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Uliano Conti
lo spazio
deL visuale
Manuale sull’utilizzo
dell’immagine
nella ricerca sociale
Armando
editore
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Sommario
Prefazione
di Domenico Secondulfo
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Capitolo primo
Una questione di sguardi 13
Le origini del mito 14
You press the button, we do the rest! 20
Capitolo secondo
Epistemologia visuale 27
Le tecniche visuali nella ricerca sociale 27
Interpretazioni 32
Capitolo terzo
Ricerche visuali 37
Osservazione 37
Analisi situazionale 43
Capitolo quarto
Discorsi e contenuti 49
Analisi del discorso e analisi del contenuto visuali 49
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Capitolo quinto
Identità e mutamento 57
Archivi 57
Fotografia e sicurezza 66
Dalla coesione sociale all’autoreferenzialità 68
Rifotografie 76
Capitolo sesto
Sociologia visuale 79
Considerazioni per una sociologia visuale 79
On visual methods and the growth of micro-interactional
sociology. Interview to Professor Randall Collins 81
Postfazione
di Maria Caterina Federici
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Bibliografia99
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Prefazione
di Domenico Secondulfo1
Molto spesso nelle analisi sociologiche, oppure nei manuali di ricerca,
la sociologia parla di una sorta di “occhio”, che può essere del sociologo
oppure della sociologia a seconda del livello di analisi su cui ci troviamo.
Questa metafora è molto interessante, perché ci dice come, fin dal suo inizio, la sociologia si fosse posta l’obiettivo di investigare la società attraverso la sua osservazione, in modo illuministico, attraverso una sorta di “illuminazione” dei fenomeni sociali che permette all’occhio della disciplina di
vederli ed analizzarli. Sino a non molto tempo fa la metafora era incompleta, in quanto l’occhio della sociologia era soprattutto l’occhio della mente,
l’occhio della logica scientifica, ma la realtà sociale non veniva osservata
attraverso strumenti che potessero restituire la ricchezza di ciò che un occhio può vedere, ma attraverso strumenti che utilizzavano soprattutto la
parola ed ai quali, nonostante la raffinatezza raggiunta nel tempo, una fetta
di realtà sociale fatalmente sfuggiva. L’occhio del sociologo osservava attraverso questionari, colloqui, dati statistici; l’unica tecnica in cui l’occhio
svolgeva effettivamente il suo lavoro era l’osservazione partecipante, non a
caso una tecnica molto antica ma che nel tempo la pratica della ricerca sociale ha messo, purtroppo, spesso in secondo piano, per preferire tecniche
di osservazione che producessero documenti maggiormente “oggettivi”,
rispetto al taccuino di campo che può produrre il sociologo immerso nel
problema che sta studiando, attraverso la sua osservazione diretta. Questa
era comunque l’unica forma di osservazione posta in essere dalla sociologia, che potesse rappresentare, in forma compiuta, quel concetto di osservazione che il lessico quotidiano ci offre, cioè un’attività in cui i fenomeni
1 Professore Ordinario di Sociologia Generale, Università degli Studi di Verona, Dipartimento di Scienze Umane.
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vengono visti nella loro interezza e complessità, osservandoli come si osserva la realtà quotidiana. Questa differenza è già un primo ottimo punto di
partenza per comprendere lo spessore e la novità che la sociologia visuale
ha portato nella ricerca sociale, e di cui Uliano Conti, in questo volume ci
propone una eccellente riorganizzazione concettuale ed una generosa spinta all’applicazione nella ricerca sul campo.
La psicologia, ci dice che quasi l’80% delle informazioni che ciascuno
di noi quotidianamente assorbe nella propria vita quotidiana, deriva dallo
sguardo, dall’occhio, ed anche la nostra attuale forma sociale si appoggia
sempre di più sul senso della vista anziché sugli altri sensi, e questo con
un impatto non indifferente sui nostri modelli concettuali di lettura della
realtà che ci circonda come suggeriva, tanti anni fa, Marshall McLuhan.
