Amor che nella mente e Guido Cavalcanti

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‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
RAFFAELE PINTO
1. Rileggersi è in Dante, almeno a partire da un certo momento, condizione dello scrivere. Il fenomeno è così caratteristico della sua mentalità, e così pervasivo, che alla sua scrittura può essere utilmente applicato
il principio di indeterminazione di cui parlano i fisici, per il quale in un
certo ordine di grandezze l’occhio dell’osservatore interferisce con il fenomeno materiale osservato impedendo una percezione ‘oggettiva’ di esso
(che ne calcoli, nello stesso tempo, la velocità e la posizione). Per ciò che
riguarda Dante, il primo ‘osservatore’ dei suoi testi è lui stesso, il che significa che agisce sui testi una soggettività di secondo grado (oltre quella,
per così dire, istituzionale che presiede ogni atto di scrittura e mette a
fuoco il testo dall’interno). Di conseguenza noi critici, osservatori secondari, non analizziamo mai nei suoi testi fenomeni verbali allo stato puro,
ma sempre oggetti testuali fortemente aleatori, perché successivamente rimaneggiati nella loro significazione, magari più volte, dal loro produttore
(e siamo quindi obbligati a distinguere ed a scegliere fra ciò che il testo
‘diceva’, quando fu scritto dal poeta, e ciò che il testo ‘dice’, ogni volta
che viene da lui riletto). Se utilizzassimo concetti provenienti dalla psicoanalisi, invece che dalla fisica, potremmo parlare, e sarebbe forse più appropriato, di ‘plasticità del significato’, nel senso in cui Freud parlava di
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‘plasticità delle pulsioni’: come nel cervello le cariche elementari di energia psichica (le pulsioni) sono suscettibili di subire trasformazioni nei
loro contenuti (sia sul piano oggettivo delle mete pulsionali, sia su quello
soggettivo delle rappresentazioni pulsionali), così nei testi di Dante le
unità elementari di senso, i nuclei verbali in cui il testo si articola, subiscono trasformazioni nei loro contenuti e nelle loro rappresentazioni figurali. Un senso originario certo esiste, ed è quello che orienta l’invenzione
del testo. Esso è però fin dal principio disponibile, forse programmaticamente, ai successivi rimaneggiamenti, così che vi si vanno successivamente depositando autointerpretazioni che lo modificano parzialmente o
totalmente. Tale polisemia vocazionale della scrittura dantesca sembra allora descritta da una nozione come quella di ‘plasticità del significato’
molto meglio che dalle definizioni relative alla ‘allegoria’ di Convivio II,
I, che sottopone tale polisemia a strettoie metodologiche decisamente
troppo rigorose, e che comunque sono valide, eventualmente, in sede interpretativa ma non retrospettivamente, al momento della invenzione (poiché Dante non ha sempre ragionato come dice di farlo nel Convivio).
Quelle definizioni indicano semplicemente una delle modalità secondo
le quali, in una certa fase della sua evoluzione intellettuale, si configura
in Dante la generale concezione della poesia, e della sua in particolare.
Un esempio di tale plasticità di significato, e che ci introduce subito nei
problemi posti dalla canzone in oggetto, è quello della donna che in essa
viene evocata: è la stessa di cui si parla nei capitoli XXXV-XXXIX della
Vita nuova, cioè il personaggio che affacciato alla finestra contempla
Dante in pena per la morte di Beatrice, oppure è la filosofia alla quale il
poeta dice, nel Convivio, di essersi dedicato per alcuni anni per consolarsi
della perdita del suo primo amore? Le risposte più ragionevoli a questa
domanda sembrano essere quelle che, tenendo conto del relativismo costituzionale della scrittura di Dante, che non dà mai per concluso il processo di definizione del significato e che ‘plasticamente’ lo rimodifica
ogni volta che ci ritorna sopra, distinguono fra i vari tempi in cui il testo
viene preso in considerazione e i vari significati che quella figura femminile assume. Si tratta quindi di un significato dinamico, che va descritto
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secondo la linea evolutiva delle sue modificazioni. Ed è ovvio, poi, che
ognuno di questi significati sia correttamente interpretabile solo alla luce
del contesto all’interno del quale risulta funzionale. Considerando, nella
fattispecie, le citazioni della canzone nel Convivio e nella Commedia,
mantenere distinti il senso filosofico che ad essa attribuisce il Convivio da
quello erotico che le viene attribuito nel Purgatorio (per non incorrere in
una aporia come sarebbe quella di un testo filosofico la cui esecuzione
musicale avrebbe il potere di attrarre potentemente l’attenzione di una
masnada che non possiamo certo immaginare formata da studenti o professori universitari)1 sembra una posizione non solo più prudente ma
anche più rispettosa della libertà autoesegetica che Dante si attribuisce e
che noi non abbiamo certo il diritto di reprimere o disconoscere.
Ma non si tratta solo del Convivio e del Purgatorio. Nell’ambito della
ampia produzione lirica di Dante, la canzone Amor che nella mente mi
ragiona sembra detenere il primato della plasticità di significato innanzitutto per ciò che concerne gli esercizi di autoesegesi (appare infatti anche
nel De vulgari eloquentia e nel Libro delle canzoni), ma poi anche perché
a sua volta cita nel congedo un altro testo (con ogni probabilità la ballata
Voi che savete ragionar d’amore) sconfessandolo, e quindi esercitando
funzioni interpretative normalmente affidate alla prosa oppure ai versi del
Poema. È un tipo di palinodia che leggiamo anche nei due sonetti che
fanno da accompagnamento alla canzone Voi che ‘ntendendo, prima sconfessandola e poi giustificandola. Non è certo casuale che entrambe le canzoni abbiano il privilegio di un commento allegorico nel Convivio e di
una citazione ‘strategica’ nella Commedia, come se fosse la loro strutturale ambiguità o problematicità ciò che, isolandole nitidamente rispetto a
quasi tutte le altre, le rende meritevoli di un sovrappiù di esegesi. Ma in
entrambe proprio tale sovrappiù pregiudica la percezione del senso originario, quello che le canzoni avevano quando furono scritte, senza prevedere la piega che poi il loro significato avrebbe preso nelle peripezie
autoesegetiche del poeta. Esso viene ‘oscurato’, per così dire, dai sensi
che l’autore vi ha successivamente depositato nel suo continuo lavorio di
rilettura. Sensi successivi che forse non sono del tutto arbitrari, rispetto a
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quelli originari, sufficientemente ‘plastici’ da ammettere letture diverse e
compatibili, almeno nella prospettiva del poeta, se non nella nostra; ma
che rendono l’analisi dei testi una specie di scavo archeologico alla ricerca
dei significati originari, che tutti quelli successivamente indicati, in modi
pur diversi, dissimulano. In questa sede, per quanto riguarda Amor che
nella mente, oltre che sull’autocommento del Convivio, nel quale, però,
la canzone è poco più che un pretesto per sviluppare tematiche speculative
che sono con ogni evidenza indipendenti da essa, mi soffermerò sui due
momenti estremi della storia compositiva ed interpretativa della canzone,
e cioè l’ultimo, ossia la sua citazione nel secondo del Purgatorio, ed il
primo, ossia l’occasione e la finalità per le quali la canzone fu scritta,
nella convinzione che proprio l’ultima avventura di significato illumini il
suo senso originario.
2. La presenza di Amor che nella mente nel canto II del Purgatorio costituisce un problema su diversi piani. La critica si chiede se ci sia palinodia e sconfessione, e poi se sia plausibile, nella realtà storica, che un
testo filosofico (secondo il Convivio) venisse eseguito con una melodia.2
Nell’economia del canto la musica svolge un ruolo di primo piano, ed è
chiaro a prima vista che vengono contrapposti due usi della musica, uno
sacro, cioè salmistico, che accompagnerà il protagonista lungo tutta la
cantica, l’altro profano (l’‘amoroso canto’) che viene indicato qui come
pernicioso o comunque incompatibile con l’ascesi penitenziale3 (più perentoriamente, la condanna nei confronti della musica profana sarà formulata attraverso l’episodio della «femmina balba» di Purgatorio XIX). Ciò
posto, non credo che sia particolarmente problematico l’esempio di una
canzone propria per indicare quest’uso perverso della musica, se «l’Inferno (e il Purgatorio) di Dante è anche il luogo dei suoi peccati vinti, la
sede delle sue tentazioni superate» (Contini 1970: 348). Più complessa è
la questione della scelta: perché proprio questa canzone? Se in essa dobbiamo vedere un ‘peccato vinto’ di Dante, di quale peccato si tratta? Ossia:
di quale momento della sua evoluzione poetica e ideologica il testo è rappresentativo e fa ammenda? Il dato da cui vorrei partire, e che ha suggerito
il titolo di questo saggio, è la constatazione del fatto che il canto è intes34
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suto di allusioni al ‘primo amico’ che inducono, credo necessariamente,
a spiegare la presenza, qui, di Amor che nella mente alla luce della tormentata relazione di Dante con Guido. Si tratta di segnali non evidentissimi, per cui sono stati sostanzialmente trascurati dalla critica, ma ciò si
deve alla sistematica dissimulazione, dopo la polemica Vita nuova Donna me prega, dei debiti che Dante contrasse con Guido. Ed è appunto
il ricordo della canzone filosofica, oltre che di altri testi di Guido che,
come mi propongo di mostrare, fa capolino fra i versi e le figure del canto.
Già l’inizio, che descrive l’alba a partire da un generale colpo d’occhio
sull’universo, in cui il sole e la notte sono evocati nella loro opposizione
astronomica («opposita a lui cerchia»), per cui se da una parte il sole tramonta dall’altra sorge, insinua una contrapposizione luce / buio che sembra sottilmente alludere alla antitesi ‘lume’ / ‘scuritate’ con cui si apre la
dissertazione teorica sull’amore di Donna me prega (vv. 16-17): «sì formato, – come / diaffan da lume, – d’una scuritate». L’allusione si precisa
nei versi seguenti attraverso un segnale, questo sì inequivocabile, che
chiama in causa il simbolo più cospicuo della teoria cavalcantiana del desiderio, e cioè il pianeta Marte, dalla cui nefasta influenza dipende il carattere necessariamente patologico e conflittuale dell’amore (v. 18): «una
scuritate / la qual da Marte vène». In Dante, al rosseggiare di Marte, di
primo mattino, viene paragonato il lume che gli appare all’orizzonte sulla
riva del Purgatorio (vv. 13-18):
Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sovra ‘l suol marino,
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,
un lume per lo mar venir sì ratto,
che ‘l muover suo nessun volar pareggia.
Se vi leggiamo in trasparenza i versi di Guido, percepiamo più nitidamente il carattere per nulla estrinseco sia della comparazione planetaria
che della tensione che inizia a serpeggiare fra elementi antitetici: fra i vapori che sembrano scatenare la violenza del pianeta (il suo ‘rosseggiare’),
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con la conseguente obnubilazione delle menti, e la luce angelica che si
profila all’orizzonte.
È d’obbligo citare qui il passo del Convivio in cui il pianeta Marte viene
paragonato alla musica (che ci fa capire perché la presenza del pianeta è
necessaria qui, dove la partitura musicale della Commedia viene illustrata
nelle sue ragioni fondamentali). La connessione, però, rivela il suo significato profondo e la sua funzionalità nel canto solo se pensiamo alle sotterraneee allusioni a Cavalcanti, sia nel Convivio che nella Commedia:
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E lo cielo di Marte si può comparare alla Musica per due propietadi: l’una si è la sua più bella relazione: ché, annumerando li cieli
mobili, da qualunque si comincia, o dall’infimo o dal sommo, esso
cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti, cioè delli primi,
delli secondi, delli terzi e delli quarti. L’altra si è che esso Marte,
[secondo che dice Tolomeo nel Quadripartito], disecca e arde le
cose, perché lo suo calore è simile a quello del fuoco; e questo è
quello per che esso pare affocato di colore, quando più e quando
meno, secondo la spessezza e raritade delli vapori che ‘l seguono:
li quali per loro medesimi molte volte s’accendono, sì come nel
primo della Metaura è diterminato. E però dice Albumasar che
l’accendimento di questi vapori significa morte di regi e transmutamento di regni, però che sono effetti della segnoria di Marte. E
Seneca dice però, che nella morte d’Augusto imperadore vide in
alto una palla di fuoco; e in Fiorenza, nel principio della sua destruzione, veduta fue nell’aere, in figura d’una croce, grande quantità
di questi vapori seguaci della stella di Marte. E queste due propietadi sono nella Musica: la quale è tutta relativa, sì come si vede
nelle parole armonizzate e nelli canti, de’ quali tanto più dolce armonia resulta quanto più la relazione è bella: la quale in essa
scienza massimamente è bella, perché massimamente in essa s’intende. Ancora: la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono
principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi
corre allo spirito sensibile che riceve lo suono (Convivio II, XIII, 2024).
