I. Perché rivolgersi a un filosofo

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La consulenza filosofica spiegata a tutti
I. Perché rivolgersi a un filosofo
Ospite: Ho pensato alcune domande da porti in via preliminare. Innanzi
tutto vorrei chiederti una definizione precisa di “consulenza filosofica”.
Filosofo: Ti chiedo scusa ma vorrei evitare di partire da una definizione,
che è sempre o troppo povera, cioè parziale, o troppo secca cioè portatrice
di delimitazioni rigide e prese di posizione radicali che appartengono più al
mondo della filosofia che a quello della gente comune, vale a dire di coloro
che dovrebbero servirsene. Secondo me è meglio andare di passo in passo,
affrontando tutti i vari aspetti che è possibile far emergere, e così comporre
una specie di definizione complessiva alla fine.
O: Va bene. Ma non esiste una definizione condivisa e accettata da tutti?
F: Più o meno. Ti darò una piccola raccolta di definizioni fra le quali
spero che tu possa orientarti abbastanza facilmente alla fine di questo nostro
percorso di riflessione.
O: D’accordo. La prima domanda che vorrei farti è, comunque, una domanda molto generale: perché mai qualcuno dovrebbe rivolgersi a un filosofo?
F: Per rispondere in modo compiuto a questa domanda, secondo me
bisogna porne un’altra ancora più profonda, e cioè: che cos’è la filosofia?
O: Ottimo. Anche su questo ho le idee piuttosto confuse.
F: Non ho certo la pretesa di rispondere compiutamente a simile domanda,
posso però chiarire qualche malinteso, nel senso che non si deve pensare che
la filosofia sia solo quella che si insegna a scuola, cioè la sua storia…
O: …e che io non conosco, non avendola mai studiata…
F: È anche questo, certo, ma se vogliamo farcene un’idea, indipendentemente dalla sua storia che è straordinaria e appassionante, ma qui non è in
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questione, allora dobbiamo pensare al gesto della filosofia. Gli antichi dicevano che la filosofia nasce dalla meraviglia, cioè, traduco, quando riusciamo
a strappare le cose, le persone, gli eventi, dall’indifferenza con cui ci si
presentano. Ciò che è strappato dall’indifferenza e diventa occasione di meraviglia, suscita in me degli interrogativi, delle domande, che mi spingono a
cercare delle risposte, o almeno a porre delle questioni. Così, la filosofia
può essere intesa in primo luogo come questa sorta di passo indietro, che
faccio per osservare le cose, gli eventi, le persone, le relazioni, le mie decisioni, le mie scelte, i miei valori, le mie credenze, i miei atti, per osservarli
e chiedermene il significato, il valore, la consistenza, la sostanza, eccetera,
eccetera.
O: Fin qui è chiaro: fermarsi e fare un passo indietro per osservare le
cose della vita.
F: Ma non basta, perché il discorso filosofico ha certe sue caratteristiche
abbastanza chiare, al di là dei tempi, degli autori e delle loro rispettive idee,
cioè la necessità, comunque, di costruire discorsi razionali o, meglio ancora,
sottoposti alla verifica della razionalità, controllati alla luce della ragione. Il
discorso filosofico è sempre un discorso che si pone la questione della propria razionalità, è discorso che fa i conti con le strutture logiche del pensiero.
O: È un pensiero razionale, come la matematica?
F: Non esattamente: porre la questione della propria razionalità non
significa necessariamente pretendere un rigore assoluto, di tipo matematico;
spesso anzi nel nostro ragionamento hanno una parte importante le nostre
emozioni, i nostri sentimenti. Come dice il filosofo Pascal con una frase
bellissima, il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce. Il problema, però, è che un discorso filosofico può sempre interrogarsi sul suo
contenuto di razionalità, può sempre metterlo in discussione.
O: Ho capito. In questo modo il discorso filosofico si distingue anche
dalla chiacchiera, dal modo normale di discutere e parlare. Cioè fare filosofia non è solo un modo di parlare tra amici, giusto?
F: Giustissimo, questa è una distinzione che mi viene spesso richiesta. È
certamente vero che nel dialogo di consulenza si possa realizzare una relazione che potremmo definire di amicizia, ma non è vero il contrario, non
basta, cioè, parlare tra amici per realizzare una situazione di pratica
filosofica. In primo luogo perché c’è questo elemento preliminare della
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razionalità del discorso (con le precisazioni che ho appena fatto), che è di
norma estraneo a una semplice chiacchierata, e poi perché c’è ancora un
elemento da ricordare per chiarire la specificità del discorso che chiamiamo
filosofia: si tratta infatti di un discorso che non solo ha cura della propria
razionalità, ma che adotta uno sguardo “panoramico”.
