Tempo (quasi) scaduto (da Etruria oggi, giugno 2006, n.65, pag. 46) Dominick Salvatore L’economia italiana è in crisi da più di un decennio. Sebbene molti sono coloro che oggi autorevolmente parlano delle cause e suggeriscono rimedi, davvero pochi siamo stati ad anticipare la crisi odierna. La maggior parte degli economisti e uomini politici hanno invece aspettato invano un miglioramento della congiuntura senza rendersi conto che il problema di fondo era strutturale e che senza provvedimenti profondi la situazione sarebbe peggiorata. Ancora oggi, molti pensano che la crisi nella quale l’economia italiana si trova sia dovuta all’apprezzamento dell’euro, all’incremento nel prezzo del petrolio, alla politica monetaria della BCE, o al vincolo di bilancio imposto dal Trattato di Maastricht. Sebbene questi problemi abbiano aggravato la crisi, questi non sono le ragioni fondamentali della crisi. Bisogna partire da lontano per capire le ragioni della crisi odierna e indicare la strada per uscirne. Dal 1960 all’inizio degli anni ’90, l’Italia è cresciuta più rapidamente di tutti gli altri paesi G 7, eccetto il Giappone. Il miracolo economico italiano è stato possibile grazie alla sua brillante piccola industria che è riuscita a sormontare la sua piccola dimensione con l’integrazione distrettuale, ad evitare lo svantaggio di inadeguate economie di scala con la personalizzazione del prodotto, e a ovviare la carenza di ricerca di base con brillanti innovazioni di prodotti e di processi Utilizzando la ricerca di base delle altre nazioni. Nell’ultimo decennio però la crescita del PIL e della produttività di lavoro in Italia è stata più bassa che negli altri paesi. La ragione fondamentale è che la nazione non è riuscita a dare una risposta adeguata alla rapida globalizzazione dell’ economia mondiale. L’apertura alla concorrenza internazionale ha spinto ad una riorganizzazione dell’attività economica a livello mondiale e l’Italia non è riuscita ad integrarsi sufficientemente nel nuovo sistema e coglierne i benefici. L’Italia non è riuscita a valorizzare ed a crescere rapidamente nei settori di sua competenza di base ed attirare sufficienti investimenti esteri negli altri settori. I settori in cui l’Italia è, o dovrebbe essere, all’avanguardia sono quelli della moda e dell’abbigliamento, degli oggetti per la casa, dei macchinari, del turismo, e dell’agricoltura di qualità. Invece di valorizzare questi settori crescendo rapidamente in casa ed investendo all’estero, sono state imprese estere ad acquistare imprese italiane e sono state loro a valorizzare le competenze di base italiane all’estero, negando all’Italia crescita e occupazione. Per esempio, quando i francesi si sono sentiti battuti dall’Italia nella moda e nell’abbigliamento hanno acquistato Gucci, Pucci, Fendi, Bottega Veneta ed altre imprese italiane leader della moda. Quasi tutte le catene dei grandi alberghi italiani sono adesso in mano agli americani, francesi e inglesi. L’Alitalia è in crisi e l’Italia è fuori dal mercato delle grandi crociere. Nell’agroalimentare, Perugina, Buitoni, San Pellegrino e molti altri illustri nomi sono stati acquistati da stranieri. Non solo le imprese straniere ricevono i profitti ma stanno anche pian piano trasferendo le competenze di base italiane in questi settori nelle loro nazioni. Investimenti esteri sarebbero molto utili nei settori in cui l’Italia non ha vantaggi comparati o particolari competenze perché questi portano nuove tecnologie, più efficienti metodi manageriali, e perché essi permettono una più profonda integrazione dell’economia italiana nel sistema produttivo mondiale. Spesso in Italia si parla come se investimenti stranieri fossero da ricercare principalmente perché portano nuovi capitali. Ma l’Italia non ha carenze di capitali bensì di nuove tecnologie, nuovi metodi manageriali e di integrazione nell’economia mondiale. Purtroppo, l’Italia riceve cinque o sei volte meno investimenti esteri dell’Inghilterra e della Francia, la metà di quelli della piccola Olanda, e molto meno di quelli ricevuti dal Belgio e dalla Spagna. Le ragioni sono chiare: la situazione del settore pubblico italiano è scandalosa con eccessivi regolamenti che scoraggiano imprenditori stranieri ad investire in Italia; la pressione fiscale è più alta che negli altri paesi avanzati, eccetto la Francia; l’Italia è in fondo alla classifica nella preparazione delle sue forze lavorative in scienza, in matematica, nella conoscenza della lingua inglese e dell’informatica; e le infrastrutture sono molto