LE INTERPRETAZIONI DELL’IMPERIALISMO
Introduzione
I fenomeni tipici dell’Imperialismo sono l’estensione violenta da parte di uno stato del proprio territorio a
danno di altri stati e lo sfruttamento economico esercitato a danno dei paesi soggiogati. tali fenomeni sono
riscontrabili in ogni epoca storica ma il termine "imperialismo" fu usato solo nell’ottocento in Inghilterra per
indicare la politica di potenza della Gran Bretagna nei confronti del proprio impero coloniale promossa da
Disraeli. È in tale periodo che sono sorte anche le prime teorie dell’imperialismo. La ragione di ciò è da
ricercare nel fatto che tra il 1870 e il 1914 si è aperta una nuova fase storica in cui i fenomeni connessi
all’imperialismo hanno avuto una particolare estensione ed intensità mai prima riscontrate nella storia.
È infatti in tale periodo che avviene la spartizione del mondo tra le potenze europee, gli Usa e il Giappone.
L’intero globo viene sottoposto all’egemonia europea a conclusione di un secolare processo che aveva avuto
inizio con l’epoca delle scoperte geografiche e dei primi imperi coloniali nel XV - XVI secolo.
La seconda fase di questo processo si ebbe tra il 1914 e il 1945 con il tentativo da parte della Germania di
affermare la propria egemonia in Europa per due volte (in occasione delle due guerre mondiali), del
Giappone di egemonizzare l’Asia, dell’Italia ridurre sotto il suo controllo l’area mediterranea. La seconda
guerra mondiale segnò il fallimento di questa tendenza.
È questo il motivo del sorgere di un filone di studi che assume come oggetto l’imperialismo. È inoltre
importante segnalare come l’atteggiamento odierno verso l’imperialismo tenda ad essere negativo e lo stesso
termine abbia acquistato oggi una connotazione negativa mentre in origine esso possedeva un significato
positivo. Questo atteggiamento critico nei confronti dell’I. nasce dal rilievo che viene dato oggi al principio
dell’autodeterminazione nazionale affermato dalla rivoluzione francese che è in pieno contrasto con
l’imperialismo.
Verranno prese in esame alcune delle principali teorie sull’imperialismo sviluppate nei primi anni del XX
secolo da diversi autori appartenenti ad aree culturali e politiche differenti. Si comincerà con la classica
teoria di Hobson per poi esaminare l’interpretazione marxista, quella socialdemocratica e quella liberale.
La teoria di Hobson
La prima teoria che affrontava in modo scientifico il problema dell’imperialismo fu quella dell’inglese
Hobson, economista di tendenza radicali e liberali, che pubblicò nel 1902 l’opera "Imperialism, A Study".
La concezione avanzata da Hobson ebbe molta influenza negli ambienti intellettuali della sinistra
socialdemocratica non marxista pur essendo Hobson esponente del pensiero liberal-democratico.
In primo luogo Hobson pone in evidenza la radicale differenza tra il tradizionale colonialismo e il moderno
imperialismo. Il colonialismo tradizionale si era infatti prevalentemente manifestato nella forma delle
colonie di popolamento, cioè come occupazione di terre pressoché disabitate in zone temperate allo scopo
di trasferirvi nuclei di coloni. Nell’imperialismo l’occupazione coloniale riguarda territori tropicali o
subtropicali densamente popolati in cui si trasferisce un ristretto nucleo di popolazione bianca allo scopo di
esercitare il dominio politico e lo sfruttamento economico sulla popolazione indigena considerata inferiore
ed incapace di godere di libertà politica ed economica.
In secondo luogo egli rileva la natura violentemente aggressiva dell’imperialismo che innescava
innumerevoli situazioni di guerra tra potenze rivali e spartiva il mondo in un insieme di imperi concorrenti in
uno stato continuo di tensione che poteva trasformarsi in guerra di tutti contro tutti. Questa era una novità,
infatti l’idea di Impero del passato era cosmopolita, non contrapponeva una nazionalità all’altra, ma si
poneva come una federazione di stati che garantiva pace e benessere a tutti i popoli posti sullo stesso piano
come nel caso dell’impero romano e della pax romana.
