DIOCESI DI COMO MINISTERO NUZIALE SCUOLA DIOCESANA 2014-2015 FORMAZIONE PASTORALE Primo tempo - Ain Karim, 21 agosto 2014 Relazione 3 La famiglia “Chiesa domestica” don Battista Rinaldi Questa categoria – centrale per la teologia della famiglia – di “chiesa domestica” è spesso data per scontata. In realtà essa è spesso utilizzata in ambito pastorale e forse meno utilizzata in ambito teologico. Invece la riscoperta della “chiesa domestica” ad opera del concilio Vaticano II, va compresa nella direzione ‘misterica’ della comunità familiare nata dal sacramento delle nozze e può rappresentare simbolicamente uno dei compiti fondamentali della famiglia stessa. Di fatto, la categoria attinge le sue radici nel NT stesso ed è confermata dalla prassi della Chiesa delle origini e dall'insegnamento dei primi padri della Chiesa. Oggi, il suo uso sembra oscillare tra quattro accezioni, non sempre chiaramente distinte tra loro: teologica, pedagogica, pastorale, spirituale. Emblema di questa molteplicità di significati è l'esortazione Familiaris consortio. La categoria è anzitutto riferita all' identità teologica della famiglia, in quanto comunione di persone che attua il «mistero nuziale» di Cristo e della Chiesa e fa del patto di amore degli sposi una comunità sacramentale in cammino con tutto il popolo di Dio (FC 21; 48). Sotto il profilo pedagogico, la dizione è collegata piuttosto alla famiglia come prima comunità educante, con il richiamo ai genitori a farsi maestri di fede per i loro figli, esercitando il loro triplice compito: profetico, sacerdotale, regale (FC 51-52; 55). Dal punto di vista pastorale, la categoria dice la missione della famiglia in quanto comunità che, partecipando alla vita della Chiesa, è deputata a testimoniare il vangelo della salvezza nella società e a trasmetterlo alle future generazioni (FC 49- 54). L'accezione spirituale riguarda il vissuto ascetico della famiglia', comunità santa e santificante, chiamata a ricalcare - nella grazia dello Spirito - i momenti costitutivi stessi della Chiesa: l'ascolto della parola di Dio, la partecipazione ai sacramenti e all'eucaristia, la testimonianza della carità (FC 49; 55-62). A livello linguistico, si può già osservare come il Vaticano II utilizzi con una certa cautela le dizioni di “chiesa domestica” (velut Ecclesia domestica; LG 11) e “santuario domestico della Chiesa” (tamquam domesticum sanctuarium Ecclesiae; AA 11). La Familiaris consortio, oltre a tali espressioni, ne usa di analoghe come quelle di “piccola Chiesa” (FC 48), di “Chiesa in piccolo” o “Chiesa in miniatura” (FC 49), senza più la riserva del velut o del tamquam. La categoria di chiesa domestica ha certamente il pregio di riflettere, nel calore delle relazioni interpersonali dei suoi membri, un raggio della gloria di Dio apparsa nella Chiesa. Un raggio certamente non è tutta la luce, ma è pur sempre luce: ogni famiglia con i suoi limiti è, a pieno titolo, segno dell'amore di Dio. L'amore coniugale, l'amore paterno e materno, l'amore filiale, immersi nella grazia del matrimonio, formano un autentico riverbero della gloria di Dio e dell'amore della Trinità. La famiglia cristiana, pertanto, quando è fedele al dinamismo intrinseco al patto sacramentale, diventa segno autentico dell'amore universale di Dio, sacramento di unità aperto a tutti, vicini e lontani, parenti e non, in forza del nuovo legame - più forte del sangue - che Cristo stabilisce tra quelli che lo seguono. Un simile modello di famiglia è epifania di Dio, manifestazione del suo Amore gratuito e universale e, in quanto tale, è di per sé comunità missionaria, perché annuncia con il suo stile di vita che Dio è Amore e vuole la salvezza di tutti gli uomini. Pertanto non è possibile elaborare una teologia della piccola chiesa a prescindere dalla grande Chiesa. 