O: Cosa significa?
F: Significa che la prospettiva dalla quale parla il filosofo anche quando
parla di sé e dei propri sentimenti, anche quando è preso nell’analisi
interiore, quando realizza l’antico precetto del “conosci te stesso”, anche
allora, il suo modo di parlare è sempre “panoramico” cioè rivolto a tutti,
posto di fronte a tutti: ciò che dice è detto sempre di fronte a un pubblico,
anche solo potenziale. E coinvolge tutti. Differentemente da quanto accade
a esempio nella dimensione della letteratura (fatta forse eccezione per certa
poesia epica che narra vicende di un popolo e di una condizione umana), la
quale cerca di realizzare simbolicamente uno sguardo intimo, privato. Ecco:
il discorso della filosofia non è mai un discorso privato. Di qualsiasi cosa
parlo, se ne parlo filosoficamente, vuol dire che riguarda tutti, e ognuno. E
che in qualche modo la cosa che interrogo, anche se si tratta di una mia
vicenda privatissima, appartiene comunque a una dimensione pubblica, può
essere collocata in una storia, in un tempo, in una condizione pubblica. L’io
della pratica filosofica è sempre essenzialmente un noi.
O: Non so se ho capito benissimo.
F: Provo a riassumere, per capirci. La filosofia dovrebbe essere intesa
non solo come l’insieme delle opere che tradizionalmente vengono associate a questa disciplina, ma prima di tutto come una certa modalità del
discorso che ha almeno tre caratteristiche evidenti: quella di richiedere una
certa presa di distanza dalle cose (il gesto della meraviglia), quella di essere
sempre in condizione di fare i conti con la propria modalità razionale, e con
le strutture logiche del pensiero, e infine quella di presentare una prospettiva panoramica, di essere, cioè, discorso “comune” che appartiene a tutti,
che riguarda tutti.
O: Bene, ma anche posta questa definizione, comunque a questo punto
ti chiederei di rispondere all’altra domanda: perché mai qualcuno in cerca
di aiuto dovrebbe rivolgersi a un filosofo?
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F: Permettimi di contestare la formulazione della tua domanda, perché
essa contiene in sé un pregiudizio che vorrei smentire.
O: Cioè?
F: Tu parli di “qualcuno in cerca di aiuto”, ma questa lettura è già una
forzatura che deriva dal fatto che nell’opinione pubblica è attestata un’immagine della consulenza filosofica derivata da altre professioni: come chi
ha un dolore fisico va dal medico, chi ha un dolore esistenziale, chiamiamolo
in questo modo, va dal filosofo.
O: Non è forse così?
F: Non esattamente. Questa è una semplificazione, e anche una banalizzazione.
O: Perché?
F: Perché in realtà il movente della consulenza filosofica è un altro: non
si tratta di un modo per curare disagi esistenziali, anche se, come poi ti dirò,
questi hanno un loro ruolo preciso; si tratta piuttosto di avere il bisogno di
realizzare una vita migliore, più autentica, più vera.
O: Intendi dire che ci si rivolge a un filosofo quando si vuol diventare
migliori? Ma cosa significa diventare migliori?
F: Hai ragione, questa è la vera domanda, e la risposta non è semplicissima. Diciamo che ognuno di noi può trovarsi in un momento della
propria esistenza nel quale sente di non esprimere tutte le sue potenzialità,
sente di essere meno di ciò che vorrebbe, sente di non riuscire a esprimere
le sue qualità, sente che la sua condizione è inadeguata, sente di non essere
davvero lui, non interamente, sente di poter essere qualcosa di più non in
termini di realizzazioni, di conquiste, di affermazione personale, ma in
termini di giudizio che dà di se stesso. Allora, in quel momento, può iniziare
un percorso di vita nel quale la pratica filosofica può essere prima uno
strumento, e poi un modo di essere fondamentale.
O: Capisco, però ho l’impressione che questi momenti siano assai rari.
Mi piacerebbe sapere quante persone sono venute da te esattamente con
questo intento.
F: Certo, sono momenti rari, ma qui tornano in campo, come ti dicevo, i
nostri disagi esistenziali. Perché nella maggior parte dei casi è proprio nel
momento in cui si vive una difficoltà che ci si rende conto del bisogno di
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cambiare, di liberarci di certe catene che ci portiamo appresso, e di realizzare una visione del mondo più ampia e più ricca.
