Economic Outlook Annuale
Il 2017 secondo John Greenwood
Documento riservato ai Clienti Professionali/Investitori Qualificati e/o ai Soggetti Collocatori
in Italia. È vietata la distribuzione.
Stati Uniti d’America
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John Greenwood
Capo Economista, Invesco
Ltd.
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Sotto la presidenza di Donald Trump ci attendiamo un’importante accelerazione del PIL, ma a mio avviso
possiamo aspettarci un rialzo intorno al solo 2,4 % nel 2017 e al 2,6 % nel 2018, non al 3,5-4,0 %
promesso da Trump.
Gran parte della crescita del 2017 non deriverà da stimoli fiscali, tagli degli imposte o spese in
infrastrutture, ma dal rafforzamento della ripresa del ciclo economico che il Presidente Trump ha
ereditato.
L'inflazione dell'indice dei prezzi al consumo (CPI) statunitense potrebbe registrare un leggero
incremento, ma non risentirà in misura significativa del deficit fiscale. Salvo in caso di accelerazione
della crescita degli investimenti e del credito, l'inflazione rimarrà sostanzialmente invariata intorno al
2 %. A ottobre, la spesa per consumi personali (PCE) di prima necessità è stata dell'1,7 %, con un indice
dei prezzi al consumo del 2,2 % su base annua.
Dopo il rialzo dello 0,25 % del tasso dei Fondi statuitensi emessi dalla Federal Reserve a dicembre,
prevediamo ulteriori aumenti, che porteranno l'obiettivo del tasso all'1,00 - 1,25 % entro la fine del 2017.
Eurozona
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Nell'area euro, le prospettive rimangono deboli per il medio termine e ben lungi dal diventare robuste nel
lungo termine. La manchevole strategia di quantitative easing (QE) della Banca Centrale Europea a
sostegno dell’economia, di recente estesa a dicembre 2017, a un ritmo ridotto di 60 miliardi di euro a
partire da aprile 2017, continua a non sembrare efficace.
Le tesi a favore di un allentamento fiscale in Europa stanno diventando consuetudine, ma le norme della
Commissione Europea (CE) non lasciano molti spazi a un cambiamento, ancor meno a un'espansione
fiscale sostenuta da un'accelerazione monetaria.
Il risultato del referendum italiano dimostra che le pressioni politiche per apportare modifiche
fondamentali all'Unione Europea (UE) stanno guadagnando terreno.
Il PIL reale della zona euro scenderà intorno all'1,2 % nel 2017, mentre l'inflazione continuerà a restare
ampiamente al di sotto dell'obiettivo di “livelli inferiori ma prossimi al 2 %”.
Giappone
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Il programma a triplice obiettivo del Primo Ministro Abe non è riuscito a rinvigorire la crescita, mentre il
programma di quantitative e qualitative easing (QQE) della Bank of Japan a sostegno dell’economia, non
ha fatto aumentare il sottostante tasso di crescita della massa monetaria (M2).
Prevediamo che il tasso di crescita economica giapponese rimarrà intorno all'1 % e che l'economia
continuerà a muoversi sull'orlo della deflazione.
Cina e Mercati Emergenti
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Le economie emergenti evidenziano a loro volta una divergenza tra quelle produttrici di materie prime e
le manifatturiere: le prime soffrono a causa delle deboli ragioni di scambio, mentre le seconde sono
ancora in attesa di una ripresa a tutti gli effetti nelle economie sviluppate, che rappresentano i principali
acquirenti dei loro prodotti.
Negli ultimi otto anni, varie economie dei mercati emergenti hanno aumentato in misura significativa i
loro livelli di debito, determinando la necessità di risanamento del debito interno o estero, con un
rallentamento del processo di ripresa.
La situazione cinese è particolarmente enigmatica. Da una parte, le autorità hanno consentito una
crescita molto rapida del credito destinato ai settori governativo e finanziario, ma dall'altra l'eccesso di
capacità in industrie di base come la siderurgia e il carbone e l'incremento dei crediti deteriorati nei
settori statali stanno limitando la crescita di nuovi investimenti.
In Cina si è creata una serie di mini-bolle sul fronte delle azioni (nel 2014 -15), nel mercato
obbligazionario, in alcune parti del mercato immobiliare e, più di recente, in vari mercati delle materie
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prime (p.es. farina di soia, carbon coke, ottenuto dalla raffinazione di petrolio e litantrace, minerale di
ferro e acciaio).