1 di 8 Error! Use the Home tab to apply Titolo to the text that you want to appear here. 1 Fondamento neotestamentario Le radici remote della nozione di “chiesa domestica” vanno ricercate nel concetto stesso di famiglia come “casa”/”casato”/”casa di Dio” tipico dell'AT; le radici prossime nel riunirsi comunitario-celebrativo dei primi cristiani kat'óikon, di “casa in casa” o, più semplicemente, “dentro la casa”. Sono fondamentali, in quest'ambito, le testimonianze dell'opera lucana e quella del corpus paolino. Entrambe descrivono la nascita della Chiesa a partire dalla culla originaria di Gerusalemme e dalle adunanze dei battezzati, in numero sempre crescente, in determinate case. Nonostante il ruolo centrale del tempio di Gerusalemme, mèta dei pellegrini da tutta la terra d'Israele e dalla diaspora, la prima comunità cristiana sorta attorno al nucleo degli apostoli, organizza la sua vita nelle case. Anche quando il movimento cristiano si espande oltre le mura di Gerusalemme, Giudea e Samaria, il luogo d'incontro resta la casa. Nella missione inaugurata dal gruppo dei “sette” che fanno capo a Stefano, e proseguita da Paolo, il punto di riferimento stabile è la casa di un cristiano benestante messa a disposizione dei battezzati. La Chiesa di Gesù nasce, si espande e si struttura in relazione a una fitta rete di case che si costituiscono come altrettante domus ecclesiae. Pur nella differenza esistente da città a città, sembra accertato che in ognuna di esse si fossero formate piccole comunità di battezzati, man mano che il vangelo della salvezza veniva accolto, dando vita a una o più “Chiese domestiche” nell'ambito della medesima regione, come si deduce dal plurale d'indirizzo nella Lettera ai Galati (Alle Chiese della Galazia; Gal 1,2). Alla base di una simile organizzazione territoriale-familiare vi è la consapevolezza di appartenere all'unica grande Chiesa di Dio, confessante la medesima fede e guidata dall'unico collegio degli apostoli e degli anziani (presbiteri), con la coscienza che l'insieme delle Chiese domestiche viene a costituire la Chiesa particolare di una determinata città (Alla Chiesa di Dio che è in Corinto; 1Cor 1,2; 2Cor 1,1). Entrambe, Chiesa universale e Chiesa particolare, sono strutturate sulla base di piccole unità familiari, di “case-Chiesa” (domus ecclesiae) disseminate nelle singole regioni. In esse si vive un forte senso di appartenenza alla comunità nata dal Risorto e plasmata dai suoi momenti costitutivi (At 2,42). Grazie alla frequentazione di queste piccole comunità nessun battezzato si sente estraneo all'unica Chiesa di Dio, ma parte nell'opera di edificazione dell'unica grande comunità in virtù dei diversi ministeri e carismi diffusi dallo Spirito (1Cor 12,4-11.27-31), chiamato a porre la carità al vertice di tutto (1Cor 13). Il termine ekklesia assume, in questo quadro, un triplice livello di significato: a seconda dei contesti, designa la Chiesa universale (1Cor 10,32; 12,28; 15,9; Gal 1,13; Fil 3,6; Col 1,18-24); la Chiesa particolare (1Cor 1,2; 2Cor 2,1; Col 4,16); la Chiesa domestica radunata nelle singole case (Rm 16,5; 1Cor 16,19; Fm 2; Col 4,15). Tre accezioni inseparabili tra loro. Non si tratta infatti di riferirsi a “tre Chiese”, ma all’unico popolo di Dio, ai suoi livelli manifestativo-realizzativi propri: universale, particolare, familiare, come tre cerchi concentrici dove il più grande contiene gli altri e il più piccolo è espressione dei primi. E tale è la percezione che i primi cristiani hanno del loro essere-Chiesa: una sorta di circolarità ermeneutica, dove il riunirsi celebrativo nelle case appare come la forma sorgiva e l'attuazione concreta della Chiesa tout court, sia in senso particolare che universale. La domus Ecclesiae è vissuta come lo spazio in cui le comunità familiari maturano la consapevolezza di essere componenti di un'ekklesia più ampia: la Chiesa particolare guidata dall'apostolo o da un suo delegato, la Chiesa universale fondata sugli apostoli e su Pietro e costituita dalla comunione di tutte le Chiese particolari. L'ecclesiologia - come si direbbe oggi - è un'ecclesiologia di comunione; la famiglia ne è il centro e il cuore. Tutto viene letto secondo l'idea di famiglia, come appare dalle dizioni comuni di “fratelli” e “sorelle”; dizioni che risalgono alla volontà esplicita di Gesù (Mt 23,8), ma che indicano un nuovo modo di rapportarsi fra i credenti, e richiamano l'unico Padre del cielo (Mt 23,9), in ascolto dell'unico Maestro e Signore (Mt 23,10). 