O: Così torniamo al punto di partenza, c’è un disagio, una difficoltà, e
per affrontarla io mi rivolgo a un filosofo.
F: Sì, questo è ciò che accade nella maggior parte dei casi. Ma deve
essere chiaro che il compito del filosofo consulente non è quello di risolvere
le difficoltà familiari, lavorative, esistenziali della persona. Si può partire
da queste, e di solito si parte da queste, ma la strada conduce ben al di là
delle singole problematiche, conduce verso una trasformazione più radicale
della persona stessa.
O: Ho capito, però intanto posso riproporre la mia domanda iniziale:
perché mai qualcuno che abbia la necessità di risolvere un proprio problema dovrebbe rivolgersi a un filosofo?
F: E prima ancora si dovrebbe porre la domanda più radicale: perché rivolgersi a qualcun altro? Non ci si potrebbe aiutare da soli? Non è una prova
di debolezza ammettere di non farcela senza l’aiuto di un altro? No, rispondo,
non è così. Il fatto è che abbiamo sempre bisogno degli altri: quando c’è un
problema che ci assilla, un disagio che ci tormenta, nella maggior parte dei
casi accade che quel problema, quel disagio, diventa un pensiero fisso, diventa un tarlo che ruota ossessivamente dentro di noi che siamo travolti da
questo pensiero che si ripete senza cambiare, che si ripropone continuamente con le stesse domande e con le stesse risposte. Spesso è proprio
questo lo sfondo del nostro disagio, il non saper dare una svolta ai nostri
problemi, il non vedere una via d’uscita, il non intravedere uno sviluppo
nuovo che consenta di uscire da una condizione sentita come inadeguata. A
questo punto è proprio la presenza di un altro che può rompere quel circuito
vizioso di pensieri che ruotano dentro di noi: è l’altro, con la sua presenza,
con le sue parole, con il suo diverso punto di vista, che può rompere il nostro
guscio e far uscire quei pensieri faticosi che ruotano inutilmente.
O: Ma chi è questo “altro”? Non può essere l’amico per esempio?
F: Certo, ovviamente può essere l’amico, può essere il partner, può
essere un parente, un confessore, un collega, è ovvio. Ma queste figure talvolta possono non bastare, o perché anch’esse di fatto sono implicate nelle
stesse difficoltà e negli stessi eventi, o perché non sono (o meglio non ci
appaiono) in grado di ascoltarci, non tanto per cattiva volontà (quelli che ci
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mettono cattiva volontà si escludono da soli), quanto piuttosto per il ruolo
che rivestono, che li mette in condizione di rappresentare una risposta
prevedibile, cioè scontata, già nota, e quindi poco utile. È probabile che
rivolgendoti a tua madre troverai comprensione o disapprovazione, o tolleranza, in ogni caso reazioni che si possono prevedere perché sono quelle
che appartengono al suo ruolo di madre, reazioni che dunque già conosci, e
puoi immaginare. Se ti rivolgi all’amico sai che troverai solidarietà, connivenza, magari partecipazione e disponibilità, perché fa parte del ruolo
dell’amico. Ma può non bastare, può non essere sufficiente. È possibile che
tu abbia bisogno di qualcuno il cui atteggiamento non sia né scontato né
prevedibile, di un estraneo che non si limiti a comprenderti e a offrirti la
sua disponibilità, ma che ti aiuti a rompere quel guscio di pensieri che
girano a vuoto, che ti metta in condizione di individuare nuove strade
rispetto a quelle che hai preso in considerazione fino a quel momento.
Ecco: il filosofo può essere questa persona, perché il suo ruolo non è quello
delle figure con cui hai quotidianamente a che fare, ma è piuttosto il ruolo
di chi non ha risposte preconfezionate da dare, né si attacca a un modello
per metterti al suo interno e definirti in qualche modo. Il filosofo consulente accetta la tua imprevedibilità di persona, e ti offre la sua. In più, egli
non ti offre soltanto un ascolto disponibile, bensì un vero colloquio, nel
quale entrambi gli interlocutori, parlando, provano a percorrere strade
inesplorate, a fissare lungo il percorso dei punti di riferimento. Il filosofo,
contrariamente a come immaginiamo di solito un “consulente”, non sa prima
dove conduce il percorso, non conosce la risposta giusta, ma è convinto che
tu possa trovarla se accetti di entrare in questa situazione di scambio.