Sul fronte esterno, la Cina è alle prese con i deflussi di capitali che ora superano il surplus delle partite
correnti. Il deficit complessivo della bilancia dei pagamenti ha costretto le autorità cinesi a consentire un
certo grado di deprezzamento dello yuan, in combinazione con l'intervento sul mercato dei cambi (con
un conseguente calo delle riserve valutarie) e l'applicazione di controlli più rigorosi sui deflussi di
capitali.
Grafico 1: Dollaro statunitense destinato ad apprezzarsi ulteriormente
Valore del dollaro US (Marzo 1973 = 100)
Fonte: Macrobond, dati al 13 dicembre 2016
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Nonostante queste battute d'arresto a breve - medio termine del processo di ripresa, siamo da tempo
convinti che l'attuale espansione del ciclo economico globale sia duratura. La ragione principale è che la
crescita inferiore alla media e la bassa inflazione annullano l'esigenza di attuare il genere di politiche
restrittive destinate a porre anticipatamente fine alla fase espansiva.
È improbabile che le recessioni o la debole crescita nelle economie dei ME possa fare deragliare la
modesta ripresa delle economie sviluppate. Sebbene alcune società o settori non possano sfuggire ai
problemi dei ME, le forze fondamentali chiave – come la politica monetaria e il risanamento dei bilanci –
continuano a essere trasmesse principalmente dai mercati sviluppati aglie emergenti, non viceversa.
Inoltre, la ripresa negli Stati Uniti, seppure in atto già da sette anni e mezzo, comincia soltanto ora ad
acquisire le caratteristiche tipiche di una normale ripresa: le banche - e non la Fed - concedono
finanziamenti, imprese e famiglie sono in una buona situazione finanziaria e possono riprendere la
normale dinamica di spesa.
Consensus
Economics
US
Eurozona
Regno Unito
Giappone
Australia
Canada
Cina
India
Stime 2016
PIL Reale
1,6 %
1,6 %
2,0 %
0,7 %
2,9 %
1,3 %
6,7 %
7,0 %
CPI Inflation
1,3 %
0,2 %
0,7 %
- 0,2 %
1,3 %
1,5 %
2,0 %
4,9 %
Fonte: Consensus Economics, Dati al 5 Dicembre 2016.
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Previsioni 2017 basate sul
consensus
Previsioni Invesco
PIL Reale
Inflazione CPI
2,3 % (2,4 %)
2,4% (1,6 %)
1,4 % (1,2 %)
1,3% (1,1 %)
1,3 % (1,5 %)
2,5% (2,7 %)
1,0 % (1,0 %)
0,5% (0,5 %)
2,7 % (3,0 %)
2,1% (1,8 %)
1,9 % (1,9 %)
2,0% (2,0 %)
6,4 % (6,4 %)
2,1% (2,3 %)
7,5 % (7,1 %)
5,0% (4,8 %)
Introduzione
Negli ultimi anni, i paesi sviluppati ed emergenti hanno reagito all'onda lunga della grande recessione
del 2008 e 2009, ma sono emerse divergenze nei cicli in ogni area.
La ripresa delle economie sviluppate è stata ostacolata da due fattori: il lento processo del
risanamento dei bilanci, soprattutto tra le banche e le diverse conseguenze derivanti
dall'implementazione di due differenti generi di quantitative easing. Questi fattori hanno contribuito a
creare una crescita inferiore alla media, un ritorno terribilmente lento alla piena occupazione, una
bassa crescita dei salari e un elettorato insofferente.
Per contro, tra il 2008 e il 2010 le economie emergenti hanno attuato robusti programmi di stimolo,
che hanno dato successi tali che alcuni paesi, tra cui Cina, Brasile e Russia, hanno dovuto invertire la
rotta e frenare bruscamente tra il 2011 e 2013. Nel periodo tra il 2014 e il 2016, hanno così registrato
anch'essi rallentamenti congiunturali, recessioni, debolezza valutaria e dolorose misure di
risanamento del debito.
Per le economie sviluppate ed emergenti, le prospettive per il 2017 saranno strettamente correlate al
modo in cui saranno affrontati questi diversi problemi.
Stati Uniti d’America
Negli Stati Uniti, Donald Trump è diventato ufficialmente presidente il 20 gennaio 2017 e i
Repubblicani da qualche giorno controllano entrambi i rami del Congresso. Trump ha proposto
diverse misure di stimolo fiscale, tra cui tagli alle imposte sulle persone fisiche e giuridiche e una
nuova forma di spese in infrastrutture che si basa essenzialmente su finanziamenti del settore privato
con ricorso al debito.