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I percorsi associativi che da Marte conducono a Cavalcanti, oltre la
evocazione del pianeta in Donna me prega, sono sottili e indiretti, ma
proprio per questo mostrano l’ampiezza del campo semantico in cui
Guido risulta fecondo di suggestioni nell’immaginario dantesco. Portano
a lui, in questo brano, le parole armonizzate (cioè la poesia) e i canti, soprattutto se vi leggiamo l’effetto di seduzione che la musica produce sull’anima, analogo a quello che produce l’innamoramento, ossia ‘i vapori
del cuore’ che ottenebrano la mente (per influsso di Marte appunto, secondo Donna me prega). E poi ancora gli effetti distruttivi che Marte produce sulla terra, e concretamente a Firenze, che evocano le metafore
belliche sistematicamente addotte da Guido per figurare l’eros (distruzione’ è termine specificamente cavalcantiano per descrivere la destabilizzazione psichica indotta dal desiderio).4 Attribuendo a Marte il
controllo della musica, e identificando la musica con la poesia, Dante ha
implicitamente reso omaggio al ‘primo amico’, pur nel quadro di una concezione sostanzialmente riduttiva della poesia d’amore, come è quella che
caratterizza il Convivio, che sacrifica la lettera del testo (intesa semplicemente come «bella menzogna», II, I, 3) alla estrinseca verità filosofica
della ‘allegoria’ che la lettera nasconde. Credo però che la identificazione
della musica con la poesia valga qui anche come giustificazione della ambivalenza di questa, che da una parte attrae potentemente a sé le potenze
dell’anima e dall’altra ne debilita il giudizio e la razionalità (proprio come
Guido vuole che accada nell’esperienza del desiderio), e Marte, con la
sua violenza e le sue offuscazioni, sembra il pianeta più indicato per simboleggiarne le caratteristiche. Infine il fenomeno qui evocato, e poi esemplificato nel canto II attraverso la suggestione del canto di Casella, e cioè
l’attrazione degli spiriti umani «che quasi cessano da ogni operazione»,
descrive, attribuendoli alla musica, i sintomi che, prodotti dall’incantamento del desiderio, Guido rappresenta come ‘fuga degli spiriti’ o delle
virtù:
L’anima mia vilmente, 13-14:
se vedesse li spirti fuggir via,
di grande sua pietate piangeria.
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Io non pensava, 9-14:
avesse di sospir’ tormento tanto,
poi che lassò lo core
a la battaglia ove madonna è stata:
la qual degli occhi suoi venne a ferire
in tal guisa, ch’Amore
ruppe tutti miei spiriti a fuggire.
Io non pensava, 47-52:
E prego umilemente a lei tu guidi
li spiriti fuggiti del mio core,
che per soverchio de lo su’ valore
eran distrutti, se non fosser vòlti,
e vanno soli, senza compagnia,
e son pien’ di paura.
Io temo che la mia disaventura, 9-11:
De la gran doglia che l’anima sente
si parte da lo core uno sospiro
che va dicendo: «Spiriti fuggite».
Si tratta dello stesso fenomeno che Dante descrive in Vita nuova XIV,
quando viene sorpreso dalla presenza e dalla burla di Beatrice, in una
esperienza che ricalca la sintomatologia cavalcantiana del desiderio:
Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese
veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non
ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea stare nel loro
nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna.
In Purgatorio IV la ‘fuga degli spiriti’ attratti da uno stimolo potente
(«Quando per dilettanze o ver per doglie…», vv. 1-12) viene addotta per
giustificare l’unità sostanziale dell’anima umana contro i platonici. Si
tratta in fondo dello stesso fenomeno fisiologico, che però nell’ascolto
della musica e nell’innamoramento si verifica con una intensità tale che
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può risultare patologica. Infatti l’immagine finale di Purgatorio II, dei colombi che, «se cosa appare ond’elli abbian paura», abbandonano l’‘esca’,
sparpagliandosi in giro come le anime che, al rimprovero di Catone, «lasciar lo canto, e fuggir ver la costa», è densamente allusiva dei meccanismi
psichici che caratterizzano il desiderio sessuale: innanzitutto i colombi,
che ne sono simbolo esplicito, come già nel V dell’Inferno, ma poi anche
figure cavalcantiane come sono la paura e la fuga (degli spiriti). Sulla
scena, insomma, aleggia il ricordo di versi come questi:
Deh, spiriti miei, 9-11:
I’ veggo a lüi spirito apparire,
alto e gentile e di tanto valore,
che fa le sue virtù tutte fuggire.
A Cavalcanti rinvia anche il «vasello snelletto e leggero» che Dante
vede arrivare al Purgatorio. La critica ha messo in evidenza le allusioni da
una parte alla nave di Ulisse, che segue la stessa rotta, e dall’altra al sonetto Guido i’ vorrei, nel quale pure viene vagheggiata una nave che permetta una evasione dal reale (ma in altra direzione).5 Le connessioni con
Cavalcanti sono esplicite nel secondo caso ed implicite nel primo (poiché
Ulisse e Guido sono accomunati dalla matrice averroista delle rispettive
imprese).6 Ed il bagliore dell’angelo, che obbliga Dante ad abbassare gli
occhi, ricorda e corregge il bagliore delle allucinatorie figure femminili
di Guido, come quella che, in Chi è questa che vèn, «fa tremar di chiaritate l’âre» in modo tale che «a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute», e quella
che, in Io non pensava, «di tante bellezze adorna vène / che la mente di
qua giù no la sostene / sì che la veggia lo ‘ntelletto nostro», luoghi cavalcantiani che Dante riprende nei versi 37-40:
Poi come più e più verso noi venne
l’uccel divino, più chiaro appariva:
per che l’occhi da presso nol sostenne,
ma chinail giuso…
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Una ulteriore spia, indiretta quanto si vuole, ma pur rivelatrice della
persistente memoria di Guido in Dante, è il «non sapeva che bianco» (v.
23) che si rivela poi essere le ali dell’angelo. In Donna me prega, il fatto
che l’amore sia refrattario ad ogni tentativo di razionalizzazione viene
espresso attraverso l’immagine del colore bianco, colore «più pieno di
luce corporale che nullo altro» secondo Convivio IV, XXII, 17, che «in tale
obietto cade» (v. 64), secondo la canzone, e invece qui rivela la natura
metafisica dell’oggetto. Che un fantasma femminile (l’‘obietto’ di cui
parla Guido) possa tradursi metaforicamente in un angelo (l’oggetto di
cui parla Dante) è plausibile non solo per la nota analogia guinizzelliana
e poi cavalcantiana e dantesca, ma soprattutto per quella plasticità del significato che governa in profondità la scrittura di Dante. Tutte queste allusioni suggeriscono che l’intero episodio è stato pensato da Dante in non
confessata polemica con Guido (e quindi in ritrattazione della parte della
propria poesia che maggiormente è legata a quella compromettente amicizia).
3. È però nell’incontro con Casella che si addensano i segnali relativi
a Guido, tanti e di tale peso che l’aneddotica semileggendaria relativa ai
presunti rapporti del poeta con un musicista di questo nome risulta del
tutto inadeguata a spiegare la complessità dello snodo ideologico che il
Poema qui mette in scena, ed ostacola, per la potenza della finzione romanzesca del testo, la percezione di un passaggio teorico necessario perché il viaggio poetico prosegua.
Casella è figura di Guido Cavalcanti poiché nel rapporto con il personaggio Dante ha proiettato quella solidarietà di poetica con l’amico che
segna profondamente la sua traiettoria fino alla rottura che si produce a
partire dalla apparizione di Donna me prega. Casella rappresenta, in un
senso che ora vedremo, il Cavalcanti che Dante amò fino alla Vita nuova,
e del quale riconobbe ed osservò il magistero fino a quando Guido, in
Donna me prega, sconfessò in modo perentorio e radicale il teologismo
propugnato nel libello. Proprio alla Vita nuova, in effetti, dobbiamo ri40
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correre per apprezzare nella sua intensità e nella sua allusività il vocativo
affettivo con cui Dante apostrofa il musicista (v. 91): «Casella mio». Questo possessivo appare in quattro delle cinque occasioni in cui Guido viene
chiamato in causa nella Vita nuova:
III, 14: tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de
li miei amici.
XXIV, 3: una gentile donna, la quale era di famosa bieltade, e fue
già molto donna di questo primo mio amico.
XXV, 10: E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli
che così rimano stoltamente.
XXX, 3: E simile intenzione so ch’ebbe questo mio primo amico
a cui io ciò scrivo, cioè che li scrivessi solamente volgare.
L’analisi delle rime del canto conferma la massiccia presenza in esso
di Guido. In Io non pensava che lo cor giammai troviamo le rime «morte»
(v. 4: «mostrando per lo viso agli occhi morte»), «forte» (v. 8: «ché troppo
è lo valor di costei forte»), «morta» (v. 26: «ch’è posta in vece di persona
morta»), «accorta» (v. 28: «e non si n’è madonna ancora accorta»). E
quindi in Dante (vv. 66-69):
per altra via che fu sì aspra e forte,
che lo salire omai ne parrà gioco».
L’anime, che si fuor di me accorte,
per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,
maravigliando diventaro smorte.
Si consideri ora la prima rima del sonetto di Guido a Dante I’ vegno ‘l
giorno a te:
I’ vegno ‘l giorno a te ‘nfinite volte
e tròvoti pensar troppo vilmente:
molto mi dòl della gentil tua mente
e d’assai tue virtù che ti son tolte.
Solevanti spiacer persone molte;
tuttor fuggivi l’annoiosa gente;
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di me parlavi sì coralemente,
che tutte le tue rime avìe ricolte.
E si consideri anche la prima rima del sonetto (con ogni probabilità diretto a Dante)7 Certo non è de lo ‘ntelletto acolto:
Certo non è de lo ‘ntelletto acolto
quel che staman ti fece disonesto:
or come già, [‘n] men [che non] dico, presto
t’aparve rosso spirito nel volto?
Sarebbe forse che t’avesse sciolto
Amor da quella ch’è nel tondo sesto?
o che vil razzo t’avesse richesto
a te por lieto ov’i’ son tristo molto?
E si veda come esse risuonino nell’episodio di Casella (vv. 88-102):
Rispuosemi: «Così com’io t’amai
nel mortal corpo, così t’amo sciolta:
però m’arresto; ma tu perché vai?».
«Casella mio, per tornar altra volta
là dov’io son, fo io questo vïaggio»,
diss’io, «ma a te com’è tanta ora tolta?».
Ed elli a me: «Nessun m’è fatto oltraggio
se quei che leva quando e cui li piace,
più volte m’ha negato esto passaggio;
ché di giusto voler lo suo si face:
veramente da tre mesi elli ha tolto
chi ha voluto intrar, con tutta pace.
Ond’io, ch’era a la marina vòlto
dove l’acqua di Tevere s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto».
In Poi che di doglia cor conven ch’io porti, stanza di canzone celebrata
nel De vulgari (II, VI) in una serie nella quale appare anche Amor che
nella mente, la seconda rima viene a sua volta riecheggiata, in tre elementi, nei versi 61-66:
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Poi che di doglia, 1-8:
Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti
e senta di piacere ardente foco
e di virtù mi traggi’ a sì vil loco,
dirò com’ho perduto ogni valore.
E dico che’ miei spiriti son morti,
e ‘l cor che tanto ha guerra e vita poco;
e se non fosse che ‘l morir m’è gioco,
fare’ne di pietà pianger Amore.
Purgatorio II, 61-66:
«Voi credete
forse che siamo esperti d’esto loco;
ma noi siam peregrin come voi siete.
Dianzi venimmo, innanzi a voi un poco,
per altra vis, che fu sì aspra e forte,
che lo salire omai ne parrà gioco».
Si tratta di indizi formali ed affettivi che inequivocabilmente rivelano
la presenza del ‘primo amico’ in questo episodio iniziatico, nel quale
Dante torna a fare i conti con lui, dopo il tragico scontro di Inferno X, ma
in una prospettiva molto più pacata, in cui gli elementi di complicità
hanno il sopravvento su quelli di frattura e la polemica, persa ogni punta
di acredine, si colora di nostalgia.
Del pressocché sconosciuto musicista che qui agisce come controfigura
di Guido, tutti i dettagli dell’incontro, dallo stupore delle anime nei confronti del corpo vivo di Dante fino al conclusivo dispiegarsi del canto di
Amor che nella mente, importano in quanto rievocano e, certo, continianamente superano, quella solidarietà di affetti e di poesia che, nella prospettiva del poeta maturo impegnato nella impresa della Commedia, non
hanno perso alcunché dell’antico valore esistenziale ed ideale: momento
della propria traiettoria superato, ma non per questo meno essenziale alla
storia di sé che l’io racconta.
