Casi giurisprudenziali in tema di procedure concorsuali

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE
Facoltà di Economia
DIRITTO FALLIMENTARE
CASI GIURISPRUDENZIALI
IN TEMA DI
PROCEDURE CONCORSUALI
Roma - aprile 2009
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI ROMA TRE
FACOLTÀ DI ECONOMIA
CATTEDRA DI DIRITTO FALLIMENTARE
Avvertenza
Questa raccolta di giurisprudenza, in tema di procedure concorsuali, è destinata agli studenti
del Corso di diritto fallimentare della Facoltà di Economia. Essa comprende talune sentenze
su questioni relative a profili essenzialmente di diritto sostanziale delle procedure concorsuali
giudiziarie e tiene conto delle più recenti pronunce relativamente ai profili di novità
introdotte nella disciplina dalla recente riforma della legge fallimentare (d.lgs. 9 gennaio 2006
n. 5, preceduta dal d.l. 14 marzo 2005 n. 35 conv. in l. 14 maggio 2005 n. 80 per quanto
riguarda la revocatoria fallimentare, il concordato preventivo e gli accordi di ristrutturazione),
pur riproducendo alcune decisioni elaborate dalla giurisprudenza con riferimento al
previgente dettato normativo, i cui principi possono comunque ritenersi ancora attuali anche
alla stregua del nuovo testo della legge fallimentare.
Lo studio di queste sentenze può costituire un momento di approccio alla problematicità
delle soluzioni ed al metodo interpretativo. Cioè, senza alcuna pretesa di completezza, si
ritiene che il diretto contatto dello studente con la decisione giurisprudenziale possa
contribuire ad una migliore comprensione della tecnica giuridica ed a creare un rapporto
diretto e stimolante con il “fatto”, rispetto al quale è stata resa una certa decisione. A tal fine,
nell’ambito del Corso, talune delle sentenze saranno oggetto di specifico commento e
confronto tra docente e discenti.
La raccolta è preceduta da un elementare glossario dei termini più comuni relativi al processo,
onde agevolare la lettura per chi è a digiuno di nozioni di diritto processuale.
Roma, 30 aprile 2009
Michele Sandulli
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INDICE
GLOSSARIO
CAPITOLO I
IL PRESUPPOSTO SOGGETTIVO
I.1. Il piccolo imprenditore
Trib. Salerno, 7 aprile 2008: “I requisiti di fallibilità”. ……………………………….............................7
I.2. Il fallimento di associazioni e fondazioni.
Cass. 18 settembre 1993, n. 9589: “Fallimento di associazione non riconosciuta e dei relativi associati
(agenti)”…………………………………………………………........................................................... 11
I.3. Il fallimento delle società commerciali
Cass. 4 novembre 1994, n. 9084: “Oggetto statutario (commerciale) e attività (agricola) svolta: una
scelta formalistica”. ............................................................................................................................................ 15
I.4. Società per azioni con socio unico
Cass. 4 febbraio 2009, n. 2711: “Non fallisce il socio unico di società per azioni”............................
18
I.5. L'impresa pubblica
Trib. S. Maria Capua Vetere, 9 gennaio 2009: “Esclusione dal fallimento delle società di servizi con
partecipazione pubblica”.......................................................................................................................
20
CAPITOLO II
IL PRESUPPOSTO OGGETTIVO
II.1. Le società in liquidazione.
Cass. 11 maggio 2001, n. 6550: “Esclusione dello stato d’insolvenza, rispetto a società in liquidazione,
qualora risulti una prevalenza dell’attivo sul passivo”. ................................................................................. 23
CAPITOLO III
LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO
III.1. Il fallimento di ufficio.
Cass. 26 febbraio 2009, n. 4632 “Il tribunale fallimentare non può sollecitare il pubblico ministero a
proporre ricorso di fallimento”....................................................................................................................... .26
III.2. Il registro dei falliti.
Corte cost. 22 febbraio 2008, n. 39 “Le incapacità personali per il fallito derivanti dalla sentenza
dichiarativa di fallimento sono illegittime”.............................................................................. ...................... 30
CAPITOLO IV
IL CURATORE
IV.1. Azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della società fallita.
Cass. sez. un. 17 dicembre 2008, n. 29421 “Esercizio congiunto delle azioni di responsabilità spettanti
alla società ed ai creditori sociali”................................................................................................. ................... 32
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CAPITOLO V
GLI ATTI PREGIUDIZIEVOLI AI CREDITORI
V.1. La revocatoria ordinaria
Cass. sez. un. 17 dicembre 2008 n. 29420: “Legittimazione all’esercizio dell’azione di revocatoria
ordinaria nel fallimento”……. ......................................................................................................................... 34
V.2. Natura dell’azione revocatoria
Cass. civ., sez. unite 28 marzo 2006, n. 7028: “Natura distributiva non indennitaria dell’azione
revocatoria fallimentare” ................................................................................................................................... 37
V.3. Termnini per l’esercizio della revocatoria fallimentare
Cass. 18 dicembre 2007 n. 26619: “Nullità della sentenza di fallimento e decorrenza del termine per
l’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare”……. .................................................................................. 40
CAPITOLO VI
IL CONCORDATO FALLIMENTARE
VI.1. La proposta di concordato
Trib. Napoli, 15 novembre 2006: “Proposta di concordato presentata dal terzo”............................... ...44
VI.2. Pluralità di proposte
Trib. Milano, 13 ottobre 2008: “La competizione tra più proposte di concordato fallimentare”..........45
CAPITOLO VII
IL CONCORDATO PREVENTIVO
VII.1. L’ammissione alla procedura
Trib. Salerno, 3 giugno 2005: “Il giudizio di fattibilità del piano”...............................................................49
VII.2 Le classi dei creditori
Cass. 4 febbraio 2009, n. 2706: “Criteri per la formazione delle classi da parte del debitore”...............54
VII.3. La revoca dell’ammissione al concordato preventivo
Trib. Casale Monferrato, 10 febbraio 2009: “Gli atti di frode che comportano la revoca del
concordato”...................................................................................................................................................... ...57
CAPITOLO VIII
GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE E LA TRANSAZIONE FISCALE
VIII.1.Gli accordi di ristrutturazione
Trib. Ancona, 12 novembre 2008: “Il giudizio di omoligazione” ...............................................................59
VIII.2 La transazione fiscale
Trib. Roma, 27 gennaio 2009: “La classe dei creditori per i debiti fiscali”................................................... 61
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GLOSSARIO
Appello. Mezzo di impugnazione che introduce il giudizio di secondo grado, concesso dalla
legge alla parte per chiedere la riforma totale o parziale di un provvedimento del giudice.
In particolare, l’appello si propone con atto di citazione, è un mezzo di impugnazione
ordinario, in quanto impedisce che la sentenza passi in giudicato, e devolutivo, in quanto
comporta un riesame della controversia relativamente alle parti impugnate, sicché il nuovo
provvedimento sostituisce quello precedente.
Giudice competente per l’appello è la Corte d’Appello (organo giurisdizionale di secondo
grado).
Attore. La parte processuale che ha dato vita al processo attraverso la proposizione della
domanda giudiziale (soggetto attivo della domanda).
Cassazione. La Corte di Cassazione si pone al vertice dell’organizzazione giudiziaria ed è unica
per tutto il territorio nazionale. La sua competenza è (di regola) limitata alle questioni di
diritto (giudizio di legalità), per cui non riesamina il merito della questione. In tal senso essa
giudica solo sui vizi della sentenza indicati tassativamente dalla legge.
La Cassazione si riunisce a Sezioni Unite per risolvere (o prevenire) contrasti interpretativi
insorti tra le sue stesse Sezioni e per decidere su questioni di particolare importanza.
Il giudizio innanzi alla Corte tende all’eventuale cassazione (cancellazione) della sentenza
impugnata, così di solito esaurendosi l’attività della Corte di Cassazione, per lasciare
l’eventuale giudizio di merito ad altro giudice, ossia il giudice di rinvio (Corte d’Appello);
invece solo eccezionalmente (ossia quando non sono necessari ulteriori accertamenti) la
Corte può decidere direttamente anche nel merito.
Controricorso. È la domanda con cui la parte contro la quale è promosso il ricorso contraddice
quanto in questo affermato. Si tratta di un atto scritto al pari del ricorso ed ha i medesimi
requisiti formali (corrisponde, in definitiva, alla comparsa di risposta nel giudizio di merito).
Il controricorso, in particolare, può avere solamente un contenuto difensivo e non censure
alla sentenza impugnata. La sua funzione, infatti, è quella di resistere al gravame avversario e,
quindi, il suo contenuto deve essere limitato alla esposizione delle ragioni giuridiche atte a
dimostrare la infondatezza delle censure del ricorrente.
Convenuto. La parte processuale contro la quale è proposta la domanda giudiziale (soggetto
passivo della domanda).
Dispositivo. Parte della sentenza in cui viene, in forma sintetica ed esauriente, enunciata la
decisione del giudice sulla domanda (o su parte di essa).
Giudizio di rinvio. E’ il giudizio conseguente alla “cassazione con rinvio” della sentenza
impugnata innanzi alla Corte di Cassazione.
Con il giudizio di rinvio, di cui è competente la Corte d’Appello, si tende a sostituire alla
sentenza cassata una nuova sentenza. Pertanto, il giudice di rinvio è investito di poteri
autonomi ed il processo si svolge secondo le norme ordinarie del processo di cognizione, di
primo o di secondo grado.
La riassunzione della causa avviene, ad iniziativa delle parti, con atto di citazione. Nel
giudizio di rinvio l’esame del giudice è limitato alle parti della sentenza che sono state cassate.
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Il giudice di rinvio è altresì vincolato all’osservanza del “principio di diritto” stabilito dalla
Corte di Cassazione.
Inammissibilità dell’impugnazione. Tale situazione si sostanzia in un ostacolo allo
svolgimento del giudizio di impugnazione, in quanto questo deve concludersi con una
pronunzia (non di merito, ma) di rito che, appunto, implica il sopravvenuto passaggio in
giudicato, escludendo la possibilità di riproporre l’impugnazione.
Cause di inammissibilità sono: il decorso del termine per proporre l’impugnazione; il difetto
di condizioni per l’impugnazione (esistenza di un provvedimento, interesse ad impugnare,
legittimazione ad impugnare, obiettiva impugnabilità del provvedimento). A queste cause
(generali) si aggiungono quelle specifiche relative a ciascun tipo di impugnazione (così, ad
esempio, con riguardo al ricorso in cassazione, la mancata indicazione dei motivi per i quali si
chiede la cassazione).
Motivazione della sentenza. Consiste nella rappresentazione e documentazione dell’iter logicoargomentativo seguito dal giudice per giungere alla decisione.
L’art. 111 della Costituzione sancisce l’obbligo per il giudice che emette una sentenza di
motivare la sua decisione: la norma costituzionale, da un lato delimita la responsabilità del
giudice e dall’altro garantisce la legittimità delle pronunzie, consentendo così un controllo più
penetrante in sede di impugnazione.
L’omissione, l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione, quando riguardino un
punto decisivo della controversia, sono di per sé motivo di impugnazione della sentenza (in
tal senso con riguardo al ricorso per Cassazione, si veda l’art. 360, n. 5, c.p.c.).
Ordinanza. E’ il provvedimento che il giudice emana nel corso del procedimento per regolarne
lo svolgimento e per risolvere le questioni procedurali che possono insorgere fra le parti.
Assolve, quindi, tipicamente ad una funzione ordinatoria del processo.
L’ordinanza (che può essere pronunziata in udienza o fuori udienza) deve essere
succintamente motivata; non pregiudica mai la decisione finale della causa; (di regola) è
modificabile e revocabile da parte del giudice che la ha emessa.
Resistente (in Cassazione). Parte contro cui è proposto il ricorso innanzi alla Corte di
Cassazione.
Ricorrente (in Cassazione). Parte che ha proposto il giudizio innanzi alla Corte di Cassazione.
Ricorso per cassazione. E’ un mezzo di impugnazione ordinario, nel senso che impedisce il
passaggio in giudicato, ma (a differenza dell’appello) non ha effetto devolutivo (cioè non
introduce una rinnovazione del giudizio).
Con esso si introduce un giudizio essenzialmente di diritto (controllo di legalità), in cui si
possono far valere soltanto errori nello svolgimento del giudizio (errores in procedendo) oppure
nell’applicazione di norme di diritto sostanziale o nell’iter logico che conduce a tale
applicazione (errores in judicando).
Il ricorso “straordinario” per cassazione, ossia per “violazione di legge” ex art. 111, 2°
comma, Cost., è proponibile non soltanto con riguardo ai provvedimenti che hanno forma di
sentenza, ma anche avverso ogni altro provvedimento emesso in forma diversa dalla sentenza
(es. ordinanza), purché: a) incida su diritti soggettivi, b) abbia natura decisoria e c) non sia
altrimenti impugnabile.
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Ricorso incidentale in cassazione. Se la parte che presenta il controricorso intende a sua volta
impugnare la sentenza, per motivi naturalmente diversi da quelli addotti dal ricorrente, può
proporre ricorso incidentale col medesimo atto contenente il controricorso.
Ricorso per Cassazione: ammissibilità. Alle condizioni e requisiti generalmente richiesti per
proporre impugnazione (rispetto dei termini, esistenza di un provvedimento, interesse ad
impugnare, legittimazione ad impugnare, obiettiva impugnabilità del provvedimento), si
aggiungono quelli specifici del ricorso in Cassazione, come, innanzitutto, la denunzia di un
determinato errore (o vizio) che rientri in una delle categorie espressamente e tassativamente
previste dalla legge (c.d. motivi di ricorso).
Ricorso per Cassazione: motivi. I motivi di ricorso per Cassazione, tassativamente indicati
nell’art. 360 c.p.c., sono: 1) motivi attinenti alla giurisdizione; 2) violazione delle norme sulla
competenza (quando non è prescritto il regolamento di competenza); 3) violazione o falsa
applicazione di una norma di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro; 4)
nullità della sentenza o del procedimento; 5) omessa, insufficiente o contraddittoria
motivazione circa un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile
d’ufficio.
Sentenza. Provvedimento col quale il giudice assolve tipicamente alla sua funzione
giurisdizionale decisoria.
La sentenza può essere di mero accertamento, di condanna o costitutiva, a seconda che si
limiti ad accertare l’esistenza di una data situazione giuridica, che condanni una parte ad un
determinato comportamento, o che dia luogo ad una modificazione della situazione giuridica
preesistente.
A seconda, poi, che il giudice ritenga o meno fondata la domanda giudiziale, si distingue tra
sentenza d’accoglimento e sentenza di rigetto.
La sentenza passa in giudicato a seguito della decadenza dall’impugnazione (per decorrenza
dei termini, per acquiescenza) o per effetto dell’esaurimento delle impugnazioni stesse. Si
determina, in tal modo, l’“incontrovertibilità” della decisione del giudice, nel senso che la
sentenza diviene immodificabile (“giudicato formale” ex art. 324 c.p.c.) e, conseguentemente,
fa stato ad ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa (“giudicato sostanziale” ex art.
2909 c.c.).
Tribunale. È l’organo giurisdizionale competente, per materia e per territorio, a conoscere della
questione e ad emettere, al termine del procedimento, una sentenza che definisce il giudizio e
conclude quello che viene indicato come il primo grado del processo.
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CAPITOLO I
IL PRESUPPOSTO SOGGETTIVO
SOMMARIO: I.1. Il piccolo imprenditore. – I.2. Il fallimento di associazioni e fondazioni. –
I.3. Il fallimento delle società commerciali. – I.4. Società per azioni con socio unico. – I.5.
L’impresa pubblica.
I.1
IL PICCOLO IMPRENDITORE
Tribunale di Salerno, 7 aprile 2008 1: “I requisiti di fallibilità”
La questione affrontata dal Tribunale riguarda la ripartizione dell’onere della pro va
per quanto riguarda la sussistenza dei presupposti dimensionali del debitore per essere
assoggettato al fallimento. La decisione puntualizza che non incombe al piccolo
imprenditore l'onere di provare il possesso congiunto dei requisiti di cui al secondo
comma dell' art. 1 l.fall., ma, al contrario, spetta al creditore o all'iniziativa officiosa
del giudice l'acquisizione della prova positiva del possesso di almeno uno di quei
requisiti. In mancanza di tale prova contraria, è sufficiente, ai fini del rigetto del
ricorso, che risulti, anche da elementi acquisiti d'ufficio, che il resistente sia piccolo
imprenditore ai sensi dell'art. 2083 cod. civ. A l contrario, per le imprese non aventi le
caratteristiche indicate dall'art, 2083 cod. civ., la regola generale di fallibilità impone
al resistente, che contesti il superamento delle soglie, L’onere non solo di allegazione,
ma anche di prova del possesso congiunto dei requisiti.
Con ricorso depositato in data 9.1.2008, M.G.A. adiva il Tribunale di Salerno per la
dichiarazione di fallimento di I.P., imprenditore individuale, titolare della omonima ditta
individuale. Esponeva, in premessa, di vantare un credito di lavoro per spettanze retributive
dell'importo di euro 35.744,18 accertato con sentenza del Tribunale di Salerno, in funzione di
giudice del lavoro, n. 2869 del 4.7.2005, passata in giudicato e di aver invano attivato
procedura esecutiva mobiliare, come da verbale di pignoramento negativo.
All'udienza camerale, fissata dinanzi al giudice relatore per la data del 17.3.2008, compariva
solo il difensore di parte ricorrente, che depositava ricorso e pedissequo decreto
regolarmente notificati al debitore in data 13.2.2008. Su richiesta della parte costituita, il
giudice relatore assegnava la causa in decisione al Collegio. All'esito dell'istruttoria
prefallimentare, ritiene il collegio che il ricorso debba essere rigettato per insussistenza del
presupposto soggettivo.
L'art. 1 comma 1 l.fall., modificato dall'art. 1 comma 1 del d.lLgs. 12.9.2007 n. 169 (c.d.
decreto correttivo) e vigente nell'attuale formulazione a far data dal 1° gennaio 2008,
prevede, quale presupposto soggettivo per la dichiarazione di fallimento, la qualità di
imprenditore esercente "una attività commerciale", esclusi gli enti pubblici. Rispetto alla
formulazione anteriore, non modificata dal d.lgs. n. 5 del 2006, non contempla l'esclusione
dei "piccoli imprenditori». Questa categoria è, però, ancora sottratta alla procedura fallimentare, secondo il disposto dell'alt. 2221 c.c., che sul punto è rimasto immutato.
L'apparente discrasia nel sistema normativo deve trovare composizione in una ragionata
interpretazione delle norme secondo i criteri ermeneutici, letterale e sistematico, indicati
1
In Fallimento, n. 8 del 2008.
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dall'art. 12 delle preleggi. Le possibili interpretazioni sono diverse e vanno singolarmente
considerate
Una prima opzione consiste nel ritenere che la modifica introdotta dal decreto correttivo
abbia implicitamente abrogato parzialmente l'art. 2221 c.c., per incompatibilità con la legge
successiva, nella parte in cui esclude la categoria dei piccoli imprenditori dalla procedura fallimentare (e di concordato preventivo). Secondo questa posizione, non vi è ragione di operare,
nell'attuale disciplina, alcun discrimine in base alle caratteristiche di organizzazione dei fattori
di produzione al fine di escludere dall'area della fallibilità l'azienda modesta che risponde ai
canoni dell'art. 2083 c.c. Il legislatore avrebbe superato il precedente criterio di selezione delle
imprese degne di innescare, in caso di insolvenza, la complessa e dispendiosa procedura
concorsuale introducendo nuovi requisiti di esonero non più un criterio restrittivo, basato
sulla rilevanza dei fattori di produzione estranei al lavoro proprio dell'imprenditore e della
sua famiglia, ma precisi requisiti dimensionali di superamento dei valori indicati dal secondo
comma dall’art. 1. Questa interpretazione, però, contrasta proprio con l'altra modifica del
presupposto soggettivo apportata dal decreto correttivo con l'introduzione, nel secondo
comma dell'art. l, di requisiti di non fallibilità ancorati a soglie elevate di valori patrimoniali e
reddituali. Non si può ritenere che il legislatore abbia voluto estendere la procedura fallimentare a categorie in precedenza escluse, come i piccoli imprenditori, nel momento stesso in cui
ha espulso gli esercenti un'attività commerciale che, negli ultimi esercizi, non hanno superato
il limite di 300 mila euro di attivo patrimoniale né quello di 200 mila euro di ricavi lordi e non
presentano un indebitamento complessivo di almeno 500 mila euro. Si tratta, infatti, di valori
riscontrabili di regola nell'impresa speculativa e non in quella volta al mero guadagno tratto
prevalentemente o esclusivamente dal lavoro proprio dell'imprenditore e dei familiari.
Non è coerente con la novità legislativa neppure la tesi opposta, secondo la quale l'art. 2221
c.c. ha conservato intatto il suo contenuto normativo, sì che il presupposto soggettivo risulta
dall'integrazione della disciplina della legge speciale con la previsione generale sull'insolvenza
contenuta nello statuto delle imprese commerciali dettato dal codice civile. Ponendosi in una
tale prospettiva, si dovrebbe riconoscere che la novella ha ulteriormente ridotto l'ambito di
applicazione della legge fallimentare, già esclusa per tutti i piccoli imprenditori, ad imprese
che, se pure non aventi le caratteristiche organizzative previste dall'art. 2083 c.c., presentino
tuttavia limiti dimensionali tali da consentire una gestione dell'insolvenza al di fuori delle
procedure concorsuali. In altri termini, il fallimento è escluso per tutti i piccoli imprenditori,
indipendentemente dal loro patrimonio, dal reddito e dall'ammontare dei debiti mentre per
gli altri l'assoggettabilità dipende da requisiti dimensionali. Inteso in tal senso, però,
l'intervento riformatore che ha espunto dall'art. l il riferimento ai piccoli imprenditori non
avrebbe alcun significato.
L'armonizzazione del complesso delle modifiche normarive al presupposto soggettivo, con il
supera mento da un lato dell'espressa previsione della non fallibilità dei piccoli imprenditori e
l'introduzione dall'altro di requisiti dimensionali validi per tutte le imprese, deve essere
ricercata in una diversa lettura sistematica, che intende la soppressione del riferimento ai
piccoli imprenditori nell'art. l l.fall. rispondente ad una logica di delimitazione della categoria
esclusa. La norma del codice civile, secondo questa scelta ermeneutica, non è stata parzialmente abrogata dalla disciplina della legge fallimentare ma ha assunto un diverso significato,
inferente anche sulla corretta interpretazione della nuova disposizione. Nel senso che le
norme sul presupposto soggettivo affermano due regole generali: la fallibilità delle medie e
grandi imprese (con esclusione di quelle soggette alla sola liquidazione coatta amministrativa
o alla procedura di amministrazione straordinaria) e la non fallibilità delle piccole imprese. Il
secondo comma dell'art. l l.fall., rispetto alla prima regola introduce una deroga, rispetto alla
seconda regola circoscrive ulteriormente la nozione di piccolo imprenditore non fallibile,
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escludendo dalla sfera di inoperatività della legge fallimentare quelle imprese che, pur
lavorando in via esclusiva o principale con il lavoro proprio del titolare e dei familiari,
abbiano tuttavia raggiunto determinati livelli di patrimonio, ricavi o indebitamente.
In favore di questa interpretazione militano ragioni di coerenza, logicità e ragionevolezza del
sistema normativo.
In primo luogo, la riproposizione della precedente formulazione del primo comma dell'art. l
avrebbe avuto, come conseguenza, l'esclusione in toto della categoria, senza alcun riguardo
alla presenza di quei requisiti che il secondo comma dell'art. l mostra di ritenere decisivi nella
scelta delle imprese fallibili. La conseguenza, irragionevole, sarebbe stata l'esclusione dal
fallimento di soggetti qualificabili piccoli imprenditori ai sensi dell'art. 2083 c.c., (il cui lavoro
personale ha carattere prevalente sugli altri fattori produttivi) che avessero conseguito ricavi
lordi superiori ad euro 200 mila o accumulato debiti per oltre 500 mila euro. Il mantenimento
dell'espressa esclusione nella norma codicistica non ha lo stesso significato, poiché la clausola
di salvezza ivi contenuta (<<salve le disposizioni delle leggi speciali») consente di ravvisare
nel secondo comma dell'art. l una deroga alla regola generale della non fallibilità dei piccoli
imprenditori posta dall'art. 2221 c.c.
In secondo luogo, posta la regola generale di non fallibilità della piccola impresa, la
delimitazione del suo ambito operata dalla legge speciale non può essere concepita, come per
le medie imprese, alla stregua di fatto impeditivo (di natura meramente processuale, o
sostanziale se si ritiene che la nuova disciplina fallimentare abbia attribuito al creditore un
diritto soggettivo al fallimento del proprio debitore-imprenditore insolvente), che spetta al
debitore dimostrare per paralizzare l'azione del creditore. Viene così superata un'altra
incongruenza nella quale ricade l'interpretazione abrogativa, che è quella di imporre al piccolo
imprenditore, che risulti tale dagli elementi acquisiti, l'onere di dimostrare comunque il
possesso congiunto dei requisiti di cui all'art. 1 comma 2 l.fall. per evitare il fallimento. Con la
paradossale conseguenza di pervenire ad una dichiarazione di fallimento di un soggetto che
in precedenza, alla stregua degli elementi raccolti, sarebbe stato ritenuto non fallibile ma che
non abbia potuto o voluto assolvere all'onere probatorio che le nuove disposizioni
porrebbero a suo carico. Si pensi alle ipotesi della contumacia volontaria o inconsapevole del
piccolo imprenditore (ad es. l'imprenditore non rintracciabile, citato con rito degli irreperibili)
o all'impossibilità di fornire la prova dei requisiti (es. per mancata tenuta dei libri contabili o
palesi irregolarità). In questi casi il giudice non potrebbe sopperire neppure con l'istruzione
officiosa, perché preclusa dalla non condivisibile interpretazione parzialmente abrogativa
dell'art. 2221 c.c., che finisce per far ricadere anche sul piccolo imprenditore l'onere
probatorio del fatto impeditivo. Anche a voler ritenere possibile un'iniziativa officiosa del
giudice, non vi è di fatto la disponibilità di validi strumenti di indagine. In particolare, non si
può compiere un accertamento di ufficio sull'attivo patrimoniale o sui ricavi lordi in
mancanza, ad esempio, di scritture contabili e, anche nelle ipotesi in cui ciò sia possibile, è
estremamente difficile acquisire d'ufficio la prova dell'ammontare dei debiti. All'illogica
conseguenza non si perviene attraverso l'interpretazione propugnata dal collegio che,
ritenendo ancor oggi valida la regola generale di non fallibilità dei piccoli imprenditori, reputa
sufficiente l'accertamento di mie qualità per escludere di norma l'assoggettabilità a fallimento,
a meno che non vi sia la prova positiva del possesso di almeno uno dei requisiti indicati dal
secondo comma.