La sociologia, tra le varie scienze, era fino a poco tempo fa rimasta una
delle poche a non essersi dotata di strumenti visivi di indagine, pensiamo
ad esempio all’enorme cambiamento che la pratica medica ha avuto grazie
alla diagnostica per immagini, oppure alla capacità di produrre immagini in tempo reale del corpo e del suo funzionamento interno. Una vera e
propria rivoluzione dell’occhio cui la sociologia non solo è arrivata un po’
in ritardo, ma che stenta ancora di riconoscere ed usare secondo le grandi
possibilità che questa rivoluzione potrebbe offrirle.
Da un lato moltissimi fenomeni sociali hanno una dimensione spaziale,
o di cultura materiale, che soltanto uno strumento che possa riprodurne la
struttura visibile, come ad esempio una fotografia o una ripresa video, è in
grado di restituire all’occhio del sociologo, non solo in tutta la sua complessità, ma cogliendone quegli aspetti, assolutamente strategici per poterne comprendere la funzione e l’effetto nella prassi sociale, invisibili alle
parole. Se volessimo ad esempio studiare l’impatto simbolico che le strutture architettoniche hanno su chi le abita, potremmo riuscire a descriverle
solo attraverso parole? Quanto perderemmo del loro impatto simbolico con
una descrizione verbale, rispetto a ciò che ci potrebbe offrire una semplice
fotografia? E se volessimo studiare le strategie di distinzione e riconoscimento sociale poste in essere dalle famiglie, analizzando la disposizione
degli oggetti nelle parti private – pubbliche della casa, potremmo forse ottenere delle descrizioni esaustive con strumenti unicamente verbali? Come
potremmo ricondurre i pattern spaziali in cui viene organizzato lo spazio
ed in cui vengono disposti gli oggetti, e studiarne l’impatto comunicativo
in termini, ad esempio, di stratificazione sociale, senza uno strumento che
possa riprodurre ciò che il nostro occhio vede e la nostra mente, immediatamente, decodifica ogni giorno? Spero, con questi due piccoli esempi, di
aver mostrato quale e quanta fetta del mondo viene celata all’occhio del
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sociologo quando questi si affida a strumenti che poco hanno a che fare
con l’occhio, che cercano di tradurre in parole fenomeni che, nella realtà
sociale, impattano nei comportamenti delle persone, soprattutto attraverso
lo sguardo, l’occhio, e non attraverso le parole. Un altro esempio potremmo coglierlo dallo studio degli stereotipi sociali, lo stereotipo è soprattutto
un pattern visivo, formato da vari elementi ad alto significato, che siamo
abituati a cogliere immediatamente con lo sguardo, traducendoli in un certo concetto ed in una serie di comportamenti ad esso collegati, potremmo
studiare gli stereotipi proponendo alle persone delle descrizioni verbali degli stereotipi stessi? Perderemmo completamente il nocciolo del fenomeno
sociale, che è un nocciolo visivo, basterebbero invece alcune immagini per
generare negli intervistati una reazione vicinissima a quella che si ha nelle
interazioni sociali concrete, mentre per ottenere questo con delle parole
non basterebbero pagine di testo. Ma in una società sempre più visuale
come la nostra, non soltanto l’uso delle immagini ci permette uno studio
maggiormente attendibile e corretto dei fenomeni che animano la nostra
società, ma la capacità di cogliere ed analizzare il mondo delle immagini
ci permette di accedere all’enorme massa di informazione che la nostra società produce ed archivia, in ogni momento, sotto forma di immagine. Che
cosa sarebbero gli studi sulla memoria se ignorassero la configurazione dei
monumenti, la struttura delle piazze, dei sacrari, dei cimiteri, l’accumulo di
memoria presente in ogni casa grazie agli album di fotografie o alle raccolte di immagini digitali. Che cosa sarebbero gli studi sulle culture giovanili
senza la sensibilità alla produzione iconica che le ha da sempre sostenute
e che è il loro principale strumento di espressione? L’occhio del sociologo
fino ad oggi è stato piuttosto cieco, costretto a leggere una società di immagini attraverso le parole. Ben prima dei sociologi, gli antropologi hanno
sviluppato in maniera del tutto naturale delle tecniche di rilevazione fotografica, cinematografica, che sono sempre state parte essenziale dei loro
studi sulle culture “altre”; sarebbe interessante chiedersi perché questo è
avvenuto così scarsamente negli studi dei sociologi che, al contrario degli
antropologi, studiavano la propria cultura e non la cultura di altre popolazioni. Probabilmente il dato visuale, proprio per la sua grandissima importanza nella vita quotidiana, è stato sottovalutato da una sociologia che si
rivolgeva ai grandi processi astratti e che “snobbava” l’importanza di ciò
che poteva scorrere nella vita quotidiana, ma anche quando l’importanza
della vita quotidiana è stata finalmente riconosciuta dal pensiero sociologico, lo sviluppo delle tecniche visuali è rimasto assolutamente marginale,
lasciato semmai all’intelligenza di alcuni ricercatori, ma senza vedersi riconoscere, nella tradizione delle tecniche di ricerca, lo spazio che merita.