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Un clamoroso segnale di ingresso in area cavalcantiana, con preciso
riferimento ad Inferno X, lo abbiamo nello stupore delle anime che vedono Dante respirare. A partire dal canto successivo sarà l’ombra di Dante
a segnalare ai penitenti che è vivo. Qui, quando il sole non è ancora sorto,
è la respirazione del protagonista che ne rivela l’esistenza materiale. E le
anime reagiscono con stupore, impallidendo atterrite, come reagirebbero
sulla terra dei vivi scoprendo che un corpo apparentemente vivo è in realtà
un cadavere. Le false aspettative circa la vita e la morte delle persone agiscono sulle anime del Purgatorio come già fecero su Cavalcante nell’Inferno relativamente al figlio, e come sistematicamente agiscono su Guido,
che in poesia descrive se stesso come un agonizzante: «Quando di morte
mi convien trar vita», scrive per esempio. Ed è confusione tipica di chi
crede che la vita personale si esaurisca nelle emozioni del corpo e negli
affetti terreni (come appunto Guido e, in generale, gli ‘epicurei’ del sesto
cerchio dell’Inferno). Ciò che ora sorprende il lettore, rispetto ad analoghe
situazioni del Purgatorio, è il fatto che né Virgilio né Dante diano spiegazioni. Anzi, chi sembra vittima dell’equivoco è piuttosto Dante che, riconosciuto ed abbracciato, abbraccia a sua volta e, non stringendo nulla,
«Di maraviglia … si dipinse». Casella sorride, ostentando una consapevolezza del suo nuovo stato più lucida di quella del protagonista. D’altra
parte, come Dante mostra di essere estremamente sensibile agli affetti terreni, così Casella dichiara senza problemi che il suo amore per Dante è,
da morto, esattamente come quello che sentì da vivo. Lungi dall’aver allontanato quegli affetti da sé, come ha solennemente dichiarato Catone nel
canto precedente,8 Casella e Dante continuano ad essere legati al corpo ed
alle emozioni; la nuova dimensione esistenziale non è ancora stata interiorizzata ed entrambi si amano come se, avendo ancora un corpo, le passioni di esso fossero l’unico orizzonte esistenziale dell’anima.
Che si tratti qui della stessa problematica relativa al rapporto anima /
corpo già affrontata nel canto X, ed in preciso riferimento alla poetica di
Guido, che qui Dante riconosce, sia pur provvisoriamente, come anche
sua, lo dimostra una delle cruces dell’episodio, che immediatamente si
chiarisce se vi si legge in trasparenza la questione cronologica che funge
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‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
da pretesto romanzesco in Inferno X. Lì di Guido viene confusa la vita con
la morte perché il suo decesso cade nella zona d’ombra del presente che
sfugge alla percezione dei dannati. Qui fra la scomparsa di Casella, morto
da più di tre mesi, e la sua apparizione nel Purgatorio intercorre un periodo
di tempo nel quale egli risultava non più vivo (perché scomparso dalla
terra) e non ancora morto (perché non ancora apparso nell’al di là). Dante
ripropone, nei due episodi, lo stesso schema di un interregno metafisico,
soggettivo in un caso oggettivo nell’altro, in cui non si è né vivi né morti,
in cui i confini, apparentemente così chiari, fra la vita e la morte si sfrangiano e diventano opachi: «Quando di morte mi convien trar vita». I «tre
mesi» e più che Casella è restato in attesa del trasbordo corrispondono
idealmente ai cinque mesi circa che intercorrono fra il viaggio di Dante e
la morte di Guido (29 agosto del 1300). In entrambi i casi sono enigmatiche leggi dell’al di là quelle che determinano la confusione, in chi ne è
ignaro, fra morte e vita. Ma di questa confusione Guido era stato, in sede
poetica, il teorico, e Dante ne aveva fino ad un certo momento condiviso
le implicazioni.
Il riproporsi di una situazione analoga a quella di Inferno X viene poi
indicato fra le righe attraverso «l’inatteso uso di cui in luogo di chi in Pg.
II, 95, ove il pronome funge da soggetto: quei che leva quando e cui li
piace» (Ambrosini 1965). L’uso (raro) della forma obliqua per la funzione
di soggetto della relativa è, lì, nelle parole del personaggio-Dante, causa
dell’errore in cui cade Cavalcante: «forse cui Guido vostro ebbe a disdegno» (Pinto 2000-2001). Qui tale uso stabilisce innanzitutto un preciso riferimento a quell’episodio, e poi allude ad una questione squisitamente
filosofico-teologica come è la posizione oggettiva e non soggettiva dell’io
personale nella conoscenza secondo gli averroisti.9 Tale figura grammaticale è pertinente alla poetica di Guido perché proprio il suo averroismo,
cioè la frattura fra anima razionale e anima sensibile, gli impedisce di
aderire alle razionalizzazioni dell’eros che Dante propugna attraverso il
suo teologismo. Nella situazione descritta da Casella, l’anima è semplice
oggetto del volere divino, che l’angelo ‘galeotto’ rappresenta; e la forma
‘cui’ esprime, forzando l’uso grammaticale, questa radicale oggettività. I
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diritti del soggetto, quindi il suo libero arbitrio, vengono riconosciuti a
partire da un certo momento (cioè a partire dalla promulgazione del Giubileo). E tale riconoscimento implica anche il ripristino della norma grammaticale: «chi ha voluto intrar» (v. 99). Il fatto che Casella abbia tardato
almeno tre mesi a far uso della sua libertà di salire a bordo può solo indicare la pigrizia morale di chi è troppo legato agli affetti terreni per desiderare davvero di staccarsene definitivamente. Tale pigrizia è però anche
segno di una equivalenza ed analogia con il ‘disdegno’ che, per errore,
ma non per caso, Cavalcante attribuisce al figlio: come questi ha (o
avrebbe) sdegnato Beatrice e il suo teologismo, il che gli impedisce di
fare il viaggio che sta invece facendo Dante, così Casella ha sdegnato (per
più di tre mesi) l’imbarco che gli avrebbe permesso di raggiungere l’isola
del Purgatorio. Incomprensibile da qualunque punto di vista, la renitenza
di Casella diventa immediatamente chiara se leggiamo in lui un ‘doppio’
di Guido, e se, parallelamente, leggiamo nell’angelo un ‘doppio’ della
Beatrice che nel canto X lo «ebbe a disdegno», essendo a sua volta da lui
disdegnata: dell’angelo nocchiero infatti sappiamo da Virgilio che «sdegna li argomenti umani» (v. 31) e da Casella che «più volte m’ha negato
esto passaggio» (v. 96). Il rapporto fra l’angelo e Casella riproduce (perfino nella grammatica, come abbiamo visto con il pronome ‘cui’) il rapporto fra Beatrice e Guido: disdegno dell’angelo nei confronti di Casella
(finché può, gli rifiuta l’imbarco), disdegno di Casella nei confronti dell’angelo (quando potrebbe imbarcarsi, rifiuta di farlo).
La richiesta di Dante di un ‘amoroso canto’ che consoli l’anima deve
essere interpretata, credo, alla luce della ballata In un boschetto trova’pasturella. La funzionalità di tale testo cavalcantiano, nel Purgatorio, è stata
ben osservata a proposito di un altro luogo, che ha però notevolissimi addentellati con quello che stiamo analizzando. Si tratta dei canti XXVIIXXIX. Prima Lia e poi Matelda sono caratterizzate, cavalcantianamente,
come donne innamorate che cantano, e il significato di questo ritorno al
canto profano, nel segno di Cavalcanti, è stato perfettamente ricostruito
da Chiara Cappuccio (2005: 71):
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RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
Che Matelda rappresenti la sintesi positiva tra due tipi distinti di intonazioni melodiche (quella sacra e quella profana) viene confermato dall’inizio del canto XXIX. Con una esplicita citazione
cavalcantiana l’incipit del canto suggella l’incontro tra le due diverse attitudini musicali:
Cantando come donna innamorata,
continüò col fin le sue parole
Beati quorum tecta sunt peccata!
L’incarnazione femminile della felicità edenica, che prima aveva
cantato, o probabilmente solo citato, il salmo 91, ora sicuramente
canta il salmo 31,1 e lo fa come ‘donna innamorata’, sintetizzando
nella sua intonazione le qualità incantatorie dell’amoroso canto di
Casella e quelle positive ed operose collegate alle melodie liturgiche.
Gli elementi della ballata che traspaiono nell’‘amoroso canto’ di Casella sono numerosi: l’associazione del canto con l’innamoramento (v. 7:
«cantava come fosse innamorata»), il contatto fisico che indica l’intensità
degli affetti, sessuali in un caso amichevoli nell’altro (vv. 19-20: «Merzé
le chiesi sol che di basciare / ed abracciar, – se le fosse ‘n volere»), la
‘voglia amorosa’ come movente della poesia (v. 21: «Per man mi prese,
d’amorosa voglia»), infine la dolcezza come segnale di felice appassionamento (vv. 25-26: «e tanto vi sentìo gioia e dolzore, / che ‘l die d’amore
– mi parea vedere»).
Tali riferimenti alla ballata cavalcantiana suggeriscono che il grande
problema storiografico suscitato da questo canto, e cioè il rapporto fra
musica e poesia, deve essere posto su un piano che non è quello documentario (si musicavano o no le canzoni di Dante?) ma bensì quello dottrinale relativo al significato che ha la musica nei vari saperi del tempo,
grazie al quale è possibile ricostruire il senso simbolico che ha qui la musica. Fra le piste possibili, quella che a me sembra più produttiva, per intendere il rilievo che in questo canto ha Cavalcanti, è quella medica, che
include la musica (un certo tipo di musica) fra le terapie dell’amor heroicus, una delle specie della alienatio mentis definita melancholia. «Rimedio quasi omeopatico» (Cappuccio 2005: 60), la musica è in grado di
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esercitare un effetto paragonabile alla soddisfazione del desiderio sessuale, la cui tensione, nell’innamorato, viene in questo modo allentata
(Dante dice «che mi solea quetar tutte mie voglie» e Benvenuto glossa:
«cantus solebat sedare mihi passiones amoris»).
Si osservi, nei trattati, la prescrizione circa la dolcezza del canto:10
Halyabbas: «Sonos audiant graves sed dulces, ut citharas lirasque».
Avicenna: «Et quidam homines sunt quos sanat laetitia et auditus cantilenae».
Arnau de Vilanova: «Incessus iterum per viridaria seu prata virentia, florum varietate distincta multiplici, necnon et musicalium cantus, seu instrumentorum suavitas».
E si veda ora la ‘ragione’ che nella Vita nuova (XII) accompagna il
testo Ballata, i’ voi che tu ritrovi Amore (nella quale è presente un «dolze
sono», v. 15, e una «nota soave», v. 38):
Queste parole fa che siano quasi un mezzo, sì che tu non parli a lei
immediatamente, che non è degno; e no le mandare in parte, sanza
me, ove potessero essere intese da lei, ma falle adornare di soave
armonia, ne la quale io sarò tutte le volte che farà mestiere.
Come osserva De Robertis nel suo commento, «la musica è segno della
presenza di Amore», il che fuor di metafora significa che il desiderio del
poeta avrà un efficace alleato nella melodia, il cui potere di penetrazione
nell’anima della ascoltatrice dovrebbe rimuoverne la ostilità.
La musica profana che Dante ascolta nel Purgatorio è quindi segno materiale del contenuto specificamente passionale dell’eros, quel contenuto
che proprio Guido aveva teorizzato come dimensione ineludibile del desiderio, e che Dante aveva condiviso fino all’esperimento di sublimazione
e razionalizzazione della Vita nuova. La musicabilità della ballata, nel libello, certo solo metaforica, rappresenta effettivamente una fase arcaica
della poesia di Dante e, in generale, della lirica romanza. Ma arcaico è appunto l’accompagnamento musicale dei testi lirici, il cui divorzio dalla
48
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
melodia, nei Siciliani, è funzionale ai nuovi contenuti speculativi che la
poesia d’amore interiorizza. In Cavalcanti e nel primo Dante la musica
strumentale non è certo una modalità effettiva di esecuzione dei loro
testi.11 Essa è, oltre che melodismo del significante lirico, semplicemente
metafora di quella concezione puramente sensuale e patologica del desiderio di cui entrambi approfondiscono gli aspetti dottrinali e figurativi. E
come metafora infatti appare nei testi di entrambi. È di tale concezione
che deve essere consumato il superamento nell’episodio di Casella (salvo
il suo recupero finale in altra dimensione, quella edenica), trattandosi di
una concezione che ha segnato la poesia di Dante tanto quanto quella di
Guido, come il poeta lealmente riconosce. In Purgatorio II Dante lascia
dietro di sé innanzitutto una concezione arcaicamente melodica della poesia, i cui nuovi contenuti di verità (filosofica o di altro tipo) sono incompatibili con l’esecuzione canora del testo. Il canto resta giustificato e
riservato alla esperienza religiosa (nelle diverse modalità che assume nel
Purgatorio e nel Paradiso). Viene invece modernamente escluso dalla
esperienza lirica. Ciò significa, però, anche depurare la poesia di quei
contenuti intensamente passionali di cui la musica è segno e veicolo, e
quindi tornare a fare i conti con Guido e con quella parte della propria
traiettoria letteraria che da Guido strettamente dipende.