La nuova amministrazione, in collaborazione con il Presidente della Camera dei Rappresentanti, Paul
Ryan, e il Presidente del Ways and Means Committee Kevin Brady, sembra inoltre valutare il
passaggio a un sistema fiscale sul paese di destinazione in cui la giurisdizione fiscale si basa sul luogo
di vendita dei beni o prestazione dei servizi, non sul luogo di produzione. Ciò potrebbe incentivare un
notevole spostamento della produzione verso il territorio nazionale statunitense rispetto all'attuale
regime fiscale che ha consentito - secondo alcuni incoraggiato - la delocalizzazione di posti di lavoro e
produzione.
Questi piani hanno lo scopo di rafforzare la crescita e incoraggiare il rimpatrio di capitali detenuti
all'estero.
Trump intende inoltre riformare l'Affordable Care Act (ponendo fine agli incentivi all'assunzione di
lavoratori per sole 29 ore settimanali), abolire le restrizioni alla produzione di energia (liberalizzando
scisti, petrolio, gas naturale e carbone pulito), consentire la costruzione di un maggior numero di
gasdotti e oleodotti e rivedere il Dodd Frank Act sulla regolamentazione bancaria.
Sorprendentemente, Trump mira a conseguire un tasso di crescita pari ad “almeno il 3,5 % o
addirittura il 4 %”.
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Grafico 2: Le azioni crescono, ma le obbligazioni scendono
Obbligazioni decennali US & Indice S&P
Fonte: Macrobond, dati al 13 dicembre 2016
Malgrado alcuni potenziali risparmi derivanti da una riduzione degli oneri normativi e dall'abolizione
dei contributi statunitensi ai programmi ONU per il cambiamento climatico, il deficit fiscale federale
USA sembra destinato a salire, come all'epoca del Presidente Ronald Reagan.
I deficit fiscali, oltre a beneficiare dei risparmi di costi diretti, possono essere finanziati unicamente
mediante tre fonti: tassazione, indebitamento o creazione di nuova moneta e credito (come nel caso
degli stimoli fiscali in Cina nel periodo 2008-2010). Poiché la tassazione è esclusa per definizione e la
Fed non collaborerà sicuramente a un'arbitraria stampa di moneta (in considerazione dell'aumento
dei tassi a dicembre 2016 e dei probabili altri due o tre aumenti nel 2017), l'indebitamento diventa
l'unica soluzione per finanziare questi deficit. Non sorprende che dopo le elezioni presidenziali dell'8
novembre, i rendimenti obbligazionari siano saliti, le previsioni d'inflazione si stiano rafforzando e il
dollaro abbia registrato un apprezzamento.
Trump e la politica estera
Per quanto riguarda la politica estera, Trump ha dichiarato l'intenzione di rinegoziare il North
American Free Trade Agreement (NAFTA) per il libero scambio, ritirare gli Stati Uniti dal Trans-Pacific
Partnership (TPP) e imporre dazi consistenti sui “manipolatori valutari” al fine di arrestare l'afflusso
di acciaio prodotto con sussidi illegali e altri materiali industriali chiave a prezzi inferiori a quelli di
mercato.
Se l'amministrazione Trump pianificasse l'adozione di scambi commerciali veramente liberi rispetto a
questi ampi accordi di managed trade, ossia di scambi regolati, si avrebbero chiari benefici, ma
sembra invece intenzionata ad adottare un modello di managed trade ancora più ampio. Trump ha
intenzione di scoraggiare la delocalizzazione di posti di lavoro da parte di specifiche società
statunitensi, una politica di cui ha dato dimostrazione il 1° dicembre 2016 recandosi alla divisione di
produzione di condizionatori Carrier della United Technologies in Indiana. In linea di massima, mira a
ripristinare l'occupazione nei settori manifatturiero, minerario, forestale, siderurgico, dell'alluminio e
altre industrie pesanti. Oltre ad andare contro i principi fondamentali del vantaggio comparato, un
problema di questa strategia è che non tiene conto, per usare il titolo di un saggio dell'economista
francese Frederic Bastiat, vissuto nel XIX secolo, di “ciò che si vede e ciò che non si vede”, ossia i
guadagni in termini dei pochi posti di lavoro visibili presumibilmente salvati rispetto alle perdite,
piccole ma diffuse e invisibili, subite da consumatori o imprese che non beneficiano più di
importazioni meno costose. Se questo genere di managed trade orientato ai posti di lavoro viene
applicato su ampia scala, senza le suddette modifiche fiscali, l'amministrazione è destinata a finire
rapidamente coinvolta in una pletora di operazioni specifiche per singole società, con benefici
economici complessivi estremamente dubbi.