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Come indicato nelle pagine che seguono, questa lacuna è stata recentemente colmata, seppure parzialmente, da alcuni sociologi che hanno introdotto
anche in Italia le tecniche visuali, azione però che almeno per il momento,
è rimasta ristretta ai pionieri che hanno iniziato questo percorso e che vede
scarsissimi esempi di applicazione nel panorama delle ricerca sociologica
italiana. Sotto l’aspetto della ricerca, è interessante soffermarsi un attimo
su un tema spesso molto dibattuto all’interno della sociologia visuale, ed
ampiamente ed esaurientemente trattato nel volume, che però mi permetto
di anticipare brevemente: la sociologia visuale è una “sociologia” oppure
un semplice insieme di tecniche sociologiche? Naturalmente la sociologia
visuale è soprattutto un insieme di tecniche di osservazione, ma tecniche
che permettono alla sociologia di allargare il proprio sguardo su una parte
di realtà sociale talmente importante e talmente specifica, consustanziale a
queste tecniche, da portare nella riflessione sociologica un contributo totalmente originale e talmente fondamentale da proporre un nuovo tipo di
stile cognitivo nell’analisi della realtà, qualcosa di simile alla differenza
tra le tecniche basate sulle matrici e quelle basate sul testo che, non a caso,
vengono ordinariamente chiamate “sociologie”: sociologia quantitativa e
sociologia qualitativa. A questo punto, la sociologia visuale si pone sullo
stesso livello di questi due approcci metodologici ed ha ben diritto ad essere chiamata “sociologia”, esattamente nel senso che noi diamo a questo
termine quando lo decliniamo a seconda della famiglia di tecniche di osservazione cui facciamo riferimento, volendo così significare che questa famiglia di tecniche di osservazione apre alla sociologia un campo di indagine
unico, originale, e che resterebbe celato se non esistessero quelle specifiche
tecniche, una ricchezza che ci permette di parlare di sociologia in senso
generale, intendendo naturalmente il termine più in senso cognitivo che
in senso di metodo e logica scientifica, che nei suoi elementi portanti resta
ovviamente la medesima.
Ma se è così evidente che la possibilità di usare le immagini per studiare anche la nostra società è così importante, per quale motivo, se c’è stato
uno sviluppo, questo ha interessato soprattutto lo studio delle immagini
e non lo studio attraverso le immagini? Che cosa è, in altre parole, che
ha probabilmente frenato l’allargarsi di una tecnica di ricerca così chiaramente importante e feconda? Probabilmente vi sono due ordini di fattori.