4. La struttura di Amor che nella mente ricalca in modo pedissequo
quella di Donne che avete intelletto d’amore (con le eccezioni del proemio
e del congedo), e ribadisce il concetto chiave dell’altra canzone, e cioè la
portata universale (e non riservata al solo Dante) del potere innamorante
e beatificante di lei.12 Tanto che si potrebbe perfettamente pensare che fu
scritta per Beatrice. Se è stata scritta per la donna gentile (come sostiene
il Convivio), questa dovrà senz’altro essere identificata con il personaggio
femminile che appare nella Vita nuova e non con una entità allegorica (la
filosofia), come vuole il trattato. Al riguardo mi sembra troppo debole
l’unico solido indizio che viene addotto dai sostenitori della tesi allegorica, cioè la citazione da Proverbi 8, 23, in cui la Sapienza dice di se stessa
«Ab aeterno ordinata sum» (a proposito del verso «però fu tal da etterno
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ordinata», v. 54), che però rientra nella serie delle iperboli teologiche con
cui viene normalmente descritta Beatrice. E comunque risulterebbe decisamente insensato, se questa donna fosse in astratto la Filosofia, ciò che
il testo dice nei versi 68-70: «Però qual donna sente sua bieltate / blasmar
per non parer queta e umile, / miri costei ch’è essemplo d’umiltate». Si
tratta qui, con ogni evidenza, di una variazione sul tema della umiltà di
madonna, tante volte trattato da Guido e da Dante (per esempio, in Chi è
questa che vèn: «cotanto d’umiltà donna mi pare, / ch’ogn’altra ver’ di lei
i’ la chiam’ira»).
Ma la questione della destinataria delle lodi che celebra la canzone è relativamente secondaria rispetto ad altra questione, e cioè l’epoca in cui fu
scritta. Più in particolare, dovremmo poter collocare la stesura della canzone rispetto al momento di svolta nella poetica di Dante costituito dalla
polemica Vita nuova-Donna me prega.13 C’è innanzitutto un elemento testuale interno alla canzone che gioca decisivamente a favore dell’ipotesi
che essa fu scritta prima del libello, e quindi quando la rottura con Guido
non si era ancora prodotta. Lo ha messo in evidenza Domenico De Robertis nel suo commento a Vita nuova XIX, 20:
Questa seconda parte (vv. 52-56 di Donne che avete) si divide in
due: che ne l’una dice de li occhi, li quali sono principio d’amore;
ne la seconda dico de la bocca, la quale è fine d’amore.
Osserva lo studioso:
50
De li occhi … de la bocca: questa distinzione, ripresa del resto ampiamente (e giustificatamente) in XXI, 5 e le relative definizioni
non trovano riscontro nella canzone, dove al massimo sono riconoscibili, vv. 51-56, i segni del ‘principio d’amore’; e infatti Dante
non indica ‘dove’ si cessa di parlare degli occhi e si comincia a
parlare della bocca. Di occhi e riso (altra ‘operazione’ della bocca,
come conferma XXI, 8) parla invece l’altra canzone della lode
Amor che ne la mente, 57, e la distinzione è puntualmente registrata in Conv. III, VIII, 8; ed è possibile che il nuovo testo (complice anche la somiglianza, per esempio, del seguente v. 61 col v.
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
56 della canzone presente) abbia fatto aggio su quello in oggetto
(ciò che implicherebbe che Amor che ne la mente fosse già scritta
alla data di composizione della Vita nuova), con riflesso a sua volta
dalla Vita nuova al commento del Convivio.
Sul piano teorico (la concezione dell’amore) c’è poi un argomento che
esclude una stesura successiva a quella polemica. La risposta di Dante a
Donna me prega è la canzone Amor che movi tua virtù dal cielo, che implica un sostanziale mutamento di messa a fuoco del fenomeno del desiderio, che non è più, semplicemente, esperienza psicologica ma prima di
tutto energia metafisica.14 Alle obiezioni ‘averroiste’ dell’amico (che mettono in discussione il teologismo del libello), Dante risponde con controdeduzioni di tipo neoplatonico che riconfermano la natura positiva del
desiderio, ma su un piano che non è più quello della divinizzazione del
suo oggetto (il fantasma femminile) ma la identificazione dell’eros con la
energia cosmica emanante dall’uno divino (quale essa è descritta nel Liber
de causis). Sebbene da questa identificazione venga dedotto un positivo
capovolgimento dei contenuti razionali dell’immaginario erotico,15 nella
ostilità della giovane donna bisogna anche vedere il riconoscimento, in
una certa misura, della legittimità delle obiezioni dell’amico. E infatti la
poesia di Dante a partire da Amor che movi abbandona il mito di Beatrice
e si orienta verso tematiche di ordine politico e verso un rinnovato sentimento doloroso dell’amore (il ciclo della pargoletta e le petrose). Rispetto
a tale svolta, Amor che nella mente rappresenta un momento anteriore, in
cui ciò che conta è ancora la natura spirituale dell’oggetto di desiderio e
non l’energia metafisica del desiderio stesso (indipendente dalla donna
che ne è, semplicemente, occasionale mediatrice).
Sul piano dei contenuti di pensiero, se si tiene conto del rapporto di
anteriorità rispetto ad Amor che movi, la intenzione mistificatoria delle
argomentazioni del Convivio relative ad Amor che nella mente, risulta ancora più evidente. Si legga la definizione di Amore in III, II, 3-9 (corsivi
miei):
51
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Amore, veramente pigliando e sottilmente considerando, non è
altro che unimento spirituale de l’anima e de la cosa amata; nel
quale unimento di propia sua natura l’anima corre tosto e tardi, secondo che è libera o impedita. E la ragione di questa naturalitade
può essere questa. Ciascuna forma sustanziale procede da la sua
prima cagione, la quale è Iddio, sì come nel libro Di Cagioni è
scritto, e non ricevono diversitade per quella, che è semplicissima,
ma per le secondarie cagioni e per la materia in che discende. Onde
nel medesimo libro si scrive, trattando de la infusione de la bontà
divina: «E fanno[si] diverse le bontadi e li doni per lo concorrimento de la cosa che riceve». Onde, con ciò sia cosa che ciascuno
effetto ritegna de la natura de la sua cagione – sì come dice Alpetragio quando afferma che quello che è causato da corpo circulare
ne ha in alcuno modo circulare essere –, ciascuna forma ha essere
de la divina natura in alcun modo: non che la divina natura sia divisa e comunicata in quelle, ma da quelle è participata per lo modo
quasi che la natura del sole è participata ne l’altre stelle. E quanto
la forma è più nobile, tanto più di questa natura tiene; onde l’anima
umana, che è forma nobilissima di queste che sotto lo cielo sono
generate, più riceve de la natura divina che alcun’altra. E però che
naturalissimo è in Dio volere essere – però che, sì come ne lo allegato libro si legge, «prima cosa è l’essere, e anzi a quello nulla
è» –, l’anima umana essere vuole naturalmente con tutto desiderio;
e però che ‘l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva,
naturalmente disia e vuole essere a Dio unita per lo suo essere fortificare. E però che ne le bontadi de la natura [e] de la ragione si
mostra la divina, viene che naturalmente l’anima umana con quelle
per via spirituale si unisce, tanto più tosto e più forte quanto quelle
più appaiono perfette: lo quale apparimento è fatto secondo che la
conoscenza de l’anima è chiara o impedita. E questo unire è quello
che noi dicemo amore, per lo quale si può conoscere quale è dentro
l’anima, veggendo di fuori quelli che ama.
Il perno teorico del discorso è rappresentato dalla cosmologia del De
Causis, che deduce dall’uno divino, per successive emanazioni, innanzitutto le intelligenze celesti e poi il mondo sublunare, attraverso un processo di influenze dalla ‘causa prima’ (che partecipa la sua natura per
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RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
assimilazione e diversificazione delle creature). Il frammento latino tradotto da Dante, nella prima citazione dal De Causis, è il seguente (XX,
158): «Et diversificantur bonitates et dona ex concursu recipientis». Si
osservi, nel brano del Convivio, l’insistenza sul concetto di bontà (cioè le
bonitates di cui parla il trattato latino). La definizione di Amore, qui, è una
estensione alla gnoseologia e alla psicologia umane della teoria neoplatonica delle influenze: l’anima si unisce a Dio per amore, ossia attraverso
l’adesione ai beni materiali e spirituali che la Causa Prima, a somiglianza
di sé, ha prodotto. Se ora andiamo a verificare in Amor che nella mente
la presenza di questa teoria, osserviamo agevolmente che di essa non c’è
traccia. Ciò che viene lodato non è l’amore che unisce a Dio né le bontà
della natura che Dio ha creato, ma la donna che, divinizzata, funge da
mediatrice fra l’umanità e Dio, ossia la ‘cosa tanto gentil’ che «vede il
sol» (esattamente come Beatrice, che in Donne che avete è «cosa mortal»
il cui splendore arriva fino al cielo, e in Tanto gentile è «cosa venuta da
cielo in terra»). La estensione all’amore della teoria neoplatonica delle
influenze, del tutto assente in Amor che nella mente, è invece la grande
scoperta di Amor che movi, nella quale sono citate e celebrate le bonitates
che procedono dalla Causa Prima e l’influenza amorosa che ne schiude la
bellezza e il desiderio all’io:
Amor che movi tua virtù dal cielo
…
da te convien che ciascun ben si mova
per lo qual si travaglia il mondo tutto,
sanza te è distrutto
quanto avemo in potenza di ben fare.
…..
Dunque, signor di sì gentil natura
che questa nobiltate
ch’aven qua giuso e tutt’altra bontate
leva principio della tua altezza…
Mentre in Amor che movi l’amore è virtù che dal cielo discende direttamente nel soggetto («Fèremi ne lo cor sempre tua luce», v. 16) indu53
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cendolo a «rimirar ciascuna cosa bella» (v. 22), e la donna è solo oggetto
inconsapevole del suo innamoramento, in Amor che nella mente la virtù
divina discende in lei, che per questo può essere paragonata ad un angelo
(vv. 37-38):
In lei discende la Virtù divina
sì come face in angelo che ·L vede.
L’idea d’amore che il Convivio descrive implica la incorporazione, nel
sistema, della teoria delle influenze del De Causis, incorporazione che
non era ancora avvenuta all’altezza di Amor che nella mente, sul cui testo
viene anacronisticamente proiettato a posteriori un sapere filosofico ad
esso estraneo. Tutto ciò mostra con evidenza che la donna di cui parla la
canzone non può essere la filosofia, perché la scoperta del significato filosofico dell’amore (che Dante deduce dal De Causis) non si era ancora
prodotta!
Scritta prima della stesura del libello, la canzone rientrerebbe quindi
nella poetica della lode di madonna, da affiancare a Donne che avete (se
scritta prima della morte di Beatrice) oppure a Voi che ‘intendendo (se
scritta dopo la morte di Beatrice). Se però, come credo, il personaggio
della ‘donna gentile’ deve la propria esistenza immaginaria e letteraria
alla sua funzione di rivale di Beatrice, e vive, quindi, di luce riflessa rispetto alla gentilissima, della quale occupa il luogo, nel desiderio del
poeta, dopo la morte di lei (come leggiamo in L’amaro lagrimar che voi
faceste e in Voi che ‘ntendendo),16 allora Amor che nella mente, in cui
non appare alcun conflitto fra una viva e una morta, deve essere collocata
fra le rime per Beatrice, accanto a Donne che avete, prima che Beatrice
muoia e quindi prima che si profili una antagonista viva alla amata morta.
Si tratterebbe cioè di un momento di crisi e di chiarimento interno alla
poetica della lode, e prima che questa evolva nella poetica del lutto. Più
precisamente, si tratterebbe di un avvicinamento alle posizioni di Guido
(a partire dalla poetica della lode e con la finalità di rassicurare l’amico
sulla congruenza con la ideologia comune dell’esperimento di razionalizzazione che la lode rappresenta). Con questa canzone Dante vuole di54
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
mostare a Guido che il nuovo mito di Beatrice, cioè il teologismo con cui
Dante si appresta a razionalizzare la esperienza del desiderio, è compatibile con la percezione che del desiderio ha Guido, in un momento in cui
il dialogo fra i due amici è ancora possibile perché le loro posizioni non
si sono ancora radicalizzate (con la Vita nuova e con Donna me prega).
Tale avvicinamento viene manifestato nella prima e nell’ultima strofa,
nelle quali il teologismo delle strofe centrali, che ripete il teologismo erotico di Donne che avete, viene declinato d’accordo con la poetica di
Guido.
