QUALIFICAZIONE GIURIDICA DELLA PROPRIETÀ E VINCOLI

QUALIFICAZIONE GIURIDICA DELLA PROPRIETÀ E VINCOLI AMMINISTRATIVI
(DA VERIFICARSI ALL’ATTO DEL SUO TRASFERIMENTO) (*)
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Il diritto di proprietà oggi e le sue diverse configurazioni secondo i principali orientamenti della dottrina. La definizione della proprietà sotto il profilo oggettivo. – 2.1. Proprietà pubblica e proprietà privata
nell’art. 42, co. 1, Cost. – 2.2. Lo schema, o statuto, proprietario della proprietà pubblica. – 2.3. Lo schema, o statuto,
proprietario della proprietà privata. – 2.4. Preliminari conclusioni definitorie. – 3. L’influenza del diritto amministrativo
sul tema, ovvero la regolazione pubblicistica del diritto di proprietà (oggettivamente) privata: interventi normativi di
qualificazione/conformazione e vincoli amministrativi. – 4. Gli interrogativi posti dalla distinzione della proprietà individualizzata (oggettivamente privata) a seconda dell’appartenenza soggettiva, pubblica o privata. – 5. La proprietà individualizzata in appartenenza soggettiva privata. – 5.1. La qualificazione/conformazione giuridica finalizzata a garantire
la ‘funzione sociale’ della proprietà privata, secondo l’art. 42, co. 2, Cost. Le ccdd. ‘limitazioni interne’. – 5.1.1. Beni
privati di interesse pubblico e beni privati a destinazione pubblica. – 5.1.2. La qualificazione/conformazione giuridica
dei beni per categorie: a) ad opera della legge. – 5.1.3. segue: b) ad opera di atti amministrativi fonte di diritto obiettivo
(piani regolatori e strumentazione urbanistica in genere). – 5.2. I vincoli amministrativi sui singoli diritti di proprietà
privata, secondo l’art. 42, co. 3, Cost. Le ccdd. ‘limitazioni esterne’. – 5.2.1. I vincoli amministrativi su singoli beni: a)
ablatori (integralmente o parzialmente) espropriativi (perché indennizzabili). – 5.2.2 segue: b) ablatori non espropriativi
(perché non indennizzabili). – 6. La questione del rapporto fra ‘contenuto minimo’ del diritto di proprietà privata e
‘funzione sociale’ di questa e la recente tendenza a rispondere alla conciliazione fra le due istanze attraverso la cd. ‘perequazione urbanistica’. – 7. Considerazioni finali.
1. Premessa
È naturale che, se un amministrativista viene invitato quale relatore ad un convegno sulla proprietà, a maggior ragione se organizzato da un Consiglio notarile, ciò è perché egli tratti della sua regolazione pubblicistica.
Il principale obiettivo di questa relazione, quindi, sta nella individuazione e ‘catalogazione’, da
un lato, delle possibili prescrizioni normative che siano in grado di determinare la qualificazione (o, se
si preferisce, la conformazione) giuridica delle proprietà; nonché, dall’altro lato, dei diversi tipi di vincoli amministrativi che possano gravare su singole proprietà individue.
Sembra infatti opportuno, oltre che doveroso, che il notaio accerti la eventuale presenza dell’una
o degli altri – qualificazione e vincoli – al momento del trasferimento di una proprietà sottoposto al suo
vaglio professionale.
A questo scopo si rende preliminarmente necessaria una, sia pur breve e sintetica, ricognizione
teorica sul significato o sulla definizione della proprietà da cui si muove, a partire dalla ben nota disposizione dell’art. 42 Cost.1
Una volta esplicitato questo punto di partenza, proveremo a delineare i diversi profili di influenza sul diritto di proprietà della regolazione amministrativa. Ciò sarà fatto, soprattutto, attraverso l’esame
della disciplina che l’ordinamento detta per i beni in appartenenza soggettiva privata al fine di assicurare
(*)
Versione scritta della relazione svolta al Convegno annuale del Consiglio notarile di Santa Maria Capua Vetere, così come è stata presentata il 15 maggio 2009, presso il Crowne Plaza di Caserta. Il testo, in una versione rivista e
arricchita nelle note bibliografiche, è destinato agli Scritti in onore di Giuseppe Palma. Ringrazio le dottoresse Tiziana
D’Ambrosio, Adele Ferraro, Nicolina Fontana, Rosaria Nocerino, il dottor Massimiliano Santoro, e il dottor Giovanni
Martini che li ha coordinati, per avermi aiutato nella ricerca bibliografica e giurisprudenziale.
1
Fra gli altri, in particolare, si farà riferimento ai volumi di S. PUGLIATTI, La proprietà nel nuovo diritto, Giuffrè, Milano, 1954 (ristampa 1964); G. PALMA, Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà, Jovene, Napoli,
1971; ID., Il regime giuridico della proprietà pubblica, Eges, Torino, 1983; A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Jovene, Napoli, 1989.
1
la loro ‘funzione sociale’ (mettendone giuridicamente in valore un interesse il quale, trascendendo quelli
del titolare, finisce per assumere una connotazione comunitaria) – beni dai quali, secondo una parte della dottrina, andrebbero tenuti distinti i beni privati di interesse pubblico2.
Ma sarà fatto anche attraverso l’esame della disciplina concernente i ccdd. ‘beni a destinazione
pubblica’3, quelli cioè che, originariamente pubblici (demaniali o patrimoniali indisponibili), essendo
stati oggetto di privatizzazione (prevalentemente del soggetto titolare), conservano una qualificazione
giuridica peculiare, che ne determina lo speciale regime.
L’attenzione sarà rivolta (almeno prevalentemente) ai beni immobili, sebbene non sia affatto escluso che il ragionamento proposto possa utilmente estendersi, pur con gli opportuni adattamenti, anche ai beni mobili.
Come accennato, l’analisi verterà, per un verso, sulla qualificazione giuridica della proprietà, e,
per l’altro, sui vincoli amministrativi da doversi verificare all’atto del suo trasferimento. In modo specifico, passeremo in rassegna, da un canto, le ipotesi in cui è riconosciuta, nell’ordinamento giuridico positivo, la capacità di qualificazione giuridica (realizzando la ‘funzione sociale’) delle proprietà (soprattutto ad opera della strumentazione urbanistica); e, d’altro canto, le ipotesi in cui l’ordinamento stabilisce che sia possibile che la P.A. imponga vincoli amministrativi esterni su singoli diritti di proprietà
(procedimenti/provvedimenti, integralmente o parzialmente, ablatori e procedimenti/provvedimenti non
ablatori).
Tutto ciò proveremo a fare mediante una – evidentemente rapida – ricognizione della disciplina
di alcuni specifici ‘settori’, per così dire, di quella che verrebbe di definire ‘esperienza di interferenza’
fra beni in appartenenza privata ed interessi pubblici, esperienza che è, appunto, oggetto della disciplina
del diritto amministrativo.
In particolare esamineremo le categorie: dei beni che la legge qualifica giuridicamente in modo
peculiare in ragione di connotati intrinseci (si pensi ai beni culturali, o ai beni paesaggistici, oppure alle
servitù demaniali); dei beni la cui qualificazione giuridica dipende, più o meno significativamente, da
‘fattori’ ambientali (si pensi ai beni gravati da vincoli geologici, idrogeologici, sismici, ecc.); dei beni la
cui qualificazione giuridica dipende, invece, dalle diverse vocazioni urbanistiche del territorio (si pensi
ai beni in proprietà edilizia – scolastica, ospedaliera, ecc. –, agricola, commerciale, ecc., a seconda della previsione urbanistica). Infine, proveremo ad effettuare una ricognizione dei vari tipi di vincoli ablatori (espropriativi e non) che possono eventualmente gravare su ciascun singolo bene (si pensi ai beni
dichiarati di pubblica utilità a fini espropriativi, ecc.).
2. Il diritto di proprietà oggi e le sue diverse configurazioni secondo i principali orientamenti della
dottrina. La definizione della proprietà sotto il profilo oggettivo
2
Tali beni – secondo A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo cit., p. 757 –, diversamente dagli altri
in appartenenza privata, avrebbero in comune con i beni pubblici la caratteristica di soddisfare «immediatamente (e non
importa se in via esclusiva o no) finalità pubbliche». Rientrerebbero nella categoria, insomma, i beni che «assolvano istituzionalmente a finalità di pubblico interesse (per lo più corrispondenti o affini a quelle cui servono i beni pubblici), e
appunto in relazione a ciò siano assoggettati a un particolare regime in ordine alla disponibilità (vincoli di destinazione,
di immodificabilità, ecc.; diritto di prelazione dell’Amministrazione, ecc.), nonché a un particolare regime di polizia, di
interventi e di tutela pubblici».
3
Evidentemente nel quadro di quella generale relativa alla proprietà pubblica.
2
La sede ed il poco tempo disponibile non consentono una, anche soltanto brevissima, digressione introduttiva sul tema della proprietà. La letteratura in materia è pressoché sterminata: tanto quella civilistica, tanto quella costituzionalistica, tanto quella amministrativistica. Darne conto, sia pur sinteticamente, sarebbe compito, non semplicemente difficile, bensì impossibile.
Epperò, allo scopo di facilitare l’intelligenza della coerenza del ragionamento che proverò a fare,
sono comunque costretto a riassumere la impostazione teorica generale dalla quale muovo, affinché si
possa meglio comprendere da dove, perché ed in che modo derivino – quali conseguenze concettuali –
le ricostruzioni che proporrò, in termini sia di qualificazioni conformative delle, sia di limitazioni alle,
proprietà.
E allora – nel dichiarare che non richiamerò, se non per essenzialissime ‘spigolature’, le innumerevoli (spesso raffinate e sofisticate) tesi espresse dalla dottrina – le premesse teoriche e dogmatiche su
cui si fonda il ragionamento che svolgerò sono, molto brevemente e schematicamente, le seguenti.
1) La vera, più convincente, distinzione fra proprietà pubblica e proprietà privata si basa, non
sulla titolarità dell’appartenenza dei beni (criterio soggettivo), ma sullo schema, o statuto, proprietario
(criterio oggettivo).
2) La proprietà ‘individualizzata’ (e dunque non la proprietà ‘collettiva’) è da assumere come finalizzata a garantire la ‘funzione sociale’ a prescindere dalla titolarità dell’appartenenza soggettiva,
pubblica o privata che essa sia.
3) La ‘funzionalizzazione sociale’ della proprietà operata dalla legge non può azzerare il ‘contenuto minimo’ del relativo diritto, ciò che peraltro– lungi dal consentire una costruzione di questo come
un diritto naturale – significa che detto contenuto minimo è da definirsi in relazione ai legittimi ‘modi di
godimento’ stabiliti per ciascuna categoria di beni.
4) Quando l’intervento legislativo di funzionalizzazione non è sufficiente a realizzare l’interesse
pubblico, si può agire su singoli beni limitandone l’uso, fino alla loro espropriazione. Ed anzi, quando il
risultato di interesse pubblico che si vuole conseguire richiede la titolarità pubblica dell’appartenenza
del bene, si deve espropriare; tant’è che la giurisprudenza (a cominciare da quella della Corte Europea
dei Diritti dell’Uomo, della Corte di Giustizia e della Corte costituzionale), laddove l’intervento legislativo di qualificazione/conformazione si presenti solo apparentemente ‘funzionalizzante’, producendo un
effetto sostanzialmente espropriativo, trae le naturali conseguenze, in primis in termini di corresponsione del dovuto indennizzo.
5) In definitiva, la proprietà ‘individualizzata’ è soggetta, da un lato, alla qualificazione/conformazione funzionalizzante per categorie di beni; dall’altro, alla possibile imposizione di vincoli
amministrativi su beni individui. È per questo che, quando un bene viene alienato, occorre accertare tutti
i possibili profili che sono in grado di influenzare il relativo regime giuridico.
Enunciate le premesse, proverò ad illustrarle in breve.
2.1. Proprietà pubblica e proprietà privata nell’art. 42, co. 1, Cost.
Come è ben noto, secondo quanto dispone l’art. 42, co. 1, Cost. «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati».
Ad una prima, quasi istintiva (e perciò forse superficiale), lettura potrebbe dedursi (anche a
tutt’oggi) che la distinzione fra proprietà pubblica e proprietà privata debba basarsi sulla diversità del
3
soggetto titolare della relativa appartenenza dei beni. Ed un simile approccio appare non privo di una
qualche innegabile ed immediata suggestione. Perché, in fondo, il fatto che la ragion d’essere della soggettività pubblica stia nel perseguimento di interessi pubblici, spiegherebbe di per sé la diversità fra proprietà pubblica e proprietà privata. Il soggetto titolare del bene segnerebbe la distinzione fra le due proprietà, perché mentre quello pubblico ha una naturale, (giuridicamente) ontologica vocazione al perseguimento del bene comune, quello privato, invece è, per definizione, proteso a realizzare il suo proprio
interesse individuale.
Ciò non di meno – accogliendo i risultati conseguiti dagli studi, ormai risalenti a qualche lustro
fa, condotti da autorevolissima dottrina –, chi scrive considera più convincente sposare una diversa lettura. In altre parole, il senso della diversità fra proprietà pubblica e proprietà privata non può risolversi
nella mera diversa titolarità dell’appartenenza, dovendosi piuttosto aver riguardo alla differenza di
schema giuridico, o di statuto che dir si voglia, proprietario. Quanto appena affermato si comprende
meglio con l’ausilio grafico dello Schema 1.
SCHEMA 1
Qualificazione della proprietà in senso oggettivo
La proprietà nell’art. 42, co. 1, Cost.
PUBBLICA
Oggettivamente
pubblica
PRIVATA
Soggettivamente
(in appartenenza)
pubblica
Soggettivamente
(in appartenenza)
privata
Individualizzata
Collettiva
2.2. Lo schema, o statuto, proprietario della proprietà pubblica
Sembra, invero, più persuasiva la tesi secondo cui, nell’art. 42 Cost., «la locuzione proprietà
pubblica non può non voler significare […] la proprietà oggettivamente pubblica, vale a dire la proprietà
collettiva»4: la locuzione, cioè, pare essere lungi dall’assumere una valenza soggettiva, e cioè dal riferirsi alla titolarità dell’appartenenza.
4
Così G. PALMA, Il regime giuridico della proprietà pubblica cit., p. 86; ma si v. lo studio ancor più risalente
dello stesso A., Beni di interesse pubblico e contenuto della proprietà cit., spec. pp. 142-149.
4
Ed infatti «il vocabolo “collettivo”, che compariva nell’originario progetto dell’art. 42, venne
soppresso in forza di quella ben nota battaglia combattuta contro i vocaboli che potessero generare allarme e sospetti; ma non per questo il senso “recondito” deve considerarsi perduto»5.
I Costituenti, cioè, nell’art. 42, co. 1, hanno inteso affiancare, con pari dignità costituzionale, allo schema (o statuto) proprietario privatistico, in base al quale i beni possono ben dirsi vocati ad una
prospettiva di «sfruttamento egoistico-individuale», uno schema (o statuto) pubblicistico, secondo il
quale i beni sono sottratti ad un tale sfruttamento, giacché «destinati, secondo l’economia d’uso, alla
fruizione generale dei consociati»6.
Il primo comma dell’art. 42, dunque, sembra proprio stabilire che, sotto il profilo oggettivo, ci
sono due diversi schemi, o statuti, proprietari: quello pubblico si affianca allo statuto proprietario privato.
A ben riflettere, infatti, quando la Carta parla di proprietà pubblica non si riferisce alla proprietà
soggettivamente pubblica (che, naturalmente, significa in appartenenza di soggetti pubblici), bensì a
quella oggettivamente pubblica, e cioè a quella corrispondente all’istituto medievale della proprietà collettiva, il cui schema postulava che i beni ad essa relativi venissero considerati dalla comunità come utilizzabili in modo indifferente per ciascuno dei consociati.
Ora, è chiaro che tutte le categorie di beni pubblici menzionate dal Codice civile rappresentano il
‘precipitato’ del processo storico di progressiva individualizzazione della proprietà collettiva, processo
che ha determinato – come una conseguenza delle diverse contingenze presentatesi di volta in volta – la
graduale, crescente, soggettivizzazione della proprietà pubblica.
In estrema sintesi, secondo il Codice civile, i beni pubblici – a parte i ccdd. beni patrimoniali disponibili, che ricevono un trattamento giuridico quasi per nulla diverso da quello riservato ai beni in appartenenza privata – si distinguono in beni demaniali e beni patrimoniali indisponibili.
Tale classificazione è frutto di una ‘eredità giuridica’ pervenuta al legislatore del 1942. Ad essa,
come è noto, si è giunti attraverso una lenta e lunga stratificazione storica, durante il corso della quale il
legislatore, a seconda dei momenti e delle circostanze particolari, ha scelto di rendere demaniali, ovvero
patrimoniali indisponibili, determinate categorie di beni, in base alle contingenti esigenze economiche,
che, con ogni evidenza, continuamente cambiavano.
In realtà già allora, ed ancor più poi alla luce dell’art. 42 Cost., la classificazione non appare sufficiente a rappresentare la reale situazione della proprietà pubblica. Invero, secondo unanime parere della dottrina, la distinzione è meramente formale, consegue, cioè, soltanto alla «discriminazione fattane
dal diritto positivo»7.
Ne consegue che l’attuale collocazione formale dei beni fra quelli demaniali non corrisponde più
(o almeno non integralmente) alla originaria significazione del ‘demanio’ quale proprietà collettiva. Oggi possono dirsi in appartenenza collettiva solo alcuni dei beni qualificati formalmente demaniali dal
Codice civile: e cioè quei «beni in appartenenza collettiva di cui lo Stato (od altri enti pubblici), in quali-
5
Così ancora G. PALMA, Il regime cit., loco ult. cit.
Le espressioni sono, ancora una volta, di G. PALMA, Il regime cit., p. 21.
7
Così A.M. SANDULLI, Manuale cit., p. 677.
6
5
tà di ente esponenziale della collettività, risulta un mero “amministratore” (a esempio, demanio stradale,
marittimo, idrico, ecc.)»8.
Invero, stando all’art. 822 c.c., sono demaniali esclusivamente le classi di beni immobili e di ‘universalità di
mobili’, tassativamente elencate, in necessaria appartenenza dello Stato e degli altri enti territoriali. Per tali beni vige il
regime della inalienabilità e della incommerciabilità: essi cioè – come recita l’art. 823 c.c. – «sono inalienabili e non
possono formare oggetto di diritti a favore di terzi». In base al combinato disposto degli artt. 826 e 830 c.c., invece, costituiscono il patrimonio indisponibile quei beni, mobili ed immobili, in appartenenza pubblica, ma non necessariamente dello Stato e degli altri enti territoriali, non compresi nelle classi elencate all’art. 822 c.c. (art. 826, co. 1), parte dei
quali viene esemplificativamente indicata (co. 2). Essi sono così definiti in ragione della loro destinazione a finalità
pubbliche ed il loro regime giuridico è costruito sulla necessità di conservare tale destinazione. Diversamente da quelli
demaniali, i beni del patrimonio indisponibile non sono necessariamente inalienabili, restando «soggetti alle regole particolari che li concernono» (art. 828, co. 1), sebbene «non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano» (co. 2).
Come si capisce, «non esiste una disciplina unitaria, come non esiste una nozione unitaria allo
stato attuale di demanio e di patrimonio indisponibile, ma […] tante discipline differenti per ogni singolo tipo di bene incluso nelle rispettive categorie»9. A dire il vero, ci sono alcuni tratti caratterizzanti le
due categorie. Essi, però, non valgono a determinare una differenziazione strutturale tra esse: se è vero,
infatti, che al demanio non possono ascriversi beni mobili, né beni appartenenti ad enti non territoriali;
per contro, è altresì vero che il Codice civile colloca nel patrimonio indisponibile anche immobili in
proprietà di enti territoriali (ad esempio, le miniere). Anche sul versante del regime giuridico, la legge
talvolta stabilisce la inalienabilità, che sarebbe propria dei demaniali, anche per i beni patrimoniali indisponibili (ancora le miniere).
In definitiva, e in buona sostanza, possiamo concludere che il discrimine fra proprietà pubblica e
proprietà privata non è rinvenibile (o almeno non solo) in ragione dell’appartenenza dei beni. Vi sono
beni – quelli culturali, ad esempio – che possono essere in appartenenza pubblica o privata (conservando
tra l’altro un regime giuridico in gran parte simile), la diversa appartenenza non spiegando affatto un diversificato schema, o statuto, proprietario (sebbene essa possa determinare, invece, almeno in parte, un
diverso regime giuridico).
La distinzione di cui al co. 1 dell’art. 42 Cost., quindi, non può che – e perciò deve – essere riferita al profilo oggettivo, non attenendo alla titolarità soggettiva dell’appartenenza, e avendo riguardo,
piuttosto, alla differenza fra proprietà ‘individualizzata’ (a prescindere dalla sua appartenenza pubblica o
privata) e proprietà ‘collettiva’ (per la quale la P.A. è mero gestore per conto della collettività): i beni
rientranti nella ‘proprietà individualizzata’ in appartenenza pubblica sono «collegati allo Stato (o ad altri
enti pubblici) da un diritto di proprietà funzionalizzato (proprietà – per così dire – soltanto soggettivamente pubblica), come, a esempio, boschi e foreste, miniere e cave, beni di interesse storico-artistico,
ecc.»10.