Uno di tipo applicativo, cioè da un lato la difficoltà a padroneggiare un
linguaggio, quello delle immagini, che non fa parte del bagaglio di capacità usualmente fornito dalla scuola e dall’Università; rispetto al quale
quindi ci troviamo impreparati e nella necessità di ripartire “da zero”, uno
sforzo che, rispetto al più facile uso del linguaggio verbale al quale siamo
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addestrati sin dalla più tenera età, può aver scoraggiato più di un collega,
cui dobbiamo aggiungere la difficoltà ad acquisire la competenza tecnica
necessaria per poter utilizzare gli strumenti di ripresa visuale, anche se ormai con l’impero degli smartphone si tratta di una scusa non più ammissibile; ed un secondo di tipo epistemologico, legato da un lato alla scarsa
considerazione che la realtà della vita quotidiana ha avuto ed ha in parte,
tuttora, all’interno della riflessione sociologica, come area “onorevole” su
cui applicare la riflessione del sociologo, e dall’altro al sotterraneo rifiuto
dell’uso di una “macchina”, con tutto il suo artigianale corredo di competenze e mansioni, all’interno di un’attività che la radice filosofica più che
empirico-antropologica della sociologia italiana, considera essenzialmente
intellettiva, astratta, e che mal si sposa con il ricorso a “meccanicità”, per
di più importate dai comportamenti “ordinari” della società, l’effetto della
vecchia divisione alto – basso tra mente e mano che rende disdicevole per
l’intellettuale possedere abilità manuali. Ci troviamo quindi di fronte ad
una sorta di paradosso della sociologia, nonostante gli infiniti riferimenti all’occhio del sociologo o della sociologia, il suo sguardo non ha mai
trovato la visione; usando sempre la parola come sguardo, gli strumenti
che avrebbero potuto dare all’occhio un vero sguardo stentano ad essere
utilizzati nella ricerca, l’occhio, se c’è, è nella mente, e guarda attraverso
le parole. Passare dalla linearità della parola e dell’alfabeto alla simultaneità dell’immagine potrebbe essere una piccola rivoluzione non soltanto
dei mezzi di indagine, ma anche dell’idea di società, dalla logica lineare e
cumulativa dell’alfabeto, alla logica immanente e olografica dell’immagine, come suggerisce il McLuhan degli strumenti del comunicare, sarebbe
forse ormai ora. Contiamo che questa bella opera di Uliano Conti possa
contribuire ad affrettare i tempi.
Bologna, 12 giugno 2016
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Capitolo primo
Una questione di sguardi
In contesti scientifici differenti, dall’antropologia alla sociologia,
dall’urbanistica alla semiotica, si è tentato di comprendere le dinamiche sociali relative a ciò che le persone vedono intorno a sé. Pubblicità, mass me­
dia, social network, archivi fotografici, album di fotografie familiari, Polaroid, smartphone, mode giovanili, graffiti agiscono sulle interazioni e sulle
relazioni e contribuiscono a definire il paesaggio socioculturale che circonda le persone1. Lo studio degli aspetti visuali del vivere sociale è comune
a più aree disciplinari e la sociologia ha sviluppato a riguardo un interesse
particolare. Questo manuale propone gli elementi che compongono l’ambito scientifico della sociologia visuale e ne definisce l’area di applicazione,
trattando gli strumenti grazie ai quali la ricerca sociale è arricchita dall’utilizzo di tecniche visuali, che consistono in ogni tecnica di indagine che
utilizza immagini. La sociologia visuale ha origine nel contesto scientifico
anglosassone ed anche in Italia si è tentato di sistematizzare i modi in cui
utilizzare l’immagine nelle scienze sociali2. Il termine sociologia visuale in
letteratura si trova variamente inteso come disciplina, metodologia, tecnica
1
Simmel G., Soziologie, Leipzig, Verlag von Dunker & Humbolt, 1908.
Ferrarotti F., Dal documento alla testimonianza. La fotografia nelle scienze sociali,
Napoli, Liguori, 1983; Cipolla C., L’apporto della comunicazione iconica alla conoscenza
sociologica: un bilancio metodologico, in «Sociologia della comunicazione», 12, 1989, pp.