Il programma di Trump punta a ricostruire i punti di forza fondamentali dell'economia americana
conferendo un forte slancio a famiglie e imprese statunitensi. Tuttavia, esiste anche il rischio che il
suo genere di micro-gestione “caudillo capitalista” o intervento nelle decisioni di singole società possa
controbilanciare i potenziali guadagni macroeconomici, quali minori imposte, spese in infrastrutture,
minore regolamentazione e crescita più elevata. Alla luce dell'eredità economica straordinariamente
favorevole di Trump, banche e famiglie con bilanci sostanzialmente risanati, bassa inflazione e
rafforzamento dell'espansione economica, sarebbe un peccato se i fattori micro avessero il
sopravvento sui macro.
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Ci attendiamo un miglioramento della crescita del PIL reale al 2,4 % nel 2017 e al 2,6 % nel 2018, con
un aumento dell'inflazione dei prezzi al consumo (CPI) al 1,6 % nel 2017.
Europa
In Europa le prospettive sono molto meno favorevoli. I lenti progressi della risoluzione bancaria, la
debolezza del programma di Quantitative Easing della Banca Centrale Europea e la conseguente
discesa dei tassi in territorio negativo sono alcuni dei fattori sfavorevoli che ostacolano la ripresa
economica. La disoccupazione nel continente è scesa soltanto di recente al di sotto di livelli a due
cifre (da settembre) e la crescita dei redditi è anemica.
Di conseguenza, a sinistra e a destra sono sorti vari movimenti politici xenofobi e populisti
perturbatori, che rifiutano l'austerità ed esigono maggiori risposte a livello locale. Ma in un contesto
in cui la politica monetaria è controllata dalla BCE a Francoforte, non sussiste un'opzione di
svalutazione e le norme fiscali sono stabilite dalla CE a Bruxelles, vi sono pochissimi margini di azione
per i governi nazionali.
Nel referendum del 4 dicembre, gli elettori italiani hanno nettamente respinto le proposte di riforma
costituzionale del Primo Ministro Renzi, creando un vuoto politico colmato ancora una volta da
un'altra amministrazione non scaturita da elezioni. Alla luce delle elezioni cui i tradizionali governi di
centro-destra o centro-sinistra in Olanda, Francia e Germania dovranno far fronte il prossimo anno,
esiste un rischio significativo di ulteriori dirompenti difficoltà politiche. A un certo punto, uno o più di
questi elettorati insoddisfatti potrebbe travolgere le élite di governo, creando una minaccia
esistenziale per l'ordine prestabilito, a livello nazionale, europeo, per l'UE o addirittura la zona euro.
Se si valuta l'attuale situazione dell'Europa in un'ottica di più lungo periodo, si deve riconoscere che
dopo la crisi del 2008-2009 è stato fatto troppo poco per risolvere i problemi fondamentali. Dopo una
crisi del genere, esistono due serie di politiche che le autorità devono attuare: risanamento dei bilanci
nei settori chiave e iniezione di liquidità nel sistema finanziario. In Europa, queste soluzioni ortodosse
sono state generalmente ignorate, mentre i burocratici di Bruxelles hanno concepito piani
semplicistici e mal indirizzati, quali sanzioni per le società di private equity, restrizioni ai bonus dei
banchieri e imposizione di un'imposta sulle operazioni finanziarie. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno
per esempio affrontato i problemi fondamentali, ricapitalizzando le 200 banche maggiori e lanciando
un programma di Quantitative Easing (QE) su ampia scala per iniettare liquidità nell'economia. Il
risultato è che anche oggi le maggiori banche tedesche e italiane lottano per rispettare i coefficienti
minimi di adeguatezza patrimoniale, mentre la mancata iniezione di liquidità adeguata (tramite le
operazioni di rifinanziamento a lungo termine della Banca Centrale Europea o il piano di QE lanciato a
marzo 2015) ha fatto sì che la spesa nominale nella zona euro sia troppo bassa per consentire alle
banche di risanare i bilanci mediante la crescita organica e troppo debole per permettere un aumento
degli introiti statali sufficiente a colmare i persistenti deficit fiscali.