In terzo luogo, la tesi dell'interpretazione abrogativa della regola generale di esclusione dei
piccoli imprenditori pone tutte le imprese sullo stesso piano, anche ai fini dell'applicazione
della deroga posta dal secondo comma dell'art. 1, privando di fatto il giudice di quei poteri
istruttori officiosi che pure sono stati ribaditi dalla legge fallimentare. Se è sufficiente, quale
presupposto soggettivo, la qualità di imprenditore commerciale per dichiarare il fallimento,
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impedito solo dall'assolvimento dell'onere probatorio posto a carico del resistente, non vi è
margine per attivare i poteri istruttori affidati al giudice dalla legge. Anche per tale verso,
trova logica conferma la tesi della non fallibilità dei piccoli imprenditori, che in quanto regola
generale e non fatto impeditivo, consente un'iniziativa istruttoria officiosa diretta a verificare
l'effettiva natura dell'impresa (ad es. attraverso accertamenti a mezzo della guardia di finanza
o presso pubblici uffici sul numero dei dipendenti, sulle dichiarazioni dei redditi e Iva, sui
beni strumentali, sui locali ove si svolge l'attività, ecc.).
In quarto luogo, la conferma della presenza nel sistema della regola generale di non fallibilità
dei piccoli imprenditori si ricava, almeno per le imprese di produzione di beni o servizi, da un
altro dato normativo. Secondo l'art. l comma 1 l.fall, è soggetto alle procedure concorsuali
l'imprenditore che esercita «una attività commerciale». In mancanza di una definizione nella
stessa legge fallimentare, per stabilire cosa debba intendersi per impresa esercente attività
commerciale non si può che fare riferimento alla regola generale posta dall'art. 2195 comma
2 c.c., che recita "le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese
commerciali si applicano, non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo
articolo e alle imprese che le esercitano». Dunque, l'impresa commerciale fallibile è quella
indicata dall'art. 2195 comma l c.c., che, con particolare riferimento alle imprese di
produzione di beni e servizi, qualifica commerciale quella esercente un'attività «industriale».
Non tutte le imprese di produzione sono imprese commerciali ma solo quelle aventi il
requisito dell'industrialità. Tale requisito non può intendersi riferito a tutte le attività di
produzione di beni diversa da quella agricola ma solo alle attività non artigiane, aventi un
ciclo produttivo che prescinde dal lavoro del titolare. Anche per tale verso, risulta
confermata, come regola generale, l'esclusione del piccolo imprenditore (nella specie,
l'artigiano) dall'universo dei fallibili. L'interpretazione accolta è foriera di conseguenze in ordine all'esatta individuazione del presupposto soggettivo per la dichiarazione di fallimento e
alla distribuzione dell'onere probatorio. Le modifiche del decreto correttivo non hanno
attratto nell'area della fallibilità anche il piccolo imprenditore, secondo la definizione data
dall'art. 2083 c.c., che ne resta di regola escluso (art. 2221 c.c.), ma hanno posto un confine
alla definizione di piccolo imprenditore rilevabile dall'art. 2083 c.c., dato dal superamento di
determinate soglie di patrimonio, ricavi o indebitamento. Operando come eccezione, non
incombe al piccolo imprenditore l'onere di provare il possesso congiunto dei requisiti di cui
al secondo comma dell'art. 1 l.fall. ma, al contrario, spetta al creditore o all'iniziativa officiosa
del giudice l'acquisizione della prova positiva del possesso di almeno uno di quei requisiti. In
mancanza di tale prova contraria, è sufficiente che risulti, anche da elementi acquisiti
d'ufficio, che il resistente sia piccolo imprenditore ai sensi dell'art. 2083 c.c. per il rigetto del
ricorso. Al contrario, per le imprese non aventi le caratteristiche indicate dall'art. 2083 c.c., la
regola generale di fallibilità impone al resistente, che contesti il superamento delle soglie,
l'onere non solo di allegazione ma anche di prova del possesso congiunto dei requisiti.
La questione esaminata e risolta ha indubbio rilievo nel caso in esame, poiché dagli atti
acquisiti emerge la qualità di piccolo imprenditore, nella specie di artigiano, del resistente che
esclude la dichiarazione di fallimento per carenza del presupposto oggettivo pur in mancanza
di una prova positiva, per essere rimasto contumace, del possesso congiunto dei requisiti di
cui all’art. l l.fall.
Il debitore, come risultante dal registro delle imprese, è imprenditore individuale esercente
attività nel settore edile, iscritto nell'albo delle imprese artigiane. Tale dato è necessario ma
non decisivo, secondo l'indirizzo giurisprudenziale dominante, poiché l’mpresa, pur se
rientrante nella nozione di impresa artigiana di cui alla legge 8.8.1985 n. 443 ed iscritta all'albo
delle imprese artigiane, è da ritenersi assoggettata al fallimento se per dimensioni e giro di
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affari debba essere considerata impresa commerciale (Cass. 10.11.1998 n. 11306). Decisivi, al
riguardo, sono i profili relativi alla organizzazione aziendale al guadagno.
Occorre distinguere, infatti, tra un’organizzazione aziendale modesta dalla quale
l’imprenditore tragga un mero guadagno, ed un'organizzazione di tipo industriale
(caratterizzata dalla prevalenza del capitale sul fattore lavoro e dall'autonoma capacità produttiva dell'impresa, nella quale l'opera personale del titolare non è essenziale o principale)
che costituisce base di una intermediazione speculativa fonte di profitto.
Nel caso concreto si è in presenza di un artigiano piccolo imprenditore, e non di una impresa
commerciale, desumibile dall'unico ricorso proposto, dalla natura del rapporto di lavoro con
il ricorrente accertata dal giudice del lavoro (M.G.A. ha svolto le mansioni di manovale in
favore dell'imprenditore individuale da febbraio 2000 a maggio 2001), dal dissolvimento
dell'impresa (il verbale di pignoramento negativo del 13.9.2007), non rilevante ai fini dell'art.
l0 della l.fall. (non vi è, infatti, cancellazione dal registro delle imprese) e dalle risultanze
dell'anagrafe tributaria, che attesta negli ultimi anni solo la percezione di redditi da lavoro
dipendente (euro 18.375 per l'anno 2005) e l'assenza dal 1998 di dichiarazioni (modelli 730,
Unico, Iva). E evidente in ciò, senza bisogno di ulteriori approfondimenti istruttori, che I.P.
ha svolto in passato attività di imprenditore individuale nel settore edile avvalendosi di mezzi
aziendali modesti e, oltre al prevalente lavoro personale, dell'opera di .un manovale. Non vi
era, dunque, un'organizzazione aziendale di capitale e lavoro avente una capacità produttiva
autonoma rispetto al lavoro personale dell’imprenditore.
Di qui il rigetto del ricorso proposto nei confronti dell’artigiano.
I.2 IL FALLIMENTO DI ASSOCIAZIONI E FONDAZIONI.
Cass. 18 settembre 1993, n. 9589 2: “Fallimento di associazione non riconosciuta e dei
relativi associati (agenti)”.
La sentenza affronta il problema della assoggettabilità al f allimento delle associazioni
non riconosciute e della conseguente estensione della procedura agli associati che siano
illimitatamente responsabili. Preliminare rispetto alla assoggettabilità al f allimento
sono la valutazione e l’accertamento circa lo status di imprenditore commerciale da
queste eventualmente assunto. A tal fine, l’indagine deve essere diretta a verificare
l’esercizio diretto della attività di impressa, ed il rapporto di questa con le altre
attività eventualmente esercitate, sia sotto il profilo sostanziale sia sotto il profilo
formale. Va perciò esclusa l’imputazione all’associazione dell’attività economica
commerciale, sebbene indirizzata allo scopo istituzionale dell’ente, se formalmente
svolta da una distinta società commerciale, ancorché alla associazione collegata in modo
intrinseco ed essenziale.
La sentenza, poi, afferma che la dichiarazione di fallimento di un’associazione non
riconosciuta, avente lo status di imprenditore commerciale comporta il fallimento degli
associati che siano illimitatamente responsabili, secondo la disciplina propria delle
associazioni non riconosciute, ossia delle persone che hanno agito in nome e per conto
dell’ente ai sensi dell’art. 38, comma 1, ultima parte, c.c..
In Fall., 1994, 151, con nota di NAPOLEONI V., Il fallimento delle associazioni non riconosciute; in Giust. civ., 1994, I,
65, con nota di LO CASCIO G., La dichiarazione di fallimento dell’associazione non riconosciuta e degli associati; in Foro it.,
1994, I, 3503, con nota di PATANÉ G., Brevi note in tema di fallimento di associazione non riconosciuta; in Nuova giur. civ.,
1995, I, 309, con nota di PORRARI A., I requisiti per la dichiarazione di fallimento nell’ipotesi di enti collegati; in Riv. dir.
impr., 1996, 166, con nota di FIENGO C., Società e associazione.
2
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1. Ai fini dell’attribuzione ad un’associazione dello status di imprenditore commerciale con la
conseguente applicazione del relativo regime, rileva soltanto che l’ente abbia svolto un’attività
da imprenditore commerciale, e che l’esercizio di questa impresa esaurisca l’attività dell’ente,
ovvero risulti prevalente rispetto ad altre attività, sì da costituire l’oggetto escluso o principale
dell’associazione; ciò, anche quando l’associazione abbia soltanto scopi altruistici, o l’attività
di impresa realizzi in via diretta gli scopi istituzionali dell’ente e sia, perciò, finalizzata al
raggiungimento di scopi altruistici (Cass. 9 novembre 1979, n. 5770).
Ne discende, che ai fini della soluzione della questione se l’associazione Fondazione Pitagora
avesse assunto lo status di imprenditore commerciale non si doveva affatto risolvere il punto
se la stessa, avesse, o avesse acquisito, uno “scopo economico”; e che, pertanto, la Corte del
merito, nel procedere alla valutazione di siffatta questione, non è incorsa nel vizio di omesso
esame di un punto decisivo denunciato nel primo profilo del motivo.
Pertanto, la relativa censura è infondata e deve essere disattesa.
2. In funzione della disamina delle questioni poste col secondo profilo ed in correlazione alle
difese sviluppate dall’Amministrazione fallimentare resistente nel controricorso e nella
memoria ex art. 378 codice di procedura civile, occorre procedere, preliminarmente, alla
ricostruzione delle ragioni sulle quali la Corte palermitana ha fondato l’affermazione che
l’associazione Fondazione Pitagora aveva esercitato “direttamente” un’attività economica
commerciale.
In proposito emerge che il giudice del merito ha affermato, in fatto, che l’associazione
denominata Fondazione Pitagora, era un “ente soggettivamente distinto dalla s.r.l. Istituto
Pitagora”; che gli associati del primo ente erano soci dell’altro soggetto; che il Presidente
dell’una era l’amministratore unico dell’altra e, quindi, il “fiduciario dell’associazione” nella
società; che lo scopo istituzionale dell’associazione veniva realizzato attraverso “la gestione
dell’intera attività di assistenza ed educazione scolastica dei minori avviati all’associazione
stessa dagli enti pubblici o dalla stessa acquisiti con rapporti privatistici”, da parte della
società.
Ha affermato poi che gli elementi fin qui richiamati e la circostanza che l’associazione
conservava il potere di scegliere discrezionalmente i minori da assistere nella struttura gestita
dalla società, rendevano certo che “tra l’ente morale e la società commerciale” esisteva una
“stretta connessione ed un intimo collegamento”.
Infine, dalla sussistenza della connessione e del collegamento ha tratto sia che la società si
poneva quale “organo” dell’associazione e mero soggetto di comodo ed in questo senso
“fittizio”; e sia che, pur “tramite un ente soggettivamente distinto” la gestione dell’attività di
assistenza e di istruzione dei minori - costituente attività economica commerciale - veniva
svolta “direttamente” dall’associazione.
Quindi, secondo la Corte territoriale, l’associazione svolgeva direttamente un’attività
imprenditoriale commerciale, posto che quell’attività era il mezzo che le consentiva di
raggiungere il proprio scopo, ed era svolta da un soggetto distinto (cui era formalmente
imputabile) ma ad essa collegato in modo intrinseco ed essenziale.
Si deve escludere, allora, che, come sostiene invece l’Amministrazione fallimentare
controricorrente, la Corte palermitana abbia riportato lo status di imprenditore
dell’associazione per un verso, alla circostanza che questo ente esercitava concretamente
l’organizzazione dell’attività imprenditoriale per essere il soggetto che trattava con i soggetti
pubblici e privati per il ricovero e l’istruzione dei minori, ne riceveva il corrispettivo ed
affidava a terzi la sola gestione dell’attività materiale di assistenza e di istruzione; e, per altro
verso, al rilievo che è imprenditore anche chi non eserciti direttamente un’attività economica
di produzione di beni e servizi, ma ne curi solo l’organizzazione avvalendosi, a tal fine, della
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collaborazione di soggetti giuridici distinti, come mediatori, commissionari, o altri
imprenditori collegati cui sono affidate una o più fasi del ciclo produttivo.
Ora, così puntualizzatane la ratio, la statuizione della Corte palermitana non può essere
condivisa.
Per vero, perché un soggetto possa acquistare lo status di imprenditore commerciale occorre
che l’attività oggettivamente economico-commerciale sia a lui direttamente imputabile, e a tal
fine, non è sufficiente la connessione, anche se stretta o il collegamento con altro soggetto
effettivamente imprenditore, ovvero, l’utilizzazione dell’attività formalmente imputabile a
questo soggetto per il conseguimento dei propri scopi, quando questa utilizzazione non si
realizzi attraverso un’attività intrinsecamente imprenditoriale.
Pertanto, un’associazione non diventa imprenditore commerciale ove, per raggiungere i
propri scopi altruistici si limiti ad utilizzare i proventi dell’attività imprenditoriale di un
soggetto soggettivamente distinto, anche se collegato o collaterale; perché ciò avvenga,
invece, occorre che ai fini dell’utilizzazione svolga, in via esclusiva o prevalente, un’attività
oggettivamente imprenditoriale, ed ad essa imputabile anche formalmente.
Del resto, su questa conclusione conviene, sia pure implicitamente la stessa controricorrente
allorquando sostiene che l’associazione “Fondazione Pitagora” ha gestito un’impresa
commerciale una volta che l’autonoma attività da essa posta in essere ed a lei imputabile
anche formalmente (l’organizzazione e gestione del servizio scolastico privato con semplice
attribuzione della materiale esecuzione del servizio alla società a responsabilità limitata)
concretizza un’attività tipicamente imprenditoriale commerciale; e, - ma infondatamente
come s’è detto - che il giudice del merito ha fondato la propria statuizione su questa ragione.
Ne consegue che, effettivamente, la Corte territoriale è incorsa nel vizio denunciato nel
profilo, allorché ha affermato che, ai fini della soluzione del quesito sulla sussistenza dello
status di imprenditore commerciale dell’associazione “Fondazione Pitagora” si poteva far
riferimento all’attività svolta da un distinto soggetto giuridico; e, conseguentemente, ha
omesso di accertare se l’attività autonomamente svolta dall’associazione medesima realizzasse
di per se sola detto status.
In questo limite, pertanto, il profilo risulta fondato e deve essere accolto.
3. Il primo motivo, allora, deve essere accolto per quanto di ragione.
(omissis)
4. Il terzo motivo d’annullamento denuncia che la sentenza d’appello è viziata anche nel capo
in cui ha disatteso l’opposizione dei singoli associati alla dichiarazione del loro fallimento in
proprio, sulla base dei principi che “l’art. 1 legge fallimentare soggetta a fallimento gli
imprenditori che esercitano un’attività commerciale”; che “i soci illimitatamente responsabili
hanno la qualità di imprenditori”; che “l’art. 1 legge fallimentare [non è] una norma
applicabile solo a coloro che esercitano individualmente, ma è, invece, applicabile anche a
coloro che quali membri di un gruppo associato [esercitino] un’attività commerciale”; e che la
previsione dell’art. 1 legge fallimentare è, dunque, idonea a comprendere anche coloro che,
come i soci illimitatamente responsabili esercitano un’impresa commerciale: essa è, perciò,
astrattamente idonea a comprendere chiunque - anche in particolare gli associati
illimitatamente responsabili - sia imprenditore commerciale in ragione della qualità di
membro responsabile senza limite di un gruppo che eserciti un’impresa commerciale.
Infatti, lamentano i ricorrenti, in tal modo la Corte territoriale ha affermato che, per il solo
fatto d’essere tali, automaticamente, tutti indiscriminatamente gli associati di una associazione
non riconosciuta titolare di impresa commerciale e dichiarata fallita, devono essere dichiarati
falliti in proprio; e, di conseguenza, ha omesso di limitare la dichiarazione di fallimento ai soli
associati che abbiano svolto attività per l’associazione.
Con ciò, però:
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a) ha violato e applicato falsamente: gli artt. 1 legge fallimentare; il principio, che scaturisce
dall’art. 147 legge fallimentare, secondo il quale solo i soci di una società di persone sono
assoggettabili al fallimento; il principio enucleabile da tutto il sistema positivo (e, in
particolare, dalla ratio degli artt. 2267 e 2304 codice civile) che i soci di una società di persone
non sono imprenditori commerciali; il principio che solo gli imprenditori commerciali
possono essere dichiarati falliti, salva l’ipotesi dell’art. 147 legge fallimentare che, peraltro,
non riguarda tutti i soci di una società di persone, ma solo quelli che siano illimitatamente
responsabili delle sue obbligazioni; la norma, infine, per cui nelle associazioni sono
illimitatamente responsabili solo le persone che hanno agito in nome e per conto dell’ente;
b) conseguentemente, è incorsa anche in vizio di motivazione, sia perché ha omesso di
ricercare se tutti indistintamente i componenti dell’associazione non riconosciuta
“Fondazione Pitagora” fossero illimitatamente responsabili per le obbligazioni dell’ente; e sia
perché, a tutto concedere, non ha spiegato le ragioni per cui il regime (eventualmente)
previsto per i “soci illimitatamente responsabili” si possa estendere agli “associati
illimitatamente responsabili”.
L’argomentazione della Corte territoriale (in effetti non sempre immediatamente
comprensibile, tant’è che l’Amministrazione controricorrente ne propone una lettura diversa
da quella correttamente datane dai ricorrenti principali) si fonda e si sviluppa
sull’affermazione che i soci di una società di persone esercitante un’impresa commerciale
sono, per ciò solo, imprenditori commerciali in quanto partecipi dell’impresa fallita; che,
pertanto, la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di fallimento di quel tipo di
società comporta, automaticamente, la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di
fallimento di tutti i suoi soci: quindi, che il fallimento di questi viene dichiarato non già per
effetto dell’estensione normativa del fallimento della società, ma per effetto dell’autonoma
sussistenza, direttamente in capo ai soci, dei relativi presupposti. Da ciò, il corollario che
poiché l’associazione non riconosciuta che abbia lo status di imprenditore commerciale è
assoggettata al regime giuridico delle società di persone, per le anzidette ragioni, in presenza
del fallimento della associazione non si può non avere anche il fallimento di tutti gli associati.
I principi che costituiscono il presupposto dell’argomentazione della Corte palermitana non
possono essere condivisi.
I soci d’una società di persone non sono imprenditori commerciali neppure se, secondo le
regole proprie del tipo di società, siano illimitatamente responsabili per le sue obbligazioni:
difatti, anche in tali società, pur prive di personalità giuridica, la titolarità dell’impresa spetta
non ai singoli soci, ma alla società quale centro unitario di imputazione degli atti e delle
attività compiute dagli amministratori. In questo senso, infatti, è l’orientamento del tutto
consolidato di questa Corte Suprema, dal quale non vi sono ragioni di discostarsi (v. Cass. 3
aprile 1987, n. 3229; 12 aprile 1984, n. 2359; 22 dicembre 1972, n. 3658; 7 agosto 1972, n.
2369).
Correlativamente, i soci illimitatamente responsabili di una società di persone (e non tutti
indistintamente i soci di siffatte società, come mostra di ritenere la Corte palermitana che
tiene presente soltanto la figura della società in nome collettivo ed il disposto dell’art. 2991
codice civile) sono assoggettabili a fallimento non già ai sensi dell’art. 1 legge fallimentare in
quanto imprenditori, ma solo in applicazione dell’art. 147 legge fallimentare che, col disporre
che “la sentenza che dichiara il fallimento dei soci a responsabilità illimitata produce anche il
fallimento dei soci illimitatamente responsabili”, impone il fallimento dei detti soci
indipendentemente dalla loro qualità di imprenditori, e quale effetto autonomo della
pronuncia del fallimento della società, ponendosi, così, quale espressa deroga alla regola
generale prevista dall’art. 1 legge fallimentare per la quale sono assoggettati alle procedure
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concorsuali solo i soggetti che abbiano qualità di imprenditore (v. Cass. 3 aprile 1987, n.
3229; 12 aprile 1984, n. 2359; 17 dicembre 1981, n. 5677; 7 agosto 1972, n. 2639).
Pertanto, la conclusione del giudice d’appello che il fallimento delle associazioni non
riconosciute aventi lo status di imprenditore commerciale produce il fallimento degli associati
illimitatamente responsabili (affermazione che in sé e per sé non è investita da censura,
essendo contestato, invece, solo l’ulteriore principio che il fallimento dell’associazione
produce quello di tutti indistintamente gli associati) non comporta affatto né che gli associati
di quell’ente siano imprenditori commerciali, né che il fallimento dell’associazione produca il
fallimento di tutti gli associati.
Si deve ritenere, invece, che tal effetto si produca solo nei riguardi degli associati che siano
illimitatamente responsabili secondo la disciplina propria delle associazioni non riconosciute,
ossia, a norma dell’art. 38, primo comma, ultima parte, codice civile, le persone che hanno
agito in nome e per conto dell’associazione.
Ne consegue che la Corte palermitana che, distaccandosi da questo principio, ha dichiarato il
fallimento di tutti gli associati della “Fondazione Pitagora” senza accertare chi avesse agito
concretamente per l’associazione (non corrisponde al vero, infatti, come sostiene
l’Amministrazione fallimentare resistente al fine superare il vizio giuridico della sentenza, che
il giudice d’appello abbia comunque dato “atto del fatto che tutti i membri dell’associazione,
per quanto emerso dalle precedenti fasi del processo e risultante dagli atti, avevano preso
parte, ciascuno in forme diverse, all’attività dell’ente”) è incorsa anche nei vizi denunciati nel
motivo che ne occupa.
I.3 IL FALLIMENTO DELLE SOCIETÀ COMMERCIALI
Cass. 4 novembre 1994, n. 9084 3: “Oggetto statutario (commerciale) e l’attività
(agricola) effettivamente svolta: una scelta formalistica”.
La sentenza affronta il problema dell a difformità tra la natura della attività esercitata
e la forma adottata per il suo esercizio. In particolare la questio riguarda l’ipotesi nella
quale una società formalmente commerciale, stante la forma societaria assunta, eserciti
in fatto una attività non commerciale, in contrasto con lo statuto sociale. La Corte
riporta le diverse posizioni assunte dalla giurisprudenza in ordine alla rapporto tra il
principio della prevalenza della forma e quello della prevalenza dell a sostanza ed
afferma che occorre tenere in considerazione esclusivamente la natura dell’oggetto sociale
come emerge dallo statuto, escludendo qualsiasi rilevanza all’eventuale attività in
concreto svolta.
La questione [riguarda] se ai fini della assoggettabilità al fallimento delle società costituite nelle
forme stabilite dall’art. 2249 c.c. per l’esercizio di attività commerciale (società in nome
collettivo in accomandita semplice, per azioni, in accomandita per azioni ed a responsabilità
limitata) e che abbiano oggetto commerciale sia o meno richiesto il requisito dell’effettivo
esercizio di attività commerciale.
La Corte di Catanzaro ha dato al quesito risposta negativa, adeguandosi al principio in tal
senso espresso dalle precedenti pronunzie n. 1921/65 e n. 2067/72 di questa Corte. E di ciò
appunto si dolgono ora i ricorrenti, sostenendo che i remoti precedenti, cui hanno prestato
ossequio i giudici di merito, risultino, in realtà, ormai superati dalla più recente giurisprudenza
3
In Giust. civ., 1995, I, 110.
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- segnatamente dalla sentenza n. 8939 del 1987 - che avrebbe “confermato che anche per le
società di capitali può non aversi la qualifica di imprenditore commerciale, nonostante la
forma societaria assunta, qualora realmente l’oggetto e l’attività in concreto espletata non sia
quella economica e commerciale, così come indicata dall’art. 2195 c.c., ma trattasi di attività
non commerciale sia pure in contrasto con lo statuto sociale”. E ciò - sempre a quanto si
sostiene dagli esponenti - in conformità a “l’orientamento sempre seguito dalla dottrina”.
a) In realtà - va detto per inciso - la posizione della dottrina sul problema che ne interessa è
estremamente variegata e non certo esprime quell’indirizzo monolitico che si prospetta dai
ricorrenti risultando, anzi, prevalente la tesi che ricollega l’elemento della professionalità delle
società in parola al fatto stesso della loro “costituzione per l’esercizio” di una attività
commerciale, indipendentemente da un effettivo ed attuale svolgimento dell’attività stessa.
A questo orientamento avevano del resto dichiaratamente fatto anche riferimento le
richiamate decisioni del 1965 e 1972. Non è poi esatto che con questa giurisprudenza si sia in
prosieguo posta in contrasto la sentenza 8939 del 1987. In quest’ultima decisione il criterio di
effettività è stato pur richiamato ma non già in relazione al contenuto ed alla natura
dell’attività imprenditoriale esercitata a fini qualificatori (come si pretende) dell’impresa,
sebbene unicamente per accertare - a monte - l’an stesso di un tale esercizio.
Si è affrontato, infatti, in quella occasione il problema (ben diverso da quello che ora ne
occupa) della simulabilità di un contratto costitutivo di s.p.a. pervenendosi alla soluzione che,
anche in detta ipotesi, la simulazione sia in tesi possibile quando risulti che le parti - contro
l’apparente enunciato negoziale – non abbiano in realtà voluto e non abbiano in concreto
svolto alcuna attività imprenditoriale, limitandosi a costituire e mantenere, sotto le mentite
spoglie societarie, una mera comunione di godimento. Né alcun elemento la stessa richiamata
sentenza fornisce che autorizzi il preteso trapianto del canone della effettività nella differente
sede problematica che qui ne interessa; che anzi, sul punto anche la sentenza n. 8939/87 cit.
significativamente ribadisce che, “fuori dal caso limite della simulazione dell’atto costitutivo,
lo scopo commerciale in questo indicato, “qualifica di per sé la società” e “non è necessario
l’attualità dell’esercizio dell’attività (in oggetto), a differenza che per l’impresa è
individuabile”.
b) Ciò precisato sul quadro di riferimento delle posizioni dottrinarie e dei precedenti
giurisprudenziali sul tema proposto, e dopo aver comunque questo rimediato alla luce delle
sollecitazioni argomentative della difesa dei ricorrenti, ritiene conclusivamente questo
Collegio di dover a sua volta mantenere ferma la riferita precedente giurisprudenza. Nei
ricordati arresti del 1965 e 1972, la superfluità dell’attuale e concreto esercizio dell’attività
commerciale, ai fini dell’assoggettamento al fallimento delle società costituite nelle forme
delle società commerciali ed aventi ad oggetto una siffatta attività, si fonda direttamente
sull’analisi testuale del dato normativo. Si osserva infatti che sia l’art. 2308, in tema di s.n.c.,
sia l’art. 2323 (che a quello rinvia) per le s.a.s., sia l’art. 2448 c.c. dettato per le s.p.a. ma
applicabile (ex artt. 2464, 2497) anche alle s.r.l. ed alle s.a.p.a. convergono nel collegare la
possibilità del fallimento di dette società all’unico presupposto della previsione dell’esercizio
di attività commerciale nel rispettivo atto costitutivo e non anche a quello del concreto
esercizio di tale attività. E si aggiunge che, parallelamente, anche l’art. 1 della l. f., che esclude
dal fallimento i piccoli imprenditori, con lo statuire che in nessun caso tali possono
considerarsi le società commerciali, ribadisce l’espressa volontà del legislatore di sottoporre
sempre a fallimento tali società in caso di insolvenza. Questi rilievi sono sicuramente
risolutivi sul piano del diritto positivo, relegando al piano delle valutazioni de iure condendo ogni
contrario giudizio sull’opportunità del fallimento di organismi non concretamente operativi
in termini di attività commerciale.