O: Un po’ come Virgilio che accompagna Dante per un pezzo di strada
difficile, e poi lo lascia andare.
F: Qualcosa del genere. Ma c’è un’altra un’immagine che vorrei proporti, solo come una suggestione, bada bene: hai presente il film L’attimo
fuggente?
O: Certo, mi sono commosso tanto…
F: Ecco, in quel film c’è un momento nel quale il professore, con gran
sorpresa degli alunni, sale sulla cattedra e li invita a guardare le cose da una
prospettiva diversa. E per convincerli afferma: “È proprio quando credete
di sapere qualcosa che dovete guardarla da un’altra prospettiva”. Ecco il
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filosofo consulente: ti spinge proprio a questo, a cambiare prospettiva rispetto
alla cosa che ti sta a cuore e che non riesci a risolvere.
O: Credo di capire quel che intendi; tuttavia ancora non mi è ben chiaro
perché, in un momento di disagio, di sofferenza personale, dovrei scegliere
di rivolgermi a un filosofo piuttosto che a uno psicologo, come si fa da un
bel po’ di tempo.
F: Credo che si tratti di due pratiche molte diverse e che, quindi, ci si
rivolga a un pubblico differente e con altri intenti. Questo va ribadito: il
filosofo non cura nulla, il filosofo discute, affronta problemi, esplora le
ragioni delle cose, cerca il senso delle azioni, prova a capire il valore dei
gesti che compiamo. Il filosofo non aggiusta un organo difettoso, non ha la
pretesa di trovare il guasto, di sanare il difetto che rende la macchina inadeguata al suo servizio.
O: Ma allora cosa fa?
F: Il filosofo ritiene che la qualità della mia vita possa significativamente migliorare attraverso un percorso di messa in discussione delle
mie ragioni, dei miei valori, delle mie convinzioni, dei miei punti di
riferimento. Il filosofo ha fiducia nella mia capacità di uomo libero di essere
padrone della mia vita e di poterla guidare con un briciolo di saggezza, di
rispetto e di coerenza.
O: Allora la consulenza filosofica non si propone come una forma di
psicoterapia alternativa? Non c’è quindi una concorrenza tra voi e gli psicologi?
F: Assolutamente no. Per logica e per atteggiamento si tratta di pratiche
assolutamente diverse. Da un lato c’è l’offerta di un percorso di cura del
disagio centrata sull’interiorità dell’individuo, e che ha nell’individuo
stesso il suo campo d’azione; dall’altra c’è un’offerta che non punta né alla
cura né alla soluzione del disagio, ma alla necessità di dare un senso all’esistenza in generale e a tutti i fatti che vi accadono, all’interno di un
percorso di trasformazione della rete delle relazioni che compongono la
persona, non dunque solo dell’interiorità dell’individuo. Il cammino della
consulenza filosofica è sempre pubblico, intersoggettivo, la sua competenza
etica, non psicologica.
O: Etica? Psicologia? Mi chiarisci meglio questa distinzione?
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F: Se la psicologia è quell’insieme di conoscenze e di pratiche che ha
per oggetto le funzioni psichiche, i processi mentali e le esperienze interiori
e soggettive, sia coscienti che inconsce, l’etica è, invece, quell’insieme di
discorsi che si occupano dell’agire umano, cioè della persona in quanto
inserita in un ambiente di relazioni, di azioni, di gesti, di comportamenti.
Dall’etica in generale discende la morale individuale che si pone il
problema di cosa è meglio fare, di cosa è giusto o sbagliato, dei valori in
base ai quali io agisco, sia che agisca bene, sia che agisca male.
O: Questo è abbastanza chiaro, ma dal punto di vista tuo, di filosofo;
non lo è altrettanto dal punto di vista dell’ospite.
F: Proviamo allora a vedere la cosa anche dall’altro punto di vista: il
paziente di uno psicoterapeuta si aspetta la cura, chiede di essere aiutato a
esplorare la propria psiche, i propri sentimenti, i propri desideri, le proprie
emozioni, e si affida a un sapere che gli proviene da altri nella speranza di
trovare, in esso, la soluzione del proprio disagio. L’ospite del filosofo consulente, invece, si aspetta il dialogo, il confronto, l’argomentazione razionale,
e conserva la proprietà della decisione, della scelta e della responsabilità;
l’ospite di un filosofo consulente si aspetta che le sue ragioni siano le cause
delle sue azioni, e quelle ragioni vuole comprendere, vuole interrogare, vuole
rendere più solide.
