Dipartimento di Scienze g iuridiche CERADI – Centro di ric erca per il diritt o d’ impresa [Rassegna ragionata in tema di società di persone] [Federica Sisca] [Gennaio 2009] © Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annu lla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione Sommario: 1) La soggettività nelle società di persone; 2) La forma del contratto sociale; 3) Il rapporto di amministrazione nelle società di persone 3.1) amministratore estraneo, 3.2) diritto di opposizione - formazione della volontà sociale, 3.3) l’azione sociale di responsabilità degli amministratori, 3.4) divieto d’immistione del socio accomandante; 4) La disciplina dei conferimenti il passaggio dei rischi; 5) La responsabilità per le obbligazioni sociale; 6) Scioglimento del rapporto limitatamente ad un socio 6.1) la morte del socio, 6.2) il recesso, 6.3) l’esclusione. 1) La soggettività nelle società di persone. Nonostante la disciplina codicistica attribuisca nulla di più che una mera autonomia patrimoniale per le società di persone (in diversa misura secondo il tipo sociale), la maggior parte della dottrina e della giu risprudenza riconosce a quest’ultime un profilo di soggettività; conseguendone così un’inevitabile confusione tra i concetti di personalità, soggettività e autonomia patrimoniale. In linea di principio, le questioni che sembrano maggiormente legate al riconoscimento o meno di una personalità sono la possibilità di nominare amministratore un non socio; l’uso del metodo collegiale nella formazione della volontà sociale; la titolarità della qualifica d’imprenditore. Dall’analisi casistica, invece, emerge chiaramente come (indicato l’argomento della nell’autonomia soggettività patrimoniale) è spesso richiamato senza essere in realtà determinante per la soluzione della controversia, sembrando, piuttosto, un espediente di solito accompagnato da altre argomentazioni che si rivelano determinanti. La tesi che riconosce alle società di persone la personalità giuridica è sicuramente la più antica e si lega all’abrogato codice di commercio che, all’art. 77, attribuiva la personalità giuridica a tutte le società commerciali1. Fondamento di tale teoria è l’autonomia patrimoniale intesa come separazione tra patrimonio sociale patrimonio del socio2. particolare, In e 1 Sostiene il VIGHI che affinché si abbia personalità giuridica è necessario e sufficiente che un ente figuri come soggetto attivo o passivo di rapport i patrimoniali. A fondamento della propria tesi l’Autore menziona l’art. 77, ultimo comma, cod. comm., in base al quale le società commerciali costituiscono rispetto ai terzi enti collettivi distinti dalle persone dei soci, << la parola distinto che si legge nell’art. in discorso dice chiaramente che l’ente giuridico non è già la semplice pluralità dei consociat i ma bensì qualche cosa di diverso e di autonomo immanente alla pluralità stessa. La società, pertanto, entra come tale nella vita del traffico, il che val quanto dire che non la pluralità dei soci come soci ma la società, come ente distinto dalla pluralità, costituisce il termine dei rapporti attivi e passivi dipendenti dalle operazioni sociali>> (VIGHI, La personalità giuridica delle società commerciali, Verona - Padova, 1900, pag. 214). 2 Il BONELLI arriva a parificare patrimonio autonomo e personalità giuridica. Secondo l’Autore, infatti, << il concetto di personalità coincide con quello quest’ultimo aspetto ha portato in passato autorevole dottrina a estendere la figura della personalità a tal punto da attribuirla anche alla comunione sull’assunto che una pluralità di persone fisiche o è disgregata o è unificata, ossia riconosciuta dal diritto come collegata per una qualche finalità che sia di particolare rilevanza per l’ordinamento3. Secondo tale pensiero la società (commerciale o civile, di autonomia: autonomia patrimoniale (sostanziale) e autonomia formale. La prima comprende di necessità la seconda; questa può riscontrarsi invece senza quella. Ed io vorrei che solamente a quella si riservasse la qualifica, per il solito postulato scientifico che a idee distinte debbano corrispondere distinte parole>> (BONELLI, Personalità e comunione, in Riv. dir. comm., 1913, I, pag. 744). In riferimento all’art. 77, ultimo comma, del cod. di comm., il BONELLI afferma che la persona giuridica come tale esiste sempre e soltanto rispetto ai terzi, ciò in quanto persona giuridica significa soggetto di diritti e di obbligazioni, ossia di rapporti giuridici, e i rapport i giuridici si hanno sempre con i terzi. <<Anche la persona fisica, in quanto è giuridica, cioè in quanto è subbietto di rapporti giuridici, non esiste che di fronte ai terzi. Ma che significa la parola terzo? Terzo vuol dire molte cose (…) ma adoperato in rapporto a una persona giuridica, significa chiunque entra o può ent rare in rapporti di diritto patrimoniale colla persona. Dunque anche i soci quando entrano in rapporto giuridico colla società e non soltanto quando il rapporto giuridico è estraneo al contratto sociale, ma anche quando ne dipende, poiché anche allora essi si trovano dinanzi l’ente distinto che non si confonde punto colla somma degli altri soci>>, (BONELLI, I concetti di comunione e di personalità nella teorica delle società commerciali, in Riv. dir. comm., 1903, I, pag. 290). 