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c) Le motivazioni della soluzione accolta possono per altro verificarsi anche in una
prospettiva ulteriormente avanzata, affrontando il nodo concettuale (non sciolto nei
precedenti richiamati) se le predette società assumano sin dalla loro costituzione la qualità di
imprenditore commerciale ed in tal veste appunto falliscano ovvero il loro assoggettamento a
fallimento sia indipendente dall’acquisizione di una siffatta qualità. Si prescinde (perché
ultronea in questa sede) dalla questione teorica più complessa e generale del collegamento tra
i concetti di società e di imprenditore (dal problema cioè se sia vero, come da taluni
sostenuto - e da altri invece negato - che la società sia sempre e necessariamente destinata
all’esercizio dell’impresa), poiché il tema che ne interessa è quello, più specifico e circoscritto,
del rapporto intercorrente tra la società sorta, come nel nostro caso, con riferimento
statutario espresso all’esercizio di attività commerciale, e la qualità di imprenditore
commerciale. Al riguardo pare obbligata a questo Collegio la prima opzione interpretativa
che conduce appunto a spiegare l’assoggettamento a fallimento di siffatte società, in ragione
della loro qualità di imprenditore commerciale acquisita sin dall’atto della rispettiva
costituzione.
In via di prima approssimazione può senza contestazioni infatti affermarsi che il punto di
rilevanza ai fini dell’attribuzione dello status di imprenditore commerciale, sia in via generale,
vuoi per il soggetto individuale che per quello collettivo, legato al momento in cui questi
manifesti, in via definitiva (così segnando l’incidenza del suo porsi nell’ambiente sociale) la
propria intenzione di svolgere un’attività economica organizzata per la produzione e lo
scambio di beni o di servizi. Ora però - mentre per il soggetto fisico individuale la definitività
di una tale scelta (che rende attuale uno dei plurimi fini virtualmente perseguibili dall’agente)
si realizza solo con l’inizio del concreto esercizio dell’attività stessa (ben potendo, anche
dopo l’esteriorizzazione della volontà di intraprendere quell’attività, il soggetto mutare il
proprio programma operativo, senza essere vincolato dalla precedente sua esternazione),
onde appunto la qualità di imprenditore commerciale si acquisisce in questo caso solo in
termini di effettività - diversamente, con riguardo all’ente collettivo, l’irreversibilità della
scelta si realizza per definizione, in un momento anteriore. L’indicazione dello scopo di
esercizio di attività commerciale, nell’atto costitutivo di società, già sovrappone infatti alla
pluralità dei fini possibili l’attualità ed effettività di quel fine specifico, che connota la società
stessa già con il suo venir in essere. Né può replicarsi che una tale conclusione sia autorizzata
solo per le società di capitali, dotate di personalità giuridica e non lo sia invece anche per le
società di persone (cui si conviene nel non riconoscere una analoga premessa di soggettività).
Infatti, anche per quel che attiene a dette ultime società, la pluralità dei soci, se pur non si
risolve nell’unità di una diversa entità giuridica, comunque si manifesta, nelle relazioni
esterne, nei termini di un gruppo solidale ed inscindibile. E se esiste il gruppo come tale, per
ciò stesso (e quindi, pure in questo caso, dal momento della sua costituzione) resta del pari
dissolta la pluralità virtuale dei fini dei singoli soci, nella attualità dello scopo commerciale
unificante, da essi prescelto. Resta di conseguenza in ogni caso irrilevante l’eventuale
mancato esercizio dell’attività commerciale posta nell’atto costitutivo, una volta che la società
è sorta ed esiste (fino a modifica statutaria) per quel fine. Il che è quanto in buona sostanza
ritenuto anche dalla Corte di Ancona che, in coerenza a tale premessa appunto ha negato
ingresso alla chiesta prova su tale ininfluente circostanza, con decisione che si sottrae
pertanto, sul punto, a censura.
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I.4 SOCIETÀ PER AZIONI CON SOCIO UNICO
Cass. 4 febbraio 2009, n. 2711: “Non fallisce il socio unico di società per azioni”.
La possibilità di dichiarare il fallimento del socio unico di società per azioni, in via di
estensione del fallimento della società, è stato oggetto di contrastanti opinioni. La
questione è ora risolta dal la nuova disposizione contenuta all’art. 147 l.fall ., che
circoscrive l’applicazione della ipotesi di estensione del fallimento sociale ai soli soci
illimitatamente responsabili di società in nome collettivo, di società in accomandita
semplice e di società in accomandita per azioni. La Cassazione chiarisce i motivi che,
anche nel vigore della previgente disciplina, escludevano la f allibilità del socio unico di
s.p.a.
L’art. 147 l.fall., nella parte in cui commina l’estensione del fallimento della società ai soci
illimitatamente responsabili, si riferisce a quelle società che, in base al tipo legale, sono
strutturalmente conformate in modo tale da comportare, nonostante l’autonomia
patrimoniale – o addirittura, la personalità giuridica, come nelle società in accomandita per
azioni – la responsabilità solidale illimitata dei soci o di una categoria di essi per tutte le
obbligazioni sociali. Tale norma non è invece estensibile ai soci occasionalmente responsabili
delle obbligazioni contratte per accadimenti specifici e storicamente delimitabili: come nel
caso del socio unico di s.p.a. (art. 2362 c.c.) e di s.r.l. (art. 2497 c.c.), secondo la normativa
previgente alla tipizzazione legale delle predette società in forma istituzionalmente
unipersonale.
L’art. 2362 c.c., che sanciva per l’unico azionista prima della riforma di cui al d.lgs. n. 6/03, la
perdita del beneficio della limitazione della responsabilità, va infatti configurato come norma
eccezionale, impositiva di una responsabilità latu sensu fidejussoria ex lege, per il periodo in cui
è venuta meno la pluralità dei soci. L’inapplicabilità dell’art. 147 l.fall. discende dal fatto che la
perdita del beneficio è solo temporanea, e cioè ristretta al periodo di concentrazione del
capitale nelle mani di un solo socio: con la conseguente dissonanza tra la responsabilità della
società per tutte le obbligazioni e quella del socio unico, limitata alle sole obbligazioni ratione
temporis solidali.
Tale distinzione potrebbe, in ipotesi, comportare un’insolvenza maturata in epoca
antecedente alla sopravvenuta unipersonalità; e perfino l’inesistenza assoluta di obbligazioni
la cui genesi sia ascrivibile al periodo di esposizione a responsabilità del socio (che si
configura, nello schema della norma, come una parentesi nella vita e nell’attività
imprenditoriale della società): con la conseguenza, invero, paradossale, secondo la tesi
propugnata dal ricorrente, di una fallibilità in estensione del socio unico, nonostante la
carenza, in concreto, dei presupposti di fatto per l’operatività dell’art. 2362 c.c. La
dichiarazione di fallimento, in quest’ottica, finirebbe con l’acquisire un’esclusiva valenza
sanzionatoria, di cui non v’è traccia nella lettera e nella ratio della norma. Al riguardo, non
appaiono decisivi i contrapposti argomenti addotti da una parte della dottrina per sminuire la
portata dirimente della limitazione temporale della responsabilità solidale illimitata. Si assume
che analoga limitazione sussiste nell’ipotesi di recesso del socio – che fallirebbe anche se
solidalmente obbligato per debiti maturati prima della cessazione del rapporto sociale, o nella
fattispecie di trasformazione in società di capitale di una società di persone già insolvente, il
cui fallimento si estenderebbe ai soci in origine illimitatamente responsabili, sebbene questi
rispondano delle sole obbligazioni sorte prima della trasformazione. O ancora, nell’ipotesi di
fusione di società di persone (insolvente) con una società di capitali che l’incorpori, dato che
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il beneficio della responsabilità limitata non retroagirebbe, liberando i soci illimitatamente
responsabili all’epoca del manifestarsi dell’insolvenza.
Sennonchè, il parallelismo con la fattispecie di cui all’art. 2362 c.c. è solo apparente.
In tutti i casi sopra menzionati, infatti, il limite temporale di responsabilità illimitata e solidale
del socio è solo quello finale: dies ad quem che segna la cessazione del rapporto sociale della
responsabilità solidale del singolo, per recesso (o morte), o per il passaggio dall’autonomia
patrimoniale imperfetta alla personalità giuridica della società (nella trasformazione o nella
fusione in una società di capitali). Tale limite unidirezionale, valido per i soli debiti sociali
sorti dopo gli eventi suddetti, lascia invece universale ed illimitata la responsabilità solidale del
socio per le obbligazioni pregresse della società: e cioè proprio per quelle che l’hanno
condotta all’insolvenza.
Per contro, la fattispecie di cui all’art. 2362 c.c. pone un doppio limite temporale: non solo un
dies ad quem finale, coincidente con il ritorno alla pluripersonalità – considerata, nel
sottosistema delle società di capitali, condizione normale prima della riforma, (anche se
l’unipersonalità non era necessariamente transeunte, a differenza che per le società di
persone: art. 2272, n. 4 c.c.) – ma anche un dies a quo iniziale dell’esposizione a responsabilità.
Questa non abbraccia, quindi, automaticamente l’intera massa di debiti maturati prima che
venisse meno la pluralità dei soci: in contrasto con l’assunzione di responsabilità per la
totalità delle obbligazioni pregresse, prevista, per contro, quale effetto legale dell’ingresso in
una società di persone del socio strutturalmente coobbligato in via solidale art. 2269 c.c.).
Se poi si sottopone a scrutinio penetrante la norma, si può fondatamente escludere che
sussista nella s.p.a. la stessa ratio dell’imputazione dell’insolvenza a titolo di responsabilità
oggettiva, sulla base dell’accettazione del rischio di impresa. Mentre infatti nei tipi
caratterizzati da responsabilità istituzionale dei soci, si può ravvisare, in effetti, una relazione
tra il dominio sull’impresa e la responsabilità illimitata che ne deriva; o quanto meno la
volontaria accettazione di un rischio oggettivo ed immanente – anche se il singolo socio resti,
di fatto, estraneo alla gestione della società: come, ad esempio, nel caso di un socio in nome
collettivo dimostratosi assenteista e passivo, che resta, non di meno, assoggettato al
fallimento -, non sembra che analoga ratio possa giustificare il fallimento del socio unico di
una società di capitali, la cui posizione può derivare da eventi del tutto indipendenti dalla sua
volontà (come ad esempio per recesso degli altri soci per una delle evenienze giustificative di
cui all’art. 2437 c.c.).
Ancor meno convincente è la tesi, pur affacciata in dottrina, che l’art. 2362 c.c., nel teso
originario, disegnasse una responsabilità non diversa da quella dei soci illimitatamente
responsabili della società di persone, in ragione di una opzione legislativa penalizzante
l’imprenditore individuale rispetto a quello collettivo: tesi, che parte da una sorta di manifesto
ideologico sull’indefettibilità della plurisoggettività, quale fondamento del beneficio della
personalità giuridica e dell’autonomia patrimoniale perfetta, smentita dall’evoluzione
legislativa che ha portato all’istituzione di società di capitali unipersonali: dapprima con il
d.lgs n. 88/93, in attuazione della direttiva CEE n. 667/89, introduttiva della s.r.l.
unipersonale, e poi con il d.lgs. n. del 2003.
In chiusura di analisi si può aggiungere che la tesi qui predicata sarebbe gravida di sviluppi
indefiniti, qualora il socio unico di una s.p.a. insolvente sia, a sua volta, una società di capitali
unipersonale; dando adito a fallimenti a catena.
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I.5 L’IMPRESA PUBBLICA
Tribunale di S. Maria Capua Vetere, 9 gennaio 2009: “Esclusione dal fallimento delle
società pubbliche”.
Secondo la consolidata giurisprudenza, nella qualificazione di un soggetto come pubblico
o come privato si deve dare pre valenza all a sostanza rispetto alla forma giuridica e,
pertanto, in presenza di determinati indici sintomatici, è possibile riconoscere natura
pubblica anche a società per azioni formal mente private. Questa soluzione è stata
ritenuta applicabile anche ai fini dell’applicaz ione dell’art. 1 l. fall., che esclude
dall’ assoggettamento a fallimento gli “enti pubblici”, così che non è soggetta a
fallimento la società a partecipazione pubblica avente natura formalmente privata, ma
sostanzialmente pubblica.
Ritiene questo Tribunale di condividere quanto sostenuto dalla difesa della resistente circa la
non assoggettabilità alla normativa fallimentare della ACSA CE/3 S.p.A. in ragione della sua
natura pubblicistica.
Invero, in ordine alla natura delle società di servizi a partecipazione pubblica (qual è nella
specie l’ACSA CE/3 S.p.A.) si registra una evoluzione giurisprudenziale che ha portato alla
valorizzazione degli aspetti sostanziali e dell’attività di tali società a discapito degli aspetti
formali e della veste giuridica assunta dalle stesse.
Al fine esporre i passaggi salienti di tale evoluzione giurisprudenziale, occorre partire dal
disposto di cui all’art. 1 del DLGS 165/01 a norma del quale per amministrazioni pubbliche
si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni
ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad
ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro
consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le
Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti
pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti
del Servizio sanitario nazionale, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche
amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo del 30 luglio 1999 n. 300.
La norma appena citata comprende, invero, un’elencazione di una serie di figure previste dal
sistema nell’ambito della quale si fa un generico riferimento, tra l’altro a “ tutti gli enti pubblici
economici” la cui individuazione dovrebbe essere effettuata dall’ordinamento positivo. Il
problema dell’individuazione dell’ente pubblico da parte dell’interprete non dovrebbe, quindi,
sorgere nell’ipotesi in cui sia l’ordinamento di diritto positivo ad affermare espressamente la
natura giuridica di un soggetto. Tuttavia, la Corte Costituzionale con la decisione del 28
dicembre 1993, n. 466 ha ritenuto che il controllo della Corte dei Conti sugli enti
sovvenzionati ordinariamente dallo Stato, nei quali, cioè, quest’ultimo conserva una
partecipazione esclusiva o maggioritaria al capitale azionario (art. 12, l. 21 febbraio 1958, n.
259), permanga anche dopo la privatizzazione formale degli enti pubblici, cioè dopo la mera
trasformazione in s.p.a. dei precedenti enti pubblici.
È la stessa Corte a ricordare che “la stessa dicotomia tra ente pubblico e società di diritto
privato sua sia andata di recente tanto in sede normativa che giurisprudenziale sempre più
stemperando..” L’argomento principale su cui ha fatto leva la Corte costituzionale è
costituito “dalla natura di diritto speciale” che va riconosciuta « a dette società e che viene a
emergere dal complesso della disciplina adottata al fine di regolare il processo di
“privatizzazione”: natura che risulta connotata [...] sia dalla costituzione che dalla struttura e
dalla gestione delle nuove società e che viene a specificarsi attraverso la previsione di norme
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particolari — differenziate da quelle proprie del regime tipico delle società per azioni — sia
in tema di determinazione del capitale sociale [...], sia in tema di esercizio dei diritti
dell'azionista (spettanti al Ministro del tesoro, ma previa intesa con altri Ministri [...] , sia
infine, in tema di patti sociali, poteri speciali, clausole di gradimento, modifiche statutarie,
quorum deliberativi nelle assemblee, limiti al possesso di quote azionarie da parte dei terzi
acquirenti [...] »; senza considerare « il vincolo esterno connesso al fatto che i ricavi derivanti
dalla cessione dei cespiti da dismettere vanno destinati alla riduzione del debito pubblico [...]».
Le conclusioni a cui si perviene sono in linea con il concetto di impresa pubblica elaborato a
livello comunitario, che prescinde dalla natura formale dell’ente.
Infatti, la nozione di impresa pubblica si riscontra nella direttiva della Commissione europea
n. 80/723/CEE del 25 giugno 1980 sulla trasparenza delle relazioni finanziarie fra gli Stati
membri e le loro imprese pubbliche: l’art. 2 di tale direttiva stabilisce che per impresa
pubblica si intende ogni impresa nei cui confronti i poteri pubblici possono esercitare,
direttamente o indirettamente, un’influenza dominante e che per poteri pubblici si devono
intendere lo Stato e gli altri enti territoriali.
Pertanto, elemento caratterizzante della nozione di impresa pubblica di derivazione
comunitaria è l’influenza dominante dei pubblici poteri; invece si prescinde dalla natura
giuridica, pubblica o privata, dell’ente.
Anche nella giurisprudenza nazionale sembra ormai essersi affermata una siffatta nozione di
impresa pubblica. Infatti, in una recente pronuncia il Consiglio di Stato ha affermato che
l’ammissione della quotazione in borsa non cancella la qualità di impresa pubblica, dal
momento che la nozione di impresa pubblica si fonda su requisiti di carattere sostanziale,
come la detenzione della maggioranza del capitale societario da parte dell’ente o degli enti
pubblici: ciò che conta è l’influenza dominante esercitata dai pubblici poteri sulla società (cfr.
Cons. Stato n. 2922 del 27.5.2002).
Non diversamente la giurisprudenza comunitaria valuta la rilevanza pubblicistica di un ente
prescindendo dalla sua natura formale, che può essere anche privatistica (cfr. Corte Giustizia
Ce 16.10.2003 e 15.5.2003). A tal proposito a livello comunitario si è elaborato il concetto di
“organismo di diritto pubblico”, che comprende anche enti formalmente privati.
In ogni modo, l’orientamento della prevalenza della sostanza sulla forma ai fini della
qualificazione di un soggetto come pubblico o privato è ormai consolidato nella
giurisprudenza nazionale, amministrativa (cfr. C. Stato n. 4711/’02; n. 1303/’02; n. 2855/’02;
n. 3090/’01; n. 1206/’01; n. 588/’00; n. 1948/’00; 3/’08 con riguardo alle ipotesi di in house
providing) e civile (cfr. SSUU n. 24/’99, 64/’99; n. 9096/’05).
In particolare, come rilevato dal Consiglio di Stato in recenti pronunce, ai fini
dell’individuazione “della effettiva natura del soggetto … al di là della sua formale qualificazione come
persona giuridica privata… rilevano tanto il carattere strumentale o meno dell’ente societario rispetto al
perseguimento di finalità pubblicistiche………. quanto l’esistenza o meno di una disciplina derogatoria
rispetto a quella propria dello schema societario, sintomatica, in particolare, della strumentalità della società
rispetto al conseguimento di finalità pubblicistiche” (Consiglio di stato sez. IV, 31.1.2006 n. 308)
La citata decisione n. 306/2008 è interessante in quanto contiene una esaustiva elencazione
degli elementi che occorre analizzare al fine di “appurare se ci si trovi dinanzi ad un caso di
privatizzazione solo formale dell’esercizio di pubbliche funzioni, tale da sottrarre la (…) ad un
inquadramento nella sfera del diritto privato…….”. Tra gli altri:
·
quali siano gli atti (anche di diritto privato) con i quali l’ente pubblico ha posto vincoli
funzionali di qualsivoglia natura all’attività del soggetto;
·
quali siano, a qual titolo ed a quanto ammontino le erogazioni di capitale pubblico in
qualunque modo e forma connesse all’attività gestionale dei soggetti;
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·
quali siano l’atto costitutivo, lo statuto, gli eventuali patti parasociali e gli atti di nomina
degli amministratori e degli organi di revisione e controllo;
·
se vi sia ingerenza, a qualunque titolo, anche indirettamente esercitata dall’ente
pubblico nella gestione del soggetto;
·
quali siano le partecipazioni finanziarie che l’ente pubblico detenga nel capitale di
soggetti comunque quotisti, anche per via indiretta, del soggetto in esame;
·
quali siano gli atti emanati dall’ente pubblico nell’esercizio dei diritti derivanti dalla
partecipazione al capitale sociale;
·
quali siano e se vi siano atti che prevedano casi in cui l’autonomia funzionale degli
organi societari sia a qualunque titolo, anche indirettamente, compressa mediante
subordinazione a vincoli, intese, direttive e simili di organi pubblici.
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CAPITOLO II
IL PRESUPPOSTO OGGETTIVO
SOMMARIO: II.1. Le società in liquidazione
II.1. LE SOCIETÀ IN LIQUIDAZIONE
Cass. 11 maggio 2001, n. 6550: “Esclusione dello stato d’insolvenza, rispetto a società
in liquidazione, qualora risulti una prevalenza dell’attivo sul passivo”.
La valutazione circa la ricorrenza dello stato di insolvenza dell’imprenditore assume
caratteri peculiari nella ipotesi in cui la società si trovi in stato di liquidazione, ovvero
quando allo scopo lucrativo si sia sostituito quello liquidatorio, funzionale al
soddisfacimento dei creditori sociali. In tale ipotesi l’accertamento in ordine alla
sussistenza dello stato di insolvenza deve quindi essere condotto con un criterio diverso
da quello usato in ipotesi di società in attività, ossia tenendo conto della capacità del
patrimonio sociale di estinguere l’esposizione debitoria e, quindi, della situazione
finanziaria statica. In particolare, in questo caso, lo stato di insolvenza si identifica
nella inferiorità dell’attivo patrimoniale rispetto all’ammontare dei debiti.
Con il primo motivo di ricorso il Fallimento ricorrente lamenta la violazione e falsa
applicazione dell’art. 5 L.F. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.
Rileva che erroneamente la Corte territoriale ha escluso la sussistenza dello stato di
insolvenza di una società in liquidazione quando l’attivo patrimoniale, risultante dal bilancio,
benché illiquido, sia superiore al passivo, considerato che la società posta in liquidazione non
si propone di rimanere sul mercato.
Tale statuizione è sicuramente errata ed in contrasto con il concetto di insolvenza elaborato
dalla giurisprudenza di legittimità e di merito.
Con il secondo motivo assume che la statuizione della Corte distrettuale è certamente errata
in quanto
a) qualora la società in liquidazione, già insolvente, non venisse espulsa dal mercato
verrebbe frustrata una delle ragioni che giustificano l’istituto stesso del fallimento, consistente
appunto nell’eliminazione dal mercato delle aziende non sane, sotto il profilo economico;
b) il mancato fallimento inoltre frustrerebbe il principio della par condicio in quanto
legittimerebbe pagamenti preferenziali e ritarderebbe la determinazione del periodo sospetto;
c) non è esatto che la società in liquidazione abbia limitata capacità di intraprendere posto
che il superamento di tale limite potrebbe sempre essere ratificato dall’assemblea e potrebbe
comunque dare luogo ad un vistoso volume di affari, pari a quello di una società in attività,
sia pure nel rispetto dell’art. 2449 c.c.;
d) la liquidazione è sempre revocabile dall’assemblea e ciò renderebbe la società stessa
arbitra del proprio fallimento.
Con il terzo motivo deduce che non sempre il valore finale dell’attivo corrisponde al valore
stimato talché qualora il valore finale si dimostrasse inferiore a quello stimato resterebbe il
solo risultato perverso di un aggravamento del dissesto, con ulteriore falcidia delle ragioni dei
creditori.
Nel caso in esame la Corte di merito ha inoltre ritenuto l’inesistenza dello stato passivo sulla
base di una consulenza prodotta dalla società fallenda e non contestata dal creditore istante,
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senza considerare che qualora la consulenza fosse stata contestata avrebbe dovuto procedere
ad una consulenza estimativa d’ufficio, non ammissibile nel giudizio di opposizione alla
sentenza di fallimento, da tutti reputato come processo a prove costituite.
Con il quarto ed ultimo motivo assume che la sentenza della Corte di Cassazione n.
3321/1996 è stata fraintesa dal giudice di secondo grado.
Nel caso deciso con l’indicata sentenza la Corte Suprema ha affermato, con riferimento al
caso di specie, che non si poteva tenere conto delle prospettive dinamiche della società ma ci
si doveva attenere solo alla situazione finanziaria statica.
Pertanto per le società in liquidazione la Corte Suprema ha introdotto, al contrario di quanto
ritenuto dalla Corte territoriale, un criterio più rigido, posto che ha escluso si potesse tenere
conto del correttivo mitigatore della “crisi transeunte”.
Il ricorso è infondato e va pertanto respinto.
Invero riguardo al primo motivo si osserva che questa Corte Suprema ha già ritenuto che
l’insolvenza di una società in liquidazione, al contrario di quanto avviene per le società in
piena attività, deve escludersi ogni qual volta l’ammontare dell’attivo patrimoniale sia
superiore all’ammontare dei debiti e ciò perché la società in liquidazione non è più destinata
ad operare sul mercato, talché non è più necessario che disponga di credito e risorse, e quindi
di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni che via via contrae, dovendo solo
liquidare il proprio attivo, per estinguere prima le obbligazioni pendenti e quindi la società
stessa (Cass. civ. sez. I 10.4.1996 n. 3321).
A tale giurisprudenza si ritiene di dover dare continuità, non avendo il ricorrente dedotto
elementi di giudizio idonei a giustificare la modifica dell’indicata decisione.
Invero va ribadito e rilevato che, a seguito della delibera di messa in liquidazione della
società, si determina un mutamento dello scopo sociale nel senso che questo non consiste più
nel fine di lucro, che connota l’attività delle società commerciali, ma resta limitato solo alla
definizione dei rapporti pendenti, (Cass. civ. sez. I, 8.2.1974 n. 365) ed inoltre che ai
liquidatori ai sensi dell’art. 2279 c.c. è fatto divieto di intraprendere nuove attività, con
responsabilità personale ed illimitata, nell’ipotesi di violazione di tale divieto, peculiarità che
giustificano l’adozione di un criterio di qualificazione dello stato di insolvenza diverso da
quello valido per le società in piena attività.
Il primo motivo va quindi respinto.
Parimenti infondato è altresì il secondo motivo articolato in più censure che vanno
partitamente esaminate.
In relazione alla prima censura si osserva, al contrario di quanto assunto dal ricorrente, che la
finalità principale della dichiarazione di fallimento è quella di assicurare ai creditori la par
condicio, nel senso che tutti devono concorrere al soddisfacimento del proprio credito in ugual
misura, tenuto conto dell’ammontare dell’attivo fallimentare, e che costituisce solo motivo
residuale l’espulsione delle società commerciali insolventi dal mercato.
L’indicata finalità principale non può ritenersi elusa, nelle ipotesi, quali quelle in esame, in cui
il giudice di merito abbia accertato, con valutazione in fatto, che l’attivo patrimoniale sia
sufficiente a consentire il pagamento di tutti i debiti, posto che in tal caso, e solo in tal caso,
la liquidazione della società assolve a finalità analoga a quella perseguita con la dichiarazione
di fallimento, consistente appunto nel garantire il pagamento di tutti i debiti, con uguale e
totale soddisfazione dei creditori. Nessuna violazione della par condicio può quindi ravvisarsi
nella decisione in esame. La liquidazione della società, soddisfatte ed estinte le obbligazioni
pendenti, porta inoltre allo scioglimento della società stessa, con conseguente sua
eliminazione dal mercato, così come sarebbe avvenuto nell’ipotesi di dichiarazione di
fallimento.