La proprietà pubblica, pertanto, può essere tale sia perché lo è oggettivamente (proprietà collettiva), sia perché lo è soltanto soggettivamente, come è chiaramente rappresentato nello Schema 2.
8
G. PALMA, Il regime cit., p. 87.
Così ancora G. PALMA, Il regime cit., p. 89.
10
G. PALMA, Il regime cit., p. 87.
9
6
SCHEMA 2
La proprietà pubblica ex art. 42 Cost.
PROPRIETA’
PUBBLICA
INDIVIDUALIZZATA
in appartenenza
soggettivamente
PUBBLICA (*)
beni
patrimoniali
DISPONIBILI
in appartenenza
COLLETTIVA (**)
beni
patrimoniali
INDISPONIBILI
beni
DEMANIALI
(*) Funzionalizzata
(**) Esclusa dall’analisi, salvo che per quanto concerne la possibile sdemanializzazione e
conseguente privatizzazione, ed eventuale alienazione a soggetti privati, dei beni ad essa relativi
Naturalmente, la diversità (sotto il profilo oggettivo) di schema (o statuto) giuridico fra proprietà
(pubblica) collettiva e proprietà (privata) individualizzata non significa che la legge non possa stabilire
un differente regime giuridico fra i beni che rientrano nello schema della proprietà individualizzata a seconda della titolarità pubblica o privata della loro appartenenza.
In altre parole, una cosa è lo schema proprietario (che distingue, sotto il profilo oggettivo, proprietà pubblica e proprietà privata); altra cosa è il regime giuridico di una categoria di beni, il quale ben
può essere diversificato dalla legge a seconda della titolarità, pubblica o privata, dell’appartenenza dei
beni.
La proprietà individualizzata in appartenenza pubblica, insomma, vive di regola un regime diverso dalla proprietà individualizzata in appartenenza privata, senza che ciò alteri lo schema (o statuto)
giuridico proprietario.
2.3. Lo schema, o statuto, proprietario della proprietà privata
D’altra parte, passando alla proprietà privata, quel concetto romanistico del diritto di proprietà,
secondo cui esso consisterebbe nello ius utendi, fruendi et abutendi, è superato da tempo ormai risalente. Anche il più fervido e acceso dei liberal-liberisti oggi non può non riconoscere, con onestà intellettuale, che non si può più pensare che sia ancora così, pur non sottovalutando quel ‘vento di privatizzazione’ che spira forte ormai da un ventennio (complice non marginale la cultura significativamente mercantile della Unione Europea). E la Costituzione a questo proposito non fa che registrare la evoluzione
che il concetto aveva già subìto nella storia.
Come è stato affermato con chiarezza, «L’utilizzazione e la circolazione di tutti i beni di qualche
importanza economica e sociale sono state via via disciplinate al punto che non solo i beni immobili e i
beni mobili registrati ma intere categorie di beni mobili non registrati […] sono a utilizzazione e a circolazione controllate»; precisandosi, subito dopo, che «Soltanto per un malinteso ossequio a una tradizione accademico-scolastica si continuano a presentare […] come limitazioni alla proprietà […] problemi
7
che riguardano invece la positiva determinazione dei modi di godimento dei beni economici»11.
L’attribuzione al legislatore del potere di determinare i contenuti della proprietà – e cioè di stabilire per ogni ‘categoria’ di beni quali siano le facoltà spettanti ai loro titolari – spiega perché non è possibile una visione unitaria dell’istituto. La proprietà privata non ha più un contenuto univoco e non possiede una struttura omogenea; piuttosto, si hanno discipline differenti a seconda della natura e dei caratteri di ciascuna categoria di beni. È indubbio, ad esempio, che le facoltà di cui dispone il titolare di una
proprietà ‘edilizia’ sono diverse da quelle di cui dispone il titolare di una proprietà ‘agricola’.
A conclusioni siffatte si è pervenuti ormai da tempo: Pugliatti, or sono quasi 50 anni, spiegava
che della proprietà si debba parlare al plurale, e cioè dovrebbe parlarsi di diversi tipi di proprietà, ognuno dei quali viene riguardato «in vista della peculiare conformazione datane dal legislatore; ne discende
che il tema riguarda i rispettivi contenuti minimi diversi gli uni dagli altri, e che questi ultimi, in rapporto alla persistenza di un qualche diritto di godere e disporre del bene, non possano che fare riferimento a
determinate categorie di posizioni proprietarie ed al loro specifico regime»12.
Di talché ben potrebbe sostenersi che, oggi, se per assurdo la legge stabilisse che le cose che noi
chiamiamo orologi fossero cucchiai, e dovessero perciò essere adoperati soltanto per mangiare la zuppa,
ebbene, nonostante la circostanza sarebbe con ogni evidenza del tutto paradossale, giuridicamente, noi
potremmo usarli solo in quel modo e a quello scopo, e non per leggervi l’ora.
Il paradosso spiega, assai efficacemente, che il concetto di bene giuridico deve esser tenuto nettamente distinto dal suo supporto materiale: la cosa. Il bene – come è noto – è costituito dall’insieme
delle utilità giuridiche che un ordinamento considera possibili per una cosa determinata, o meglio, per
ogni determinata categoria di cose (e non per una singola cosa).
Del resto, in un ordinamento democratico, anche per la libertà vale la configurazione giuridica
dettata dalla disciplina normativa: la libertà, infatti, non può considerarsi assoluta, in senso giusnaturalistico (persino quando si tratti di una libertà ‘fondamentale’), giacché i suoi contenuti legittimi sono definiti, di volta in volta, dalle fonti dell’ordinamento.
E se ciò vale per la libertà, a maggior ragione deve valere per la proprietà, per la quale, perciò, la
‘funzione sociale’ non va bilanciata con il diritto del proprietario, supposto come fosse in natura potenzialmente illimitato; essa piuttosto «incide sul contenuto del diritto di proprietà»; e dunque nemmeno
può ritenersi corretto sul piano concettuale che il diritto sopporti così limiti «dall’interno» – come spesso si continua erroneamente a ripetere – giacché alla qualificazione/conformazione è proprio ontologicamente estranea l’idea stessa di limite13.
Il secondo comma dell’art. 42 Cost. sancisce che «La proprietà privata è riconosciuta e garantita
dalla legge». La Costituzione, dunque, stabilisce un vincolo per la legge: questa non può disporre in
maniera da non riconoscere e garantire la proprietà privata. Ma ciò non significa che la proprietà privata
sia un diritto naturale.
Se è vero, infatti, che si può ‘riconoscere’ solo ciò che già esiste, il che potrebbe significare che
il diritto di proprietà in qualche modo preesiste all’intervento legislativo; è altrettanto vero, però, che la
11
16.
Così M. COSTANTINO, voce Proprietà. II) Profili generali - Dir. Civ., in Enc. Giur. Treccani, vol. XXV, p.
12
S. PUGLIATTI, La proprietà e le proprietà, in ID., La proprietà nel nuovo diritto cit., pp. 148-149.
Cfr. A. MOSCARINI, voce Proprietà, in S. CASSESE (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, 2006, vol. V,
pp. 4650 ss., 4652, del quale sono le parole fra virgolette.
13
8
disposizione attribuisce il compito del riconoscimento alla legge (e non alla Repubblica, come invece la
Carta fa, ad esempio, nell’art. 5 per le autonomie locali: non è la stessa cosa).
Orbene, visto che la Costituzione assegna l’attività di riconoscimento ad una fonte giuridica che
integra la espressione della volontà generale, si deve ritenere che il riconoscimento in parola è un effetto
della manifestazione della volontà generale che si formalizza nella legge.
Se, dunque, la disposizione del primo comma dell’art. 42 Cost. sicuramente impedisce alla legge
di abolire la proprietà privata – questo è fuori discussione! –, al tempo stesso, però, ciò non significa che
si possa fondatamente parlare, sulla sua base, di un diritto naturale alla proprietà, di tipo liberale classico.
E infatti, per identificare il contenuto del diritto di proprietà, occorre proseguire la lettura del co.
2, il quale specifica che la legge «ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di
assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Questa affermazione, difficilmente discutibile, costituisce – secondo me – un ostacolo giuridico
insormontabile al riaffermarsi della cultura liberal-liberista: essa segna la funzionalizzazione sociale della proprietà privata, nel senso che la legge deve di questa determinare i modi di acquisto, i modi di godimento, ed i limiti – che sono tre cose distinte, pur se collegate – così da realizzare due scopi inequivocabili: da un lato, la ‘funzione sociale’, e, dall’altro, la ‘accessibilità a tutti’ della proprietà privata. Ed in
particolare, i ‘modi di acquisto’ ed i ‘limiti’ vanno più correttamente riferiti alla accessibilità a tutti della proprietà; mentre alla funzione sociale della proprietà sono più propriamente riconducibili i ‘modi di
godimento’.
Non è inutile ricordare che, nel dibattito in Assemblea costituente, per «“limiti” alla proprietà
privata» – come ha spiegato autorevole dottrina – «non si indicavano le restrizioni al godimento del
proprietario, secondo l’uso del termine invalso in dottrina, bensì limiti alla estensione della proprietà».
Insomma: «la proprietà privata veniva riconosciuta “in vista di determinati scopi e entro certi limiti”»14.
Ad ogni modo, mettendo da parte la prospettiva dell’accessibilità a tutti, cui si collegano modi
di acquisto e limiti – la quale è in buona sostanza eccentrica rispetto al tema che stiamo trattando15 –, bisogna ora mettere a fuoco la questione della funzione sociale, spiegando come vi si correlano i modi di
godimento.
Anzitutto, cosa significa funzione sociale della proprietà?
Non v’è dubbio che essa debba intendersi, in linea generale, come la vocazione della proprietà a
garantire il «benessere materiale e spirituale dei consociati»16, e quindi non soltanto quello economico
(come taluni autori hanno ritenuto), poiché l’utilizzazione produttiva dei beni deve essere subordinata al
14
Così G. PALMA, Beni di interesse pubblico cit., pp. 154-155, il quale riprende le parole dell’intervento di
Fanfani nella Terza Sottocommissione dell’Assemblea Costituente. In ogni caso, anche a voler considerare i limiti come
quelli con cui si realizzano le modalità di esercizio del diritto, è da tener presente che essi, pur influendo sull’assetto dei
beni o di determinate categorie di beni, non ne intaccano il carattere della ‘appartenenza’ al privato. Non sembra dubbio, infatti, che tali restrizioni possano incidere sul godimento e sulla disponibilità del bene solo a condizione di rispettarne il contenuto, vale a dire i caratteri propri della nozione di proprietà presupposta dal Costituente. È in tale contesto,
quindi, che assume rilievo l’individuazione del cosiddetto ‘contenuto minimo’, o essenziale, del diritto di proprietà, ovvero di quello ‘zoccolo duro’ della proprietà che non può essere scalfito, e quindi alterato, dalle leggi che in particolare
mirano alla sua conformazione.
15
Sul punto si può comunque rinviare all’accuratissima analisi di G. PALMA, Beni di interesse pubblico cit., pp.
154-157 e 169-180.
16
G. PALMA, Beni di interesse pubblico cit., p. 194.
9
conseguimento di finalità, che, andando oltre quelle tipiche dell’attività economica d’impresa, attengono
allo sviluppo della persona17.
D’altra parte, se la Costituzione riconosce piena dignità di esistenza, parallelamente a quella
pubblica, alla proprietà privata – e questo è altrettanto indiscutibile! –, non si può pensare che un intervento legislativo di funzionalizzazione possa ‘azzerare’ in toto il diritto di proprietà: occorre perciò convenire sulla individuazione di un (sia pur astratto e teorico) ‘contenuto minimo’ che la disponibilità del
bene deve garantire al suo titolare.
Detto contenuto non sembra – quanto meno sul piano teorico – potersi ricavare da altro che
dall’analisi dei possibili modi di godimento che la legge stabilisce.
A ben riflettere, infatti, al fine di scoprire il nucleo essenziale del diritto di proprietà, non sembra
utile guardare alla titolarità dell’appartenenza del bene, giacché questa con ogni evidenza non qualifica
la struttura, e quindi il contenuto, del diritto; né, d’altro canto, sembra utile guardare al potere di disposizione, giacché questo si accompagna ad ogni diritto patrimoniale (e non solo a quello di proprietà).
Quel nucleo, invece, è da rinvenirsi nel potere di godimento, e cioè nel potere, riconosciuto al titolare
dell’appartenenza del bene, di scegliere come usarne, evidentemente nel quadro dei possibili indirizzi di
utilizzazione stabiliti dalla legge (dall’ordinamento) per tutti i beni della categoria in cui il bene in discussione è ascritto.
In altre parole, e in definitiva, il diritto di proprietà «può configurarsi come l’interesse alla scelta
del tipo di godimento, alla scelta, cioè, delle possibili destinazioni del bene; interesse che […] non risulta garantito in nessun altra relazione di godimento»18.
Che questa sia la prospettiva ermeneutica da doversi assumere è confermato dalla Corte costituzionale che, sin dagli albori della sua giurisprudenza (sentenze 55 e 56 del 1968), ha evidenziato come
non si possano, in nome della funzione sociale della proprietà, introdurre limiti al diritto dominicale tali
che, per quantità e qualità, ne intacchino l’essenza.
La linea interpretativa della Corte ha trovato conferma, e anzi un significativo ulteriore sviluppo,
anche di recente, nelle sentenze 348 e 349 del 2007, che dichiarano incostituzionali alcune norme, in
materia, rispettivamente, di «espropriazione per pubblica utilità» e di «occupazione acquisitiva nelle espropriazioni per pubblica utilità», per non esser conformi alla giurisprudenza della Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo19.
Su queste torneremo nella parte finale. Per adesso è sufficiente sottolineare che la funzione sociale non può giungere fino a sopprimere il Kern, il contenuto minimo del diritto di proprietà.
La funzione sociale, del resto, è da assicurarsi in ordine alla proprietà riconosciuta e garantita
come privata, vale a dire proprio in ordine ai beni che, entro il confine del sistema dualistico (proprietà
privata e proprietà pubblica), devono permanere nell’ambito della appropriazione privata.
Pertanto, «non è consentito in nome della funzione sociale introdurre tali e tante restrizioni (Eingriffe) da far scomparire sostanzialmente – pur lasciando inalterata l’appartenenza formale – l’essenza
17
Sviluppo che la Costituzione predica nei suoi Principi fondamentali, e soprattutto nel combinato disposto degli artt. 2 e 3. Sul punto si v., ancora una volta, le bellissime pagine di G. PALMA, Beni di interesse pubblico cit., pp.
197-238.
18
Così ancora G. PALMA, Beni di interesse pubblico cit., pp. 485-486.
19
Sono significative le sentenze, relative alla causa Scordino c. Italia, della sez. I, 29 luglio 2004; della sez. IV,
17 maggio 2005; e della sez. IV, 6 marzo 2007.
10
della proprietà privata (Wesensgehalt), raggiungendo così – sul piano dell’effetto pratico – un risultato
sostanzialmente identico a quello conseguito con il procedimento di avocazione»20. Anche perché appare difficilmente concepibile la realizzazione della stessa ‘funzione sociale’ del diritto di proprietà, quando il titolare del diritto non abbia alcuno spazio per poterne godere individualmente: l’intervento ‘funzionalizzante’, dunque, «deve essere diretto ad assicurare la funzione sociale, e non a nullificare la proprietà individuale privata. E dal momento che l’elemento strutturale essenziale […] appare costituito
dall’interesse al godimento (o all’utilizzazione) del bene, valutabile anche in termini economici, […] se
ne deduce che un siffatto interesse può essere compresso, indirizzato, in una: tipicizzato, ma non completamente soppresso»21.
La proprietà (oggettivamente) privata, dunque, può tanto essere in appartenenza soggettiva privata, quanto in appartenenza soggettiva pubblica, come mostra lo Schema 3.
SCHEMA 3
L’appartenenza soggettiva della proprietà individualizzata
(ovvero ‘oggettivamente privata)
Proprietà
INDIVIDUALIZZATA
in appartenenza
soggettiva
PRIVATA
in appartenenza
soggettiva
PUBBLICA (*)
(*) Esclusa dall’analisi, salvo che per quanto concerne la eventuale alienazione a soggetti privati dei beni
ad essa relativi
2.4. Preliminari conclusioni definitorie
Sembra allora doversi preliminarmente convenire che, in definitiva, lo statuto proprietario di tipo privatistico (ovvero della proprietà individualizzata) include anche la proprietà (soltanto) soggettivamente pubblica. In questo caso, come è evidente, la proprietà è in appartenenza pubblica come potrebbe essere in appartenenza privata.
I beni che costituiscono la proprietà individualizzata in appartenenza pubblica, in realtà, sono
dalla legge qualificati/conformati al fine di garantire la ‘funzione sociale’, al pari dei beni in appartenenza privata, pur soggiacendo ad un regime giuridico diverso da quello proprio di questi ultimi.
Del resto, è così che si spiega la espropriazione di cui al co. 3 dell’art. 42 Cost.: questa è opera di
un intervento singolare, provvedimentale, della P.A., che ha lo scopo di portare il bene in mano pubblica, così da sottoporlo al regime giuridico proprio dei beni in appartenenza pubblica.
E infatti, la ragione giuridico-istituzionale della previsione in parola sta in ciò: che la espropriazione di un bene di proprietà privata in favore di un soggetto pubblico, pur non mutando lo schema giu20
21
G. PALMA, Beni di interesse pubblico cit., pp. 160-161.
G. PALMA, Beni di interesse pubblico cit., p. 164.
11
ridico proprietario del bene (che resta quello della proprietà individualizzata), trova ragion d’essere nella
necessità di mutamento del regime giuridico del bene (che cambia al variare della titolarità soggettiva,
da privata a pubblica). Evidentemente il bene, una volta espropriato, sarà in appartenenza pubblica non a
titolo di proprietà collettiva, bensì a titolo di proprietà individualizzata, soggiacente peraltro al regime
giuridico (di volta in volta stabilito dalla legge) dettato in funzione del conseguimento di interessi pubblici che non sarebbero stati conseguibili restando il bene (in titolarità soggettiva privata, e quindi) sottoposto al regime giuridico dei beni in titolarità soggettiva privata, benché la disciplina della relativa
proprietà fosse stata ‘funzionalizzata’ dalla legge.
Pertanto, la proprietà pubblica di cui al co. 1 dell’art. 42 Cost. è costituita da quei beni che, essendo propri della comunità, solo per ciò sono in appartenenza del soggetto pubblico; in realtà detti beni
sono in appartenenza del soggetto esponenziale, rappresentativo, della comunità perché di tali beni esso
è un mero amministratore per conto di questa.
Lo schema di appartenenza, quindi, non è quello della proprietà individualizzata tipicamente
privatistica (sia pur in capo al soggetto pubblico), connotandosi invece per essere pubblicistica in sé, in
conseguenza del fatto che i beni relativi presentano (comunque per disposizione della legge) una ‘naturale’, a dir così, vocazione collettiva, di tal che, nei loro confronti, la P.A. svolge un ruolo di gestore in
nome della collettività.
Una cosa, dunque, è la proprietà oggettivamente pubblica, altra cosa è la proprietà soggettivamente pubblica, che è qualificata dall’intervento di funzionalizzazione ad opera della legge, né più e né
meno come la proprietà privata (cambia il soggetto titolare, ma non lo schema, o statuto, proprietario)
Naturalmente, il fatto che il soggetto titolare dell’appartenenza sia pubblico non è privo di conseguenze, e non di poco conto. Ma, sul piano concettuale, lo statuto proprietario è quello della proprietà
privata, definito dal co. 2 dell’art. 42, in base al quale la legge deve ‘funzionalizzare’ in senso sociale la
proprietà.
Allora, la cosa di cui un soggetto è proprietario ‘sopporta’, per così dire, una qualificazione giuridica dall’ordinamento, tale da funzionalizzarne in senso sociale la ragione di esistenza, a prescindere
dal fatto che esso sia pubblico o privato: lo statuto proprietario della proprietà privata è unico, giacché i
beni sono tali in ragione della loro qualificazione giuridica dettata dall’ordinamento.
Il piano regolatore, la strumentazione urbanistica, insomma, costituiscono altrettanti interventi di
qualificazione in senso giuridico della proprietà. Il bene è qualificato dall’ordinamento, in un modo o in
un altro, così consentendosi al titolare del diritto di proprietà sullo stesso, sì, una serie di utilitates, che
però sono fissate dalla norma giuridica, in modo che – secondo quanto prescritto dalla Costituzione – il
godimento del bene venga indirizzato nella direzione del vantaggio sociale, del bene comune.
Questo non significa che si possa, attraverso interventi di qualificazione ‘funzionalizzante’,
giungere fino al punto di azzerare un contenuto minimo (e dunque il concetto stesso) della proprietà privata.
Epilogando, stando al dettato ed al senso più convincente dell’art. 42 Cost., possiamo perciò così
concludere sulle definizioni preliminari: da un lato, per proprietà pubblica (in senso proprio) deve intendersi essenzialmente la proprietà collettiva, la cui nozione può farsi risalire all’antica origine, evidentemente arricchita dalle progressive evoluzioni storiche, fino all’era contemporanea. Per essa la P.A., a
prescindere dall’essere titolare di una situazione soggettiva proprietaria, è il gestore per conto della co-
12
munità; dall’altro lato, per proprietà privata deve intendersi, invece, quella individualizzata, lo schema
di appartenenza della quale (a prescindere dalla titolarità dell’appartenenza) concettualmente si contrappone allo schema della proprietà collettiva.
