etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 Agostino Abelardo Tommaso Linee di etica cristiana nel periodo medievale; proposte plurali e aspetti comuni. Il richiamo delle riflessioni dei tre autori, Agostino, Abelardo, Tommaso, sul tema etico persegue l’obiettivo di individuare la logica e le linee della morale cristiana medievale (e non solo medievale, vista l’autorevolezza attribuita a quella riflessione nella cultura cristiana che acquisisce proprio nel medioevo un impianto di forte tradizione). Si tratta di autori collocati storicamente in un arco di tempo di quasi mille anni (dal IV al XIII sec. d.C.), distanti tra di loro non solo per cronologia ma anche per cammini di riflessione e per tesi; essi assumono tuttavia come base del proprio pensare gli stessi fondamenti: la sacra scrittura, sede della parola rivelata, la tradizione, sede dei commenti di interpreti autorevoli (commenti riservati quindi) al testo considerato sacro. L’ampiezza dell’arco cronologico richiamato impone un’altra (non nuovissima ma poco diffusa) riflessione storiografica di indispensabile contesto interpretativo. Occorre “chiudere con il Medioevo”; l’espressione, usata come titolo di uno studio ormai classico della medievalista francese Régine Pernoud (Pour en finir avec le moyen âge 1977, le Seuil [Medioevo: un secolare pregiudizio]), invita ad abbandonare l’idea di una omogeneità culturale del Medioevo, appiattito sul primato indiscusso della fede, della fede cristiana, e quindi avverso ad ogni forma di autonomia della ragione; si tratta di un’immagine del Medioevo funzionale a conservatorismi contemporanei, dimentica della consapevolezza che il periodo in considerazione costituisce un’epoca dai molti rinascimenti. Scrive Pernoud «L’equivoco intorno al termine “feudale”, in questo medesimo periodo [nei primi dell’’800 ma… ancora oggi], è totale. Così com’era totale l’equivoco sul termine “gotico” — o come si mantiene ancor oggi totale l’equivoco sul termine “Medioevo”: essendo perfettamente assurdo designare con il termine di “medio” quasi fosse semplice intervallo, periodo d’intermezzo, un’epoca di mille anni nella storia dell’umanità.» (o.c. Bompiani, Milano 1988, p. 82) Anche dal confronto tra le tesi riguardanti la morale, le teorie etiche che emergono mettono in luce il loro diverso impianto formale e si configurano come proposte plurali di modelli etici all’interno della cultura genericamente definibile come cristiana. 1. Agostino (354-430): tre itinerari per un’etica analogica Viaggi di esplorazione, di raccolta e di scelta e viaggi di fondazione e scoperta dei confini della filosofia pratica. L’intera riflessione e produzione di Agostino, letteraria e pastorale, è frutto di un triplice incontro e confronto: con la cultura del tempo (di cui è esperto e avido lettore e conoscitore), con il testo della bibbia cristiana (un incontro che genera un atteggiamento di continua conversione, metanoia), con se stesso (in un’esperienza di analitico e implacabile autoesame, attenzione critica a sé e ai moti complessi, spesso incomprensibili, dell’animo umano). 1.1. il viaggio nella cultura; le tecnica della raccolta e riappropriazione della cultura antica: «non dobbiamo temere ciò che hanno detto i filosofi antichi» De doctrina christiana 1.1.1. il viaggio di formazione attraverso le filosofie e la loro rilettura; è già una strategia etica di confronto. L’itinerario spirituale e culturale di Agostino, come viene da lui stesso narrato nell’opera autobiografica, Le confessioni, sembra simbolicamente raccogliere in sé l’intero arco delle proposte culturali e religiose presenti nel mondo greco e romano. Agostino si forma nelle scuole di retorica, in cui è un apprezzato interprete dei classici latini; attratto dal movimento religioso dei manichei, ne condivide in un primo tempo l’idea di una perenne lotta tra luce e tenebre, bene e male; assillato da quesiti e dubbi per i quali non trova risposte soddisfacenti, aderisce alle posizioni scettiche di totale sfiducia nelle capacità della ragione umana; affascinato dalla filosofia neoplatonica, ne accoglie l’idea di un mondo ordinato secondo gradi gerarchici che l’anima cerca di percorrere mossa da un impulso di risalita verso l’Uno. Proprio dal neoplatonismo Agostino ricava l’attitudine a cogliere il senso allegorico della realtà e dei testi, metodo che resterà una costante del suo atteggiamento culturale e religioso: oltre il senso letterale e fisico del mondo e delle parole esiste, secondo la lettura allegorica, un significato Sergio Gabbiadini 1 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 nascosto che anima queste realtà e permette di comprenderle. La conversione di Agostino avviene nel momento in cui, guidato da Ambrogio, vescovo di Milano, egli scopre che solo il cristianesimo sa svelare il secondo senso celato nelle opere e nella storia dell’uomo: tutto risulta essere sorretto da un disegno di salvezza universale che Dio ha attuato, manifestandosi in Cristo, e svelato nelle parole arcane dei testi sacri della Bibbia. Solo i testi sacri del cristianesimo, che annunciano in Cristo la pienezza dei tempi, posseggono il secondo senso, quello spirituale e profondo, che indica all’uomo la salvezza. Se l’evento centrale della vita di Agostino è costituito dalla conversione, che segna l’inizio di una dedizione, culturale e pastorale, alla causa cristiana, essa tuttavia non rappresenta un radicale rifiuto delle esperienze precedenti: il cristianesimo costituisce il livello nuovo da cui partire per ricomporre, sulla base della nuova fede, l’intera esperienza personale. Tale progetto non si chiude infatti in una esperienza autobiografica, ma diventa il postulato che sorregge l’intera riflessione religiosa e filosofica di Agostino: tutto va riordinato a partire da Cristo, perché solo così ogni vicenda è riportata al proprio fondamento. 1.1.2. il metodo di riappropriazione (la teoria del furto sacro). Nella Dottrina cristiana, l’autonomia della Chiesa e la costruzione dell’ortodossia (o di un corpo dottrinale controllato in cui la Chiesa definisce la propria missione e la propria identità) si attuano nell’esposizione di un piano di studi che rappresenta un progetto completo di formazione intellettuale e contemporaneamente di totale conversione a Cristo. La regola di metodo che avvia la stesura del piano è fondata sulla presentazione dei motivi che legittimano l’appropriazione e rilettura della cultura pagana da parte del cristianesimo. 1.1.2.1. il fondamento biblico (allegoria ed ermeneutica biblica). La libera appropriazione del testo pagano da parte della cultura cristiana trova la propria legittimazione nella logica del testo biblico intrecciato per prefigurazioni e compimento. Il riferimento specifico, ed esemplificativo, di Agostino va all’episodio biblico della fuga degli ebrei dall’Egitto, narrato nell’Esodo. Si tratta di un riferimento in grado di fornire una legittimazione della tesi che si vuole sostenere solo se si porta alla luce il senso altro, spirituale e allegorico, dell’evento, come richiede un’interpretazione fedele alla natura sacra e salvifica del testo stesso. Infatti, mentre un testo profano esprime solo ciò che è indicato dal significato letterale delle parole: in esso, la sola parola è significativa; lo scritto sacro possiede un secondo livello di significato: gli eventi e le cose indicate dalle parole (l’oro, l’argento, le vesti) rinviano a un significato ulteriore, sono segno di qualcosa pertinente alle realtà dello spirito, hanno quindi un significato spirituale più profondo di quello letterale. 1.1.2.2. il fondamento storico salvifico. L’evento che salva (creazione, patto di Allenza, morte e risurrezione di Cristo ecc.) è unico ma possiede in sé una temporalità dinamica che si articola sempre in passato, presente, futuro. Il tempo del disegno salvifico di Dio (il mysterium Dei) è segnato dal doppio eone: attesa e prefigurazione (antica alleanza), accadere e compimento (nuova alleanza); l’evento unico accaduto, riaccade nella fede (e nel rito) in attesa del compiersi finale, escatologico, della sua portata salvifica. All’interno di questa logica si colloca l’uso della cultura. La reinterpretazione e presa di possesso non intende presentarsi come discutibile manomissione di un testo antico e magari un suo disinvolto smembramento per altri usi (per citazioni a conferma) ma come un portare a compimento e a salvezza (portare alla verità piena, a Cristo, quindi redimere) la cultura pagana. Sulla base del senso spirituale allegorico (figurale) del testo biblico e dell’impianto temporale del disegno salvifico, la cultura cristiana, secondo Agostino, rivendica per sé il possesso e l’uso legittimo, e quindi una ripresa per reinterpretazione e compimento (salvezza), della cultura pagana. «Se poi quelli che vengono chiamati «filosofi», e in particolare i platonici, dissero per caso alcune cose vere e conformi alla nostra fede, non solo non dobbiamo averne paura, ma dobbiamo rivendicarle a nostro vantaggio, sottraendole a loro come se ne fossero ingiusti possessori. Gli egizi, allo stesso modo, non solo avevano idoli e imponevano pesanti imposte, che il popolo d’Israele detestava e fuggiva, ma possedevano anche vasi e ornamenti d’oro e d’argento e vesti, di cui quel popolo, lasciando l’Egitto, si appropriò di nascosto, con l’intenzione di farne un uso Sergio Gabbiadini 2 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 migliore; non per propria volontà, ma per volere di Dio, come se gli egizi stessi prestassero, senza averne coscienza, quello che non sapevano usare bene. Allo stesso modo tutte le dottrine dei pagani non sono solo piene di menzogne e superstizioni che richiedono gravi sforzi di inutile fatica, e che ciascuno di noi, sotto la guida di Cristo, lasciando la società dei pagani, deve odiare e fuggire, ma contengono anche discipline liberali adatte alla ricerca della verità e alcuni utilissimi precetti morali.» De Doctrina christiana 1.2. il viaggio nella storia: le due civiltà e il loro rapporto De civitate Dei È l’indicazione dello stato del tempo storico in cui si colloca l’agire dell’uomo. «Nel frattempo [410] Roma fu sconvolta dall’invasione dei Goti guidati dal re Alarico e distrutta sotto i colpi di una immane sciagura. Allora i seguaci di tutti quei falsi dèi, che chiamiamo comunemente pagani, cercando di addossare la colpa di tale distruzione alla religione cristiana, hanno preso a bestemmiare il vero Dio con accenti più aspri e più violenti di sempre. Per questo io, divorato “dallo zelo per la tua casa” (Sal. 69,10), ho stabilito di scrivere contro le loro bestemmie e i loro errori i libri della Città di Dio. Quest’opera mi ha tenuto occupato per un certo numero di anni, perché nel frattempo mi imbattevo in numerose altre questioni che non si potevano rimandare e dovevano essere risolte subito.» De civitate Dei 1.2.1. il concetto di civitas (contesto di etica). La città di Dio è un’opera destinata a molti e svariati ambienti e temi. All’ampiezza dei destinatari corrisponde l’ampiezza del suo disegno: essa delinea una visione globale della storia a partire dal piano salvifico di Dio, manifestatosi in Cristo e annunciato nei libri della Sacra Scrittura. Proprio dal testo biblico Agostino ricava l’immagine di due città mistiche, la civitas del mondo (che ha il proprio simbolo in Babilonia) e la civitas di Dio (che ha il proprio simbolo in Gerusalemme); città terrena e città celeste non si riferiscono né a particolari forme storiche di civiltà (come, ad esempio la civiltà pagana e la civiltà cristiana), nè a istituzioni storiche determinate (come la Chiesa e lo Stato); il termine civitas viene usato infatti per indicare due diversi modelli di società e due diverse concezioni complessive della storia: «Due amori — scrive Agostino — hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste». De civitate Dei 1.2.2. la coincidenza materiale, nel tempo storico, delle due “città” e distinzione formale Sconfessando le teorie del manicheismo, Agostino non fa risalire le due città agli opposti principi del bene e del male; né intende collocarle all’interno della storia come realtà autonome, contrapposte e distinte in strutture e istituzioni temporali separate. Come è tipico infatti del pensiero di Agostino, è in interiore homine che avviene l’incontro con la salvezza e si realizza l’appartenenza alla città celeste. Quindi le due città, materialmente, vivono e crescono assieme, «confuse dall’inizio alla fine» come il frumento e la zizzania della parabola evangelica: «ambedue si servono ugualmente dei beni temporali e ugualmente sono afflitte dai mali, essendo diverse nella fede, nella speranza e nell’amore, finché verranno separate nell’ultimo giudizio e ciascuna raggiungerà il suo fine, che non avrà fine». La città terrena diventa dunque città celeste quando è coinvolta nel piano salvifico di Dio e quando, nel momento del giudizio finale, la città celeste costituirà la piena realizzazione delle aspirazioni alla giustizia e alla pace presenti, anche se malintese, minacciate e precarie, nella stessa città terrena. 