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Né le esposte argomentazioni possono ritenersi scalfite dalla considerazione che ben
potrebbe l’assemblea dei soci revocare la decisione di liquidazione della società,
determinando una situazione di disparità fra i creditori soddisfatti ed i creditori rimasti esclusi
dai pagamenti.
Invero trattasi di una situazione non normalmente ricorrente, in relazione alla quale
l’ordinamento prevede dei correttivi, costituiti dall’immediato fallimento della società,
riprendendo vigore il tradizionale concetto di insolvenza, con possibilità di revoca dei
pagamenti effettuati, e dalla previsione di bancarotta preferenziale a carico dei liquidatori e
dei soci che abbiano agito in mala fede.
La prima articolata censura va quindi disattesa.
Irrilevante deve ritenersi poi la doglianza relativa alla possibilità che i liquidatori contraggano
rilevanti debiti nel periodo di durata della liquidazione.
Invero, come già detto, a seguito della delibera di liquidazione muta lo scopo sociale della
società talché i liquidatori, pena la responsabilità personale ed illimitata, possono contrarre
solo debiti necessari per il raggiungimento dello scopo residuo, consistente come più volte
precisato, nella definizione delle obbligazioni pendenti.
Pertanto l’argomento in questione si configura come una mera ipotesi che può concretizzarsi
solo nel caso di patologia del sistema e che pertanto non può assumere rilevanza in una
situazione di normalità giuridica.
Anche il secondo motivo va quindi respinto.
Inammissibile deve al contrario ritenersi il terzo motivo.
Invero il Fallimento ricorrente, con la doglianza contenuta nel motivo in esame, prospetta
una mera ipotesi non riferibile al caso di specie, avendo il giudice di merito accertato, con
valutazione in fatto, non censurabile nel giudizio di cassazione, che l’attivo della soc.
Meridionale Prefabbricati e della soc. Irpinia Sviluppo era abbondantemente sufficiente a
coprire tutti i debiti, circostanza questa fondamentale, come già precisato, ai fini
dell’applicabilità alle società in liquidazione del concetto di insolvenza in precedenza
enunciato.
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CAPITOLO III
LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO
SOMMARIO: III.1 Il fallimento di ufficio - III.2. Il registro dei falliti.
III.1 IL FALLIMENTO DI UFFICIO
Cass. 26 febbraio 2009, n. 4632: “Il tribunale fallimentare non può sollecitare il
pubblico ministero a proporre ricorso di fallimento”
A seguito della riforma dell a legge fallimentare, è stato soppressa la possibilità per il
tribunale fallimentare di dichiarare il fal limento di ufficio dell’imprenditore.
L’interesse pubblico all’attivazione della procedura è assicurata dall a possibilità per il
pubblico ministero di proporre ricorso di fallimento; a quest’ultimo, ai sensi dell’art. 7
n. 2 l.fall., il giudice civile può segnalare la notizia dell’insolvenza dell’imprenditore,
se acquisita nel corso del procedimento che si celebra dinanzi a lui. La Cassazione
esamina la questione se il tribunale fallimentare, una volta investito da un creditore
dell’istanza di f allimento di un debitore, ove tal e istanza sia rinunziata dal creditore
stesso, possa lui stesso sollecitare il pubblico ministero a propo rre l’istanza. Tale
ipotesi è esclusa dalla Corte, reputandosi che nella figura del giudice titolare di un
procedimento civile indicato dall’art. 7 n. 2 non possa ricomprendersi il tribunale
fallimentare già investito del ricorso di fallimento del medesimo imprenditore, e ciò per
assicurare la assoluta terzietà ed imparzialità de l giudice che poi è chiamato a decidere
sulla nuova istanza del pubblico ministero.
Il primo motivo censura la sentenza impugnata laddove ha ritenuto indebita la segnalazione
al pubblico ministero da parte del tribunale fallimentare – e specificamente del giudice
delegato della istruttoria per l’apertura della procedura concorsuale – al fine dell’esercizio
della iniziativa che l’art. 7 gli attribuisce.
La corte territoriale, dopo aver rilevato che l’art. 6 l.fall. riformata ha soppresso la possibilità
che la procedura sia aperta di ufficio, lasciando l’iniziativa al riguardo al debitore, al creditore
ed al pubblico ministero, ha considerato che la formulazione del successivo art. 7 è tale da
escludere che l’iniziativa di quest’ultimo possa essere sollecitata dallo stesso tribunale
fallimentare, il quale non può procedere alla dichiarazione di fallimento, una volta che sia
intervenuta la desistenza del creditore istante; e ciò al fine di assicurare il rispetto del
principio del giusto processo, come voluto dal testo attuale dell’art. 111 cost; ed ha così
ritenuto che la norma “laddove parla di situazioni di insolvenza emerse nel corso del
procedimento civile, si riferisce ad ogni giudizio civile diverso da quello della dichiarazione di
fallimento”, con l’effetto che la dichiarazione resa “ risulta affetta da nullità assoluta”.
Oppone il ricorrente che la norma dell’art. 7 n. 2 l fall. non consente distinzioni all0’interno
di un procedimento civile, e che “qualsiasi giudice civile, nel corso di qualsivoglia
procedimento civile, sia abilitato alla segnalazione di cui si tratta.
Argomenta, inoltre, sul piano della interpretazione letterale, dalla sostituzione operata dalla
novella dell’espressione “giudizio civile” presente nel testo ante riforma dell’art. 8 (soppresso
dal d.lgs. n.5/06) con quella “ procedimento civile” impiegata nell’art. 7 n. 2, per rilevare che
la più ampia formula giova d’includervi qualunque procedimento davanti ad organi della
giurisdizione e di qualsivoglia natura; e trae ulteriore conforto alla tesi impugnatoria dalla
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Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo recante la riforma organica della
disciplina delle procedure concorsuali, secondo cui “la soppressione della dichiarazione di
fallimento di ufficio ... risulta bilanciata dall’affidamento al pubblico ministero del potere di
dar corso alla istanza di fallimento su segnalazione qualificata proveniente dal giudice al
quale, nel corso di un qualsiasi procedimento civile, risulti l’insolvenza di un imprenditore;
quindi anche nei casi di rinuncia (cd. desistenza) al ricorso per dichiarazione di fallimento da
parte dei creditori istanti”.
Aggiunge il ricorrente che, sebbene la corte costituzionale avesse ripetutamente ritenuto che
l’iniziativa officiosa non fosse lesiva del fondamentale principio di imparzialità-terzietà del
giudice, quando il procedimento è strutturato in modo che egli conservi il requisito di
soggetto super partes rispetto agli interessi coinvolti – ciò verificandosi “ove la conoscenza di
una situazione di fatto, in ipotesi riconducibile allo stato di insolvenza, derivi ... da una fonte
qualificata perchè formalmente acquisita nel corso di un procedimento del quale il giudice sia,
come tale, investito” – il legislatore della novella ha preferito cancellare del tutto la previsione
del fallimento di ufficio risolvendo in tal modo ogni possibile contrasto con il principio del
giusto processo sancito dal’art. 111 cost., e bilanciando tale soppressione con l’affidamento al
pubblico ministero del potere di domandare il fallimento, su segnalazione qualificata
proveniente dal giudice al quale, nel corso di un qualsiasi procedimento civile, risulti
l’insolvenza dell’imprenditore.
E da ciò fa derivare che la giudice fallimentare, come a qualsiasi giudice civile, sia residuato
un potere di segnalazione, e ad un soggetto terzo, il pubblico ministero, il potere di
domandare il fallimento, esso essendo l’unico organo pubblico destinatario delle segnalazioni
provenienti dai giudici, ed il solo che, nella sua riconosciuta veste di par5te processuale, può
richiedere il fallimento depositando apposito ricorso; con l’effetto che l’avvio del
procedimento non è più in alcun modo rimesso all’impulso di un atto officioso.
Nessuna delle argomentazioni esposte può essere condivisa, e va pertanto data risposta
negativa al quesito suesposto, in quanto finiscono per svuotare le ragioni della premessa
relativa alla perdita del potere del giudice di aprire il fallimento di ufficio, che lo stesso
ricorrente identifica nella esigenza di terzietà ed imparzialità del’organo decidente, rimarcate
dal novellato testo del richiamato art. 111, dal legislatore apprezzate come essenziali ai fini del
corretto svolgimento del procedimento prefallimentrare, riportato nell’area dei giudizi ad
iniziativa di parte, secondo il principio nemo iudex sine actore, che governa la giurisdizione,
proprio al fine di evitare che il giudice che decide possa anche solo apparire come l’attore del
procedimento sul quale giudica.
Ed è rilievo, questo, che nasce dalla constatazione del superamento che il legislatore della
riforma della legge fallimentare ha inteso compiere della soluzione offerta dalla Consulta
(Corte cost. 15.7.2003 n. 240), nell’evidente intendimento di escludere, in modo assoluto,
qualunque dubbio sulla posizione di terzietà del giudice chiamato a rendere la decisione,
secondo il rigoroso dettato della carta costituzionale, concepito al fine di rendere giusto il
processo, ben oltre il requisito della imparzialità, giacchè la terzietà suppone che nella vicenda
portata al suo esame egli non abbia assunto iniziative, che lo abbiano in qualche modo
impegnato in valutazione che quel carattere pongano in discussione.
A tale fondamentale principio la riforma della legge fallimentare ha inteso assegnare un’ampia
e significativa portata, che ha riguardato non solo la fase prefallimentare, ma l’intera
procedura che segue alla sentenza dichiarativa, riducendo i margini dell’intervento del giudice
nel corso di essa ed incidendo anche nella procedura di concordato fallimentare ed in quella
di concordato preventivo, tutte allineate sotto il medesimo perentorio precetto della
soppressione della iniziativa di ufficio, in quanto diretta all’apertura del fallimento, come
risulta dal disposto novellato dell’art. 147 l.fall. e dagli artt, 162, 173 e 180, ristrutturati dal
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decreto correttivo 12.9.2007 n. 169, il primo dei quali non consente – a differenza del testo
ante riforma – l’estensione di ufficio del fallimento della società ai soci illimitatamente
responsabili, che tali risultino dopo la sentenza dichiarativa, e gli altri stabilendo che, nelle
ipotesi in cui non ricorrano i presupposti contemplati dagli artt. 160 e 161, ovvero in quelle
considerate dall’art. 173, di occultamento o dissimulazione di parte dell’attivo, di dolosa
omissione della denunzia di uno o più crediti o ancora di esposizione di passività
insussistenti, nonchè di commissione di altri atti di frode (art. 180, ult. comma), il fallimento
possa essere dichiarato solo “su istanza del creditore o su richiesta del pubblico ministero,
accertati i presupposti di cui agli artt. 1 e 5” (art. 162, 1° comma; art. 173 2° comma; art. 180,
ult. comma).
E la circostanza che in siffatte situazioni nessuna segnalazione del giudice civile è
contemplata, induce a ritenere che la previsione dell’art. 7 non possa avere la espansione
voluta dal ricorrente, che altrimenti non vi sarebbe stata ragione per non averla considerata
nelle fattispecie surrichiamate, in cui le condizioni per la estensione a terzi ovvero per il
passaggio, con l’apertura del fallimento, dalla procedura alla maggiore sono percepite
direttamente dal tribunale e tuttavia non consentono, in difetto di espresso disposto
normativo, di essere da esso segnalate all’organo cui è demandata l’iniziativa pubblica,
peraltro nell’ipotesi dell’art. 147 l.fall. nemmeno considerata.
E basta rilevare, perchè risulti maggiormente apprezzata la portata della interdizione al
tribunale, che sia chiamato a decidere l’apertura del fallimento, di iniziative che, comunque,
portino o siano suscettibili di portare all’attivazione del procedimento prefallimentare, che,
anche quando la risoluzione o l’annullamento del concordato preventivo siano stati
pronunciati, non è più consentito al tribunale di dichiarare di ufficio il fallimento (il d.lgs.
correttivo n. 169/07 ha soppresso l’ultimo comma dell’art. 186 del testo della novella n. 5/06
che tanto contemplava; e l’ultimo comma del testo attuale, dopo il correttivo, richiama gli art.
137 e 138, con la opportuna specificazione “in quanto compatibili” che non era presente nel
precedente); a differenza di quanto stabiliscono per il concordato fallimentare gli artt. 137 e
138, rispettivamente quarto e secondo comma, che alla sentenza che risolve o annulla il
concordato attribuisce la funzione di riaprire il fallimento, essi costituendo un’ulteriore
conferma, sul piano della rilevanza che ha la comparazione dei testi legislativi in esame, che la
istanza di parte sia sempre necessaria per l’apertura della procedura e che i tribunale non
possa mai attivarla; tant’è che l’effetto di quegli eventi, che riportano dal concordato
fallimentare al fallimento, è automatico e non determina una nuova procedura ma la
riapertura di quella già pendente, chiusa dal decreto di omologazione sotto la condizione del
regolare adempimento degli obblighi concordatari e quella che conduce all’annullamento.
Se dunque non è l’avvenuto accertamento dello stato di insolvenza – nè quello del
presupposto soggettivo – che possa giustificare la predetta segnalazione in fattispecie in cui
una procedura concorsuale è già pendente ed è stata avviata, essendo stati entrambi i
presupposti (o quanto meno,m per ciò che attiene a quello oggettivo, la crisi di impresa)
verificati, e non ha potuto raggiungere il suo epilogo naturale, meno ancora risulta possibile
l’inclusione del procedimento avviato per la dichiarazione di fallimento, non procedibile ed
anzi estinto per rinunzia del ricorrente, nell’area del procedimento civile considerata dall’art. 7
n. 2 l.fall.
Alla luce di tali rilievi perde valore il dato letterale proposto dal ricorrente, che
“procedimento civile” è anche quello che porta alla dichiarazione di fallimento,
evidentemente muovendo dalla considerazione che nella triplice generale categoria dei
procedimenti giurisdizionali, penale, amministrativo e civile, quello fallimentare non abbia
possibilità di collocarsi diversa da quest’ultima, e finisce anzi per acquistare il valore di segno
contrario suggerito dalla testè prospettata comparazione.
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Ma l’argomento perde valore anche alla stregua del vecchio disposto dell’art. 8 (abrogato)
l.fall. – il quale stabiliva che la insolvenza accertata “nel corso di un giudizio civile ... di un
imprenditore che sia parte del giudizio” fosse dal giudice portata a conoscenza del tribunale
competente per la dichiarazione di fallimento – confrontato con l’art. 7 citato.
Premesso che la sostituzione del “procedimento” al “giudizio” è significativa della esigenza di
utilizzare una espressione suscettibile di comprendere qualunque tipo di attività
giurisdizionale – di cognizione, di esecuzione, sommaria, cautelare, camerale, monitoria –
come peraltro era ius receptum, in relazione al testo ante riforma – e non appare, comunque,
idonea ad includere l’organo della giurisdizione investito della decisione, anche quando
l’abbia già resa in termini di improcedibilità o di estinzione del procedimento, a causa della
posizione di terzietà che il legislatore ha avuto cura di tutelare, come è emerso dalla rassegna
delle disposizioni esaminate, va considerato che la espressione “imprenditore parte del
procedimento” non è rifluita nell’attuale disposto del n. 2 dell’art. 7; circostanza che,
unitamente a quella che l’insolvenza debba “risultare” e non essere oggetto di specifico
accertamento, porta ulteriormente a concludere che l’oggetto del procedimento civile, nel
quale trova occasione per essere esercitato il potere – dovere di segnalazione, non possa
essere quello per la dichiarazione di fallimento.
In sostanza se nella legge fallimentare ante riforma, in cui era consentita l’iniziativa di ufficio,
il riferimento all’imprenditore “parte del giudizio” non lasciava dubbi che il procedimento
non fosse quello prefallimentare, non essendo concepibile la segnalazione del tribunale a sè
medesimo, la soppressione di tale riferimento appare giustificata dalla necessità di evitare che,
con il venir meno della iniziativa di ufficio, possa essere ritenuta comunque legittima la
segnalazione, proprio alla stregua del fatto che il procedimento prefallimentare ha come parte
l’imprenditore soggetto al fallimento.
Formulazione, quella attuale, che trova invece difficoltà ad essere applicata all’ipotesi che il
tribunale fallimentare segnali al pubblico ministero l’insolvenza che incidentalmente “risulti”
nei riguardi di soggetti diversi da quelli destinatari della iniziativa per la dichiarazione di
fallimento, non trovando in tal caso la segnalazione ostacolo nei principi che governano la
giurisdizione e nel carattere di terzietà del giudice, non essendo egli investito, in relazione ad
essi, della funzione di giudicante e non essendo, dunque, impegnato in accertamenti neanche
sommari, che lo trovino incompatibile a decidere, quando la segnalazione sia assecondata
dalla richiesta del pubblico ministero, al punto da risultare o comunque apparire
autosegnalazione e realizzare la soppressa iniziativa di ufficio, in elusione della volontà del
legislatore.
Nè può obiettarsi che la astensione ovvero la ricusazione costituiscano il rimedio a tale
evenienza, giacchè, al di là ella difficoltà di inserire la fattispecie di cui si tratta nell’ipotesi
della astensione obbligatoria, che sola giustifica la ricusazione, non sembrano ipotizzabili –
sul piano sistematico, a causa degli interventi compiuti con la novella prima e con il
correttivo dopo e con il disposto dell’art. 25 penultimo comma, l.fall., secondo cui “il giudice
delegato non può trattare i giudizi che abbia autorizzato nè può far parte del collegio
investito del reclamo proposto contro i suoi atti”, che a quegli interventi si correla –
interpretazioni che legittimino pratiche operative che non siano rigorosamente consonanti
con il rispetto del principio di terzietà, oltre che di imparzialità del giudicante, e che trovino
soltanto negli artt. 51 e 52 c.p.c. ragione per essere contrastate.
Meno ancora può giovare alla tesi del ricorrente l’argomento desunto dalla Relazione
illustrativa dello schema di decreto legislativo recante la riforma organica della disciplina delle
procedure concorsuali, in cui, con riguardo all’art. 7 n. 2, nel considerare che la soppressione
della dichiarazione di fallimento di ufficio risulta bilanciata dall’affidamento al pubblico
ministero del potere di dare corso alla istanza di fallimento su segnalazione qualificata
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proveniente dal giudice civile, al quale nel corso di un qualsiasi procedimento civile risulti
l’insolvenza di un imprenditore, ha ipotizzato “anche i casi di rinunzia (cd. desistenza) al
ricorso per dichiarazione di fallimento”.
Al di là del valore giuridico che può assegnarsi alla Relazione accompagnatoria di uno schema
di legge, quanto in generale ai suoi lavori preparatori, e a prescindere dalla esemplificazione
concreta, che non è espressa da alcun dato normativo, ma semmai costituisce una proposta di
interpretazione estensiva della norma, che con la relazione si è inteso offrire, va considerato
che il segno ancora più marcato dato dal legislatore con i successivi interventi del decreto
correttivo n. 169/07 sugli artt. 162, 173, 180 e 186, al punto da rendere totalmente estranea al
sistema l’ingerenza del giudicante sulla nascita o sulla ultrattività del procedimento, ha
portato al ridimensionamento di quell’elemento, rimarcando in modo netto il disegno di
sottrarre al tribunale qualunque tipo di iniziativa e di rinunziare totalmente all’avallo
conservativo del potere officioso, offerto dal giudice delle leggi che, con sent. 15.7.2003 n.
240, ha ritenuto che la posizione di terzietà è assicurata ogni volta che il procedimento per
dichiarazione di fallimento sia sollecitato ab externo ed ab externo sia acquisita la notizia
decoctionis.
Argomento questo che giova persino, nel mutato quadro normativo, ad assegnare alle
decisioni sul punto della Consulta, quand’anche fossero di attuale applicazione, un rilievo
contrario alla tesi sostenuta dal ricorrente, in quanto evidenziano il vulnus che riceverebbe il
principio di terzietà del giudice, allorchè nel procedimento in cui è chiamato a rendere
giustizia, che sia estinto per rinunzia, anzicchè dichiararla e così dichiararsi functus munere
suo, per essere venuto meno l’impulso dell’attore, si impegnasse a rivitalizzarlo, chiamando
sostanzialmente in causa a surrogare l’iniziativa della parte privata l’organo pubblico
formalmente ad essa abilitato, in tal modo agendo e comunque apparendo “come l’attore del
procedimento nel quale giudica”.
III.2 IL REGISTRO DEI FALLITI
Corte cost. 22 febbraio 2008, n. 39: “Le incapacità personali per il fallito derivanti
dalla sentenza dichiarativa di fallimento sono illegittime”
La Corte costituzionale, esaminando la legittimità costituzionale delle norme della le gge
fallimentare antecedenti alla riforma, ha affermato l’illegittimità costituzionale delle
stesse, per l a parte in cui determinavano, a carico del f allito, una serie di incapacità,
connesse alla mera iscrizione del soggetto nel registro dei falliti (ora soppresso). E ciò
in quanto lesive dei diritti della persona, perché incidenti sulla possibilità di sviluppare
le relazioni col mondo esteriore e foriere, quindi, di un'ingerenza non necessaria in una
società democratica.
E’ necessario premettere che, secondo la giurisprudenza formatasi prima dell’abrogazione
dell'art. 50 del r.d. n. 267 del 1942 e nella vigenza del testo originario dell'art. 142 del
medesimo, il riacquisto dei diritti civili e politici, la cui perdita era automaticamente connessa
allo stato di fallito, veniva, come si è detto, condizionato al favorevole esito del giudizio di
riabilitazione.
Va, inoltre, sottolineato che nell'ordinanza di rimessione, anche con specifico riferimento alle
peculiarità della vicenda sulla quale il giudice amministrativo deve pronunciarsi, i sospetti di
incostituzionalità si appuntano non soltanto sull'automatismo delle incapacità del fallito ma
anche sul loro protrarsi ben oltre la chiusura della procedura concorsuale.
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Così identificati i termini della questione soggetta a scrutinio, se ne rileva la fondatezza per
contrasto con gli artt. 117, primo comma, e 3 della Costituzione.
Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l'altro, che,
con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere
considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste
nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti,
salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi.
Ora, riguardo alle incapacità personali connesse allo stato di fallito, con specifico riferimento
agli artt. 50 e 143 della legge fallimentare all'epoca vigente, la Corte di Strasburgo, con
numerose pronunce (si veda, ex plurimis, la sentenza 23 marzo 2006), ha ritenuto le
disposizioni della legge fallimentare lesive dei diritti della persona, perché incidenti sulla
possibilità di sviluppare le relazioni col mondo esteriore e foriere, quindi, di un'ingerenza
«non necessaria in una società democratica».
La Corte di Strasburgo ha affermato, in particolare, che «a causa della natura automatica
dell'iscrizione del nome del fallito nel registro e dell'assenza di una valutazione e di un
controllo giurisdizionali sull'applicazione delle incapacità discendenti dalla suddetta iscrizione
e del lasso di tempo previsto per ottenere la riabilitazione, l'ingerenza prevista dall'art. 50
della legge fallimentare nel diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti non è necessaria
in una società democratica, ai sensi dell'art. 8, § 2, della Convenzione», e ha dichiarato
l'avvenuta violazione del citato art. 8, dopo aver precisato che la nozione di “vita privata”
presa in considerazione da tale norma, «non esclude, in linea di principio, le attività di natura
professionale o commerciale, considerato che proprio nel mondo del lavoro le persone
intrattengono un gran numero di relazioni con il mondo esteriore».
Nel contempo le disposizioni censurate, in quanto stabiliscono in modo indifferenziato
incapacità che si protraggono oltre la chiusura della procedura fallimentare e non sono,
perciò, connesse alle conseguenze patrimoniali della dichiarazione di fallimento ed, in
particolare, a tutte le limitazioni da questa derivanti, violano l'art. 3 Cost. sotto diversi profili.
Esse, infatti, poiché prevedono generali incapacità personali in modo automatico e, quindi,
indipendente dalle specifiche cause del dissesto – così equiparando situazioni diverse – e in
quanto stabiliscono che tali incapacità permangono dopo la chiusura del fallimento,
assumono, in ogni caso, carattere genericamente sanzionatorio, senza correlarsi alla
protezione di interessi meritevoli di tutela.
Deve essere, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale degli artt. 50 e 142 della legge
fallimentare di cui al r.d. n. 267 del 1942, nel testo vigente prima della riforma di cui al d.lgs.
n. 5 del 2006, in quanto stabiliscono che le incapacità personali derivanti al fallito dalla
dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale.
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CAPITOLO IV
IL CURATORE
SOMMARIO: IV.1. Azione di responsabilità nei confronti degli amministratori della società
fallita
IV.1 AZIONE
DI RESPONSABILITÀ NEI CONFRONTI DEGLI AMMINISTRATORI DELLA
SOCIETÀ FALLITA.
Cass. 24 marzo 1999, n. 2772: “Esercizio congiunto delle azioni di responsabilità
spettanti alla società ed ai creditori”.
L’azione esercitata dal curatore per f ar vale re la responsabilità degli amministratori e
dei sindaci della società fallita, ai sensi dell’art. 146 l.fall. e 2394 bis c.c. (al pari di
quella esercitata dai commissari liquidatori di un’impresa in amministrazione
straordinaria, ex art. 3, 6º comma, d.l. 26/79 e 206 l.fall., come nel caso esaminato
dall a Cassazione) ha natura contrattuale e carattere unitario ed inscindibile, risultando
frutto della confluenza in un unico rimedio delle due diverse azioni di cui agli art.
2393 e 2394 c.c., con la conseguenza che le due azioni civilistiche devono ritenersi
contemporaneamente proposte, sicché la responsabilità degli amministratori e dei sindaci
può essere legittimamente dedotta ed affermat a tanto con riferimento ai presupposti
dell’azione spettante ai creditori sociali (insufficienza patrimoniale cagionata
dall’inosservanza di obblighi di conservazione del patrimonio sociale) quanto con
riferimento ai presupposti dell’azione sociale (danno prodotto all a società da ogni
illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione di doveri imposti dall a legge
e dall’ atto costitutivo, ovvero inerenti al diligente adempimento delle rispettive
funzioni); alla natura contrattuale dell’azione consegue, ancora, che, mentre su chi la
promuove grava esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il
nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombe, per converso, su
amministratori e sindaci l’onere di dimostrare la non imputabililità a sé del fatto
dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati,
dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.
Nel caso di specie, “gli amministratori sono stati chiamati a rispondere dei danni conseguenti
alla violazione dei doveri e dei divieti stabiliti dalla legge in presenza della causa di
scioglimento costituita dall’integrale perdita del capitale sociale (art. 2449 in relazione al
precedente art. 2448 c.c.; i sindaci, a loro volta, a rispondere in solido delle conseguenze delle
violazioni degli amministratori, in quanto i danni non si sarebbero verificati se avessero
vigilato in conformità degli obblighi derivanti dalla loro carica (art. 2407 in relazione all'art.
