Umberto Galimberti: Il confine della vita davanti alla legge

Umberto Galimberti: Cosa sto dicendo quando dico ti amo
Tratto da “la Repubblica”, 16 febbraio 2004
Quando dico «ti amo» che cosa sto dicendo di preciso? E soprattutto chi parla? Il mio
desiderio, la mia idealizzazione, la mia dipendenza, il mio eccesso, la mia follia? E come si
trasforma questa parola quando il desiderio si satura, l' idealizzazione delude, la dipendenza si
emancipa, l' eccesso si riduce, la follia si estingue? Non c' è parola più equivoca di «amore» e
più intrecciata a tutte quelle altre parole che, per la logica, sono la sua negazione. Tutti, chi più
chi meno, abbiamo fatto esperienza che l' amore si nutre di novità, di mistero e di pericolo e
ha come suoi nemici il tempo, la quotidianità e la familiarità. Nasce dall' idealizzazione della
persona amata di cui ci innamoriamo per un incantesimo della fantasia, ma poi il tempo, che
gioca a favore della realtà, produce il disincanto e tramuta l' amore in un affetto privo di
passione o nell' amarezza della disillusione. Qui Freud ci pone una domanda: «Quanta felicità
barattiamo in cambio della sicurezza?». Quanti cambiamenti dell' altro ignoriamo per garantirci
un partner prevedibile? L' amore uccide il desiderio. E siccome in qualche modo lo sappiamo
non è raro che trasformiamo in abitudini le persone che amiamo, e, attraverso questa
degenerazione protettiva, ci garantiamo la sicurezza della casa e ci difendiamo dalla
vulnerabilità intrinseca dell' amore. Le caratteristiche adorate dell' altra persona, che un tempo
ci avevano fatto innamorare, possono anche non essere affatto illusorie, ma siccome perdere
chi è «unico al mondo» è molto più doloroso che perdere uno qualsiasi, dall' idealizzazione di
solito ci si difende o troncando la relazione dopo il primo incontro, o aggrappandosi alle
imperfezioni e ai difetti del partner per tenere a bada la fascinazione. Meglio spegnere subito
una stella o offuscare la sua luce, piuttosto che correre il rischio che quella stella non splenda
per noi. Brividi sì, ma brividi sicuri. Si sente dire che, in amore, desiderio da un lato e
idealizzazione dall' altro giocano contro il «sano realismo» che forse, oltre a non essere più
reale dei desideri e delle idealizzazioni che incendiano le nostre passioni, è solo l' ultima
illusione che costruiamo per difenderci anticipatamente dalla disillusione. Ma nelle regioni,
abitate dalla prudenza scambiata per «esame di realtà», non è dato incontrare le case d'
Amore. E allora è molto più vero dire: «Ti odio perché ti amo. Ti denigro per poter continuare
la convivenza con te». Davvero l' odio è il compagno inevitabile dell' amore? Se gettiamo uno
sguardo nelle nostre menti, dove si verificano la maggior parte dei crimini passionali, parrebbe
che le cose vadano proprio così. In effetti non c' è nessuno che non abbia provato un profondo
sollievo quando l' amore sopravvive al primo litigio all' ultimo sangue. Anzi di solito in simili
circostanze «si fa l' amore», quasi per celebrarne la profondità e la resistenza che non si
sarebbe potuto verificare in nessun altro modo. Sembra quindi che l' odio sia il compagno
inevitabile dell' amore, la cui sopravvivenza forse non dipende tanto dalla capacità di evitare l'
aggressività, quanto dalla capacità di viverla e di oltrepassarla in nome dell' amore. Ma c' è
anche chi non regge il gioco forte dell' amore e dell' odio perché, a un certo punto del
percorso, l' amore per sé confligge con l' amore per l' altro. In questo caso non si prova
aggressività, ma semmai «ambivalenza», per cui da un lato vogliamo essere con l' altro, ma
nello stesso tempo, per salvare la nostra individualità, vogliamo non esserci completamente. Di
qui quell' esserci e non esserci, quel rincorrersi e tradire, che fa parte della relazione amorosa.
Perché amore è una «relazione», non una «fusione». Nel viaggio che si intraprende fuori dal
«noi» e che prescinde dal «noi», è il «noi» che si tradisce, mai il «tu». Quel che si imputa al
traditore è di essere diventato diverso e di muoversi non più in sintonia, ma da solo. Soltanto
se si accetta il cambiamento dell' altro e lo si accoglie come una sfida a ridefinirsi e a ridefinire
la relazione, il tradimento non è più percepito come tradimento. Ma ridefinirsi è difficile così
come accettare il cambiamento. Per questo le vie più battute sono quelle della fedeltà, o in
alternativa quelle del risentimento e della vendetta. Tutto questo accade perché siamo soliti
pensare ad amore come a una vicenda tra uomini e non, come ci ha insegnato Platone, a una
vicenda tra uomini e dèi. Proiezioni antropologiche di istinti e pulsioni che l' io razionale
«patisce» e perciò legge come «altro da sé». Gli dèi infatti sono dentro di noi e la loro follia ci
abita. Per questo l' amore di cui parla Platone non ha la forma di un sentimento umano, ma
quella più inquietante della possessione di un dio, per cui non è il nostro io a proferir parola,
ma il dio che lo possiede. Quanto basta per farci capire che, in presenza di amore, il nostro io
subisce una dislocazione che sposta la nostra riflessione, e ci obbliga a pensare a partire da
amore, e non dall' io che inaugura una storia d' amore. Amore, infatti, non è qualcosa di cui l'
io dispone, ma semmai è qualcosa che dispone dell' io, qualcosa che lo incrina, che lo apre alla
crisi, che lo toglie dal centro della sua egoità, dall' ordine delle sue connessioni, per nessi di
tutt' altro genere e forma e qualità. Per questo Platone erge Amore a simbolo della condizione
dell' uomo, mai in possesso di sé, ma sempre dilaniato, ragion per cui Amore non è solo
vicenda di corpi, ma traccia di una lacerazione, e quindi incessante ricerca di quella pienezza,
di cui ogni amplesso è memoria, tentativo, sconfitta.