Grafico 3. Il PIL reale della zona euro è in ritardo rispetto a USA e Regno Unito
PIL reale Eurozona, Regno Unito, USA dal 2008 (Q1 2008 = 100)
Fonte: Macrobond, dati al 13 dicembre 2016
Da un'analisi del quadro economico più recente della zona euro, emerge che nel 3° trimestre del 2016
il PIL reale per l'area della moneta unica nel suo complesso ha registrato un incremento dello 0,3 %
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su base trimestrale (1,7 % su base annua); in Germania e Francia, la crescita su base trimestrale è
stata però soltanto dello 0,2 %, mentre in Italia ha evidenziato un miglioramento salendo allo 0,3 %.
Nonostante i dati relativi alla crescita per il terzo trimestre in Spagna (3,2 % su base annua) e Irlanda
(6,9 % su base annua) siano stati decisamente migliori, queste economie non sono abbastanza forti
da spingere al rialzo la crescita complessiva dell'area euro. Nell'intento di rafforzare la crescita e
innalzare il tasso d'inflazione dei prezzi al consumo dalla crescita dello 0,5 % su base annua
registrata a novembre verso l'obiettivo di poco inferiore al 2 %, la BCE ha pertanto deciso di
prolungare da aprile almeno fino a dicembre 2017 il suo Piano di acquisto di attività (PAA) o QE,
riducendolo a 60 miliardi di euro mensili (rispetto a 80 miliardi di euro). A ottobre, la crescita del M3,
che include i liquidi, è tuttavia scesa al 4,4%, evidenziando ancora una volta le manchevolezze
strutturali del PAA della BCE.
Secondo le stime di consenso, la crescita del PIL reale nella zona euro nel 2017 sarà dell'1,4 %, mentre
le nostre previsioni indicano una crescita di appena l'1,2 % in considerazione di tutti gli ostacoli politici
prospettati. Sul fronte dell'inflazione, ci attendiamo una perdurante crescita inadeguata del M3, con
un'inflazione compressa all'1,1% (sostanzialmente a causa del deprezzamento dell'euro), ma
ampiamente al di sotto dell'obiettivo della BCE di “livelli inferiori ma prossimi al 2 %”.
Giappone
In Giappone il risanamento dei bilanci bancari e le riforme strutturali sono rimasti indietro, mentre il
Quantitative e Qualitative Easing (QQE) attuato dalla Bank ofJapan (BoJ) ha avuto un impatto
decisamente minore del previsto. A fine settembre, la BoJ ha annunciato l'imposizione di un tetto
dello 0% ai rendimenti dei titoli di stato giapponesi (JGB) decennali, pur ribadendo la volontà di
continuare ad acquistare JGB allo stesso ritmo di 80 bilioni di yen l'anno e il cosiddetto inflation
overshooting committment, ossia l’impegno a mantenere una politica monetaria accomodante fino a
quando l’inflazione non avrà superato stabilmente l'obiettivo prefissato. Un cambiamento delle sole
previsioni d'inflazione non è tuttavia sufficiente.
Il problema è che la BoJ, così come la BCE, acquista la maggior parte dei titoli dalle banche (anziché
da organismi non bancari); il risultato è che, sebbene la base monetaria sia quasi triplicata rispetto a
marzo 2013, ossia l'inizio del Quantitative - Qualitative Easing, il tasso di crescita della massa
monetaria in senso ampio (M2) non è quasi cambiato. Poiché la spesa totale è correlata alla quantità
di moneta detenuta da imprese e famiglie (M2) e non alla base monetaria, non sorprende che la
crescita sia stata debole e la deflazione rappresenti un problema persistente.
Grafico 4: La BoJ ha aumentato la base monetaria, ma non l’M2
Giappone: Base Monetaria, M2 e Prestiti (Marzo 2013 = 100)
Fonte: Macrobond, dati al 13 dicembre 2016
In generale, le politiche economiche del Primo Ministro Shinzo Abe, conosciute come “Abenomics”,
comprendenti riforme strutturali ed espansione fiscale oltre all'allentamento monetario, non sono state
all'altezza delle promesse e le prospettive per il 2017 sono di poco migliori rispetto a quelle per il 2016.
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Nel terzo trimestre, la crescita del PIL reale ha registrato un rialzo dello 0,3%, portando il tasso di crescita
su base annua all'1,0%, che è essenzialmente imputabile alla domanda esterna, mentre i consumi privati
sono saliti soltanto dello 0,2% e gli investimenti delle imprese sono diminuiti.
Malgrado il bassissimo tasso di disoccupazione, pari al 3,0% e la tensione dei mercati del lavoro,
rispecchiata nel rapporto dell'1,40 tra posti di lavoro e candidati, la crescita dei salari rimane stagnante;
alla luce di ciò, il Primo Ministro ha invitato la società ad aumentare il prossimo anno i salari in misura
almeno uguale al 2016. Nonostante l'intervento del Primo Ministro, le stime di consenso per la crescita
delle retribuzioni cash totale nel 2016 sono appena dello 0,6% a fronte di uno 0,7% nel 2017.