2403)”, che pone la questione della natura - contrattuale o non - dell'azione di responsabilità,
esercitata dai Commissari dell'Amministrazione straordinaria della Società Cogolo, e quella,
conseguente, della distribuzione dell'onere della prova in ordine all'accertamento della
responsabilità di amministratori e sindaci ai sensi degli artt. 2392 e 2403 - 2407 cod. civ.
Che l’azione esercitata nella specie - ai sensi del combinato disposto degli artt. 3 comma 6 d.l.
n. 26 del 1979 cit. e 206 comma 1 legge fall., il quale si riferisce alla “azione di responsabilità
contro gli amministratori e i componenti degli organi di controllo...a norma degli artt. 2393 e
2394” cod. civ. - abbia natura contrattuale, discende dai principi più volte affermati da questa
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Corte e correttamente applicati dai Giudici d’appello. Infatti, con riferimento all'azione
prefigurata dall'art. 146 commi 2 e 3 legge fall. - cui quella esercitata nella specie può essere
accostata sia per la ratio dell’istituto dell'amministrazione straordinaria, sia per lo scopo che
l'azione stessa si prefigge - è stato constantemente ritenuto che le azioni di responsabilità nei
confronti degli amministratori di società (spettanti a quest'ultima ed ai creditori sociali ai
sensi, rispettivamente, degli artt. 2392, 2393 e 2394 cod. civ.), per effetto del fallimento della
società e della conseguenziale legittimazione esclusiva del curatore al loro esercizio,
confluiscono in un'unica azione, che, pur essendo ontologicamente correlata ad esse (e non
sorgendo, perciò, ex novo in capo al curatore), assume carattere unitario ed inscindibile, sia
perché cumula necessariamente i presupposti e gli scopi di ambedue le predette azioni, sia
perché è sempre finalizzata al risultato di acquisire all'attivo fallimentare ciò che sia stato
sottratto al patrimonio sociale per fatti imputabili agli amministratori; con la conseguenza
che, allorquando il curatore agisce in base all'art. 146 cit., le due azioni ivi previste debbono
ritenersi contemporaneamente proposte, sicché la responsabilità degli ex amministratori può
essere dedotta ed affermata tanto con riferimento ai presupposti dell'azione dei creditori
sociali (insufficienza patrimoniale cagionata dall'inosservanza di obblighi relativi alla
conservazione del patrimonio sociale, quanto con riferimento ai presupposti dell'azione
sociale (danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori,
per violazione di doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo, ovvero inerenti
all'adempimento delle loro funzioni con la diligenza richiesta). Dalla natura “contrattuale”
della responsabilità di amministratori e sindaci di società - in ragione dei “vincolo” che li lega,
nell'esercizio delle attribuzioni inerenti all'ufficio accettato e ricoperto, all'osservanza dei
doveri imposti dalla legge e dall'atto costitutivo o di specifici obblighi di natura pattizia - e
della azione che la fa valere (la quale ha proprio ad oggetto, tra l’altro, l'accertamento
dell'inottemperanza al predetto vincolo), discende che, mentre su chi promuove l'azione
stessa incombe l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra
queste e il danno verificatosi, spetta, invece, ad amministratori e sindaci dimostrare la non
imputabilità ad essi del fatto dannoso, mediante la prova positiva, con riferimento agli
addebiti loro mossi, dell’osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi predetti
(cfr. artt. 2392 2403-2407 cod. civ.).
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CAPITOLO V
GLI ATTI PREGIUZIDIEVOLI AI CREDITORI
SOMMARIO: V.1. La revocatoria ordinaria – V.2. Natura dell’azione revocatoria – V.3. Effetti
della declaratoria di incompetenza del Tribunale fallimentare
V.1 LA REVOCATORIA ORDINARIA
Cass. sezioni unite, 17 dicembre 2008, n. 29421: “Legittimazione all’esercizio
dell’azione di revocatoria ordinaria nel fallimento”.
Il curatore, sostituendosi ai creditori, subentra anche nelle azioni revocatorie già
promosse dai creditori stessi. Tuttavia, la Cassazione chiarisce che il promuovimento
dell’azione revocatoria ordinaria da parte del creditore ex art.2901 c.c., pur
permettendo al curatore del successivo fallimento di subentrare nel relativo processo
ovvero di proporre ex novo l a medesima azione, ex art.66 l. fall ., non esclude, in caso
di inerzia dell’organo concorsuale, la prosecuzione dell’azione del creditore individuale.
1. Il primo motivo di ricorso pone la questione se il fallimento del debitore, intervenuto in
pendenza di un’azione revocatoria esercitata dal creditore a norma dell’art. 2901 c.c., privi
costui della legittimazione a proseguire l'azione, spettando ormai tale legittimazione solo al
curatore del fallimento a norma dell' art. 66 l. fall., e se quindi detta azione debba essere
dichiarata improcedibile.
E' appunto per rispondere a siffatto interrogativo che il ricorso è stato portato all'esame delle
sezioni unite, giacché le soluzioni offerte al riguardo dalla giurisprudenza di questa corte, da
ultimo, non sono apparse univoche.
(omissis)
In passato si è ripetutamente affermato che, in casi del genere di quello sopra descritto, la
legittimazione alla prosecuzione del giudizio spetta esclusivamente al curatore, il quale agisce
quale sostituto processuale della massa dei creditori, ormai carenti d'interesse e privati della
legittimazione a proseguire l'azione; con la conseguenza che gli effetti dell'azione, consistenti
nell'inefficacia dell'atto di disposizione patrimoniale, sono destinati a prodursi non più a
vantaggio del singolo creditore attore, bensì di tutti i creditori del fallito.
Tuttavia, in un caso in cui l'iniziativa processuale era stata assunta sin da principio dal
curatore fallimentare, è stato giudicato ammissibile l'intervento adesivo dipendente del
singolo creditore nello stesso giudizio sul rilievo che, con questo tipo d'intervento, il
creditore non fa valere un autonomo diritto, ma si limita a sostenere le ragioni di una delle
parti e potrebbe subire l'efficacia riflessa della sentenza (Cass. n. 18147 del 2002).
Alla pronuncia da ultimo citata se ne è più di recente aggiunta un’altra, che ha esplicitamente
manifestato il proprio dissenso rispetto all'orientamento in precedenza consolidato.
Il dissenso - giova sottolinearlo - non concerne la sopravvenuta legittimazione del curatore,
in ipotesi di fallimento del debitore convenuto in revocatoria dal singolo creditore, bensì
l’affermazione secondo cui verrebbe in tal caso meno la concorrente legittimazione di
quest'ultimo, perché - si è sostenuto - le due azioni possono concorrere e quella del creditore
può eventualmente raccordarsi a quella della massa (Cass. n. 11763 del 2006).
A tale orientamento si è poi richiamata anche un' ulteriore pronuncia che, muovendo
appunto dal presupposto secondo cui l'azione revocatoria ordinaria può essere validamente
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proseguita dal singolo creditore nonostante il fallimento del debitore sopravvenuto dopo la
sentenza di primo grado, ha riconosciuto al medesimo creditore, in caso di mancata
costituzione del curatore nel giudizio d'appello, la legittimazione ad ottenere la declaratoria
d'inefficacia dell'atto di disposizione patrimoniale compiuto dal debitore e la possibilità di
soddisfare il proprio credito mediante l'espropriazione forzata del bene oggetto di quell'atto
(Cass. n. 5272 del 2008, già prima ricordata).
4. Il contrasto va risolto in base alle considerazioni che seguono.
4.1. Com’è noto, l'azione revocatoria ordinaria, contemplata dagli artt. 2901 e segg. c.c., mira
a rendere inopponibili al creditore gli atti con cui il debitore, disponendo del proprio
patrimonio, lo sottrae in tutto o in parte alla garanzia del creditore medesimo mettendo così
in pericolo il soddisfacimento delle ragioni di costui. Essa non incide sulla validità di quegli
atti, ma (in presenza delle condizioni soggettive richieste a tal fine dalla legge) ne sterilizza gli
effetti nei confronti del creditore che si sia avvalso di tale rimedio, consentendo perciò a
costui di aggredire poi esecutivamente i beni usciti dal patrimonio del debitore come se vi
fossero ancora compresi.
Pur non essendo quindi, in senso proprio, un'azione esecutiva, può ben dirsi che essa è
naturalmente orientata a finalità esecutive, come inequivocabilmente testimonia il disposto
dell'art. 2902 c.c. Quando, però, il debitore sia un imprenditore commerciale e l'atto di
disposizione da lui compiuto ne abbia causato (o aggravato) l'insolvenza, onde ne è seguita la
dichiarazione di fallimento, il pregiudizio che giustifica l'esercizio dell'azione revocatoria si
riflette necessariamente sulla posizione dell'intera massa dei creditori, le cui ragioni devono
essere soddisfatte secondo le regole del concorso. Si spiega, quindi, come mai l'art. 66 l. fall.,
in tal caso, attribuisca nell'interesse della massa,la legittimazione all'esercizio dell'azione
revocatoria ordinaria, quale prevista dai citati artt. 2901 e segg. c.c., in aggiunta all'azione
revocatoria fallimentare disciplinata dal successivo art. 67 della stessa legge.
In dottrina, anzi, è stato osservato che, nell'ipotesi in cui il debitore è un imprenditore
commerciale di cui però non sia stato dichiarato il fallimento, l'esercizio dell'azione
revocatoria individuale inevitabilmente comporta una stortura: perché l’atto di disposizione
patrimoniale del debitore è sempre potenzialmente dannoso per la collettività dei creditori
(ed il consilium fraudis ha carattere impersonale), mentre l'azione produce effetti a vantaggio di
un creditore singolo. Stortura che cessa invece di esistere, in caso di dichiarazione di
fallimento, qualora l'azione sia esercitata dal curatore nell'interesse indistinto di tutti i
creditori pregiudicati da quell'atto; ed il cosiddetto effetto recuperatorio, che si suole
ricollegare all'azione revocatoria in ambito fallimentare (diversamente da quando essa è
esercitata al di fuori del fallimento), non è che una conseguenza del diverso modo in cui si
atteggia la successiva fase esecutiva nella procedura concorsuale rispetto all'esecuzione
forzata individuale.
Pur potendosi ammettere, pertanto, che l'inserimento dell' azione revocatoria ordinaria nell'
ambito della procedura concorsuale richiede degli adattamenti, sembra senz' altro da
affermare che essa resta, anche in tale evenienza, la medesima prevista dal codice civile, come
del resto l’espressione adoperata dal primo comma dell'art. 66 l. fall. sta chiaramente ad
indicare.
4.2. L’articolo da ultimo citato, nell'attribuire al curatore del fallimento la legittimazione
anche all' esercizio dell'azione revocatoria ordinaria, non contempla però l’ventualità del
concorso di tale azione con quella esercitata dal singolo creditore a norma dell'art. 2091 c.c.,
né disciplina l'ipotesi di fallimento del debitore quando l'azione del singolo creditore è stata
già esercitata ma è ancora pendente.
Che sia consentito al curatore proseguire il giudizio intrapreso prima del fallimento dal
singolo creditore, subentrando nella posizione processuale di costui, è affermazione sulla
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quale - come detto- non vi è alcun contrasto nella giurisprudenza di questa corte. Incertezze
si sono manifestate soltanto quanto alla sorte da riservare all'azione individuale
originariamente intrapresa dal creditore singolo, una volta che si sia sopravvenuto il
fallimento del debitore. In conseguenza tale evenienza, il più delle volte, accade appunto che
il curatore subentri nella causa in rappresentanza della massa dei credi tori, e ciò finisce per
svuotare di significato l'originaria iniziativa del singolo creditore. Ma la questione non si pone
in questi termini, nel presente caso, perché il curatore, pur avendo ricevuto la notifica dell'
atto d'appello proposto avverso la sentenza di primo grado, emessa in epoca subito anteriore
al fallimento del debitore, non si è affatto costituito nel giudizio di secondo grado. Il che
evidentemente non consente di affermare che egli ha inteso subentrare nell'azione già
pendente, non potendo certo un tale effetto prodursi in modo automatico sol perché è
sopravvenuto il fallimento del debitore. E neppure la ricorrente documenta - o in altro modo
risulta - che il medesimo curatore abbia intrapreso ex novo in diversa sede, un'azione
revocatoria dei medesimi atti di disposizione patrimoniale del debitore che formano oggetto
della presente azione.
Occorre allora chiedersi se le ragioni per le quali si dubita della proseguibilità dell'azione del
singolo creditore nel caso in cui il curatore del sopravvenuto fallimento abbia a propria volta
esercitato l'azione nell'interesse dell'intera massa dei creditori – ragioni che si sostanziano
nell'identità dell’azione revocatoria ordinaria, ancorché inserita nell'ambito del fallimento, e
nel venir meno di ogni concreto ed attuale interesse del singolo creditore a coltivare un
giudizio che non sarebbe più comunque suscettibile di realizzare, sul piano individuale, lo
scopo esecutivo proprio di tale azione, ormai riservato all' esecuzione concorsuale conservino valore anche quando il curatore, viceversa, non ravvisando l'opportunità di
subentrare nell'azione o altrimenti di esercitarla, se ne disinteressi.
Non sembra che, in tal caso, un insormontabile ostacolo alla proseguibilità del giudizio
promosso dal singolo creditore possa rinvenirsi nel divieto di azioni esecutive individuali su
beni compresi nel fallimento , stabilito dall' art. 51 l. fall.
Se è vero che, come s'è accennato, l'azione revocatoria è naturalmente preordinata al
soddisfacimento esecutivo del creditore, nondimeno, di per se stessa, essa non può
considerarsi un'azione esecutiva, essendo volta ad ottenere null' altro che una pronuncia
dichiarativa dell' inopponibilità al creditore dell'atto dispositivo compiuto dal debitore. La
successiva fase esecutiva cui il vittorioso esperimento di
detta azione potrebbe metter capo, d'altronde, avrebbe ad oggetto un bene - quello del quale
il debitore ha disposto compromettendo la garanzia generica del creditore - che non è più
compreso nel patrimonio del debitore medesimo (né dunque nel fallimento) e che neppure
per effetto dell' accoglimento della domanda revocatoria tornerebbe ad esserne compreso,
perché non viene intaccata la validità e neppure, in assoluto, l'efficacia dell'atto con cui detto
bene è stato trasferito ad altri, ma lo si rende soltanto inopponibile al creditore che ha
esperito l'azione.
D'altro canto, neppure i principi che regolano il concorso dei creditori in presenza del
fallimento del comune debitore, enunciati dal successivo art. 52, sono logicamente
incompatibili con la prosecuzione dell' azione revocatoria da parte del singolo creditore, una
volta che tale azione non entri in concorrenza con un'analoga iniziativa del curatore. La
circostanza che quest'ultimo, almeno per il momento, non abbia inteso impugnare
nell'interesse della massa l'atto di disposizione compiuto dal debitore sul proprio patrimonio,
con la conseguenza che il bene oggetto di quell' atto non appare destinato ad essere acquisito
al fallimento, né perciò è prevedibile che sia assoggettato ad alcuna attività esecutiva
nell'ambito della procedura concorsuale, fa sì che l'iniziativa del singolo creditore non
interferisca in alcun modo con lo svolgimento della procedura concorsuale stessa. Lungi dal
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pregiudicare gli interessi della massa degli altri creditori, anzi, essa potrebbe loro
indirettamente giovare, nella misura in cui, consentendo in tutto o in parte il soddisfacimento
delle ragioni creditorie dell'attore in revocatoria, ne escludesse o ne riducesse la
partecipazione al concorso sui beni acquisiti all'attivo del fallimento.
4.3. Concludendo sul punto, deve esser dunque affermato il principio per cui il sopravvenuto
fallimento del debitore non determina l' improcedibilità dell' azione revocatoria ordinaria
promossa da un singolo creditore al fine di far dichiarare a sé inopponibile un atto di
disposizione compiuto dal debitore sul proprio patrimonio, quando il curatore del fallimento
non manifesti la volontà di subentrare in detta azione, né altrimenti risulti aver intrapreso,
con riguardo a quel medesimo atto di disposizione, altra analoga azione a norma dell'art. 66 l.
fall. Alla stregua di tale principio, il primo motivo del ricorso deve essere rigettato, pur
occorrendo modificare la motivazione dell'impugnata sentenza nel senso sopra detto.
V.2 NATURA DELL’AZIONE REVOCATORIA
Cass. sezioni unite, 28 marzo 2006, n. 7028: “Natura distributiva e non indennitaria
dell’azione revocatoria fallimentare”
Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassaz ione sono state investite di risolvere un
conflitto insorto nella giurisprudenza tra chi riteneva che l’azione revocatoria poteva
essere esperita dal Curatore f allimentare solo se fosse provato che l’atto di disposizione
patrimoniale del quale si chiedeva dichiararsi l’ inefficacia avesse cagionato un danno
alla massa dei creditori (teoria indennitaria) e chi, invece, riteneva che il danno doveva
ritenersi implicitamente verificato dall’avvenuta fuoriuscita del bene dal patrimonio del
fallito (teoria distributiva o antindennitaria). La sentenza aderisce a tale secondo
orientamento.
La questione sottesa al primo motivo del ricorso e portata, come detto, all'esame di queste
Sezioni unite, è propriamente la seguente: se sia o meno oggettivamente revocabile, ai sensi
dell'art. 67 L. Fall., comma 2, la vendita eseguita dall'imprenditore - poi fallito entro un anno
- il quale abbia utilizzato parte del prezzo riscosso per il pagamento di credito privilegiato
(nella specie assistito da ipoteca gravante sullo stesso immobile oggetto della vendita).
1. Sul punto, risalente giurisprudenza si è effettivamente già pronunciata nel senso, come
ricordato dal ricorrente, della irrevocabilità di una siffatta vendita ove, e per la misura in cui,
si accerti che il denaro corrisposto a titolo di prezzo dall'acquirente sia stato destinato
all'estinzione di crediti privilegiati: così, appunto, Cass. 9 novembre 1956 n. 4211, 18 maggio
1971 n. 1472, 28 aprile 1975 n. 1626, 4 maggio 1983 n. 3050.
Ma sono rimasti al riguardo insuperati i rilievi formulati da autorevole dottrina in ordine
all'assenza di previsioni normative che autorizzino e rendano in concreto possibile
l'attuazione di una revoca parziale della vendita di un unico immobile.
Rilievi dei quali l'ultima delle citate sentenze (n. 3050/1983) si è pur mostrata avvertita, ma
dai quali ha ritenuto di poter prescindere per la ragione che, nella specie, il giudice del merito,
disposta la revoca, aveva condannato il terzo acquirente al rimborso di parte del valore del
bene, determinato in una somma di denaro, e sul punto non vi era stata censura.
Mentre da quella data (1983) nessun’altra pronuncia è più intervenuta sullo specifico tema
della parziale revocabilità, ex art. 67 L. Fall., della vendita di un unico immobile; nè la
questione si è mai prospettata con riguardo alla revocatoria ordinaria di cui all'art. 2901 c.c..
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2. E però, comunque, sulla premessa della natura indennitaria della revocatoria fallimentare da cui appunto le sentenze su menzionate hanno desunto il corollario che gli effetti utili di
quella azione vadano “contenuti nei limiti del danno causato dall'atto impugnato” - che la
giurisprudenza successiva ha evidenziato quelle “dissonanze”, in ragione delle quali la
Sezione prima ha ritenuto opportuna la rimessione della questione a queste Sezioni unite.
Ed infatti, mentre un filone di pronunzie, tendenzialmente maggioritario, ha optato per una
configurazione distributiva, e non più indennitaria, della revocatoria di cui al comma secondo
dell'art. 67 L. Fall. - affermando che, in relazione alla stessa, il danno della massa è "in re
ipsa", ovvero presunto in via assoluta, e consiste nella pura e semplice lesione della "par
condicio creditorum" (cfr. Cass. 20 settembre 1991 n. 9853; 16 settembre 1992 n. 10570; 12
novembre 1996 n. 9908; 19 febbraio 1999 n. 1390; 12 gennaio 2001 n. 403; 14 novembre
2003 n. 17189) - altra serie di pronunzie, sia pur con riferimento alla diversa fattispecie del
pagamento infrannuale effettuato dall'imprenditore a creditore - privilegiato, ha ritenuto
subordinata la revoca di quell'atto alla effettiva ricorrenza di un danno, in concreto, per la
massa.
E ciò o appunto (in un primo tempo) sul presupposto del carattere solo relativo della
presunzione di danno ai creditori correlata all'atto in questione, vincibile attraverso la prova
contraria della sua insussistenza nel caso concreto (cfr. nn. 7649/1987; 5857/1988), ovvero
(in prosieguo) argomentando dal "difetto di interesse ad agire del curatore" nel caso in cui il
convenuto dimostri che l'eventuale accoglimento della domanda non arrechi alcuna utilità alla
massa)trattandosi di somma che, ove pur recuperata, dovrebbe, in sede di riparto, essere poi
comunque a lui attribuita, in quanto titolare di diritto di prelazione poziore rispetto a quello
degli altri creditori (così, da ultimo, sent. n. 20005 del 14 ottobre 2005; e, in precedenza, n.
495 del 18 gennaio 1991; n. 2751 dell'8 marzo 1993;
n. 8096 del 28 aprile 2004; n. 12558 dell'8 luglio 2004; n. 5713 del 16 marzo 2005).
3. Tanto premesso e valutato, ritiene ora però il Collegio che, ai fini della soluzione del
quesito come sopra proposto, non venga in realtà in rilievo la circostanza che il prezzo della
vendita, eseguita dall'imprenditore poi fallito entro l’anno, sia stato da questi destinato solo in
parte al pagamento di un credito assistito da privilegio (e che resti di conseguenza assorbito il
problema di ammissibilità di una revoca parziale della vendita di un unico bene immobile),
dovendosi - a monte - escludere che una destinazione anche integrale, del prezzo ricavato da
una siffatta vendita, al pagamento di creditori privilegiati dell'imprenditore poi fallito, possa
assumere valenza ostativa all'esercizio dell'azione di cui al comma secondo dell'art. 67 L. Fall..
E ciò in ragione del carattere distributivo, e non indennitario, di detta azione, che va qui
riaffermato, in consonanza con l'indirizzo interpretativo aperto dalla citata sentenza n, 9853
del 1991 ed alla stregua di una lettura della norma in esame che univocamente si impone alla
stregua dei canoni dell'ermeneutica, letterale, teleologico e sistematico.
Avendo, per altro, riguardo, per quest'ultimo profilo, al coordinamento - che presuppone
l'enucleazione dei rispettivi tratti differenziali - della revoca, che qui ne occupa, degli atti a
titolo oneroso (e dei pagamenti) compiuti entro l'anno anteriore alla dichiarazione di
fallimento, rispetto, per un verso, alla revocatoria ordinaria di cui agli artt. 2901 cod. civ., e
ss., per altro verso, alla revocatoria fallimentare degli atti onerosi infrabiennali con "notevole
sproporzione" in danno dell'imprenditore, di cui all'art. 67 L. Fall., comma 1, n. 1.
Come è stato, infatti, anche di recente esattamente ribadito (da Cass. n. 17189/2003) il
fondamentale elemento di discrimine tra la revocatoria ordinaria (che anche il curatore è
legittimato ad esperire ex art. 66 L. Fall.) e quella fallimentare, sotto il profilo del danno, è
rappresentato dalla circostanza che la seconda si riferisce, per definizione, ad atti posti in
essere quando il debitore si trova in una situazione di insolvenza già inveratasi;
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mentre, agli effetti della revocatoria ordinaria, l'atto di disposizione viene in rilievo in
correlazione ad una insolvenza solo potenziale, per cui appunto si richiede la dimostrazione
di un pregiudizio alle ragioni del creditore, costituito dalla insufficienza dei beni residui, ad
offrire la garanzia patrimoniale prevista dall'art. 2740 c.c. (e non da una semplice diminuzione
della stessa: cfr. n. 16915/03).
Ulteriore distinzione va poi, come detto, operata nell'ambito della stessa revocatoria
fallimentare.
E, per tal profilo, corretto è il rilievo, svolto nella sentenza capofila n. 9853/1991 e nelle
successive (già citate) conformi, per cui, mentre nella previsione dell'art. 67 L. Fall., comma 1,
n. 2, l'oggettivo danno al patrimonio della parte, poi fallita, riconducibile al requisito della
"notevole sproporzione" richiesto per la revoca dell'atto oneroso di disposizione da essa
compiuto, costituisce elemento da inglobare nel più ampio concetto di "eventus damni" per
la massa dei creditori, non così è nell'ipotesi del negozio oneroso infrannuale di cui al
successivo comma secondo, ove è assente il riferimento ad un analogo requisito di danno.
Emergendo così, anche dalla stessa diversa formulazione delle due regole giuridiche (pur)
contenute nel medesimo articolo, come, nel secondo caso (in prospettiva di una più incisiva
salvaguardia nei confronti degli atti compiuti dall'imprenditore commerciale nel periodo più
prossimo alla sua dichiarazione di fallimento), prema al legislatore non tanto il rapporto
commutativo del negozio quanto il recupero, comunque, di ciò che, uscendo dal patrimonio
del debitore nell'attualità di una situazione di insolvenza, sottragga il beneficiario alla
posizione di creditore concorrente (perchè, in tal modo, già soddisfatto), con automatico
vulnus del principio della par condicio creditorum.
E spiegandosi pure, quindi, in tale prospettiva perchè la norma sancita nel capoverso dell'art.
67 L. Fall. accomuni, nella sua eccezionalità, alla sorte dei contraenti a titolo oneroso quella
dei creditori che abbiano (pur legittimamente secondo le regole civilistiche) ricevuto
dall'imprenditore, poi fallito, il pagamento di propri crediti liquidi ed esigibili.
Dal che la conclusione - coerentemente da tali premesse desunta dalla giurisprudenza che si
condivide - che il presupposto oggettivo della revocatoria degli atti di disposizione compiuti
dall'imprenditore nell'anno anteriore alla dichiarazione del suo fallimento si correli non alla
nozione di danno quale emerge dagli istituti ordinari dell’ordinamento bensì alla specialità del
sistema fallimentare, ispirato all'attuazione del principio della par condicio creditorum, per
cui il danno consista nel puro e semplice fatto della lesione di detto principio, ricollegata, con
presunzione legale assoluta, al compimento dell'atto vietato nel periodo indicato dal
legislatore.
3.1. Il contrario orientamento - che ritiene tale presunzione suscettibile viceversa di prova
contraria e, anche in prospettiva di una verifica dell'interesse ad agire da parte del curatore,
ammette il convenuto in revocatoria a dimostrare l'eventuale assenza in concreto di un danno
alla massa ricollegabile all'atto di disposizione vietato, in correlazione alla intervenuta
utilizzazione del prezzo che l'imprenditore abbia ricavato dalla vendita (e dalla destinazione
del pagamento da lui effettuato) in favore di un creditore assistito da privilegio - si scontra
inevitabilmente, infatti, con la considerazione che è solo nella fase finale di riparto dell'attivo,
e non anche quindi già anticipatamente nella fase dell'esercizio delle revocatorie, che è
possibile verificare se esistano o meno altri creditori privilegiati, di grado poziore o pari
rispetto a quello beneficiario del pagamento vietato, e se, in caso affermativo, sia possibile
l'integrale soddisfazione di tutti.