1.2.3. la città celeste è disegno di Dio storicamente non identificabile in sedi terrene «Sta scritto quindi che Caino ha fondato una città; Abele, invece, come uno straniero, non ha fondato nulla. Infatti la città dei santi è nel cielo, benché essa generi dei cittadini sulla terra, dove è presente in modo passeggero finché non giunga il tempo del suo regno, quando radunerà quelli che risuscitano nei loro corpi e sarà dato il regno promesso, dove essi regneranno senza fine assieme al loro principe, il Re dei secoli. Certamente una traccia e immagine profetica di questa città, come un simbolo e non come una dimostrazione, è esistita sulla terra in condizione di schiavitù nel tempo opportuno in cui doveva manifestarsi. È stata anche chiamata città santa secondo un’immagine simbolica, e non per esprimere una verità che appartiene al futuro. A proposito di quest’immagine Sergio Gabbiadini 3 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 che ora è nella schiavitù e di quella città libera che essa significa, così si esprime l’Apostolo nella lettera ai Galati: “Ditemi, voi che volete essere sotto la legge: non sentite forse cosa dice la legge? Sta scritto infatti che Abramo ebbe due figli; uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne; quello della donna libera, in virtù della promessa. Ora, tali cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due Alleanze”» De civitate Dei 1.2.4. prefigurazione e compimento «Infatti non è stata istituita per se stessa, ma per significare l’altra» (la città terrena prefigura la città celeste, questa porta a compimento quella). Lo sviluppo delle due città è illustrato da Agostino attraverso scansioni temporali che rispondono a due logiche diverse: quella della successione naturale degli eventi storici e quella della loro redenzione salvifica. È una logica di svolgimento sorretta dall’intreccio di una doppia temporalità, terrena e celeste; doppia temporalità che definisce, in altro modo, e rende specifiche le due civitates. Dal punto di vista cronologico la città terrena precede quella celeste, l’uomo carnale quello spirituale; come Adamo precede Cristo, Caino precede Abele, Agar precede Sara, Ismaele precede Isacco, Esaù precede Giacobbe. Dal punto di vista teologico, nel piano eterno di Dio, la città celeste precede quella terrena, si rivela come suo fondamento e condizione di salvezza. Perciò Agostino scrive affidandosi a due movimenti, antitetici per direzione ma intrecciati negli stessi eventi che acquistano così la loro plurisignificanza. Materialmente ricostruisce lo sviluppo storico delle due città seguendo il movimento della storia profana, dal passato al presente al futuro, tuttavia conduce la propria riflessione a partire dal piano di Dio svelato nella Sacra Scrittura, il movimento è dal futuro escatologico, al passato prefigurante e al presente di attesa; un filo conduttore sostenuto dal richiamo di molte figure della Bibbia. Al movimento della storia e del tempo Agostino attribuisce la particolarità di scandirsi secondo un ritmo per cui ciò che è accaduto nel passato è segno e prefigurazione di ciò che accade nella salvezza (nel tempo – kairòs – della salvezza), ciò che accade e si compie salvificamente è prefigurato da segni opportuni disposti da Dio, artefice del piano della storia e rimanda dunque, come luogo di attesa e di speranza, al suo finale (escatologico) compimento. Ciò che accade trova lettura nelle “cause” che lo determinano, trova significato pieno in ciò che lo porta a compimento e lo realizza; ogni evento dunque può essere letto in senso figurale, prefigurante, fino ad immaginare che, vista dalla prospettiva del suo compiersi, l’intera storia ha il suo completo significato a partire dal fine e non dalla causa iniziale; del resto, secondo la nota logica di Aristotele, ciò che è ultimo cronologicamente nel realizzarsi, il fine, è primo come causa efficiente: è pur sempre per uno scopo, una finalità, che si avvia un processo. Il simbolo è la lettura corretta, e quindi unica, della temporalità: quello che avviene in questo particolare momento della successione dei fatti fa riferimento e implica un evento a venire. (La semiotica propria della logica stoica è qui collocata a trama della visione complessiva della storia). 1.2.5. nella dialettica della Città di Dio la natura della temporalità e quindi della dinamica etica. Nella doppia dinamica dell’unica temporalità storica si iscrive l’agire etico dell’uomo; si impone un nuovo tipo di sguardo sugli eventi della storia. Al centro della sua visione storica Agostino colloca dunque la propria nozione di signum, secondo la quale una realtà particolare, oltre ad attestare se stessa, significa e prefigura un’altra e più alta realtà. Il simbolo, nella sua capacità di significare, rimandare e prefigurare, costituisce il nucleo della teologia cristiana della storia e conseguentemente della sua concezione etica. Solo la lettura simbolica delle cose e dei fatti, dei personaggi e dei regni permette di avvertirne la precarietà e la transitorietà; di cogliere in essi una inconsapevole ma insopprimibile tensione verso significati e verso realtà più profonde e trascendenti. Si tratta, analiticamente, di una doppia percezione e valutazione: ogni realtà oltre ad attestare se stessa significa e prefigura un’altra e più alta realtà; e ogni realtà, in quanto segno e prefigurazione, attesta la propria transitorietà, precarietà e, contemporaneamente, attesta di contenere in sé un rimando, una trascendenza verso la piena realizzazione di sé. Ogni azione si definisce eticamente in quanto si colloca all’intreccio delle direzioni chiarite dalla specifica temporalità biblica, solo così l’agire dell’uomo non termina in se stesso staccato dalle proprie origini e dalla proprie attese e privato di motivazione e di senso. Sergio Gabbiadini 4 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 «Una parte della città terrena è divenuta immagine della città celeste; essa non indica se stessa, ma l’altra; di qui la sua condizione di schiavitù. Infatti non è stata istituita per se stessa, ma per significare l’altra, ed è stata prefigurata, essa che prefigura qualcosa, da un simbolo anteriore: Agar, schiava di Sara, la donna libera che era simbolo della città libera, di cui pure la sua schiava era simbolo, adombrandola in altro modo, disse: Scaccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non deve essere erede con mio figlio Isacco, o come dice l’Apostolo: Col figlio della donna libera. Noi quindi troviamo nella città terrena due modelli, l’uno che attesta la propria presenza, l’altro che per mezzo della sua presenza è simbolo della città celeste. La natura corrotta per il peccato genera perciò i cittadini della città terrena, mentre la grazia che libera la natura dal peccato genera i cittadini della città celeste; i primi infatti sono detti vasi di collera, i secondi vasi di misericordia. Un altro simbolo è ancora nei due figli di Abramo: l’uno, Ismaele, nacque secondo la carne dalla schiava Agar, l’altro, Isacco, nacque secondo la promessa da Sara, che era libera. Entrambi sono stirpe d’Abramo, ma il primo nacque da una relazione puramente naturale, mentre il secondo fu donato da una promessa che era segno di grazia; là si rivela un comportamento dell’uomo, qui si testimonia un beneficio divino.» De civitate Dei 1.3. il viaggio nell’interiorità; dall’esterno all’interno: “venire in” è “invenire”, la scoperta di sé Confessiones, De Trinitate È la ricerca e la scoperta dell’origine e del fondamento di ogni scelta. Seguendo un percorso che parte dalle cose e dalle loro immagini presenti alla mente, e dai modi con cui la mente si interessa e si appassiona a ciò che le è esterno (fino a perdersi in esso facendosi essa stessa esterna a sé), Agostino guida l’uomo in un viaggio di ritorno in se stesso; tale ritrovamento di sé è scoperta della radice dei modi con cui la mente umana si rapporta alle cose e a ciò che le è esterno, della propria essenza e avvia la lettura di sé come traccia e vestigio. La scoperta della propria interiorità non ha dunque il senso di un rifugio interiore dai mali esterni (quale veniva proposto dalle filosofie del tardo impero), ma si presenta come esplorazione scoperta e geografia dell’anima, luogo e presupposto della conoscenza di sé, del mondo e di Dio. Ogni atto umano, del resto, è sempre una ricerca di sé, per lo più non consapevole. Il “venire in” è “invenire”, ritrovamento e ricostruzione di una memoria complessa. 