O: Ma anche il filosofo avrà pur bisogno di una sua teoria, di un suo
sapere fondato e riconosciuto. Quel che fa nel dialogo lo farà pure a partire
da una teoria, da un insieme di conoscenze specialistiche, ma quali?
F: Qui c’è proprio una assoluta specificità del filosofo, in quanto il
filosofo sa, per definizione, di non sapere, e dunque le sue teorie sono solo
possibilità, sono dei punti fermi ma provvisori, soggetti a continua revisione. Il filosofo non può non interrogare la sua stessa teoria. Ciò di cui si
serve è anche la sua teoria, ma soprattutto la sua pratica interrogativa, di
messa in discussione.
O: Questo posso capirlo, ma non capisco come si possa fare una professione come questa senza una teoria chiara.
F: Il filosofo ha più di una teoria, ne ha molte. Il filosofo ha alle spalle
duemila e cinquecento anni di riflessione intorno all’uomo, alle sue sofferenze, ai suoi disagi, al suo ruolo nel mondo, al suo posto nella società, a
tutta la costellazione dei suoi valori e delle sue scelte. Il bagaglio del
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filosofo è di una ricchezza straordinaria e non si limita, non può limitarsi, a
una teoria. La filosofia, al contrario di molte altre discipline, ha questa
straordinaria peculiarità: può interrogarsi continuamente su quel che fa e
sul modo in cui lo fa, può investire di domande il suo stesso agire, può
discutere se stessa senza paura di annullarsi. In questo senso ogni filosofo
consulente ha ovviamente le proprie convinzioni e mette in scena nel
dialogo le proprie personali persuasioni, ma resta pronto a discuterle, resta
disponibile a metterle in gioco e a farle reagire con le prospettive, le idee, le
visioni del mondo del suo ospite.
O: Perché usi sempre questo termine “ospite”?
F: Sì, scusa, è bene chiarire il senso di alcuni termini: nell’ambiente
della consulenza filosofica ci si rifiuta di parlare dell’altro come del
“cliente”, e si preferiscono altre locuzioni, a esempio “consultante” oppure
“ospite”, ed è la parola che io personalmente preferisco per intendere la
persona che si reca dal filosofo consulente per dar vita a un colloquio filosofico individuale.
O: Per restare sui termini: “colloquio” o “consulenza” sono la stessa
cosa?
F: Anche qui è bene chiarire: nell’uso italiano (perché in altre lingue la
questione è diversa) è invalsa l’espressione “consulenza filosofica” per
indicare questo nuovo modo di vivere la filosofia. Tuttavia, personalmente,
non sono molto soddisfatto di questa espressione che mi suona – lo so: è
solo una questione di sensibilità personale! – troppo “aziendalistica”, formale, tecnica; per questo io preferisco parlare, ma per indicare la stessa
cosa, di “colloquio o dialogo filosofico”. Tu considera che queste espressioni siano perfettamente equivalenti.
O: Bene, chiarito questo andiamo avanti, anzi torniamo a quel che
stavamo dicendo, e in particolare alla questione secondo cui, come tu dici,
il filosofo non cura. Spiegalo meglio.
F: Potrei rispondere semplicemente che il filosofo consulente si occupa
di cose che non devono essere curate affatto. Alcuni, giocando un po’ con
le parole, dicono che la filosofia non cura ma si prende cura dell’altro. È
sicuramente vero, però a me non piace molto questa espressione soprattutto
perché non riesco a immaginarla legata specificamente al lavoro del filosofo:
certo ci dobbiamo tutti prendere cura gli uni degli altri se vogliamo vivere in
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un mondo pacifico e solidale, ma non credo che questa sia una qualità
specifica ed esclusiva del consulente filosofico. Il filosofo consulente
risponde alla richiesta che gli proviene dall’altro, e risponde con le sue
parole e con il suo atteggiamento filosofico, cioè interrogativo. Non è un
medico, né un missionario né un santo, e nemmeno un infermiere, o un
volontario della Croce Rossa.
O: Se il colloquio filosofico non è una cura, vuol dire che lascia le cose
come sono? Ma come: qualcuno si rivolge a te perché ha un problema, e tu
lo ignori?