23-60; Cipolla C., Oltre il soggetto. Due saggi sul metodo fenomenologico e sull’approccio
biografico, Milano, FrancoAngeli, 1990; Mattioli F., La sociologia visuale. Che cosa è, come
si fa, Roma, Bonanno, 2007; Faccioli P., Losacco G., Manuale di Sociologia Visuale, Milano, FrancoAngeli, 2003; Bruschi A., Metodologia delle scienze sociali, Milano, Mondadori,
1999; Cannavò L., Frudà L. (a cura di), Ricerca sociale. Tecniche speciali di rilevazione,
trattamento e analisi, Roma, Carocci, 2007; Berger J., Questione di sguardi. Sette inviti al
vedere fra storia dell’arte e quotidianità, Milano, il Saggiatore, 2009.
2
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di ricerca, sistema di ricerca3. Il filo conduttore del saggio che segue è la
sociologia visuale nelle sue declinazioni teoretiche, disciplinari e metodologiche. L’evoluzione delle Information and Communication Technologies,
della realtà aumentata, delle neuroscienze, la complessità della globalizzazione4 hanno contribuito a ridefinire le epistemologie del sapere sociologico. Tali mutamenti mettono in luce il modificarsi delle basi epistemologiche delle scienze sociali. Questo volume presenta la sociologia visuale
come un approccio chiave che, nell’unitarietà della disciplina sociologica,
permette di entrare in territori cognitivi difficilmente indagabili utilizzando
unicamente strumenti di indagine empirica già consolidati. La prospettiva
scientifica sottesa alla sociologia visuale ed alle tecniche di ricerca visuali,
si interroga sui confini di epistemologie tradizionalmente lontane, come
oggettivismo e costruttivismo. Nel libro si cerca di definire l’approccio
della sociologia visuale, si fa riferimento anche a termini epistemologici
domandandosi quali siano le caratteristiche e le condizioni, procedurali e di
ricerca, della conoscenza scientifica della sociologia visuale.
Le origini del mito
Intorno alla diffusione della fotografia nel corso dell’Ottocento in Occidente esistono resoconti differenti. In particolare, è nota la vicenda intercorsa tra Joseph Nicéphore Niépce e Louis-Jacques-Mandé Daguerre in
merito all’invenzione della fotografia5. Entrambi affermano di esserne gli
inventori e la disputa, nella Francia del XIX secolo, contribuisce a creare
un mito. A Daguerre si deve la realizzazione del procedimento per fissare
sopra una lastra metallica un’immagine proiettata in una camera oscura. Il
19 agosto 1839 nella seduta plenaria dell’Accademia delle Scienze e delle
Arti di Francia il dagherrotipo è “presentato alla società”. Niépce, invece, crea la condizione per la produzione automatica di immagini, ricavate
sia da stampe o da disegni, sia dalle immagini proiettate in una camera
oscura. A Niépce si deve il procedimento per stampare meccanicamente
le immagini, in altre parole la base dell’industria fotografica moderna. A
William Henry Fox Talbot, infine, si attribuisce la realizzazione di imma3 Grady J., Visual Methods, in G. Ritzer (ed.), The Blackwell Encyclopaedia of Sociology,
U.K., Wiley-Blackwell, 2007, pp. 2986-2989.
4 Secondulfo D., Per una sociologia del mutamento. Fenomenologia della trasformazio­
ne tra moderno e postmoderno, Milano, FrancoAngeli, 2001; Antiseri D., Epistemologia
contemporanea e didattica delle scienze, Roma, Armando, 2000.
5 Gilardi A., Storia sociale della fotografia, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 1-19.
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gini fotografiche stabili su carta grazie al procedimento negativo – positivo. Alla vicenda Niépce – Daguerre si aggiunge la figura di Hippolyte
Bayard, che due mesi prima della seduta plenaria del 1839 allestisce una
mostra di fotografie su carta, e non su lastra di metallo come nel caso del
dagherrotipo. Bayard, però, funzionario governativo legato alla monarchia
francese di Luigi Filippo, è indotto a non pubblicizzare la propria invenzione. Già tra i secoli XVIII e XIX numerosi sono i tentativi, con minore o
maggiore competenza tecnica, di produzione automatica di immagini. Tali
modalità, precedenti al 1839, sono considerate proto-fotografia. Per essere chiamata fotografia l’immagine deve essere stampata meccanicamente,
come avviene nel procedimento di Niépce. A ben vedere, se per fotografia
si intende: «a) formare un’immagine negativa su un supporto che scurisce
con la luce; b) rendere stabile tale immagine; c) stamparla in positivo su un
altro supporto», l’inventore è John Frederick William Herschel nel 18396.