3. L’influenza del diritto amministrativo sul tema, ovvero la regolazione pubblicistica del diritto
di proprietà (oggettivamente) privata: interventi normativi di qualificazione/conformazione e vincoli amministrativi
Alla luce di quanto abbiamo sin qui riassunto, si può dire che il diritto amministrativo influisca
sensibilmente sulla conformazione del diritto di proprietà, giacché è attraverso la disciplina normativa
che i beni ricevono la loro propria qualificazione giuridica, così come è mediante gli interventi singolari
della P.A., finalizzati a realizzare, di volta in volta, i vari interessi pubblici (soltanto in funzione del conseguimento dei quali la legge assegna ad essa il potere), che essi vedono determinarsi i concreti limiti alla loro utilizzabilità.
Escludendo la proprietà oggettivamente pubblica, quella cioè in appartenenza collettiva, la qualificazione/conformazione è propria di tutte le proprietà ‘individualizzate’ a prescindere dalla titolarità
della loro appartenenza, che questa sia privata o pubblica.
Mi pare che, a questo punto, risulti più chiara la ragione di una così corposa premessa volta a delineare il quadro generale: dalla lettura della previsione costituzionale, infatti, derivano conseguenze
dense di significato sul tema specifico che stiamo trattando.
La descrizione (anche) della proprietà pubblica è stata necessaria, anzitutto, perché la proprietà
privata funzionalizzata – come abbiamo visto – è tale a prescindere dalla titolarità della sua appartenenza, se pubblica o privata; e, in secondo luogo, perché i beni in appartenenza pubblica (tanto demaniali,
quanto patrimoniali indisponibili), una volta trasferiti in appartenenza privata, ove conservino la loro destinazione pubblica, e dunque almeno parte della loro qualificazione, mantengono anche parte del relativo regime giuridico, regime che ‘accompagnerà’ il bene pure nei successivi trasferimenti di proprietà.
Naturalmente, ciò non accade nel caso in cui i beni in appartenenza soggettiva pubblica perdano
il vincolo di destinazione: ricorrendo questa evenienza, essi, infatti, passano al patrimonio disponibile22,
e perciò, essendo divenuti pienamente equiparati ai beni in proprietà privata, saranno alienabili a soggetti privati alla stessa stregua di un qualunque bene originariamente in appartenenza privata (e dunque
senza vincolo di destinazione). Ed è evidente che il privato acquirente potrà, a sua volta, alienare il bene
che ha acquistato dal soggetto pubblico come se fosse privo del suo ‘tratto’ precedente.
Nei trasferimenti successivi, pertanto, sarà sempre necessario accertarsi della ‘storia’, per così
dire, di ogni singolo bene, giacché questo potrebbe ‘portarsi dietro’ la ‘destinazione pubblica’ che non si
è perduta nella privatizzazione. In tali casi, naturalmente, dipenderà dalla legge, di volta in volta, la collocazione dei vincoli relativi nell’ambito della qualificazione/conformazione per categorie di beni, ovvero delle limitazioni esterne su singoli beni individui.
22
Fra le cause di «perdita della qualità demaniale», E.O. QUERCI, voce Sdemanializzazione, in Dig. Disc.
Pubb., Aggiornamento, vol. II, pp. 663 ss., 672-673, annovera anche la «recente legislazione in materia di privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, che delinea un procedimento di passaggio dei beni demaniali e di quelli del
patrimonio indisponibile al patrimonio disponibile dello Stato» (corsivi di chi scrive).
13
4. Gli interrogativi posti dalla distinzione della proprietà individualizzata (oggettivamente privata) a seconda dell’appartenenza soggettiva, pubblica o privata
La proprietà individualizzata, che si può qualificare privata sotto il profilo oggettivo, si distingue
– come abbiamo chiarito – sotto il profilo soggettivo, in ragione della titolarità pubblica o privata della
relativa appartenenza. Si pongono al riguardo due interrogativi.
Il primo è il seguente: c’è differenza fra beni in proprietà privata funzionalizzata (altrimenti definibili beni privati di interesse pubblico), da un lato, e beni pubblici privatizzati, dall’altro? In altri termini, è giuridicamente significativa la distinzione? In cosa si diversifica un bene pubblico privatizzato
da un qualunque bene in appartenenza privata funzionalizzata?
La risposta dipende, di volta in volta, dalla disciplina dettata dalla legge di ‘dismissione’: ove
questa, lasciando sui beni privatizzati la destinazione pubblica, determinasse conformazioni per categorie di beni, non vi sarebbe differenza con la proprietà privata funzionalizzata; altrimenti, ove la destinazione fosse invece rimossa, nel caso sui beni dovessero residuare dei vincoli, questi andrebbero verosimilmente considerati quali limitazioni esterne gravanti individualmente su ciascuno di essi. In entrambi
i casi sarebbe comunque necessario accertarsi del percorso ‘storico-normativo’ che il bene abbia effettivamente seguito.
Il secondo interrogativo, invece, può così formularsi: c’è differenza fra beni in proprietà funzionalizzata in appartenenza soggettiva pubblica e beni in proprietà funzionalizzata in appartenenza soggettiva privata?
La risposta è evidentemente no, nel caso si tratti di beni del patrimonio disponibile. Deve invece
essere sì, ove si tratti di beni in appartenenza individualizzata formalmente qualificati demaniali o patrimoniali indisponibili, giacché per ciascun tipo di questi la legge, l’ordinamento, detta regimi giuridici
che, seppur differenti l’uno dall’altro, segnano la loro ‘vita concreta’ in modo significativamente diverso
da quella dei beni del patrimonio disponibile.
Occorre ora provare ad illustrare il ragionamento sotteso a queste risposte, indagando sulla complessa disciplina della proprietà individualizzata in appartenenza soggettiva privata.
5. La proprietà individualizzata in appartenenza soggettiva privata
I beni in appartenenza soggettiva privata – come sembra si possa dire di aver chiarito – sono
qualificati giuridicamente dall’ordinamento, che deve, per Costituzione, conformarli in modo da garantire la funzione sociale della proprietà (prima ipotesi).
Ma ciò non esaurisce la regolazione amministrativa su di essi. Due soggetti possono essere titolari di beni che l’ordinamento qualifica alla stessa maniera, epperò solo uno dei due può dover ‘sopportare’ provvedimenti amministrativi limitativi, ablatori (espropriativi e non), della disponibilità integrale,
ovvero soltanto di una o più facoltà, degli stessi (seconda ipotesi).
Nella prima ipotesi possiamo parlare di qualificazione/conformazione giuridica dei beni per categorie (ccdd. ‘limitazioni interne’); nella seconda, invece, di vincoli amministrativi su singoli beni (ccd.
‘limitazioni esterne’). Le due ipotesi sono raffigurate nello Schema 4.
14
SCHEMA 4
Regolazione amministrativa della proprietà individualizzata
in appartenenza soggettiva privata
PROPRIETA’
individualizzata
in appartenenza soggettiva
PRIVATA
Qualificazione/conformazione
per CATEGORIE di beni
(ccdd. ‘limitazioni interne’)*
Vincoli amministrativi
su SINGOLI beni
(ccdd. ‘limitazioni esterne’)**
(*) Contenuto minimo della proprietà: disponibilità del godimento individuale
Conformazione apparente che nasconde vincoli espropriativi sostanziali (obbligo di indennizzo)
(**) Obbligo di indennizzo solo se espropriativi
La qualificazione/conformazione giuridica dei beni per categorie può intervenire, a sua volta,
tanto (a) direttamente ad opera della legge, quanto (b) ad opera di atti amministrativi fonte del diritto obiettivo, come evidenziato nello Schema 5.
SCHEMA 5
Qualificazione/conformazione della proprietà
per ‘categorie’ di beni
Interventi normativi
di qualificazione/conformazione
per categorie di beni
(ccdd. ‘limitazioni interne’)
ad opera di
ATTO AMMINISTRATIVO
FONTE DI DIRITTO OBIETTIVO
(**)
ad opera della
LEGGE
(*)
(*) Com unque applicati singolarmente ai beni m ediante provvedimenti
(**) Piani regolatori, strumentazione urbanistica in genere
Sebbene – come vedremo – siano ben più numerose le tipologie degli interventi legislativi di
qualificazione/conformazione, nella realtà, la più significativa (sotto il profilo qualitativo) differenza fra
le categorie dei beni è data dalla loro qualificazione/conformazione ad opera della strumentazione urbanistica (atti amministrativi fonte del diritto obiettivo).
Quanto alla seconda ipotesi, si tratta dei casi in cui singoli beni individui subiscono un provvedimento ablatorio, per effetto del quale la legge può prevedere, oppure no, l’espropriazione del bene
(ovvero di diritti reali su di esso, ovvero ancora, addirittura, di singole facoltà inerenti alla proprietà così
come qualificata/conformata dall’ordinamento). L’ipotesi è raffigurata nello Schema 6.
15
SCHEMA 6
Vincoli amministrativi su ‘singoli’ beni
Vincoli amministrativi
su singoli beni
(ccdd. ‘limitazioni esterne’)
ablatori
espropriativi
(*)
ablatori
non espropriativi
(**)
(*) Qu ando è stato ‘indennizzato’ il ben e resta singolarmente limitato anche per effetto del vin colo e, ove
alienato, il nu ovo proprietario n on può vantare alcuna pretesa a conseguire nuovamente l’in den nizzo.
(**) Possono circoscrivere l’uso di u n singolo bene, an che privando il titolare di alcune utilitates, ma senza
diritto ad in den nizzo.
Il dato che, almeno sul piano descrittivo, appare discriminare circa la ricorrenza o meno di una
espropriazione, sembra doversi rinvenire nella indennizzabilità della perdita del bene, del diritto reale su
di esso, ovvero della singola facoltà. In questo caso, dunque, si tratterà di vincoli ablatori espropriativi.
Nell’altro caso, viceversa, possiamo parlare di vincoli ablatori non espropriativi, giacché il vincolo ablatorio, comunque singolare – e cioè su un bene individuo (e quindi non su una categoria di beni)
–, è costruito dalla legge (dall’ordinamento) come non indennizzabile23.
Ove, peraltro, versandosi nel primo caso, sia già intercorso il provvedimento espropriativo, con
la corresponsione del relativo indennizzo, è evidente che alla successiva alienazione del bene ad un altro
soggetto (pubblico o privato che sia), esso entrerà nella sfera giuridica del nuovo titolare privo del diritto
reale, ovvero delle singole facoltà, perduti ed indennizzati, con la conseguenza naturale che l’avente
causa non potrà rivendicare nuovamente l’indennizzo.
Alla luce di quanto sin qui osservato preliminarmente, possiamo finalmente passare alla ricognizione analitica delle qualificazioni normative e dei possibili provvedimenti amministrativi ablatori. Tale
ricognizione, la cui illustrazione ora seguirà, è stata effettuata indagando direttamente le leggi: il numero
praticamente sterminato di queste è tale che appare opportuno avvertire che la ricognizione può, verosimilmente, difettare di esaustività 24.
5.1. La qualificazione/conformazione giuridica finalizzata a garantire la ‘funzione sociale’ della
proprietà privata, secondo l’art. 42, co. 2, Cost. Le ccdd. ‘limitazioni interne’.
Nel descrivere la ricognizione delle ipotesi di qualificazione/conformazione giuridica finalizzata
a garantire la ‘funzione sociale’ della proprietà privata, occorre, in primo luogo, prendere in esame i be23
In altre parole, deve essere ben chiaro che il fatto che il vincolo non sia espropriativo, pur essendo ablatorio,
non fa perdere all’intervento il suo carattere singolare, non potendo per ciò esser confuso con gli interventi normativi di
qualificazione/conformazione. Insomma, il discrimine tra interventi di qualificazione/conformazione e interventi singolari non può rinvenirsi – come intuitivamente si potrebbe essere indotti a credere – nella previsione legislativa di un indennizzo.
24
Ai fini della selezione delle leggi da indagare non è stata ininfluente la classificazione dei vincoli ‘ambientali’ operata da M. RENNA, Vincoli alla proprietà, in Dir. econ., 2005, pp. 715 ss., 718 (che si richiama alla elencazione
proposta da P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale, Cedam, Padova, 2003, pp. 224 ss.), secondo il quale essi sono «i seguenti: a) i vincoli idrogeologici; b) i vincoli forestali; c) i vincoli per la tutela delle acque; d) i vincoli cd. naturalistici; e) i vincoli paesaggistici; f) i vincoli cd. indiretti o di completamento per la tutela dei beni culturali; g) i vincoli
urbanistico-territoriali con finalità di tutela ambientale o paesaggistica (inclusi i vincoli per la tutela dei centri storici)».
16
ni privati di interesse pubblico (ossia i beni in proprietà privata funzionalizzata) ed i beni privati a destinazione pubblica (ossia i beni pubblici privatizzati); nonché, in secondo luogo, procedere alla collocazione delle limitazioni, per così dire, ‘interne’, nell’ambito di quelle che derivano da atti legislativi di
qualificazione/conformazione, ovvero nell’ambito di quelle che derivano da atti amministrativi fonte del
diritto obiettivo.
5.1.1. Beni privati di interesse pubblico e beni privati a destinazione pubblica
Come abbiamo fatto cenno poc’anzi, dobbiamo chiederci se il bene che era in origine demaniale,
ovvero patrimoniale indisponibile, una volta alienato ad un soggetto privato, conservi in sé vincoli che
ne circoscrivano la piena utilizzabilità. La risposta non può essere una sola, giacché al riguardo sono
configurabili due diversi fenomeni.
a) Può accedere, infatti, che l’alienazione si abbia in favore di soggetti solo formalmente privati
(si pensi alle società per azioni in mano pubblica), ciò non comportando una modifica della destinazione
e della gran parte del regime giuridico del bene alienato.
Questo significa che il soggetto acquirente potrà, sì, utilizzare in vece dello strumentario giuridico pubblicistico quello proprio del diritto civile (ricorrendo al contratto, in luogo del provvedimento di
concessione, per l’uso singolare del bene); ma non potrà in alcun modo modificare la destinazione del
bene, né alienarlo a sua volta ad altro soggetto privato.
Il profilo in parola ha di recente meritato una sempre più significativa attenzione, finendo per
acquisire le caratteristiche di un tema avente dignità di autonoma trattazione: quello della commerciabilità dei beni a destinazione pubblica, che si presenta strettamente connesso con il – ed anzi è stato in
qualche modo accentuato dal – fenomeno della cd. ‘cartolarizzazione’25.
25
La dismissione del patrimonio immobiliare pubblico ritenuto non necessario al perseguimento dei fini pubblici, incluse alcune categorie di beni culturali, fu disposta al fine di sfruttarne il valore di scambio, sì da risanare le dissestate finanze pubbliche, anche attraverso l’utilizzo della tecnica finanziaria cd. ‘di cartolarizzazione’. Le politiche di
dismissione dei compendi immobiliari cominciarono a delinearsi fin dalla Legge 29 gennaio 1992, n. 35 (recante «Trasformazione in società per azioni degli enti di gestione delle partecipazioni statali e degli altri enti pubblici economici
nonché delle aziende autonome statali, da attuarsi in conformità agli indirizzi di politica economica ed industriale deliberati dal CIPE, ai sensi dell’art. 1 del decreto-legge 5 dicembre 1991, n. 386, convertito, senza modificazioni, con
legge 29 gennaio 1992, n. 35»); trovarono nuovo impulso con le Leggi 24 dicembre 1993, n. 537 (recante «Interventi
correttivi di finanza pubblica», e 23 dicembre 1994, n. 724 (recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»); si perfezionarono con il sistema delle leggi finanziarie per gli anni 1997, 1999 e 2000 (nn. 662/1996; 448/1998, e
448/1999) e, da ultimo, con la Legge 23 novembre 2001, n. 410 (di «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 settembre 2001, n. 351, recante disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del
patrimonio immobiliare pubblico e di sviluppo dei fondi comuni di investimento immobiliare»), e la Legge 15 giugno
2002, n. 112 (di «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 15 aprile 2002, n. 63, recante disposizioni
finanziarie e fiscali urgenti in materia di riscossione, razionalizzazione del sistema di formazione del costo dei prodotti
farmaceutici, adempimenti ed adeguamenti comunitari, cartolarizzazioni, valorizzazione del patrimonio e finanziamento delle infrastrutture»). Sulle operazioni di cartolarizzazione si v.: G. BEI, Società per la cartolarizzazione dei crediti:
riflessioni su alcuni spunti problematici, in Le società, 2003, p. 1217. Il tema è stato affrontato con la dovuta enfasi nel
convegno su “Titolarità pubblica e regolazione dei beni”, organizzato dall’Associazione Italiana dei Professori di Diritto
Amministrativo, a Firenze, nei giorni 2 e 3 ottobre 2003, i cui atti sono pubblicati in AIPDA, Annuario 2003, Giuffrè,
Milano, 2004 [si v., in particolare, gli studi di: V. CERULLI IRELLI, Utilizzazione economica e funzione collettiva dei beni, pp. 3 ss.; G. CORSO, I beni pubblici come strumento essenziale dei servizi di pubblica utilità, pp. 29 ss. (specialmente
per il profilo del rapporto tra politiche di liberalizzazione e proprietà pubblica); M. DUGATO, Ruolo e funzioni di Infrastrutture S.p.A., pp. 119 ss.; F. FRANCARIO, Privatizzazioni, dismissioni e destinazione “naturale” dei beni pubblici, pp.
191 ss.; G. NAPOLITANO, La Patrimonio dello Stato S.p.A. tra passato e futuro: verso la scomposizione del regime demaniale e la gestione privata dei beni pubblici?, pp. 251 ss.; M. RENNA, Beni “pubblici” degli enti “privatizzati”, pp.
17
Il tema, evidentemente, non può essere compiutamente affrontato in questa sede, sebbene non ci
si possa esimere dallo svolgere alcune brevi ed essenziali riflessioni.
Vincoli di destinazione e commerciabilità ‘regolata’ dei beni. La categoria dei beni a destinazione pubblica è stata di recente studiata dalla dottrina, nella quale si è fatta strada l’idea che le recenti
evoluzioni legislative abbiano generato una nuova categoria, quella appunto dei beni a destinazione
pubblica, i quali – come è stato efficacemente chiarito – possono «considerarsi “pubblici” anche se appartenenti a soggetti privati, in virtù della loro permanente sottoposizione ai rispettivi vincoli di destinazione e della connessa regolazione amministrativa delle loro possibilità di utilizzo»; ciò significa che
«mentre, nelle ipotesi in cui si continuerà formalmente ad applicare l’art. 823, comma 1, del codice civile, la tradizionale incommerciabilità dei beni pubblici cederà il passo ad una commerciabilità che si potrebbe efficacemente definire “regolata”. Si potrebbe dire, con altrettanta efficacia, che
l’incommerciabilità dei beni sarà sostituita dall’incommerciabilità della loro destinazione, per significare come quest’ultima non sarà modificabile “se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano”, riconoscendo una valenza generale alla regola finalistica formulata per i beni patrimoniali indisponibili
dall’art. 828, comma 2, del medesimo codice»26.
D’altra parte, non va trascurato che persistono ipotesi disciplinate in modo che sia preclusa la
commerciabilità fra soggetti privati27. In ogni caso, però, resta fermo che per quelli – sempre più numerosi – divenuti alienabili a «comuni soggetti privati», alla stessa stregua di quelli che sono «trasferibili
soltanto a soggetti sostanzialmente pubblici», permane il vincolo di destinazione; di talché il loro regime
giuridico, anche laddove siano passati nella formale appartenenza privata, rimane fortemente connotato
dalla regolazione pubblicistica28.
295 ss. Per una prospettiva, in parte, critica, si v. lo studio di V. CAPUTI JAMBRENGHI, Proprietà dovere sui beni in titolarità pubblica, pp. 61 ss.].
26
Così M. RENNA, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica, Giuffrè, Milano, 2004, pp.
290-291. L’A. prosegue affermando che «I beni a destinazione pubblica appartenenti a soggetti ora solo formalmente
ora pure sostanzialmente privati potranno essere commercializzati, quindi, in maniera compatibile con il contenuto dei
vincoli gravanti sugli stessi, benché per quelli trasferiti a determinati soggetti sostanzialmente pubblici (si pensi al trasferimento all’ANAS S.p.a. della rete autostradale e stradale nazionale, ai conferimenti alle apposite società a partecipazione interamente pubblica delle infrastrutture destinate all’esercizio dei servizi locali di rilevo economico, ovvero i trasferimenti alla Patrimonio S.p.a. degli immobili statali di matrice demaniale) dallo spettro delle potenzialità di commercializzazione debba essere sottratta l’alienabilità ai comuni soggetti privati» (p. 291).