1.3.1. raccogliersi dalla dispersione e dal pensarsi come cosa; l’essenza e la certezza delle mente consiste nell’essere “presente a se stessa” A prima vista l’attenzione dell’uomo è tutta presso le cose, da esse è attratto, occupato, preoccupato e ad esse si appassiona, in realtà, in questo appassionarsi ed occuparsi l’uomo è sempre alla ricerca di se stesso. Si cerca come qualcosa di esterno perché si cerca nelle cose che lo coinvolgono, ma a portarlo presso di esse sono comunque i suoi atti di interesse, attenzione, cura, amore. «Perciò lo spirito non si cerchi, come se fosse assente a se stesso. Che c’è infatti di così presente alla conoscenza come ciò che è presente allo spirito e che cosa vi è di così presente allo spirito come lo spirito stesso? Così la parola «invenzione» (inventio), se noi ricorriamo alla sua origine etimologica, che altro significa se non «venire in» (in venire) ciò che si cerca? Perciò le cose che vengono quasi spontaneamente nello spirito, non diciamo di solito che sono trovate (inventa), sebbene si possono dire conosciute, perché non tendevamo ad esse con la ricerca per venire in esse, cioè per trovarle (invenire). Dunque allo stesso modo in cui ciò che cercano gli occhi o gli altri sensi del corpo, è lo spirito che lo cerca — perché è esso che dirige l’attenzione del senso della carne ed è esso che trova (invenit) quando il senso giunge sugli oggetti cercati —, così per le realtà che lo spirito deve conoscere di per se stesso, senza l’intervento dei sensi corporei, esso le trova (invenit), quando giunge in esse (in venit), si tratti della sostanza trascendente, cioè di Dio, o delle altre parti dell’anima (anima), come quando giudica delle immagini corporee; esso infatti le trova all’interno dell’anima (anima) dove sono state impresse attraverso i sensi del corpo. È dunque una strana questione l’indagare come lo spirito si cerchi e si trovi, verso che cosa tenda per cercarsi, o dove venga (veniat) per trovarsi (inveniat). Che c’è infatti che sia altrettanto nello Sergio Gabbiadini 5 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 spirito quanto lo spirito? Ma, poiché esso è nelle cose che pensa con amore — le cose sensibili, cioè le cose corporee — con le quali con l’amore si è familiarizzato, esso non è più capace di essere in se stesso senza le immagini dei corpi. L’origine del suo errore umiliante è nella sua impotenza di separarsi dalle immagini delle cose sentite, per vedersi solo. Quelle infatti si sono unite ad esso in modo straordinario con il legame dell’amore ed è questa la loro impurità, perché quando si sforza di pensare sé solo, si identifica con ciò senza cui non può pensarsi. Quando dunque gli si comanda di conoscersi, non si cerchi come se fosse sottratto a se stesso, ma sottragga ciò che gli si è aggiunto. Esso infatti è più interiore a se stesso non soltanto di questi oggetti sensibili che sono manifestamente al di fuori, ma anche delle loro immagini che sono in quella parte dell’anima (anima) che hanno anche le bestie, sebbene manchino dell’intelligenza, che è propria allo spirito. Pur essendo dunque lo spirito interiore a se stesso esce in qualche modo da se stesso, gettando le affezioni del suo amore su queste immagini che sono come le vestigia dei suoi molteplici atti d’attenzione. Queste vestigia si imprimono, per così dire, nella memoria, quando vengono percepite tali cose corporee che sono al di fuori, di modo che, anche quando queste cose sono assenti, le loro immagini sono presenti a coloro che vi pensano. Lo spirito dunque conosca se stesso; non si cerchi come assente, ma fissi su se stesso l’attenzione della volontà che errava all’avventura sulle altre cose e si pensi. Esso vedrà allora che non ha mai cessato di amarsi, mai cessato di conoscersi, solo che, amando con sé altre cose, da esso diverse, si è con esse confuso e ha preso con esse consistenza in qualche modo; e così abbracciando tutta questa diversità in un solo tutto, ha immaginato che vi sia una sola realtà là dove ve ne sono molte. Lo spirito dunque non cerchi di attingersi come assente, ma procuri di discernere sé come presente, né si conosca come se fosse a sé sconosciuto, ma si distingua da ciò che esso conosce come diverso da sé.» (De Trinitate) L’intera riflessione di Agostino si presenta come un invito a tornare presso di sé, a scoprire se stessi come luogo in cui si intrecciano le relazioni con le realtà esterne e con quelle trascendenti. Un totale coinvolgimento dell’animo nelle cose materiali e nelle vicende storiche, alle quali l’uomo dedica la propria attenzione, di cui si occupa e per cui si appassiona, pone lo spirito umano in balia di eventi esterni. Tutta carica delle cose esterne, amate o temute, fonti di turbamenti ed emozioni, la mente umana non è più in grado di ritrovare se stessa e giunge, come forma estrema di dispersione, a cercarsi come cosa, a definire se stessa come realtà materiale (aria, fuoco); in tal modo lo spirito si cerca e si pensa «come assente a se stesso» ed ha quasi paura a «vedersi solo». L’estraneità dello spirito a sé trova espressione nelle teorie filosofiche secondo cui la realtà si riduce a ciò che è materiale e per le quali solo ciò che è materiale è reale. 1.3.1.1 la scoperta della propria essenza. Agostino oppone alla dispersione l’invito a tornare presso di sé. È un ritorno che si traduce in una prima scoperta: l’essenza dello spirito, della mente, consiste nell’essere presente a se stesso; è un tratto che distingue la realtà spirituale, l’uomo, da ogni altra realtà e ne sottolinea l’autonomia metafisica ed etica. La scoperta e il ritorno dello spirito in sé, sulla base della presenza che la mente ha a se stessa, costituiscono il filo conduttore che consente di ripercorrere, nei suoi passaggi essenziali, tutta la riflessione di Agostino. 1.3.1.2. lo spirito è certezza. Il viaggio nella ricerca e scoperta di sé permette ad Agostino il superamento delle tesi e tentazioni scettiche. Lo spirito, in quanto per definizione presente a sé è certezza: «tutti gli spiriti conoscono se stessi con certezza». Il dubbio può riguardare tutte le cose presenti nell’animo dall’esterno, non può mai riguardare lo spirito; la mente umana non può rimuovere da sé la conoscenza di sé, ogni affermazione in tal senso conferma la presenza della mente a sé. «Lo spirito è se stesso quando si cerca», e anche quando paradossalmente si nega, utilizzando enunciati scettici, esprime in forme paradossali (contraddittorie) la ricerca di sé. Nell’interiorità Agostino trova dunque la strada della certezza e della verità totale. 1.3.2. Tornando presso di sé l’uomo può impostare un nuovo rapporto con le cose materiali (ciò che è esterno), con se stesso (ciò che è interno), con Dio, sostanza trascendente e immanente (ciò che è intimo). Sergio Gabbiadini 6 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 1.3.2.1. abbandono e scoperta (inventio) delle cose. Il ritrovamento di sé ottenuto, attraverso un ritirarsi dalle cose, si può configurare come la loro perdita; l’esito è invece la loro riscoperta a partire dalla loro origine: non sono le cose a imporsi ed essere presenti alla mente, ma è la mente fonte del rapporto con le cose; esse colpiscono la mente e le loro immagini sono presenti allo spirito sulla base degli atti e dei modi con cui lo spirito si rivolge all’esterno si sé, sono «vestigia dei suoi molteplici atti di attenzione». Del resto la stessa distinzione tra le cose è la distinzione dei modi con cui l’uomo osserva la realtà. Occorre indagare la complessità di questi sguardi e, in questo contesto, prende forma una antropologia trinitaria dalle ricorrenti analogie tra l’ambito antropologico e quello teologico. 1.3.2.2. dall’esterno all’interno: venire in è inventio dello spirito, della sua natura, autonomia e funzione. Al progetto stoico di realizzare il dominio sulla propria eterogeneità attraverso la ragione, alla tensione neoplatonica verso l’Uno attuata con un processo di abbandono del molteplice, Agostino contrappone l’invito alla scoperta di sé e l’attenzione alla propria complessità. La conoscenza delle cose può essere definita correttamente solo quando è posto in evidenza il movimento che la mente compie nel conoscere. Vengono così ritrovati i modi particolari di essere della mente e le potenzialità dello spirito. Da un lato le cose si rivelano «vestigia dei suoi molteplici atti di attenzione», dall’altro, nello spirito, le cose si inanellano tra loro come momenti di una trama continua della memoria interiore e lì si costituiscono nelle linee di una storia personale; prende forma la trama dei modi storici con cui la nostra mente si rivolge al mondo e costruisce una propria fisionomia etica. 1.3.2.3. dall’interno all’intimo (immanente e trascendente): “volute trinitarie” «volontà.., memoria.., intelligenza». Tornato presso di sé (lo spirito è “presente a se stesso) l’uomo scopre la complessità delle forme con cui la mente si relaziona alla realtà: lo spirito umano non è solo fredda razionalità, ma unità dinamica di amore (o memoria), volontà, intelligenza. Lo spirito che conosce se stesso si comprende come unità di tre potenze: volontà, intelligenza, memoria. Si tratta di modi della presenza a sé e alle cose scoperti attraverso un’antropologia teologica e quindi sono contesto di passaggio alla trascendenza. Le formule trinitarie ricorrenti sono una vera e propria guida alla scoperta della complessità dello spirito e della sua dinamica etica e si definiscono sulla base di una relazione analogica con la trinità divina di cui parla il cristianesimo. Agostino individua così nell’uomo le vestigia della Trinità divina ed esorta l’uomo a vivere, proprio mentre scopre la propria interiorità, in una dimensione che lo definisce interiormente e che infinitamente lo trascende, in un intreccio indistinto (vero e proprio ricordo dello stoicismo) di immanenza e trascendenza. Nella Trinità Agostino, a partire da una riflessione sul mistero cristiano di Dio, uno in tre persone, cerca nel mondo e nell’uomo i segni della Trinità divina; l’opera si pone come scoperta della complessità e unità dello spirito umano, presentate con diverse formule trinitarie ad un tempo teologiche e antropologiche. La prima trinità è individuata nella conoscenza sensibile dell’uomo, essa è un’unità «costituita dal corpo percepito, dalla forma da esso impressa nello sguardo del soggetto percipiente e dall’attenzione della volontà che unisce l’uno all’altra»; l’unità della mente umana è anch’essa una complessa trinità, formata dalle immagini dei corpi, dalle forme ideali presenti in lei e dal legame che la volontà instaura tra immagine sensibile e forma intellegibile; l’uomo stesso è un essere «trinitario», poiché nella sua natura e nella sua attività, nella sua conoscenza e volontà, unisce la scala degli esseri scandita secondo la trinità: esistere, vivere, comprendere (l’uomo che si comprende unifica in questo atto il sapere, il vivere, l’esistere); infine, la complessità dello spirito umano è rappresentata da Agostino attraverso altre due trinità: «volontà, memoria, intelligenza»; «mente, notizia, amore». Antropologia e teologia, secondo un richiamo analogico, si intrecciano strettamente e, al di fuori di una adesione di fede, è difficile stabilire tra i due campi una priorità. (Ritorna il modello platonico della Repubblica in cui la struttura, tripartita, dell’uomo e dello stato sono intrecciato in modo da non consentire di cogliere tra i due una priorità di tipo causale o cronologica). Sergio Gabbiadini 7 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 [in schema 1: un’introduzione all’etica come scoperta di sé e dei propri atti, nella loro natura e nei loro esiti] 1. la conoscenza della realtà è tradizionalmente pensata come passaggio dallo spirito (mente) alle cose (realtà) con il risultato: - lo spirito (la mente) è tutto nelle cose cui è rivolto - si perde in esse (dispersione) - si pensa come cosa (non si riconosce una natura specifica) - è presente a se stesso come esterno, cioè è assente a se stesso 2. la scoperta di sé è fondata sul passaggio dalle cose allo spirito con il risultato: - la liberazione che si attiva con il modus tollens - venire in è invenire, inventio (scoperta) - lo spirito trova la propria definizione ed essenza, che consiste nell’essere presente a se stesso - si passa dalla dimensione dell’uti (applicata alle cose) a quella del frui (applicata allo spirito e alle cose in esso) 3. la riscoperta delle cose del mondo nella loro origine dentro lo spirito i suoi molteplici atti di attenzione con il risultato: - le cose conosciute sono, nella mente, i suoi molteplici atti di attenzione e amore - la distinzione tra le cose è la distinzione dei modi con cui la mente si rapporta alla realtà - lo spirito è memoria, ma una doppia memoria: o memoria delle cose (esterna) si basa sulla tecnica del ricordo (mnemotecnica) si rivela incerta e labile o memoria degli atti dello spirito (interna, essenza