DA QUAGGIÙ SI VEDE TUTTO, E TUTTO DIVERSAMENTE L’umiltà e l’«inversione» evangelica * Matteo 11 25 In quel tempo Gesù disse: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. 26 Sì, o Padre, perché così è piaciuto a te. 27 Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare. 28 Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. 29 Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. 30 Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» * Giureremmo che dall’alto si vede meglio. E più in alto siamo e più vediamo. L’«inversione» evangelica ci assicura invece che è dal basso che si vede tutto e bene, sia pure in maniera assai diversa. Questo è il paradosso che vorremmo indagare. La lettera agli Efesini ci regala questo passo: 7 A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. 8 Per questo sta scritto: Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini. 9 Ma che significa la parola «ascese», se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? 10 Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose (Efesini 4) L’abbassamento di Gesù costituisce per noi e per tutti la salvezza. Esso è il centro della «buona notizia». Perciò interrogarsi sull’umiltà (=abbassamento) non è un esercizio ai margini della vita cristiana. La sorpresa è che immergersi nei testi del NT che la mettono a tema ci porta al centro non solo della vita cristiana, ma del mistero stesso di Dio. Se non si riesce ad apprezzare l’umiltà a questo livello radicale non si entra nella vita di Dio e si fraintende il vangelo. 1 1. L’umiltà è una «buona notizia»? Per i greci e per i latini, cioè per noi che siamo costituiti per lo più da questa eredità, l’umiltà non è una buona notizia, né come condizione né come valore. Se «umile» in greco si dice con una parola che vuol dire abbassato (e in definitiva povero), anche in latino è trasparente il rimando alla terra, all’«humus», e dunque di nuovo a ciò che sta in basso. L’uomo sembra fatto per innalzarsi (sia pure senza cedere alla hybris che vorrebbe il superamento di qualsiasi limite) e l’abbassamento desta in lui orrore e ripulsa. Davanti all’umiliazione, all’abbassamento di Gesù (la croce) san Paolo registra il giudizio dei «greci» e degli ebrei: stoltezza e debolezza. Confrontati con la croce sia «pagani» che «credenti» si trovano insieme nel loro rifiuto: chi cerca la grandezza della sapienza oppure della forza, anche se in un primo momento viene affascinato dal Maestro di Nazaret non può che restare deluso (scandalizzato) dalla piccolezza / dall’umiliazione che costituisce l’esito della sua vicenda. Ma per chi sa vedere, dice Paolo, la croce di Gesù è sapienza e forza! 21 Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. 22 E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, 23 noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; 24 ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. 25 Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. (1 Corinzi 1) Ecco la sfida: riuscire a vedere lì (come?), nella stoltezza e nella debolezza, la vera sapienza e la vera forza... Altrimenti si fraintende l’abbassamento della croce soltanto come un momento di passaggio che verrà superato dal ripristino della forza e della sapienza come le intendiamo noi. L’umiliazione sarebbe allora il prezzo da pagare a Dio per il nostro riscatto, oppure il modo per fare comunque esperienza di essere superiori, di essere affrancati dai propri limiti (per esempio quelli corporei). E’ quello che Paolo critica parlando ai Colossesi: 20 Se pertanto siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché lasciarvi imporre, come se viveste ancora nel mondo, dei precetti quali 21 «Non prendere, non gustare, non toccare»? 22 Tutte cose destinate a scomparire con l'uso: sono infatti prescrizioni e insegnamenti di uomini! 23 Queste cose hanno una parvenza di sapienza, con la loro affettata religiosità e umiltà e austerità riguardo al corpo, ma in realtà non servono che per soddisfare la carne. (Colossesi 2) Chi si umilia così finge: in realtà vuole «ipocritamente» soddisfare il suo orgoglio spirituale, uno tra i peggiori peccati dei «religiosi» (cf Mt 23!)1. D’altra parte, le figure della vita «riuscita» – «felice», «fortunata», «beata» appunto – secondo il vangelo sono quelle indicate dalle beatitudini: poveri, miti, misericordiosi, afflitti, ..., perseguitati! E le esigenze della sequela qualificano così i chiamati: discepoli (mai maestri); servi (mai padroni); bambini / piccoli (mai grandi); figli / fratelli (mai padri)... Ma queste non sono forse figure di una vita incompiuta, non sviluppata, regredita? Perché Dio ci vuole così? E come credere che davvero egli voglia la nostra libertà e la nostra vita in pienezza se ci chiede questo? O forse c’è un modo adulto e libero di essere discepoli, servi, bambini, ... poveri, umili? 