3 Secondo il CARNELUTTI, infatti, non sono possibili vie di mezzo, <<né vi può essere riconoscimento del gruppo senza personificazione>> (Personalità giuridica e autonomia patrimoniale nella società e nella comunione, in Riv. dir. comm., 1903, I, pag. 87). regolare o irregolare) è una comunione e non possono esistere due tipi di comunione (personificata e non personificata), dal momento che il diritto sulle cose comuni o si attribuisce ai singoli o si attribuisce al gruppo, non potendo spettare sia agli uni che all’altro allo stesso tempo4. 4 CARNELUTTI, op. cit., pag. 100. Per l’Autore è pacifico che se la proprietà non spetta ai singoli partecipant i alla comunione, necessariamente spetta al gruppo; se il gruppo ha la proprietà allora è persona giuridica, <<constatato che il gruppo è soggetto di un diritto in ant itesi ai singoli, il gruppo è una persona; e poiché non è una persona fisica, deve essere una persona giuridica >> (CARNELUTTI, op. cit., pag. 106). L’Autore non si ferma qui ma, in forte contrasto col pensiero del BONELLI, adotta un’idea di autonomia patrimoniale molto più ristretta, ossia come semplice diritto di preferenza dei creditori sociali. Il CARNELUTTI, infatti, afferma che a voler introdurre come limite al concetto di persona giuridica la perfetta autonomia del patrimonio, intesa (secondo il BONELLI) come insensibilità reciproca e completa dei patrimoni del gruppo e dei soci alle rispettive obbligazioni, si dovrebbe restringere la qualifica di persona alle sole società anonime, escludendo tutte le altre. Ma l’Autore va oltre, ed arriva a sbarazzarsi totalmente dell’autonomia patrimoniale, anche intesa in questo senso più ristretto, in quanto pur non esistendo obbligazioni comuni distinte dalle obbligazioni particolari, rimane il diritto di proprietà sulle cose comuni che rende il gruppo un soggetto di diritto e quindi una persona giuridica. In conclusione, il gruppo è persona perché è proprietario. La dottrina più recente, esaminando il problema alla luce del nuovo codice civile, individua un elenco di argomenti a favore della personalità giuridica nella società semplice5. Primo argomento utilizzato risiede negli artt. 2267, 2268 e 2270 c.c., in tema di autonomia patrimoniale e beneficio di preventiva escussione, in base ai quali è possibile riconoscere due entità patrimoniali distinte. Altro argomento è quello dell’organizzazione della società, l’art. 2257 c.c., infatti, dispone che la maggioranza dei soci decide sull’opposizione ad atti di amministrazione e tale principio maggioritario sarebbe idoneo a imprimere alla società semplice una struttura unitaria. Milita in favore della personalità giuridica, in ultimo, l’art. 2266 c.c., in base al quale la società sta in giudizio nella persona dei soci che ne hanno la rappresentanza. In sostanza, secondo la tesi favorevole l’elemento caratterizzante la persona giuridica è l’autonomia patrimoniale (vista come separazione tra il patrimonio dei soci e quello sociale). Conseguenze pratiche sembrerebbero essere l’ammissibilità di nomina di un amministratore non socio (proprio come accade nelle società di capitali); l’uso del 5 BOLAFFI, La società semplice, Milano, 1975 (ristampa), pag. 302 e seg. metodo collegiale (essenziale per l’imputazione dell’atto alle persone giuridiche); e, in ultimo, la presenza di un’organizzazione imprenditoriale diversa dalla compagine sociale (alla quale si sovrappone) cui attribuire lo status di imprenditore, in altre parole: la società è imprenditore. Argomentazioni differenti da quelle finora indicate si riscontrano, invece, nelle tesi contrarie al riconoscimento della personalità e soggettività alle società personali, alle quali è attribuita una mera autonomia patrimoniale. Secondo tale dottrina, infatti, è per rispondere all’esigenza commerciale di tutela dei creditori sociali, assicurando loro un privilegio nei pagamenti rispetto ai creditori particolari dei soci, che si è inserita nel codice di commercio la disposizione commerciali secondo costituiscono cui enti le società collettivi rispetto ai terzi6. A supporto di tale teoria vi è, 6 <<Rispetto ai terzi, si; ma per ogni altro rispetto, no; esse sono enti giuridici relativi, non assoluti; della personalità giuridica delle società commerciali si discorre diffusamente e anche splendidamente dagli scrittori; ma andate al fondo di tutti i discorsi, voi non troverete mai altro effetto, altro risultato, che il privilegio dei creditori sociali. Credereste voi che una società commerciale sia capace di ricevere per testamento come persona distinta da quelle