della mente / spirito) raggiunta con la dilatazione analitica del tempo interiore nel racconto di sé raggiunta con il racconto del mondo , ma a partire dagli atti della mente (trama interiore) 4. la scoperta di sé dall’interno è scoperta della propria complessità dall’unità alla complessità, trinità, dello spirito (la trinità antropologica) con il risultato: - le formule trinitarie teologiche definiscono lo spirito (la mente) esiste, vive, comprende (conoscenza) vuole (volontà [frui, non uti]) ricorda (amore [sentimento]) - Dio si conferma «interior intimo meo» 5. la scoperta dello spirito è incontro con la certezza dal dubbio scettico alla certezza con il risultato: - scoperta dello spirito come certezza (se lo spirito è presente a se stesso è per definizione certezza; sconfitta di ogni scetticismo) - nell’interiorità la strada della certezza e della verità totale Sergio Gabbiadini 8 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 (fino all’incontro con Dio «interior intimo meo») [in schema 2: il susseguirsi, nel testo, delle e trinità antropologiche e teologiche] Conoscenza Volontà Amore Esistere Vivere Comprendere Esistere Vivere Volere Esistere Vivere Ricordare Comprendere Volere Intelligenza Volontà Ricordare Memoria Amore 1.4. il metodo ricorrente e la definizione dell’etica 1.4.1. le antinomie («poli in tensione» Bodei Remo Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, il Mulino Bologna 1991) Le filosofie del periodo imperiale, nelle quali Agostino si è formato, hanno presentato l’interiorità come area nella quale è possibile raggiungere una saggia tranquillità; al proprio interno l’uomo trova un sicuro rifugio dagli eventi storici e politici, raggiunge un imperturbabile dominio dei desideri e delle passioni. Agostino, attratto da quelle filosofie perché ansioso di trovare per la propria vita serenità e saggezza, guarda tuttavia con sospetto l’obiettivo della imperturbabilità, realizzata fino all’assenza di qualsiasi affetto, desiderio, passione, turbamento. L’ostentazione di una calma che sia frutto di totale distacco dalle cose e dalle proprie emozioni appare ad Agostino un atteggiamento disumano, segno della sconfitta e della paura dell’uomo di fronte alla complessità del proprio io e del mondo. Nel contesto dell’analisi sul mistero trinitario di Dio, Agostino quindi avvia una rilettura critica della filosofia, dell’etica e della visione della storia proprie della cultura greco-latina. L’ideale di saggezza e di imperturbabilità, che le filosofie del periodo ellenistico e romano (in particolare la proposta morale e filosofica dello stoicismo) ponevano nel totale controllo delle proprie emozioni e nell’eliminazione di ogni tipo di passione, ha l’effetto, secondo Agostino, di impoverire drasticamente l’animo umano condannandolo a una fredda e impersonale razionalità. Turbamenti, paure, oscillazioni, passioni, desideri, visti dall’esterno dell’uomo, si presentano come impulsi irrazionali che lo allontanano dal controllo e dal possesso di sé; considerati invece da un punto di vista interno al soggetto, appaiono come messaggi profondi dell’animo, esprimono la tensione dell’uomo a ritrovare e realizzare pienamente se stesso. 1.4.2. il movimento nelle antinomie contesto di logica e di etica Richiamando lo spirito alla scoperta di sé nella propria interiorità, Agostino perviene alla fonte dei quesiti dell’uomo. Muovendo da questo osservatorio egli riformula le domande che sono presenti alla mente umana secondo una prospettiva ampia, a tutto campo, dilatando l’arco e l’area di presenza del problema stesso fino ad indicarne le condizioni estreme. La strategia utilizzata è quella Sergio Gabbiadini 9 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 delle antinomie: un’attenzione alla situazioni estreme per delimitare il campo di analisi; lo studio della specificità degli estremi, prende chiarezza di conseguenza la dinamica della loro relazione interna. Agostino affronta il tema del bene a partire dalla constatazione del male, il problema della salvezza a partire dalla decadenza del mondo romano, il problema della verità e della certezza a partire dal dubbio e dalla posizione scettica, la scoperta delle cose esterne ottenuta attraverso l’analisi degli atti interni di attenzione e amore, l’incontro con la trascendenza attraverso un viaggio di immanenza nella natura dell’uomo. Ricorrono due movimenti: quello di opposizione – immediatezza, che tende a definire in sé gli opposti stati (il bene e il male; la verità e il dubbio; la città terrena e la città celeste) e quello di conciliazione- mediazione, che evidenzia la relazione e il rimando tra gli estremi; in questo contesto prende vita e forma il dinamismo morale dell’uomo in situazione e in gioco con la tradizione (cultura), con la storia, con se stesso. Si tratta di un’amplificazione anche di natura apologetica; essa è funzionale all’affermazione successiva: la salvezza che il cristianesimo proclama è una salvezza totale. Gli estremi tra i quali Agostino delinea un problema non hanno dunque solo l’effetto di dilatarne il campo, di evidenziarne la portata e la complessità, ma anche (apologeticamente) quello di mostrare come la cultura cristiana sappia rispondere con pienezza ai quesiti e alle attese dell’uomo. 1.4.2.1. relazione tra le antinomie in un problema centrale: autonomia e certezza dello spirito. Seguendo la stessa tecnica, Agostino imposta il problema della conoscenza del mondo non più a partire dalle realtà esterne, ma dall’interiorità dello spirito: la scoperta e la conoscenza del mondo sono frutto dell’attenzione che la mente umana rivolge all’interno di sé; l’indagine e il discorso sul mondo esterno trovano la propria radice nell’impulso interiore dello spirito a cercare, indagare, trovare e affermare se stesso; la stessa affermazione scettica che dice «nulla è vero» e che proclama l’insuccesso e l’inutilità di ogni indagine esprime, in realtà, un profondo desiderio di verità. 1.4.2.2. relazione tra antinomie in un problema cruciale: il problema del male Anche la tesi cristiana secondo cui Dio, per un suo imperscrutabile disegno, salva l’uomo gratuitamente (concede la grazia) e ne rende operativamente efficace la libertà, viene esposta da Agostino a partire dalla posizione estrema, dal tema inquietante del male e del peccato («si Deus, unde malum?»). Il male e il peccato sembrano, infatti, dominare il mondo e la storia dell’uomo fin dalle origini, minacciando di annullare ogni progetto e la stessa libertà umana. Contrastando le teorie dei manichei (di cui è stato “uditore” per circa nove anni), Agostino, dopo aver analizzato le possibili forme del male (morale, fisico, metafisico), ne nega l’esistenza riconducendo il concetto di male alla nozione di limite: il Dio della Sacra Scrittura guida a scoprire che tutto ciò che esiste è bene, contrariamente alle tesi dei manichei; il male non indica una qualche realtà cui competa l’esistenza o una qualità dell’essere, è soltanto il limite di ciò che esiste (e tutto ciò che esiste in quanto determinato è limitato) o l’assenza di ciò che dovrebbe esserci; moralmente, il male è la scelta di fruire di ciò che esiste (ed è quindi un bene limitato) come se fosse un bene assoluto, senza considerare la gerarchia ordinata dei gradi del bene e dell’essere in cui il disegno di Dio colloca ogni realtà creata; togliere un agire dal contesto che lo rende un bene determinato e specifico, eleggerlo per sé come un bene assoluto e non nel suo limite, significa non coglierlo nel suo aspetto di assenza di bene. Se dunque bene ed essere coincidono e, di conseguenza, il male è non essere, compiere il male è scegliere il non essere, negare la libertà, impedirle di realizzarsi. La libertà è reale solo nel compiere il bene e nel tendere al bene sommo. La tensione dell’uomo verso la libertà si presenta, così, nella visione cristiana di Agostino, come apertura all’essere e al bene, come risposta e cooperazione alla salvezza: la libertà infatti giunge alla sua piena realizzazione quando Dio, bene sommo, con la propria iniziativa gratuita, interviene nella storia dell’uomo e lo coinvolge nell’attuazione del proprio progetto di salvezza. 2. Abelardo (1079-1142): la morale dell’intentio 2.1. storia di una passione che non si può estinguere e che non riesce a diventare memoria Sergio Gabbiadini 10 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 Eloisa ad Abelardo, ….. « … io voglio provare per tutta la vita attraverso la contrizione dell’anima quello stesso dolore che tu hai sofferto per un attimo nella carne e offrire così a te, se non a Dio, una specie di soddisfazione. In effetti per confessare apertamente la miseria e la debolezza del mio cuore, non saprei proprio trovare da sola una forma di espiazione che possa soddisfare Dio; anzi talora arrivo al punto di accusarlo di crudeltà per aver permesso l’oltraggio di cui sei stato vittima, e mi rendo conto che più che cercare di placare la sua collera con la penitenza, lo offendo con il mio atteggiamento ribelle e con la mia sorda opposizione alla sua volontà. Che senso ha, infatti, dire che si è pentiti dei propri peccati e umiliare in tutti i snodi il proprio corpo, se la mente è ancora pronta a peccare e anzi brucia delle stesse passioni di un tempo? È facile, non lo metto in dubbio, confessare i propri peccati e accusarsene e magari sottoporre il proprio corpo a macerazioni esteriori: quello che è difficile è strapparsi dall’anima il desiderio dei più dolci piaceri. Per questo, non senza motivo Giobbe dopo aver detto: «Scaglierò le mie parole contro di me» — cioè scioglierò la lingua e aprirà la bocca per confessare e denunciare i miei peccati —, subito aggiunge: «Parlerò dell’amarezza del mio cuore.» E spiegando questo passo, San Gregorio osserva: «C’è parecchia gente che confessa i propri peccati a voce alta, ma nel corso della confessione non riesce a piangere e dice con animo allegro quello che dovrebbe dire con le lacrime agli occhi... Non basta dunque parlare delle proprie colpe e detestarle, ma bisogna parlarne nell’amarezza dell’anima, affinché questa amarezza stessa purifichi tutte le colpe che la lingua guidata dalla mente denuncia.» Ma questa amarezza che accompagna il vero pentimento è molto rara, e giustamente sant’Ambrogio ce lo fa notare quando scrive: «Finora ho trovato più gente che si è conservata innocente che gente che ha fatto penitenza.» Per me, in verità, i piaceri dell’amore che insieme abbiamo conosciuto sono stati tanto dolci che non posso né odiarli né dimenticarli. Dovunque vada, li ho sempre davanti agli occhi e il desiderio che suscitano non mi lascia mai. Anche quando dormo le loro fallaci immagini mi perseguitano. Persino durante la santa Messa, quando la preghiera dovrebbe essere più pura, i turpi fantasmi di quelle gioie si impadroniscono della mia anima e io non posso far altro che abbandonarmi ad essi e non riesco nemmeno a pregare. Invece di piangere pentita per quello che ho fatto, sospiro, rimpiangendo quel che ho perduto. E davanti agli occhi ho sempre non solo te e quello che abbiamo fatto, ma perfino i luoghi precisi dove ci siamo amati, i vari momenti in cui siamo stati insieme, mi sembra di essere lì con te a fare le stesse cose, e neppure quando dormo riesco a calmarmi. Talvolta, da un movimento del mio corpo o da una parola che non sono riuscita a trattenere tutti capiscono quello a cui sto pensando. Allora mi sento un’infelice e posso ben esclamare anch’io con quella povera anima in pena: «Oh, me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?», e potessi anch’io aggiungere davvero: «La grazia di Dio per nostro Signore Gesù Cristo! Su di te, mio caro, questa grazia è già scesa, senza che tu la chiedessi: la ferita che hai ricevuto nel corpo, liberandoti da tutti questi stimoli, ti ha guarito anche dalle piaghe dell’anima: e proprio là dove sembrava che ti avesse maggiormente danneggiato, Dio si è rivelato invece molto propizio, proprio come un buon medico che non esita a far soffrire il suo paziente quando vuoi assicurargli la guarigione. Io invece sono giovane, facile preda alle lusinghe del piacere, e il ricordo stesso dei piaceri già gustati raddoppia il desiderio che mi brucia: in me gli stimoli della carne sono tanto più pericolosi quanto più debole è la natura con cui hanno a che fare. La gente loda la mia castità, ma non sa che in realtà io sono un’ipocrita. Mi considerano virtuosa perché conservo pura la carne, ma la virtù è una cosa che riguarda l’anima, non il corpo. E se, nonostante tutto, gli uomini possono lodarmi, presso Dio non ho alcun merito, perché egli sonda il cuore e le reni, e vede anche ciò che gli altri non possono vedere. Lodano la mia religiosità, ma oggi la religiosità in gran parte non è altro che ipocrisia, e per essere lodati basta non andare contro il senso comune. Forse in un certo senso può apparire lodevole e può anche in qualche modo essere gradito a Dio il fatto che qualcuno, al di là delle sue intenzioni, non dia scandalo in seno alla Chiesa con il suo comportamento esteriore: dopo tutto basterebbe ad esempio che non Sergio Gabbiadini 11 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 desse agli infedeli il motivo di bestemmiare il nome di Dio o ai libidinosi l’occasione di diffamare l’ordine a cui ha fatto voto di appartenere. Anche questo in effetti, è un dono, piccolo o grande che sia, della grazia divina, che sola può suggerire non solo di fare il bene, ma anche di non fare il male. Ma è inutile mettere in pratica quest’ultimo suggerimento, se poi non si attua l’altro, se cioè non si fa anche il bene, perché sta scritto: «Fuggi il male e fa’ il bene!» ed è inutile anche fare l’una e l’altra cosa, se non si fanno per amore di Dio. Ora, in tutto il corso della mia vita — Dio lo sa — ho sempre temuto più di offendere te che di offendere Dio, ho sempre cercato di piacere a te più che a lui. Un tuo ordine, e non la voce di Dio mi ha indotta a prendere l’abito religioso. Pensa dunque come debba essere infelice e miserabile la mia vita, se qui sulla terra sopporto pene così atroci, pur sapendo che non ne riceverà alcuna ricompensa in futuro. La mia abilità nel fingere ti ha a lungo tratto in inganno, come del resto ha ingannato tutti: anche tu, come tutti, hai attribuito a un sentimento di devozione religiosa quello che altro non era che ipocrisia: raccomandato alle mie preghiere, ma non sai che quello che tu chiedi a me, io lo aspetto da te. Non sopravvalutare i miei reali meriti, ti prego. Non smettere neanche per un attimo di aiutarmi con le tue preghiere: io non sono affatto guarita, non posso fare a meno dell’aiuto della tua medicina. Non credere che io non abbia più bisogno di te e delle tue cure, perché in realtà non puoi lasciarmi sola neanche un momento. In non sono affatto guarita e potrei cadere prima che tu giunga in tempo per tenermi in piedi. Le lodi false e bugiarde hanno mandato in rovina molte persone perché hanno tolto loro gli aiuti e gli appoggi di cui invece avevano ancora bisogno.» (Eloisa ad Abelardo lettera IV) 2.2. l’intentio (e quindi la persona): sede della moralità Eloisa ad Abelardo, l’inizio e la sede della morale «… Sono colpevole, colpevole sotto ogni aspetto, ma sono anche innocente, completamente innocente, tu lo sai bene, perché la colpa non sta nelle conseguenze del gesto ma nell’intenzione di chi lo compie: la giustizia valuta non l’atto in sé ma il pensiero che ha ispirato l’atto. E a questo punto solo tu che li hai provati, puoi giudicare e valutare i sentimenti che ho nutrito per te. Rimetto tutto al tuo esame, mi rimetto completamente a te. Dimmi soltanto, se puoi, perché dopo il nostro ritiro in convento, ritiro che tu solo hai deciso, hai cominciato a trascurarmi tanto e a dimenticarti tanto di me, al punto che né mi vieni a trovare, né mi scrivi. Rispondimi, ti prego, se puoi, altrimenti sarò costretta a dire io quello che penso o meglio quello che ormai tutti sospettano: i sensi e non l’affetto ti hanno legato a me; la tua era attrazione fisica, non amore, e quando il desiderio si è spento, con esso sono scomparse anche tutte le manifestazioni d’affetto con cui cercavi di mascherare le tue vere intenzioni.» (Eloisa ad Abelardo lettera II) Nella sua riflessione etica (svolta nell’opera Conosci te stesso, Ethica seu liber Scito teipsum, del 1136) Abelardo spinge la sua analitica riflessione lontano dalla tradizione del tempo; in questo campo le sottili distinzioni razionali lo pongono in contrasto con la sensibilità religiosa del mondo monastico e delle scholae teologiche in cui prevale una visione pessimistica dell’uomo, sempre debole di fronte alla minaccia del male e del peccato. 2.2.1. Abelardo distingue l’inclinazione al male (vitium) dal consenso che la volontà dà a quell’inclinazione (peccatum); peccato non è dunque la semplice inclinazione naturale al vizio, ma l’azione compiuta con assenso della volontà nell’infrangere la norma divina. 2.2.2. Abelardo distingue ancora l’azione (opus) e l’effetto che essa produce, dall’intenzione (intentio) che la sorregge e la definisce presso colui che la compie. Nessuna azione è in sé necessariamente buona o cattiva separata dall’intenzione di colui che la compie. (Può essere utile ricordare il passaggio platonico nel Convito: «Ogni azione è così: considerata in se stessa in quanto attività non è né buona né cattiva») La giustizia, intesa come categoria morale, non può prescindere dall’intenzione; una simile scelta ha l’effetto di annullare il ruolo della persona in campo etico e proclamare il supremo e assoluto valore, astratto, della norma. Sergio Gabbiadini 12 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 La distinzione tra le componenti dell’agire è premessa necessaria per costruire quel collegamento e quella relazione che definiscono la natura dell’agire etico. Nell’agire morale sono presenti, come elementi costitutivi: l’azione, la regola, l’inclinazione. La loro relazione si inserisce nell’ambito della moralità solo se fa perno sull’intentio e da quella ne sono sostenuti e, di conseguenza, moralmente rafforzati. Procedendo con dimostrazioni per assurdo (e talora ad personam) Abelardo dimostra come non siano fonte di moralità (non ne costituiscono l’essenza) né l’azione in sé, né la norma in sé, né l’inclinazione o la passione ma l’intentio. È quest’ultima a rendere morali regola, opus, passione. Non c’è quindi morale senza norme, senza tipologie di vita e di azioni, senza indicazioni di virtù, ma queste entrano nel campo morale attraverso l’intentio o attraverso il principio di scelta personale libera. Si configura come una ripresa della riflessione di Agostino. Nel proprio itinerario etico e culturale Agostino, abbandonata la concezione materialistica della vita che implica la dispersione della mente nella esteriorità degli oggetti e dell’esperienza (distensio), individua nell’interiorità la radice profonda dei propri atti di conoscenza e di amore (intentio); questo cammino trova il proprio fine nell’esperienza con cui lo spirito si apre (extensio), attraverso l’esperienza della fede, alla dimensione escatologica cristiana. 2.2.3. Le lettere di Eloisa mettono in primo piano una nuova sede dell’etica: il corpo. Collocata in quella sede l’etica deve fari i conti con una diversa logica e può reagire in due modi: 2.2.3.1. “alla Platone”, ritraendosene spaventata e negando la corporeità; il corpo è allora peso e zavorra, dimora temporanea, carcere da cui aspiriamo a liberarci (scriverà l’umanista Marsilio Ficino: poiché l’uomo «può trovarsi in condizione di beatitudine solamente dopo la morte del corpo, appare chiara la necessità che i nostri spiriti, uscendo da questo carcere, vadano incontro ad una qualche luce che li attenda.» 2.2.3.2. “alla Eloisa”, dando la parola al corpo e, con dichiarati sensi di colpa ma anche con irresistibile nostalgia, indicarlo come sede di una memoria individuale e personale che costituisce la base insopprimibile di una personalizzazione dell’etica. (può risultare di commento al testo di Eloisa l’osservazione di Jan Kott, La memoria del corpo, in Eros e thanatos, ed. SE, 1992: «Come tutti sappiamo determinate esperienze sessuali si ricordano a distanza di molti anni. Tuttavia esse ritornano come memoria nei polpastrelli, come tatto, non come discorso. Un corpo ricorda un altro corpo che gli ha procurato un intenso piacere fisico. Si tratta di una peculiare memoria, senza nomi e concetti, che continua a funzionare a lungo anche dopo che abbiamo dimenticato i tratti o il colore degli occhi di quell’amante». 2.3. no agli enti universali: la realtà è singolare (individuale) Abelardo ad un amico: ciò che è reale è singolare. «Allora tornai presso di lui (Guglielmo di Champeaux) a studiare la retorica e, per non ricordare che una delle tante nostre dispute, gli confutai proprio in quei giorni, anzi gli demolii, facendogli perfino cambiare opinione, la sua vecchia dottrina sugli universali. A proposito della esistenza comune degli universali, infatti, Guglielmo sosteneva che in tutti gli individui è presente essenzialmente la stessa realtà, in modo che non c’è nessuna differenza nell’essenza, ma solo una certa varietà in conseguenza della molteplicità degli accidenti. Dopo la nostra disputa però egli modificò la sua teoria e arrivò a sostenere che la stessa realtà è presente nei singoli individui non essenzialmente ma indifferentemente. Ma, come è noto, il problema degli universali nel nostro campo è un problema fondamentale (non per niente anche Porfirio, nell’Isagoge, trattando degli universali, non ardisce procedere a una vera e propria definizione della questione e si limita a dire che «la cosa non è delle più semplici») e perciò quando Guglielmo corresse o meglio fu costretto a modificare completamente il suo pensiero in proposito, le sue lezioni caddero in un tale discredito che a stento gli fu concesso di trattare le altre parti della dialettica, e a ragione, perché in realtà il punto più importante dei nostri studi è proprio quello relativo al problema degli universali.» (Abelardo a un amico, lettera I) 2.3.1 un problema di lunga durata. Il problema che ritorna con maggiore frequenza nei dibattiti tra i logici medievali è la «questione degli universali». Essa viene posta in modo esplicito intorno al III Sergio Gabbiadini 13 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 sec. d.C. in un’opera di Porfirio (Isagoge) introduttiva agli scritti di logica di Aristotele. Con queste parole Porfirio formula il problema: «Quanto al genere e alle specie, mi sia concesso di non discutere qui la questione se essi esistano in realtà o si trovino semplicemente e soltanto nel pensiero e, nel caso che esistano, se essi siano corporei o incorporei, e se siano separabili oppure esistano soltanto nelle cose sensibili e dipendentemente da esse. Tale studio è infatti molto profondo e richiede un’altra e più ampia indagine». In altre parole: i termini universali, che significano «generi» o «specie», definiti da Aristotele «quei predicati che sono costitutivamente