inferiori a quelle degli altri paesi avanzati (per esempio, il costo energetico è dal 35 a 40 percento superiore a quello degli altri paesi avanzati). Non c’è quindi da meravigliarsi se l’Italia riceve molti meno investimenti esteri di molte altre nazioni, eccetto in settori di conquista da parte di imprese straniere. La crisi economica italiana si riflette negli anemici tassi di crescita (i più bassi dei paesi dell’UME), nel calo della percentuale delle sue esportazioni nel commercio mondiale, nella bassissima e decrescente percentuale delle esportazioni di prodotti di alta tecnologia, nel basso afflusso di investimenti esteri, e nella crisi del settore turistico (la Spagna riceve Il percento del PIL dal turismo, la Germania 6,5 percento, la Francia 6,2 percento, l’Inghilterra 5,9 percento; l’Italia solo il 5,7 percento). Come risolvere la crisi competitiva dell’Italia? Con profonde riforme nel settore pubblico, con la riduzione della pressione fiscale sulle imprese, con la ristrutturazione del mercato del lavoro e dei servizi, con il miglioramento nella preparazione delle forze lavorative e delle infrastrutture. E poi non si lavano i panni sporchi all’estero (esempio caso Antonveneta) perché questo crea un’immagine distorta dell’Italia che scoraggia investimenti esteri e impone un premio rischio nelle sue relazioni commerciali con gli altri paesi. È vero che è molto difficile introdurre profonde riforme strutturali quando l’economia non cresce, anche perché i costi si hanno subito mentre i benefici arrivano con anni di ritardo, ma chi si illude che aumentando l’età del pensionamento di qualche anno, liberalizzando il mercato del lavoro in modo marginale, aumentando l’efficienza del settore pubblico di poco, e facendo una riforma dell’università che sbaglia bersaglio non risolverà i problemi dell’ economia italiana. Quello che è necessario è una completa ristrutturazione o reengineering di tutta l’economia italiana. Purtroppo, non sembra che ci sia sufficiente presa di coscienza da parte dei politici di quanto grave la situazione economica sia e quanti sacrifici siano richiesti per invertire direzione e ridare slancio all’ economia italiana. Time is running out! TEMPO (QUASI) SCADUTO—TIME (ALMOST) EXPIRED Translated by Giulio Di Giacomo The Italian economy is in crisis for more than a decade. Although many today authoritatively speak about the causes and suggest remedies, indeed few have been able to anticipate the present crisis. The majority of the economists and political men have instead waited in vain for an improvement of the economical plight without realizing that the heart of the problem is structural and that without deep provisions the situation would be getting worse. Still today, many think that the crisis in which the Italian economy finds itself is due to the appreciation of the euro, next to the increment in the price of the oil, next to the monetary policy of the BCE (Central Bank of Europe), or next to the budgetary restriction imposed by the Treaty of Maastricht. Although these problems have aggravated the crisis, these are not the fundamental reasons or causes of the crisis. One must look at the situation from afar in order to understand the reasons of the present crisis and to find the road to come out of it. From 1960 to the beginnig of the ' 90s, Italy has grown more quickly than all the other countries G 7, except Japan. The Italian economic miracle has been possible thanks to its shining small businesses that have succeeded in overcoming their small dimensions with district integration, to avoid the disadvantage of inadequate economies of scale with the personalization of the product, and to obviate the deficiency of basic research with shining innovations of products and processes using research findings of other nations. But, in the last decade, the growth of the PIL (U.S. GDP) and the creation of jobs in Italy have been lower that in the other countries. The fundamental reason is that the nation has not succeeded in giving an adequate answer to the fast globalization of the world-wide economy. The opening of the international competition has pushed the reorganization of the economic activity to a world-wide level and Italy has not succeeded to integrate itself sufficiently in the new system and to extract the benefits. Italy has not succeeded to valorize and to grow quickly in the fields of its competence and to attract sufficient foreign investments in the other fields. The fields in which Italy is, or would have to be at the