27
Anche se M. RENNA, La regolazione amministrativa dei beni a destinazione pubblica cit., p. 291, sottolinea
che «La permanenza di fattispecie nelle quali i beni non potranno circolare tra comuni soggetti privati (si pensi ad esempio ad alcune tipologie di beni culturali demaniali) parrebbe stridere, in realtà, con la nuova concezione oggettiva di
“bene pubblico”, soprattutto in rapporto a talune specie o classi di beni la cui appartenenza pure sostanzialmente privata
non sembrerebbe affatto incompatibile con la garanzia della loro integrità e della loro destinazione pubblica (si pensi a
diverse infrastrutture di pubblico servizio o di utilizzo collettivo, ovvero agli esempi […] di una spiaggia o di un piccolo
lago o corso d’acqua, ovvero ancora a svariati immobili del demanio culturale che rivestono un interesse particolarmente importante a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere […])».
28
«Ciò posto, che si tratti di beni alienabili a comuni soggetti privati o di beni trasferibili soltanto a soggetti sostanzialmente pubblici, l’esame della nuova disciplina “desoggettivata” dei beni a destinazione collettiva o amministrativa restituisce all’interprete un quadro entro il quale gli stessi, pur appartenendo o potendo appartenere a soggetti almeno formalmente privati, rimangono sottoposti a un vincolo di destinazione reale ed oggettivo, estinguibile esclusivamente mediante la cessazione della loro pubblicità sostanziale. Quindi, finché detti beni rimarranno assoggettati ai rispettivi vincoli di destinazione, continuerà ad espletarsi la loro regolazione amministrativa, che a sua volta contribuirà
ad integrare e specificare il contenuto legale dei medesimi vincoli», così ancora M. RENNA, op. ult. cit., p. 293 (il quale
sul punto richiama G. NAPOLITANO, La Patrimonio dello Stato s.p.a. cit., parr. 2 e 4). Ed i vincoli in parola – prosegue
l’A. – «in quanto vincoli reali imposti da un provvedimento dell’amministrazione o immediatamente dalla legge, reste-
18
In particolare, per essi continuano a rilevare i diversi provvedimenti amministrativi finalizzati a
qualificarli, a determinarne la destinazione, ed a limitarne la utilizzabilità, sia collettiva che individuale.
Ciò nondimeno essi divengono commerciabili attraverso «l’impiego dei mezzi offerti dal diritto privato»29. Il che spiega perché potrebbe essere conveniente per un privato «diventare proprietario di un bene
oggettivamente pubblico»30: questi ricaverebbe comunque delle, più o meno significative, «utilità economiche»31, dalle quali non possono andar disgiunte quelle derivanti dal «formidabile ausilio rappresentato, ai fini della tutela dell’integrità e della destinazione degli stessi beni, dai poteri di polizia amministrativa intestati ai competenti enti pubblici»32.
In definitiva, i soggetti privati che volessero «acquistare un bene vincolato all’uso collettivo o
amministrativo» dovrebbero tener conto, da un lato, dei limiti cui questi sono sottoposti, e, dall’altro,
degli obiettivi vantaggi che ne ricaverebbero33, fra i quali non vanno dimenticati nemmeno quelli che
dovrebbero venire «dall’annunciato abbandono dello strumento delle concessioni amministrative: in
particolare, tanto i nuovi proprietari dei beni, se provvederanno in prima persona a ricavare dagli stessi
le relative utilità economiche, quanto i soggetti terzi, cui i proprietari concederanno il diritto di utilizzare
i medesimi beni, eviteranno di incorrere nelle situazioni di costante incertezza ingenerate
dall’eventualità che le amministrazioni competenti esercitino i poteri di revoca unilaterale dei provvedimenti di concessione; segnatamente, tra i nuovi proprietari e gli altri soggetti utilizzatori dei beni po-
ranno in vigore anche a prescindere dalla loro previsione o considerazione nei negozi di trasferimento o alienazione dei
beni; mentre saranno nulli, ai sensi dell’art. 1418, comma 1, c.c., tutti i negozi di disposizione dei beni contrastanti con
il divieto di mutare la loro destinazione istituzionale (così come saranno in ogni caso nulli i negozi di alienazione nelle
fattispecie residue di inalienabilità dei beni)» (pp. 293-294).
29
Del resto, «ogni ipotesi di commercializzazione dei beni e di costituzione di diritti inerenti agli stessi in favore dei terzi, da parte dei nuovi proprietari, sarà praticabile solamente attraverso l’impiego dei mezzi offerti dal diritto
privato (si pensi, per esempio, ai contratti di locazione o ai contratti di affitto) e, in particolare, la concessione a terzi
dell’utilizzazione economica dei beni non potrà che avvenire tramite la stipulazione di contratti, pure nei casi in cui le
tradizionali normative di settore prevedano ancora il ricorso allo strumento dei provvedimenti amministrativi di concessione», così sempre M. RENNA, op. ult. cit., pp. 294-295, il quale richiama, come esempio, l’art. 7, co. 3, lett. b), del D.
L. 8 luglio 2002, n. 138 (convertito nella Legge 8 agosto 2002, n. 178, «Conversione in legge, con modificazioni, del
decreto-legge 8 luglio 2002, n. 138, recante interventi urgenti in materia tributaria, di privatizzazioni, di contenimento
della spesa farmaceutica e per il sostegno dell’economia anche nelle aree svantaggiate»), «che prevede espressamente
“il ricorso ai contratti di concessione a terzi da parte di ANAS Spa”» (corsivo dell’A.).
30
M. RENNA, op. ult. cit., p. 297.
31
«Dai beni a destinazione pubblica, infatti, si possono ricavare utilità economiche dirette (si pensi alle miniere, alle cave, alle torbiere o anche alle foreste) oppure indirette (si pensi alle infrastrutture di pubblico servizio, ai beni
dei quali è previsto un uso collettivo a pagamento, ovvero a quelli che dietro corrispettivo possono essere locati o concessi in uso a determinati soggetti pubblici o privati); e, anche nei casi in cui ne sia previsto l’uso collettivo gratuito,
oppure a un prezzo estremamente basso se non simbolico, quasi sempre appare comunque possibile trarre dai beni utilità collaterali o accessorie compatibili con la loro destinazione principale e, pertanto, valorizzarli economicamente in
modo adeguato (si considerino il caso di scuola dei cd. servizi aggiuntivi nei musei o quello dell’utilizzazione di beni
culturali a scopi di spettacolo, di intrattenimento pubblico o di pubblicità commerciale; ancora, per esempio, si tenga
presente la gestione imprenditoriale delle autostrade, né si trascuri la possibilità di valorizzare anche una strada di un
centro abitato, in maniera tale da conseguire un incremento di valore degli edifici adiacenti alla stessa)», così M. RENNA, op. ult. cit., pp. 297-298.
32
M. RENNA, op. ult. cit., p. 299.
33
«È vero infatti che in diversi casi i vincoli di destinazione, limitando le possibilità di utilizzazione dei beni,
ne riducono sensibilmente le potenzialità di sfruttamento economico; ma è altrettanto vero che in molte ipotesi la diminuzione di redditività dei beni imputabile alla presenza di vincoli potrebbe reputarsi compensata, per così dire, dalla
“superprotezione” materiale e giuridica tuttora accordata dall’ordinamento all’integrità e alla destinazione dei medesimi
beni nonché, indirettamente, alla loro proprietà e al loro valore commerciale», così M. RENNA, op. ult. cit., p. 300.
19
tranno esistere solamente relazioni contrattuali, come tali estinguibili soltanto in base alle modalità e ai
presupposti comunemente previsti per l’estinzione dei rapporti originati da contratti»34.
b) Può viceversa accadere – lo si è appena evidenziato – che il bene, se demaniale, venga ‘sclassificato’ o ‘sdemanializzato’; ovvero che, se patrimoniale indisponibile, venga eliminato il vincolo di
destinazione gravante su di esso: in entrambi i casi deriva la sua collocazione naturale nel patrimonio disponibile (dello Stato o di altro ente pubblico). Ciò comporta, con ogni evidenza, che il bene andrà soggetto al regime giuridico tipico della proprietà (individualizzata) in appartenenza privata, in quanto tale
suscettibile di interventi legislativi di funzionalizzazione per categorie.
A quest’ultimo proposito, peraltro, è bene precisare, che, laddove il bene divenga oggetto di un intervento conformativo, giudicato però sostanzialmente espropriativo, almeno in maniera parziale, delle due l’una: a) o il bene conserva (almeno un minimo) valore d’uso e di scambio (l’indennizzo, perciò, non potendo essere integrale), e allora esso
potrà restare in appartenenza del privato, che però, naturalmente, sarà in grado di disporne solo in maniera coerente con
il limite derivante dal vincolo (solo apparentemente conformativo, ma) ‘sostanzialmente ablatorio’; b) oppure esso non
conserva (nemmeno in un minimo) il detto valore, e allora non può restare nell’appartenenza del soggetto privato, bensì
deve considerarsi trasferito in quella del soggetto pubblico. Nella prima ipotesi, ove il proprietario privato sia stato ‘parzialmente indennizzato’ per la perdita di una determinata utilità, il bene resta qualificato/conformato anche per effetto
del vincolo ‘sostanzialmente ablatorio’, ed evidentemente, nel caso esso venga successivamente alienato, si dovrà (il
notaio) verificare in cosa esattamente consiste il valore residuo del bene, sì da renderne edotto il nuovo proprietario, il
quale non potrà vantare alcuna pretesa a conseguire nuovamente l’indennizzo, il diritto sul bene risultando ormai privo
di quella determinata utilità.
Da quanto si è appena riferito sembra doversi ricavare che, in definitiva, la categoria dei ccdd.
‘beni a destinazione pubblica’ non si presenta caratterizzata da elementi connotativi che ne indichino
una netta differenziazione rispetto a quella dei ‘beni di interesse pubblico’, e cioè dei beni privati funzionalizzati.
5.1.2. La qualificazione/conformazione giuridica dei beni per categorie: a) ad opera della legge
È venuto il momento di provare a collocare ciascuna limitazione ‘interna’ nell’ambito di quelle
che derivano da atti legislativi di qualificazione/conformazione, ovvero nell’ambito di quelle che derivano da atti amministrativi fonte del diritto obiettivo. Non è inutile sottolineare – sebbene possa sembrare ridondante – che i provvedimenti amministrativi attuativi delle previsioni normative di qualificazione/conformazione (le quali andremo ad analizzare) hanno, proprio per ciò, natura ricognitivodichiarativa di un ‘connotato’ (una qualità, un requisito, e così via) che la norma ha riconosciuto essere
intrinseco al bene.
Cominceremo da quelle derivanti dalla legge, avendo riguardo agli ‘ambiti’ indicati in Premessa:
beni culturali, ambiente, urbanistica, e servitù pubbliche su beni privati, così come è riassunto nello
Schema 7.
34
M. RENNA, op. ult. cit., loco cit.
20
SCHEMA 7
Qualificazione/conformazione della proprietà per ‘categorie di beni’
ad opera della legge
Qualificazione/conformazione
della proprietà ad opera
della LEGGE
Beni culturali
Ambiente
Urbanistica
Servitù pubbliche
su beni privati
A) Beni culturali. Con riguardo ai beni culturali 35, vengono in rilievo le disposizioni del «Codice dei beni culturali e del paesaggio» (emanato con D. Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, come modificato
dal D. Lgs. 24 marzo 2006, n. 156, e dal D. Lgs. 26 marzo 2008, n. 62), concernenti, rispettivamente, a)
la cd. ‘tutela diretta’ dei beni, con l’unica espressione riassumendo i divieti, i doveri ed i poteri di intervento attribuiti alla P.A. che hanno ad oggetto direttamente il bene culturale; b) la loro esportazione; c)
la loro fruibilità giuridica collettiva; e, non da ultimo, d) i poteri ablatori (di espropriazione, di prelazione artistica e di acquisto coattivo alla esportazione), preordinati all’appropriabilità pubblica del patrimonio culturale in appartenenza privata. Il loro insieme è rappresentato nello Schema 7.1.
SCHEMA 7.1
Qualificazione/conformazione della proprietà per ‘categorie di beni’
Beni
culturali
divieto ex lege
di usi
non compatibili
o pregiudizievoli
tutela
diretta
inesportabilità
ex lege
e limiti alla
esportazione
interventi
soggetti ad
autorizzazione
doveri di
conservazione
fruibilità giuridica
collettiva
dei beni culturali
in appartenenza
privata
poteri ablatori
espropriazione
prelazione
artistica
35
acquisto
coattivo
alla
esportazione
Sui quali sia consentito il rinvio a G. CLEMENTE DI SAN LUCA, R. SAVOIA, Manuale di diritto dei beni culturali, Jovene, Napoli, 2008, dal quale sono tratte in gran parte le considerazioni che seguono.
21
a) Tutela diretta. Con riferimento agli strumenti della tutela diretta, vanno richiamati in primo
luogo il divieto ex lege ad adibire i beni culturali «ad usi non compatibili con il loro carattere storico o
artistico oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione», ed i divieti a svolgere determinate attività sui beni culturali senza una preventiva autorizzazione da parte del Ministero.
a.1) Divieto di usi non compatibili o pregiudizievoli. Si tratta di un divieto ex lege, che riguarda
la generalità dei beni (anche se è di tutta evidenza che si riferisca, in via prevalente, agli immobili). È
stabilito dall’art. 20, che dispone, coerentemente con la tradizione risalente, un regime giuridico diverso
per quelli in appartenenza pubblica e quelli in appartenenza privata. Per i primi, infatti, è sempre necessaria l’autorizzazione (art. 106). Per i secondi, invece, il divieto opera ex lege, non essendo previsto per
il loro uso il previo rilascio della autorizzazione. Questo vuol dire che la valutazione sulla compatibilità
e la non lesività di esso è affidata alla diligenza del proprietario, il quale rischia, però, che l’autorità di
tutela, in sede di esercizio del potere di vigilanza, rilevando, invece, la sussistenza di usi non compatibili
o lesivi, irroghi la relativa sanzione. A rigor di logica, invero, non può escludersi che l’indicazione di usi
incompatibili sia contenuta già nel provvedimento di dichiarazione dell’interesse, vieppiù quando il valore della storica destinazione d’uso abbia costituito un elemento rilevante ai fini del riconoscimento
della sua sussistenza.
a.2) Interventi soggetti ad autorizzazione. Disciplinati dagli artt. 21, 49, 50 e 52, possono definirsi corrispondenti ad altrettanti divieti, e cioè:
- il divieto di demolizione anche con successiva ricostituzione: innovando rispetto alla precedente legislazione, il Codice distingue l’ipotesi della distruzione di un bene culturale da quella della demolizione. Mentre la prima è vietata ex lege (art. 20, co. 1); la seconda, parziale o totale che sia (così come la
eventuale ricostituzione), è ammessa, previo rilascio di autorizzazione ministeriale. La previsione – come è di tutta evidenza – si riferisce a tutti quei casi in cui, per ragioni indipendenti dalla volontà del proprietario, il bene venga a trovarsi in condizioni tali da minacciare rovina con conseguenti «rischi per la
pubblica o privata incolumità», ovvero a tal punto compromesso nella sua integrità da rendere necessario un intervento di restauro «integralmente ricostruttivo […] dell’opera originale»36;
- il divieto di smembramento e di scarto: analogo provvedimento autorizzatorio è richiesto per lo
«smembramento di collezioni, serie e raccolte», nonché per «lo scarto dei documenti degli archivi pubblici e degli archivi privati per i quali sia intervenuta la dichiarazione» e «di materiale bibliografico delle biblioteche pubbliche […] e delle biblioteche private per le quali sia intervenuta la dichiarazione».
Per queste categorie di beni – la cui qualità culturale è determinata, più che dal pregio dei singoli elementi, da quello del complesso unitario di essi – lo smembramento e lo scarto equivalgono ad una vera e
propria demolizione, suscettibile di compromettere il valore storico e documentale della raccolta;
- il divieto di spostamento: anche lo spostamento dei beni culturali è sottoposto a regime autorizzatorio. L’autorizzazione in parola è funzionale alla verifica, da parte dell’amministrazione, che «la
nuova ubicazione proposta dal proprietario o dal detentore» non «esponga [la ‘cosa’] a pericoli di deterioramento» ed offra «sufficienti garanzie contro la sua sottrazione»37;
36
Così R. T AMIOZZO, Artt. 20 e 21, in ID. (commentato da), Il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Giuffrè, Milano, 2005, p. 99.
37
Così T. ALIBRANDI, P. FERRI, I Beni culturali e ambientali, Giuffrè, Milano, 2001, p. 322, i quali, dopo aver
segnalato che si discute in dottrina se il diniego di autorizzazione possa essere opposto al fine di impedire lo spostamento del bene da un luogo che ne esalta il pregio, concludono tuttavia che «l’accostamento normativo della rimozione alla
22
- il divieto di eseguire lavori: anche «l’esecuzione di opere e lavori di qualunque genere» è subordinata ad un atto preventivo di consenso dell’amministrazione, reso «su progetto o, qualora sufficiente, su descrizione tecnica dell’intervento», che il proprietario è obbligato a presentare al Soprintendente (art. 21, co. 4). Che l’amministrazione non debba limitarsi al ‘mero’ accoglimento della proposta
progettuale, ma eserciti un reale potere controllo, è dimostrato dal fatto che legge, per un verso, riconosce al Soprintendente la facoltà di chiedere «chiarimenti o elementi integrativi di giudizio» (art. 22, co.
2), per l’altro, fa salva la possibilità che l’autorizzazione possa «contenere prescrizioni» (art. 21, co. 5);
- il divieto di affissione: ulteriore divieto è quello a «collocare o affiggere cartelli o altri mezzi di
pubblicità sugli edifici e nelle aree tutelati come beni culturali», previsto dall’art. 49, co. 1. Il rilascio
(ovvero il diniego) della autorizzazione è rimesso all’acclaramento, da parte del Soprintendente, del
danno «all’aspetto, al decoro e alla pubblica fruizione di detti edifici ed aree» derivante dall’impatto delle installazioni. Ove rilasciata, l’autorizzazione dovrà essere trasmessa al Comune per l’eventuale adozione del provvedimento di sua competenza;
- il divieto di distacco: un’ultima specie di divieti è quella relativa al distacco, senza autorizzazione del Soprintendente, di affreschi, stemmi, graffiti, ecc., e alla rimozione di «cippi e monumenti, costituenti vestigia della Prima guerra mondiale». Il divieto è disciplinato all’art. 50 (come modificato
dall’art. 2, co. 1, lett. s, del D.Lgs. 156/2006) ed opera sulla generalità dei beni, indipendentemente
dall’avvenuta verifica o dichiarazione dell’interesse culturale.
Pur non rientrando a rigore nei divieti concernenti beni culturali in senso stretto, giacché si riferisce a beni
«oggetto di specifiche disposizioni di tutela» (art. 11), va infine segnalata la disposizione dell’art. 52, concernente il divieto di esercizio del commercio, giusta la quale «i comuni, sentito il soprintendente», avendo individuato «le aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico e ambientale», possono «vietare o sottoporre a condizioni particolari
l’esercizio del commercio».
a.3) Doveri di conservazione. Sempre in tema di tutela diretta rilevano, in secondo luogo, i doveri di conservazione (artt. 29-37 e 39-42). La disciplina posta dal Codice stabilisce innanzitutto,
nell’art. 29, quali sono le diverse misure conservative, menzionando la prevenzione, la manutenzione ed
il restauro (co. 1).
In particolare, la prevenzione è costituita dal «complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio
connesse al bene culturale nel suo contesto» (co. 2, corsivo di chi scrive), e dunque a proteggerlo da eventuali pericoli
di danneggiamento e/o dispersione, la manutenzione, invece, comprende «il complesso delle attività e degli interventi
destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell’integrità, dell’efficienza funzionale e
dell’identità del bene e delle sue parti» (co. 3, corsivo di chi scrive); il restauro, infine, è quel «complesso di operazioni
finalizzate all’integrità materiale ed al recupero del bene medesimo, alla protezione e alla trasmissione dei suoi valori
culturali»,ovvero di quella qualità che rende la ‘cosa’ un bene culturale, esso comprendendo anche, per gli «immobili
situati nelle zone dichiarate a rischio sismico […] l’intervento di miglioramento strutturale» (co. 4, corsivi di chi scrive).
demolizione e alla modificazione induce a ritenere che il diniego operi in funzione della integrità e sicurezza materiale
della cosa».