5. Sulla contrapposizione di Amor che nella mente mi ragiona alla concezione d’amore di Cavalcanti ha insistito con particolare forza Gennaro
Sasso (2008: 141-146), adducendo argomenti tratti soprattutto dal commento del Convivio. Esclude, però, dalla analisi il congedo della canzone
(pur ammettendo la possibilità che in esso si alluda a Guido). Credo, invece, che proprio il congedo, unitamente al proemio, sia indirizzato precisamente a Cavalcanti, e che riveli da una parte il preciso momento, del
dialogo fra Dante e l’amico, in cui la canzone fu scritta, e dall’altra i motivi per i quali essa viene scelta da Casella per soddisfare il desiderio del
protagonista, in Purgatorio II. Mi soffermerò, per tanto, soprattutto sulla
prima e sull’ultima strofa.
Il cavalcantismo della prima strofa consiste nello sviluppo del tema
caro a Guido della impotenza intellettuale ed espressiva dell’amante nei
confronti dell’oggetto di desiderio:17
Amor che nella mente mi ragiona
della mia donna disïosamente
move cose di lei meco sovente
che lo ‘ntelletto sovr’esse disvia.
Lo suo parlar sì dolcemente sona,
che l’anima ch’ascolta e che lo sente
dice: «Oh me lassa, ch’i’ non son possente
di dir quel ch’odo della donna mia!»
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E certo e’ mi convien lasciare in pria,
s’i’ vo’ trattar di quel ch’odo di lei,
ciò che lo mio intelletto non comprende,
e di quel che s’intende
gran parte, perché dirlo non potrei.
Però, se·lle mie rime avran difetto
ch’entraron nella loda di costei,
di ciò si biasmi il debile intelletto
e ‘l parlar nostro, che non ha valore
di ritrar tutto ciò che parla Amore.
G RUPO T ENZONE
Si osservino le tre negazioni, cioè «le tre dichiarazioni di impotenza»
(De Robertis), sottolineate nel testo, e si comparino con analoghe dichiarazioni di Guido:
Chi è questa che vèn, 12-14:
Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ‘n noi tanta salute,
che propiamente n’avian canoscenza
Io non pensava, 15-18:
Di questa donna non si può contare:
ché di tante bellezze adorna vène,
che mente di qua giù no la sostene
sì che la veggia lo ‘ntelletto nostro.
Veggio negli occhi, 5-12:
56
Cosa m’aven, quand’ i’ le son presente,
ch’i’ non la posso a lo ‘ntelletto dire:
veder mi par de la sua labbia uscire
una sì bella donna, che la mente
comprender no la può, che ‘mmantenente
ne nasce un’altra di bellezza nova,
da la qual par ch’una stella si mova
e dica: – La salute tua è apparita – .
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
Si consideri, poi, che la poetica che Dante rivendicherà in Purgatorio
XXIV, e proprio a proposito di Donne che avete, canzone gemella di Amor
che nella mente, consiste in un atteggiamento espressivo che è esattamente opposto a questo: la novità del ‘dolce stile’ è la perfetta conformità
della parola detta (i modi significandi della grammatica speculativa) alla
parola concepita (i modi intelligendi).18 Il teologismo di Beatrice consiste
anche nella trasparenza della parola che ne loda la virtù. Infatti, in Donne
che avete, è solo uno scrupolo di prudenza quello che impedisce al poeta
di dire fino in fondo il significato della sua esperienza d’amore (vv. 5-8):
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente.
Sostanzialmente estraneo al Dante lirico, il tema della impotenza
espressiva ed intellettuale viene provvisoriamente incorporato nella nuova
ideologia erotica della lode per compiacere l’amico, per inquadrare il teologismo di Beatrice negli schemi dell’amor doloroso che i due poeti condividono, che ammette sì sconfinamenti nel territorio della teologia, ma
solo sul piano del delirio allucinatorio (o, secondo Gianfranco Contini,
«di una teologia adoperata come tropo», 1970: 351) e che consente,
quindi, un uso solo parodico, delirante appunto, dei testi sacri. Tale significato visionario ha il fantasma femminile descritto da Guido nei testi citati, e tale significato Dante attribuisce alla donna della canzone, nel
proemio. Avverte subito, infatti, in apertura del testo: «l’intelletto sovr’esse disvia»; il che significa: «attenzione, ciò che segue è il delirio di
una mente malata».19 Il Convivio commenterà al riguardo (III, III, 13):
«smarrivami, sì che quasi parea di fuori alienato», frase che esprime bene
l’idea medica dell’amore come alienatio mentis e che fornirà, insieme al
verso della canzone, i materiali verbali del terzo verso della Commedia:
«ché la diritta via era smarrita».
Il problema di fondo, su cui Dante e Guido discutono e presto divergeranno, è la plausibilità della razionalizzazione dell’eros, cioè, nei nostri
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termini psicoanalitici, della sublimazione pulsionale: è possibile o no che
l’energia originariamente sessuale della psiche venga dirottata verso fini
moralmente e socialmente utili? Essa, quando «fuor di misura – di natura
– torna», può manifestarsi solo attraverso i sintomi deliranti che descrivono medici e poeti, oppure può essere incanalata verso sublimazioni psichicamente e intellettualmente positive? Finora entrambi sono rimasti
fedeli alla teoria medica del desiderio: si tratta di una alienazione della
mente che distorce la percezione del reale potenziando enormemente l’immaginazione, ed alimentando quindi, come nessun’altra esperienza sensibile, la ispirazione poetica. La ‘fedeltà’ di Dante a questo modello
teorico la vediamo chiaramente nelle canzoni La dispietata mente che pur
mira, Lo doloroso amor che mi conduce, E’m’incresce di me sì duramente
(tutte anteriori alla poesia della lode), nelle quali l’io si mostra agonizzante per la crudeltà della donna. Rispetto a tale modello Donne che avete
e i sonetti che la accompagnano rappresentano, invece, un salto in avanti.
Il loro teologismo, pur essendo metaforico o parodico, è teoricamente
plausibile (per chi crede in Dio e nei miracoli), ed implica quindi una ipotesi di razionalizzazione e sublimazione dell’eros che la prosa del libello
contribuirà potentemente a verificare. Guido forse espresse le sue perplessità a Dante e gli chiese fino a che punto la nuova Beatrice (così diversa da quella che in Lo doloroso amor che mi conduce condanna a
morte il poeta) sia riconducibile agli schemi della comune poetica dell’amor doloroso: lettori ingenui non prenderanno sul serio questo misticismo erotico e scambieranno il nuovo fantasma sessuale per una
teofania? Il misticismo parodico finora utilizzato dai due amici non rischia
di essere preso sul serio, e scambiato per reali illuminazioni divine? È
nell’ambito di questa discussione che Dante scrive Amor che nella mente,
in cui riprende il tema della lode, ma declinandolo in un senso che a Guido
risulti accettabile, cioè come esperienza puramente visionaria, un ‘disviare’ dell’intelletto che naufraga nei propri raptus visionari.20
6. Nel congedo, però, Dante si riserva uno spazio nel quale affrontare
globalmente e una volta per tutte (così almeno egli crede) la questione
58
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
del suo rapporto con Guido. Ciò di cui ha bisogno è un modello teorico
grazie al quale risultino compatibili o non necessariamente contraddittori
i due fantasmi femminili, quello ostile dell’amor doloroso e quello benigno della donna della salute (quindi il ‘disdegno’ e l’‘umiltà’ di lei). A
tale scopo invoca la testimonianza di un altro testo, nel quale l’immagine
di donna sia inequivocabilmente negativa, e lo compara con la canzone
che sta scrivendo:
Canzone, e’ par che tu parli contraro
al dir d’una sorella che tu hai,
ché questa donna che tanto umil fai
ella la chiama fera e disdegnosa.
Tu sai che ‘l ciel sempr’è lucente e chiaro,
e quanto in sé non si turba gia mai;
ma li nostri occhi per cagioni assai
chiaman la stella talor tenebrosa.
Così, quand’ella la chiama orgogliosa,
non considera lei secondo il vero,
ma pur secondo quel che·llei parea;
ché l’anima temea
e teme ancora, sì che mi par fero
quantunque io veggio là v’ella mi senta.
Così ti scusa, se ti fa mestiero,
e quando pòi, a·llei ti rapresenta,
e di’: «Madonna, s’elli v’è a grato,
io parlerò di voi in ciascun lato.
L’allusione alla ballata Voi che savete ragionar d’amore (comunque
già richiamata dal primo verso della canzone: «Amor che nella mente mi
ragiona») è di estrema importanza nella biografia poetica di Dante, poiché
costituisce (se la cronologia che qui propongo è plausibile) l’atto di nascita di quell’atteggiamento autoesegetico che accompagnerà poi il poeta
tutta la vita. La necessità di autointerpretarsi, di rileggersi alla luce di mutate esigenze espressive ed ideologiche, è qui per la prima volta documentata, e rivela qui le sue cause profonde, cioè la necessità del suo
insorgere. È Guido che obbliga Dante a prendere partito nei confronti in59
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nanzitutto di lui, ma poi anche di se stesso. Alla domanda «Beatrice deve
essere letta come allucinazione di desiderio o come santa inviata dal
cielo?», Dante risponde chiamando in causa un testo che riproduce (ai limiti della parodia) la poetica di Guido, cioè la ballata Voi che savete ragionar d’amore, che innanzitutto cita una ballata dell’amico, I’ prego voi
che di dolor parlate, e poi riassume la concezione dolorosa di questi insistendo su una parola chiave, ‘disdegno’, il cui lessema appare nel testo
ben quattro volte.21 Dante rappresenta, nella ballata, una donna sdegnosa
ed ostile come i fantasmi femminili che Guido e lui stesso hanno fin qui
raffigurato, e si distanzia sottilmente dall’amico solo nello stile, all’inizio,
inchiodando il destinatario al suo ruolo di ascoltatore («Voi che savete
ragionar d’amore, / udite la ballata mia pietosa, / che parla d’una donna
disdegnosa / la qual m’ha tolto il cor per suo valore»), a differenza di
Guido, che umilmente prega il destinatario di non negargli udienza («I’
prego voi che di dolor parlate / che, per vertute di nova pietate, / non disdegniate – la mia pena udire»), ed alla fine, prefigurando una rivincita nei
confronti della donna, per la quale il ‘disdegno’ di lei sarà rimosso dalla
forza del suo desiderio:
Ma quanto vuol nasconda e guardi lui
ch’io non veggia talor tanta salute,
però che’ miei disiri avran vertute
contra ‘l disdegno che mi dà tremore,
a differenza di Guido, nel quale un atteggiamento positivo ed energico
come questo sarebbe impensabile. In questi conati ‘aggressivi’ sia nei
confronti del destinatario che nei confronti della donna noi avvertiamo
certo la violenza verbale del temperamento di Dante (così diverso dalla
narcisistica fragilità psichica di cui fa sfoggio Guido), ma è chiaro che
Dante sta qui comunque rendendo omaggio all’amico, identificando nel
disdegno di lei la cifra della sua poetica, che anche lui in fondo condivide,
almeno nei presupposti ideologici, se non nello stile.
Tutto ciò bisogna tener presente quando, in Amor che nella mente, leggiamo l’allusione alla ballata, allusione che sostanzialmente significa:
60
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
«Beatrice non è un fantasma femminile diverso, in sé, da quelli che finora
io e te abbiamo trattato». Il ragionamento che svolge Dante è chiarissimo.
Innanzitutto identifica la donna della ballata con quella della canzone.
Quindi: non sono donne diverse. Poi giustifica i differenti effetti che ha
la donna sull’io attraverso una differente percezione soggettiva. L’atteggiamento di questa donna appare benigno o maligno (essa è quindi ‘umile’
o ‘disdegnosa’) a seconda delle condizioni spirituali in cui si trova il soggetto: se l’io è affetto da timore (la ‘paura’, così cavalcantiana) la donna
apparirà ‘disdegnosa’; ma se l’io è sano essa apparirà secondo la sua propia natura, cioè ‘umile’. Si tratta di un modo elegante di risolvere la questione posta da Guido: la donna è in sé oggetto positivo di desiderio (fra
l’altro perché senza di lei non ci sarebbe desiderio) ma la malattia del
soggetto la trasforma in un fantasma ostile, la fa apparire ‘disdegnosa’.