dei soci? >>, ( PESCATORE, Dottrine giuridiche, II, 1879, pag. 144). L’Autore, confrontando l’art. 2 del cod. civ. con l’art. 107 del cod. comm., definisce le società commerciali come enti giuridici re lativi, <<Gli enti giuridici assoluti rappresentano un interesse perpetuo, e personificano per conseguenza, non che la generazione vivente, tutte le generazioni avvenire di partecipant i futuri, contemplati dalla natura dell’istituto. inoltre, la convinzione che se la personalità giuridica è definita come un soggetto giuridico diverso dalla persona dei soci, allora la società di commercio non può considerarsi tale, in quanto, non essendo diversa dalle persone dei soci, in sé li compenetra e li unifica7. Pertanto, secondo tale ragionamento, l’art. 77 cod. di comm. vale ad esprimere appunto questo aggruppamento mediante unitario l’espressione delle ente pluralità collettivo, che comprende da un lato l’unità operativa (ente) e dall’altro la pluralità sottostante (collettivo). Poiché è carattere essenziale di un simile complesso unitario l’agire di fronte ai terzi Dunque i partecipi o soci ora vivent i non sono proprietari di quell’interesse che è rappresentato dall’ente (…) ondechè le persone dei singoli membri, coi rispettivi loro patrimoni e diritti rimangono affatto distinti dalla persona perpetua, dal patrimonio e dal diritto comunale>>. Le società private sono, al contrario, un contratto durevole un tempo determinato, volto al perseguimento di un interesse particolare e privato dei soci, i quali, <<conferendo beni in comune per formare una massa, non perdono punto, ma trasformano e cambiano il loro diritto di proprietà che continua a risiedere nelle loro singole persone. (…) Dunque il patrimonio sociale è patrimonio dei singoli, i quali rimangono l’unico subbietto del diritto>> , (PESCATORE, op. cit., pag. 142). 7 <<Il diritto oggettivo non fa che riconoscere l’unificazione; ma non distrugge i diritti dei singoli, non li trasmette ad un terzo soggetto: accetta solo che essi siano esercitati in forma unitaria; ed analogamente si dica dei doveri giuridici. È una saldatura che sarà penetrante e ferrea nelle società di capitali; tenue e fragile in quelle di persone. Ma nelle une e nelle altre la pluralità dei soggetti non cessa>>, ( SOPRANO, Le società commerciali, I, 1934, pag. 25). distintamente dai singoli componenti, l’ultimo comma dell’art. 77 va allora considerato semplicemente come un <<utile chiarimento>>8. In una posizione intermedia (e minoritaria) è, invece, quella dottrina che, basandosi sull’inciso rispetto ai terzi dell’art. 77 cod. di comm., ha sostenuto che le società commerciali costituiscono persone giuridiche solo esternamente, mentre, per quanto riguarda i rapporti interni, sono semplici comunioni9. In sintesi, alla base del diniego di una forma di soggettività alle società personali vi è l’idea che il legislatore abbia voluto distinguere le suddette società dalle società di capitali, riconoscendo esclusivamente a quest’ultime una personalità giuridica e individuando nelle 8 SOPRANO, op. cit., pag. 22. 9 ROCCO, Le società commerciali in rapporto al giudizio civile, 1898. <<Personalità giu ridica non vuol dir alt ro se non capacità di avere diritti privati patrimoniali>> , pertanto, non deve, secondo l’Autore, sembrare illogico immaginare una capacità ad avere diritti che non sia assoluta ma in qualche modo limitata, <<con ciò non si distrugge affatto il concetto di personalità: non si fa che restringerne il contenuto>>, (ROCCO, op. cit., pag. 60 e seg.). società di persone null’altro che delle comunioni qualificate10. In base a tali considerazioni ne consegue, pertanto, che nelle società di persone, non esistendo organi, imprenditori sono solo i soci; l’ammissibilità di un amministratore non socio è da valutarsi in base alla compatibilità della disciplina del mandato con la struttura societaria11 , così come l’operatività del metodo collegiale; i soci acquistano la qualità di imprenditori in quanto vi sia l’effettivo 10 GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, pag. 194 e seg. <<L’assenza della personalità giuridica, nella società personale, risulta anche da altre disposizioni: così ad esempio, per l’art. 2256 il socio non può servirsi, senza il consenso degli alt ri soci, delle cose appartenent i al patrimonio sociale per fini estranei a quelli della società; per l’art. 2271 non è ammessa compensazione fra un debito che n terzo ha verso la società e il credito che egli ha verso un socio. Tali disposizioni sarebbero del tutto superflue ove la società personale costituisse un soggetto diverso dai soci>>; secondo le riflessioni dell’Autore, quando la società è persona giuridica (società di capitali) i beni costituenti il patrimonio sociale appartengono al soggetto persona giu ridica, diverso e distinto dai soci. Quando, invece, la società non è persona giuridica (società di persone), i beni costituenti il patrimonio sociale sono posti sotto la con titolarità dei soci; <<non viene dunque a recidersi (come invece accade quando il conferimento è fatto a favore di società con personalità giuridica) il rapporto o vincolo (di titolarità) che, prima del conferimento, sussisteva tra il socio conferente ed il bene da esso conferito; tale relazione originaria permane, ma anziché essere piena ed esclusiva, subisce una riduzione di misura>> ( GHIDINI, op. cit., pag. 198). 