F: No, lo interrogo, lo discuto, provo a capirne il senso, ma sempre
all’interno di un percorso che si fa insieme. Tu hai bisogno d’aiuto, io
posso dartelo proponendoti di fare un tratto di strada insieme. In quel tratto
di strada cercheremo di chiarire alcuni aspetti della tua esistenza. Cercheremo di fare chiarezza su alcuni punti di riferimento, alcuni valori che
danno senso alla tua vita, cercheremo di costruire un progetto di vita
adeguato alla tua realtà. Per il resto sarai comunque tu a dover fare il
lavoro, sarà tua la responsabilità della trasformazione. Sarai tu a uscire dal
disagio, con le tue forze. E se ci sarà una “soluzione” del problema, sarai tu
a determinarla.
O: E non potrei farcela da solo allora? Se comunque sarò io a dover
uscire dal disagio con le mie forze, che bisogno ho di un filosofo?
F: Se ne hai bisogno non è solo perchè talvolta si ha bisogno di qualcuno che ci aiuti a essere più forti, più coraggiosi, più determinati, ma
soprattutto perché nessuno di noi è autosufficiente: siamo esseri dipendenti
gli uni dagli altri, e molti dei nostri problemi e dei nostri disagi nascono
proprio dal fatto che crediamo invece di essere del tutto separati, isole
nell’oceano, lontani dagli altri in modo drastico e definitivo. Ma non è così,
il filosofo consulente ti aiuta a ritornare in contatto non solo con te stesso,
ma soprattutto con gli altri. L’esercizio del colloquio con un filosofo consulente è pratica che ti rimette nella condizione di ripresentarti agli altri, a
quelli che ti circondano, a tutti coloro che rispetto al tuo disagio erano
indifferenti e sordi. Il colloquio con un filosofo ti fa tornare in relazione
con gli altri. Il dialogo interiore è importantissimo, è un altro esercizio
filosofico fondamentale, ma è altra cosa dal colloquio filosofico, che è
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La consulenza filosofica spiegata a tutti
gesto di apertura all’altro e non solo ricerca dentro di sé. Per questo è un
esercizio che da soli non si può fare.
O: La mia sensazione comunque, lascia che te lo dica, è che la
consulenza filosofica sia una disciplina molto giovane, forse troppo, quindi
ancora non sufficientemente sperimentata.
F: È vero che la consulenza filosofica è una disciplina giovane che risale
ai primissimi anni Ottanta, ma in realtà il campo di competenza su cui
insiste è ben più antico: fa riferimento a un sapere filosofico che ha duemilacinquecento anni. Ciò che la consulenza filosofica sa dell’esistenza umana
è ciò che la filosofia ha elaborato e sperimentato nell’arco di venticinque
secoli. È tutta l’esperienza occidentale dell’uomo che entra in gioco nella
consulenza filosofica, quindi eviterei di dire che è una disciplina “giovane”
e magari “poco esperta” o “poco sperimentata”. Recente è soltanto la
modalità con cui essa si propone nella situazione del colloquio individuale
e di gruppo. Ma questa è una novità in cui essa si giova delle esperienze
pratiche realizzate da altre discipline. È evidente che nell’approccio e nel
setting la consulenza filosofica si serve delle esperienze maturate dalle
psicoterapie umanistiche: una certa empatia e partecipazione emotiva, il
rispetto assoluto dell’ospite, la coerenza e la partecipazione del filosofo
ecc., modalità assai lontane invece da quelle tipiche dell’impostazione della
psicoanalisi tradizionale (il lettino, lo psicoanalista dietro le spalle, …). Ma
la somiglianza di famiglia finisce qui, perché quel che accade nel colloquio
ha nella filosofia il suo senso, nella parola filosofica il suo strumento, nel
lavoro dei concetti la sua materia, nel dominio dei valori, dei progetti e
delle scelte il suo terreno.
O: Ma come posso essere sicuro della competenza del consulente filosofico?