23
In caso di intervento volontario, tanto per il restauro, quanto per le altre attività conservative, la
legge, riproducendo l’impianto disposto dalla precedente normativa, vuole la loro esecuzione subordinata al rilascio di autorizzazione38.
b) Inesportabilità ex lege e limiti alla esportazione. Ulteriori limitazioni interne si rinvengono
nella disciplina della esportazione, che prevede, per un verso, il divieto ex lege all’uscita definitiva «dei
beni culturali mobili indicati nell’articolo 10, commi 1, 2 e 3» (art. 65, co. 1); per altro verso, un divieto
preventivo alla esportazione di singoli beni che l’autorità di tutela, sulla base di un giudizio tecnicodiscrezionale, e «sentito il competente organo consultivo», impone con proprio provvedimento (art. 65,
co. 2, lett. b); per un altro ancora, il previo rilascio di una autorizzazione per l’esportazione «delle cose
[…] che presentino interesse culturale, […] opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga
ad oltre cinquanta anni» (art. 65, co. 3, lett. a), e dei beni «oggetto di specifiche disposizioni di tutela»
compresi nelle categorie elencate all’art. 11, co. 1, lett. f), g) e h) «a chiunque appartengano» (lett. c).
c) Fruibilità giuridica collettiva. Infine, con riguardo all’accesso pubblico ai beni culturali in
appartenenza privata, l’art. 104 dispone che possono essere assoggettati a visita da parte del pubblico,
per scopi culturali, gli immobili e le collezioni o serie di oggetti, per le quali sia intervenuto il provvedimento di dichiarazione di «eccezionale interesse culturale», e sempre che intercorra un accordo con il
proprietario. Per i beni mobili ‘individui’, invece, la fruibilità giuridica non sembra essere assicurata dalla legge39. Per quanto concerne l’accesso agli archivi ed ai singoli documenti, che siano stati dichiarati
«di interesse storico particolarmente importante», l’art. 127 stabilisce, sempre che non si tratti di documenti di carattere riservato, in capo ai proprietari «l’obbligo di permettere agli studiosi, che ne facciano
motivata richiesta tramite il soprintendente archivistico, la consultazione […] secondo modalità concordate tra i privati stessi e il soprintendente», specificando che «Le relative spese sono a carico dello studioso» (co. 1 e 2).
d) Poteri ablatori. Sono da ritenersi preordinati a fini di godimento anche i poteri ablatori di espropriazione, di prelazione artistica e di acquisto coattivo alla esportazione, disciplinati, rispettivamente, agli artt. 95, 59-62, e 70 del Codice. Il loro esercizio, infatti, consentendo di acquisire al patrimonio in appartenenza pubblica (l’unico fruibile per legge nella sua interezza) beni culturali di proprietà
privata, rimuove i limiti alla accessibilità di questi, rendendo giuridicamente disponibili beni culturali
che, in precedenza, in virtù del loro stato di appartenenza, erano integralmente preclusi all’accesso del
pubblico, oppure fruibili soltanto in modo parziale.
d.1) Espropriazione. Nel caso della espropriazione, la detta teleologia è formalmente espressa
nella norma, il co. 1 dell’art. 95 disponendo che i beni in parola, immobili o mobili che siano, «possono
essere espropriati dal Ministero per causa di pubblica utilità, quando l’espropriazione risponda ad un
importante interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni mede-
38
Il restauro, è bene precisare, può anche essere imposto dalla P.A. (intervento impositivo), ovvero effettuato
direttamente da questa (intervento sostitutivo). In tutti e tre i casi – restauro volontario, impositivo o sostitutivo –, comunque, la legge prevede l’eventuale concorso alla spesa da parte dello Stato.
39
Essa, invero, è disciplinata dall’art. 44 nella forma del ‘comodato’, che consiste in un contratto tra la P.A. ed
il proprietario, in virtù del quale quest’ultimo consente la esposizione del bene di cui dispone in «archivi e […] istituti
che abbiano in amministrazione o in deposito raccolte o collezioni artistiche, archeologiche, bibliografiche e scientifiche» (co. 1).
24
simi» (corsivo di chi scrive)40. Quanto alla indennità di esproprio da corrispondere al privato, essa consiste «nel giusto prezzo che il bene avrebbe in una libera contrattazione di compravendita all’interno
dello Stato» (art. 99, co. 1).
Viceversa, con riguardo agli altri due strumenti ablatori, le norme non indicano le finalità specifiche alle quali devono ritenersi funzionalizzati i relativi poteri, il legislatore limitandosi ad indicare i
presupposti in presenza dei quali la P.A. può esercitarli. Epperò, il silenzio della legge sul punto, tanto
più ove si guardi alla sua sistematica complessiva, non pare di ostacolo alla loro collocazione
nell’ambito dei poteri preordinati al godimento. Ove li si inquadri nel sistema generale dei poteri di tutela, infatti, non è difficile capire quale sia la loro maggiore rilevanza funzionale: se si considerano gli
strumenti finalizzati alla conservazione dell’integrità dei beni, non sembra arduo sostenere che la prelazione e l’acquisto coattivo alla esportazione sarebbero necessari, a fini conservativi, solo nell’ipotesi in
cui il nuovo proprietario o la nuova ubicazione del bene non diano al riguardo sufficiente affidamento.
Ma ciò sembra contrastare con la connotazione generale propria di tali strumenti ablatori; sicché appare
più corretto ritenerli funzionalizzati, essenzialmente, a scopi di godimento.
d.2) Prelazione artistica. In particolare, la prelazione artistica consiste in un diritto di precedenza (ma, in realtà, in un potere amministrativo) che la legge riconosce alla P.A. nell’acquisto di beni culturali in appartenenza privata «alienati a titolo oneroso», nonché «conferiti in società» (così l’art. 60, co.
1, come modificato dall’art. 2, co. 1, lett. aa, del D. Lgs. 156/2006). Circa la determinazione del prezzo
d’acquisto, la norma non riconosce alla P.A. alcun margine di negoziazione, il bene essendo acquistabile
«al medesimo prezzo indicato nell’atto di alienazione», ovvero «al medesimo valore attribuito nell’atto
di conferimento» (art. 60, co. 1)41. Pur essendo assimilabile, nei suoi effetti giuridici, alla espropriazione, essa va tenuta distinta da questa, caratterizzandosi per il fatto di prevedere come presupposto la volontà del proprietario di trasferire ad altri a titolo oneroso la ‘cosa’, ovvero di conferirla in società. Parimenti, essa va distinta dall’omonimo istituto civilistico, qualificandosi come un provvedimento amministrativo a carattere ablatorio.
d.3) Acquisto coattivo alla esportazione. Si differenzia nei presupposti sia dalla espropriazione,
sia dalla prelazione artistica, il potere di acquisto coattivo alla esportazione. Dalla prima, lo distingue il
fatto che esso trova origine in un comportamento del proprietario (l’intenzione di trasferire il bene
all’estero) ritenuto dalla legge significativo; dalla seconda, lo differenzia, invece, la circostanza che il
40
Ci si è interrogati sul significato da attribuire alla espressione utilizzata dal legislatore per indicare il presupposto del potere espropriativo, sforzandosi di chiarire in che cosa l’espropriazione in parola si differenzi da quella generale per causa di pubblica utilità: «essa starebbe a significare che la P.A. può procedervi, laddove, sulla base della sua
valutazione tecnico-discrezionale, ritenga che lo stato in cui versa il bene, ancorché adeguato agli standards di conservazione (in senso stretto), non è in grado di mettere adeguatamente in valore il suo godimento, interesse considerato dal
legislatore così importante da richiedere la piena disponibilità del bene. In altre parole, le valutazioni che la P.A. dovrà
compiere, più che ricollegabili allo stato conservativo in sé del bene, dovranno essere squisitamente politico-culturali.
[…]. In questa prospettiva, l’espropriazione di beni culturali si differenzierebbe da quella classica per pubblica utilità,
giacché, diversamente da quella, perseguirebbe l’obiettivo dell’acquisizione del bene culturale in sé, e non già in vista
di una sua trasformazione», così G. CLEMENTE DI SAN LUCA, R. SAVOIA, Manuale di diritto dei beni culturali cit., p.
276.
41
Fanno eccezione le ipotesi di «cessione senza previsione di un corrispettivo in denaro», quelle di «permuta»,
e quelle in cui «il bene sia alienato con altri per un unico corrispettivo»: in tutti tali casi la legge riconosce al soggetto
che procede alla prelazione il diritto a determinare «d’ufficio» il valore economico del bene, o dei beni, di suo interesse
(co. 2), facendo salva – ma solo con riferimento a quest’ultima ipotesi – la facoltà dell’acquirente di «recedere dal contratto» (art. 61, co. 6).
25
suo esercizio non richiede che vi sia, da parte del titolare, l’esplicita volontà di alienare il bene a titolo
oneroso (anche se tale volontà è frequentemente sottesa all’intendimento di far uscire il bene dai confini
nazionali).
La disciplina dell’istituto è stata modificata in maniera più che sensibile dal legislatore del Codice, il sistema disposto dal quale sembra ridurre l’intensità di uno tra i più consolidati strumenti di acquisizione da parte dello Stato di beni culturali in appartenenza privata. Le condizioni, così come i tempi,
per l’esercizio del potere in parola (regolato dall’art. 70) sono rimaste inalterate, confermandosi il carattere vincolante, per la P.A., della dichiarazione del valore che l’esportatore è obbligato a rendere: come
nella previgente normativa, «Il Ministero ha la facoltà di acquistare la cosa o il bene per il valore indicato nella denuncia» (co. 2). Non altrettanto può dirsi con riferimento alle scelte in capo all’esportatore, la
legge consentendogli di «rinunciare all’uscita dell’oggetto», peraltro solo «fino a quando non sia intervenuta la notifica del provvedimento di acquisto» (co. 2, corsivo di chi scrive): il fatto che la dichiarazione del valore sia obbligatoria, perciò, comunque non impedisce all’esportatore di sottrarsi al procedimento ablatorio, il che indubbiamente sembra – come abbiamo appena osservato – attenuarne gli effetti.
Dall’effettuato sintetico esame della disciplina, si conferma quanto enunciato in esordio del paragrafo: che la qualificazione/conformazione giuridica della ‘proprietà culturale’ operata dal Codice lascia al provvedimento amministrativo soltanto il compito di verificare la sussistenza dei caratteri intrinseci al bene, così che ad esso si applichi il relativo regime giuridico.
B) Ambiente. In tema di ambiente le limitazioni interne comprendono i vincoli forestali ed i vincoli paesaggistici42, il cui insieme, che ci apprestiamo ad illustrare brevemente, è riportato nello Schema
7.2.
SCHEMA 7.2
Qualificazione/conformazione della proprietà per ‘categorie di beni’
Ambiente
Vincoli
Forestali
Vincoli sulle aree
boscate percorse dal fuoco
Vincoli
Paesaggistici
Vincoli
alla utilizzabilità dei boschi
divieti
vincolo di destinazione quindicennale
a zona boscata e di pascolo
obblighi conservativi
obbligo di rimboschimento
dei terreni vincolati
obblighi di facere
vincolo di inedificabilità decennale
nei Comuni sprovvisti di PRG
divieto decennale di realizzazione
di costruzioni finalizzate ad insediamenti
civili ed attività produttive
divieto decennale
di pascolo e caccia
42
In proposito si v. P. DELL’ANNO, Manuale di diritto ambientale cit., pp. 224 ss.; cui adde M. RENNA, Vincoli
alla proprietà e diritto dell’ambiente cit.
26
a) Vincoli forestali. Sono disciplinati dall’art. 10, co. 1, della Legge 21 dicembre 2000, n. 353,
recante «Legge-quadro in materia di incendi boschivi» (come modificato dall’art. 4, co. 173, della Legge 24 dicembre 2003, n. 350), con specifico riferimento ai territori boschivi che siano stati percorsi dal
fuoco, nonché dal R.D.L. 30 dicembre 1923, n. 3267 (la cd. ‘legge forestale’).
Si tratta di vincoli diretti, per un verso, alla «conservazione e alla difesa dagli incendi del patrimonio boschivo nazionale quale bene insostituibile per la qualità della vita» (art. 1, L. 353/2000); e, per
un altro, alla salvaguardia della integrità dei boschi.
a.1) Vincoli sulle aree boscate percorse dal fuoco. Consistono nella imposizione di obblighi ob
rem, sia di facere che di pati. In particolare sono così previsti dal co. 1 dell’art. 10, L. 353/2000: a) il
vincolo di destinazione quindicennale a zona boscata e di pascolo (prevedendosi, peraltro, che in tutti
gli atti di compravendita di immobili situati in detti terreni, stipulati entro quindici anni dall’incendio,
«deve essere espressamente richiamato il vincolo, […] pena la nullità dell’atto»); b) l’obbligo di rimboschimento dei terreni vincolati; c) il vincolo di inedificabilità decennale nei Comuni sprovvisti di piano
regolatore su area boscata percorsa dal fuoco; d) il divieto decennale di realizzazione di edifici nonché
di strutture e infrastrutture finalizzate ad insediamenti civili ed attività produttive, «fatti salvi i casi in
cui detta realizzazione sia stata prevista in data precedente l’incendio dagli strumenti urbanistici vigenti
a tale data»; e) il divieto decennale di pascolo e caccia, «limitatamente ai soprassuoli delle zone boscate
percorsi dal fuoco».
a.2) Vincoli alla utilizzabilità dei boschi. Consistono nei divieti disposti dagli artt. 7 e 9, R.D.L.
3267/1923, secondo i quali, rispettivamente, sono vietati, senza autorizzazione, la trasformazione dei
boschi («Per i terreni vincolati la trasformazione dei boschi in altre qualità di coltura e la trasformazione
di terreni saldi in terreni soggetti a periodica lavorazione sono subordinate ad autorizzazione del comitato forestale e alle modalità da esso prescritte, caso per caso, allo scopo di prevenire i danni di cui all’art.
1»), ed il pascolo su boschi («Nei terreni vincolati l’esercizio del pascolo sarà, in ogni caso, soggetto alle seguenti restrizioni: a) nei boschi di nuovo impianto o sottoposti a taglio generale o parziale, oppure
distrutti dagli incendi, non può essere ammesso il pascolo prima che lo sviluppo delle giovani piante e
dei nuovi virgulti sia tale da escludere ogni pericolo di danno; b) nei boschi adulti troppo radi e deperienti è altresì vietato il pascolo fino a che non sia assicurata la ricostituzione di essi; c) nei boschi e nei
terreni ricoperti di cespugli aventi funzioni protettive è, di regola, vietato il pascolo delle capre. Su conforme parere dell’autorità forestale, il comitato potrà autorizzare il pascolo nei boschi e determinare le
località in cui potrà essere eccezionalmente tollerato il pascolo delle capre»).
Tutti i richiamati vincoli si presentano chiaramente come limitazioni legali al diritto di proprietà,
poiché il loro contenuto è fissato dalla legge, che lascia in capo al Comitato forestale (organo competente all’apposizione del vincolo) soltanto il potere di accertare la effettiva sussistenza degli ‘elementi’ stabiliti dalle norme.
b) Vincoli paesaggistici. Sono disciplinati dalla Parte III del già richiamato «Codice dei beni culturali e del paesaggio». Come osservato in dottrina, «Si tratta di vincoli diretti alla conservazione di valori naturali, estetici e storico-culturali di particolare rilevanza all’interno di aree omogenee nelle quali
detti valori, colti nel loro complesso, hanno un percepibile significato identitario del territorio in cui le
27
stesse ricadono»43. La disciplina presenta numerosi punti di contatto con quella dettata a tutela del patrimonio forestale e delle acque, nonché con quella che regola i ccdd.vincoli idrogeologici’44. Non di rado, ad esempio, territori boschivi vengono sottoposti, oltre alla tutela loro propria, anche a quella paesaggistica.
I vincoli in esame consistono in: a) divieti (giusta la previsione dell’art. 146, co. 1, «I proprietari,
possessori, o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico tutelati dalla legge
[…] non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione»); b) obblighi di conservazione (l’art. 146, co. 2, disponendo, peraltro, che i
proprietari, possessori, o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico tutelati dalla legge «hanno l’obbligo di presentare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi
che intendano intraprendere, […] ed astenersi dall’avviare i lavori fino a quando non ne abbiano ottenuta l’autorizzazione»); c) obblighi di facere (l’art. 154, co. 1, dispone che «Qualora la tinteggiatura delle
facciate dei fabbricati siti nelle aree contemplate dalle lettere c) e d) dell’articolo 136, comma 1, o dalla
lettera m) dell’articolo 142, comma 1 45, sia sottoposta all’obbligo della preventiva autorizzazione, […]
l’amministrazione competente, su parere vincolante […] del soprintendente, o il Ministero, possono ordinare che alle facciate medesime sia dato un colore che armonizzi con la bellezza d’insieme».
Anche i vincoli in parola trovano compiuta disciplina nella legge, che lascia alla P.A. il solo
compito di verificare la sussistenza effettiva dei presupposti.
C) Urbanistica. Si distinguono tre diverse tipologie di interventi di qualificazione/conformazione: le zone di rispetto, le zone di tutela, i vincoli ricognitivi dei caratteri del territorio e
delle costruzioni; i vincoli per le zone a rischio vulcanico nell’area vesuviana, così come è rappresentato nello Schema 7.3.
SCHEMA 7.3
Qualificazione/conformazione della proprietà per ‘categorie di beni’
Urbanistica
Zone
di rispetto
Zone
di tutela
43
Vincoli
per le zone
a rischio vulcanico
Così M. RENNA, Vincoli alla proprietà cit., p. 722.
Sui quali si v., infra, il par. 5.1.3.
45
Il riferimento è ai «complessi di cose immobili che compongono un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale, inclusi i centri ed i nuclei storici, alle «bellezze panoramiche e così pure quei punti di vista o di belvedere, accessibili al pubblico, dai quali si goda lo spettacolo di quelle bellezze, nonché alle «aree tutelate per legge».
44
28
a) Zone di rispetto. Tra queste si annoverano:
a.1) le zone di rispetto dei cimiteri. Secondo quanto stabiliva l’art. 338 del T.U. delle leggi sanitarie (approvato con R.D.L. 24 luglio 1934, n. 1265), era fatto espresso divieto di realizzare nuove costruzioni, o di procedere ad ampliamenti di quelli preesistenti, entro un raggio di 200 metri dal perimetro
del cimitero46. Una, sia pur limitata, deroga ai divieti in parola è stata introdotta dall’art. 28 della Legge
1 agosto 2002, n. 166, recante «Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti», il quale – riscrivendo il co. 4 dell’art. 338 testé richiamato – ha previsto il potere del Consiglio comunale di «approvare, previo parere favorevole della competente azienda sanitaria locale, la costruzione di nuovi cimiteri o
l’ampliamento di quelli già esistenti ad una distanza inferiore a 200 metri dal centro abitato, purché non
oltre il limite di 50 metri», ciò – così prosegue la norma – sempre che ricorrano «anche alternativamente» due ulteriori condizioni: «a) risulti accertato dal medesimo consiglio comunale che, per particolari
condizioni locali, non sia possibile provvedere altrimenti; b) l’impianto cimiteriale sia separato dal centro urbano da strade pubbliche almeno di livello comunale, sulla base della classificazione prevista ai
sensi della legislazione vigente, o da fiumi, laghi o dislivelli naturali rilevanti, ovvero da ponti o da impianti ferroviari». Questa possibilità di derogare al divieto di edificazione ed all’obbligo di distanza minima sembrerebbe essere stata prevista in considerazione del fatto che i cimiteri sono stati progressivamente inglobati all’interno del tessuto urbano. La medesima norma, al co. 5, stabilisce che «Per dare esecuzione ad un’opera pubblica o all’attuazione di un intervento urbanistico, purché non vi ostino ragioni igienico-sanitarie, il consiglio comunale può consentire, previo parere favorevole della competente
azienda sanitaria locale, la riduzione della zona di rispetto tenendo conto degli elementi ambientali di
pregio dell’area, autorizzando l’ampliamento di edifici preesistenti o la costruzione di nuovi edifici». La
medesima riduzione è prevista, altresì, «per la realizzazione di parchi, giardini e annessi, parcheggi pubblici e privati, attrezzature sportive, locali tecnici e serre»;
a.2) le zone di rispetto delle strade pubbliche e delle autostrade. Si tratta di limitazioni che riguardano i fondi limitrofi a strade pubbliche (siano esse strade statali, regionali e comunali, o vicinali
che, per uso o per caratteristiche, siano assimilabili alle precedenti). Giusta l’art. 16, co. 1, del D. Lgs.
30 aprile 1992, n. 285, recante il «Nuovo codice della strada», «Ai proprietari o aventi diritto dei fondi
confinanti con le proprietà stradali fuori dei centri abitati è vietato: a) aprire canali, fossi ed eseguire
qualunque escavazione nei terreni laterali alle strade; b) costruire, ricostruire o ampliare, lateralmente alle strade, edificazioni di qualsiasi tipo e materiale; c) impiantare alberi lateralmente alle strade, siepi vive o piantagioni ovvero recinzioni», rinviandosi al regolamento per la determinazione delle «distanze
dal confine stradale entro le quali vigono i divieti di cui sopra». Specifiche distanze sono, inoltre, previste, «dalle relative disposizioni di legge e, in difetto di esse, dal prefetto, previo parere tecnico degli enti
proprietari della strada e dei vigili del fuoco», per la «costruzione di tiri a segno, di opifici o depositi di
materiale esplosivo, gas o liquidi infiammabili, di cave coltivate mediante l’uso di esplosivo, nonché di
stabilimenti che interessino comunque la sicurezza o la salute pubblica o la regolarità della circolazione
stradale» (art. 19);
a.3) le zone di rispetto delle ferrovie. Nei pressi di tramvie, ferrovie metropolitane e funicolari
terrestri su rotaia, è stabilito il divieto di edificabilità, che comprende una fascia di 6 metri «dalla più vicina rotaia, da misurarsi in proiezione orizzontale». Il medesimo divieto, per le nuove costruzioni, rico-
46
Si v. anche «Regolamento di polizia mortuaria» approvato con D.P.R. 21 ottobre 1975, n. 803, e successivamente con D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285.