2 di 8 Error! Use the Home tab to apply Titolo to the text that you want to appear here. - La chiesa-casa nel libro degli Atti Il punto di partenza di questo percorso ecclesiologico trova la sua culla iniziale nella prima comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme. Gli Atti documentano come la plantatio ecclesiae, in Gerusalemme e fuori da Gerusalemme, avvenga in e mediante riunioni che si svolgono nelle case. E una ricca ministerialità anima queste domus ecclesiae. Una molteplicità di ministeri che corrispondono alle esigenze di una chiesa che fin dalla nascita si costituisce come koinonia, comunione di quanti abbracciano l’unica fede nel risorto. In queste adunanze domestiche è prioritario il senso del ritrovarsi in una casa comune al di fuori del luogo sacro del tempio. A Gerusalemme il riunirsi della comunità è descritto come un ritrovarsi di battezzati in relazione a quattro perseveranze fondamentali: l’insegnamento degli apostoli, la comunione, lo spezzare il pane e la preghiera (At 2, 42). La Chiesa nasce e si sviluppa come casa-chiesa in un clima di rendimento di grazie; e così accanto alle riunioni quotidiane nel tempio si diffondono sempre più le riunioni familiari grazie a cui i fedeli vivono concretamente il loro essere chiesa nell’assiduità della catechesi e nella condivisione fraterna, nell’attualizzazione eucaristica della pasqua del Signore e nella preghiera comune. Una scelta, del resto, già molto in sintonia con lo stile di Gesù, che da quando ha scelto la casa di Cafarnao – quella di Simon Pietro – come sua residenza, si ritrova molto spesso in casa con i suoi discepoli. - La casa di Maria a Gerusalemme (At 12,12-25); la casa di Cornelio a Cesarea (At 10,1-11-18); la casa di Lidia a Filippi (At 16); la casa di Giasone a Tessalonica (At 17); la casa di Aquila e Priscilla a Corinto (At 18); le case di Tizio giusto e Gaio a Corinto (At 18); la casa della cena di addio a Troade (At 20-21); la casa di Filippo a Cesarea (At 21). la casa di Mnasone (At 21). - La chiesa-casa nel corpus Paolino Gli scritti paolini testimoniano come una rete di case-chiesa abbia costituito la vita e l’organizzazione della comunità nascente; piccole comunità consapevoli di appartenere alla chiesa particolare di una determinata città o regione, entro la Chiesa universale, comunità voluta da Cristo riunita attorno al collegio degli apostoli - Le Chiese della Galazia, la chiesa domestica nella comunità di Corinto, la chiesa domestica nella casa di Stefanàs, la chiesa domestica nella casa di Filemone, la chiesa domestica nella casa di Aquila e Priscilla, la chiesa domestica nella casa di ninfa, la comunità-chiesa nelle lettere pastorali. 2 Ministerialità a sfondo familiare In questa dinamica di chiesa domestica anche il responsabile della comunità, vescovo o presbitero, ricalcano quelli della famiglia, dello sposo, del padre. Chi è chiamato al ministero ordinato dev’essere uno sposo fedele e un padre in grado di educare i figli, capace di governare la propria famiglia, perché solo a queste condizioni sarà in grado di avere cura della chiesa di Dio (1Tm 3,4-5). La comunità si auto comprende come la casa di Dio tra gli uomini (1Tm 3,15; 1Pt 4,17; Eb 3,1-6). Man mano che si sviluppa, la configurazione gerarchica non solo non annulla ma incrementa il ruolo della domus ecclesiae. Le assemblee domestiche nelle case rimangono il luogo privilegiato dell’annuncio, della crescita e della missione della comunità. L’insieme delle chiese domestiche forma la Chiesa di Dio dove la dimensione familiare della Chiesa e la dimensione ecclesiale della famiglia ne risultano le coordinate principali. La Chiesa prende corpo nel quadro della famiglia e dei rapporti che la connotano; la vita ecclesiale si modella su quella della famiglia tanto che i battezzati si salutano con il ‘bacio santo’ come in famiglia (1Pt 5,14). La dimensione familiare della Chiesa si coniuga con la dimensione ecclesiale della famiglia. La famiglia proprio perché edificata su coloro che sono ‘nel Signore’, battezzati-sposati, vedovi o celibi, è essa stessa una piccola chiesa o una Chiesa in piccolo, che testimonia al mondo la novità del Risorto. La casa non è compresa come una 3 di 8 Error! Use the Home tab to apply Titolo to the text that you want to appear here. realtà profana ma come un luogo di grazia a immagine della grande Chiesa, presieduta dagli apostoli e da Pietro.Tra la Chiesa e la famiglia sussiste un rapporto di reciprocità: la Chiesa è madre che genera i battezzati alla vita di Cristo; la famiglia educa i figli e li accompagna nel loro cammino di crescita, sapendo di essere stata resa partecipe del mistero nuziale della