11 Compatibilità da escludere secondo GALGANO, Le società in genere. Le società di persone, Milano, 2007, pag. 239 e seg. esercizio dell’impresa (compimento di qualsiasi atto in nome della società) mentre, se la società fosse persona giuridica acquisterebbe lei stessa la qualifica di imprenditore con la sola registrazione. Sono queste, in linea di principio, le differenze principali, che, nonostante le diverse argomentazioni utilizzate, vanno poi ad assomigliarsi nelle conclusioni in merito, ad esempio, al riconoscimento della capacità della società e ad alcuni profili processuali12. Non è facile delineare l’orientamento giurisprudenziale sul punto. Non particolarmente interessanti appaiono, ad esempio, le pronunce risolte con il riconoscimento della soggettività alle società personali in tema di locazione13, altre ancora 12 GHIDINI, op. cit. pag. 235 e seg., pur attribuendo alle società di persone la sola autonomia pat rimoniale riconosce che <<essendo la società espressione sintetica del complesso formato dai singoli soci, svolgent i assieme un’attività economico-produttiva, la capacità della società è quella stessa che va riconosciuta ai soci persone fisiche. (…) Pertanto la società personale può acquistare beni in proprietà, diritti reali (…) Può stare in giudizio, come attrice o convenuta, e intervenire in causa, in persona dei suoi rappresentanti (…)>>. 13 Cfr. Cass. 06-02-1984, n. 907; il locatore di u n immobile chiede la risoluzione del contratto per grave inadempienza della s. n. c. conduttrice in quanto, scioltasi la società per mancata ricostituzione della pluralità dei soci ent ro i sei mesi dal verificarsi dell’evento, il socio superstite aveva proseguito (in proprio) la stessa attività nei locali affittati. L’attore basava la sua pretesa sul mutamento soggettivo nell’originario rapporto di locazione. La Corte rigetta il ricorso affermando che le società di persone non hanno personalità giu ridica; pertanto, centro unitario soggettivo di riferimento delle posizioni giuridiche soggettive attive e passive costituenti il patrimonio sociale sono i soci nel loro complesso, così che la titolarità è unitaria ed inscindibile. Nel caso di specie, venuta meno la pluralità dei soci, la titolarità del pat rimonio si concent ra nel socio superstite; la Corte conclude il proprio ragionamento osservando, inoltre, che un modo particolare di liquidazione si ha quando l’unico socio decida di continuare l’esercizio attribuendosi i beni costituenti il patrimonio sociale. Quindi: non vi è stata modificazione soggettiva del rapporto di locazione perché il conduttore convenuto era sempre stato titolare del contratto. A prima vista, l’affermazione di principio della Corte sembra inopportuna, in quanto il cont ratto d’affitto avrebbe comunque seguito l’azienda poiché è con quest’ultima che la locazione è stata assunta. Infatti, se anche la società avesse trasferito l’azienda vi sarebbe stato un mutamento del soggetto ma il contratto non si sarebbe sciolto. Nel caso di specie, l’argomento della soggettività potrebbe essere rilevante solo ipot izzando la presenza nel contratto di locazione di una clausola di recesso nell’ipotesi di trasferimento d’azienda. Risolve in fatto Cass., sez. III, 13-04-2007, n. 8853; la causa viene introdotta dalla s.p.a. locatrice dell’immobile (di cui è proprietaria), quest’ultima lamenta che i giudici di merito abbiano riconosciuto come parte conduttrice del rapporto locativo l’associazione professionale, nonostante il cont ratto fosse stato intestato in via successiva a due diversi professionisti senza che questi spendessero mai il nome dello studio associato per conto del quale stipulavano, con la conseguenza che il contratto andava riferito alle singole persone e non all’ente collettivo. La Corte, confermando in tal senso la sentenza d’appello, ritiene da un lato che lo studio professionale associato, seppure privo di personalità giu ridica, rientra nell’ambito di quei <<fenomeni di aggregazione di interessi (quali le società personali)>> cui la legge attribuisce la capacità di porsi come autonomi centri di imputazione di rapport i giuridici; in base a tale principio, l’avvicendamento di persone diverse (quali rappresentanti dell’associazione professionale) non comporta la sostituzione di soggett i diversi nella titolarità dei rapporti facent i capo alla’associazione stessa. Dall’altro, rit iene che l’esternazione del potere rappresentativo può avvenire anche senza espressa dichiarazione di spendita del nome del rappresentato, purché vi sia un comportamento del avrebbero trovato la medesima soluzione indipendentemente dal riconoscimento della soggettività14. Numerose sono, poi, le sentenze in tema di liquidazione del socio uscente, che hanno solitamente risolto la questione esclusivamente col riconoscimento di una soggettività alle società di persone ma che, in realtà, avrebbero avuto uguale soluzione mandatario tale da portare a conoscenza dell’altra parte la circostanza che sta agendo per altro soggetto. 