3.2. La natura distributiva della azione di cui al capoverso dell'art. 67 L. Fall. non è stata, del
resto, revocata in dubbio anche nel corso del dibattito e dei lavori che hanno preceduto la
recente riforma della legge fallimentare, essendosi talora proposta una rimodulazione di
quella norma in senso indennitario ovvero, alternativamente, anche auspicato un suo
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ridimensionamento, con abrogazione della revocabilità dei pagamenti di debiti liquidi ed
esigibili.
Ma a questi indirizzi non si è poi dato seguito, essendo prevalsa la diversa scelta (in linea con
l'evoluzione della disciplina concorsuale dei principali paesi europei) di ridurre semplicemente
(dimezzandolo) il periodo sospetto per l'esercizio dell'azione in esame (art. 67 cpv., L. Fall.,
nuovo testo, come sostituito dal D.L. art. 35, n. 2, convertito in L. n. 80 del 2005), con
l'introduzione anche, per altro, di talune eccezioni alla regola (implicitamente confermative
quindi della stessa), come (per quel che più direttamente attiene alla fattispecie considerata)
quella di non revocabilità delle vendite a giusto prezzo di immobili ad uso abitativo destinati
a costituire l'abitazione principale dell'acquirente o di suoi parenti od affini entro il terzo
grado (art. 67 cit., comma 3, lett. c, nuovo testo).
4. Il contrasto di indirizzi interpretativi sottostante alla questione in esame va
conclusivamente, quindi, risolto con l’affermazione del principio per cui, ai fini della revoca
della vendita di propri beni effettuata dall'imprenditore, poi fallito entro un anno, ai sensi
dell'art. 67 L. Fall., comma 2, l’eventus damni è “in re ipsa” e consiste nel fatto stesso della
lesione della par condicio creditorum, ricollegabile, per presunzione legale ed assoluta,
all’uscita del bene dalla massa conseguente all'atto di disposizione. Per cui grava, in tal senso,
sul curatore il solo onere di provare la conoscenza dello stato di insolvenza da parte
dell'acquirente. Mentre la circostanza che il prezzo ricavato dalla vendita sia stato utilizzato
dall'imprenditore, poi fallito, per pagare un suo creditore privilegiato (eventualmente anche
garantito, come nella specie, da ipoteca gravante sull'immobile comprevenduto) non esclude
la possibile lesione della par condicio, nè fa venir meno l'interesse all’azione da parte del
curatore, poichè è solo in seguito alla ripartizione dell'attivo che potrà verificarsi se quel
pagamento non pregiudichi le ragioni di altri creditori privilegiati, che anche successivamente
all’esercizio dell'azione revocatoria potrebbero in tesi insinuarsi
(omissis)
V.3
EFFETTI
FALLIMENTARE
DELLA
DECLARATORIA
DI
INCOMPETENZA
DEL
TRIBUNALE
Cass. 18 dicembre 2007, n. 26619: “Dichiarazione di fallimento conseguente ad una
precedente sentenza annullata per incompetenza del tribunale e valore della prima ai
fini del decorso dei termini”.
Nell’ipotesi in cui, ad una prima dichiarazione di fallimento da parte del tribunale, poi
riconosciuto incompetente, segua una seconda di chiarazione di fallimento dello stesso
imprenditore da parte del tribunale designato competente, la prima sentenza conserva gli
effetti sostanziali, sia ai fini della decorrenza della sospensione degli interessi sui
crediti chirografari, ai sensi dell'art. 55 legge fall., sia ai fini della decorrenza dei
termini per la revocatoria fallimentare. Ciò in quanto la seconda pronuncia ha effetto
confermativo del precedente accertamento dello stato di insolvenza, anche in assenza di
una norma espressa, stante la enucleabilità di tal e previsione, ora enunciata dall' art. 9
bis l.fall. introdotto dalla riforma del 2006.
In relazione ai due connessi motivi della riferita impugnazione - con i quali, denunziando
violazione e falsa applicazione della l. fall., artt. 55 e 21 la Curatela sostiene che abbia errato la
Corte territoriale nel non ricollegare la sospensione del costo degli interessi, ex art. 55 cit., alla
iniziale dichiarazione di insolvenza da parte del Tribunale di Nola, stante il carattere
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"meramente ricognitivo", rispetto a questa, della successiva pronunzia del Tribunale di
Foggia - la Sezione prima civile, ritenendo di non poter aderire alle conclusioni cui sono di
recente pervenute le sentenze nn. 2422, 2423 e 15321/06 della stessa Sezione, nel senso della
ammessa operatività del blocco degli interessi dalla data della prima pronunzia, ha rimesso,
con ordinanza n. 22709/06, gli atti al Primo Presidente, il quale ha quindi assegnato la causa a
queste Sezioni unite in considerazione del prospettato contrasto (virtuale) di giurisprudenza
in ordine alla questione, ritenuta comunque di particolare importanza, costituente il thema
decidendum dell'odierna impugnazione.
La quale - con riferimento alla ipotesi in cui ad una prima dichiarazione di fallimento da parte
di Tribunale poi riconosciuto incompetente, segua una seconda dichiarazione di fallimento,
dello stesso imprenditore, da parte del Tribunale che, in sede, come nella specie, di conflitto
positivo virtuale, ovvero anche di regolamento facoltativo, di competenza, sia dalla
Cassazione designato competente - richiede propriamente di stabilire se il decorso degli
interessi sui crediti chirografari ammessi al passivo resti sospeso, ai sensi della L. Fall., art. 55
già dalla prima, ovvero lo sia solo dalla seconda, delle due predette sentenze.
3. Alla prima opzione ricostruttiva hanno, come detto, aderito le su citate sentenze nn. 2422,
2423, 15321 del 2006.
In particolare, le prime due pronunzie hanno escluso che la sentenza di fallimento emessa da
giudice incompetente possa essere ritenuta nulla (ciò argomentando anche dalla ammessa
proponibilità, per diritto vivente, avverso la stessa, di regolamento d'ufficio facoltativo anche
dopo la scadenza del termine di cui all'art. 47 c.p.c.).
Ed hanno, in ragione di tale premessa, affermato che la cassazione di quella sentenza ne
colpisce, in realtà, le sole disposizioni di carattere processuale e non anche ne travolga quelle
di carattere sostanziale, nel rispetto del principio inderogabile di unitarietà della procedura
concorsuale. La quale, nella fattispecie considerata, "continua" pertanto, ai sensi dell'art. 50
c.p.c., dinnanzi al Tribunale dichiarato competente, “che, dichiarando il fallimento del
medesimo imprenditore, non fa altro che confermare la statuizione sostanziale del primo
giudice”.
Soluzione, questa, poi ribadita dalla successiva sentenza n. 15323/06, anche in
considerazione ed in funzione del principio di effettività, al quale è ispirata la regola, L. Fall.,
sub art. 21 per cui (pure) la revoca della sentenza di fallimento fa salvi gli effetti degli atti già
posti in essere dagli organi fallimentari. 4. A questa conclusione non ha, però, ritenuto, come
detto, di poter aderire l'ordinanza di rimessione (n. 22709/06) sul rilievo che la presupposta
scissione di effetti processuali e sostanziali, della dichiarazione di fallimento proveniente da
giudice incompetente (ai fini dell'affermato travolgimento solo dei primi a seguito della
cassazione di quella pronuncia) "non troverebbe base normativa", e, al contrario, la
riconduzione degli effetti sostanziali del fallimento alla pronunzia antecedente a quella poi
adottata dal Tribunale dichiarato competente si porrebbe in duplice contraddizione, per un
verso, con il principio di inderogabilità della competenza territoriale in materia fallimentare
(L. Fall., art. 9) e, per altro verso, con la efficacia "ex nunc" della dichiarazione di fallimento.
Dal che la diversa conclusione, ad avviso del Collegio rimettente, per cui "dopo la cassazione
della sentenza emessa da giudice incompetente, cessano in toto gli effetti del fallimento ... la
correlativa procedura è irrimediabilmente chiusa ... e, nelle more della nuova eventuale
dichiarazione, il debitore riacquista la disponibilità dei beni".
5. Ritiene ora, invece, questo Collegio di ribadire l'indirizzo interpretativo aperto dalla
ricordata sentenza n. 2422 del 2006. La cui prospettata, ma apparente, contraddizione con il
principio di inderogabilità della competenza e con la natura costitutiva della dichiarazione di
fallimento è agevolmente, infatti, superabile ove si considerino, nel quadro della sequenza dei
provvedimenti in esame il contenuto e l'effetto - confermativo del precedente accertamento
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dello stato di insolvenza - propriamente riferibile alla seconda pronunzia. La quale dichiara il
fallimento, appunto del medesimo imprenditore sulla base dei medesimi presupposti.
Con il che il secondo Tribunale fa quindi propri gli effetti sostanziali del precedente
accertamento - che così formalmente si riconducono a pronunzia del Giudice
territorialmente competente - e, all'un tempo, ne determina la decorrenza, che è non già
retroattiva, rispetto alla seconda sentenza, ma "ex nunc" rispetto alla prima, confermata,
dichiarazione dello stato di insolvenza. Non rileva, inoltre, in contrario la sottolineata carenza
di un dato normativo che espressamente autorizzi la conservazione degli effetti sostanziali
della declaratoria di fallimento adottata da Tribunale incompetente per esclusiva riferibilità
della correlativa cassazione ai soli suoi effetti processuali (e, cioè, ai soli provvedimenti, L.
Fall., sub art. 16 di nomina del G.D. e del curatore, di acquisizione dei bilanci e scritture
contabili del fallito etc.). Vero è, infatti, che il legislatore del 42 non ha espressamente
disciplinato gli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento proveniente da Giudice non
competente e, che, al riguardo, solo nella nuova Legge (D.Lgs. n. 5 del 2006) di riforma delle
procedure concorsuali è stato invero disposto (sub. art. 9 bis) che la procedura apertasi a
seguito di pronunzia di un giudice incompetente prosegua innanzila base della precedente
valutazione (di sussistenza) dei presupposti del fallimento.
Ma vero è altresì che una tale disciplina era comunque già enucleabile dal sistema della L.
Fall. in ragione della sua ratio ispiratrice e dei correlati principi informatori.
Con i quali è, infatti, difficilmente conciliabile la tesi del totale azzeramento della procedura
attivata innanzi al Tribunale incompetente, per gli esiti (per competente prosegua innanzi al
giudice competente, sul alcuni profili addirittura contraddittori dei principi stessi) cui essa
darebbe luogo.
Quali appunto:
- il ritenere (tornato) "in bonis" l'imprenditore di cui sia stato, ancorché da giudice non
legittimato, comunque, accertato il (nel merito non contestato) dissesto;
- il postulare la riapertura, ex novo della procedura innanzi al Tribunale designato
competente, imponendo ai creditori di ripresentare le domande di insinuazione al fallimento
per una nuova verifica dello stato passivo;
- il sottrarre alla revocatoria fallimentare, L. fall., ex art. 67, e quindi all'effetto conservativo
del patrimonio a tutela dei creditori, gli atti compiuti dall'imprenditore nel biennio o nell'anno
anteriore alla prima - ancorché poi confermata - dichiarazione di fallimento;
- il considerare, di conseguenza, "sospetto" agli effetti della suddetta revocatoria il periodo in
cui (fino alla decisione della Cassazione sul conflitto o sul regolamento di competenza) il
compimento di atti pregiudizievoli per il creditore è, per definizione, impedito
all'imprenditore dalla provvisoria esecutività (ex art. 16, comma 3) della prima sentenza di
fallimento, che lo ha privato della disponibilità dei suoi beni (L. fall., art. 42). Per cui,
conclusivamente, ben può ritenersi che con la riferita norma sulla "prosecuzione" della
procedura innanzi al Giudice competente, di cui al nuovo art. 9 bis, il legislatore del 2006
abbia inteso portare testualmente ad emersione una regola già insita, ancorché non
esplicitamente espressa, nel sistema. Decisivo è poi comunque, ai fini della opzione tra le due
soluzioni sul tema in contrasto, il canone di chiusura che impone di prescegliere tra due
interpretazioni possibili quella costituzionalmente orientata, o più costituzionalmente
adeguata: con riferimento, in particolare, in questo caso, al parametro di cui al novellato art.
111 Cost..
Rispetto al quale la conservazione degli effetti sostanziali della dichiarazione di fallimento
proveniente dal Giudice incompetente risulta, appunto, più “adeguata”: sia in relazione
all'obiettivo della “ragionevole durata del processo” con il quale è evidentemente meno
compatibile la prospettiva della riapertura ex novo della procedura innanzi al secondo
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Tribunale, sia in relazione alla garanzia del processo "giusto" (quale è da intendere quello
articolato in modo da garantire una risposta coerente ed adeguata alle esigenze di tutela fatte
valere con l’atto di suo impulso), garanzia che la soluzione che si respinge non sarebbe in
grado pienamente di assicurare per le ragioni in precedenza elencate. 6. Per quanto rileva, ai
fini della soluzione della specifica questione oggetto di contrasto, va pertanto confermato il
principio per cui, in ipotesi di conflitto positivo virtuale, il blocco degli interessi sui crediti
chirografari previsto dalla L. fall., art. 55 si verifica al momento della sentenza dichiarativa di
fallimento emessa per prima, anche se da giudice incompetente.
7. L’impugnata sentenza, che si è basata sull’opposto principio, dell'inefficacia della
dichiarazione di fallimento, pronunciata dal giudice incompetente, ad interrompere il corso
degli interessi a norma del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 55 deve essere pertanto cassata.
(omissis)
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CAPITOLO VI
IL CONCORDATO FALLIMENTARE
SOMMARIO: VI.1. La proposta di concordato. –VI.2. Pluralità di proposte.
VI.1 LA PROPOSTA DI CONCORDATO
Trib. Napoli, 15 novembre 2006: “Proposta di concordato presentata dal terzo”.
Il tribunale si pronunzia sulla materia del concordato fallimentare ed, in particolare,
sulla innovativa disposizione che circoscrive alla ipotesi di proposta presentata dal terzo
la possibilità di limitare l’impegno concordatario ai solo creditori ammessi al passivo,
anche provvisoriamente, ed a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo
medesimo o domanda di ammissione tardiva al tempo della pro posta, continuando a
rispondere verso tutti gli altri creditori il fallito, a meno che non ottenga
l’esdebitazione.
Atteso che, nella specie, stante quanto disposto dall’art. 150 d.lgs. 9 gennaio 2006 n.5, va fatta
applicazione della disciplina del concordato fallimentare di cui agli artt. 124 e ss. l.fall. come
modificata da tale decreto legislativo, che tra l’altro, all’art. 125, co.2, prevede che la proposta
concordataria che “contenga condizioni differenziate per singole classi di creditori…deve
essere sottoposta”, con i pareri del curatore e del comitato dei creditori, “al giudizio del
tribunale, che verifica il corretto utilizzo dei criteri di cui all’articolo 124, secondo comma
lettere a) e b), tenendo conto anche della relazione resa ai sensi dell’articolo 124, terzo
comma”; ritenuto che, nonostante la lettera dell’art. 125, co. 2, l.fall., il controllo che il
tribunale ha il potere-dovere di esercitare sulla proposta di concordato fallimentare che gli
venga sottoposta ai sensi di tale disposizione normativa non possa essere limitata alla verifica
del corretto utilizzo dei criteri di cui all’art. 124, co.2, lett. a) e b), l.fall., ma debba
necessariamente essere esteso alla preliminare verifica della legittimità della proposta, così
come, sotto il vigore della precedente disciplina, non si dubitava della sussistenza in capo al
giudice delegato, apparentemente investito del solo potere-dovere di verificare la convenienza
della proposta, anche del potere-dovere di verificarne la legittimità finalizzato ad impedire un
inutile prosieguo della procedura incidentale dalla medesima proposta avviata ed a evitare il
rischio di un inutile ritardo nelle operazioni di liquidazione dell’attivo fallimentare;
considerato che la proposta in esame prevede esplicitamente il pagamento integrale dell’unico
creditore privilegiato ammesso al passivo fallimentare della suddetta società e la suddivisione
dei tre creditori chirografari ammessi al passivo fallimentare della suddetta società in due
classi, la prima comprendente la solo F. S.p.a., la seconda comprendente la C. C. I. A.A. di
Napoli e la G.L. S.p.A., delle quali prevede il soddisfacimento nella percentuale del 60%;
ritenuto, tuttavia che siffatta proposta, essendo rivolta ai soli creditori ammessi al passivo
fallimentare della società proponente e, dunque, deve ritenersi, non anche ai creditori non
ancora ammessi al passivo fallimentare della società proponente alla data della sua
presentazione, è in palese contrasto con il quarto comma dell’art. 124, l.fall., che, prevedendo
per il solo caso del concordato fallimentare proposto da un terzo la possibilità di limitare gli
impegni concordatari “ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli
che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al
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tempo della proposta”, implicitamente esclude che il fallito possa introdurre analoghi o
maggiori limiti al concordato da lui proposto;
ritenuto, pertanto, che la proposta in esame vada dichiarata inammissibile
VI.2. PLURALITÀ DI PROPOSTE
Trib. Milano, 13 ottobre 2008 4: “La competizione tra più proposte di concordato
fallimentare
La possibilità che il concordato fallimentare sia proposto da un terzo rispetto al fallito
contempla anche l’ipotesi che vi siano, contestualmente, più proposte di concordato
provenienti da soggetti diversi. In tale evenienza, il Tribunale ha escluso che si debba
dar luogo ad una procedura competitiva tra le di verse offerte, differentemente da quanto
è espressamente previsto per il caso di pluralità di offerte di acquisto dei beni
fallimentari; tuttavia, il curatore è tenuto ad esprimere il suo parere su tutte le proposte
e sottoporle al comitato dei creditori che, con proprio motivato parere, potrà decidere di
sottoporre una sola ai creditori per l’approvazi one. Allorchè il comitato dei creditori
non abbia fornito una adeguata motivazione sulla scelta dell’una piuttosto che l’altra
proposta da porre in votazione, il provve dimento del giudice delegato che decide di
limitare la votazione solo ad una delle molteplici proposte è viziato.
Con reclamo depositato il 17.5.2008 Credit S. censura il provvedimento assunto il 7.5.2008
con il quale il G.D., richiamato il proprio precedente provvedimento del 29.4.2008,
sollecitato dal Curatore richiedente chiarimenti in data 7.5.2008, ha disposto che il Curatore
comunicasse ai creditori la proposta di concordato fallimentare proposta da M. spa, corredata
del parere del Curatore e del parere del Comitato dei creditori, avendo solo la proposta
presentatata da M ottenuto il parere favorevole del comitato.
In particolare il reclamante, nell’affermare di essere venuto a conoscenza della proposta X
solo in data 8.5.2008, lamenta, da un canto l’illegittimità del provvedimento del G.D:, in forza
del mancato rispetto del principio di competitività che, a parere del reclamante, sarebbe
desumibile dall’art. 107 l.fall., ricomprendendo tra gli atti di liquidazione anche le proposte di
concordato, dall’altra l’illegittimità del comportamento degli organi della procedura, i quali
avrebbero omesso di assicurare la massima informazione sulle proposte concordatarie
pendenti e di organizzare una procedura competitiva finalizzata a fare conseguire il massimo
risultato possibile dando atto della omogeneità delle proposte presentate. Conclude
chiedendo la revoca del provvedimento impugnato e l’emissione di un nuovo provvedimento
che, previa dichiarazione della illegittimità della procedura di voto, sottoponga i proponenti
ad una procedura competitiva.
La resistente M. s.p.a. si è costituita eccependo la mancanza di alcuna disposizione normativa
che preveda una procedura competitiva in presenza di pluralità di proposte di concordato
fallimentare, procedimento speciale rispetto alla disciplina dettata dal legislatore in materia di
liquidazione dell’attivo, e che, anzi, il proponente vanta un diritto di riservatezza sulla propria
proposta.
Ha inoltre confutato che la mancata adozione di procedure competitive violerebbe il
principio “che imporrebbe agli organi fallimentare di far conseguire ai creditori la massima
soddisfazione possibile, tenuto conto che la decisione ultima sulla convenienza o meno della
proposta spetta soltanto a costoro”, atteso che il sistema non impedisce la proposizione di
4
In Fallimento n. 3 del 1999
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più proposte, ma rimette la valutazione ai creditori. Ha quindi concluso per il rigetto del
reclamo.
(omissis).
Occorre premettere che il reclamo può avere ad oggetto i decreti del G.D. da parte di
chiunque ne abbia interesse.
Nel caso in esame è evidente l’interesse di Credit S. al reclamo, poichè il provvedimento
impugnato costituisce l’atto conclusivo del procedimento avviatosi con il deposito della
proposta concordataria; il reclamante, quindi è portatore di un legittimo interesse al corretto
svolgimento del procedimento.
(omissis)
Non appare invece cogliere nel segno il richiamo al principio di competitività la cui
violazione comporterebbe la censura nel merito dei provvedimenti adottati.
Deve condividersi l’assunto che lo svolgimento del procedimento è funzionale a che i
creditori siano messi in condizione di valutare la proposta e la sua convenienza.
Va rilevato che la disciplina del concordato fallimentare è speciale rispetto a quella in tema di
liquidazione dell’attivo. Appare evidente che le finalità del concordato sono sensibilmente
diverse da quelle previste dalla legge per la vendita dei beni.
La riforma, che ammette la presentazione di plurime proposte, è funzionale a garantire che il
mercato sia aperto alla concorrenza di coloro che vogliano assumere la responsabilità della
definizione concordataria e nel sistema la completezza informativa e procedurale costituisce
garanzia indefettibile di efficienza del risultato ultimo.
Occorre allora chiarire che quello che il reclamante invoca come rispetto del principio di
competitività altro non può essere che il rigoroso rispetto dei passaggi formativi del
procedimento che nella loro corretta scansione devono portare il ceto creditorio a poter
consapevolmente scegliere la proposta ritenuta conveniente.
Si tratta allora di individuare nella mutata struttura del concordato fallimentare quale ruolo sia
assegnato al G.D. in questa fase preliminare e quale tipo di funzione lo stesso sia chiamato ad
esercitare.
Se da un canto, in sintonia con il rinnovato impianto della disciplina concorsuale, è sottratto
al giudice il potere di valutare la convenienza della proposta, dall’altro la negozializzazione del
concordato non ha fatto venire meno la giurisdizionalizzazione del procedimento, nel quale il
formarsi del volere trova il suo sviluppo.
In tal senso appare opportuno evidenziare come in questo contesto la valorizzazione della
autonomia privata trovi il proprio campo di applicazione più propriamente nella fase finale
del procedimento di concordato, con l’incontro tra la proposta, vagliata e accompagnata dai
pareri degli organi concorsuali, e l’adesione del ceto creditorio.
Viceversa la circostanza che il procedimento preparatorio sia segnato da momenti valutativi
che, formalizzati in pareri, scandiscono il procedere del concordato verso la fase della
votazione, consente di marcare una censura con il momento negoziale strettamente inteso
chiamando in causa, piuttosto, un diverso equilibrio tra gli organi concorsuali nel quale,
assegnato al comitato dei creditori la valutazione sulla convenienza, il ruolo del G.D. appare
ritagliato entro i limiti più conformi alla natura di organo giurisdizionale terzo ed imparziale
preposto ad assicurare il corretto svolgimento del procedimento.
E non potrebbe essere diversamente laddove si consideri che nel fallimento gli interessi
singolari assumono nel loro complesso un risvolto pubblicistico alla cui tutela l’attuale
disciplina non ha abdicato.
In tale contesto al G.D. è dunque attribuito il ruolo di garante della legalità, di organo di
vigilanza e controllo sulla regolarità della procedura. Ed è proprio nel nuovo impianto
concordatario che assegna al curatore, ma soprattutto al comitato, importanti e innovativi
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compiti, che viene in evidenza la delicatezza e la pregnanza della funzione di garanzia che il
G.D. è chiamato ad assolvere assicurando il sostanziale rispetto dei passaggi procedurali
all’interno dei quali si svolge il vaglio di meritevolezza della proposta concordataria destinata
a pervenire, o meno, ai creditori.
Nella fase preparatoria della votazione il G.D. esercita un controllo preventivo sulla
completezza delle informazioni fornite nel parere del curatore, concernenti la fattibilità
nonchè i presumibili risultati della liquidazione, e sulla consapevole disamina svolta dal
comitato nel proprio parere motivato.
Il passaggio procedurale in cui il giudice dispone che la proposta sia comunicata ai creditori
presuppone, dunque, che il parere del curatore sia stato ritenuto completo in ordine ai suoi
contenuti informativi e che il parere motivato del comitato supporti la proposta quanto alla
sua comnvenienza. Solo sulla base di questo tassello i creditori possono, infatti, essere
chiamati ad esprimere un consenso informato e consapevole.
La disciplina assegna al comitato un ruolo incisivo e innovativo, sottolineato dalla
disposizione di cui all’art. 41 l.fall. che prevede che i pareri siano espressi motivando le
deliberazioni, sia pure succintamente.
L’importante ruolo assegnato al comitato dei creditori trova una puntuale realizzazione nel
concordato fallimentare laddove il parere negativo di tale organo, da rendersi sulla base delle
informazioni date dal curatore, è idoneo a realizzare un veto sulla proposta concordataria.
Venendo al caso in esame, è da registrarsi la circostanza della contemporanea pendenza di
due proposte di concordato fallimentare, sicchè il parere del curatore del 31.3.2008 ha avuto
ad oggetto le due diverse proposte e le relative integrazioni.
Il curatore premette che la procedura ha conseguito lusinghieri risultati e che la protrazione
della procedura appare più vantaggiosa rispetto all’alternativa concordataria. Prosegue
mettendo a confronto le due proposte, ritenendole di fatto equivalenti quanto all’impianto
concordatario, rivelando il vantaggio della proposta M quanto all’entità del prezzo offerto e i
tempi più ravvicinati di pagamento. Precisa che la liquidazione fondatamente può fare
conseguire benefici quantificabili nell’ordine di almeno 20 punti in più rispetto alla
percentuale offerta da X. Conclude affermando che “l’interessata fa l’affare della sua vita
acquistanto una miniera d’oro a prezzo fallimentare”, ma “la ragione suggerisce di
accontentarsi di pochi maledetti e subito”, sicchè fornisce parere favorevole sulla proposta
M.
Dalla documentazione acquisita emerge che in data 31.3.2008 il curatore trasmette proprio
parere al comitato dei creditori di esprimere parere sull’ipotesi di prosecuzione della
procedura, o, in alternativa, di assenso alla proposta Credit S. o alla proposta M.
In data, rispettivamente, 4.4.2008 e 10.4.2008 pervengono via fax “assegno” e “parere
favorevole” alla proposta M dai membri del comitato M. e da E, mentre Banca Y si astiene.
Da quanto sopra richiamato emerge che il comitato dei creditori, organo collegiale deputato
ad esprimersi sulla convenienza della proposta, non abbia espresso un proprio motivato
parere. Nè varrebbe affermare che il parere abbia richiamato quanto manifestato dal curatore.
Infatti, la natura delle valutazioni richieste al curatore, sulla base delle informazioni
possedute, con particolare riguardo ai presumibili risultati della liquidazione, e la sua
posizione di terzietà, consentono di assegnare a tale organo un ruolo tecnico-consultivo,
mentre il comitato è chiamato a svolgere una valutazione di convenienza alla valutazione
definitiva dei creditori, veri destinatari finali della proposta concordataria.