Dante è poi astutissimo nel presentare l’argomento come dedotto dallo
stesso Guido, poiché l’analogia che funge da premessa del sillogismo:
Tu sai che ‘l ciel sempr’è lucente e chiaro,
e quanto in sé non si turba gia mai;
ma li nostri occhi per cagioni assai
chiaman la stella talor tenebrosa,
allude inequivocabilmente alla ballata In un boschetto trova’ pasturella,
il cui secondo verso dice: «più che la stella – bella, al mi’ parere». Dante
dice, in sostanza, che come in Guido la donna assume a volte l’aspetto
crudele di un fantasma ostile e a volte l’aspetto benigno di una compiacente pastorella, così anche in lui la donna a volte si presenta con i tratti
dell’amor doloroso (la Beatrice di Lo doloroso amor che mi conduce) e a
volte i tratti della donna salutifera (la Beatrice di Donne che avete). Certo,
si tratta nella fattispecie di benignità molto diverse, sessuale nel caso di
Guido, pseudoteologica nel caso di Dante. Ma ciò che importa è che,
come Guido, anche Dante si arroga il diritto di cambiare di segno il significato psichico della donna e del desiderio che in essa si proietta. D’altra
parte (e qui percepiamo fino in fondo la soggezione di Dante nei confronti
di Guido, fino alla Vita nuova, e la sua preoccupazione di ottenerne il
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LA BIBLIOTECA DE T ENZONE
G RUPO T ENZONE
nulla osta quando cerca di sperimentare in direzioni diverse da quelle
dell’amico), la conclusione del ragionamento è che l’anima non solo
«temea» (quindi era malata) quando scrisse la ballata, ma «teme ancora»
nel momento di scrivere la canzone, e quindi la donna continua ad apparire «fera e disdegnosa»:
ché l’anima temea
e teme ancora,22 sì che mi par fero
quantunque io veggio là v’ella mi senta.
Il che vuol dire che egli è ancora vittima della malattia quando parla
della nuova Beatrice, ossia sta delirando proprio come delira Guido
quando scrive che dal fantasma della sua donna (Veggio negli occhi, 1012)
ne nasce un’altra di bellezza nova,
da la qual par ch’una stella si mova
e dica: «La salute tua è apparita».
Ciò che Guido sospetta è che la sperimentazione di Dante porti l’amico
ad identificare il desiderio (malattia della mente) con avventure di tipo
mistico-teologico. L’origine patologica della passione verrebbe dissimulata e ‘normalizzata’ sul piano del misticismo visionario (per cui il fantasma di desiderio si trasformerebbe in una santa inviata dal cielo a redimere
l’amante). L’identificazione di Beatrice (cioè la donna della ‘lode’) con la
donna «fera e disdegnosa» della ballata ha la finalità di dissipare i sospetti
di Guido; Dante non ha cambiato ‘donna’, cioè non ha cambiato poetica,
e quindi valgono per questi fantasmi femminili le stesse regole inventive:
sono tutte emanazioni di una mente certo squilibrata dal desiderio, ma
che ha una coscienza lucidissima dei sintomi che mette in versi.
La parte argomentativa del congedo si conclude con un sintagma («là
v’ella mi senta») che merita una attenta riflessione. Nel commento del
Convivio (III, X, 4) Dante dichiara che l’essere sentito da madonna ha un
profondo significato filosofico e teologico:
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RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
E non sanza cagione dico: là v’ella mi senta e non là dov’io la
senta; ma in ciò voglio dare a intendere la grande virtù che li suoi
occhi aveano sopra me: ché, come s’io fossi stato [vetro], così per
ogni lato mi passava lo raggio loro. E quivi si potrebbero ragioni
naturali e sovranaturali assegnare; ma basti qui tanto avere detto:
altrove ragionerò più convenevolmente.
Ciò che va osservata è la variante (ipotizzata dall’autore), nella quale
soggetto e complemento diretto invertono le loro posizioni: «ella mi
senta» / «io la senta». Domenico De Robertis, nella nota corrispondente,
rinvia al proprio commento a Vita nuova XXVII, 5, relativo al verso 13
di Sì lungiamente: «Questo m’avvene ovunque ella mi vede», dove scrive:
ella mi vede … corrisponde, nel nuovo stile [della loda] , al ‘veder
lei’ dello stile antico. Ciò che conferma che l’esperimento poetico
attuale è essenzialmente fondato su conversiones della vecchia
nella nuova materia.
Preziose osservazioni, queste, che dovranno essere tenute nel massimo
conto (e che mettono in evidenza una ulteriore precisa convergenza fra
Amor che nella mente e le rime della lode). Si consideri, però, che l’enunciato «ella mi senta» non solo capovolge analoghi enunciati danteschi.
Esso è anche ‘conversione’ di enunciati cavalcantiani, come quello che
troviamo in Tu m’hai sì piena, 5:
Amor, che lo tuo grande valor sente;
in Perché non fuoro, 4:
Perché non fuoro a me li occhi dispenti
o tolti, sì che de la lor veduta
non fosse nella mente mia venuta
a dir: «Ascolta se nel cor mi senti»?
e in I’ prego voi, 19:
Lagrime ascendon de la mente mia,
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LA BIBLIOTECA DE T ENZONE
G RUPO T ENZONE
sì tosto come questa donna sente.
In tutti questi casi la donna è ‘sentita’ dal poeta (o da sue istanze:
Amore, la mente). Il che significa il suo potere distruttivo, l’influenza letale che ella, con lo sguardo e con la sua presenza reale o immaginaria,
esercita su di lui. L’inversione operata da Dante, per cui è la donna a sentire il poeta, non può non avere un contenuto dialettico nei confronti di
Guido: se nell’amico (e nella sua prima poetica)23 il fatto di sentire la
donna esprime il potere distruttivo di lei, nella seconda poetica di Dante
il fatto che la donna senta il poeta vorrà dire il contrario, e cioè che l’energia dell’io riesce o riuscirà a rimuovere l’ostilità di lei (che è poi l’augurio
dei versi finali della ballata Voi che savete, e, più in generale il tratto ‘energetico’ che meglio caratterizza il temperamento di Dante rispetto a quello
dell’amico).
D’altra parte, delle conversiones segnalate da De Robertis, quella fra
soggetto e complemento diretto (in Sì lungiamente ed in Amor che nella
mente) che scambiano le posizioni rispettive rispetto ad un predicato identico, ha un rilievo tutto particolare, poiché essa risulta operativa anche in
altri luoghi dell’opera di Dante. Per esempio in De vulgari I, V, i, quando
l’autore risponde alla domanda circa il destinatario del primo atto di linguaggio di Adamo:
Opinantes autem non sine ratione, tam ex superioribus quam inferioribus sumpta, ad ipsum Deum primitus primum hominem direxisse locutionem, rationabiliter dicimus ipsum loquentem primum,
mox postquam afflatus est ab Animante Virtute, incunctanter fuisse
locutum. Nam in homine sentiri humanius credimus quam sentire,
dummodo sentiatur et sentiat tanquam homo. Si ergo Faber ille
atque Perfectionis Principium et Amator afflando primum nostrum
omni perfectione complevit, rationabile nobis apparet nobilissimum animal non ante sentire quam sentiri cepisse.
Si osservi la coincidenza fra le «ragioni naturali e sovranaturali» del
Convivio con la ragione «tam ex superioribus quam inferioribus sumpta»,
e poi il fatto che anche nel De vulgari viene posta la alternativa fra due
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RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
soluzioni che implicano lo scambio delle posizioni del soggetto e dell’oggetto (Adamo – Dio): sentiri / sentire. Adamo fu sentito da Dio (e non lo
sentì), in quanto l’esser sentito è più essenzialmente umano che il sentire.
In altro luogo ho indicato che qui e nel Convivio Dante allude ad una questione schiettamente filosofica, se cioè l’uomo sia soggetto oppure oggetto
nel processo conoscitivo (come fa attraverso l’alternativa ‘cui’ / ‘chi’ in
Inferno X e Purgatorio II). Avendo identificato, nel De vulgari, la facoltà
di linguaggio con l’anima individuale («mox postquam afflatus est ab
Animante Virtute, incunctanter fuisse locutum», De vulgari I, V, 1), e poiché del linguaggio la funzione comunicativa viene considerata nel trattato
prioritaria rispetto a quella espressiva o denotativa,24 diventa immediatamente pertinente il problema se nel linguaggio umano sia più essenziale
l’aspetto oggettivo (l’essere ascoltati e compresi da qualcuno) o quello
soggettivo (l’ascoltare e comprendere qualcuno), cioè, in termini di linguistica moderna, la competenza attiva (che corrisponde all’essere ascoltati ossia sentiti) o quella passiva (che corrisponde all’ascoltare ossia al
sentire). Sul piano gnoseologico, a tale questione Tommaso d’Aquino
aveva risposto rivendicando la soggettività del conoscere contro gli averroisti che considerano la persona mero oggetto di conoscenza (nel senso
che l’intelletto agente separato ed universale si serve come di oggetti dei
fantasmi generati dalla sensibilità individuale).25 Dante rivendica come
prioritaria nell’essere umano in quanto tale la competenza attiva del linguaggio. Poiché questa, però, corrisponde all’aspetto oggettivo (l’essere
ascoltati), essa risulta congruente con la prospettiva averroista.
Attraverso la innaturale conversione del soggetto in oggetto, nel congedo di Amor che nella mente, Dante alluderebbe quindi ad un tema
schiettamente averroista che dovrebbe servire a rassicurare Guido sulla
propria fedeltà ai comuni principi: l’apparenza disdegnosa della donna è
l’effetto, proprio come spiega fra le righe il Convivio, del potere (nefasto)
che la donna esercita sull’io, potere che si esprime attraverso il suo (=
dell’io) essere oggetto della azione altrui, ossia, mutatis mutandis, dell’intelletto agente separato che astrae le idee dai fantasmi della sensibilità
(della quale l’io è prigioniero). Ecco allora che la nuova poetica, la lode,
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che inverte il rapporto soggetto-oggetto, presentando la donna come positivo soggetto di trasformazione interiore dell’amante, lungi dal rappresentare un pericolo per l’ortodossia averroista che Guido reclama, ne
costitisce la conferma, poiché traduce nel linguaggio dell’erotismo quell’
oggettività dell’io nel conoscere che è tratto distintivo della gnoseologia
averroista.
Tale lettura (che alla nostra sensibilità risulta forse un po’ arzigogolata,
ma che riflette lo spirito di sottigliezza proprio della scolastica e dei suoi
teorici) è confermata dalla ripresa di questo modulo, cioè lo scambio del
soggetto e dell’oggetto rispetto ad un predicato identico, nel luogo più significativo del dialogo ideale fra Dante e Guido, e cioè il canto X dell’Inferno, in cui non solo viene posta al centro del dibattito la poetica del
disdegno dell’amico, ma viene poi anche utilizzata la figura di conversione del soggetto e dell’oggetto (attraverso l’uso improprio della forma
‘cui’, come si è visto sopra). «Forse cui Guido vostro ebbe a disdegno»:
fu Guido a disdegnare Beatrice o Beatrice a disdegnare Guido? Nella prospettiva della Commedia, nella quale il teologismo già sperimentato nella
Vita nuova ha completamente sgombrato il campo dalle sirene della filosofia e dell’aristotelismo radicale, l’errore interpretativo di Cavalcante,
che scambia il soggetto per l’oggetto, fa sì che egli commetta lo stesso errore che commise Guido nella sua poesia, cioè scambiare la vita con la
morte: «Quando di morte mi convien trar vita».
7. Ma i nessi che legano la canzone e la ballata al canto X dell’Inferno
sono profondi e sostanziali, e possono essere adeguatamente ricostruiti
solo se teniamo conto dei commenti del Convivio al congedo di Amor che
nella mente, non certo per accoglierne le interpretazioni allegoriche, ma
bensì per osservare le suggestioni che fra le righe l’autore propone, facendo un uso spregiudicato di quella plasticità del significato che, sapientemente gestita, gli permette di stabilire associazioni di senso a distanza
ed autointerpretazioni non esplicitate ma solo suggerite ed insinuate.
66
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
Ciò che bisogna inizialmente notare è che il congedo della canzone riceve una interpretazione solo letterale e non allegorica, poiché «per la litterale esposizione assai leggermente qua [cioè sul piano allegorico] si può
ridurre» (III, xv, 19). Fa eccezione un solo sintagma, del quale viene indicato il contenuto allegorico, e cioè la dittologia «fera e disdegnosa» (v.
76), che significherebbe la iniziale incomprensione delle persuasioni e
delle dimostrazioni della filosofia:
è da sapere che dal principio essa filosofia pareva a me, quanto da
la parte del suo corpo, cioè sapienza, fiera, ché non mi ridea, in
quanto le sue persuasioni ancora non intendea; e disdegnosa, ché
non mi volgea l’occhio, cioè ch’io non potea vedere le sue dimostrazioni: e di tutto questo lo difetto era dal mio lato.
Di questa inattendibile autoesegesi l’elemento maggiormente rivelatore
è la determinazione temporale di ciò che è presentato dall’autore come un
evento: Dante non capiva la filosofia ‘dal principio’, cioè all’epoca in cui
scrisse la ballata, quando «ancora non [la] intendea». E quando scrisse la
canzone, invece? La capiva o no? Al riguardo, il testo di Amor che nella
mente è inequivocabile (vv. 85-86):
e teme ancora, sì che mi par fero
quantuqu’io veggio là’v’ella mi senta.