29
struzioni ed ampliamenti, è elevato a metri 30 «Lungo i tracciati delle linee ferroviarie» (artt. 50 e 51 del
D.P.R. 11 luglio 1980, n. 753, recante «Nuove norme in materia di polizia, sicurezza e regolarità
dell’esercizio delle ferrovie e di altri servizi di trasporto»);
a.4) le zone di rispetto di elettrodotti, metanodotti e depositi di gas. Nella fascia di terreno circostante gli elettrodotti, i metanodotti ed i depositi di gas è previsto il divieto di edificabilità. La disciplina
per il calcolo delle distanze nelle edificazioni nei pressi di elettrodotti è oggi dettata dal Decreto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio, 29 maggio 2008, All. I47; per la individuazione delle
distanze da osservare nelle edificazioni nei pressi di metanodotti e depositi di gas occorre, invece, far riferimento al D.M. 24 novembre 1984 (Allegato, Parti I, sez. 2, II, sezz. 2 e 3, III, sezz 1 e 3);
a.5) le zone di rispetto del demanio marittimo. Secondo quanto disposto dall’art. 55 del «Codice
della navigazione» (approvato con R.D.L. 30 marzo 1942, n. 327) «La esecuzione di nuove opere entro
una zona di trenta metri dal demanio marittimo o dal ciglio dei terreni elevati sul mare è sottoposta
all’autorizzazione del capo del compartimento». L’autorizzazione in parola non è richiesta quando «le
costruzioni sui terreni prossimi al mare sono previste in piani regolatori o di ampliamento già approvati
dall’autorità marittima»;
a.6) le zone di rispetto delle acque pubbliche. La qualità di acqua pubblica discende
dall’inserimento negli appositi elenchi previsti dal T.U. approvato con R.D.L. 11 dicembre 1933, n.
1775. Gli elenchi in parola, tuttavia, non hanno carattere costitutivo, di guisa che la non inclusione
nell’elenco di un corso d’acqua non sembra preclusiva del riconoscimento del carattere pubblico. L’art.
96 del T.U. (approvato con R.D. 25 luglio 1904, n. 523) indica i «lavori ed atti vietati in modo assoluto
sulle acque pubbliche, loro alvei, sponde e difese».
Tutte le zone di rispetto appena esaminate, rappresentante nel loro insieme nello Schema 7.3.1,
si presentano indiscutibilmente come vincoli qualificativi/conformativi della proprietà discendenti direttamente dalla legge con riguardo ad intere categorie di beni.
SCHEMA 7.3.1
Qualificazione/conformazione della proprietà per ‘categorie di beni’
Urbanistica
Urbanistica
ferrovie
elettrodotti
et similia
cimiteri
Zone
di rispetto
acque
pubbliche
strade
e autostrade
demanio
marittimo
47
In Suppl. ordinario n. 160 alla Gazz. Uff., 5 luglio 2008, n. 156.
30
b) Zone di tutela. Dette zone attengono alla tutela delle acque; alla tutela paesaggistica, nonché
alla tutela ambientale.
b.1) le zone di tutela delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano. Sono
oggi disciplinate dall’art. 94 del D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152. La disposizione in parola stabilisce che
«Su proposta delle Autorità d’àmbito, le regioni, per mantenere e migliorare le caratteristiche qualitative
delle acque superficiali e sotterranee destinate al consumo umano, erogate a terzi mediante impianto di
acquedotto che riveste carattere di pubblico interesse, nonché per la tutela dello stato delle risorse, individuano le aree di salvaguardia distinte in zone di tutela assoluta e zone di rispetto, nonché, all’interno
dei bacini imbriferi e delle aree di ricarica della falda, le zone di protezione» (co. 1). La zona di tutela
assoluta è costituita «dall’area immediatamente circostante le captazioni o derivazioni: essa, in caso di
acque sotterranee e, ove possibile, per le acque superficiali, deve avere un’estensione di almeno dieci
metri di raggio dal punto di captazione, deve essere adeguatamente protetta e deve essere adibita esclusivamente a opere di captazione o presa e ad infrastrutture di servizio» (co. 3); laddove la zona di rispetto, invece, «è costituita dalla porzione di territorio circostante la zona di tutela assoluta da sottoporre a
vincoli e destinazioni d’uso tali da tutelare qualitativamente e quantitativamente la risorsa idrica captata
e può essere suddivisa in zona di rispetto ristretta e zona di rispetto allargata, in relazione alla tipologia
dell’opera di presa o captazione e alla situazione locale di vulnerabilità e rischio della risorsa» (co. 4).
b.2) le zone di tutela paesaggistica. Sono previste dall’art. 142 del «Codice dei beni culturali e
del paesaggio», che, dopo aver elencato le «aree tutelate per legge», rimette al piano paesaggistico (le
cui previsioni devono essere, in ogni caso, conformi a quelle del Codice) la «ricognizione delle aree di
cui al comma 1 dell’articolo 142, loro delimitazione e rappresentazione in scala idonea alla identificazione, nonché determinazione di prescrizioni d’uso intese ad assicurare la conservazione dei caratteri distintivi di dette aree e, compatibilmente con essi, la valorizzazione» (art. 143, co. 1, lett. c) 48.
48
Per la ricognizione dei vincoli connessi alla tutela paesaggistica si v., retro, lettera B/b di questo paragrafo.
Per quanto concerne più specificamente i vincoli paesistici e, dunque, il loro rapporto con i vincoli urbanistici, un orientamento giurisprudenziale (Consiglio di Stato, sez. IV, 29 luglio 2003, n. 4351) in linea di principio, sostiene che il Piano territoriale paesistico è idoneo ad imporre vincoli individui anche eventualmente in contrasto con le previsioni di un
preesistente Piano regolatore generale. L’assunto muove dalla considerazione che le evoluzioni normative in tema di tutela paesistica hanno ormai attratto i piani territoriali paesistici nell’orbita dell’urbanistica; Ne consegue che questi ultimi, non solo possono individuare i beni che siano ritenuti meritevoli di tutela, ma «nel dettare la disciplina di tutela
primaria, posto che si muovono su un livello sovraordinato alla programmazione urbanistica», non devono «tener conto
delle modifiche che quest’ultima deve necessariamente subire per assicurare al paesaggio una tutela tale da non essere
incisa nel tempo da singole scelte di gestione del territorio, che comunque trovano nella pianificazione di rango superiore un limite e un indirizzo» (Così Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 4351 del 29 luglio 2003, e, nello stesso senso,
T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, 15 aprile 2002, n. 2095, in Foro amm.-T.A.R., 2002, 1359, secondo cui «I piani paesistici costituiscono lo strumento di primo livello nella gerarchia delle fonti di pianificazione delle aree sottoposte a vincolo paesistico, ai quali deve quindi adeguarsi la strumentazione urbanistica comunale, anche per evitare che, in sede di
rilascio delle singole autorizzazioni necessarie per le opere di trasformazione del territorio, vi siano valutazioni episodiche o avulse da una considerazione più ampia del contesto ambientale su cui tali trasformazioni possono incidere») In
dottrina si v. quanto affermato da M.A. SANDULLI, Trent’anni dopo: l’impatto delle sentenze della Corte costituzionale
n. 55 e n. 56 del 1968 sull’evoluzione successiva dell’ordinamento giuridico e dell’urbanistica, in Riv. giur. ed., 1998,
II, pp. 255 ss., secondo cui «la non indennizzabilità dei vincoli paesistici non discende dunque da una prevalenza del valore “paesaggio”, protetto dall’art. 9 Cost., sul valore proprietà, protetto dall’art. 42, ma soltanto da tale diverso rapporto
tra la misura restrittiva ed il regime ordinario di appartenenza/godimento del bene, quale disegnato storicamente dal legislatore: tanto che è su questa premessa che si sarebbe potuto e ancora si potrebbe, e per chi vi parla si dovrebbe, risolvere il problema dell’indennizzabilità dei vincoli urbanistici: era questo, infatti, il vero messaggio delle due sentenze ed
il vero carattere rivoluzionario del loro combinato disposto. Che sia questo l’unico significato della sent. n. 56, alla quale pertanto non appare corretto ricondurre la successiva evoluzione legislativa e gius-costituzionale a tutela del paesag-
31
b.3) le zone di tutela ambientale. Se ne ricava la esistenza dall’art. 6, co. 3 (rubricato «Misure di
salvaguardia»), della Legge 6 dicembre 1991, n. 394 (recante «Legge quadro sulle aree protette»), il
quale così recita: «Sono vietati fuori dei centri edificati di cui all’articolo 18 della legge 22 ottobre 1971,
n. 865, e, per gravi motivi di salvaguardia ambientale, con provvedimento motivato, anche nei centri edificati, l’esecuzione di nuove costruzioni e la trasformazione di quelle esistenti, qualsiasi mutamento
dell’utilizzazione dei terreni con destinazione diversa da quella agricola e quant’altro possa incidere sulla morfologia del territorio, sugli equilibri ecologici, idraulici ed idrogeotermici e sulle finalità istitutive
dell’area protetta. In caso di necessità ed urgenza, il Ministro dell’ambiente, con provvedimento motivato, sentita la Consulta, può consentire deroghe alle misure di salvaguardia in questione, prescrivendo le
modalità di attuazione di lavori ed opere idonei a salvaguardare l’integrità dei luoghi e dell’ambiente naturale. Resta ferma la possibilità di realizzare interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria di cui
alle lettere a) e b) del primo comma dell’articolo 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457, dandone comunicazione al Ministro dell’ambiente e alla regione interessata».
c) Vincoli per le zone a rischio vulcanico dell’area vesuviana. Sono previsti dalla L.R. Campania 10 dicembre 2003, n. 21, che va ad integrare la pianificazione nazionale d’emergenza dell’area vesuviana. In particolare, l’art. 6 prevede che nei Comuni rientranti nella cd. ‘zona rossa’ è consentito, in
deroga alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, il mutamento di destinazione d’uso degli immobili
residenziali da adibire all’esercizio di attività produttive, commerciali, turistico-ricettive o di pubblica
utilità.
Anche i vincoli legislativi dei quali si è riferito sub b), e c) – la rappresentazione grafica dei quali si può vedere nello Schema 7.3.2 – hanno evidentemente ad oggetto, non singoli beni, ma intere categorie di essi, dovendosi perciò collocare fra quelli qualificativi/conformativi ad opera della legge. Benché la sua efficacia circoscritta possa suggestionare in modo da opinare diversamente, anche l’ultimo
deve ascriversi alla classe esaminata, giacché è comunque disposto con legge ed è riferito alla categoria
comprendente tutti i beni insistenti nella cd. ‘zona rossa’.
gio, emerge del resto anche dalla successiva giurisprudenza in materia di vincoli non indennizzabili: mi riferisco, ad esempio, alla sent. n. 133 del 1971, sulle zone di rispetto delle autostrade, alla sent. n. 9 del 1973; sui vincoli paesaggistici per i Colli Euganei, alle sentt. n. 202 del 1974 e 245 del 1976; sui vincoli d’interesse storico e artistico, alle sentt. n.
14 del 1987 e 648 del 1988; sui vincoli in zona sciistica, e, soprattutto, alle sentt. n. 344 del 1990, 393 del 1991, 417 del
1995 sui vincoli paesistici. In particolare queste ultime decisioni hanno affrontato il delicato problema della compatibilità con l’art. 42, comma 3 dell’art. 1- quinquies d.l. n. 312 del 1985 conv. nella legge n. 431 del 1985, nella parte in cui
non prevede un termine massimo del divieto assoluto di inedificabilità fino all’approvazione dei piani paesistici e,
nell’escludere tale contrasto, hanno ancora una volta fatto leva sul carattere generale del vincolo de quo e dal suo essere
connaturato ad una categoria omogenea di beni protetta dall’ordinamento in forza dell’originario interesse pubblico che
essi perseguono».
32
SCHEMA 7.3.2
Qualificazione/conformazione della proprietà per ‘categorie di beni’
Urbanistica
delle acque superficiali
e sotterranee destinate
al consumo umano
Zone di tutela
Vincoli per le zone
a rischio vulcanico
nell’area vesuviana
paesaggistica
ambientale
D) Servitù pubbliche su beni privati. Si distinguono cinque categorie di servitù pubbliche su beni
privati, come esemplificato nello Schema 7.4.
SCHEMA 7.4
Qualificazione/conformazione della proprietà per ‘categorie di beni’
Servitù pubbliche
su beni privati
‘via alzaia’
aeronautiche
elettrodotto
oleodotto
‘strade vicinali’
a) La servitù di ‘via alzaia’. Rinviene il suo etimo nel nome della fune (l’alzaia) utilizzata per
trainare, da terra, le imbarcazioni lungo i fiumi. La servitù insiste sulla striscia di terreno che i proprietari dei fondi attraversati o confinanti con corsi d’acqua navigabili sono tenuti a lasciare sgombra per consentire il traino delle imbarcazioni, e comunque il transito di persone ed animali49. La sua larghezza è
generalmente di 5 metri, ove non sia diversamente determinata da regolamenti o consuetudini. La disciplina di questo istituto, originariamente ricavabile dall’art. 144 della Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all.
F, sui lavori pubblici, successivamente trasfuso nell’art. 72 del T.U. 25 luglio 1904, n. 523, sulle opere
idrauliche, è oggi contenuta nell’art. 52 del T.U. 11 luglio 1913, n. 959, sulla navigazione interna e sulla
fluitazione.
b) Servitù aeronautiche. Stante l’evidente necessità di garantire la sicurezza del volo, in prossimità degli aerodromi sono soggetti ai limiti stabiliti agli artt. 711 e ss. del «Codice sulla navigazione interna» (approvato con R.D.L. 30 marzo 1942, n. 327, come aggiornato dal D. Lgs. 9 maggio 2005, n.
96, recante «Revisione della parte aeronautica del Codice della navigazione»), «le opere, le piantagioni
49
Cfr. A. COLASURDO, voce Alzaia, in Enc. Dir., vol. II, 1958, pp. 114 ss.
33
e le attività che costituiscono un potenziale richiamo per la fauna selvatica o comunque un pericolo per
la navigazione aerea» (art. 711, co. 1). La loro realizzazione, «fatte salve le competenze delle autorità
preposte», è subordinata «all’autorizzazione dell’ENAC, che ne accerta il grado di pericolosità ai fini
della sicurezza della navigazione aerea» (co. 2). L’ENAC può, altresì, ordinare, «con provvedimento
motivato, che siano abbattuti gli ostacoli non compatibili con la sicurezza della navigazione aerea o eliminati i pericoli per la stessa», i cui costi sono «a carico del proprietario dell’opera che costituisce ostacolo» (art. 714).
c) Servitù di elettrodotto. Sono previste dall’art. 119 del R.D.L. 11 dicembre 1933, n. 1775 (recante «Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici»), a norma del quale «Ogni
proprietario è tenuto a dar passaggio per i suoi fondi alle condutture elettriche aeree o sotterranee che
esegua chi ne abbia ottenuto permanentemente o temporaneamente l’autorizzazione dall’autorità competente».
d) Servitù di oleodotto. L’esistenza di queste servitù viene dedotta, con interpretazione estensiva,
almeno per gli oleodotti pertinenti all’industria petrolifera, dal R.D.L. 2 novembre 1933, n. 1741 (la cd.
‘legge petrolifera’) e dal relativo Regolamento 20 luglio 1934, n. 1303, riguardanti l’importazione, la
lavorazione, il deposito e la distribuzione degli oli minerali e dei carburanti50.
e) Servitù di strade vicinali. Queste servitù insistono sulle strade vicinali ccdd. ‘pubbliche’ –
strade che non vanno confuse con le strade vicinali private (o vie agrarie), le quali sono formate ex collatione privatorum agrorum, e cioè da conferimenti consensuali del terreno dei proprietari dei fondi
confinanti, che servono esclusivamente ad essi, non essendone l’uso consentito alla generalità 51 – e
sembrano essere frutto di elaborazione giurisprudenziale, che ne ha stabilito i presupposti ed i modi di
costituzione. Le strade vicinali ‘pubbliche’, dunque, sono strade di proprietà privata gravate da servitù
pubblica di passaggio, alla quale vengono assoggettati anche gli spazi privati (spiazzi, vicoli, corti) aperti al transito pubblico (art. 22 della già richiamata L. 2248/1865 sui lavori pubblici) 52, le quali, proprio in
quanto assoggettate a pubblico transito, sono equiparate alle strade pubbliche in senso proprio e sottoposte al regime giuridico di queste ultime53. Perché una strada possa rientrare nella categoria delle strade
vicinali pubbliche – è bene precisare – devono sussistere: a) il requisito del passaggio, esercitato juris
servitutis publicae, da parte di una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad un gruppo territoriale; b) la concreta idoneità della strada a soddisfare, anche per il collegamento con la via pubblica,
esigenze di generale interesse; c) un titolo valido a sorreggere l’affermazione del diritto di uso pubblico,
che può identificarsi nella protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile54.
Le prime quattro servitù elencate, sebbene siano costituite con atto amministrativo, sembrano
doversi collocare, tutte, senza particolari problemi, fra le qualificazioni/conformazioni legislative, giacché è comunque direttamente dalla legge che scaturisce la connotazione limitante la proprietà (individuandosi le condizioni – presupposti e contenuti del vincolo – al ricorrere delle quali l’autorità competente è autorizzata ad emanare il relativo provvedimento impositivo). Anche alla quinta, peraltro, benché
ciò si presenti meno pacifico, pare doversi riservare la medesima collocazione: pur trattandosi di una
50
Sul punto si v. F. PIGA, R. LASCHENA, Disciplina giuridica degli oleodotti, in Foro amm., 1965, II, pp. 3 ss.
Cass. civ., sez. II, 14 luglio 1976, n. 2710.
52
Cass. civ., sez. II, 22 novembre 1968, n. 3794.
53
Cass. civ., sez. II, 19 febbraio 1993, n. 2025.
54
Cass. civ., sez. II, 12 luglio 1991, n. 7718.
51
34
creazione giurisprudenziale, infatti, a far propendere per la sua assimilazione alle servitù pubbliche ex
lege sta il fatto che l’asservimento all’uso collettivo sembra discendere, in via diretta, da una qualità che
la legge considera intrinseca al bene (l’idoneità a soddisfare generali esigenze di collegamento), il successivo provvedimento amministrativo che ad essa dà attuazione presentando carattere meramente ricognitivo.
5.1.3. segue: b) ad opera di atti amministrativi fonte di diritto obiettivo (piani regolatori e strumentazione urbanistica in genere)
E veniamo all’analisi delle limitazioni interne derivanti da atti fonte del diritto obiettivo. Tali limitazioni ricorrono in due soltanto dei quattro ambiti indicati, e segnatamente in materia di ambiente e
di urbanistica, come è riassunto nello Schema 8.
SCHEMA 8
Qualificazione/conformazione della proprietà per ‘categorie di beni’
Qualificazione/conformazione
della proprietà ad opera
di ATTO AMMINISTRATIVO
FONTE DI DIRITTO OBIETTIVO
Ambiente
Urbanistica
vincoli a scopi
idrogeologici posti
dal piano di coltura
e conservazione
zonizzazioni nel PRG
vincoli di bacino
posti dal piano
di bacino distrettuale
zone sismiche
vincoli a tutela
delle acque posti dal
piano di tutela delle acque
A) Ambiente. Relativamente all’ambiente, si distinguono nelle seguenti tre specie: a) vincoli idrogeologici posti dal Piano di coltura e conservazione; b) vincoli di bacino; c) vincoli per la tutela delle
acque.
a) Vincoli a scopi idrogeologici posti dal Piano di coltura e conservazione. Previsti dal già richiamato R.D.L n. 3267/1923 (la cd. ‘legge forestale’), essi hanno lo scopo di vincolare «per scopi idrogeologici i terreni di qualsiasi natura e destinazione che, per effetto di forme di utilizzazione contrastanti
con le norme di cui agli articoli 7, 8 e 9, possono con danno pubblico subire denudazioni, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque» (art. 1), e in effetti consistono in limitazioni imposte tramite il
«Piano di coltura e conservazione» (art. 54).
b) Vincoli di bacino. Previsti dall’art. 65 del D. Lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (recante «Norme in
materia ambientale», il cd. ‘Codice dell’ambiente’), tali vincoli sono posti dal Piano di bacino distret-
35
tuale55, che «è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d’uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo ed alla corretta utilizzazione delle acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato» (co. 1).
c) Vincoli per la tutela delle acque. Previsti dall’art. 121 del D. Lgs. 152/2006, consistono nelle
«misure necessarie alla tutela qualitativa e quantitativa del sistema idrico» e sono posti dal piano di tutela delle acque approvato dalla Regione. In particolare, sono «finalizzati alla tutela delle acque dagli inquinamenti, integrata con la tutela quantitativa delle risorse idriche, e la loro disciplina dedica una peculiare attenzione alle acque destinate al consumo umano»56.
I tre vincoli testé esaminati sono evidentemente riconducibili alla categoria delle qualificazioni/conformazione ad opera di atto fonte.