1 Per «religiosi» intendo qui semplicemente le donne e gli uomini di fede e non soltanto consacrati e preti. Del resto è quello che tutti intendono fuori della chiesa quando parlando di «religiosi» pensano a chi crede. 2 2. L’esortazione apostolica ad essere umili Quello che leggiamo nelle lettere apostoliche ci aiuterà a dare una risposta positiva all’ultima domanda: c’è un modo adulto e libero di essere discepoli, servi, ... umili, perché questo modo d’essere è quello che più rispetta la nostra condizione umana e meglio apre il nostro esistere all’esperienza di una vera trascendenza. 2.1. Ritrovare il proprio posto davanti a Dio Ritorniamo al testo già citato dell’esordio della prima ai Corinzi. Per rendere ragione dell’umiliazione della croce Paolo la colloca sullo sfondo di un agire generale di Dio, che spiega così: 26 Considerate infatti la vostra chiamata, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. 27 Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, 28 Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, 29 perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. (1 Corinzi 1) Non solo l’umiliazione di Gesù, ma anche le umili origini dei chiamati alla sua sequela (gli «eletti») sono comprensibili nella prospettiva del ribaltamento dei valori che la rivelazione di Dio porta alla luce, e che già aveva stupito gli ebrei: 7 Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, 8 ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto. (Deuteronomio 7) L’elezione è l’offerta di una particolare comunione con Dio. Ebbene, in questa comunione l’uomo trova posto quando riconosce che Dio è Dio e lui soltanto un uomo; e che dunque davanti a Dio egli non può stare se non in ginocchio con umile gratitudine per un privilegio del tutto immeritato. Naturalmente i piccoli, gli umili, i poveri, gli oppressi, ecc., sono coloro che meno di altri fanno fatica a riconoscersi «abbassati» davanti al Signore. Qui l’indicazione è preziosa: l’umiltà si impara accogliendo come occasione preziosa gli abbassamenti della vita. Chi vive un’esistenza che gli ricorda spesso i suoi limiti fa meno fatica di altri a capire quale sia il suo posto nella relazione con Dio. E d’altra parte, proprio lì fa esperienza della presenza di un Dio che predilige gli umili. Ma qual è il motivo di questa preferenza? Forse che rivolgendosi agli abbassati Dio si imporrebbe più facilmente? Ma se è così non ne deriva forse un danno anche al suo prestigio? Questo Dio non si affermerebbe con più efficacia a tutti se asservisse i più forti, se facesse valere la sua altezza (è l’Altissimo) sui più innalzati? Non è quello che in fondo desiderano anche molti degli umili che accolgono la sua alleanza quando immaginano la loro rivincita? E se invece la cosa da capire fosse la vuotezza di ogni presunto potere? Queste considerazioni ci riconsegnano al paradosso dell’inversione evangelica: in croce Gesù si mostra a tutti; da risorto soltanto ad alcuni. Se la logica fosse quella dell’affermazione sarebbe successo il contrario… 3 2.2. Ritrovare il proprio posto insieme agli uomini Intanto osserviamo un altro tratto dell’esortazione apostolica: l’umiltà (l’abbassamento) è richiesta non solo per trovare (o ri-trovare) il proprio posto nella relazione con Dio, ma anche il proprio posto nella relazione con gli altri, qualificati dal NT con il temine «fratelli». Ascoltiamo tre testi fondamentali: 12 Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; 13 sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. 14 Al di sopra di tutto poi vi sia la carità, che è il vincolo di perfezione. 15 E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti! 16 La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. 17 E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre. (Colossesi 3) Misericordia, bontà, umiltà, mansuetudine, pazienza... Notiamo il nesso tra umiltà e mansuetudine. Nel testo guida di Matteo 11 che abbiamo letto, Gesù dice di sé: mite e umile... Non si può essere umili senza essere mansueti, miti. Si può essere miti perché non si deve più cercare con la violenza di salvare la propria vita. La salvezza è data in dono senza alcun merito, e chi è riconoscente è mite e umile. Ma si può essere umili senza misericordia e pazienza? Interessa al nostro discorso cogliere l’obiettivo al quale mirano tali sentimenti: la sopportazione reciproca (incantevole realismo!) e il perdono, nei quali prende corpo l’amore (la «carità»). Senza questi sentimenti, insomma, non è possibile amare, e dunque non è possibile la fraternità. 9 La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; 10 amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. 11 Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. 12 Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, 13 solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità. 14 Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. 15 Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. 