Nella prosa non c’è traccia di questo perdurare delle difficoltà intellettuali del poeta, e se andiamo a cercare nel commento letterale, scopriamo
che neanche lì si fa cenno a questo attuale protrarsi del disdegno della
donna nel momento in cui viene scritta la canzone. Nella spiegazione
della lettera del congedo l’omissione è particolarmente clamorosa per il
fatto che tutti gli altri elementi del testo vengono illustrati con dovizia di
argomenti filosofici, sia per quanto riguarda l’apparente oscuramento
degli astri che per quanto riguarda la psicologia del desiderio. Viene messa
poi in particolare evidenza, come si è già osservato, la inversione di soggetto e oggetto del verso 86, che fa riferimento all’attuale disdegno della
donna. Nessuna allusione, invece, ai perduranti timori del poeta. Riporto
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ampiamente il brano relativo alla ‘stella’ del verso 80 (Convivio III, IX, 1116), perché la sua analisi ci rivelerà strutture di pensiero profonde che
collegano testi ed opere molto distanti nel tempo.
Dopo avere spiegato, seguendo Aristotele e i suoi commentatori, il
‘modo de la vista’, cioè l’anatomia della visione oculare, Dante indica le
cause per le quali la stella, in sé luminosa, può apparire oscura. La prima
è di tipo oggettivo, e dipende dal ‘mezzo’ in cui la stella si trova (il cielo):
Avvegna che la stella sempre sia d’un modo chiara e lucente, e non
riceva mutazione alcuna se non di movimento locale, sì come in
quello De Celo et Mundo è provato, per più ragioni può parere non
chiara e non lucente. Però puote parere così per lo mezzo che continuamente si trasmuta. Trasmutasi questo mezzo di molta luce in
poca luce, sì come a la presenza del sole e a la sua assenza; e a la
presenza lo mezzo, che è diafano, è tanto pieno di lume che è vincente de la stella, e però non pare più lucente.
Si osservi però il tessuto verbale dell’argomentazione. Ho evidenziato
i termini nei quali si percepisce l’eco di moduli cavalcantiani (da Donna
me prega):
Come / diaffan da lume, – d’una scuritate (16-17)
Che fa parere lo piacere certo (58)
Assiso – ‘n mezzo scuro, luce rade (68).
L’intertesto cavalcantiano si giustifica qui non solo perché Donna me
prega utilizza metafore tratte dal campo semantico della luce per spiegare
la natura del desiderio, come fa Dante in Amor che nella mente e nel suo
commento in prosa, ma anche e soprattutto perché proprio a Guido era indirizzata la canzone, e nel Convivio Dante la interpreta avendo di nuovo
di fronte a sé, idealmente, l’amico che, al tempo della canzone, egli cercava di convincere della plausibilità della sua nuova sperimentazione lirica (la poetica della lode). Ed a questi stessi testi Dante ritornerà quando,
nella Commedia, ripenserà il suo rapporto con Guido nel canto X dell’Inferno. Lì, come già qui, la poetica di Guido sarà evocata attraverso imma68
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
gini verbali (e perfino rime) di Donna me prega, in un contesto romanzesco nel quale l’antitesi vita / morte sarà descritta attraverso l’antitesi luce
/ buio.
Alle cause oggettive della apparente oscurità della stella si affiancano
poi ragioni soggettive, e cioè imperfette condizioni dell’organo visivo:
Però puote anche parere così per l’organo visivo, cioè l’occhio, lo
quale per infemirtade e per fatica si transmuta in alcuno coloramento e in alcuna debilitade; sì come avviene molte volte, che per
essere la tunica de la pupilla sanguinosa molto, per alcuna corruzione d’infertade, le cose paiono quasi tutte rubicunde, e però la
stella ne pare colorata. E per essere lo viso debilitato, incontra in
esso alcuna disgregazione di spirito, sì che le cose non paiono unite
ma disgregate, quasi a guisa che fa la nostra lettera in su la carta
umida: e questo è quello per che molti, quando vogliono leggere,
si dilungano le scritture dagli occhi, perché la imagine loro vegna
dentro più lievemente e più sottile; e in ciò più rimane la lettera discreta ne la vista (Convivio III, IX, 13-14).
L’intertesto cavalcantiano è qui la ballata I’ prego voi che di dolor parlate, che come abbiamo visto è a sua volta intertestualmente connessa con
la ballata di Dante Voi che savete. Le allusioni del Convivio si addensano,
in particolare, sull’ultima strofa:
Lagrime ascendon de la mente mia,
sì tosto come questa donna sente,
che van faccendo per li occhi una via
per la qual passa spirito dolente,
che[d] entra per li miei sì debilmente
ch’oltra non puote color discovrire
che ‘l ‘maginar vi si possa finire.
Il disturbo ottico che descrive Guido, conseguenza della malattia mentale dell’amore, viene tradotto da Dante nella malattia della vista che impedisce di percepire la luminosità della stella. E l’apparenza ‘disgregata’
delle cose che tale visione imperfetta produce sembra suggerita dalle psi69
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comachie così caratteristiche di Guido, nelle quali organi e funzioni psicofisiche si separano e scontrano sullo scenario della coscienza turbata.
Il sospetto si conferma se pensiamo ad un sonetto che è imparentato con
la ballata I’ prego voi attraverso un elemento che per Dante ha un valore
essenziale, e cioè il disdegno, non della donna, in questo caso, ma del destinatario. Si tratta di Noi siàn le triste penne sbigottite, antologico per la
sua visione disgregata della soggettività, e che si conclude con una terzina
che sostanzialmente ripete la prima strofa della ballata, esprimendo la richiesta degli strumenti della scrittura, ai quali è stata delegata la voce che
pronuncia il testo, di essere accolti dal destinatario:
I’ prego voi, 1-3:
I’ prego voi che di dolor parlate
che, per vertute di nova pietate,
non disdegniate – la mia pena udire
Noi siàn, 11-14:
Or vi preghiàn quanto possiàn più forte
che non sdegniate di tenerci noi,
tanto ch’un poco di pietà vi miri.
Tanto la ballata quanto il sonetto hanno un rilievo particolare nel corpus
di Guido, poiché mostrano le implicazioni della malattia d’amore sul circuito comunicativo che il testo poetico attiva. L’alienazione del desiderio,
infatti, produce in Guido un indebolimento del rapporto col destinatario
che incrina la esemplarità della esperienza vissuta e riprodotta. Il poeta
viene condannato dall’amore ad un solipsismo espressivo che lo ingabbia
nella sua malattia ed impedisce che l’esperienza venga universalizzata e
condivisa. È questo l’aspetto più ‘moderno’ della poesia di Guido, che
intuisce e racconta le implicazioni dolorose del radicale soggettivismo di
cui il desiderio è causa scatenante. La cifra figurale di tale solipsismo è il
disdegno del destinatario, cioè la paventata indisponibilità, da parte del
lettore, di accogliere, ossia condividere, l’esperienza che il testo narra.26
Il sonetto genialmente rappresenta il disdegno del destinatario come (te70
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
muto) rifiuto di accogliere presso di sé gli strumenti della scrittura che
hanno abbandonato il poeta agonizzante. Sonetto e ballata, poi, deducono
il disdegno del destinatario dal disdegno (ossia la crudeltà) della donna.
L’atteggiamento di Dante nei confronti del destinatario dei suoi testi è
diametralmente opposto a quello di Guido. Non dobbiamo aspettare la
Commedia e i suoi appelli al lettore per osservare che Dante ‘ammaestra’
il suo pubblico, cioè si dispone nei suoi confronti come un maestro nei
confronti dei suoi alunni (o come illuminato profeta di divine verità). La
ballata Voi che savete è un ottimo esempio di questo atteggiamento energicamente didattico che, lungi dal chiedere timidamente udienza (come fa
Guido: «I’ prego voi … che non disdegniate udire»), la impone senza cerimonie («Voi che savete … udite!»). E si tenga presente che entrambi si
rivolgono non a un uditorio indiscriminato, ma a gente del mestiere, professionisti dell’amore (e quindi della poesia). Guido però sfugge alla identificazione del lettore o la evita, apparentemente per modestia, in realtà per
superbia intellettuale;27 Dante invece, non meno superbo, ma sinceramente ecumenico, la esige.
Il ricordo del sonetto (e della ballata) di Guido traspare fra le righe
della prosa del Convivio attraverso l’esempio della scrittura. Agli occhi
del presbite, oppure agli occhi del sano che legge su carta umida, i caratteri appaiono disgregati, e per leggere egli deve allontanare le ‘scritture’.
L’allontanamento degli strumenti («noi siàn partiti») viene trascritto e razionalizzato nell’allontamento della pagina, mentre le lacrime che impediscono la formazione dell’immagine, in I’prego voi («Lagrime ascendon
de la mente mia», v. 18), vengono trascritte nella umidità della carta che
impedisce una visione chiara dei caratteri. Sono figure e parole che riappariranno, ulteriormente rimaneggiate per la loro plasticità di significato,
nell’episodio di Cavalcante nel canto X dell’Inferno: la metaforica cecità
del padre di Guido, il suo pianto, la presbiopia dei dannati, che gli impedisce di conoscere le cose presenti e quindi di capire il senso delle parole
di Dante, il suo stesso nome, che viene ‘letto’ da Dante. Si osservi come
la spiegazione di Farinata, che rivela a Dante, nei versi 100-104, i motivi
71
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della ignoranza di Cavalcante, riproduca i sintomi della malattia descritta
nel Convivio:
Noi veggiam, come quei c’ha mala luce,
le cose, disse, che ne son lontano;
cotanto ancor ne splende il sommo duce.
Quando s’appressano o son, tutto è vano
nostro intelletto…
Il commento al congedo di Amor che nella mente prosegue con un
aneddoto pseudobiografico di cui possiamo comprendere il senso solo
alla luce di questo intricato nodo di connessioni intertestuali:
E però puote anche la stella parere turbata: e io fui esperto di questo l’anno medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare
lo viso molto, a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi
che le stelle mi pareano tutte d’alcuno albore ombrate. E per lunga
riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con raffreddare lo corpo de
l’occhio con l’acqua chiara, riuni’ sì la vertù disgregata che tornai
nel primo buono stato de la vista.
L’ingenua interpretazione documentaria ha prodotto diverse diagnosi
sulla malattia di Dante, il cui senso qui, invece, dipende completamente
dalle difficoltà concettuali generate dalla interpretazione allegorica del
Convivio relativa alla ‘donna gentile’, interpretazione che proprio qui mostra inequivocabilmente il suo carattere mistificatorio. L’allusione alla
malattia riempie e compensa il silenzio del commento sull’attuale disdegno della donna all’epoca in cui fu scritta la canzone. Essa infatti colpisce
il poeta proprio «l’anno medesimo che nacque questa canzone», e quindi
noi lettori dovremmo attribuire l’apparenza disdegnosa della donna, in
Amor che nella mente, a questo temporaneo difetto di visione. Si osservi
la malizia del fantasioso aneddoto qui riferito: il poeta non dice che quella
apparenza dipenda da questa malattia, e non può dirlo, perché la logica del
Convivio consiste nel convertire significanti sessuali (o amorosi) in significati filosofici. La malattia degli occhi viene presentata non come un
accecamento passionale (come è normale in Guido e come la canzone af72
RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
ferma) ma come aneddoto biografico, che può, sì, servire per soddisfare
la curiosità del lettore (ingenuo) che si chiede come mai questa donna appaia ancora disdegnosa, ma non può essere svolto nel suo significato allegorico, perché in questo caso il poeta sarebbe costretto ad ammettere
quello che in effetti la canzone dice, e cioè che la donna della lode è fantasma di desiderio al pari di tutte le altre donne già cantate.
E invece tutto il commento ruota intorno alla opposizione ballata / canzone, le quali devono rappresentare due momenti diversi della carriera di
Dante e non due momenti perfettamente compatibili l’uno con l’altro (tesi
che la canzone si proponeva di dimostare). Il commento prosegue illustrando un principio fondamentale per comprendere la teoria di Dante sull’amore, e cioè il rapporto inversamente proporzionale fra l’intensità della
passione e la distanza dall’oggetto. A minore distanza corrisponde un
maggiore appassionamento:
sì come li nostri occhi ‘chiamano’, cioè giudicano, la stella talora
altrimenti che sia la sua vera condizione, così quella ballatetta considerò questa donna secondo l’apparenza, discordante dal vero per
infertade de l’anima, che di troppo disio era passionata. E ciò manifesto quando dico: Ché l’anima temea, sì che fiero mi parea ciò
che vedea ne la sua presenza. Dov’è da sapere che quanto l’agente
più al paziente sé unisce, tanto e più forte è però la passione, sì
come per la sentenza del Filosofo in quello De Generatione si può
comprendere; onde quanto la cosa desiderata più appropinqua al
desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l’anima, più passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione. Sì che allora non giudica come uomo la persona, ma quasi
come altro animale pur secondo l’apparenza, non discernendo la
veritade. E questo è quello per che lo sembiante, onesto secondo
lo vero, ne pare disdegnoso e fero; e secondo questo cotale sensuale giudicio parlò quella ballatetta. E in ciò s’intende assai che
questa canzone considera questa donna secondo la veritade, per la
discordanza che ha con quella (Convivio III, X, 1-3).