atti a essere attribuiti a più d’un soggetto», si riferiscono a vere e proprie realtà di cui costituiscono l’essenza metafisica o sono solo nozioni mentali? Nella realtà troviamo il genere «uomo» o singoli individui? L’universale è un ente reale o una idea o un nome? La maggior parte degli interpreti medievali sembra concordare con Avicenna (sec. X-XI) secondo cui la natura delle cose, espressa con un termine universale, considerata in se stessa, non si presenta come una realtà autonoma né universale né particolare; essa si colloca indifferentemente a fondamento sia dei termini (universali) sia delle realtà (singolari). Ma il problema ulteriore è se questi nomi universali, che indicano l’essenza degli oggetti, siano da considerare reali («essenze», «sostanze») anche indipendentemente da ciò a cui concretamente si riferiscono. Le prese di posizione sono contrapposte: i «realisti» sostengono che gli universali sono sostanze, anzi che la loro realtà e il loro studio sono da inquadrare nella metafisica (come sostiene il logico Guglielmo di Champeaux, sec. XI-XII); i «nominalisti» ritengono che gli universali siano puri nomi, flatus vocis, convenzioni studiate dalla grammatica (Roscellino, sec. XI-XII); i «concettualisti» presentano l’universale come concetto, sermo (Abelardo, sec. XII), e considerano l’universale non un’essenza metafisica né un semplice elemento fonico, un suono fisico, ma uno strumento con cui l’uomo significa pensieri e costruisce discorsi; l’universale è dotato pertanto di realtà logica. La disputa sugli universali divide le scuole per ben quattro secoli, a partire dall’XI secolo, non per eccesso di sottigliezze, ma per le ramificate implicazioni teologiche, filosofiche e sociali del problema. Alcuni dogmi della Chiesa, in particolare quelli riguardanti la Trinità e la natura di Cristo, erano stati formulati (già dal IX sec.) nel linguaggio del realismo filosofico, per cui le tesi nominalistiche potevano costituire un pericolo per la teologia tradizionale: applicando i principi logici del nominalismo, infatti, «Trinità» diviene solo un nome, la Chiesa o l’Ordine monastico non sono più realtà autonome e superiori, ma flatus vocis che rimandano alla vera realtà degli individui, dei fedeli, dei monaci. 2.3.2. le questioni in gioco. La questione degli universali presenta dunque importanti risvolti. 2.3.2.1. Se gli universali sono soltanto nomi, non è possibile garantire la corrispondenza dei concetti indicati dai nomi e del discorso con la realtà e cade così la possibilità di raggiungere la verità; può risultare compromessa la stessa esistenza di un ordine comune e universale che indichi l’elemento comune (per essenza o per qualità) a diversi individui (come il definirli: uomini, giusti, cittadini, acculturati, ignoranti ecc.) e, in progetto più ampio, molto caro alla cultura antica, medievale e moderna, armonizzi in un coerente disegno teorico e storico le infinite realtà individuali; ma con l’ordine viene a cadere anche la possibilità di parlare di Dio a partire dal mondo, la teologia razionale è messa in discussione: il pensiero e la parola di Dio diventano metafisicamente inefficaci, non più creativi e costitutivi della trama ordinata del mondo. 2.3.2.2. Se gli universali invece sono reali, gli enti individuali risultano essere semplici parvenze, manifestazioni contingenti e casuali di apparati universali; è reale l’ordine del mondo mentre non lo sono le cose concrete e le persone, la Chiesa e non i fedeli, l’ordine e non i suoi frati, lo stato e non gli individui. Dando realtà ai nostri concetti mentali, oltre a pretendere di creare più realtà di quelle che Dio ha effettivamente creato, non siamo più in grado di giustificare ciò che è concreto, viene annullata la realtà dell’individuo e il suo agire, vincono gli apparati. Il dibattito sugli universali assume dunque la valenza di un drammatico scontro tra due contrapposte visioni del mondo. 2.3.2.3. Abelardo (Pietro Abelardo 1079 – 1142), brillante maestro di logica e di teologia affronta nelle aule delle sue scholae e nei commenti di logica (Glosse a Porfirio, Dialettica) la «quaestio de Sergio Gabbiadini 14 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 universalibus». Nel dibattito apertosi sulla natura degli universali Abelardo assume una posizione intermedia rispetto a quella nominalistica di Roscellino e a quella realistica di Guglielmo di Champeaux entrambi suoi maestri (e, nel caso di Guglielmo, implacabile rivale); l’universale non designa né un semplice suono (flatus vocis), né enti realmente esistenti (res), ma un sermo: frutto di un’operazione razionale con cui si astraggono dagli enti individuali gli elementi comuni, prescindendo da quelli accidentali, l’universale è una costruzione mentale utile per indicare tratti comuni agli enti individuali che sono i soli enti reali. Astrazione, e quindi non è res, dalla realtà, e quindi non si riduce semplicemente al suono che la esprime, l’universale guida a cogliere la realtà secondo essenza e secondo i suoi modi specifici di essere. Le realtà sono solo singolari. Dell’uomo è predicata l’individualità. L’individualità appare nella sua intraprendenza ed autonomia, intende definirsi e si dichiara originaria. La sua appartenenza sociale a sistemi universali (ordine e confraternite, stato e professioni…) non diventa la sede in cui possono trovare radice e fondamento morale le sue scelte e le sue azioni. Si delinea qui un problema gigantesco, quello del rapporto tra istituzioni (universali) e persona (singolari): chi è all’origine, chi è al servizio di chi? 2.3.2.3.1. Se gli universali sono reali non è più la persona ad essere al centro dell’etica. L’attenzione si rivolge non all’individuo e alla natura della sua azione ma ad altre centralità: 2.3.2.3.2. le regole: la morale è una dettagliata precettistica, dogmatica, astorica, fine a sé; 2.3.2.3.3. il peccato: i trattati morali diventano elenco (quasi sadico) di tutte le trasgressioni possibili oggetto di definitiva e doverosa sanzione; 2.3.2.3.4. la perfezione: incarnata in società ideali, religiose e politiche, che impongono il dovere della propria realizzazione. Le tesi di Abelardo conciliano e salvano sia l’assoluta singolarità della persona, sia l’altrettanto evidente e reale suo avere in comune con altri individui la natura umana e le sue caratteristiche (catalogabili con l’utilizzo delle categorie di Aristotele), le relazioni sociali estremamente varie. Il riferimento agli universali come termini appellativi per ciò che è comune permette alle scienze di cogliere la natura delle realtà singolari e all’etica di formulare principi e norme. La negazione della esistenza degli universali come res permette di salvare le individualità (ciò che è reale è singolare) e, dal punto di vista etico, la libertà e la responsabilità della persona. Nelle tesi di Abelardo infatti l’attribuzione della responsabilità morale fa riferimento all’intentio, alla mente e alla volontà della persona; l’etica si colloca nell’interiorità del soggetto, nella consapevolezza e nell’adesione all’azione nella quale si vive; ribadisce Eloisa: «perché la colpa non sta nelle conseguenze del gesto ma nell’intenzione di chi lo compie». 2.4. come conclusione di metodo un’etica della ragione tra valorizzazione della Traditio e della mente. «Desideriamo raccogliere, come si è stabilito, i diversi detti dei santi Padri ogni volta che ricorrano alla nostra memoria alcune opinioni discordanti, o che tali ci sembrano e che inducono alla discussione, in modo da provocare i lettori inesperti al massimo esercizio nella ricerca della verità e da renderli acuti grazie alla stessa analisi. Infatti la ricerca, e cioè il dubbio assiduo e frequente, è considerata come la chiave di volta della sapienza, e per raggiungere questo obiettivo con tutto lo zelo possibile il filosofo più acuto di tutti, Aristotele, esorta gli studiosi dicendo nelle Categorie: “Forse è difficile dare una visione chiara e attendibile in cose di questo genere se non le si sono messe in discussione più di una volta”; non sarà quindi inutile dubitare su ogni singola cosa. Con il dubbio si giunge alla ricerca, con la ricerca si giunge alla verità secondo quanto dice la Verità stessa: “Cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto”.» (Abelardo, Sic et non, Prologo) 3. Tommaso (1225-1274): etica nell’incontro; riappropriazione, continuità e compimento Tre ambiti, presupposti per l’etica: 1. la mente umana deve avere accesso conoscitivo non solo al tema del divino ma, in modo più specifico, al contenuto che la tradizione cristiana presenta come Sergio Gabbiadini 15 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 rivelazione in modo da poterne fornire una esposizione universalmente accettabile e perciò scientifica; 2. contestualmente è necessario che l’uomo colga il mistero, la profondità, la trascendenza e, nella fede si apra ad esso in modo strutturale e non periferico con le proprie facoltà: intelletto e volontà; 3. più alla radice, occorre evidenziare le basi di un incontro antropologico globale tra il nucleo dell’evento cristiano, la fede, grazia e rivelazione, e la natura umana nella sua interezza di conoscenza, volontà e inclinazione. 3.1. la teologia è scienza 3.1.1. Un’esigenza etica. Premessa e condizione perché le tesi e le convinzioni del cristianesimo sulla rivelazione divina e sulla predicazione che ne segue possano avere una valenza etica, senza che si traducano in mero imperativo esterno per l’uomo e risultino quindi fonte di obbedienza priva di consenso e di adesione razionale, è che esista un accesso razionale al divino e che il discorso che se ne occupa, la teologia, possa presentarsi come scienza. La teologia, il discorso razionale su Dio, è perciò chiamata preliminarmente ad esibire il proprio statuto di scientificità mostrando il metodo del suo costituirsi. È la prima preoccupazione che il magister domenicano Tommaso d’Aquino affrontata e espone negli articoli della prima questione della prima parte della Summa Theologiae, sfidando in questo la posizione dei francescani che temevano una deriva averroistica della fede cristiana, portata ma anche ridotta alla chiarezza della ragione. Il progetto trova realizzazione nelle opere di Tommaso d’Aquino in parallelo ad una autentica rivoluzione culturale del periodo: tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII, l’intero corpus delle opere di Aristotele, unite al commento degli studiosi arabi, giunge nelle università dell’Occidente. 3.1.2. Una filosofia cristiana. Attorno a questi testi si innesca, ad opera dei maestri della “Scolastica” un ampio, articolato e controverso processo di ripensamento e di ridefinizione dei fondamenti della riflessione filosofica, del valore della ragione e del suo possibile rapporto con la fede e con la rivelazione cristiana. La ratio aristotelica, senza il sostegno della fede, senza l’alimento della rivelazione, ha saputo costruire un complesso e solido edificio di conoscenze, autonome nel campo della propria competenza. Di quell’edificio, pena l’ignoranza e il mancato incontro con il tempo in cui vive, il magister medievale non può non riconoscere la grandezza; di esso tuttavia, secondo Tommaso, deve valutare la compatibilità con l’insegnamento della tradizione cristiana se non vuole tradire la fede e la regola dell’ordine cui ha aderito e se non vuole accettare una specie di doppia vita mentale, di doppia verità, quella della ragione e quella della rivelazione. Ripercorrendo nella sua opera di lettura e di commento il vasto e articolato corpo dei testi aristotelici, Tommaso presenta alla cultura scolastica medievale le forme di razionalità e gli ambiti di indagine che rendono la filosofia e le diverse scienze ambiti indipendenti e autonomi nel proprio settore di competenza. La domanda cruciale è se anche la teologia possa venir considerata scienza dimostrativa e, come si afferma per l’oggetto di cui si occupa, scienza somma. A tale scopo l’attenzione si incentra sulla relazione tra tre contesti: il metodo scientifico in generale, la scienza filosofica ultima, la metafisica, la teologia. 