14 Cfr. Trib. Firenze, 13-03-2002; in tale sentenza, ponendosi in contrasto con un indirizzo della giurisprudenza di merito, si ritiene che la fideiussione rilasciata da un socio in favore della s.n.c. sia un valido contratto atipico di garanzia per la meritevolezza degli interessi coinvolti. La giu risprudenza è solitamente orientata a considerare nu lla simile fideiussione per mancanza di causa, perché inidonea a rafforzare le garanzie del creditore, in quanto non vi sarebbe l’ ampliamento, per il creditore, del potere di aggressione verso un patrimonio di altro soggetto diverso dal debitore principale. L’argomentazione del Tribunale di Firenze è stato recentemente ripreso in Cass., sez. I, 1212-2007, n. 26012; secondo la quale fermo restando che alla società di persone, in quanto titolare di un patrimonio autonomo, deve essere riconosciuta una soggettività, ne consegue che la fideiussione prestata dal socio a favore della società rient ra tra le garanzie per debito alt rui. Inolt re, lo stesso creditore potrebbe avere comunque l’interesse ad una forma di garanzia aggiunt iva che, ad esempio, gli permetta di evitare la preventiva azione esecutiva nei confronti della società (ex art. 2304 c.c.). In sostanza, è possibile affermare che il cont ratto di fideiussione è una clausola che rende il socio solidalmente responsabile verso un determinato creditore senza l’operabilità della preventiva escussione; in quest’ordine di idee, quindi, è sicurament e valida la fideiussione che dovesse rilasciare il socio accomandante di s.a.s. Pertanto, il criterio della soggettività ancora una volta non è determinante. ritenendo tali società dotate di mera autonomia15; una rilevanza, seppure non 15 Cfr. Cass., Sezioni unite, 26-04-2000, n. 291. La controversia fu promossa dall’erede del socio deceduto nei confronti della società (non ne viene specificato il titolo) e tra le stesse parti fu proseguita in fase di impugnazione; la questione posta alla Corte riguardava il difetto di costituzione del cont raddittorio o l’eventuale incompletezza di questo, a causa della mancata citazione in giudizio degli altri soci. La Cassazione, dopo aver premesso che anche la società di persone è un autonomo soggetto dell’ordinamento, in quanto è titolare dei beni sociali ed ha capacità sostanziale e processuale nei rapporti esterni che coinvolgono i beni stessi (ex artt. 2266-67 c.c.), ha qualificato la posizione degli eredi (o in generale del socio uscent e dalla società) come posizione creditoria nei confront i della società stessa, come fosse un qualsiasi altro terzo estraneo. Tale ragionamento della Corte lascia presumere che i soci di una società di persone abbiano costituito un patrimonio separato rispetto a quello personale, direttamente aggredibile per la soddisfazione di obbligazioni cont ratte nell’esplicazione dell’attività d’impresa; ne consegue automaticamente che si è costituito un soggetto diverso dai soci, in cui l’autonomia patrimoniale costituisce surrogato della personalità giuridica. In realtà, l’argomento determinante nel riconoscere la società come debitrice non è la soggettività ma il vincolo contratto con la società. Sarebbe sufficiente richiamare le regole della comunione per arrivare allo stesso risultato, se, infatti, il debito al socio receduto (escluso o deceduto) fosse a carico dei soci rimanenti, questi verrebbero obbligati a un nuovo conferimento pari alla quota liquidata, che resterebbe, quindi, vincolata alla società. Poiché non è possibile costringere i soci a un conferimento coatto, ci si dovrà necessariamente rivolgere alla società. In sintesi, è la stessa soluzione che si avrebbe nell’ipotesi di scioglimento parziale della comunione. È bene sottolineare, ancora, come la questione sulla natura (sociale o a carico dei singoli soci) del debito di liquidazione del socio uscente ha effetti esclusivamente processuali. Nel caso di obbligazione sociale, infatti, la legittimazione passiva spetta solo alla società; nell’ipotesi inversa, invece, i singoli soci sono debit ori e pertanto il contraddittorio deve essere instaurato nei confronti di tutti e il pagamento può essere chiesto ad ognuno senza l’operabilità del beneficio di prevent iva escussione. Spesso la giurisprudenza, prescindendo dalla questione sul riconoscimento o meno di soggettività, si è decisiva, si riconosce infine a quelle sentenze che hanno affrontato la questione della capacità processuale (si presenta, infatti, spesso il dubbio su a chi spetti la legittimazione processuale; la giurisprudenza è ancora contraddittoria sul punto)16. pronunciata sull’aspetto della regolarità del contraddittorio, senza però dare soluzioni univoche. Su tali aspetti si rinvia a CASADEI, Le società di persone, Milano, 1997, pag. 196 e seg. 16 Cfr. Cass., sez. I, 23-05-2006, n. 12125 (Il fatto: due fratelli, in qualità di eredi, citano in giudizio, per la liquidazione della quota del defunto genitore, direttamente gli altri soci e non anche la società), in cu i si legge che la mera evocazione in giudizio di tutti i soci non equivale ad intimazione della società in mancanza di una corrispondente intenzione dell’attore, desumibile dall’interpretazione della domanda giudiziale; in senso contrario si veda Cass., sez. I, 05-04-2006, n. 7886 (la Corte ritiene che la società non è passivamente legittimata nel giudizio avente ad oggetto l’impugnazione di un contratto preliminare di cessione della quota sociale) , in cui si afferma, seppu re in obiter dictum, che la citazione di tutti i soci equivale alla (o realizza la) citazione della società. Secondo quest’ultimo indirizzo, ne consegue che si passa da un processo a due parti (attore/società) a uno litisconsortile (attore/soci); solo che, a ben riflettere, nessuno dei soci rappresenta la società costituendosi per la società ed in suo nome. Cfr. anche a Trib. Milano, 16-04-1992, (in tema di legittimazione all’ azione di responsabilità degli amministratori) uno dei t re soci di una s.n.c. propose domanda giudiziale per far valere la responsabilità del socio amministratore unico, accusandolo di aver commesso gravi irregolarità nella gestione sociale causando un grave danno sia nei confronti dei soci che della società. Il giudice del merito chiariva innanzitutto che anche alle società di persone debba essere Le decisioni più interessanti che sono state individuate (in quanto attinenti a questioni in cui possono meglio cogliersi le differenze tra le varie impostazioni esaminate), nominare teoriche riguardano la un amministratore all’inizio possibilità di non socio; riconosciuta una soggettività giu ridica, costituendo un centro d’imputazione d’interessi autonomo e distinto dai singoli soci che ne fanno parte; conseguentemente la legittimazione a esperire l’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori spetta alla società stessa e non al singolo socio. La sentenza termina con la possibilità, in linea di principio, per il singolo socio di proporre un’azione individuale di responsabilità contro l’amministratore, solo se diretta alla tutela di un suo personale interesse (riconducendola all’azione generale prevista per il risarcimento da fatto illecito ex art. 2043 c.c.). Importante principio è stato sancito recent emente dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 14815 del 2008, dove viene affermato che nel caso di accertamento a una società di persone si apre la strada al giudizio collettivo anche se il ricorso è stato presentato da uno solo dei soggetti coinvolti. Secondo tale sentenza, infatti, l’art. 40 del Dpr 600/1973 in materia di accertamento unitario comporta che il ricorso presentato da uno solo dei soci o dalla società riguarda in realtà inscindibilmente entrambi, pertanto, tutti devono prendere parte allo stesso processo. Conseguentemente, il giudizio svolto senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari è nullo in violazione del principio del contraddittorio ex art. 101 c.p.c. e 111, 2° comma, della Costituzione. l’operatività del metodo collegiale e la titolarità della qualità di imprenditore. La questione in merito alla possibilità o meno di nominare amministratore un non socio ha infatti una sua rilevanza per negare la personalità e soggettività alle società di persone 17 (come già anticipato all’inizio); stesso discorso vale per l’operatività del metodo collegiale, legata alla constatazione che l’assenza di personalità giuridica nelle società personali escluderebbe la costituzione di un organo assembleare per la raccolta della volontà dei soci18; con riguardo agli effetti 17 A tal riguardo, la giurisprudenza sembra orientata nel senso di un’inscindibilità della qualità di socio da quella di amministratore, in base alla considerazione che nelle società personali l’intuitus personae caratterizza l’int era organizzazione ed il funzionamento del tipo societario, ma, soprattutto, in virtù del principio che nel sistema delle società personali il potere di amministrazione è legato alla responsabilità illimitata. Cfr. Trib. Foggia, 29-02-2000; Trib. Cagliari, 11-11-2005; Trib. Biella, 23-10-1999. In realtà, la questione potrebbe impostarsi in modo diverso. Più che sul collegamento tra potere dispositivo e responsabilità illimitata, ci si dovrebbe interrogare sulla natura del rapporto che si instaurerebbe tra i soci e il terzo amministratore. Se fosse persona giuridica sarebbe un rapporto organico; nel caso di società personale, invece, si avrebbe una sorta di prestazione di servizio (di amministrazione) che è reso ai soci collettivamente intesi, non alla società come ente distinto. 