B) Urbanistica. Con riguardo all’urbanistica, invece, le limitazioni si sostanziano nelle: a) zonizzazioni ad opera del Piano regolatore generale e nella b) individuazione delle zone sismiche.
a) Zonizzazioni. Le prescrizioni di zona57 sono le disposizioni che consentono al pianificatore
comunale di suddividere il territorio in zone in base alla capacità delle diverse aree di ospitare i diversi
usi. Richiamando la definizione fornita dalla Carta di Atene del 1933, può affermarsi che «la zonizzazione è quella operazione fatta sulla pianta di una città, al fine di assegnare ad ogni funzione, ad ogni individuo il suo giusto posto. Essa si basa sulla necessaria discriminazione tra le diverse attività umane
che richiedono ognuna il proprio spazio particolare: locali per l’abitazione, centri industriali o commerciali, sale o spazi aperti destinati allo svago». Lo zoning è previsto dall’art. 7, n. 2, della L. 1150/1942
(come sostituito dall’art. 1, co. 1, della Legge 19 novembre 1968, n. 1187), si caratterizza, per un verso,
per la suddivisione del territorio comunale in zone, aventi ognuna una data funzione, per l’altra, per la
determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare per ciascuna di esse.
Il D.M. 1444/196858 definisce le Zone Territoriali Omogenee (Z.T.O.) della pianificazione urbanistica suddividendole in:
55
Sul punto cfr., tra gli altri, P. STELLA RICHTER, I piani di bacino, in F. BASSI e L. MAZZAROLLI (a cura di),
Pianificazioni territoriali e tutela dell’ambiente, Giappichelli, Torino, 2000, pp. 29 ss.; e P. URBANI, La pianificazione
per la tutela dell’ambiente, delle acque e per la difesa del suolo, in Riv. giur. ambiente, 2001, pp. 199 ss.
56
Così M. RENNA, Vincoli alla proprietà cit., p. 721.
57
La distinzione tra ‘prescrizioni di zona’ e ‘prescrizioni di localizzazione’ utilizzata per indicare il contenuto
essenziale del piano si deve a L. MAZZAROLLI, I piani regolatori generali nella teoria giuridica della pianificazione,
Cedam, Padova, 1962.
58
Il decreto indica le zone che necessariamente devono essere individuate nello strumento urbanistico comunale, distinguendo tra zone ‘omogenee’ residenziali, produttive, agricole e destinate ad impianti di interesse generale. Per
ciascuna di esse il decreto stabilisce norme diverse in relazione al conteggio degli standard, in modo da calibrare il rapporto tra quantità di edificazione e la dotazione di spazi pubblici, in rapporto allo stato attuale e futuro dell’edificazione.
La ‘zona’ si caratterizza, pertanto, per l’identità della destinazione urbanistica di tutte le aree che la compongono. Ciò
sul piano giuridico si giustifica con l’esigenza di garantire, a parità di condizioni, l’uguaglianza di trattamento delle situazioni giuridiche soggettive, ad esempio del diritto di proprietà o del diritto di impresa, che il diritto urbanistico consente di conformare nel rispetto, peraltro, dei principi di imparzialità e di buona amministrazione. In ciascuna zona, infatti, l’edificazione è diversamente regolata, potendo le norme tecniche di attuazione (n.t.a.) del Piano regolatore prescrivere, oltre alla specifica destinazione e alle funzioni ammissibili, l’incidenza volumetrica, le altezze massime ed ogni altro parametro edilizio ritenuto rilevante: per tali motivi può affermarsi che le norme tecniche di attuazione disciplinano, oltre la pianificazione territoriale, anche l’attività edificatoria in senso stretto. Ciò pone alcuni problemi di coordinamento con il regolamento edilizio, ad esempio in tema di distanze, altezze, parcheggi, cortili; problemi, però,
spesso risolti dalle previsioni delle stesse norme tecniche o, in mancanza, dalla giurisprudenza. Più in particolare, al fine
36
- zona A (centro storico), costituita da parti del territorio comunale interessate da edifici e tessuto edilizio di interesse storico, architettonico o monumentale. In questa zona vige il divieto di edificabilità, qualsiasi intervento dovendo avere per scopo la conservazione e la ricostituzione dei valori urbanistico-ambientali, desumibili dal significato storico della medesima 59;
- zona B, costituita da «parti del territorio totalmente o parzialmente edificate, diverse dalle zone
A», e definita ‘zona “di completamento’, ad indicarne la vocazione essenzialmente di completamento
della edificazione preesistente;
- zona C, costituita da «parti del territorio destinate a nuovi complessi insediativi, che risultino
inedificate o nelle quali l’edificazione preesistente non raggiunga i limiti di superficie e densità di cui alla precedente lettera B», e definita ‘zona residenziale di espansione’, a significare che si tratta di una zona a vocazione urbanistico-edilizi,a destinata a soddisfare le esigenze di sviluppo dell’edilizia residenziale, sia privata che pubblica60. La zona C, insomma, si connota per le previsioni di espansione
dell’aggregato urbano;
- zona D, costituita da «parti del territorio destinate a nuovi insediamenti per impianti industriali
o ad essi assimilati». Relativamente a tale zona, spesso i pianificatori introducono specifiche sottozone,
distinguendo tra grandi industrie, medie industrie, piccole industrie ed artigianato industriale. Sulla base
di tali prescrizioni, la conformazione, oltre a riguardare il diritto di proprietà, concerne direttamente lo
stesso diritto di impresa. Sotto il profilo vincolistico ciò che rileva è il fatto che il pianificatore può intervenire a disciplinare la zona industriale vietando l’esercizio di particolari attività, in considerazione
della tutela ambientale ed igienico-sanitaria, secondo la previsione dell’art. 216 T.U. delle leggi sanitarie;
di determinare le modalità e le potenzialità di intervento, le n.t.a. forniscono, sulla base delle caratteristiche fisiche di
ogni area, la definizione della zona; chiariscono quale debba essere lo scopo degli interventi e le forme attraverso cui
devono essere attuati; prevedono indici urbanistici specifici da rispettare e disciplinano le destinazioni d’uso e le modalità attuative del piano. La stessa giurisprudenza, infatti, ha ammesso la possibilità che con le norme tecniche di attuazione possano essere introdotte modifiche all’edificabilità delle aree, poiché con esse si stabilisce la normativa specifica
di ogni zona (indici edilizi, destinazione e simili) identificata nella planimetria e si fissa ogni altra norma che completi il
regolamento edilizio e renda possibile la realizzazione del P.R.G. Inoltre è possibile che il pianificatore apponga vincoli
di inedificabilità con il mezzo tecnico-giuridico delle n.t.a. Cfr. T.A.R. Marche, 28 luglio 1995, n. 396, in Foro amm.,
1996, 1662.
59
Sebbene parte della giurisprudenza sembri escludere che i centri storici possano qualificarsi come ‘zone residenziali’ − le loro particolarità strutturali, funzionali ed ambientali esprimendo una vocazione urbanistica peculiare ed
unica, rispetto alla quale la zonizzazione come edilizia residenziale assume i caratteri della sussidiarietà e della complementarità (cfr. T.A.R. Molise, 10 maggio 1999, n. 385, in Foro amm., 1999, 2650) −, solitamente il Piano regolatore
riconosce a tale zona una funzione prevalentemente residenziale. Le modalità attuative della conservazione della zona A
sono di regola fissate in specifiche previsioni contenute nei Piani particolareggiati e di recupero.
60
In relazione alla destinazione residenziale, la Corte di Cassazione ha affermato che l’art. 17 della Legge 6
agosto 1967, n. 765, nello stabilire limiti inderogabili per i Comuni sprovvisti di Piano regolatore generale − attraverso
la previsione di limitazioni diverse per l’edificazione a scopo residenziale rispetto agli edifici ed ai complessi produttivi
− «ha imposto all’interprete, al fine di stabilire se una costruzione abbia o meno carattere residenziale, l’obbligo di un
approfondito esame, in punto di fatto, volto ad accertare non già la destinazione − più o meno soggettiva, occasionale o
rilevabile in un dato tempo − del fabbricato, bensì le sue obiettive caratteristiche strutturali, che ne evidenzino, di per sé,
per tipologia costruttiva e zona territoriale su cui insiste, il carattere residenziale, carattere che attiene non alla sola utilizzazione abitativa in senso stretto, ma a tutte quelle utilizzazioni del tessuto urbano tradizionale che comprendono le
attività normalmente collegate all’esistenza ed alla vita di quest’ultimo (uffici, negozi, banche, scuole, grandi magazzini
ecc.) e che non è riscontrabile, nelle costruzioni che, per tipologia e zona del territorio comunale su cui insistono, evidenzino in modo immediato il loro carattere produttivo, come nel caso di opifici, capannoni e simili»: cfr. Cass., sez. II,
14 giugno 1997, n. 5368, in Giur. bollettino legisl. tecnica, 1997, 4290.
37
- zona E, costituita da «parti del territorio destinate ad usi agricoli, escluse quelle in cui − fermo
restando il carattere agricolo delle stesse − il frazionamento delle proprietà richieda insediamenti da
considerare come zone C». I pianificatori sono progressivamente intervenuti a disciplinare in modo dettagliato l’utilizzo della zona E, anche in conseguenza della mancanza di riferimenti in relazione alla definizione di zona agricola61;
- zona F, costituita da «parti del territorio destinate ad attrezzature ed impianti di interesse generale». La zona in parola, che sembra coincidere con le localizzazioni, in realtà si pone con queste in un
rapporto di genus a species, essa avendo una portata più ampia. Infatti la locuzione «impianti di interesse generale» non fa necessariamente riferimento alle opere pubbliche, ma concerne tutte quelle strutture
che riguardano la collettività, anche se private. La giurisprudenza ha infatti affermato che la categoria
degli impianti e delle attrezzature di interesse generale, edificabili nella zona F del Piano regolatore, va
distinta da quella delle opere pubbliche, peraltro precisato che la categoria ben può comprendere impianti, come un centro commerciale, i quali, «pur non attenendo a scopi di stretta cura della P.A., sono
comunque idonei a soddisfare bisogni della collettività, ancorché realizzati e gestiti da privati»62.
b) Zone sismiche. Sono disciplinate dall’Ordinanza Presidente del Consiglio dei Ministri del 28
aprile 2006, n. 3519, la quale fissa «i criteri generali per l’individuazione delle zone sismiche e per la
formazione e l’aggiornamento degli elenchi delle medesime zone». Nelle zone in parola sono in particolare previsti obblighi tecnici riguardanti, per un verso, il progetto, la valutazione e l’adeguamento sismico degli edifici; e, per l’altro, i progetti di opere di fondazione e di sostegno dei terreni.
In definitiva, può ben dirsi comune a tutte le zone richiamate sub a) e b) che le limitazioni derivanti dall’appartenenza all’una piuttosto che all’altra rappresentano vincoli ex atto fonte del diritto obiettivo: esse, infatti, non sono imposte da una fonte legislativa e, a differenza delle ccdd. ‘localizzazioni’ (sulle quali si v., infra, la lettera C del par. 5.2.1.), hanno ad oggetto non già il singolo bene, bensì
tutti i beni rientranti nella rispettiva zona.
5.2. I vincoli amministrativi sui singoli diritti di proprietà privata, secondo l’art. 42, co. 3, Cost. Le
ccdd. ‘limitazioni esterne’
61
Dal canto suo, la giurisprudenza, per un verso, ha affermato che la destinazione a zona agricola contenuta nel
Piano regolatore non concretizza un vincolo a contenuto espropriativi [cfr. Consiglio di Stato, 10 aprile 2002, n. 1974.
In tale caso il giudice amministrativo, dopo aver riconosciuto la legittimità della disposizione contenuta nell’art. 11 delle n.t.a del Comune di Garbagnate Milanese – ove si stabilisce che «ove le previsioni del piano regolatore, nella parte in
cui incidono su beni determinati e assoggettano i beni stessi a vincoli preordinati all’espropriazione o a vincoli che
comportino l’inedificabilità, avessero a perdere efficacia in forza di disposizioni di legge, le aree interessate da dette
previsioni assumeranno la destinazione d’uso prescritta per le zone agricole» – ha affermato che la destinazione d’uso
prescritta per le zone agricole «non configura un vincolo espropriativo o di inedificabilità assoluta nel tempo: essa cioè
presenta una efficacia temporale indeterminata e non può essere assimilata ad una forma di vincolo, soggetta al termine
di validità temporale di cui all’art. 2 della l. n. 1187 del 1968»], in quanto risponde all’esigenza di conformare il diritto
di proprietà attraverso la definizione dell’utilizzazione del suolo consentita al proprietario (dal che la conseguenza che
la relativa prescrizione non è indennizzabile, né è soggetta al limite temporale di efficacia: cfr. Consiglio di Stato, sez.
IV, 6 marzo 1998, n. 382, in Riv. giur. urbanistica, 1999, 383, con nota di CASTELLAZZI); e, per l’altro, ha riconosciuto
il carattere di residualità della zona E rispetto alle altre zone, espressamente sostenendo che la destinazione agricola non
sottrae l’area ad ogni e qualsiasi utilizzazione produttiva e nemmeno totalmente all’edificazione, tenuto conto che assume, nella pianificazione urbanistica, carattere residuale rispetto alle altre zone omogenee [cfr. T.A.R. Puglia, Bari,
sez. II, 13 novembre 1991, n. 707, in Foro amm., 1992, 1214].
62
T.A.R. Basilicata, 21 ottobre 1996, n. 288, in Giur. merito, 1997, 1059.
38
Esaurita
l’esposizione della ricognizione degli interventi normativi di qualificazio-
ne/conformazione, passiamo ad illustrare le ‘limitazioni esterne’ al diritto di proprietà, quelle cioè derivanti da provvedimenti amministrativi singolari, volti a circoscrivere la utilizzabilità dei beni, fino alla
loro espropriazione.
Detti vincoli ablatori, come preannunciato, possono avere, o no, una capacità espropriativa, la
quale è riconoscibile dalla corresponsione di indennità prevista dalla legge.
5.2.1. I vincoli amministrativi su singoli beni: a) ablatori (integralmente o parzialmente) espropriativi (perché indennizzabili)
I primi, quelli cioè ablatori (integralmente o parzialmente) espropriativi (perché indennizzabili)
ricorrono in tutti e quattro gli ambiti: in materia di beni culturali, di ambiente, di urbanistica e di servitù
pubbliche, come evidenziato nello Schema 9.
SCHEMA 9
Vincoli amministrativi sui ‘singoli’ beni
Vincoli ablatori
espropriativi
Beni culturali
Ambiente
Urbanistica
Servitù
pubbliche
servitù
militari
espropriazione
per fini strumentali
vincoli
naturalistici
vincoli preordinati
all’esproprio
espropriazione
per fini archeologici
idrogeologici ulteriori
rispetto a quelli posti
dal piano di coltura
e conservazione
localizzativi
infrastrutture
stradali
verde pubblico
o a parco
edilizia residenziale
pubblica ed edilizia
convenzionata
opere
pubbliche
A) Beni culturali. I vincoli in parola consistono nella cd. ‘espropriazione in zona di rispetto’, ipotesi che – in gran parte assimilabile alla generale espropriazione per pubblica utilità, della quale, giusta l’art. 100 del Codice, «si applicano, in quanto compatibili le disposizioni generali» – può ricorrere,
secondo la legge, in due casi.
a.1) Espropriazione per fini strumentali. È disciplinata all’art. 96 del Codice, a norma del quale
«Possono essere espropriati per causa di pubblica utilità edifici ed aree quando ciò sia necessario per isolare o restaurare monumenti, assicurarne la luce e la prospettiva, garantirne ed accrescerne il decoro o
il godimento da parte del pubblico, facilitarne l’accesso». L’espropriazione in parola va tenuta distinta
da quella «di beni culturali» (di cui abbiamo parlato con riguardo agli interventi di qualificazione/conformazione per categorie di beni ad opera della legge) e si configura come un potere cui l’autorità
di tutela ricorre quando – considerando insufficiente il ‘vincolo indiretto’ (che vacollocato, invece, nei
39
vincoli ablatori non espropriativi) a soddisfare le finalità di conservazione e valorizzazione del bene culturale – abbia raggiunto il convincimento, sulla base della sua valutazione discrezionale (a contenuto
tecnico), che dette finalità siano perseguibili soltanto attraverso interventi modificativi dello stato dei
luoghi63.
a.2) Espropriazione per interesse archeologico. È disciplinata all’art. 97 del Codice, a norma del
quale «Il Ministero può procedere all’espropriazione di immobili al fine di eseguire interventi di interesse archeologico o ricerche per il ritrovamento delle cose indicate nell’articolo 10». Pur non essendo propriamente qualificabile come una vera e propria espropriazione in zona di rispetto, essa sembra potersi
più correttamente assimilare ad una siffatta ipotesi, piuttosto che a quella della espropriazione di beni
culturali, giacché mira alla appropriazione di beni, non in ragione della loro culturalità (sebbene non
possa escludersi che siano già vincolati come tali), ma perché la loro disponibilità è strumentale alla ricerca archeologica.
B) Ambiente. Se ne distinguono due diverse specie: i vincoli naturalistici ed i vincoli idrogeologici ulteriori rispetto a quelli posti dal Piano di coltura e conservazione.
a) Vincoli naturalistici. Sono disciplinati dalla Legge 6 dicembre 1991, n. 394 (recante «Legge
quadro sulle aree protette»). Secondo la dottrina, essi sono «rivolti alla tutela di valori naturalistici ed
ecologici, geologici e biologici ma anche estetici e, in diverse ipotesi (si pensi essenzialmente ai parchi),
finanche antropologici e storico-culturali, all’interno di porzioni di territorio, variamente estese e delimitate, nelle quali detti valori sono particolarmente diffusi e rilevanti» 64.
Secondo l’art. 12, co. 1, L. 394/1991, «La tutela dei valori naturali ed ambientali» è «affidata
all’Ente parco» ed «è perseguita attraverso lo strumento del piano per il parco», che, nella opinione della
citata dottrina, è chiamato a «suddividere il territorio in varie parti – quali, a un estremo, le cd. riserve
integrali e, all’estremo opposto, le cd. aree di promozione economica e sociale – caratterizzate da destinazioni d’uso e vincoli diversificati»65). Il piano «deve, in particolare, disciplinare», fra l’altro, la «a)
organizzazione generale del territorio e sua articolazione in aree o parti caratterizzate da forme differenziate di uso, godimento e tutela», nonché «b) vincoli, destinazioni di uso pubblico o privato e norme di
attuazione relative con riferimento alle varie aree o parti del piano» .
I vincoli in parola consistono nel divieto di costruire nuove opere edilizie, di ampliare le costruzioni esistenti, eseguire opere di trasformazione del territorio (a norma dell’art 1, co. 3, infatti, «Sono
vietati fuori dei centri edificati di cui all’articolo 18 della legge 22 ottobre 1971, n. 865, e, per gravi motivi di salvaguardia ambientale, con provvedimento motivato, anche nei centri edificati, l’esecuzione di
nuove costruzioni e la trasformazione di quelle esistenti, qualsiasi mutamento dell’utilizzazione dei ter-
63
Sul punto, si v. T. ALIBRANDI, P. FERRI, I beni culturali cit., p. 603.
Così M. RENNA, Vincoli alla proprietà cit., p. 721, il quale richiama anche l’art. 7 della Legge 3 marzo 1987,
n. 59, sul funzionamento del Ministero dell’ambiente; gli artt. 77 e 78 del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112; gli artt. 25 e
ss. della Legge 31 dicembre 1982, n. 979, sulla difesa del mare; e gli artt. 3 e ss. del regolamento approvato con il
D.P.R. 8 settembre 1997, n. 357, sulla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, della flora e della fauna selvatiche.
65
Così M. RENNA, Vincoli alla proprietà cit., p. 722.
64
40
reni con destinazione diversa da quella agricola e quant’altro possa incidere sulla morfologia del territorio, sugli equilibri ecologici, idraulici ed idrogeotermici e sulle finalità istitutive dell’area protetta) 66.
È sempre la legge, infine, a stabilire che «I vincoli derivanti dal piano alle attività agro-silvopastorali possono essere indennizzati sulla base di principi equitativi. I vincoli, temporanei o parziali, relativi ad attività già ritenute compatibili, possono dar luogo a compensi ed indennizzi, che tengano conto
dei vantaggi e degli svantaggi derivanti dall’attività del parco» (art. 15, co. 2); e che «L’Ente parco è tenuto ad indennizzare i danni provocati dalla fauna selvatica del parco» (co. 3).
b) Vincoli idrogeologici ulteriori rispetto a quelli posti dal Piano di coltura e conservazione.
Previsti dal R.D.L. 3267/1923, consistono nella limitazione all’utilizzo di quei boschi costituenti ‘opera
naturale’ a difesa di «terreni o fabbricati dalla caduta di valanghe, dal rotolamento di sassi, dal sorrenamento e dalla furia dei venti», nonché di «quelli ritenuti utili per le condizioni igieniche locali», i quali
ultimi «possono, su richiesta delle provincie, dei comuni o di altri enti e privati interessati, essere sottoposti a limitazioni nella loro utilizzazione». La legge prevede l’obbligo di indennizzare la diminuzione
del reddito derivante dalle limitazioni all’uso (art 17).