cutting edge, are those of the fashion and the apparel, of the utensils and implements for the house, the machinery, the tourism, and agriculture of quality. Instead of valorizing (enhancing in value) these fields, allowing to make them grow quickly in house and investing abroad, it has been foreign companies to acquire Italian enterprises and valorizing the Italian competences abroad, denying Italy the economic growth and higher employment. As an example, when the French felt outdistanced by Italy in the fashion and in the apparel industry, they acquired Gucci, Pucci, Fendi, Italian Bottega Veneta and other enterprises leaders of the fashion. Nearly all the chains of the large Italian hotels are now in the hand of the Americans, French and English. Alitalia is in crisis and Italy is outside of the great cruises market. In the agricultural and nutritional foods, Perugina, Buitoni, Saint Pellegrino and many other illustrious names have been acquired by foreigners. Not only the foreign enterprises receive the profits but they are also slowly transferring the basic Italian competences in these fields to their nations. Foreign investments would be useful in the fields in which Italy does not have advantages or particular competences in which the foreigners can bring new technologies, more efficient managerial methods, and because they allow a deeper integration of the Italian economy in the world-wide productive system. Often in Italy it is believed that foreign investments are attractive mainly because they bring new capital. But Italy does not have deficiencies of capital but rather of new technologies, new managerial methods and integration in the world-wide economy. Unfortunately, Italy receives five or six times less foreign investments than England and France, half the investments received by the little Holland, and much less than those received by Belgium and Spain. The reasons are clear: the situation of the Italian public sector is scandalous with excessive regulations that discourage foreign entrepreneurs to invest in Italy; the fiscal pressure is higher that in the other countries, except France; Italy is at the bottom of the classification in the education of its working forces in science, mathematics, the knowledge of the English language and computer science; and the infrastructures are much inferior to those of other advanced countries (for example, the cost of energy is from 35 to 40 percent higher that of the other countries). Therefore, one should not be astonished if Italy receives much less foreign investment than many other nations, except in fields conquered by foreign enterprises. The Italian economic crisis is reflected in the anemic rates of growth (lowest of the countries of the UME, European Union), in the decrease of the percentage of its exports in the world-wide commerce, in the lowest and decreasing percentage of the exports of products of high technology, in the lowest influx of foreign investments, and in the crisis in tourism (Spain receives 11 percent of the PIL from the tourism, Germany 6.5 percent, France 6.2 percent, England 5.9 percent; Italy only 5,7 percent). How to resolve the competitive crisis of Italy? With deep reforms in the public sector, with the reduction of the fiscal pressure on the enterprises, with the restructure of the service and labor market, improvement in the education of the working forces and infrastructures. And then the dirty clothes are not washed abroad (example, the Antonveneta case) because this creates a distorted image of the Italy that discourages foreign investments and imposes a prize risk in its trade relations with the other countries. It is true that it is much more difficult to introduce deep structural reforms when the economy does not grow, and also because the costs are incurred soon while the benefits arrive with years of delay, but who is deceived that by increasing the age of the retirement by a year or so, liberalizing the labor market in marginal way, increasing a little the efficiency of the public sector, and reforming universities that miss the target will not resolve the problems of the Italian economy. What it is necessary is a complete restructure or re-engineering of all the Italian economy. Unfortunately, it does not seem that there is a sufficient grip of conscience on the part of politicians on how serious the economic situation is and how many sacrifices are required in order to reverse direction and to give again a surge to the Italian economy. Time is running out!