Chiesa, sponsa Verbi (Ef 5,21-33) e impegnata ad attuare nella vita le prescrizioni familiari che le sono state date. La famiglia si presenta come un luogo teologico in cui e grazie a cui si trasmette la fede, si celebra la pasqua del Risorto e si proclama l’annuncio della salvezza. Questo modello continua nell’esperienza ecclesiale sub-apostolica dove l’espressione ‘chiesa domestica’, nei primi tre secoli, continua ad indicare la comunità cristiana che si incontra di casa in casa, mentre la casa privata si trasforma sempre più in un luogo semipubblico, spazio di riferimento della grande chiesa e segno del suo riunirsi continuo sotto la guida dei ministri ordinati. Le domus Ecclesiae assolvono almeno a tre compiti: luogo di catechesi e di formazione alla fede, di preghiera e di celebrazione del battesimo e dell’eucarestia, spazio di fraternità e di ospitalità, specie dei confronti dei missionari itineranti.Nel IV sec. Giovanni Crisostomo ed Agostino continueranno e svilupperanno questa linea della comunità familiare come luogo di presenza del Signore e di grazia. In particolare Crisostomo assume la categoria di piccola chiesa per descrivere la polivalenza teologico-esistenziale della comunità familiare; Agostino invece sviluppa una lettura familiare del ministero episcopale e una lettura episcopale del pater familias. 3 Verso una teologia della Chiesa domestica Il risveglio ecclesiologico dopo un periodo abbastanza oscuro è iniziato negli anni venti-trenta del novecento. Si comincia a “vivere la Chiesa” (R. Guardini); si riscopre la Chiesa come immagine della comunione trinitaria (Lumen Gentium) dove il primato della comunione è più forte, senza escluderle, di ogni articolazione particolare e diversificazione ministeriale. E in questo modello di comunione emerge anche l’immagine della chiesa domestica. E’ Giovanni XXIII a qualificare la famiglia come ‘cellula della chiesa’ (dopo un libretto di Carretto del 1949); e il Concilio Vaticano II recupera la dizione di ‘chiesa’ riferendola alla famiglia (Lumen Gentium 11, Apostolicam actuositatem 11, Gaudium et Spes 48, Gravissimum educationis 3). Sostanzialmente le linee forza di questo assunto sono: - la famiglia, in quanto chiesa domestica, è una comunione di persone dentro la grande Chiesa; - essa è espressione costitutiva della Chiesa universale e particolare, sua immagine e luogo storicoteologico della sua realizzazione: soggetto primario di evangelizzazione, di santificazione e di testimonianza della carità; - il sacerdozio comune dei fedeli appartiene in forma particolare agli sposi e concerne la guida della loro famiglia e lo svolgimento dei loro compiti genitoriali: sacerdoti della loro piccola chiesa essi sono per se stessi, per i figli e per gli altri famigliari, cooperatori della grazia di Cristo e primi educatori alla fede per le nuove generazioni; - la famiglia, chiesa domestica, è il luogo proprio di santificazione per i coniugi e i suoi componenti: da ricercare e realizzare mediante il matrimonio sacramento, evento permanente di consacrazione e fonte di grazia. Un dato merita di essere ribadito: il recupero della Chiesa domestica del Vaticano II non avviene secondo la linea neotestamentaria della domus ecclesiae, ma nella prospettiva di Crisostomo e Agostino della famiglia cristiana come piccola chiesa, luogo di preghiera e di fede, spazio di vita cristiana e testimonianza dell’essere-chiesa. Il Concilio Vaticano II dunque rappresenta una svolta decisiva nel dare riconoscimento alla famiglia come ‘chiesa domestica’. Nel passaggio da un’ecclesiologia gerarchizzata che aveva privilegiato il modello piramidale si è passati a un modello di Chiesa-comunione entro cui ha più facilmente trovato posto 4 di 8 Error! Use the Home tab to apply Titolo to the text that you want to appear here. l’ecclesiologia della chiesa domestica. Una riflessione sviluppata più in ambito magisteriale – anche in documenti sull’argomento successivi al Concilio – che non in quello accademico della teologia e dei teologi. Il problema di fondo consiste nell’evidenziare la relazione che sussiste tra la famiglia ‘piccola chiesa’ e la grande Chiesa ‘famiglia di famiglie’. Come chiesa domestica la comunità familiare è “rivelazione e attuazione della comunione ecclesiale” (FC 21) e “viva immagine e storica ripresentazione del mistero stesso della Chiesa” (FC 49). Nata dal sacramento delle nozze essa costituisce il segno e l’espressione attualizzante del mistero della Chiesa, quasi suo ‘sacramento’ nella storia. In una visione di fede la famiglia non può essere ridotta a realtà sociologica, ma va percepita come una comunità teologica, nella misura in cui porta nel suo grembo quel mysterion che, a partire dalla Pasqua e dalla Pentecoste, ricolma la Chiesa universale e la Chiesa particolare. 