C) Urbanistica. Vi rientrano soltanto i vincoli preordinati all’esproprio, altrimenti definibili localizzativi, o ancora localizzazioni, previsti dall’art. 7, nn. 3 e 4 della legge urbanistica. Si caratterizzano
per il fatto di porre vincoli di inedificabilità funzionali al successivo trasferimento della titolarità del bene in capo alla pubblica amministrazione, mediante espropriazione, al precipuo fine di realizzare
un’opera pubblica. I vincoli localizzativi, insomma, determinano una inedificabilità provvisoria poiché,
in attesa dell’espropriazione, il privato, ancorché titolare del bene, non potrà realizzare opere di edificazione. In particolare, l’art. 7 (nn. 1, 3 e 4) della legge urbanistica stabilisce che il piano regolatore indichi «la rete delle principali vie di comunicazione stradali, ferroviarie e navigabili e dei relativi impianti;
le aree destinate a formare spazi di uso pubblico o sottoposte a speciali servitù; le aree da riservare ad
edifici pubblici o di uso pubblico nonché ad opere ed impianti di interesse collettivo o sociale».
D) Servitù pubbliche su beni privati. Vi rientrano soltanto le ccdd. ‘servitù militari’. L’art. 1 della Legge 24 dicembre 1976, n. 898 (recante «Nuova regolamentazione delle servitù militari», e successivamente modificata dalla Legge 2 maggio 1990, n. 104), dispone che «In vicinanza delle opere ed installazioni permanenti e semipermanenti di difesa, di segnalazione e riconoscimento costiero, delle basi
navali, degli aeroporti, degli impianti ed installazioni radar e radio, degli stabilimenti nei quali sono fabbricati, manipolati o depositati materiali bellici o sostanze pericolose, dei campi di esperienze e dei poligoni di tiro il diritto di proprietà può essere soggetto a limitazioni secondo le norme della presente legge. Tali limitazioni sono stabilite nella durata massima di cinque anni, salvo quanto previsto dal successivo articolo 10, e debbono essere imposte nella misura direttamente e strettamente necessaria per il tipo
di opere o di installazioni di difesa».
66
In materia, fra gli altri, si v.: C. DESIDERI, F. FONDERICO, I parchi nazionali per la protezione della natura,
Giuffrè, Milano, 1998, N. AICARDI, Specificità e caratteri della legislazione sulle aree naturali protette: spunti ricostruttivi sulle discipline territoriali differenziate, in F. BASSI e L. MAZZAROLLI (a cura di), Pianificazioni territoriali.
cit., pp. 35 ss., e A. ABRAMI, Il regime giuridico delle aree protette, Giappichelli, Torino, 2000.
41
Le limitazioni in parola consistono, in particolare: «a) nel divieto di fare elevazioni di terra o di
altro materiale; costruire condotte o canali sopraelevati; impiantare condotte o depositi di gas o liquidi
infiammabili; scavare fossi o canali di profondità superiore a 50 cm.; aprire o esercitare cave di qualunque specie; installare macchinari o apparati elettrici e centri trasmittenti; fare le piantagioni e le operazioni campestri che saranno determinate con regolamento; b) nel divieto di: aprire strade; fabbricare muri o edifici; sopraelevare muri o edifici esistenti; adoperare nelle costruzioni alcuni materiali» (art. 2).
La legge prevede espressamente che al proprietario del fondo che subisce la limitazione vada
corrisposto un indennizzo: «Ai proprietari degli immobili assoggettati alle limitazioni spetta un indennizzo annuo rapportato al doppio del reddito dominicale ed agrario dei terreni e del reddito dei fabbricati, quali valutati ai fini dell’imposizione sul reddito. Tale indennizzo è stabilito in una metà dei predetti
redditi per le limitazioni di cui a ciascuna delle lettere a) e b) del precedente articolo 2 e nell’intero reddito in caso di concorso di limitazioni di entrambe le lettere» (art. 7, co. 1 e 2). Va ricordato che «I suddetti indennizzi sono corrisposti ai proprietari degli immobili su domanda degli stessi o degli interessati
di cui al terzo comma, diretta al sindaco del comune ove esistono i beni soggetti a vincolo» (art. 7, co.
5).
5.2.2. segue: b) ablatori non espropriativi (perché non indennizzabili)
Restano, infine, da esaminare i vincoli ablatori non espropriativi operanti su singoli beni. Tali
vincoli sono previsti esclusivamente dalla normativa di tutela dei beni culturali.
A) Beni culturali. Ci si riferisce, segnatamente, al cd. vincolo indiretto (così definito perché ha ad
oggetto, non già il bene culturale, bensì la zona di rispetto, e cioè gli immobili, privi di pregio artistico e
storico, che siano in relazione spaziale o, a dir così, abbiano un rapporto di ‘asservimento funzionale’
con esso) e al divieto di affissione in zona di rispetto, come esemplificato nello Schema 10.
SCHEMA 10
Vincoli amministrativi sui ‘singoli’ beni
Vincoli ablatori
non espropriativi
Beni culturali
divieto di affissione
in zona di rispetto
vincolo indiretto
a.1) Il vincolo indiretto. È disciplinato all’art. 45 del Codice, a norma del quale «Il Ministero ha
facoltà di prescrivere le distanze, le misure e le altre norme dirette ad evitare che sia messa in pericolo
l’integrità dei beni culturali immobili, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce o ne siano alterate le
condizioni di ambiente e di decoro» (co. 1). Come può agevolmente ricavarsi dalla lettura della disposizione, le ragioni che possono giustificare l’imposizione del vincolo in parola sono molteplici. Corrispet-
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tivamente, anche il contenuto delle prescrizioni può essere il più vario possibile. La norma non lo definisce, ma ne affida la determinazione alla valutazione discrezionale (a contenuto tecnico) della P.A., alla
quale spetterà indicare, nei singoli casi sottoposti al suo giudizio, le misure ritenute indispensabili ad assicurare la tutela del bene culturale, in un accorto e ragionevole dosaggio tra realizzazione dell’interesse
pubblico specifico e compressione del diritto di proprietà.
a.2) Il divieto di affissione in zona di rispetto. È disciplinato all’art. 49, co. 2, del Codice, il quale
dispone il divieto a collocare, senza autorizzazione, «cartelli o altri mezzi di pubblicità» lungo le «strade
site nell’ambito o in prossimità» di beni culturali. L’autorizzazione è rilasciata dall’autorità competente
«ai sensi della normativa in materia di circolazione stradale e pubblicità sulle strade e sui veicoli, previo
parere favorevole della soprintendenza sulla compatibilità della collocazione o della tipologia del mezzo
di pubblicità con l’aspetto, il decoro e la pubblica fruizione dei beni tutelati».
Attraverso tali strumenti, dunque, l’autorità di tutela può imporre ai proprietari dei beni che circondano quello culturale vincoli e limitazioni, così da rafforzare la tutela di quest’ultimo, ovvero di
‘completarla’, disegnando intorno ad esso uno spazio decoroso e coerente con i suoi valori.
Anche questi vincoli non attengono ad una categoria generale di beni previamente individuata
dalla legge: è per questo che la relativa disciplina va inclusa tra i vincoli amministrativi non espropriativi gravanti su singoli beni.
6. La questione del rapporto fra ‘contenuto minimo’ del diritto di proprietà privata e ‘funzione
sociale’ di questa e la recente tendenza a rispondere alla conciliazione fra le due istanze attraverso
la cd. ‘perequazione urbanistica’
Vorrei concludere proponendo alcune brevi considerazioni sul tema della cd. ‘perequazione urbanistica’, giacché mi sembra che questa possa rappresentare la strada più idonea allo scopo di trovare
una soddisfacente coniugazione fra conseguimento di interessi pubblici – cioè ‘funzione sociale’ della
proprietà – e tutela del diritto di proprietà – cioè rispetto del contenuto minimo dell’interesse al godimento del bene in appartenenza.
Con la locuzione ‘perequazione urbanistica’ (o ‘urbanistica perequata’) – è ormai abbastanza noto – si indicano, in maniera omnicomprensiva, numerosi e differenti ‘strumenti’ accomunati da un medesimo fine: la «distribuzione perequata delle utilità economiche derivanti dalle scelte urbanistiche»67.
Più in dettaglio, mediante l’istituto della perequazione urbanistica (oramai la espressa regolamentazione, contenuta in sempre più numerose leggi regionali, consente di definire la perequazione urbanistica come un ‘istituto’) il legislatore (sino ad ora solo quello regionale) ha inteso fornire ai soggetti
pianificatori uno strumento per riequilibrare la «sostanziale ingiustizia»68 conseguente alla non marginale perdita di valore economico, rispetto a quelli edificabili, dei suoli sottoposti, per ragioni di pubblico
interesse, a vincolo di inedificabilità assoluta.
Ciò si realizza scindendo, a livello di pianificazione generale (P.R.G., ma più spesso P.S.C. –
Piano Strutturale Comunale), l’astratta attitudine edificatoria, che viene riconosciuta a tutte le proprietà
ricomprese nel medesimo comparto, dalla possibilità concreta di realizzare l’intervento edilizio,
67
68
Così M.A. QUAGLIA, Pianificazione urbanistica e perequazione, Giappichelli, Torino, 2000, p. 66.
L’espressione è di G.F. MENGOLI, Manuale di diritto urbanistico, Giuffrè, Milano, 2009, p 139.
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quest’ultima rimessa alla pianificazione attuativa (Piano Operativo Comunale, P.O.C., – nella maggior
parte delle Regioni –, ma anche convenzioni di lottizzazione ed altri strumenti consensuali).
Il funzionamento della ‘pianificazione perequativa’ è di agevole descrizione. L’amministrazione
procede alla individuazione dei suoli aventi una intrinseca potenzialità edificatoria 69, che vengono poi
raggruppati, come appena accennato, in un comparto cui viene attribuito un indice generale di edificabilità. In questo modo tutti i suoli in esso ricompresi vengono qualificati come edificabili, a prescindere
dalla possibilità concreta di realizzare l’intervento edilizio.
Al generale (ma, più correttamente, all’astratto) riconoscimento della capacità edificatoria, quale
conseguenza della attribuzione dell’indice di edificabilità, si accompagna il riconoscimento (altrettanto
generale) della trasferibilità di detto indice in maniera del tutto autonoma rispetto al suolo cui esso si riferisce.
L’effetto, com’è evidente, è che, per un verso, ove in sede di pianificazione attuativa il suolo ricompreso nel comparto venisse fatto oggetto di un vincolo preordinato all’esproprio, l’indennizzo andrebbe comunque corrisposto considerando il suolo come edificabile; per altro verso, la possibilità della
autonoma circolazione dell’indice di fabbricabilità dà all’amministrazione (ma in ipotesi anche ad altri
privati proprietari) la possibilità di prevedere (e realizzare) forme alternative di compensazione nei confronti di chi, all’interno di un medesimo comparto, abbia, a dir così, sopportato gli effetti della pianificazione, consistenti tanto nella espropriazione del suolo da parte della P.A. per la realizzazione, ad esempio, di opere di urbanizzazione (i ccdd. ‘vincoli localizzativi’), quanto nella impossibilità concreta di
procedere all’intervento edilizio (indennizzabile, senza che peraltro si determini il trasferimento della
proprietà in mano pubblica).
In entrambe le ipotesi (di vincolo preordinato all’esproprio, ovvero di vincolo non espropriativo)
il proprietario del suolo può vedersi assegnate (in compensazione) quote di edificabilità su altre aree del
territorio comunale. Soltanto nella prima ipotesi, inoltre, la P.A. può subordinare alla cessione del suolo
la cessione, in tutto o in parte, dell’indice edificatorio da utilizzarsi su altra area (e, in alcuni casi, anche
su edifici) nell’ambito del territorio comunale.
Richiamati i tratti essenziali e maggiormente significativi del fenomeno perequativo, è opportuno riflettere sulla influenza che esso è in grado di dispiegare sulla tematica dei vincoli amministrativi alla proprietà privata.
L’utilizzo dello strumento perequativo sembra proficuo particolarmente per cercare di fornire
una soluzione al problema sia dei vincoli urbanistici preordinati all’esproprio (localizzazioni), sia dei
vincoli di inedificabilità assoluta non collegati all’acquisizione in mano pubblica del bene inciso.
Se con riguardo a quelli del primo tipo grossi problemi ricostruttivi non sembrano porsi, potendo
il titolare del bene espropriato, su cui dovrà insistere l’opera di pubblica utilità, essere compensato mediante l’attribuzione di diritti edificatori su altra parte del territorio comunale; maggiori problemi si configurano relativamente a quelli del secondo tipo, specialmente sul rispetto del contenuto minimo del diritto di proprietà.
69
Secondo M.A. QUAGLIA, Pianificazione urbanistica e perequazione cit., p. 32, l’attitudine edificatoria andrebbe esclusa con riguardo alle aree già edificate, ai terreni suscettibili di usi prevalentemente agricoli, alle aree gravate da vincoli di inedificabilità non urbanistici, a quelle già destinate ad altre attività (ad es. sportive), ed infine a quelle
che si presentano come inedificabili per le loro caratteristiche morfologiche.
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Nel ricordare la nozione di vincolo sostanzialmente espropriativo – che in quanto tale è indennizzabile o comunque, al fine di evitare questo effetto, suscettibile di decadenza per decorso del quinquennio dalla sua apposizione –, occorre allora, sia pur rapidamente, provare a comprendere come la
pianificazione perequativa possa risolvere in radice i problemi connessi a questo tipo di vincoli.
A tal fine bisogna richiamare quanto riferito in precedenza: che ci si trova in presenza di un vincolo sostanzialmente espropriativo quando la disposizione di piano vada ad incidere, svuotandone il cd.
‘contenuto minimo’, su una singola proprietà (restandone fuori, evidentemente, le previsioni con cui
«l’autorità urbanistica disponga la conformazione di tutte le aree e di tutti gli immobili compresi nelle
zone individuate dallo strumento urbanistico generale […]»70).
Orbene, l’adozione della pianificazione perequativa consente di escludere in radice la configurabilità di vincoli urbanistici, così superando il problema del rispetto del contenuto minimo del diritto di
proprietà ad opera di vincoli incidenti su singoli beni.
In un sistema siffatto, al P.R.G. (oggi ormai, di regola, P.S.C.) competerà soltanto la individuazione del comparto edificatorio – fissando l’indice generale di fabbricabilità in esso –, rimettendosi al
Piano Operativo Comunale (P.O.C) la individuazione delle aree effettivamente idonee a realizzare interventi edilizi.
Pertanto, la formazione di un comparto edificatorio – sulla base della vocazione dei suoli in esso
compresi – porta a condividere l’opinione secondo cui «in un piano siffatto, con riferimento alle zone
così delimitate, non possano configurarsi aree “inedificabili”, suscettibili di dar luogo alla decadenza
delle previsioni che le riguardano, laddove ovviamente tale inedificabilità non sia la conseguenza di caratteristiche del bene oggettivamente riscontrabili» 71.
Invero, la previsione di una generale edificabilità nel comparto è pur sempre subordinata alla
emanazione del P.O.C. (ovvero del Piano particolareggiato), atteso che solo a seguito dell’adozione di
quest’ultimo sarà effettivamente possibile individuare i suoli realmente suscettibili di edificazione.
Ciò ha fatto dubitare circa la sussistenza di un vincolo sostanzialmente espropriativo (di inedificabilità sine die), in quanto la necessità del Piano particolareggiato per procedere alla edificazione è
sembrata risolversi in una prescrizione «comportante un’incisione della facoltà edificatoria eccedente la
normale tollerabilità consentita dalla garanzia costituzionale del diritto di proprietà»72.
A tale impostazione si è opposto che la previsione del Piano regolatore generale, più che configurarsi come un vincolo di inedificabilità, si pone come il momento di avvio del processo di pianifica70
Così Consiglio di Stato, sez. V, 22 marzo 1995, n. 451, in CdS, 1995, I, pp. 363 ss., nonché in Giorn. dir.
amm., 1996, pp. 24 ss. (con nota di P. URBANI, L’eterogeneità dei vincoli urbanistici, pp. 26 ss.). In senso conforme si
v. Corte cost., 20 maggio 1999, n. 179, secondo cui «Più in generale si è ritenuto che la legge può non disporre indennizzi quando i modi ed i limiti imposti – previsti dalla legge direttamente o con il completamento attraverso un particolare procedimento amministrativo – attengano, con carattere di generalità per tutti i consociati e quindi in modo obiettivo (sentenze n. 6 del 1966, cit., e n. 55 del 1968, cit.), ad intere categorie di beni, e per ciò interessino la generalità dei
soggetti con una sottoposizione indifferenziata di essi – anche per zone territoriali – ad un particolare regime secondo le
caratteristiche intrinseche del bene stesso. Non si può porre un problema di indennizzo se il vincolo, previsto in base a
legge, abbia riguardo ai modi di godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando la legge
stessa regoli la relazione che i beni abbiano rispetto ad altri beni o interessi pubblici preminenti».
71
Così M.A. QUAGLIA, Pianificazione urbanistica e perequazione cit., p. 93, il quale sul punto rinvia a G.
MORBIDELLI, Legge «Galasso», Legge «Galasso»: durata e forma d’imposizione dei vincoli di inedificabilità nei piani
urbanistico-paesistici, in Riv. giur. urb., 1986, pp. 325 ss.; e E. PICOZZA, Il piano regolatore generale urbanistico, Cedam, Padova, 1983, p. 67.
72
Così M.A. QUAGLIA, op. ult. cit., p. 96.
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zione, processo che termina con l’adozione del Piano di attuazione. Così che, in caso di inerzia della
competente amministrazione, si configurerà in capo agli interessati un generico interesse pretensivo (azionabile nei modi di legge) all’adozione in parola.
In conclusione, sembra potersi affermare che la pianificazione perequata riesca ad evitare gli inconvenienti connessi alla ‘limitazione’, oltre la soglia del cd. ‘contenuto minimo’, di diritti e/o facoltà
proprietari, e che la ‘tecnica’ a tal fine utilizzata – consistente nel compensare il proprietario mediante la
‘concessione’ di diritti edificatori da esercitare in altro luogo del medesimo comparto – sembra pienamente conforme con lo statuto costituzionale della proprietà privata funzionalizzata.
Appare, infatti, pacifico che nell’attività di conformazione dello ius aedificandi nulla impedisce
all’amministrazione di «imporre ai proprietari di tali diritti di concentrare la realizzazione dei fabbricati
solo su alcuni suoli, lasciando liberi gli altri, anche quando si tratti di edifici realizzati su suoli sulla
scorta di diritti generati da altri suoli»73.
Ed inoltre, se – come ha sentenziato la Corte costituzionale – la funzione sociale della proprietà
«deve essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione all’art. 2 Cost., che richiede a tutti
i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale»74, la pianificazione
perequata sembra rappresentare l’istituto maggiormente in grado, a dir così, di ‘massimizzare’ la coniugazione delle istanze solidaristiche connesse alla funzione sociale della proprietà, con il minor sacrificio
dei diritti dominicali.
Tuttavia, il nodo che la perequazione urbanistica deve ancora sciogliere riguarda la non indifferenza (per il proprietario) del poter (ma, più correttamente, del dover) edificare in un luogo diverso da
quello che ha originato il diritto di costruire. È sin troppo evidente, infatti, che «ogni parte della città
presenta una maggiore o minore appetibilità, con la conseguenza che ogni edificio conserva un diverso
pregio e un differente valore di mercato a seconda della sua collocazione nell’ambito del tessuto urbano»75.
Ciò può far sì che il privato proprietario (avuto riguardo al luogo offertogli per esercitare
l’originario diritto di edificare) ritenga non adeguatamente compensata la ‘perdita’ subita, e conseguentemente, rifiutando ogni accordo con l’amministrazione, costringa quest’ultima a ricorrere allo strumento espropriativo: ciò che è proprio quel che il sistema di pianificazione perequativa mirerebbe ad evitare.
7. Considerazioni finali
Non studiavo questo tema dagli anni delle mie prime esperienze di ricerca, anni giovanili dei
quali avverto una struggente nostalgia.
Sono molto contento della preziosa occasione che il Consiglio notarile di Santa Maria Capua
Vetere mi ha offerto, al quale perciò sono grato, perché l’avermi invitato a tenere questa relazione, da
un lato, mi ha ‘costretto’ a rileggere saggi e monografie che giacevano da qualche lustro negli angoli più
remoti e polverosi della biblioteca, ciò che mi ha proprio ‘riscaldato il cuore’; e, dall’altro, essendo stato
188.
73
Così S. PERONGINI, Profili giuridici della pianificazione urbanistica perequativa, Giuffrè, Milano, 2005, p.
74
Corte cost., sent. n. 348/2007, in www.giurcost.org.
Così S. PERONGINI, Profili giuridici della pianificazione urbanistica perequativa cit., p. 194.
75
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indispensabile aggiornare quegli studi, mi ha permesso di confermarmi nell’idea, maturata sin da allora,
che questo tema si presenta, ad un tempo, di estrema difficoltà e complessità, e, se posso dirlo, resistente
ad ogni tentativo d’essere domato. Pur essendo da allora mutate tante discipline normative, se oggi mi si
chiedesse di descrivere le mie impressioni sul tema, credo proprio che direi che non è cambiato quasi
niente: come un cavallo selvaggio il quale, al momento che credi d’averlo ammansito, ti disarciona.
Mi sono misurato in questo ‘rodeo’ – ve lo assicuro – consapevole che ne sarei uscito con tante
cadute e forse pure le ossa rotte. La speranza, intimamente coltivata, era almeno quella di non annoiare
gli ‘spettatori’. Non sono proprio sicuro di esserci riuscito. Se così è stato, me ne scuso molto, ringraziandovi anche per aver avuto la pazienza di ascoltarmi.
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