18 Cfr. Cass., sez. I, 7-06-2002, n. 8276; (in cui la Corte è orientata ad ammettere l’adozione del metodo collegiale anche nelle società personali, ritenendo applicabili le norme dettate in materia di società per azioni). della soggettività rispetto all’attribuzione della qualità di imprenditore, l’analisi casistica non porta a conclusioni univoche. I casi in cui la titolarità è attribuita alla società riguardano solitamente la dichiarazione di fallimento19. In conclusione, dall’analisi casistica svolta, ne deriva che l’argomento della soggettività è spesso richiamato determinante per senza la poi soluzione essere della controversia, per la quale si rivelano, invece, determinanti altre argomentazioni. Sembra, quindi, doversi affermare che la personalità è riconosciuta dalla giurisprudenza solo alle società commerciali, ma solo in determinate circostanze. Rispetto a queste, infatti, la soggettività si manifesta solo quando è la legge stabilirlo (es. fallimento20), pertanto, spetta all’interprete, di volta in volta, verificare se il caso concreto sia o meno da ricomprendere nell’ambito della soggettività. 19 Cfr. Trib. Roma, 01-11-2006; Trib. Torino, 19- 03-1990. 20 Nelle dichiarazioni di fallimento la titolarit à dell’attività economica commerciale è attribuita alla società, cfr. Trib. Torino, 22-02-1974, in cui si afferma che le società aventi ad oggetto attività commerciale sono sempre soggette al fallimento, anche se in fatto hanno svolto attività non commerciale, <<la Corte individua, infatti, nel momento della costituzione di una società con oggetto commerciale la nascita di un imprenditore commerciale, con la conseguenza che le società aventi tale oggetto sono assoggettabili al 2) La forma del contratto sociale nella società semplice. L’art. 2251 c.c., dettato in materia di società semplice (ma applicabile anche alla società in nome collettivo in virtù del rinvio operato dall’art. 2293 c.c.), stabilisce che il relativo atto costitutivo <<non è soggetto a forme speciali>> , può pertanto concludersi anche oralmente o per facta concludentia. Tale libertà viene meno nell’ipotesi in cui si conferisca in società un bene il cu i trasferimento richieda una forma speciale ex art. 1350, n. 1 e 9, c.c. Le possibili conseguenze sono due: 1) la forma speciale (nella specie quella scritta) richiesta dalla natura dei beni da conferire reagisce sull’intero contratto di società; 2) la forma è richiesta per il solo conferimento. Nel primo caso, la mancata osservanza della forma scritta determina la nullità del contratto sociale, mentre nel secondo caso, ritenendo che la forma sia richiesta per il solo conferimento, rimane valido e vincolante il contratto di società. La questione ha una sua rilevanza pratica nella sorte dell’immobile conferito oralmente o di fatto in società e, quindi, nella posizione dei creditori particolari del socio conferente rispetto a quelli sociali in base alla possibilità di aggressione sull’immobile conferito. La giurisprudenza adotta una posizione ambigua ritenendo che la forma speciale richiesta per la natura dei beni conferit i sia anche forma dell’intero contratto di società solo se tali beni sono essenziali allo svolgimento dell’attività sociale. Pertanto, a prescindere dalla scelta di principio (il difetto di forma comporta la nullità fallimento indipendent emente dal compimento, in concreto, di operazioni commerciali>>. dell’intero cont ratto sociale, ovvero comporta la nullità del singolo conferimento che solo se essenziale travolge l’intero cont ratto sociale), il risultato è il medesimo. Minoritaria in dottrina è la tesi secondo la quale la forma richiesta per la natura dei beni conferiti è essenziale per la validità dell’intero contratto sociale. In generale, la dottrina in esame reputa decisivo il dato letterale dell’art. 1350, n.1 e 9, c.c. Com’è noto, quest’ultima disposizione esige la forma scritta non per il singolo atto traslativo, bensì per <<i contratti che trasferiscono la proprietà di beni immobili>> (art. 1350 n. 1), nonché per <<i contratti con i quali si conferisce il godimento di beni immobili o di altri diritti reali immobiliari per un tempo eccedente i nove anni o a tempo indeterminato>> (art. 1350 n. 9). Pertanto, a voler seguire la dottrina contraria, ci si troverebbe per coerenza costretti ad applicare la distinzione tra atto traslativo e contratto non solo nel diritto societario ma a tutti i contratti cui l’art. 1350 c.c. fa espresso riferimento. Ci si troverebbe, ad esempio, nell’assurda situazione di considerare valida una compravendita in cui sia stato stipulato per iscritto il solo consenso al trasferimento, mentre il prezzo è stato pattuito oralmente21. È facile intuire l’assurdità di tale posizione, soprattutto se si fa riferimento a quella dottrina e giurisprudenza 22 in cui si legge che quando la legge prescrive oneri formali riguardano questi l’intero necessariamente contratto (la causa, l’oggetto ecc.) e non la sola pattuizione da cui consegue l’effetto traslativo23. 