4 La Chiesa domestica in prospettiva teologica - La Chiesa domestica nella storia della salvezza può essere qualificata in relazione alla dinamica propria di memoriale (in quanto fondata sul sacramento delle nozze essa è parte di una storia oggettiva), attualizzazione (gli sposi rendono presente il mistero di unità e di amore fecondo che intercorre tra Cristo e Chiesa), profezia (riflette il già e il non ancora del tempo della Chiesa) che caratterizzano lo svolgimento dall’antico alla nuova economia. - La Chiesa domestica è sacramento della storia della salvezza perché porta in sé la grazia del Risorto e rivela l’oggi della Chiesa come famiglia di famiglie. Per questo i coniugi hanno una missione nei confronti dell’accoglienza e la iniziazione cristiana dei figli e nei confronti della comunità più ampia alla cui comunione contribuiscono attivamente iniziando dal proprio nucleo familiare. - Partecipe della vita e della missione della Chiesa la famiglia cristiana come chiesa domestica ne rivive i tria munera: l’evangelizzazione, la santificazione, la testimonianza della carità (FC 49). - Celebrare l’eucarestia per la comunità ecclesiale – e quindi per ogni comunità familiare – non è solo adempiere al comando del Signore, ma è attingere all’accadimento stesso della propria origine, accettando di lasciarsi modellare da quell’accadimento per ridiventare di continuo ciò che si è divenuti una volta per sempre: comunità di redenti dalla vita donata di Cristo che per questo si dona continuamente senza calcolo come Cristo verso la Chiesa. - Una Chiesa in uscita. E’ la originale configurazione che papa Francesco utilizza per definire la missione costitutiva della Chiesa. Il tempo della Chiesa è tempo della missione in quanto tempo in cui l’accadimento salvifico si dispiega con la Parola, i Sacramenti, la testimonianza della carità nell’esistenza storica di ogni persona e famiglia e ogni persona e famiglia sono chiamate a farsene segno vivente nel mondo. La Chiesa ‘è’ missione (LG 48); E papa Francesco aggiunge che ciascun credente deve riconoscere: Io sono una missione (EG 273). Questo ha ovviamente una ricaduta interessante sul ruolo missionario della famiglia che può partecipare alla missione della grande Chiesa con alcune specificità originali: custodire il senso autentico della sessualità e dell’amore (cfr. Progetto di educazione sessuale 0-25), privilegiare gli aspetti creaturali ed umani nella relazione pastorale e missionaria (cfr. Evangelii Gaudium e le riflessioni che seguono), valorizzare il significato umanizzante e salvifico della quotidianità (idem). 5 Alcune specificità della missione della chiesa domestica Non è assolutamente una novità nella tradizione della Chiesa. Basta fare riferimento alle Scritture e ci accorgiamo che tutte le azioni di Dio e quelle alle quali egli si fa particolarmente attento anche nei confronti del Popolo sono azioni molto umane, molto quotidiane, qualcuno direbbe ‘orizzontali’: parlare, mangiare, camminare, ascoltare, toccare… Azioni divenute ancora più significative perché fatte sue da Gesù 5 di 8 Error! Use the Home tab to apply Titolo to the text that you want to appear here. per rivelare il volto del Padre. E mantenute nei primi tempi della Chiesa per qualificare un’identità cristiana che si manifesta nelle ‘cose fatte da tutti’ ma con uno spirito diverso (lettera a Diogneto). Lungo i secoli poi, gradualmente ma anche volutamente, il rapporto con Dio si è sempre più qualificato attraverso azioni specifiche, in genere cultuali o morali: pregare, pensare, dire, celebrare… Così che l’esperienza religiosa si è allontanata sempre più dalla vita quotidiana per assumere o essere relegata a uno spazio privato e sacro. Papa Francesco – ma è una riflessione che aveva già preso molto piede nell’esperienza ecclesiale – ha contribuito non poco, prima di tutto con la sua persona, a rivalutare questa dimensione della quotidianità e dei gesti, oltre che delle parole umane. La fede come relazione, la Chiesa come casa dalle porte aperte, l’evangelizzazione come coinvolgersi, prendere l’iniziativa, accompagnare, fruttificare, festeggiare… Ecco il punto: mi pare che se una parola dobbiamo spendere circa la missione della famiglia come chiesa domestica, essa debba andare proprio in questa direzione. 