L’espressione di un parere favorevole o meno è funzione, invece, assegnata al comitato, il
quale, sulla base delle cognizioni assunte dal curatore, è messo in grado di valutare la
convenienza della proposta concordataria, sancendone, se del caso, l’arresto.
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La pregnanza del ruolo attribuito al comitato è corollario della sua collegialità, composto da
“membri scelti tra i creditori in modo da rappresentare in misura equilibrata quantità e qualità
dei crediti” e dai poteri di rappresentatività del ceto creditorio ad esso riconosciuti dalla legge.
La circostanza che nel caso in esame il curatore si sia spinto a dare indicazioni anche sulla
convenienza e che la maggioranza dei componenti il comitato abbia espresso, in conformità,
mero “parere positivo” sulla proposta M, e negativo sula proposta X, non consente di
ritenere adeguatamente assolto il compito spettante al comitato, vero organo cui è
demandato il compito di valutare la convenienza economica.
Il fatto poi, che la legge ammette come forma di comunicazione di pareri singolarmente
espressi, l’utilizzo di mezzo telefax o altro mezzo elettronico, non inficia il principio che le
deliberazioni debbano essere il frutto di un confronto fra i membri del collegio, i quali
debbono far convergere i propri pareri in un unitario momento valutativo, che dia conto
della serietà e della ponderatezza delle decisioni assunte, e che deve sfociare in una
manifestazione espressa ed intellegibile.
Ciò è ancora più vero per l’adozione di decisioni che, come nel presente caso, non possono
essere relegate a routine, ma coinvolgono il destino del fallimento e costituiscono il momento
espressivo più alto del ruolo assegnato al comitato dal legislatore.
In tal senso la motivazione assurge a criterio di controllo e criterio limite attraverso il quale è
consentito il vaglio del corretto esercizio delle modalità di esercizio della scelta discrezionale,
nonchè garanzia di una corretta informazione funzionale all’esercizio consapevole del voto.
La procedimentalizzazione nella formazione del volere, di cui la motivazione costituisce
garanzia di corretto esercizio dei poteri decisionali, è funzionale non solo ad una rafforzata
tutela dei disponenti il diritto, ma vale anche come modalità di controllo esterno della assenza
di esercizio arbitrario della discrezionalità quando nel procedimento stesso interferiscono
interessi contrapposti.
L’assenza di una motivata espressa valutazione da parte del comitato impedisce, dunque, di
ritenere il parere, ed il veto in esso insito, validamente formato, con conseguente sottrazione
del potere di scelta in capo a tutti i creditori. Tale mancanza integra un vizio del
procedimento idoneo a ledere l’interesse del reclamante a vedere assicurato il completo ed
esaustivo esame della propria proposta. A ciò si aggiunga che un membro del comitato si è
astenuto senza manifestare i motivi che legittimassero l’esercizio di tale facoltà che,
giuridicamente, è tale se trova il proprio esercizio in presenza dei presupposti previsti dalla
legge, e che non si identifica con mere ragioni di opportunità. Atteso infatti che il comitato è
chiamato a svolgere un ruolo di rappresentatività dell’intero ceto creditori, diretto alla tutela
della massa globalmente considerata, l’astensione dallo svolgimento del ruolo è da relegarsi a
evento eccezionale.
Il provvedimento del 7.5.2008, con la presa d’atto dei pareri espressi dal comitato, nel non
rilevare il vizio procedurale, risulta pertanto ridondare del vizio perfezionatosi a monte.
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CAPITOLO VII
IL CONCORDATO PREVENTIVO
SOMMARIO: VII.1. L’ammissione alla procedura – VII.2. Le classi dei creditori – VII.3. La
revoca dell’ammissione al concordato
VII.1 L’AMMISSIONE ALLA PROCEDURA
Trib. Salerno, 3 giugno 2005 5: “Il giudizio di fattibilità del piano”.
Il Tribunale, in relazione all’istanza di ammissione alla procedura di concordato
preventivo, può esercitare sulla proposta concordataria un controllo di merito, oltre che
di legittimità, diretto ad un proprio riscontro della completezza e correttezza dei dati
contabili esposti e sulla prognosi di concreta realizzabilità del piano.
Il Tribunale, sentito il Pubblico Ministero ed il debitore, ritenuto che la «EDM - S.P.A.» si
trovi in stato di crisi, ritenuto che ricorrano le condizioni descritte e previste dagli artt. 160 e
seguenti della legge fallimentare, verificata la completezza e la regolarità della
documentazione, dichiara aperta la procedura di concordato preventivo per i seguenti motivi.
1. Le norme applicabili
In merito alla domanda della EDM va subito ricordato che con il decreto legge 14 marzo
2005, n. 35, sono state introdotte alcune modifiche alla disciplina fallimentare contenuta nel
r.d. 16 marzo 1942, n. 267 e che tale novella non è stata modificata nella parte qui da
applicare dalla legge di conversione la n. 80 del 14 maggio 2005.
Così operando il legislatore ha riformato le norme in tema di concordato preventivo
disciplinato ora da una nuova formulazione di alcuni degli articoli dal 160 al 186, i quali si
applicano ai sensi dell'art. 2 comma 2-bis della legge di conversione, anche ai procedimenti di
concordato preventivo pendenti e non ancora omologati alla data di entrata in vigore delle
nuove disposizioni.
Il caso che ci occupa contempla la soddisfazione dei creditori attraverso un Concordato
Preventivo con cessione a loro di tutti i beni della EDM.
Tale istituto, per le ragioni che di seguito vedremo, oggi:
a) viene svincolato da ogni condizione di ammissibilità, sia personale che patrimoniale;
b) viene affrancato dal presupposto dello stato di insolvenza, che viene sostituito dalla «crisi»,
termine tradizionalmente usato per indicare una situazione meno grave;
c) viene liberato dalla necessità di offrire una percentuale ai creditori chirografari pari almeno
al 40%;
d) rimane, significativamente, ancorato al pagamento integrale dei creditori prelatizi: tanto
potendosi allo stato desumere anche dal fatto che ai sensi dell'art. 177 comma 3, l.fall., gli
stessi non sono ammessi al voto (salva la rinuncia ad almeno un terzo della prelazione);
e) rimane soggetto, ai sensi dell’art. 162 legge fallimentare, ad un controllo dell’autorità
giudiziaria non limitato alla verifica delle condizioni formali per l’ammissione al c.p. ma
consistente anche in un esame più sostanziale diretto ad un primo riscontro della
completezza dei dati contabili esposti e ad una prognosi sulla concreta realizzabilità del piano
5
In Fallimento n. 11 del 2005
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(con particolare riguardo alla salvaguardia delle ragioni dei creditori privilegiati non ipotecari
non ammessi al voto).
Pare opportuno ricordare che in merito alla modifica dell’istituto del concordato preventivo il
Legislatore non ha inteso consegnare una chiave di lettura significativa ed univoca di talché il
collegio è giunto alla suindicata linea interpretativa sulla base di una lettura complessiva
dell'istituto quale risultante dall'inserimento nel vecchio testo dei novellati articoli 160, 161,
163, 177, 180 e 181 della legge fallimentare. Infatti nella relazione di accompagnamento al
«Decreto legge sulle disposizioni urgenti nell'ambito del piano di azione per lo sviluppo
economico, sociale e territoriale» a proposito di questo istituto ci si limita a ricordare: «...Per
quanto concerne il concordato preventivo, le nuove regole rendono i creditori divisibili in classi che rendono più
omogenea l'espressione dei loro diversi interessi nell'ambito della procedura liquidatoria: il concordato diviene
lo strumento attraverso il quale la crisi dell'impresa può essere risolta anche attraverso accordi stragiudiziali
che abbiano a oggetto la ristrutturazione dell'impresa».
Con le nuove norme si sposta l'ottica dall'imprenditore all'impresa svincolando il c.p. da ogni
condizione di ammissibilità sia personale che patrimoniale, si modifica il presupposto dallo
stato di insolvenza allo stato di crisi, si fa cadere il «tabù» della parità di trattamento fra i
creditori prevedendo la possibilità di suddividere i creditori «in classi secondo posizione
giuridica ed interessi economici omogenei» e di prevedere «trattamenti differenziati tra
creditori appartenenti a classi diverse», senza che il legislatore delimiti né nel testo normativo
né nella relazione il ruolo dei creditori privilegiati cui si dedica soltanto un cenno nell'articolo
177 comma 3 e 4 l.fall..
Conseguentemente ci ritrova in una situazione normativa assolutamente nuova nella quale un
autorevole commentatore ha scritto, «... Il meccanismo attraverso il quale il limite del privilegio è
conservato a favore dei creditori preferenziali si evince dal sistema di voto delineato dal nuovo art. 177 l.fall..
Il creditore privilegiato laddove decida di avvalersi del diritto di voto, perde il privilegio, così come è accaduto
fino ad oggi; se, viceversa, rinunci all'anzidetto diritto,riceve quanto meno nei limiti del privilegio (anche poiché
il loro integrale soddisfacimento non è più un presupposto).
Con queste premesse, non si vede la ratio che ha spinto il legislatore a conservare la vecchia disposizione che
esclude dal voto i creditori prelatizi, rispetto ai quali, a seguito della riforma, è venuto meno il presupposto
dell'integrale soddisfacimento. Di conseguenza, questi ultimi non sono indifferenti all'esito del concordato
preventivo. Non mancano le ragioni per immaginare una differente interpretazione della novella, sul punto di
cui sopra».
Il collegio ritiene che in assenza di precise disposizioni normative ed in presenza soltanto di
una norma procedurale che differenzia il trattamento dei creditori privilegiati, non si possa
derogare alle disposizioni di legge attinenti la tutela privilegiata di alcuni crediti. Per questo, il
Collegio, precisa di ritenere che i creditori privilegiati debbano essere integralmente
soddisfatti salvo quelli che si siano avvalsi della facoltà di chiedere di poter essere ammessi ad
esercitare il diritto di voto e reputa che l'eventuale successivo verificarsi un loro mancato
integrale soddisfacimento dovrà essere comunque valutato dal collegio (tanto ai sensi del non
novellato articolo 186 legge fallimentare). Del resto analoga valutazione del collegio non può,
allo stato escludersi anche per tutti gli altri impegni assunti nel piano, ivi, compreso il
pagamento dei chirografari. Anche se, forse non infondatamente, un autorevole
commentatore ritiene «... nella penna del Legislatore» siano rimasti alcuni elementi essenziali
dell'istituto, per comprendere quale debba essere il ruolo del Giudice un essenziale
contributo perviene dal fatto che oggi possono essere presentate sia proposte di concordato
preventivo ai sensi dell'art. 160 legge fallimentare sia accordi stragiudiziali, ai sensi dell'art.
182 bis legge fallimentare, aventi ad oggetto la ristrutturazione dei debiti anche e soprattutto
privilegiati.
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È agevole, quindi, il prendere atto che il Legislatore non ha realizzato nell'ambito del c.p. da
taluni auspicata «privatizzazione dell'insolvenza», atteso che qui permangono tutta una serie
di momenti valutativi e tutta una serie di compiti in capo al Giudice a seconda delle diverse
evenienze ed in relazione alle differenti evoluzioni. Tuttavia è di ogni evidenza che
l'importazione dal settore pattizio (sussistente ad esempio in ambito bancario) dell'istituto
della «ristrutturazione del debito per superare la crisi dell'impresa», in uno all'applicazione
delle procedure speciali per le grandi imprese in crisi, determinerà una evoluzione non solo
del rapporto debitore-creditore ma anche degli altri due versanti della vicenda: il rapporto
creditore-giudice ed il rapporto debitore-giudice. Ad esempio: in presenza di una crisi di una
impresa (di medie dimensioni) come quella della EDM i creditori (soprattutto bancari)
privilegiati hanno l'opportunità di valutare con attenzione l'opportunità di rinunciare a parte
dei privilegi acquisiti e scegliere di votare accanto ai creditori chirografari, condividendo con
loro i rischi della procedura.
Parimenti il Giudice nel momento in cui è chiamato a valutare l'ammissibilità di una proposta
di c.p. deve prendere atto di non poter sapere se parte dei creditori privilegiati potrà scegliere
di rinunciare al diritto di prelazione, pur di ottenere il risultato dell'ammissione della EDM
alla procedura di c.p. Il che significa che il Giudice deve valutare l'ammissibilità su un piano
di lavoro suscettibile di differenti evoluzioni. Ma non solo: l'interpretazione offerta si fonda
anche su una attenta valutazione della posizione del creditore chirografario e/o privilegiato
rinunciante il quale ha diritto di pretendere che l'A.G. non si limiti ad un controllo
burocratico ed ha diritto di chiedere al Giudice di compiere una prima analisi dei dati fomiti
dall'azienda, della fattibilità del piano in modo da consentirgli una decisione non fondata
soltanto sui dati di controparte. In tal senso si legga anche l'art. 175 comma 3 l.fall. laddove
prevede che nell'adunanza dei creditori il debitore: abbia la facoltà di rispondere e contestare
a sua volta i crediti ed abbia «... il dovere di fornire al giudice gli opportuni chiarimenti».
Accanto a tale attività del Giudice vi sarà, poi, quella del Commissario Giudiziale chiamato a
depositare la relazione particolareggiata sulle proposte di concordato e sulle garanzie offerte
ai creditori.
Di qui, ancora, una conferma della necessità di un controllo di merito oltre che di legittimità,
di una ammissione alla procedura sulla base della convinzione fatta propria dal Giudice che la
prognosi di fattibilità proposta dal professionista non sia un azzardo ma sia una profonda e
meditata convinzione fondata su una analisi attenta dei dati aziendali (così come esposti dal
ricorrente), La tesi opposta - illustrata nel ricorso - sembra fondarsi su un preteso compito di
terzietà (indifferenza?) del Giudice che prima dovrebbe ammettere una proposta di c.p.
dichiarando di aver svolto soltanto un controllo formale e poi nel caso in cui soltanto la
maggioranza delle classi abbia approvato la proposta potrebbe operare .valutazioni
prognostiche. Tesi che àncora la tutela dei creditori privilegiati non ipotecari (tra cui i
lavoratori dipendenti), privi di voto, non ad un prudente, trasparente e appellabile controllo
giudiziario ma a fragili appigli.
In quest'ottica si ritiene opportuno concludere ribadendo che la funzione di vaglio
preliminare rimessa al Tribunale non si estrinsecava prima della riforma legislativa e non si
manifesta ora in un mero giudizio circa la legittimità della proposta. Oggi involge, ancora,
seppure in presenza della relazione di un professionista che attesta la veridicità dei dati
aziendali e la fattibilità del piano medesimo, in taluni casi l'apprezzamento nel merito della
serietà delle garanzie offerte dal debitore ed in altri, come quello odierno, la valutazione della
sufficienza dei beni ceduti a realizzare il piano descritto nel ricorso, Tanto ritenendo che,
seppure siano evidenti i difetti di coordinamento tra gli articoli 160, 161 e 163 riformulati e
l'immutato 162 il controllo del Tribunale non si debba limitare alla verifica della completezza
e della regolarità della documentazione (art. 163: «Il tribunale, verificata la completezza e la
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regolarità della documentazione, con decreto non soggetto a reclamo, dichiara aperta la
procedura di concordato preventivo ..,») ma debba involgere la valutazione della sufficienza
dei beni ceduti a realizzare il piano descritto nel ricorso (art. 162: «Il tribunale, sentito il pubblico
ministero e occorrendo il debitore, con decreto non soggetto a reclamo dichiara inammissibile la proposta se
non ricorrono le condizioni previste dal primo comma dell'art. 160 o se ritiene che la proposta di concordato
non risponde alle condizioni indicate nel secondo camma dello stesso articolo),
2. 182-bis
Va significativamente, peraltro, rilevato che l'EDM non ha proposto un intervento ai sensi
del nuovo art. 182 bis («Accordi di ristrutturazione dei debiti. Il debitore può depositare, con la
dichiarazione e la documentazione di cui all'articolo 161, un accordo di ristrutturazione dei
debiti stipulato con i creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti »). Tali
accordi, sottoscritti da almeno il 60% dei crediti ed accompagnati da una relazione di
fattibilità di un esperto, vincolano però soltanto i creditori che li hanno sottoscritti, mentre gli
altri dovranno essere pagati per l'intero. Qui - diversamente dal c.p. e per questo a conforto
dell'interpretazione data si esamina anche questo nuovo istituto - il controllo del Tribunale è
evidentemente del tutto successivo atteso che avviene esclusivamente nella fase
dell'omologazione (e non in due tempi come per il concordato preventivo) ed avrà un
oggetto ristretto diretto a verificare la regolarità della maggioranza, l'autenticità dei consensi,
lo scostamento economico delle percentuali rispetto ad un passivo che, in ipotesi, risulti ben
maggiore, la sussistenza delle condizioni procedurali. (omissis)
3. Il tipo di concordato preventivo proposto dall'EDM
Nella novella il legislatore - articolo 160 comma 1 lett. a) - prevede anche che
«L'imprenditore che si trova in stato di crisi può proporre ai creditori un concordato
preventivo sulla base di un piano che può prevedere ... la ristrutturazione dei debiti e la
soddisfazione dei crediti attraverso qualsiasi forma anche mediante cessione dei beni».
L'EDM ha scelto di non ristrutturare i debiti ed afferma di volerli soddisfare (quasi) tutti
mediante cessione dei beni. Vi potrebbe essere chi si chieda se questa forma ristretta di
concordato preventivo possa coincidere con la «cessio bonorum» previgente ma non è questo il
problema (utile, forse, al fine di salvaguardare alcune delle impostazioni interpretative di
alcuni degli istituti esecutivi del c.p.).
Infatti in questo concreto caso la EDM con la proposta depositata chiede di essere
autorizzata alla liquidazione dell’intero patrimonio, all'eliminazione fisica dell'azienda per il
soddisfacimento delle ragioni creditorie e per la salvaguardia della società, pur privata del suo
patrimonio.
4. Stato di crisi della EDM e non insolvenza
Ai fini dell'esperibilità del nuovo concordato preventivo il requisito fondamentale è la
sussistenza di uno stato di crisi dell'impresa.
Nel caso di specie, tralasciando il fatto che il Legislatore non ha fornito alcuna definizione né
spiegazione di cosa debba intendersi per stato di crisi, è agevole il prendere atto che la EDM
è in un profondo ed irreversibile stato di crisi economica perché non è più in grado di
realizzare il suo oggetto sociale ma ha ancora un considerevole patrimonio.
Il Collegio è ben consapevole delle difficoltà che si incontreranno nella liquidazione del
medesimo ma la descrizione degli elementi patrimoniali - risultante dalle indicazioni fomite
dal ricorrente con gli atti allegati a corredo della domanda e soprattutto con gli atti allegati
alla memoria per l'udienza del 31 maggio 2005 - appare, allo stato, sufficientemente
tranquillizzante.
È vero che l'attività produttiva è oggi interrotta, ma è anche vero che il ricorrente ha
dimostrato l'insussistenza dei sintomi tipici dell'insolvenza atteso che:
1) a carico di EDM non esistono procedure esecutive e/o ricorsi di fallimento;
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2) non vi sono protesti;
3) non vi sono diritti reali di garanzia sui beni al di fuori di quelli del credito ipotecario di
primo grado (EFIBANCA) e secondo grado (Convenzione Interbancaria)
4) non vi è stato il licenziamento dei lavoratori dipendenti (anche se il ricorrente dichiara che
la merce non è stata più consegnata alla clientela «... sia per la logica delle commesse programmate a
tempo ed a lotti sia per il blocco dell'attività seguita all'agitazione delle maestranze»);
5) non vi sono ancora gravi inadempimenti ma missive come quella depositata il 31 maggio
2005 della Del Monte Foods confermano l'interruzione della produzione senza previo
scioglimento dei contratti di somministrazione a primari gruppi (con possibili ricadute
negative anche in termini di consegna dei prodotti finiti).
Il ricorrente ha motivato la propria scelta di non procedere allo scioglimento definitivo ed
immediato dei rapporti di lavoro affermando che ritiene possibile da un lato garantire
l'accesso agli ammortizzatori sociale e dall'altro la cessione dell'azienda o di rami della stessa
con i connessi rapporti di lavoro. L'esame delle condizioni patrimoniali attuali conferma che
non sussiste lo stato di insolvenza e, quindi, consente di apprezzare: «... l'ipotesi di lavoro che
prevede il trasferimento dell'immobile separatamente dall’azienza (in toto o suddivisa in rami: esempio
litografia, carte valori, modulistica) . Tale fattispecie trova fondamento nel fatto che i possibili acquirenti
dell'azienda (o di suoi rami) non possono che essere imprenditori, già dotati di proprie realtà produttive, che
realizzerebbero l'operazione di acquisizione in strategie di sviluppo o di tipo verticale (crescita volumi) e/o di
tipo laterale! diagonale (mercati/prodotti)».
In tal senso si veda il deposito all’udienza del 31 maggio 2005 delle missive di due imprese
interessate all'acquisto di rami di azienda.
5. Valutazione dei dati comunicati e della fattibilità del piano
5.1 Prospetto attività/crediti certificato
L’azienda ha depositato il seguente prospetto avvalorato da un professionista (omissis).
5.2 Garanzie di veridicità dei dati aziendali
Significativa è l'osservazione di quegli autorevoli commentatori in merito alla garanzia di
veridicità dei dati aziendali che gli amministratori hanno avendo proposto ai sensi dell'art.
152 l.fall. il progetto di concordato preventivo all'assemblea straordinaria degli azionisti.
Certamente il professionista incaricato dall'impresa garantirà quanto meno di aver svolto le
opportune e necessarie verifiche. In questo contesto il Giudice deve - come ha fatto con
l'ordinanza in atti - segnalare l'opportunità di depositare tutti i dati necessari per la
valutazione delle poste contabili, per verificare la tesi espressa dalla EDM che sia possibile
soddisfare i creditori privilegiati nella misura del 100% e i chirografari nella misura
prudenziale almeno dell’80% anche se è « dato presumere, con ragionevole probabilità che anche tali
creditori ... saranno integralmente soddisfatti ...».
Infatti è preoccupante il raffronto tra l'elevato ammontare dei criteri privilegiati ammontanti
ad € 9.130.766,06 ed il valore delle attività realizzabili quantificate dal ricorrente come pari ad
€ 12.992.563,07. Certo è che la ricorrente ha depositato documentazione ulteriore al fine di
fugare il dubbio del giudicante sull'insussistenza della forbice di € 3.861.797,01 tra attivo e
passivo.
La rilettura dei nuovi dati fomiti al giudicante consente di prendere atto che gli elementi
indicati nel prospetto all’attivo dovrebbero essere sufficienti a generare risorse tali da soddisfare
non solo i creditori privilegiati muniti di diritti reali sull’immobile ma anche i crediti dei
dipendenti e dei chirografari.
(omissis)
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VII.2 LE CLASSI DEI CREDITORI
Cass. 4 febbraio 2009 n. 2706: “Criteri per la formazione delle classi da parte del
debitore”
Le questioni esaminate dalla decisione della casszione sono due. La prima riguarda la figura del
professionista al quale è demandata la redazione della relazione da allegare alla proposta di
concordato: se questi debba avere caratteristische di indipendenza rispetto all’imprenditore o meno.
La seconda concerne l’individuazione in concreto dei criteri da seguire, da parte del debitore, nella
corretta formazione delle classi di creditori, chiamati a votare sulla proposta di concordato.
L'esclusione, da parte della nuova disciplina del concordato preventivo introdotta dal d.l.
14.3.2005 n. 35 convertito con modificazioni dalla l. 14.05.2005 n. 80, di molti dei requisiti di
natura personale richiesti invece dalla precedente normativa all'art. 160 l.fall. nonché la
maggiore autonomia lasciata ai creditori nell’approvazione del Piano ed il ruolo centrale che
essi esercitano a tal fine hanno comportato la riduzione ma non l'esclusione della sfera
d'intervento del Tribunale, chiamato pur sempre al controllo di legalità nell'ambito di una più
accentuata natura privatistica dell'istituto con poteri che possono estendersi anche, sia pure in
un ambito più ristretto, a valutazioni di merito (vedi art. 177 comma 2 l.fall.).
Limitatamente alla correttezza di detto controllo di legalità, affidato successivamente alla
Corte di Appello per il riesame della sentenza di primo grado, è consentito quindi il sindacato
di legittimità di questa Corte in relazione alle censure prospettate.
Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli
artt. 28 e 161 L.F. sia nel testo previgente che in quello introdotto dal d.l. n. 35/2005
convertito con l. n. 80/05 nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.
Lamentano che la Corte d'Appello non abbia ravvisato lo stato di incompatibilità del
professionista che aveva redatto la relazione allegata alla proposta di concordato sei mesi
prima dell'entrata in vigore della nuova normativa sebbene fosse il soggetto di riferimento
della società proponente, avendo svolto l'incarico di consulente di parte nel giudizio
riguardante l'annullabilità della delibera dell'approvazione del bilancio 2003 nonché quello di
rappresentante della maggioranza in tre assemblee societarie e configurandosi in tal modo sia
l'ipotesi prevista della precedente norma riguardante i precedenti incarichi svolti per conto
dello stesso soggetto e sia l’ipotesi di conflitto di interessi. Sostengono che che la Corte
d'Appello, nonostante detto professionista avesse sostanzialmente agito nell'interesse dei
propri clienti, proprietari e gestori della società assuntrice, avesse escluso senza alcuna
motivazione anche la situazione di conflitto di interessi prevista pure dal successivo testo
erroneamente ritenuto dalla Corte applicabile nella fattispecie sebbene entrata in vigore solo
successivamente all'avvio della procedura. Deducono altresì che tale situazione
d'incompatibilità aveva avuto riflessi sul contenuto della relazione in cui era stata omessa ogni
valutazione sul valore della partecipazione della controllata e degli immobili di quest'ultima.
Sostengono la irrilevanza ai fini in esame della mancata previsione di sanzioni per
l'inosservanza di tali obblighi in quanto la relazione, avendo il compito di fornire al giudice ed
al commissario giudiziale seri elementi di valutazione, assume una finalità pubblicistica per la
quale non deve difettare nell'esperto il requisito della terzietà.
La parziale modifica dell’art. 28 l.fall., richiamato dall’art. 161 della stessa legge per
l'indicazione dei requisiti richiesti nel professionista incaricato della relazione che
accompagna il piano contenuto nella domanda di ammissione al concordato preventivo,
pone il problema dell’individuazione della disciplina applicabile in quanto, proprio con
riguardo al caso come quello in esame del professionista che ha svolto in precedenza degli
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incarichi per conto della società proponente, la nuova normativa ha innovato, non
prevedendo più tra le ipotesi di incompatibilità quella del professionista “che ha prestato
comunque la sua attività professionale” a favore di colui nei cui confronti si è aperta la
procedura.
Ne caso in esame la domanda di ammissione al concordato preventivo è stata depositata in
data 17.1.2006, il novellato art. 161 l.fall. che ha richiamato l’art. 28 è stato introdotto con
decorrenza 16.3.2005 dell'art. 2 d.l. 35/05 convertito dalla l. n. 80/05 mentre l'art. 28, nella
nuova formulazione prevista dall'art. 25 d. lgs. n. 5/06, è entrato in vigoreil 16.7.2006.