F: Non ci sono attualmente vincoli formali e di legge che possano funzionare da garanzia per l’ospite rispetto alla competenza e serietà del
filosofo: tuttavia un modo c’è, ed è quello di accertarsi che il filosofo faccia
parte di una associazione professionale seria, cioè pubblica, trasparente
nelle sue attività, riconoscibile per adesioni, impegnata nella ricerca oltre
che nella promozione, con pubblicazioni, convegni, seminari ecc.; e che sia
ufficialmente riconosciuto consulente filosofico dalla associazione stessa
(io ad esempio faccio parte e sono consulente filosofico riconosciuto di
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Stefano Zampieri
Phronesis – Associazione italiana per la consulenza filosofica). Questo
significa che quel filosofo è entrato a far parte di una rete di filosofi
consulenti che si confrontano stabilmente fra loro, che si consultano, che si
aiutano reciprocamente, condividendo difficoltà e incertezze. Solo la rete di
condivisione fornita da una associazione di professionisti può valere da
garanzia per l’ospite, e rassicurarlo sul fatto che il lavoro di quel filosofo
viene continuamente messo sotto esame dalla comunità dei filosofi consulenti, che le sue modalità operative sono trasparenti, che non si tratta cioè di
un improvvisato o di un dilettante. Il resto, naturalmente, lo deve fare
l’ospite stesso perché il suo giudizio è fondamentale: se il dialogo con
questo filosofo consulente non mi è possibile, non si sviluppa, non decolla,
non ho obblighi nei suoi confronti. Lo saluto e mi rivolgo a qualcun altro.
O: Ma come si diventa filosofi consulenti?
F: Risponderò in modo molto schematico, solo per quel che può interessare l’ospite: il percorso di formazione del filosofo consulente prevede
innanzi tutto una laurea specialistica in filosofia, perché la conoscenza
approfondita della materia filosofica deve essere considerata il punto di
partenza e il fondamento, anche se poi nel colloquio non si fa né teoria, né
storia della filosofia. In secondo luogo, però, è necessario un percorso di
formazione sulla letteratura specifica della consulenza filosofica, che è
ampia e articolata. In terzo luogo è necessario un processo di approfondimento della materia a confronto con coloro che già svolgono attività di
colloquio filosofico. In quarto luogo è necessario un periodo di sperimentazione personale sotto il controllo di uno o più professionisti che possono
guidare, consigliare, interrogare l’attività dell’apprendista. E infine, anche
se per certi versi dovrebbe essere l’elemento centrale, è necessario un
percorso di crescita personale, cioè che l’apprendista filosofo consulente
abbia fatto egli stesso un percorso di consulenza come ospite, e che da
questo percorso abbia iniziato a interrogare profondamente se stesso,
mettendo in luce e portando a consapevolezza la sua personale visione del
mondo, i suoi valori, le sue credenze. Questo processo di formazione personale è la pre-condizione per diventare un filosofo consulente. Ho già fatto
notare che comunque il filosofo non deve mai smettere di interrogarsi e non
deve mai rinunciare a porre sotto esame il suo operato. Ciò che fa deve
essere sempre per lui motivo di riflessione e al contempo di confronto e di
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scambio con l’intera comunità dei consulenti filosofici; per questo deve
mettere nel conto una formazione continua e ininterrotta, come garanzia di
qualità del suo lavoro.
O: Tu stesso hai detto che la disciplina così come oggi viene proposta
esiste da poco. Potresti essere più preciso? E soprattutto: si tratta di un
fenomeno tipicamente italiano o no?
F: Posto che, come ho già detto, si tratta in parte di recuperare un modo
di intendere la filosofia antichissimo, resta comunque che il movimento
della pratica filosofica per quanto giovane ha già una sua storia. Nasce con
il filosofo tedesco Gerd Achenbach nel 1981 quando costui apre il primo
studio di consulenza, e poi si diffonde rapidamente dalla Germania ai Paesi
del Nord Europa, e passa agli Stati Uniti. Ma se vuoi ripercorrere tutta la
storia nel dettaglio posso consigliarti dei libri in cui essa è stata tracciata.
Quel che mi pare importante sottolineare è che non si tratta affatto di un
fenomeno italiano, anzi, noi italiani siamo arrivati con un certo ritardo. È
piuttosto un fenomeno internazionale di vasta portata, lo testimonia bene la
Conferenza Internazionale che ogni due anni riunisce tutti i filosofi consulenti del mondo. Nel 2008 si è svolta in Italia, per la precisione a Carloforte
(vicino a Cagliari), la decima edizione (2010) in Olanda, la successiva si è
tenuta in Corea. È facile trovare in rete i links a molti filosofi consulenti sia
italiani che stranieri, e a numerose associazioni internazionali. Insomma, il
fatto che in Italia la pratica filosofica non sia nota al grande pubblico non
significa che si tratti di un fenomeno così marginale.
O: La consulenza filosofica si rivolge a un pubblico particolare?
F: No, il colloquio filosofico non è affatto privilegio dei filosofi, anzi
esso nasce proprio con l’intento di tornare a fare filosofia con i non filosofi.