Sul fronte dell'inflazione, a ottobre l’inflazione è finalmente passata in territorio positivo, raggiungendo lo
0,1% su base annua, dopo essere diminuito per sei mesi consecutivi. Il cosiddetto indice “PCI core-core”,
che esclude generi alimentari ed energia, è costantemente rallentato nel corso dell'anno, scendendo dallo
0,6% a gennaio allo 0,3% a ottobre. Per il 2017, ci attendiamo una crescita del PIL reale dell'1,0% e
un'inflazione dei prezzi al consumo dello 0,5%.
Cina e Mercati Emergenti
Nei Mercati Emergenti, l'eccessiva creazione di credito e l'esagerato ricorso all'indebitamento tra il
2008 e il 2010 hanno richiesto un processo correttivo tra il 2013 e il 2015, soprattutto in Brasile,
Russia, India e Cina. Nel 2016, questa fase sembra essersi conclusa, come dimostrato dal superamento
del minimo ciclico e dall'inizio di un modesto rialzo delle materie prime nel primo semestre dell'anno,
in combinazione con nuovi afflussi di capitali nelle economie dei Mercati Emergenti. La Cina
rappresenta un'eccezione, poiché ha intrapreso un'altra fase di espansione del credito a partire
dall'inizio del 2014.
Per quanto riguarda il mercato immobiliare, come altri mercati, le autorità cinesi hanno cercato di
raffreddare eventuali surriscaldamenti con controlli “prudenziali”, quali incrementi degli importi
minimi degli acconti, un rallentamento del rilascio di concessioni edilizie per progetti immobiliari e una
decisa riduzione delle quote di emissione di obbligazioni societarie nazionali da parte di sviluppatori
immobiliari, anziché una limitazione della crescita del credito in sé. Poiché la Cina è di gran lunga il
Mercato Emergente maggiore e il più grosso acquirente di materie prime sui mercati mondiali, la
ripresa della crescita del credito potrebbe causare un nuovo episodio d'inflazione nel paese, nonché
incidere sui prezzi delle materie a livello globale. Oltre a compromettere l'adeguamento della Cina a
un modello di crescita maggiormente orientato ai consumi, ciò potrebbe comportare gravi
ripercussioni per altri Mercati Emergenti, in particolare produttori di materie prime e vicine economie
dell'Asia orientale.
Grafico 5: La Cina e la nuova espansione del credito
Cina, una nuova iniezione di credito
Fonte: Macrobond, dati al 13 Dicembre 2016
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L'eccessiva crescita del credito in Cina sembra essersi finora sostanzialmente limitata ai settori
finanziario e statale, ma emergono preoccupanti segnali indicanti che l'esplosione del credito
comincia a diffondersi nell'economia su più ampia scala. In primo luogo, si è riscontrata una serie di
mini-bolle sui mercati azionari (2014 e 2015), immobiliari e delle materie prime (p.es. futures su farina
di soia, PVC, minerale di ferro, carbon coke, ottenuto dalla raffinazione di petrolio e litantrace e
acciaio.) In secondo luogo, le grandi imprese industriali statali hanno registrato una notevole ripresa
della crescita e degli utili. I prezzi alla produzione, in calo da quattro anni consecutivi, hanno infine
ricominciato a salire a ottobre.
Tanto prima le autorità cinesi affronteranno questi problemi, quanto minori saranno i danni per
l'economia e per l'occupazione, fermo restando che ulteriori ritardi inaspriranno l'adeguamento,
quando finalmente avverrà. Una delle grandi incognite del 2017 è in che modo le autorità cinesi
affronteranno questo problema (limitando il credito e aumentando i tassi d'interessi, così da
trasmettere gli adeguamenti necessari, oppure tramite repressione e controlli diretti).
Materie prime
Negli ultimi tre anni, le nostre prospettive per i prezzi delle materie prime sono state ribassiste, ma la
ripresa dei prezzi di petrolio e metalli nel primo semestre del 2016 ha cominciato a suggerire la
possibilità di un'imminente fine della fase ribassista. I fattori sul fronte dell'offerta possono talvolta
influenzare singoli mercati, ma raramente incidono sui prezzi delle materie prime su ampia scala. Il
propulsore decisamente più importante delle prospettive per le materie prime è il comportamento
della domanda aggregata, o globale. A nostro giudizio, la spesa totale delle economie sviluppate
rimarrà prevalentemente contenuta, sebbene i piani di spese in infrastrutture di Trump abbiano
recentemente conferito un modesto slancio al sentiment. La domanda dei ME rimane tuttavia critica e
in questo segmento di mercato la Cina continua a rappresentare il maggiore singolo fattore di
influenza.