In terzo luogo Hobson sottolinea le radici culturali ed ideologiche dell’imperialismo che poggia sul
darwinismo sociale secondo cui la forza e la potenza sono la base su cui è possibile trionfare nella struggle
of life (lotta per la vita), è infatti attraverso la lotta per la sopravvivenza che avviene la selezione dei migliori
ed in tale lotta a prevalere è il più forte. Tale concezione, applicata alla relazioni internazionali poneva quale
base del rapporto tra stati la forza ovvero il diritto del più forte. Si comprende così come venissero
giustificate non solo l’aggressività e violenza esercitata nei confronti delle popolazioni soggiogate,
considerate inferiori per natura, ma anche la lotta all’interno della "razza bianca", lotta in cui ciascuna
nazione poneva nella forza e nel superiore diritto al dominio di altre genti il principio fondamentale per
l’affermazione della propria esistenza.
Ma i fattori decisivi che determinarono la genesi dell’I. sono per Hobson di natura economica:
concentrazione monopolistica, crescita dell’industria pesante e primato del capitalismo finanziario.
All’origine dell’I vi sono due tipi di fenomeni economici:
a) gli interessi di quei gruppi economici che si arricchiscono grazie alle spese necessarie per portare avanti
una politica imperialistica: industrie belliche, ferroviarie, minerarie; o gli interessi di quei gruppi sociali che
vedono aumentare il proprio peso grazie all’imperialismo come la casta militare e burocratica.
b) La supremazia del potere finanziario interessato ad investire i propri capitali in arre più redditizie rispetto
al territorio metropolitano come appunto le colonie che garantivano rendimenti superiori agli investimenti
finanziari.
Le teorie marxiste dell’imperialismo
Marx non si occupò mai dell’imperialismo anche se scrisse sul fenomeno del colonialismo. Le principali
teorie marxiste sull’imperialismo traggono tuttavia origine dall’analisi che Marx conduce sulle
contraddizioni del capitalismo. La principale contraddizione di esso, destinata secondo Marx a condurre alla
fine del capitalismo ed alla inevitabile affermazione rivoluzionaria del socialismo, è la caduta tendenziale del
tasso di profitto. La concorrenza costringe i capitalisti ad investire quote di capitale sempre maggiore per il
perfezionamento tecnologico dei macchinari in modo da battere la concorrenza. Questo innesca una reazione
a catena per cui le macchine e le tecnologie diventano in brevissimo tempo obsolete ed occorre investire
somme sempre più ingenti di capitale per rinnovarle continuamente, questo riduce enormemente il profitto in
quanto aumenta i costi della produzione per il capitalista. Questa continuo rinnovamento tecnologico porta
ad aumentare il peso delle macchine (il capitale costante) che sostituiscono sempre maggiormente la forza
lavoro umana (il capitale variabile). Ma, secondo Marx, è proprio dal fatto che la forza lavoro umana viene
sottopagata rispetto al valore della merce che produce che nasce il profitto del capitalista. In altri termini
quello che Marx chiama plusvalore e che costituisce la fonte del profitto del capitalista dipende dall’uso
della forza lavoro umana, se questa viene sostituita dalla macchina allora diminuirà il plusvalore e quindi
anche il profitto del capitalista. Esiste quindi nel capitalismo la tendenza ad una diminuzione costante del
tasso o saggio di profitto che condurrà il capitalismo a crisi economiche sempre più disastrose fino ad
innescare un processo rivoluzionario che porrà fine ad esso.
La teoria leninista
La principale teoria marxista sull’imperialismo assume come principio interpretativo fondamentale la caduta
tendenziale del saggio di profitto e viene formulata da Lenin nell’opera "Imperialismo: fase estrema del
capitalismo" del 1917. La tesi principale di Lenin era che il capitalismo monopolistico per evitare la caduta
del profitto era costretto a sfruttare il mercato mondiale determinando un clima di conflitto internazionale. La
concentrazione e meccanizzazione della produzione aumentano il peso dei gruppi industriali e finanziari
all’interno di ogni stato fino al punto che questi gruppi riescono a piegare lo stato ai priori interessi ed a
controllarlo. La politica degli stati sarà quindi determinata dall’influenza dei grandi potentati economici. Per
aggirare la caduta tendenziale del profitto il capitale finanziario, sorto dalla fusione di capitale industriale e
bancario, tenderà a controllare le materie prime e i mercati a livello mondiale. Il mondo viene quindi diviso
in aree di influenza tra i diversi stati che agiscono sotto il controllo dei rispettivi monopoli economici
nazionali. Completata la spartizione del mondo la concorrenza economica e politica non troverà più sbocco
nella conquista di nuovi mercati e si trasformerà in conflitto militare tra i gruppi economici rivali e quindi tra
gli stati che tali gruppi controllano. Si innescherà quindi un conflitto di portata mondiale devastante tra i
paesi capitalisti che condurrà alla crisi finale del capitalismo e renderà possibile la rivoluzione socialista.