3.1.3. La natura scientifica della teologia [già fornito lo scorso anno] Il dubbio sulla sua scientificità deriva dalla constatazione che la dottrina del cristianesimo si fonda sull’autorità della parola di Dio e chiede un atteggiamento di fede. «Rispondo: Come le scienze profane non devono dimostrare i propri principii, ma dai loro principii argomentano per dimostrare altre tesi, così la sacra dottrina non dimostrerà i propri principii, che sono gli articoli di fede, ma da essi procede alla dimostrazione di qualche altra cosa, come fa l’Apostolo, il quale dalla resurrezione di Cristo prova la risurrezione di tutti. Tuttavia è da considerarsi che nelle scienze filosofiche le inferiori non solo non provano i loro principii, ma neanche discutono contro chi li nega, lasciando ciò ad una scienza superiore, cioè alla metafisica. Essa, che tiene il primato su tutte le scienze, discute con chi nega i suoi principii solo nel caso in cui l’avversario ammetta qualche cosa; se non concede niente ogni discussione è impossibile: essa allora si limita a ribatterne i sofismi. Ma la sacra dottrina non ha un’altra scienza al disopra di sé, e quindi essa disputa contro chi nega i suoi principii argomentando Sergio Gabbiadini 16 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 rigorosamente, se l’avversario ammette qualche verità della rivelazione, come quando ricorrendo all’autorità della sacra dottrina disputiamo con gli eretici, o quando per un articolo ammesso combattiamo contro chi ne nega qualche altro. Se poi l’avversario non crede niente di ciò che è rivelato da Dio, allora la scienza sacra non ha più modo di portar argomenti a favore degli articoli di fede: non le resta che controbattere le ragioni che le si possano opporre. È chiaro, infatti, che poggiando la fede sulla verità infallibile ed essendo impossibile dimostrare il falso da una cosa vera, le prove che si portano contro la fede, non sono vere dimostrazioni, ma degli argomenti risolvibili.» Summa theologica I,I,8 3.2. fede in rapporto all’intelletto e alla volontà 3.2.1. Il richiamo all’atto di origine del cristianesimo, l’annuncio che Dio ha scelto in Cristo la condizione di uomo, porta Tommaso a presentare la fede non in contrapposizione a ciò che è umano, ma in armonia con esso; la volontà e la ragione dell’uomo, e in generale il suo desiderio di conoscere, sono risvegliati e alimentati dalla fede; essa si colloca così al principio e al culmine dell’agire umano. 3.2.2. In secondo luogo, la scelta di condurre la propria ragione con gli strumenti della filosofia aristotelica, liberata dagli elementi estranei in essa introdotti dai commentatori «infedeli» e, attraverso il confronto con la Bibbia, purificata dagli errori, permette i Tommaso di indicate nella fede la perfezione della natura umana: credere significa indirizzare le proprie energie nell’ordine oggettivo che promana e termina in Dio, inteso aristotelicamente come principio primo e causa ultima. 3.2.3. Lettore e commentatore delle opere dei mistici (in particolare di Dionigi Areopagita, autorità della tradizione tra le più citate) Tommaso ricorda, infine, che la fede è solo anticipazione della futura e diretta visione intellettiva, dell’assenso pieno che essa genera e della beatitudine contemplativa che ne deriva; lì, sciolta dal corpo, l’anima conoscerà senza mediazioni logiche, senza immagini e senza dimostrazioni, per visione diretta del vero. La fede è pertanto speranza delle realtà definitive; essa si manifesta nell’uomo «in cammino» come ricerca mai sazia, desiderio di conoscenza, tensione della ragione verso il proprio pieno appagamento. 3.2.4. La fede definita in quanto collocata all’interno del quadro dei modi in cui si comporta l’intelletto quando dibatte intorno a questioni: «quaeritur quid sit credere». [già lo scorso anno] «Risulta chiaro dunque, da quanto è stato detto, che nella operazione in cui l’intelletto coglie le semplici essenze della realtà, non si può trovare assenso, perché in questo caso non si tratta di vero o falso; infatti non si dice che diamo assenso a qualcosa, se non aderiamo ad essa considerandola vera. Anche colui che dubita non esprime assenso, perché non aderisce a una parte piuttosto che a un’altra. E così colui che esprime opinioni, perché la sua adesione a una delle due parti non ha una base sicura. L’asserzione invece, come dicono Isaac e Avicenna (Metaf. II,4 e VIII,6), è il concepire in modo chiaro e certissimo una delle due parti di una contraddizione; «assentire» deriva appunto da «sententia» («asserzione»). Invece colui che coglie i principi con l’intelletto esprime assenso, perché aderisce in modo inequivocabile a una delle due parti; la sua adesione tuttavia non comporta un processo di riflessione, perché avviene senza aver stabilito alcun tipo di confronto. Colui che acquisisce conoscenze attraverso un processo di dimostrazione scientifica lo fa attraverso un processo di riflessione e di assenso; ma una riflessione che causa l’assenso, e un assenso che conclude la riflessione. Infatti dal confronto tra i principi fino alle conclusioni dà il proprio consenso alle conclusioni, in quanto è in grado di ricondurle ai principi, e a questo punto il processo di riflessione si fissa e trova pace. Nel processo conoscitivo infatti il moto della ragione incomincia dalla conoscenza dei principi, che ne costituiscono anche il termine ultimo, attraverso chiarificazioni successive; perciò l’assenso e la riflessione non sono sullo stesso piano, ma la riflessione conduce all’assenso e l’assenso quieta l’intelletto. Invece nella fede l’assenso e la riflessione sono quasi sullo stesso piano. Infatti l’assenso non è causato dalla riflessione, ma dalla volontà, come è stato detto. Ma poiché l’intelletto non è spinto in questo modo in una sola direzione come se tendesse al suo proprio fine, che è la visione di qualcosa Sergio Gabbiadini 17 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 di intellegibile, ne consegue che il processo intellettivo non ha ancora il suo appagamento, ma richiede ancora riflessione e ricerca su ciò che crede, benché il suo assenso sia saldissimo. Infatti quanto riesce a trovare da sé, non lo soddisfa né lo spinge a una sola risoluzione, ed è portato a decidere solo in forza di qualcosa di esterno. Perciò si dice che l’intelletto di chi crede è soggiogato, perché è sottoposto a limiti posti da altri, non da se stesso (II Corinti 10,5: «Riducendo alla sottomissione ogni intelletto»). E per questo motivo che nel credente può insorgere una spinta contraria alle convinzioni in cui egli saldamente crede, mentre in colui che conosce con l’intelletto o acquisisce conoscenze per via razionale questo non può accadere. Perciò, in conclusione, a causa dell’assenso l’operazione del credere è distinta da quella in cui l’intelletto coglie le forme semplici, cioè le essenze, ed è distinta anche dal dubbio e dall’opinione; a causa della riflessione, invece, è distinta dall’intelletto e, infine, poiché la riflessione e l’assenso sono quasi sullo stesso piano il credere si distingue dalla scienza.» (Tommaso d’Aquino, Quaestio de fide, art. I) 3.2.4. Fede e ricerca. Riflessione e assenso sono le componenti più specifiche che permettono di cogliere le diverse modalità conoscitive. Colui che crede «sceglie di dare il proprio assenso a una sola parte in modo definitivo e preciso, a causa di qualcosa che è sufficiente a muovere la volontà, ma non a muovere l’intelletto». Nella fede «l’assenso e la riflessione sono quasi sullo stesso piano» poiché l’assenso che l’intelletto dell’uomo esprime in essa non avviene in forza di un oggetto da lui prodotto, ma come risposta a una rivelazione esterna; quest’ultima, dal canto suo, non costringe con violenza l’intelletto all’assenso, ma «in quanto sembra bene e conveniente approvare questa parte». Riflessione e assenso nella fede si fronteggiano in continuazione, dando vita a una tensione dell’intelletto verso la continua ricerca: «ne consegue — afferma Tommaso — che il processo intellettivo non ha ancora il suo appagamento, ma richiede ancora riflessione e ricerca su ciò che crede, benché il suo assenso sia saldissimo». Le formule sono eloquenti poiché compongono in sintesi binomi antinomici di una certezza basata sull’adesione per volontà e sulla continua ricerca: da quella di Agostino posta da Tommaso in apertura della Quaestio de fide «credere est cum assensione cogitare» a quella, ancora in sintesi folgorante, di Enrico da Susa per cui la fede è «voluntaria certitudo absentium». 3.2.5. Fede e ricerca su fondamento biblico. Il rifiuto di trasformare la fede in certezze mondane fin d’ora definitive e assolute ha, anche in Tommaso come in tutto il pensiero ebraico cristiano, un profondo fondamento biblico e trova espressione nell’atteggiamento ermeneutico che sorregge e articola l’interpretazione della Sacra scrittura: si tratta della dottrina dei molti sensi della scrittura. Sono esplicite e dense di tradizione le posizioni di Tommaso, riassunte e presentate in particolare nella Summa Theologiae proprio quando espone la natura scientifica della teologia (I.I.10): «Utrum sacra Scriptura sub una lettera plures sensus habeat». Tommaso esplicita la propria posizione citando Gregorio (XX Moralium) «Sacra Scriptura omnes scientias ipso locutionis suae more transcendit: quia uno eodemque sermone, dum narrat gestum, prodit mysterium». La fede è dunque esplorata, nel testo di Tommaso, non solo come un dono (come accade nei documenti biblici cristiani del Nuovo Testamento), ma, filosoficamente, anche come un modo di essere dell’uomo. Da questo punto di vista non si presenta come una totalità, e ciò allontana tentazioni integralistiche e intolleranti, non è ora l’accesso definitivo al vero ma solo pegno e speranza delle cose future, e ciò allontana dogmatismi mondani ricorrenti nel compito di trasmissione delle tesi cristiane; essa rappresenta il vertice indicato e mostrato, rivelato e oggetto di attesa, della conoscenza e della volontà ed è per la mente umana del credente dono, direzione e stimolo. È necessario coniugare le tre virtù teologali (come da tradizione) come tra di loro inscindibili: fede, speranza carità; e considerarle come virtù dell’uomo e virtù di Dio in progetto salvifico. 