Le misure cinesi volte a preservare la crescita dell'economia hanno determinato un'altra
accelerazione dell'iniezione di credito dall'inizio del 2014. Il conseguente incremento della domanda si
è tradotto in un maggiore ottimismo circa le sorti del settore delle materie prime, attestato da una
serie continua di mini-bolle in parecchi mercati di materie prime. Secondo le autorità cinesi, all'origine
di questi aumenti dei prezzi vi sono speculazioni. Per esempio, in Cina i prezzi del carbone cinese sono
più che raddoppiati da agosto. Dopo i massimi toccati dai prezzi nel 2011, i produttori di carbon coke
hanno costantemente ridotto la capacità; quest'anno, la produzione siderurgica cinese - di cui il
carbon coke costituisce un fattore produttivo chiave - è stata più elevata del previsto e le autorità
cinesi hanno a loro volta imposto restrizioni al numero di giorni in cui è consentito produrre carbone
cinese.
Sul versante dei metalli, il rame è rimasto arretrato fino a settembre, senza rimbalzare in linea con gli
altri metalli. Tuttavia, a partire da ottobre il prezzo del rame è salito del 24 %. Le principali
spiegazioni di questo rialzo del prezzo del rame sono tre: l'aumento della domanda cinese,
l'incremento della produzione di vetture elettriche (che richiedono il quadruplo dei cablaggi in rame
rispetto ai veicoli tradizionali) e la previsione di maggiori spese in infrastrutture negli Stati Uniti.
Alcuni analisti prevedono che il deficit possa raggiungere 400.000 tonnellate nel 2017, se la domanda
cinese terrà e le autorità di Pechino continueranno a iniettare credito nell'economia in attesa del 19°
Congresso Nazionale del Partito Comunista previsto per il prossimo autunno.
La crescita del credito cinese alimenta il rialzo dei prezzi del carbone e dell'acciaio
Per contrastare la crescente febbre speculativa, le autorità normative cinesi hanno attuato una serie
di misure, riguardanti il carbone, il minerale di ferro e l'acciaio scambiati su borse, volte a dissuadere
gli speculatori. Tra tali misure figurano l'aumento dei margini di negoziazione, il rialzo delle
commissioni sulle operazioni e l'imposizione di limiti alla negoziazione. A novembre, la Dalian
Commodity Exchang, la borsa merci cinese, ha così aumentato il margine di negoziazione per i
contratti su carbon coke e carbone tre volte nell'arco di una settimana. Il problema di fondo in Cina è
che la domanda interna è incrementata in una fase di eccesso di capacità delle industrie di base. Non
passerà molto tempo prima che le autorità siano costrette a scegliere tra un'inflazione generalizzata
e il fallimento di alcune società.
L’OPEC taglia la produzione di petrolio
Per quanto riguarda il mercato petrolifero, il 30 novembre l'OPEC, Organizzazione dei Paesi
Esportatori di Petrolio, ha concordato un taglio della produzione per la prima volta da 15 anni. Alla
luce della precedente politica saudita mirante a fare uscire l'industria statunitense degli scisti dal
mercato mantenendo bassi prezzi, tale taglio potrebbe essere interpretato come un'ammissione di
sconfitta. L'accordo stabilisce un limite di produzione di 32,5 milioni di barili al giorno per un periodo
iniziale di sei mesi, una riduzione di 1,2 milioni di barili rispetto al livello di produzione di ottobre. Vi
sono tuttavia buone ragioni di dubitare del successo finale di quest'accordo.
In primo luogo, sebbene il 10 dicembre undici paesi non OPEC abbiano concordato di ridurre la
produzione di 580.000 barili al giorno, questi paesi hanno una lunga storia di mancata aderenza agli
obiettivi OPEC.
In secondo luogo, Nigeria e Libia sono esenti dal taglio della produzione perché in entrambi i paesi
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sono in corso conflitti armati. In terzo luogo, l'OPEC ha consentito all'Iran di adottare un diverso
periodo di riferimento per i suoi tagli di produzione nell'ottica di compensare l'impatto subito negli
ultimi anni dal paese a causa delle sanzioni occidentali.