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La teoria qui esposta da Dante è funzionale alla poetica della lode e
agli sviluppi che essa avrà nella poetica del lutto e nella prosa della Vita
nuova. La sublimazione di Beatrice, e delle pulsioni da lei scatenate, avviene infatti attraverso un allontanamento prima psicologico (la dimensione metafisica nella quale viene proiettata la sua immagine in Donne
che avete e in Amor che nella mente) e poi teologico (il cielo nel quale si
trasferisce la sua anima dopo la morte). La prosa romanzesca della Vita
nuova narra appunto le fasi di questo progressivo allontanamento, a partire dal momento in cui un avvicinamento eccessivo, quello raccontato
nel cap. XIV, determina la crisi che induce il poeta a «tacere di dire a lei»
(XVII), cioè a cancellare Beatrice dall’orizzonte comunicativo del discorso: in quanto oggetto della lode, Beatrice cessa di essere interlocutrice
di Dante, che manifesta così, sul piano delle funzioni testuali, l’irreversibile allontamento dell’oggetto di desiderio e la sua incipiente e poi definitiva sublimazione.28 Ma ciò che in questa sede va sottolineato è la
mistificazione consistente nel presentare la canzone ‘discordante’ dalla
ballata (ignorando l’attualità del disdegno della donna e quindi l’attualità
dell’appassionamento del poeta) e poi la solita inversione di soggetto e oggetto, per la quale è la «cosa desiderata» che ‘appropinqua’ di più o di
meno al ‘desiderante’, e non viceversa come ci aspetteremmo.29
8. In Pinto 2010b ho proposto un diagramma delle canzoni d’amore
scritte da Dante prima dell’esilio, a partire dalla distinzione fra la poetica
(cavalcantiana e dantesca) del ‘disdegno’ e la poetica (soprattutto dantesca
e solo marginalmente cavalcantiana)30 dell’‘umiltà’. Alla luce delle nuove
analisi condotte su Amor che movi (Pinto 2011b) e qui su Amor che nella
mente, vorrei riformulare quel diagramma, prospettando una diversa cronologia dei testi (che ora mi è più chiara).
Sul piano cronologico, la successione delle liriche mi sembra essere
stata quella che segue:
1. La dispietata mente che pur mira
2. Lo doloroso amor che mi conduce
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‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
3. E’ m’incresce di me sì duramente
4. Donne che avete intelletto d’amore
5. Amor che nella mente mi ragiona
6. Donna pietosa e di novella etate
7. Li occhi dolenti per pietà del core
8. Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete
(Vita nuova – Donna me prega)
9. Amor che movi tua vertù dal cielo
10. Io sento sì d’amor la gran possanza
11. Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra
12. Amor tu vedi ben che questa donna
13. Io son venuto al punto de la rota
14. Così nel mio parlar voglio esser aspro
Dal punto di vista tematico, distinguerei, semplificando, i seguenti
momenti:
Prima poetica del disdegno (cavalcantismo ortodossso: 1-2-3).
Poetica della umiltà (la lode: 4-5; il lutto: 6-7-8).
Seconda poetica del disdegno (cavalcantismo neoplatonizzante: 9-10;
cavalcantismo estremo: 11-12-13-14).
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NOTE
1. Benvenuto da Imola, che intende senz’altro la canzone come canto erotico
(«hic renovabat cantum de materia amorosa, qua olim fuerat nimis inviscatus»),
si sofferma proprio su questo particolare per mostrare il potere di seduzione che
la musica esercita universalmente: «“sì dolcemente, che la dolcezza dentro ancor
mi sona”, quia impressio remansit in anima, quae mirabiliter delectatur musica.
Unde poeta, ut ostendat delectationem musicae generaliter capere omnes, statim
ostendit effectum illius cantus, dicens: lo mio maestro, scilicet Virgilius, e quella
gente ch’eran con lui, idest, et reliqua turba quae erant cum illo casella, quasi
dicat: non solum viri studiosi sed vulgares, parevan sì contenti come a nessun
toccasse altro la mente, quam ille cantus, quasi dicat, quod nullus videbatur curare
de alia re, ita erat astractus cantu oblitus tendere ad montem, de quo paulo ante
cum tanta cura quaerebat». Il brano, e l’intera lettura del passo da parte di Benvenuto, vengono acutamente analizzati da Chiara Cappuccio (2005) al fine di ricostruire il significato specificamente musicologico dell’episodio dantesco.
2. Per un riepilogo delle questioni rinvio a Picone 2001.
3. Cfr. Sanguineti 1992.
4. Sulle risonanze politiche della «ossessiva idea cavalcantina di distruzione»,
si veda Calenda 1976: 109.
5. Sul motivo della nave magica e sulla palinodia di questo episodio rispetto
al sonetto Guido i’ vorrei, si vedano rispettivamente Picone 2001 e Gorni 1990.
6. Cfr. Corti 1993a e Pinto 2006.
7. Cfr. Pinto 2001: 41-43.
8. Nello scambio di battute fra Virgilio e Catone osserviamo lo stesso uso affettivo del possessivo che abbiamo visto così pregnante nello scambio fra Dante
e Casella (vv. 79-80: «di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega, / o santo petto,
che per tua la tegni»).
9. Ho trattato il tema oltre che nel già citato Pinto 2000-2001, anche in Pinto
2004 e Pinto 2011.
10. Cito da Nardi 1966: 252, 255, 260.
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RAFFAELE PINTO
‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
11. Come è noto, la musica di cui Dante parla nel De vulgari eloquentia è sostanzialmente quella che struttura in armonia e ritmo di rima e metro il testo verbale. L’accompagnamento musicale, pur possibile, è mero accidente: «Cantio
dupliciter accipi potest: uno modo secundum quod fabricatur ab autore suo, et sic
est actio, et secundum istum modum Virgilius primo Eneidorum dicit ‘Arma virumque cano’; alio modo secundum quod fabricata profertur vel ab autore vel ab
alio quicunque sit, sive cum soni modulatione proferarur, sive non; et sic est passio” (De vulgari eloquentia II, VIII, 4).
12. Descrive bene le coincidenze strutturali e tematiche fra le due canzoni
Vincenzo Pernicone (1970), che però si inclina, nonostante le coincidenze, a ritenere plausibile la interpretazione del Convivio.
13. Per una sintetica ed acuta ricostruzione della polemica Vita nuova – Donna
me prega, si veda Pasquini 2001: 55-59.
14. Rinvio, su tale problematica, a Pinto 2011b.
15. Sui procedimenti analogici di Amor che movi si veda Varela-Portas 2011b.
16. Ho affrontato la questione in Pinto 2011a.
17. Il tema è già caratteristico di Giacomo da Lentini (Pinto 2010a). La connessione con il Notaro è stata avvertita da Domenico De Robertis.
18. Sul rapporto fra la definizione di ‘dolce stil novo’ e la teoria modista, rinvio
a Pinto 2002.
19. A proposito del commento in prosa a Tanto gentile, in Vita nuova XXVI:
«Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo», Contini osserva: «D’accordo o non d’accordo che si sentisse il Cavalcanti (se vogliamo facetamente amplificare) in questa surrettizia gerarchizzazione delle loro donne, la
linea Cavalcanti-Vita nuova si pone dunque come schiettamente letteraria. Il
‘modo d’impiego’ costituito dal capitolo XXV vuol significare: attenzione, ora
mi dispongo a caricare le tinte, ma quella della donna-angelo non è più che
un’iperbole» (1970: 350). Con la consueta lucidità, lo studioso descrive perfettamente l’uso esclusivamente metaforico che Dante fa della teologia fino alla
Vita nuova, e lo scetticismo con il quale l’iniziativa venne accolta da Cavalcanti.
20. Sulla concezione cristico-trinitaria dell’amore in Dante, che in diversa misura e diversamente modulata attraversa l’intera produzione lirica del poeta, si è
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soffermata Rosario Scrimieri, mettendone a fuoco i simbolismi. Si veda, da ultimo, Scrimieri 2011b.
21. Sul valore del ‘disdegno’ in Dante e in Guido rinvio a Pinto 2000-2001 e
Pinto 2010b. La mistificazione del Convivio relativa a Amor che nella mente ha
coinvolto anche la ballata, nella quale sono stati cercati possibili significati allegorici (cfr. Giunta in Alighieri 2011). Non escluderei, invece, che la ballata sia
stata scritta contestualmente alla canzone, ed in vista della sua ritrattazione ad
opera di questa, poiché troppo patenti, al limite della parodia, appunto, sono le
allusioni alla cifra figurale della poetica di Guido: il disdegno di madonna.
22. Che cosa sia questo timore che affligge l’innamorato lo spiega bene Andrea Cappellano al principio del De amore: «Quod amor sit passio facile est videre. Nam antequam amor sit ex utraque parte libratus, nulla est angustia maior,
quia semper timet amans ne amor optatum capere non possit effectum, nec in
vanum suos labores emittat. Vulgi quoque timet rumores et omne quod aliquo
modo posset nocere; res enim, imperfectae modica turbatione deficiunt. Sed et
si pauper ipse sit, timet ne eius mulier vilipendat inopiam; si turpis est, timet ne
eius contemnatur informitas vel pulchrioris se mulier annectat amori; si dives
est, praeteritam forte tenacitatem sibi timet obesse. Et ut vera loquamur, nullus
est qui possit singularis amantis enarrare timores. Est igitur amor ille passio, qui
ex altera tantum est parte libratus, qui potest singularis amor vocari. Postquam
etiam amori utriusque perficitur, non minus timores insurgunt; uterque namque
timet amantium ne quod est multis laboribus acquisitum per alterius labores amittat, quod valde magis onerosum constat hominibus quam si spe frustrati nullum
sibi suos fructum sentiant [sibi] afferre labores. Gravius est enim carere quaesitis
quam sperato lucro privari. Timet etiam ne in aliquo offendat amantem; tot enim
timet quod nimium esset narrare difficile».
23. Un magnifico esempio del ‘sentire’ dell’io, ormai debilitato dal potere distruttivo di lei, lo leggiamo in E’ m’incresce di me, 52-56: «Questo grida il disire
[che l’anima abbandoni il corpo] / che mi combatte così come suole, / avegna che
men duole, / però che ‘l mio sentire è meno assai / ed è più presso al terminar de’
guai».
24. De vulgari I, III, 1: «Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter
se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de
ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de
una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse
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‘Amor che nella mente’ e Guido Cavalcanti
oportuit. Quare, si tantum rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponere potuisset».
25. Si vedano Pinto 2003 e 2004.
26. Ho affrontato la questione, relativamente al sonetto e alla ballata, in Pinto
2000: 111-120.
27. È l’accusa che gli rivolge Cino nel sonetto Qua’ son le cose vostre ch’io
vi tolgo, le cui rime ‘disdegno’ - ‘ingegno’ (10-12) verranno riprese da Dante in
Inferno X, 59-63. Sul significato del sonetto nella polemica Dante-Guido si veda
Pinto 1994: 57-73.
28. Ho analizzato le procedure di allontamento di Beatrice, nella Vita nuova,
in Pinto 1994: 85-97.
29. Nelle fonti del brano citate da Berti 1965, si parla sì di distanza ma non
della responsabilità che avrebbe la cosa desiderata nel ridurla o aumentarla (si
veda, per esempio, Tommaso d’Aquino, Commento al De generatione et Corruptione, I, 22, 2: «impossibile est ea non pati ad invicem et agere cum sibi appropinquant»; sed cum fiunt propiqnua, in se vel in aliis, tunc agens agit, et patien
patitur. Dico autem approinquare»; I, 23, 3: «Omnia enim agentia naturalia habent determinatam virtutem, quae si ultra suae virtutis proportionem elongentur
a patientibus, nullum effectum causare poterunt, sed cum fiunt propinqua, in se
vel in aliis, tunc agens aget, et patiens patietur. Dico autem appropinquare sibi
ipsis, quando primum agens et ultimum patiens sunt immediata; appropinquare
vero in aliis est, quando inter primum agens et ultimum patiens est aliquid quod
agit et patitur, agit autem in virtute primi»).
30. In testi come Chi è questa che vèn e Veggio negli occhi l’umiltà del fantasma femminile è solo parodica ed allucinatoria, non suscettibile di dar luogo ad
una razionalizzazione effettiva della pulsione di desiderio, come in Dante attraverso la lode, il lutto e soprattutto la prosa della Vita nuova.
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