Tali caratteristiche rendono il procedimento di Herschel quindi diverso dal
daguerréotype.
In pochi anni la fotografia si diffonde e diventa una pratica diffusa soprattutto nelle città europee tra la borghesia. Lo strumento fotografico risponde ai bisogni espressivi e di distinzione sociale, soprattutto attraverso
i ritratti, del ceto medio europeo dell’Ottocento7. Una litografia (Figura
1) del 1840 di Theodore Maurisset rappresenta la Daguerrèotypomanie: il
brevetto del procedimento inventato da Daguerre è acquistato dal governo
francese e liberalizzato. La fotografia sostituisce le precedenti tecniche di
incisione, come litografia e xilografia8.
L’utilizzo della fotografia nell’Ottocento è coerente con la temperie
positivista dell’epoca. Auguste Comte, nel 1839, sta per ultimare l’opera
Cours De Philosophie Positive. Il positivismo comtiano, la macchina fotografica e la nascente sociologia culturalmente si radicano nella convinzione
che la registrazione di fatti osservabili possa contribuire alla conoscenza
della realtà sociale9. Tale convinzione si concretizza in forme di creazione
della conoscenza, come gli archivi fotografici, che rispondono al bisogno
di catalogare “oggettivamente” e di salvare dall’oblio fatti e persone. Già
intorno al 1860 Oliver Wendell Holmes immagina una Imperial, National,
or City Stereographic Library, dove le persone possono vedere immagini
6 Ivi,
p. 7.
Veblen T., The Theory of the Leisure Class: An Economic Study of Institutions, New
York, Macmillan, 1899.
8 Gilardi A., op. cit., pp. 18-19.
9 Berger J., Mohr J., Another Way of Telling, New York and Toronto, Pantheon, 1982, p. 99.
7
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di ogni oggetto esistente, naturale o artificiale10. Dopo più di un secolo, la
Stereographic Library di Holmes si è realizzata, con la digitalizzazione
dell’immagine ed i motori di ricerca del Web.
È soprattutto in Europa, dalla seconda metà dell’Ottocento, che si
utilizza la fotografia per indagare i fenomeni sociali. In Italia nei primi
anni del Novecento, Giovanni Montemartini – collaboratore della rivista
Critica Sociale e creatore entro la Società Umanitaria di un Ufficio dedicato ad indagini empiriche sulle condizioni dei lavoratori, ad esempio
nelle risaie della Lomellina – promuove in sede governativa l’attività dei
ricercatori che utilizzano anche la macchina fotografica. Nello stesso periodo, Francesco Coletti – tra il 1907 e il 1911 Segretario dell’inchiesta
parlamentare Faina-Coletti sulle condizioni di vita dei contadini in Italia
meridionale – utilizza strumenti empirici come i questionari e le fotografie, sostenendo che è possibile rintracciare la causa delle azioni umane
nel contesto sociale. L’inchiesta parlamentare di Coletti si basa sul lavoro
di gruppi di ricercatori che, oltre a servirsi della fotografia come strumento euristico, intervistano testimoni privilegiati, come notabili e medici, e
somministrano questionari.