Tuttavia, anche in caso di tenuta di questo accordo di compromesso sui tagli alla produzione, la
struttura del mercato petrolifero è stata essenzialmente modificata dalla comparsa del petrolio da
scisti e di altre fonti alternative. Alcuni produttori di petrolio da scisti ora sostengono di raggiungere
la redditività a 40 dollari al barile. Il numero di pozzi negli Stati Uniti ha ricominciato a salire,
mettendo fine al calo iniziato nel 2014. Nel 2016, il numero di pozzi è salito a 588, con un aumento del
37%. La produzione petrolifera statunitense ha anch'essa invertito la recente tendenza al calo
mettendo a segno una ripresa. Tutto questo dimostra che sul mercato esiste almeno un grande
protagonista che non giocherà secondo le regole dell'OPEC.
La realtà è che l'OPEC sta registrando il problema fondamentale cui tutti i cartelli devono far fronte:
come sostenere artificialmente prezzi elevati? Il mantenimento di prezzi eccessivamente alti attira
sempre nuovi concorrenti sul mercato, incoraggia lo sviluppo di nuove tecnologie di estrazione delle
risorse, oppure determina lo sviluppo di sostituti meno costosi. In ultima analisi, incrementa l'offerta e
riduce il prezzo, sconfiggendo così il cartello: e questo è esattamente ciò che è accaduto sul mercato
del petrolio.
Conclusioni
Nei mercati finanziari ci sono dubbi in merito al concetto di politica monetaria. La maggior parte degli
economisti e degli analisti tende a giudicare la politica monetaria in base al livello o alla direzione dei
tassi d'interesse. In realtà, i tassi d'interesse non costituiscono una misura affidabile
dell'orientamento della politica monetaria. Se la politica monetaria, ossia la crescita monetaria, viene
allentata, i tassi d'interesse inizialmente scendono, ma poi salgono una volta che l'economia si
riprende e l'inflazione comincia a salire. L'effetto più importante e a più lungo termine (“effetto
Fisher”, che stima la relazione tra tasso di inflazione atteso, tasso d'interesse nominale e tasso
d'interesse reale del denaro) è rappresentato da tassi d'interesse più alti, non più bassi.
Per contro, in caso di stretta della politica monetaria, i tassi d'interesse inizialmente salgono, ma poi
scendono una volta che l'economia rallenta e l'inflazione scende. Di conseguenza, l'effetto più
importante e a più lungo termine di una stretta della politica monetaria è rappresentato da tassi
d'interesse più bassi, non più alti. Ecco perché i tassi d'interesse sono oggi più elevati in paesi come
Egitto e Venezuela e più bassi in nazioni come il Giappone e nella zona euro.
Ne consegue che per evitare una deflazione è necessaria una crescita più rapida della quantità di
moneta. Non basta portare semplicemente i tassi d'interesse a zero o in territorio negativo come
hanno fatto la BCE e la BoJ. La ragione è che, limitandosi ad agire sul fronte della riduzione dei tassi
di mercato, le banche centrali rimangono essenzialmente passive, senza creare l'espansione
monetaria di cui un'economia ha bisogno per crescere. I bassi tassi d'interesse nella zona euro e in
Giappone sono il risultato della seconda fase di un periodo prolungato di politica monetaria restrittiva
(ossia lenta crescita dell'offerta di moneta), non i primi segnali di una politica più accomodante (cioè
crescita più rapida dell'offerta di moneta).
Non sorprende certo che in queste circostanze il Giappone e l'area euro si siano trovati in uno
scenario di deflazione e rendimenti obbligazionari negativi.
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Grafico 6: La crescita del credito cinese ha alimentato il rialzo dei prezzi del carbone e dell'acciaio
La crescita del credito cinese ha portato al rialzo dei prezzi di carbone e acciaio
Fonte: Macrobond, dati al 13 Dicembre 2016
Dopo che a dicembre 2015 e a dicembre 2016 la Fed ha aumentato i tassi d'interesse (per
normalizzare la politica monetaria, senza però renderla restrittiva), il fattore critico sarà la capacità di
mantenere una crescita degli investimenti e del credito sostenuta al 6 – 8 % annuo (come avvenuto
nel 2016).
Se le banche commerciali riusciranno a mantenere questi tassi di crescita degli investimenti e del
credito, anche qualora ulteriori aumenti dei tassi facciano temporaneamente sussultare i mercati
obbligazionari e azionari, a nostro giudizio l'economia riuscirà a superare indenne la normalizzazione
dei tassi d'interesse, crescendo ancora per parecchi anni, prima che il ciclo economico raggiunga i
massimi.
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