16 Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi. (Romani 12) La carità che prende corpo è l’oggetto anche di questo brano della lettera ai Romani. Per stare nell’amore Paolo chiede di «abbassarsi»: «non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi». Efesini 5,21 parlerà di sottomissione reciproca, ma l’idea è la stessa, anche se qui meno indigesta: si tratta di rinunciare ad elevarsi sopra gli altri, evitando di valutarsi troppo. 1 Se c'è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c'è conforto derivante dalla carità, se c'è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2 rendete piena la mia gioia con l'unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. 3 Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, 4 senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri. (Filippesi 2) Sopportare, non considerarsi troppo e infine più francamente considerare gli altri superiori a se stessi... guardandoli dal basso! Se Romani esortava positivamente a fare la gara a stimarsi a vicenda (fare la gara a considerare appunto gli altri più preziosi di se stessi), qui l’Apostolo ci avverte riguardo al pericolo di una rivalità tesa a prevalere sugli altri; ma si tratta della medesima preoccupazione. E anche qui il frutto atteso è l’unità, la comunione. 4 2.3. La sfida della diversità Forse Paolo chiede di considerarsi dei (buoni a) nulla? No. Quello che siamo va apprezzato senz’altro. Ma come dono, che dunque ci è stato fatto da un Altro. E soprattutto va apprezzato come un dono, non il tutto del dono e neppure come il dono più importante. Perché se noi abbiamo un dono, tutti gli altri sono ciascuno un dono (diverso e per questo necessario) per noi. E dei doni che essi sono abbiamo semplicemente bisogno per vivere e per essere quello che siamo (cf 1 Corinti 12-13). L’insidia più grande che viene alla testimonianza dell’unità, e dunque alla testimonianza del dono dello Spirito di amore effuso nei nostri cuori, è quella antica dell’invidia e della paura. Questi sguardi «assassini» sugli altri si scatenano a causa delle nostre diversità, sentite come minacce e umiliazioni. Ora, la pretesa della comunione cristiana è quella di poter vivere la comunione senza rinunciare affatto alle differenze, tra l’altro vivendo le umiliazioni come occasioni per imparare l’umiltà. Ma quale può essere la via di questo apprendimento / esperienza? Nel seguito del testo che abbiamo citato Filippesi esplicita con estrema chiarezza quale sia questa via: la contemplazione di Gesù, e di Gesù crocifisso in particolare. Del resto Paolo nella prima ai Corinzi non additava proprio la croce per richiamare a quella comunità la necessità di (e insieme il modo per) superare le sue divisioni interne? 5 Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, 6 il quale, [pur] essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; 7 ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, 8 umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. 9 Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; 10 perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; 11 e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre. (Filippesi 2) 3. L’umiltà di Dio: ecco la buona notizia Alla fine, se umiltà è necessaria per stare nella relazione con Dio e con gli altri, se cioè umiltà è necessaria all’amore, è perché Dio è amore, e dunque Dio è umile (misericordioso, mansueto, paziente, ecc.). E se a noi è possibile l’umiltà è perché Dio ce la rende possibile facendoci dono del suo Spirito. Insomma, tutto ciò che di buono può venire dall’umiltà trova il suo fondamento in Dio. E’ il paradosso sorprendente del vangelo: dobbiamo essere umili non (solo) perché siamo uomini (limitati), ma più radicalmente perché il Figlio e lo Spirito – e dunque il Padre – (che sono la vita, l’amore, la giustizia, 5 ecc.) sono umili, piccoli, abbassati. Essi si abbassano, fanno esperienza del limite, per stare a loro volta nella relazione con noi (e tra loro). E lo fanno perché così la loro vita possa «passare» a noi, essere condivisa, moltiplicarsi... Di più: lo fanno perché dal basso si vede tutto, e meglio. 