Negli stessi anni, Paolo Mantegazza, presidente della Società Fotografica Italiana inaugurata nel 1889, indice un censimento fotografico delle
espressioni umane, per l’analisi della fisiologia delle passioni, specialmente quelle criminali, visualmente controllabili. I moti politici dell’epoca, in
particolare quelli anarchici della Lunigiana del 1894 e quelli del 1898, contribuiscono a persuadere la comunità scientifica dell’esistenza dell’agitato­
re politico. Per identificarlo si ripone fiducia nella fotografia. Mantegazza è
anche teorico del socialismo fotografico11: la macchina fotografica è considerata ultima “figlia della scienza”, “gran passo avanti sulla via della sana e
della vera democrazia”, come scrive Mantegazza nel 1896 nella prefazione
del libro del fotografo Carlo Brogi12. Tale prospettiva richiama il sociali­
smo scientifico, inteso come possibilità di miglioramento delle condizioni
di vita per tutti esseri umani grazie al progresso tecno-scientifico. La fotografia nella ricerca sociale era già stata usata negli Stati Uniti nel 1876
quando l’American Sociological Review pubblica alcune immagini sulle
condizioni lavorative delle fabbriche statunitensi. Nei primi decenni del
Novecento, si assiste alla diffusione della fotografia di guerra13. Durante
10 Link al 1° giugno 2016: http://www.asindexing.org/about-indexing/history-of-informa­
tion-retrieval.
11 Gilardi A., op. cit., pp. 212-215.
12 Brogi C., Il ritratto in fotografia, Firenze, Stabilimento Brogi, 1896.
13 Gilardi A., op. cit., p. 248.
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le due guerre mondiali sono condotte enormi campagne promozionali per
convincere gli uomini, attraverso manifesti, cartoline postali, copertine di
quaderni scolastici, figurine, etichette, francobolli, ad arruolarsi nell’esercito. Ad esempio, durante la Prima Guerra Mondiale, si diffonde la pratica della fotografia di preservazione. Miliardi di esemplari, sotto forma di
cartoline, spedite dal e al fronte, hanno la funzione “magica” di proteggere
il soldato al fronte o i propri cari in patria (Figura 4). Spesso le immagini
delle cartoline derivano da pose in studio poi ritoccate artisticamente. Questo uso della fotografia ricorda, come sostiene Ando Gilardi, la xilografia di
preservazione, diffusa sin dal XIV secolo: immagini sacre, incise su legno,
erano usate per proteggere beni o persone14. La rappresentazione medioevale della Madonna con Bambino, è reinterpretata come la Madonna infer­
miera, la Madonna moglie, la Madonna consolatrice dei soldati ed è parte
della comunicazione di massa dell’epoca.
Molti decenni più tardi, un ruolo propulsore in ambito internazionale
per l’utilizzo dell’immagine nella ricerca sociale è ricoperto dalla Interna­
tional Visual Sociology Association (IVSA), associazione che promuove
la ricerca visuale ed incoraggia l’utilizzo della fotografia e del video in
sociologia. Rilevanti lavori di ricerca sono stati svolti nell’ambito della
International Visual Sociology Association e pubblicati nella rivista Visual
Studies. Tra i Presidenti dell’associazione si ricordano Douglas Harper,
della Duquesne University in Pennsylvania ed Eric Margolis, della Arizona State University. La International Visual Sociology Association tiene
ogni anno un convegno internazionale. Nel 2010, ad esempio, l’incontro
si è tenuto all’Università di Bologna. Nel 2013 a Londra, alla Goldsmiths
University, ospitato dal Centre for Urban and Community Research. I
convegni IVSA sono incontri polifonici, nei quali si incontrano studiosi
provenienti da differenti contesti culturali e che propongono ricerche visuali empiriche ed indagini di carattere teoretico sull’uso immagine nelle
scienze sociali. L’autore ha passato un periodo di ricerca, come research
scholar alla Arizona State University, alla Hugh Down School of Human
Communication, dove la Hayden Library dispone di ricerche di sociologia
visuale, come ad esempio i materiali empirici utili ad Eric Margolis per
uno studio sulle condizioni di vita dei lavoratori delle miniere del Colorado di inizio Novecento15 (Figura 5).
14
Gilardi A., op. cit., pp. 79-80.
Margolis E., Images in Struggle: Photographs of Colorado Coal Camps, in «Visual
Sociology», 9 (1), 1994, pp. 4-26.
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