L’interpretazione socialdemocratica
Tipica di pensatori di area socialista non marxista come Karl Kautsky e Rudolf Hilferding, si oppone
all’interpretazione marxista-leninista di cui rifiuta la tesi centrale secondo cui l’imperialismo è il risultato
necessario del capitalismo e può quindi essere eliminato superando il capitalismo. Le guerre e l’I. possono
essere eliminati attraverso un processo di riforme democratiche ed economico-sociali senza mettere in
discussione l’assetto capitalistico della società ma riformando dall’interno il capitalismo.
Hilferding economista viennese aderente al partito socialdemocratico, pubblicò nel 1910 "Il capitale
finanziario" in cui esaminava la struttura economica del capitalismo monopolistico di cui individuava la
caratteristica essenziale nel processo di concentrazione del capitale sotto il controllo del capitale
finanziario. Secondo l’autore i settori del capitalismo - industriale, commerciale, bancario - vennero ad
unificarsi sotto la direzione dell’alta finanza grazie al superamento della libera concorrenza ed al sorgere
delle unioni monopolistiche. Tipica di questa nuova forma di capitalismo era l’economia tedesca e quella
statunitense in cui si attuava l’identificazione tra i grandi gruppi del capitalismo finanziario e lo stato.
Controllati dal capitale finanziario gli stati intrapresero la loro politica di protezionismo e guerra doganale
con gli altri stati e adottarono una politica di potenza tesa al possesso di territori da utilizzare come aree di
investimento del capitale finanziario. La soluzione consiste nell’organizzare il mercato mondiale
pacificamente eliminando la tensione tra gli stati. Un ordine pacifico risulterebbe più conveniente per gli
stessi capitalisti in quanto favorirebbe maggiormente il commercio e risolverebbe il problema della
sovrapproduzione.
L’interpretazione liberale dell’imperialismo
Tipica dell’area di pensiero liberale è la teoria dell’economista e sociologo austriaco Shumpeter che
pubblica nel 1919 il saggio "La sociologia dell’imperialismo". Egli capovolge totalmente la premessa
dell’interpretazione socialista sia marxista che socialdemocratica. Mentre infatti i primi vedevano nell’I una
conseguenza inevitabile del capitalismo e i secondi lo interpretavano come un "difetto" correggibile del
capitalismo, la tesi centrale di Shumpeter consiste nell’affermare che l’I. non solo non è un prodotto del
capitalismo, ma è anzi il risultato di condizioni politiche, sociali e culturali che risalgono al mondo
precapitalistico e che continuano a sopravvivere in esso. Secondo Schumpeter il capitalismo tende
naturalmente all’equilibrio fondato sulla libera concorrenza ed il libero scambio, esso è quindi naturalmente
pacifico e tende alla razionalizzazione della vita sociale ed economica. Si contrappone quindi ad ogni
tendenza aggressiva ed irrazionale come è appunto l’I. basato sull’esaltazione della forza e sulle ideologie
nazionalistiche e patriottiche. Solo un mondo pacificato in cui i conflitti vengono risolti razionalmente
consente infatti uno sviluppo ottimale al capitalismo. Il fatto che nel capitalismo si manifesti una forte
tendenza imperialistica non dipende quindi dalla natura di esso, ma dal sopravvivere di atteggiamenti
culturali ed interessi politico-sociali propri di gruppi precapitalistici. La mentalità imperialistica e militarista
è propria delle caste militari-feudali e burocratiche. Questi gruppi, sorti nel periodo dell’assolutismo
monarchico, sono ancora forti sotto il capitalismo e tendono ad imporre alla politica degli stati la loro
mentalità imperialistica non per interessi economici ma perché vedono nella politica di espansione e guerra
l’unico modo per mantenere e rafforzare gli apparati militari e burocratici che sono la base del loro potere
politico, dei loro privilegi e della loro influenza sociale. pertanto Schumpeter definisce l’imperialismo come
una forma di atavismo che può essere sconfitto solo attraverso un pieno sviluppo del capitalismo e non, come
ritenevano i socialisti, attraverso una riforma o addirittura una soppressione del capitalismo.
Gianfranco Marini