5.1 Il nutrire e… altri gesti Un esempio elementare che accomuna credenti e non credenti, praticanti e non, è dato dall'atto di nutrire. Dando da mangiare e da bere, i genitori educano, giacché rendono consapevole il figlio della sua incapacità a “stare in piedi da solo”: per vivere ha bisogno di qualcosa di diverso da lui, proveniente da fuori come il latte, il pane, il frutto. Garantisce la vita qualcosa di diverso ed esteriore, insomma: trascendente. Inoltre, nutrendo, i genitori additano al bambino cose (al di fuori di lui e diverse da lui) che sono buone; quantomeno buone da mangiare. Così facendo istillano nell'animo del piccolo l'antidoto contro il cancro dell'invidia che rende incapaci di scorgere il bene nel mondo: “Che tu lo voglia o no, se mangi e bevi – nonostante la tua invidia – ammetti l'esistenza di qualcosa di buono al mondo”. Queste azioni normali, ovvie dei genitori sono del tutto estranee alla preghiera esclusivamente cristiana: “Padre, dacci oggi il nostro pane per oggi”, o al comando eucaristico del Signore: “Prendete, mangiate. Prendete, bevete!”? 5.2 Il ruolo dei genitori al servizio della fede È quanto mai necessario e urgente avvertire i genitori circa la straordinaria possibilità di in-segnare (cioè segnare-dentro) questo Vangelo quotidiano e feriale ai loro figli; è doveroso renderli consapevoli che questa testimonianza feriale e preziosissima è già alla loro portata e marcata dalle impronte digitali del Figlio creatore. Se la comunità cristiana imparasse a stimare ciò che i genitori, proprio in quanto genitori, compiono, sarebbe facilitata nel reperimento di linguaggi, situazioni e luoghi specifici per favorire la ripresa e la ripetizione sempre più esplicitamente cristiana del loro vissuto. Da un punto di vista semplicemente quantitativo, gli adulti che maggiormente si (ri-)accostano alla comunità cristiana sono quelli che la interpellano in occasione dell'iniziazione cristiana dei loro figli. Sono uomini e donne che vivono nella cosiddetta età di mezzo, 35- 45/50 anni, o ormai prossimi a questa età. Si tratta di una stagione della vita dove (generalmente) si gode una certa sicurezza professionale e qualche solidità affettiva; anche se magari si tratta di una coppia “di seconde nozze”. È quindi il momento delle grandi conferme professionali e affettivo-relazionali, spesso anche legate alla nascita dei figli. Si tratta del periodo dove famiglia e società richiedono maggiore profusione di energie. Tuttavia, quella “di mezzo” è anche l'età in cui vengono erose attese e sogni giovanili, quando si capisce che la realtà nuda e cruda comincia a reclamare i suoi diritti, al di là di tutti i tentativi di negarli. È il tempo in cui fallimenti professionali ed affettivi si avvertono con maggiore dolore; la stagione in cui la morte entra prepotente nella vita, sia sotto forma di malattia propria e altrui (malanni mai provati prima, lentezza dei tempi di recupero dagli sforzi, malattie gravi...). È l'età in cui si assiste all’invecchiamento dei genitori, con il conseguente investimento di tempo che la situazione richiede. Genitori che chiedono l’inserimento dei loro figli nell’itinerario dell’iniziazione cristiana vivono siffatta stagione dell'esistenza. Forse hanno il papà o la mamma con l'Alzheimer, o depresso/a perché da poco vedovo/a. Nell'età di mezzo si sperimentano le 6 di 8 Error! Use the Home tab to apply Titolo to the text that you want to appear here. perdite peggiori, come quella dei genitori, vale a dire di coloro che generando, dando casa, nutrendo si erano presi l'impegno di mostrare l'affidabilità della vita. Ritengo l’età di mezzo una grandissima occasione di annuncio e di buona articolazione pastorale. Mentre in anni passati la pratica pastorale era forse fin troppo concentrata sulla cosiddetta età evolutiva, oggi il rischio è di concentrare l'attenzione al “mondo degli adulti”. Una pastorale