Al momento della proposizione della domanda di ammissione al concordato preventivo,
corredata dalla relazione del professionista, l'art. 28 era quindi in vigore nella originaria
formulazione che prevedeva, come si è già rilevato, l’incompatibilità per il professionista che
avesse svolto la sua attività a favore del richiedente, con la conseguenza che questa dovrebbe
ritenersi la norma applicabile, non potendosi attribuire in linea di principio alla nuova
normativa efficacia retroattiva.
Tuttavia la soluzione del problema non può prescindere dal contenuto di tale norma la quale,
eliminando l'ipotesi di incompatibilità prevista precedentemente, ha legittimato la posizione
del professionista nell'ambito della procedura di ammissione al concordato non ancora
conclusa. Del resto si è in presenza di un’ipotesi, non già di incapacità, nell'ambito della quale
deve escludersi in radice la validità degli atti compiuti, ma di mera incompatibilità la quale
ben può essere rimossa con effetti sananti o per il venir meno dei presupposti di fatto che la
determinavano ovvero in conseguenza di una nuova disposizione normativa che l'ipotesi di
incompatibilità non prevede più.
Quale che sia il ruolo che la legge ha inteso attribuire al professionista nei cui confronti non
può non riconoscersi anche una posizione di terzietà pur se connotata da un rapporto di
fiducia con l'imprenditore, devesi prendere atto che le esposte conclusioni sono in linea con
l'ulteriore evoluzione della disciplina caratterizzata dal mancato richiamo dell'ultimo comma
dell'art. 28 da parte del successivo D. Lgs. 169/07 (vedi l'art. 67 comma 3 lett. d) che ha
richiamato solo le lett. a) e b) dell'art. 28), con la conseguente necessità di un'interpretazione
evolutiva che tengo conto della previsione meno rigorosa successivamente emanata.
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 2467
comma 1 c.c. e 184 L.F. nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.
Lamentano che la Corte d'Appello non abbia considerato che la proposta di concordato,
prevedendo nelle classi B e D, rispettivamente, i crediti chirografari dei soci fideiussori
escussi dalle banche ed i crediti chirografari dei finanziamenti dei soci, concreta una palese
violazione del regime di postergazione previsto dall'art. 2467 comma 1 c.c. e che quindi
erroneamente abbia ritenuto derogabile tale norma, in assenza di espresso divieto, sul rilievo
che essa è posta nell'interesse dei creditori. A tal fine sottolineano che la stragrande
maggioranza dei soci ammessi al voto (circa 2/3) era rappresentata da soci fideiussori escussi
già dalle banche ai quali, se fosse stato applicato correttamente il regime della postergazione,
non sarebbe stato consentito di far parte del ceto creditorio votante. Osservano altresì che la
restituzione dell'importo versato, previsto dall'art. 2467 comma 1 c.c., non sarebbe
giuridicamente possibile se effettuato in sede di concordato preventivo, ostandovi la
previsione di cui all'art. 67 comma 3 lett. e) l.fall. che esonera dall'azione revocatoria, in caso
di fallimento, i pagamenti effettuati appunto in esecuzione del concordato preventivo.
Sostengo altresì che la pretesa derogabilità di detta norma da parte della maggioranza dei
creditori urta anche contro la finalità esdebitatoria di massa del concordato preventivo e che
in ogni caso si verteva in una situazione di eccessivo squilibrio.
La censura è fondata nei termini che qui di seguito saranno precisati.
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La libertà lasciata al debitore nella suddivisione dei creditori in classi nell'ambito della
formazione del piano per l'ammissione al concordato preventivo prevista dall'art. 160 l.fall. come sostituito con decorrenza 16.3.2005 dall'art. 2 lett. d) del d.l. n. 35/05 convertito con
modifiche dalla Legge 80/05 – trova un primo limite nella lett. c) del primo comma dello
stesso art. 160 l.fall. la quale prevede la necessità che detta suddivisione avvenga “secondo
posizioni giuridiche e interessi economici omogenei”.
Quanto al primo profilo che richiama sostanzialmente, secondo un orientamento non del
tutto condiviso in dottrina, la distinzione fra crediti privilegiati e crediti chirografari, la
questione è irrilevante nel caso in esame, non ponendosi problemi riguardanti la natura dei
crediti.
Ruolo centrale esercita invece la locuzione “interessi economici omogenei” nella quale rientra
la posizione dei crediti aventi medesimi caratteristiche in relazione alla categoria di
appartenenza ai creditori.
Orbene, con riferimento a tale ulteriore requisito, deve escludersi che i soci finanziatori
possano essere inseriti nel piano di cui facciano parte anche altri creditori chirografari non
solo per la loro diversa posizione nei confronti della società rispetto ai terzi ma soprattutto
per la previsione di cui all'art. 2467 comma 1 c.c. che ha introdotto il principio della
postergazione delle loro ragioni creditorie rispetto a quelle degli altri creditori, con l’obbligo,
oltre tutto, di restituzione se il pagamento in loro favore sia avvenuto nell'anno precedente
alla dichiarazione di fallimento. Principio questo che comporta necessariamente quale
corollario l'inapplicabilità in tal caso dell'art. 67 comma 3 L.F. che prevede, nell'ipotesi di
successivo fallimento, l’esclusione dalla revocatoria per gli atti ed i pagamenti posti in essere
in esecuzione del concordato preventivo.
La finalità della postergazione e l'obbligo della restituzione risulterebbero infatti frustrati
qualora si consentisse anche nei loro confronti la esclusione della revocatoria.
In sostanza, in base a tale principio applicabile in presenza di una procedura concorsuale, si è
inteso vietare, attraverso il meccanismo della postergazione, il pagamento in pregiudizio degli
altri creditori, assimilandosi in tal modo ai fini in esame i finanziamenti ai conferimenti nel
capitale di rischio.
In tale contesto normativo non è consentito ritenere quindi che siano portatori di “interessi
economici omogenei” i soci finanziatori ed i terzi creditori e non può considerarsi quindi
rispondente alla previsione di legge il loro inserimento nel piano.
Trattandosi però pur sempre di creditori, da soddisfare eventualmente dopo l'estinzione degli
altri crediti, non si esclude la possibilità di deroga al principio della postergazione, ma ciò può
avvenire solo con il consenso della maggioranza di ciascuna classe e non già, come sembra
sostenere la Corte d'Appello, con il solo consenso della maggioranza assoluta del totale dei
crediti chirografari. La tutela degli interessi delle minoranze, allorché esprimano il loro
dissenso, ottenendo la maggioranza, nell'ambito della loro classe, esige infatti la puntuale
applicazione del principio della postergazione e l'impossibilità quindi di inserimento dei soci
finanziatori nelle classi medesime.
Le esposte considerazioni, frutto della interpretazione del combinato disposto di cui agli artt.
160 comma 1 lett. c) l.fall. nella nuova formulazione e 2467 comma 1 c.c., trovano però un
temperamento nello stesso art. 2467 c.c. il quale al secondo comma limita l’applicabilità del
principio della postergazione a quei finanziamenti effettuati dai soci a favore della società
sotto qualsiasi forma “in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività
esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell'indebitamento rispetto al
patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società rispetto alla quale sarebbe
stato ragionevole un conferimento”.
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In ordine a tale ulteriore questione, certamente rilevante ai fini della decisione e che richiede
in via preventiva un accertamento di fatto, la Corte d’Appello non ha operato alcun richiamo
della norma né, a maggior ragione, ha effettuato alcuna valutazione e tale omissione risulta
puntualmente censurata nel motivo di ricorso in esame in cui viene sottolineata la necessità di
verificare se i finanziamenti siano stati effettuati nel contesto di una situazione riconducibile
al secondo comma dell’art. 2467 c.c. il cui contenuto è stato testé riportato.
VII.3. LA REVOCA DELL’AMMISSIONE AL CONCORDATO PREVENTIVO
Trib. Casale Monferrato, 10 febbraio 2009: “Gli atti di frode che comportano la revoca
del concordato”
Il Tribunale, avendo ricevuto la denunzia del compimento, da parte dell’imprenditore
già ammesso al concordato preventivo, esamina le questioni inerenti l’individuazione dei
fatti che possono portare alla revoca del concordato, ai sensi del’art. 173,
puntualizzando che gli stessi vanno riferiti alla c ondotta dell’imprenditore sia anteriore
che successiva all a presentazione della pro posta di concordato. Inoltre, si chiarisce che il
concetto di frode, contenuto nell’art., 173 l.fall., deve essere riferito non più ad una
valutazione “personale” del comportamento pregresso del debitore bensì ad una verifica
specifica dell’influenza negativa di taluni comportamenti sulla serietà dell’approccio
alla procedura concorsuale, nonché circa il compimento di atti in pregiudizio dei
creditori.
E' bene ricordare che, venuto meno, con la riforma del diritto fallimentare, il requisito della
meritevolezza e mutate le valutazioni demandate al Tribunale in sede di omologa, il tema
relativo all’interpretazione dell'art. 173 l.fall. è venuto ad assumere un ruolo diverso e per
certi aspetti più delicato.
Come è noto la dottrina che ha commentato la norma de quo ha sottolineato come gli atti di
frode di cui all'art. 173 LF sono divisibili in due categorie, riconducibili al primo e al secondo
comma dell’art. 173 cit.
La norma, invero, prevede al primo comma una serie di atti di frode tipizzati (la
dissimulazione o l’occultamento di pare dell’attivo, l'omessa denunzia di uno o più crediti,
l'esposizione di passività inesistenti) e “altri atti di frode” compiuti dall’imprenditore prima
dell’apertura della procedura; al secondo comma sono previsti atti di mala gestio attuati nel
corso della procedura; chiude la disposizione la generale previsione – ugualmente preclusiva
della prosecuzione della procedura- relativa alla mancanza, verificata in qualunque momento,
delle “condizioni prescritte per l'ammissione al concordato”.
La norma non è stata oggetto di alcuna modifica a seguito degli interventi innovatori che
hanno riguardato il concordato preventivo ed anzi con il D. Lgs n. 169/2007 tale norma ha
trovato esplicita conferma.
Osserva questo Collegio che occorre però coordinare la norma con la natura contrattuale
dell’istituto concordatario ed in particolare giova considerare che se in passato la norma
aveva la funzione di sanzionare il “disvalore” di taluni comportamenti del debitore che lo
rendevano immeritevole del beneficiario concordatario, attualmente il criterio determinante
(eliminato ogni riferimento alla correttezza contabile ed alla meritevolezza comportamentale)
deve essere visto alla luce della richiesta adeguatezza del piano di soluzione della crisi e della
valutazione positiva da parte dei creditori.
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In tale prospettiva interpretativa la dottrina ha evidenziato come il concetto di frode debba
essere riferito non più ad una valutazione “personale” del comportamento pregresso del
debitore bensì ad una verifica specifica dell'influenza negativa di taluni comportamenti sulla
serietà dell'approccio alla procedura concorsuale, nonché circa il compimento di atti in
pregiudizio dei creditori.
Nessun dubbio sussiste in ordine al fatto che possano essere valutate condotte poste in
essere precedentemente la presentazione del concordato preventivo: a tale conclusione si
giunge in quanto il 3° comma della norma disciplina espressamente le condotte che possono
portare all’arresto della procedura se commesse dopo l’ammissione, con ciò delineando
l’ambito di operatività temporale del primo comma.
A tale assorbente considerazione si aggiunga che ragionando diversamente, e quindi
attribuendo rilievo ai soli atti successivi alla domanda “basterebbe sottrarre la cassa il giorno
prima del deposito del ricorso per sfuggire all’applicazione della norma”.
Nessun dubbio, infine, sussiste in ordine al fatto che la funzione sanzionatoria della norma di
cui all’ultimo comma della norma e le gravità delle conseguenze che ne derivano ne
consentano l’applicazione solo nei casi in cui la condotta fraudolenta dell'imprenditore si
possa ritenere positivamente accertata, anche in via presuntiva, purché nei limiti dell'art. 2729
c.c. E non sia del tutto avulsa dalla proposizione del concordato.
(omissis)
[Nel caso di specie]non si può affermare che gli amministratori siano venuti meno all’obbligo
di trasparenza e correttezza che deve caratterizzare la loro condotta prima e durante la
procedura, fino all’omologa.
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CAPITOLO VIII
GLI ACCORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI
SOMMARIO: VII.1 Gli accordi di ristrutturazione dei debiti
VII.1 GLI ACORDI DI RISTRUTTURAZIONE DEI DEBITI
Trib. Ancona, 12 novembre 2008: “Il giudizio di omologazione”.
L’introduzione dell’istituto degli accordi di ristrutturazione dei debiti è ispirata,
unitamente alla rivisitazione del concordato preventivo, di cui agli artt. 160 ss. l.fall.,
ed ai piani di risanamento di cui all’art. 67, comma 3, lett. d) l.fall ., all’intento di
aumentare il novero degli strumenti di soluzione della crisi alternativi al fallimento e di
agevolarne e velocizzarne la accessibilità da parte dell’imprenditore. Tra i problemi
sollevati da tale nuovo istituto rileva in particolare l a sua collocazione sistematica,
essendo dubbio se esso vada considerato quale procedimento autonomo oppure quale
sottospecie particolare del concordato preventivo, dovendosi, in questo secondo caso,
ritenere applicabili agli accordi di ristrutturazione le norme dettate per l’istituto del
concordato attraverso un’opera di coordinamento dell’art. 182 bis l.fall., con gli artt.
160 ss, l.fall.
Il primo orientamento si fonda sulla natura nego ziale degli accordi di ristrutturazione e
sulla conseguente assenza di effetti remissori per i creditori non aderenti, i quali devono
perciò essere soddisfatti regolarmente, sulla circostanza che l’art. 182 bis richiama solo
alcune delle norme dettate in materia di concordato e sul dato letterale dell’uso, nell’art.
67, comma 3, lett. e), della congiunzione nonché tra le espressioni «concordato
preventivo» e «accordo omologato ai sensi dell’art. 182 bis», ma anche della rubrica del
titolo III della legge fallimentare - «Del concordato preventivo e degli accordi di
ristrutturazione» - e della rubrica del capo V del titolo III- «Dell’omologazione e
dell’esecuzione del concordato preventivo. Degli accordi di ristrutturazione».
A suffragio del secondo orientamento rileva la circostanza che anche secondo la
disciplina del concordato esiste una categoria di creditori, quella dei privilegiati, che
può rimanere estranea all’ accordo e che tale nuovo istituto non è disciplinato da un
titolo autonomo, quale era, invece, l’amministrazione controllata.
La decisione del Tribunale di Ancona esamina i requisiti necessari per l’omologazione
dell’accordo di ristrutturazione, esaminando l’ipotesi in cui al piano si accompagni
anche una transazione fiscale.
In data 20.5.2008 la SRL ha deliberato di sottoporre ai creditori un piano di ristrutturazione
dei debiti ai sensi dell’art. 182 bis l.fall., con transazione fiscale ai sensi dell’art. 182 ter l.fall.
L’accordo di ristrutturazione, con il corredo della proposta i transazione fiscale ex art. 182 ter
l.fall., è stato sottoscritto al debitore proponente e dal creditore aderente, L’Agenzia delle
Entrate.
L’Agenzia delle Entrate che ha sottoscritto l’accordo vanta il credito complessivo di €
2.376.311, credito che rappresenta oltre il 98,95% dell’intero indebitamento della Società, di
complessivi 2.401.511.
L’unico creditore estraneo all’accordo vanta un credito di € 25.200, che rappresenta l’1,05%
dell’intero indebitamento della Società.
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La documentazione depositata unitamente al ricorso per omologazione comprende la
documentazione di cui all’art. 182 bis comma 1 l.fall. e, in particolare:
1) relazione del professionista in possesso dei requisiti previsti dall’art. 67, 3° comma, lett. d)
l.fall., asseverata davanti al Tribunale di Ancona, che attesta la fattibilità dell’accordo e la sua
idoneità ad assicurare il regolare pagamento, secondo le modalità previste nel titolo
costitutivo dell’obbligazione, ovvero in mancanza, della legge, dei creditori ad esso estranei;
2) relazione aggiornata sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria del debitore;
3) stato analitico ed estimativo delle attività del debitore;
4) elenco nominativo dei creditori, con indicazione dei rispettivi crediti e delle cause di
prelazione;
5) certificato di iscrizione nel registro delle imprese;
6) verbale di delibera dell’amministratore unico ex art. 152 l.fall.
Nessuna opposizione è stata proposta nel termine stabilito dall’art. 182 bis, comma 4, l.fall.,
di trenta giorni dalla pubblicazione nel registro delle imprese.
Rilevato che il Tribunale nel giudizio di omologa deve in primo luogo vagliare la sussistenza
dei presupposti, delle condizioni processuali di accesso elencate dal 1° comma, tra cui il
raggiungimento della percentuale di adesioni del 60% dei crediti rispetto al passivo
complessivo del debitore.
Tra le condizioni processuali di accesso rientra sicuramente la prova dell’avvenuto deposito
dell’accordo presso il registro delle imprese, nonchè, ovviamente, la competenza del tribunale
adito e la qualità di imprenditore commerciale del debitore istante.
Il controllo preventivo dell’organo giudiziario ha ad oggetto anche la verifica del deposito
della relazione dell’esperto e della documentazione prevista dal riecheggiato art. 161 l.fall.
Va rilevato che nel caso di specie sussistono i presupposti d’accesso elencati dal primo
comma tra cui il raggiungimento della percentuale di adesione del 60% dei crediti rispetto al
passivo complessivo del debitore, percentuale che va calcolata sul totale dei crediti,
indipendentemente dalla loro natura (chirografaria o privilegiata).
Dalla verifica della documentazione prodotta unitamente al ricorso risulta l’approvazione
dell’accordo da parte dell’Agenzia delle Entrate, che è titolare di un credito pari al 98,95%
dell’ammontare totale dei crediti.
Ciò posto, va sottolineato come l’oggetto della decisione sia rappresentato dal sindacato
sull’attuabilità dell’accordo con particolare riferimento al soddisfacimento integrale dei
creditori estranei.
Il Tribunale, con giudizio prognostico ex ante, deve valutare l’attuabilità dell’accordo, tenuto
conto del fatto che il successivo inadempimento del debotore cristallizzerebbe – con
l’esenzione da revocatoria prevista dall’art. 67, comma 3, lett. e) degli atti, dei pagamenti e
delle garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato – una situazione non più
rimediabile, a scapito dei creditori estranei, pur se privilegiati.
In tale prospettiva il tribunale deve quindi, in ogni caso, valutare il merito del ricorso con
particolare attenzione alla concreta attuabilità del piano, alle concrete prospettive di realizzo
prospettate, alla sussistenza di una ragionevole liquidità, tale da consentire il regolare
pagamento dei creditori estranei all’accordo.
Ritiene il Collegio che, nel caso di specie sussistono tute le condizioni di legge per addivenire
alla omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, in quanto il pagamento
dell’unico creditore insoddisfatto è garantito allo stato da sufficienti disponibilità liquide dell
società.
(omissis)
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VIII.2 LA TRANSAZIONE FISCALE
Trib. Roma, 27 gennaio 2009: “La classe dei creditori per i debiti fiscali”
Il Tribunale affronta la questione della rilevanza della transazione fiscale, prevista
dall’ art. 182 ter l.fall., con riferimento alle proc edure concorsuali e, specificamente, nel
caso esaminato, del concordato preventivo, pervenendo alla valutazione che si tratti non
già di istituto autonomo, ma funzionale all’esecuzione del concordato stesso. Per cui,
ove sia stata raggiunta una transazione fiscale tra l’imprenditore proponente il
concordato preventivo e l’Agenzia delle Entrate, il successivo voto contrario di
quest’ultima al concordato (o egual mente di mancata manifestazione del voto) può essere
neutralizzato dal Tribunale, valutando conseguita la maggioranza se raggiunta
nell’ambito delle altre classi.
Nella procedura di concordato preventivo n. 14/08 della ALFA spa;
udita la relazione del Giudice delegato;
letti gli atti della procedura segnatamente la relazione del commissario giudiziale all'esito dello
scadere del termine di venti giorni per l'espressione del voto da parte dei ereditari; ritenuto di
condividere le valutazioni del curatore relativamente ai crediti T., escluso e B., conteggiato
due volte;
ritenuto conseguentemente che sulla base del conteggio dei voti stessi, risulta che la proposta
ha conseguito voti per complessivi € 10.066.409,68 e dunque raggiunto la maggioranza
complessiva necessaria che è pari ad €. 9.381.073,39;
ciò premesso stante la situazione determinatasi, al fine di stabilire che la proposta può
intendersi approvata anche nell'ambito del voto per classi devono essere affrontati alcuni
problemi:
a) quale sia l'effettivo numero e la composizione delle classi;
b) l’effetto della mancata espressione del voto da parte dell'Agenzia delle Entrate;
c) il conteggio dettagliato dei voti nell'ambito di ciascuna classe.
Sul primo punto si devono rilevare due distinti punti critici: 1) che il piano contiene la classe
denominata come A, che è formata solamente da creditori privilegiati di cui è proposto il
pagamento integrale e dunque non è ammessa a votare ai sensi dell'art. 177; tale classe, in
quanto tale, non può essere ritenuta esistente, proprio in quanto composta totalmente da
soggetti che non partecipano alla formazione delle maggioranze; 2) che il piano contiene due
classi, formate entrambe dagli stessi creditori: la classe denominata B), formata dal crediti
creditori, cui è offerto il pagamento in misura del 60%, e la classe denominata C), composta
dagli stessi crediti, per la parte degradata a chirografo, cui è offerto il pagamento del 30% (del
40% non pagato nell'ambito della classe B); applicando letteralmente il piano casi come
proposto, ne deriverebbe che gli stessi creditori (fiscali) voterebbero per ben tre volte, e cioè
nell’ambito della maggioranza complessiva, nell’ambito della classe sub B) e nell'ambito della
classe sub C); in particolare, il riconoscimento del voto in due distinte classi determinerebbe
una inammissibile reiterazione del voto ed una dilatazione del potere di tale creditore, che
con una sola posizione attiva si trova a disporre (stante la composizione maggioritaria) del
voto di due classi oltre quello complessivo; inoltre, tali creditori finirebbero per votare
nell'ambito di una classe (sub B) che prevede anch'essa il pagamento integrale dei crediti;
ciò premesso, ritiene anzitutto il tribunale che, in questa sede, sia possibile riqualificare la
proposta, pur non modificandone il contenuto, al fine di stabilire le classi votanti e quindi
valutare correttamente il voto espresso dai creditori nel loro ambito;
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- ritiene quindi che, nell'ambito di tale riqualificazione, le classi formate sub A) e sub B) nella
proposta non debbano conteggiarsi al fine del voto delle classi di cui all'art. 177, primo
comma, secondo periodo e dunque il voto delle classi vada conteggiato in relazione alle tre
classi denominate C), D) ed E); ciò in quanto non può consentirsi una moltiplicazione del
voto di taluno dei creditori, attraverso la frammentazione del suo trattamento;
- sul secondo punto è noto che si scontrano due opposte tesi: a) quella dell'autonomia della
transazione fiscale, secondo cui comunque il suo perfezionamento e la sua validità
costituiscono condizioni essenziali della possibilità di pervenire alla falcidia dei crediti
privilegiati fiscali nel concordato preventivo; b) quella opposta che, proprio in ragione della
non autonomia dell'istituto di cui all'art. 182 ter rispetto al concordato preventivo, ritiene
che comunque il voto contrario dell'agenzia fiscale non impedisca che il concordato possa
spiegare pienamente i suoi effetti e che quindi, ove lo stesso sia approvato, il pagamento
percentuale previsto per i crediti fiscali divenga efficiente ed obbligatorio verso tutti i
creditori; sulla prima tesi è attestata parte della dottrina e sulla seconda la giurisprudenza di
merito che sinora si è espressa sul punto e altra parte della dottrina;
- ritiene il collegio di aderire alla seconda tesi che respinge l'autonomia, per le seguenti
ragioni: i) l'art. 182 ter non si discosta dall'art. 160 lo f. nel prevedere la possibile falcidia dei
crediti privilegiati tributari, ma aggiunge a tale previsione la disciplina procedurale attraverso
cui gli uffici fiscali pervengono al voto; ii) quello della transazione fiscale non costituisce un
vero e proprio negozio a contenuto transattivo, poiché non è prevista la stipula di un
accordo contenente reciproche concessioni e attraverso di esso non si tende a risolvere o
prevenire una lite tra il fisco e il debitore; in tal senso sarebbe quindi improprio parlare di
autonomia di tale negozio rispetto al diverso e più generale negozio costituito dal
concordato; iii) già il contenuto precettlvo dell'art. 160 sulla falcidia dei crediti privilegiati è
sufficiente a consentire il superamento del principio d’indisponibllità dei crediti tributari, che
non ha rango costituzionale; iv) dal punto di vista funzionale, la transazione fiscale si
atteggia quale procedura predisposta per consentire agli uffici fiscali di partecipare al
concordato col loro voto e per dettare le regole attraverso cui legittimamente i relativi uffici
esprimono Il voto; v) formalmente, quello espresso dagli uffici fiscali è un voto, reso alla
pari di quello di tutti gli atri creditorl in applicazione del principio maggioritario, e non
invece una espressione di volontà alla stregua dell'accettazione di un negozio; in tal senso è
qualcosa di più e di diverso da un atto negoziale; vi) la disciplina dell'art. 182 ter non
contiene una fase volta alla definizione di trattative tra le parti, come sarebbe stato
necessario se effettivamente si fosse trattato di transazione vera e propria; vii) andando di
contrario avviso si attribuirebbe al fisco un potere di veto insindacabile, con violazione dei
diritti del proponente e degli altri creditori; viii) mentre il concordato (preventivo o
fallimentare) ha una sua propria funzione autonoma rispetto alla transazione fiscale e può
vivere di vita propria, altrettanto non è per la transazione che può essere proposta solamente
nell'ambito di altra procedura del sistema concorsuale;
consegue a tali considerazioni che, tanto in caso di voto negativo, quanto in caso di mancato
voto (equiparabile al voto negativo), ove il concordato venga omologato, rimane vincolante
anche per il fisco, che subisce la falcidia ivi prevista;
si aggiunga, nel caso in esame, che gli Uffici finanziari centrali (non cosi il Comune di Capena
per quanto riguarda il suo credito fiscale) non hanno in alcun modo interloquito nella
procedura ed ottemperato alle incombenze previste dall'art. 182 ter, nonostante la tempestiva
attivazione della relativa procedura da parte del proponente, i numerosi solleciti da parte del
commissario giudiziale e il rinvio dell'adunanza disposto proprio per consentire a tale parte dì
esprimere il voto; tale assoluta ingiustificata inerzia manifesta disinteresse dell’erario nella
vicenda concordataria e viola colpevol-mente le disposizioni di tale norma;
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tenuto conto che nel caso in esame l’Agenzia delle Entrate non ha espresso alcun voto e
ritenuto che comunque deve procedersi al conteggio dei voti ai sensi dell'art. 177 l. f.;
ritenuto che, pur se nella classe sub C) non risulta raggiunta la maggioranza richiesta, in
ragione del non voto - ritenuto equivalente quanto agli effetti a voto contrario dell'Erario,
poiché non consente il raggiungimento della relativa maggioranza interna alla classe -, è stata
conseguita anche la maggioranza assoluta nelle altre due classi e quindi la maggioranza
complessiva delle classi ai sensi dello stesso articolo, primo comma seconda parte; ritenuto
quindi che il concordato preventivo è stato approvato.
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