3.3. un’antropologia della salvezza: libertà e grazia « In secondo luogo: argomentare per autorità è del tutto proprio di questa dottrina perché essa deriva i suoi principii dalla rivelazione: perciò è necessario che si creda all’autorità di coloro ai quali fu fatta la rivelazione. Né ciò deroga alla dignità della sacra dottrina perché, sebbene Sergio Gabbiadini 18 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 l’argomento di autorità umana sia il più debole di tutti, l’argomento di autorità fondata sulla rivelazione divina è il più forte. Tuttavia la sacra dottrina usa anche il ragionamento, non già per dimostrare i dogmi, perchè altrimenti si perderebbe il merito della fede; ma per chiarire alcuni punti del suo insegnamento. Così come infatti la grazia non distrugge la natura, ma anzi la perfeziona, la ragione deve servire alla fede, nel modo stesso che l’inclinazione naturale della volontà asseconda la carità. Ond’è che S. Paolo dice: «facendo schiava ogni intelligenza all’obbedienza di Cristo». È così che la sacra dottrina utilizza anche l’autorità dei filosofi dove essi con la ragione naturale valsero a conoscere la verità; come fece S. Paolo che citò il detto di Arato: «come anche alcuni dei vostri poeti hanno detto: “Noi siamo progenie di Dio”». (Summa Teologica I,I,10, ad 1um) 3.3.1. la relazione ragione e fede. Partendo dall’esperienza del mondo e sottolineandone i diversi aspetti essenziali (il divenire, l’ordine, la contingenza, la gerarchia, il finalismo), la ragione metafisica ricava argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio; partendo dalla parola di Dio e dalla sua opera salvifica, narrata nei testi della Sacra Scrittura, la teologia spinge la ragione ad affrontare ambiti per i quali l’esperienza non può fornire alcun elemento. In tale contesto il domenicano Tommaso difende lo statuto scientifico della teologia mostrando come l’autorità della rivelazione non si impone costrittivamente alla ragione, ma perfeziona la sua naturale tendenza alla verità. La salvezza che il cristianesimo annuncia all’uomo è anche, infatti, salvezza della ragione; alla teologia, in quanto scienza che si occupa di Dio a partire dalla fede, spetta il compito di guidare la ragione e la natura umana, in tutte le sue componenti, compreso ovviamente l’agire pratico e, in esso, il ruolo dell’inclinazione o delle passioni, verso il loro pieno compimento. 3.3.2. la relazione tra libertà e grazia. La scelta umana da parte di Dio in Cristo non si configura come annullamento dell’umano, al contrario come sua realizzazione e salvezza. L’essere collocati all’interno del progetto salvifico che è garanzia escatologica di positivo compimento del corso della storia si traduce in raccolta, valorizzazione e quindi potenziamento dell’umano e della libertà. Del resto, come si ricava dalla tradizione di Agostino, la libertà si distrugge nel compiere il male (nel fuggire dal bene, nel negare se stessa nel non-essere quale il male è) e si realizza solo nel bene. 3.3.3. la relazione tra inclinazione e carità. L’inclinazione, la passione non determina, direttamente e per se stessa, né la situazione di bene né la situazione di male; come componente naturale è tuttavia irrinunciabile e non si cataloga affatto, manicheisticamente, come aspetto del male: anzi, compiere il bene per passione o inclinazione completa e potenzia il bene operare creando una convergenza ampia dell’uomo nell’agire morale. 4. dal confronto, ipotesi di definizione del modello etico nel contesto della cultura cristiana 4.1. la rilettura “trasformazione” del testo filosofico ripreso (“furto sacro”) L’incontro tra il pensiero greco - latino (platonico e aristotelico in particolare, visto l’ufficiale ostracismo riservato alle filosofie ellenistiche: epicurei, scettici, cinici e anche stoici) e l’annuncio biblico, nelle forme che ha assunto nella letteratura cristiana, sembra perfettamente in linea con la dinamica del “furto sacro” teorizzata da Agostino e praticata per tanti secoli. 4.1.1. (dalla storia alla metafisica) si può fare riferimento, come esempio, ad un concetto centrale della logica della bibbia letto, reinterpretato e così confermato dalla terminologia filosofica (nel caso, quella aristotelica): è possibile riportare (almeno in proporzione analogica) i concetti aristotelici di potenza ed atto (materia e forma) ai concetti biblici di prefigurazione e compimento. Si tratta di termini che in Aristotele spiegano la logica del divenire; riportati all’annuncio biblico rafforzano filosoficamente due aspetti centrali dell’annuncio salvifico: 1. l’apertura della potenza, della prefigurazione all’atto, al compimento; 2. la priorità ontologica, non cronologica, dei secondi sui primi; atto e compimento in quanto file diventano i cause formali ed efficienti del divenire e dell’agire. Sergio Gabbiadini 19 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 4.1.2. (dal tempo allo spazio; il “modello” che conferma …è trasferito) Una trasformazione ultraterrena dell’etica. Il riferimento va alla più alta tipologia di vita etica proposta da Aristotele, “bios theoretikòs”: vita contemplativa di massimo pensiero teoretico, contesto in cui bene, piacere e felicità sono pensati al massimo della realizzazione dell’uomo. Nella rilettura cristiana (di Agostino e soprattutto di Tommaso) la vita contemplativa diventa visione beatifica di Dio, riservata alla anime del paradiso, assolutamente prive di corporeità materiale; la stessa felicità è dichiarata raggiungibile solo con la fede e con l’intervento della grazia di Dio e si realizza solo nell’aldilà; la visione beatifica di Dio diventa la realizzazione completa dell’uomo e quindi il vero ultimo ed unico fine prescritto alla sua libertà, se questa mira alla piena realizzazione di sé. Non si tratta di una semplice reinterpretazione contenutistica e trasferimento locale e temporale del contemplare; l’effetto provocato è quello della negazione della possibilità di un’etica umana che possa presentarsi autonoma. In campo teoretico infatti, sia scientifico sia etico, il modello che delinea la perfezione si presenta come la versione oggettiva dei concetti e delle tesi dell’intera teoria; svolge una funzione indispensabile per garantire sostenere e dimostrare l’autonomia scientifica di un settore di indagine; esso è autonomo se e in quanto è capace di formulare, in prospettiva ideale, la situazione reale che si configura come piena realizzazione della legge. Nelle scienze fisiche, per esempio, è il ruolo dell’esperimento ideale a confermare l’intero impianto teorico (l’esperimento del piano inclinato conferma il principio di inerzia e la fisica galileiana), nel caso delle scienze pratiche, come l’etica, la tipologia di vita che si configura come perfezione e piena realizzazione dell’umano attesta la piena autonomia della ragione morale, la sua capacità di comporre elementi etici sommi (virtù felicità piacere) e la dichiara non dipendente da principi a lei esterni. Questa prospettiva etica della perfezione è negata da Tommaso e dal pensiero cristiano come possibile per la ragione e per la natura umana, è spostata come certa in un’altra realtà. 4.2. la “trasformazione” del testo biblico attraverso la filosofia La rilettura filosofica del testo biblico, operata mediante l’accostamento di termini su base per lo più analogica, comporta certamente una radicale trasformazione delle tesi della cultura greco-latina, ma anche un profondo cambiamento dell’impianto dell’annuncio salvifico proclamato nella bibbia. 4.2.1. Una trasformazione metafisica dell’annuncio biblico: i termini con cui la bibbia parla di Dio e del Messia sono interpretati e tradotti nel linguaggio della metafisica aristotelica (in coerenza con il compito della Traditio -del tradere- che impone la scelta di un adattamento interpretativo salvifico del testo in rapporto alle domande storiche presenti. Nel campo della cultura cristiana medievale si ottiene come conseguenza prevalente che l’ermeneutica, la lettura e il commento filologicamente rispettoso del testo biblico, non è affatto esclusa ma è sovrastata dalla teologia che acquista presto (fino alle linee del Concilio ecumenico Vaticano II, ma con successo precario e oggi a rischio di abbandono) una maggior rilevanza nell’essere fonte di dottrina e di insegnamento e nel guidare lo stesso processo interpretativo della sacra scrittura e la sua traduzione in sistema teologico. 4.2.2. Il “regno di Dio” torna nella dimensione trascendente. La bibbia ebraica cristiana (con la creazione e, per il cristianesimo, con l’incarnazione) annuncia la scelta di Dio per il tempo e per dare avvio ad una storia di salvezza attraverso un’alleanza che giungerà ad un sicuro esito positivo. L’etica della trascendenza ricolloca la sede della salvezza e del compimento fuori dal tempo storico e con difficoltà evita la lettura negativa di ciò che definisce materiale, terreno, mondano… 4.3. una ambiguità non risolta e un bivio impegnativo Nell’annuncio cristiano l’antico testamento delinea un piano di salvezza e prefigura una redenzione che si compie nella morte e risurrezione di Cristo come evento definitivamente salvifico. Di qui la certezza di essere nei tempi ultimi, escatologici, dell’avvento del Regno di Dio. Questo annuncio di fede pone il compito della testimonianza di fronte a un dilemma di difficile soluzione. 4.3.1. la certezza della fede e del compito di diffonderla da parte di chi (persona o istituzione) dichiara di averla ricevuta in dono è convinzione di disporre del vero definitivo e quindi del dovere e del diritto di gestire la verità in termini di imposizione e di potere, secondo una politica secolare, Sergio Gabbiadini 20 etica in modelli storici TU 2009 Agostino Abelardo Tommaso incontro 4 espressa in parole spirituali. L’impostazione cristiana dell’etica si colloca nella convinzione, lascito indubitabile della fede, di avere a disposizione negli eventi salvifici e nei testi biblici che li annunciano, una lettura e una promessa di redenzione assoluta e definitiva della storia, in questa redenzione si colloca l’idea della perfezione, da questa deriva il diritto a giudizi inappellabilmente veri. Si tratta di una secolarizzazione della fede legata all’affermazione della coincidenza tra la città celeste, il regno di Dio e la Chiesa come istituzione storica già presente nel tempo; e così le tesi di Agostino sono state interpretate ed applicate nel corso del medioevo. Alla dottrina di Agostino infatti si fa risalire una funzione salvifica del cristianesimo organizzato in chiesa considerata già certa e definitiva; lo stesso Agostino (in forma programmatica nel De doctrina christiana) lavora nella direzione di fornire alla chiesa strumenti teorici e pratici con cui operare efficacemente nella storia, e, soprattutto, nel contesto di quel crollo degli imperi che egli richiama nel De civitate Dei, indispensabili per difendere la chiesa da attacchi esterni e da eresie. 4.3.2. le comunità cristiane, fin dai documenti neotestamentari, affermano il “già e non ancora” della salvezza e la loro fede diventa attesa del compiersi del disegno storico salvifico di Dio nei tempi ultimi e si presentano come “comunità dell’attesa”. Emblematica è la posizione di Agostino. Egli parla di una presenza della città celeste nella città terrena definendola «traccia e immagine profetica»: la città celeste è disegno di Dio sicuramente già presente nel tempo materiale ma storicamente non identificabile. «Certamente una traccia e immagine profetica di questa città, come un simbolo e non come una dimostrazione, è esistita sulla terra in condizione di schiavitù nel tempo opportuno in cui doveva manifestarsi. È stata anche chiamata città santa secondo un’immagine simbolica, e non per esprimere una verità che appartiene al futuro.» ma affermava immediatamente prima: « Infatti la città dei santi è nel cielo, benché essa generi dei cittadini sulla terra, dove è presente in modo passeggero finché non giunga il tempo del suo regno, quando radunerà quelli che risuscitano nei loro corpi e sarà dato il regno promesso, dove essi regneranno senza fine assieme al loro principe, il Re dei secoli.». Sergio Gabbiadini 21