rispettosa di come stanno le cose - per esempio il già richiamato mistero della generazione - non può permettersi simili alternative. Genitori e generati vanno tenuti insieme anche perché gli uni mediano agli altri la vita buona del Vangelo. In che modo? Tento di rispondere alludendo ad una sola esperienza. Come poc'anzi accennato, il lutto segna particolarmente l'età di mezzo (invecchiamento e conseguente tramonto delle attese giovanili, malattia, morte di genitori o amici, fallimenti professionali e affettivi...). Tutte le manifestazioni del lutto possono sorprendere, disorientare, mettere a dura prova e indurre a disperazione. Al lutto e alla paura del lutto è possibile rispondere con la bulimia di chi non si lascia scappare nessuna occasione, poiché “ogni occasione lasciata è perduta”, o con l'atteggiamento anoressico di chi, deluso dal mondo e dalla vita, s'impone di non averne a che fare, smettendo qualsiasi forma di interesse reale. Riprendiamo e ripetiamo l'esperienza dell'attendibilità prima menzionata: il bambino abituato all'arrivo attendibile della mamma, rischia di trasformare l'attesa in pretesa che rifiuta qualsiasi forma di indisponibilità come, ad esempio, il ritardo (magari la mamma differisce l'arrivo poiché indaffarata in altre faccende domestiche...). Crescendo, il bimbo dovrebbe imparare (e qualcuno dovrebbe insegnarglielo) che l'indisponibilità momentanea di chi ama non contraddice l'amore. La mamma (e più tardi l'amico o la/ fidanzata/o) può essere pienamente attendibile anche se non immediatamente disponibile ai tempi e ai modi del bambino. L'indisponibilità non nega l'amore, anzi testimonia che si ha a che vedere con un'altra persona, avente tempi e modi propri. I genitori svolgono bene il proprio impegno educativo se disposti a in-segnare l'indisponibilità. È ingiusto essere sempre e comunque disponibili al figlio perché, crescendo, pretenderà lo stesso da fidanzato/a, marito/moglie, amici, figli e Dio. Ora, la morte di un caro è la suprema indisponibilità di quella persona; non è disponibile neanche a onorare i più sacrosanti desideri. In una relazione buona, però, fin dall’inizio della mia vita, l’indisponibilità è sempre stata una delle regole. È pastoralmente decisivo aiutare uomini e donne dell'“età di mezzo” (la quale segna tutto il resto della vita) a comprendere che il lutto non è un incidente di percorso, capitato per caso a infrangere sogni di pienezza, ma una regola fisiologica che accompagna fin dall’inizio della vita. I genitori di mezza età sono quindi richiamati, dal loro stesso impegno educativo, a integrare nell'insieme della loro esistenza l'indisponibilità luttuosa, provata drammaticamente a motivo di una delusione o una morte. Forse compito della comunità cristiana nei riguardi di questi adulti è favorire la ripresa e la ripetizione del loro atto generativo e della conseguente pratica educativa, affinché riescano a vivere questo delicatissimo passaggio: “il tuo bambino fin dall'inizio prova l'indisponibilità!”. D'altro canto, proprio la sperimentazione drammatica dell'indisponibilità, tipica dell'età di mezzo, dovrebbe rendere gli adulti ben attenti a non impedire a bimbi, adolescenti e giovani l'apprendimento dell'alfabeto del lutto, senza il quale è impossibile una relazione autentica. Davvero strano che genitori manifestino marcati sensi di colpa per aver negato qualcosa ai loro figli. Tuttavia, se non impareranno a dire “no!”, una volta cresciuti, quei bambini vivranno la loro futura età di mezzo come lo sgretolamento delle illusorie promesse ricevute all'inizio della loro giorni. Può capitare di incontrare adulti che contestano i racconti della Bibbia in nome della propria “maggiore età”; ai loro occhi “scientifici” simili narrazioni non meritano il credito della loro fiducia: “Come posso fidarmi di un evento raccontatomi da altri ai quali a loro volta è stato raccontato?”. Con stima, è opportuno invitare questi adulti a riprendere e ripetere qualcosa del loro inizio e precisamente il fatto che essi hanno conoscenza dei loro primi momenti di vita (per certi versi quelli fondanti) grazie al racconto di altri: genitori, nonni...Anzi nemmeno saprebbero che quell'uomo e quella donna sono i loro genitori se essi stessi non glielo avessero raccontato con parole e gesti. Senza un “racconto fondatore” a cui dare credito, nessuno saprebbe chi è, poiché nessuno è testimone del proprio inizio. Pertanto anche umanamente non così fuori luogo dar credito al racconto dell’origine del mondo dalle mani di Dio, della Risurrezione di Gesù, o dell'inizio della Chiesa per volontà di Cristo. 