria, cit., p. 113
28. Cfr. Id., Genesi e struttura della società, cit.
29. Id., Guerra e fede, cit., p. 36.
30. Ibi, p. 38.
31. Id., Dopo la vittoria, cit., p. 6.
32. Ibi, p. 7.
33. Ibi, p. 61.
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Se per Gentile qualsiasi azione non è altro che una personalità che si realizza in quella stessa azione, in questo
modo bisogna considerare la guerra: «azione unica di un
popolo, fuso in una volontà sola»34.
Secondo Gentile la rinascita morale del nostro Paese
dopo Caporetto si deve anche al mondo del lavoro. L’intera nazione “reagì” alla disfatta accentuando una responsabilità etica che era responsabilità produttiva, sul
piano altresì economico, industriale e tecnico. Non solo
il rinnovato sforzo di economia bellica fa riferimento al
valore del lavoro, bensì anche il sostegno morale allo
sforzo dei combattenti si deve al lavoro silenzioso delle
donne e degli uomini di tutto il Paese.
Se pure per soli accenni viene attribuito un ruolo rilevante
al lavoro nella rinascita del Paese dopo la catastrofe del
1917. Lentamente ma progressivamente si fa strada in
Gentile la consapevolezza che il mondo del lavoro contribuisca alla crescita del Paese per via spirituale e non
solo materiale. Una testimonianza di questo la troviamo
in un episodio significativo dell’anno 1922. Gentile inaugura l’anno scolastico della Scuola di Cultura sociale del
Comune di Roma, rivolgendosi ad un pubblico prevalentemente di operai con l’intento di esaltare le ragioni della
cultura umanistica in un percorso educativo. Appare
strano, ma comprensibile, per un pensatore come lui che
si esalti la superiorità della cultura filosofico-umanistica
sulla cultura tecnica in un discorso rivolto a persone che
non avrebbero intrapreso studi ginnasial-liceali. Alla vigilia delle discussioni sulla riforma della scuola che prenderà da lui il nome (1923), Gentile insiste sulla formazione unitaria dell’uomo ritenendo “intollerabile” la
frammentazione dei tipi di umanità35.
Sorge spontaneo chiedersi: quali argomentazioni emergono, tra il 1922 ed il 1943, per modificare la prospettiva
del primato assoluto delle discipline umanistiche nella formazione del cittadino italiano? Una risposta chiara ed univoca non appare facile, ma di certo nel corso degli anni
Trenta il Filosofo acquisisce alcune convinzioni che lo inducono successivamente, nel momento della grave crisi
creata dalla sconfitta militare dell’Italia nel corso del
1943, a scegliere tra le vie fondamentali verso la dignità
della persona entro lo Stato etico anche il lavoro, con il riflesso di una massiccia rivalutazione della solidarietà sociale sotto il profilo dell’impegno della manualità e della
tecnicità.
Non è il caso di approfondire la tematica dell’umanesimo
del lavoro così come è delineata in Genesi e struttura
della società36. Posso solo accennare alla dottrina fascista dello stato corporativo, accettata da Gentile, nella
quale largo spazio si attribuiva ai vari aspetti del mondo
del lavoro e soprattutto si armonizzavano lavoro con cul© Nuova Secondaria - n. 9, maggio 2016 - Anno XXXIII
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tura, lavoro produttivo con lavoro progettuale ed inventivo. Nella pagine della biografia di Gabriele Turi possiamo seguire l’evoluzione del pensiero gentiliano in
questo senso37. Così afferma Turi:
I princìpi del’attualismo sono qui finalizzati all’analisi della socialità essenziale all’uomo, che in quanto soggetto ha in sé
anche “l’altro” e riflette quindi l’intera comunità. In un discorso
in cui è evidente la sintesi tra l’impostazione attualistica e
l’esperienza del fascismo, Gentile amplia il suo concetto di cultura, che nel discorso del 1922 agli operai di Roma aveva identificato con quella umanistica, per includervi ora tutte le forme
del lavoro manuale e tecnico38.
Dall’iniziale apologia della guerra, nella quale “a stento”
rientrava il contributo del mondo del lavoro nell’organizzazione dello sforzo bellico, si giunge nelle riflessioni
gentiliane del dopoguerra a considerare quel mondo stesso
come degno di essere “educato umanisticamente”. Nel
momento cruciale della guerra successiva, la seconda,
nella proclamazione della quale Gentile non era entrato
minimamente (era una guerra voluta esclusivamente dai
vertici del fascismo)39, egli “riscoprì” il mondo del lavoro
e la diretta valenza umanistica di esso. L’apologia della
guerra, espressa negli anni 1914-1918, aveva insistito
sul carattere spirituale di essa, trascurando il lavoro. La
“difesa” della prospettiva dello Stato, compiuta nel 1943,
risente della nuova situazione venutasi a creare, nella
quale il Filosofo stanco, ma non deluso, compie un’esaltazione sincera dell’umanesimo del lavoro come quella
forza che potrebbe ‘salvare il Paese’ dalle conseguenze di
una catastrofe appena annunciata.
Stefania Zanardi
Università di Genova
34. Ibi, p. 63.
35. La conferenza gentiliana Lavoro e cultura, Centenari, Roma 1922, è stata ristampata, come secondo scritto, in G. Gentile, Fascismo e cultura, Treves, Milano 1928; e poi pubblicata in Id., Politica e cultura, vol. I, Le Lettere, Firenze
1990, pp. 237-251. Di questo impegno Gentile parla in alcune lettere rivolte a
Giuseppe Lombardo Radice. G. Turi, Giovanni Gentile, cit., p. 300.
36. Per quanto concerne l’elaborazione gentiliana della dottrina sull’umanesimo
del lavoro: G. Gentile, Genesi e struttura della società, cit., pp. 111-112. Su tale
dottrina cfr. F. Toniolo, Umanesimo del lavoro e umanesimo della cultura in Gentile, «Filosofia oggi», 3 (2001), XXIV, pp. 239-242.
37. G. Turi, Giovanni Gentile, cit., pp. 469-490.
38. Ibi, p. 506.
39. Nonostante non vi fosse stato da parte di Gentile un vero e proprio intervento
propagandistico, all’inizio dell’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, il regime si rivolse a lui, nel momento della crisi militare del 1943, per un
intervento alla radio al fine di incoraggiare gli italiani. Il Discorso agli italiani
del 24 giugno 1943 fu un tardivo e forse inefficace intervento. G. Turi, Giovanni
Gentile, cit., pp. 495-500.
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