"You cannot be serious!" Fenomenologia di un

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You cannot be serious! Fenomenologia di un
rivoluzionario in pantaloni corti
-,
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John McEnroe in una foto dei giorni nostri
Era un pomeriggio caldo e umido del 1977. A giugno, nel tempio del tennis mondiale.
Wimbledon. Quel posto dove il pubblico è talmente composto da risultare compassato. Quasi
fosse finto. O disegnato. Lì è il trionfo della tradizione e del conservatorismo, della
ripetizione meccanica e rispettosa di regole che vengono tramandate da secoli.
I giocatori possono, e devono, vestire rigorosamente soltanto di bianco. Quando entrano e
quando escono sono tenuti a fare un inchino verso la famiglia reale che assiste in tribuna
d’onore. In quel vero e proprio tempio, la disciplina e il contenimento si respirano nell’aria.
Tutto scorre placido da secoli, all’insegna di una ripetitività che conferisce autorevolezza e
infonde conforto negli animi degli appassionati di tennis.
Ecco, proprio quel pomeriggio caldo e umido del giugno 1977 sarebbe accaduta una di
quelle cose che spinge i cronisti a usare la celebre frase: nulla sarebbe stato più come prima.
Un ragazzino, moccioso, strafottente, indomito ma baciato dalla dea del talento, con una
capigliatura improponibile (probabilmente lì dentro si nascondevano marchingegni favolosi
e sovrumani), superava le qualificazioni per poi approdare nel campo centrale contro un
altro grande del tennis, più anziano e fin lì più affermato di lui: Jimmy Connors.
Ma il punto è un altro. Quel ragazzino terribile e geniale, che per la cronaca perse quella
partita in maniera degnamente combattuta, rappresentò quello che in filosofia gli antichi
chiamavano «clinamen», ossia la deviazione improvvisa, imprevista e imprevedibile,
pressoché casuale rispetto a un movimento che fino a quel momento procedeva in maniera
regolare, meccanica, oltremodo prevedibile.
In quella partita, e da quel momento in poi per tutta la sua carriera (in cui si guadagnò, fra
gli altri i soprannomi di «Genius» e «mano sinistra di Dio»), John McEnroe iniziò la sua
rivolta furibonda contro tutto ciò che è compassato, prevedibile, disciplinato, tradizionale. In
una parola? Noioso. Gli arbitri sapevano che da lui potevano essere contestati. Anche
furiosamente. Le loro decisioni non erano legge indiscutibile. La famiglia reale, e con loro il
pubblico di Wimbledon (che eccezionalmente iniziò a fischiarlo, cosa mai successa nella
storia di quel tempio), potevano inorridire, deprecare quel signore dai modi volgari, ma ben
sapendo che lui se ne fregava altamente. Perché dalla sua parte aveva carattere, autonomia,
e soprattutto talento da vendere.
In maniera piuttosto rocambolesca, e buffa, gli organizzatori del prestigioso torneo
dovettero togliere i microfoni posti lungo tutto il campo. Perché quel ragazzino geniale se ne
usciva costantemente con imprecazioni ed espressioni irriferibili. Scostumate e oscene per
quel luogo di signori e signore laccati fino al midollo.
Da quel momento in poi, insomma, le persone aperte e di buon senso compresero una cosa
sostanziale: con quel signore mancino, con «SuperMac» (un altro dei nomi che gli furono
affibbiati), diveniva chiaro che l’umanità poteva essere divisa in due grandi categorie.
Quella, ben più numerosa, delle persone non baciate dal talento, a cui la fantasia non arride,
che si baloccano (e si fanno persino vanto) della propria mentalità disciplinata, nata già
vecchia nel reiterare tristemente i comportamenti di chi li ha preceduti. Persone spesso
rancorose e pronte a scagliare strali contro chi si macchia della colpa più grande: uscire
dagli schemi e deragliare all’insegna del proprio pensiero e della propria autonomia. Folli
nella maniera superbamente descritta da Erasmo da Rotterdam. Persone non in grado di
inventarsi nulla per uscire dal vecchio e aprire le porte al nuovo. I destinati ad andare al
rimorchio dei (pochi) altri. E questi altri sono quelli come John McEnroe, che fra le molte
cose non amava neppure fare i compiti a casa (è già più chiaro, dove potremmo andare a
parare?). Memorabile la volta che un tennista più giovane, uno svedese cresciuto all’insegna
della disciplina, dopo aver cercato per mesi di conquistare un allenamento con «The
Genius», ottenuta la agognata sessione di allenamento rimase sorpreso perché quello smise
dopo solo mezz’ora. Fatiche e dolori non facevano per lui, ché aveva la sua fantasia.
John McEnroe vinse molto, anche se non quanto avrebbe potuto. Le sue sfuriate, il fragile
crinale fra genio e sregolatezza in cui spesso si perdeva, lo resero spesso il peggiore
avversario di se stesso. Malgrado ciò, per quattro anni consecutivi fu il numero uno del
mondo, conseguendo un palmares per molti versi ancora oggi ineguagliato.
Il pubblico, e gli esperti, non lo amarono mai più di tanto, e la schiera di chi lo odiava e lo
considerava una scheggia impazzita e inopportuna rimase sempre ampia.
Ci volle la vecchiaia, il dolce tramonto, la perdita di molti capelli e qualche impresa
incredibile compiuta a 35 anni (arrivò in semifinale proprio a Wimbledon, che nel frattempo
e in anni lontani aveva vinto tre volte), oltre ad avversari assai più meccanici, allenati,
atletici e noiosi, perché il pubblico impazzisse letteralmente per lui. Tributandogli quei
riconoscimenti che si devono a un grande genio del Novecento.
Ma ormai era tardi, perché quel lavoratore indefesso che è la Storia stava già preparando
nuove epoche e nuovi campioni. Molto più atletici e potenti del nostro. Ma nessuno dotato di
quel talento incredibile e misterioso. E, soprattutto, nessuno che sarebbe mai più stato
capace di realizzare la grande rivoluzione di frantumare le gabbie della tradizione e della
ripetitività. Di entrarti dentro, farsi metodo e condotta di vita. E non uscirne più!
Ps Che poi, a dirla tutta, John McEnroe proveniva da famiglia ricca e potente. Probabilmente,
nella realtà extra-sportiva, è stato anche un ragazzo viziato e per nulla attento alle
sfumature politiche. La visione che ne ho data potrebbe peccare di idealismo, potrebbe
risultare il frutto un po’ marcio di una cosa chiamata nostalgia. Eppure, per quello che il
ragazzino di 15 anni che ero conserva dell’«incontro» con «The Genius», mi piace pensare
che la sua sia stata veramente una rivoluzione. E che certe cose che ha avuto il coraggio (e
l’incoscienza) di fare potrebbero rappresentare un esempio per chi oggi deve tirare fuori il
nostro Paese (e non solo) dalla melma più stagnante e deleteria. Mi piace pensarlo ancora
oggi così, quel signore in pantaloncini corti, che impenitente e strafottente brandisce la
racchetta e urla ai potenti del mondo: «You cannot be serious!». In faccia e alla faccia di re
e regine del mondo!
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