7 di 8 Error! Use the Home tab to apply Titolo to the text that you want to appear here. Non solo sta a noi aiutare gli adulti a riattivare l'esperienza elementare del racconto ricevuto circa le proprie origini, e renderli consapevoli dell'importanza del racconto a loro volta trasmesso ai propri figli, ma pure permettere loro di raccontarsi. Ciò è quanto mai necessario proprio a motivo della complessità delle situazioni di vita. Dovremmo con un po' di immaginazione rendere le parrocchie luoghi di racconto del Vangelo e luoghi di narrazione delle umane singolari vicende. Permettere a qualcuno di raccontarsi è, in alcuni casi, salvare una persona. Chi si sente ascoltato, percepisce la stima accordatagli, nonostante la propria esistenza non sia del tutto lineare e pulita. A volte il racconto delle proprie giornate è l'unica cosa che un uomo o una donna possono offrire alla comunità cristiana. Dare l'opportunità di raccontarsi è garantire l'occasione di mettere in ordine esperienze frantumate e scomposte, poiché per raccontare è necessario mettere “in fila”, ordinare gli eventi. Il racconto trasforma un ammasso di macerie in qualcosa avente un “filo rosso” che conferma la condotta di una vita, oppure la manifesta come ingiusta. Il racconto dà altresì l'opportunità di contestualizzare (una storia ha sempre un contesto) le vicende, riconoscendo i giusti pesi e le giuste misure a cose ed eventi; senza siffatta commisurazione non si giunge mai alla sapienza, data solo a chi sa contare i propri giorni (cfr. Sal 90,12). Adulti che si raccontano saranno forse più propensi a offrire ai loro stessi figli il tempo necessario per raccontare le loro delicate e complesse vite in crescita. Ricevere e dare il racconto di una vita è appunto ripercorrere la propria storia di fede e incredulità. Per “atto di fede” s'intende l'azione con la quale ci si fida di qualcosa o di qualcuno tanto da decidersi di affidarsi ad esso. Senza questa capacità di affidamento e fiducia nessuna azione umana è possibile, per esempio cominciare una relazione affettiva (se non mi fido di lei o di lui come posso amarlo?). E' impossibile credere nel Signore Gesù, nel Padre e nello Spirito senza tale capacità di affidamento e di fiducia che trapela nelle esperienze più comuni del vivere umano degne di essere riprese e ripetute Per credere da cristiani è necessario fidarsi e affidarsi, ma non è sufficiente. Infatti è altrettanto necessario fidarsi di Gesù, credere nel e al suo Vangelo, così come la Chiesa lo custodisce e trasmette di generazione in generazione. Ecco l'insistenza di Benedetto XVI sui “contenuti della fede”, senza i quali l'affidamento sarebbe generico e quindi astratto. Sarebbe come un uomo che desidera amare una donna, affidarsi a lei, ma il suo desiderio non si indirizza mai verso una donna concreta, che gli stia davanti con le proprie irripetibili, singolari caratteristiche (non sempre corrispondenti a bisogni e attese), con la sua insostituibile vicenda. A lungo andare quell'uomo s'innamora solo del proprio desiderio di amare (quindi di se stesso), risultando incapace di accendere un legame con una persona reale. Senza questo secondo aspetto della fede, il primo rischierebbe un “cristianesimo fai da te”, tanto irreale come un'amata immaginaria, fatta a propria immagine e somiglianza. Senza il primo aspetto della fede, il secondo si ridurrebbe ad un'adesione mentale, incapace di consegna reale della propria vita (anche il diavolo sa benissimo che Dio esiste, che Gesù è Suo Figlio e che è risorto dai morti...ma del Signore non si fida né a lui si affida!). Questi due aspetti sono come la sistole e la diastole del cuore; la pulsazione vitale è possibile sono se stanno insieme. Se ciò avviene, il ritmo cardiaco della fede irrorerà di carità e speranza le vene dei nostri giorni. Le comunità cristiane hanno nei riguardi degli adulti questo delicatissimo (ed esigente) compito “cardiologico”. E un buon cardiologo sa che per certi versi tutti i cuori sono uguali, e per altri ciascuno è un fatto unico. 8 di 8