Da questo punto di vista dobbiamo dire chiaramente che il dialogo filosofico si rivolge a tutti, indipendentemente dal fatto che conoscano o meno
la filosofia, indipendentemente dal grado di cultura. In realtà c’è una limitazione assoluta, nel senso che è difficile pensare a un colloquio filosofico
con una persona che non sia semplicemente interessata al dialogo, che non
voglia parlare, che non accetti il confronto. In questo senso nessuno può
essere forzato a parlare, nessuno può essere obbligato al colloquio, perché
un tale presupposto lo renderebbe semplicemente impossibile. Il dialogo
deve essere libero, non c’è alternativa. Ma a partire da questa condizione,
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Stefano Zampieri
chiunque può avvicinarsi a un filosofo e provare a fare, insieme con lui, un
tratto di strada.
O: Queste tue ultime osservazioni mi spingono a porre una questione
tecnica: come viene gestita la privacy dei colloqui?
F: Bisogna chiarire: il filosofo consulente riconosciuto da una Associazione professionale si impegna a rispettare un codice deontologico che deve
essere pubblico e leggibile sul sito dell’Associazione stessa. Il codice deontologico, tra le altre cose, impegna il filosofo al rispetto della privacy; egli
dunque è legato al vincolo del segreto professionale, oltre che più in generale al rispetto dell’altro, della sua integrità, dei suoi diritti. Te ne lascerò
una copia, così lo potrai leggere con calma.
O: Grazie. Mi sembra importante che il consulente filosofico risponda
ad alcune regole di privatezza e di rispetto. Ma di fatto, poi, chi valuta
eventuali abusi?
F: È la stessa associazione di appartenenza del filosofo consulente che si
preoccupa di intervenire in caso di violazione del codice deontologico. Per
questo, ripeto, è importante che il consultante si accerti che il suo consulente
appartenga a una associazione nota e riconosciuta pubblicamente.
O: Torniamo un momento sul pubblico della consulenza, perché tu dici
che chiunque se ne può servire, però è anche vero che se discuto con una
persona di cultura molto bassa potrei dover semplificare il mio discorso
fino a banalizzarlo. Non c’è dunque il rischio di finire in chiacchiera?
F: È un rischio che va accuratamente evitato: sarà cura del filosofo condurre un dialogo comprensibile, con un linguaggio il più possibile vicino a
quello del suo interlocutore, senza per questo scadere nella banalizzazione e
nella superficialità. La consulenza filosofica non è una chiacchiera da bar.
È qualcosa di molto più serio anche se si realizza con un linguaggio semplice.
O: Allora è un discorso che ha delle particolarità, che si distingue
comunque dal discorso comune.
F: Certo, si distingue dal discorso comune perché è un discorso che
resta in ogni caso costruito su basi razionali e logicamente corrette, anche
se, come vedremo dopo, non è soltanto questo.
O: Bene, e tutti sono in grado di realizzare un linguaggio razionale e
logicamente corretto? Io non ne sono convinto.
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La consulenza filosofica spiegata a tutti
F: Io sono più possibilista. La mia esperienza personale fino a oggi è
stata proprio questa, perché la cura della correttezza logica del colloquio è
ovviamente pertinenza del filosofo, è lui che deve intervenire quando
sembra che il discorso scivoli in modo incongruo. Mentre in generale sulla
razionalità del discorso va chiarito che essa si realizza insieme, è frutto di
un lavoro comune. Non escludo che ci siano situazioni in cui sia particolarmente difficile. Ma credo che anche quelle situazioni possano essere
comunque affrontate se l’approccio del filosofo consulente è autenticamente partecipativo. Ripeto, la mia esperienza personale è stata questa:
ho incontrato anche persone di livello culturale modesto ma ciò non ha mai
reso difficile il colloquio. Ciò che piuttosto lo ha reso difficile, talvolta, è
stata la scarsa disponibilità individuale al confronto, al mettersi autenticamente in gioco, ma questo non ha nulla a che fare con il livello culturale.
Anzi spesso persone di livello culturale più basso hanno portato nel colloquio
un bagaglio di esperienze di vita molto più ricco e interessante.
O: A questo punto però, mi pare che stiamo già cominciando a
descrivere lo sviluppo della consulenza filosofica, mentre a mio avviso, vi
sono ancora delle questioni preliminari che vorrei chiarire. In particolare
vorrei che mi spiegassi meglio, con degli esempi, quando ci si dovrebbe
rivolgere a un filosofo consulente, a seguito di quali eventi o difficoltà.
F: D’accordo.
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