3.1. La kènosis (=svuotamento) di Gesù Il testo di Filippesi citato poco sopra lo racconta con grande esplicitezza: Gesù si è abbassato (e si è «svuotato»), non però «pur essendo di natura divina», ma proprio perché è Dio! Quel «pur» nel testo greco semplicemente non c’è. Durezza di uno schema che ci fa sbagliare anche a tradurre… Indugiare su un simile passo richiederebbe ben altro spazio. Mi limito a tre sottolineature: • Gesù ha donato se stesso, fino alla morte più umiliante, «assumendo la condizione di servo», cioè rinunciando al potere. Egli non ha voluto (come avrebbe potuto) innalzarsi su nessuno. • Ha fatto tutto questo per rivelare la «natura divina», che è l’amore. Un amore che solidarizza con noi al punto da voler condividere tutto della nostra esistenza (per farci condividere tutto della sua). A questo proposito si possono leggere i due testi bellissimi della lettera agli Ebrei: 2,14-18 e 5,7-10. • Alla fine il poemetto di Filippesi parla anche di una esaltazione, come del resto si legge anche in Ebrei 2,1ss., e come si ascolta da Gesù stesso nel vangelo (cf Lc 14,11; 18,14): «chi si umilia sarà esaltato, e chi si esalta sarà umiliato». Tuttavia non si tratta di un ritorno dello schema nella forma di una rivincita che lo confermerebbe, sia pure a posteriori. Altrimenti la croce verrebbe semplicemente superata. L’esaltazione consiste piuttosto nel successo di questa rivelazione, come si legge nell’evangelista Giovanni per il quale la gloria di Gesù si manifesta quando viene «innalzato» sulla croce e così attira tutti a sé. 3.2. Mite e umile di cuore Ritorniamo ora rapidamente a Matteo 11, il testo con il quale abbiamo aperto la nostra riflessione. Anche per questo testo, ricchissimo, solo alcune osservazioni: • Dio si rivela ai piccoli. Qui Gesù rompe un fronte religioso tradizionale: l’ideale del sapiente / assennato, comune a tutta la tradizione sapienziale (cf Proverbi, Qohelet, Siracide, Sapienza, Daniele) come destinatario privilegiato della rivelazione divina viene ribaltato. I «piccoli», appartenenti alla gente comune e ritenuti – dai giusti / pii / sapienti – «non assennati», inesperti della Legge, e perciò lontani dalla comunione con il Signore, davanti al vangelo di Gesù si mostrano capaci di comprendere la rivelazione del Padre che egli porta a un compimento sorprendente, più e meglio dei teologi e degli osservanti. • Prendendosi cura dei più deboli Dio rivela attraverso il Figlio il suo cuore di Padre e insieme mostra la sua «con-discendenza», il suo abbassamento. Già molti salmi l’avevano detto. L’umiltà è allora il luogo della comunione con Dio non perché si sta a lui sottomessi, ma perché lo si incontra là dove egli ha deciso di risiedere: nella piccolezza (in ciò che il mondo considera piccolezza), in modo da essere vicino agli umili e dunque a tutti. 6 • • Gesù è ristoro non perché ci dona ciò di cui ci siamo privati con la nostra ascesi, ma perché condivide con noi le privazioni della vita di tutti. Il sigillo della sua umiltà (che è l’umiltà stessa di Dio) è la mitezza, cioè la rinuncia alla forza e alla violenza. Per Gesù l’altro, fosse pure nemico, non è mai scandalo (ostacolo al mia realizzazione) da rimuovere, bensì fratello, figlio dello stesso Padre, creatura amatissima per il bene della quale mettersi a servizio. 3.3. Figure dell’umiltà secondo lo Spirito di Gesù Vi lascio da ultimo un compito. Provate a vedere da soli alcune figure di umiltà: • • • MARIA, la «serva» del Signore (cf Magnificat, Luca 1,46ss.) PIETRO, che Gesù «piega» chiedendogli tre volte «mi ami?» (cf Giovanni 21,15ss.) PAOLO, «gettato a terra» dall’incontro con Gesù (cf Atti 9,1ss.) 4. L’umiltà: sentimento, luogo, punto di vista Dal basso si vede tutto, per quanto possa sembrare un paradosso. Penseremmo piuttosto il contrario, che è solo dall’alto che si può vedere di più. Questa è la promessa dell’umiltà. E la buona notizia è che Dio lo troviamo già lì in basso, da sempre. E insieme a lui troviamo le donne e gli uomini che si è scelto per questa testimonianza. I nostri santi, i preti, i missionari, noi tutti, siamo eletti per dimorare in basso, per stare presso coloro che si credono abbandonati da tutti. Questi tempi ci umiliano come chiesa. Il cristianesimo non è certo tra i primi interessi dell’Occidente. Potremmo reagire con arroganza minacciando rivincite o disastri... Oppure potremmo approfittare di questo tempo come opportunità per capire un poco di più l’umiltà, e dunque Dio. Anche la bellezza, l’eccellenza, il genio, ci umiliano. Potremmo reagire da invidiosi con amarezza e risentimento, oppure con stupita generosità. In questo secondo caso tutto ciò che è buono / bello non ci farà soffrire ma ci edificherà, ci renderà grati e dunque più buoni. Questa è umiltà. Comunque sia, prima o poi la vita stessa ci umilia: con i suoi limiti, le sue impossibilità, la malattia, la vecchiaia, la morte... Forse è solo lì che possiamo davvero imparare qualcosa dell’umiltà, quando siamo toccati nella carne alla maniera di Giobbe e lottiamo per resistere alla tentazione di leggervi il segno di un abbandono (giustificato dalla nostra miseria). Senza abbassamento non è possibile amare, ma nell’abbassamento possiamo anche facilmente cedere all’ira o alla depressione. Occorre confidare nell’aiuto di Dio, certi che proprio lì, nella nostra abiezione, egli si fa trovare. Per quanto in basso potremo cadere, Dio sarà già più in basso di noi, pronto a raccoglierci. A quel punto, dopo quella esperienza, nulla potrà più essere troppo basso per noi, e nessuno potrà più essere considerato escluso dalla vita per la sua «umiltà». 7