21 Cfr. MAGRI’, Conferimento immobiliare in società di fatto, principio di conservazione e conversione del contratto nullo, in Riv. dir. comm., 1999, pag 590 e seg. 22 In Cass. 21-06-1965, n. 1299. Nel caso di specie, due persone avevano ceduto con scrittura privata un apprezzamento di terreno fabbricativo ad un terzo soggetto, a titolo di provvigione per la mediazione da lui svolta. Non avendo in seguito effettivamente trasferito l’immobile, che anzi venne venduto ad altri, l’attore si rivolse al Tribunale perché fosse dichiarato l’obbligo dei convenuti a t radurre in atto pubblico il contenuto della scrittura privata, o, in mancanza, che la sentenza emanata fosse titolo idoneo al t rasferimento della proprietà in suo favore. Sia in primo che in secondo grado si dichiarò la suddetta scrittura privata pienamente efficace ai fini del t rasferimento della proprietà dell’immobile. In Cassazione i ricorrenti sottolineavano che la pattuizione contenuta nella scrittura privata non poteva costituire valido contratto in quanto non risultava la causa del contratto stesso, che non poteva certamente desumersi da elementi estranei all’atto scritto (come invece aveva fatto il tribunale di primo grado dando rilievo ad un interrogatorio non formale delle parti). La Corte accoglie il ricorso e dichiara <<nulla la convenzione con la quale si cede in proprietà un bene immobile senza che ne risulti la causa dall’atto scritto, necessario per la validità del trasferimento>>. 23 Cfr. BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 2000, p. 287; <<In quanto il contratto è un accordo, devono risultare per iscritto le manifestazioni di volontà attraverso le quali l’accordo si perfeziona>>. In senso contrario GIORGIANNI, in Enc. Dir., XVIII, Milano, 1968, p. 1005; secondo il quale, in riferimento all’art . In conclusione, secondo tale dottrina, non è concepibile che una società semplice sia costituita oralmente nel caso di conferimento immobiliare (in proprietà o godimento ultranovennale)24; pertanto, essendo la forma richiesta per l’intero contratto sociale, la sua inosservanza comporta la nullità della società. È, tuttavia, prevalente la tesi secondo cui la forma scritta non è richiesta per l’intero 1350 c.c., l’atto scritto non deve necessariamente indicare la causa del trasferimento <<si pensi che anche allorché le parti fanno riferimento ad un cont ratto tipico, la causa può essere diversa da quella apparente, eppure tale circostanza non è stata considerata in contrasto col precetto di forma. Dal che dovrebbe trarsi la conseguenza che – per l’art. 1350 n. 1 – il contenuto minimo dell’atto, ai fini del rispetto del precetto di forma, è costituito esclusivamente dal trasferimento della proprietà>>. 24 Interessante è anche l’argomentazione elaborat a dal ROMANO-PAVONI. Quest’ultimo, infatti, osserva che <<il senso dell’art. 2251 è che il cont ratto non è soggetto, di regola a forme, ma vi è soggetto (quindi, è soggetto il cont ratto per intero), quando una data forma sia richiesta dalla natura dei beni conferiti: cioè si ha una statuizione eventuale (solo per dati casi) di forma, precisata per relationem a quella della legge richiesta per il trasferimento, in generale, dei beni conferiti>> (Teoria delle società. Tipi – Costituzione, Milano, 1953, p. 415); ed aggiunge poi che l’art. 1350, n. 9, prevedendo l’obbligo della forma scritta a pena di nullità per << i contratti di società (…) con i quali si conferisce il godimento di beni immobili (…)>> pone chiaramente la necessità della forma scritta per l’intero contratto. L’Autore considera, inoltre, come l’art. 2251 c.c., facendo salve le forme stabilite per la natura dei beni conferiti, non distingue tra forme ad substantiam e ad probationem, conseguentemente ritiene che il negozio costitutivo di società in cui venga conferita, ad esempio, un’azienda di impresa soggetta a registrazione vada redatto per iscritto ad probationem ex art. 2256 c.c. contratto di società ma solo per l’atto di conferimento, introducendo in tal modo una distinzione tra la forma del contratto sociale e la forma dell’atto di conferimento in esso contenuto. In base a tale dottrina, non è argomento decisivo per la questione il testo letterale dell’art. 1350, n. 1-9, c.c.; potendosi obiettare che, analogamente a quanto accade nell’ipotesi di cessione d’azienda in cui lo scritto ad substantiam è previsto solo per i singoli beni cui esso occorre ai fini del trasferimento (ex art. 2556 c.c.), il contratto con cui si conferisce non deve essere necessariamente ed inscindibilmente congiunto con le restanti pattuizioni sociali. In conseguenza a quanto detto, se per un conferimento manca la forma scritta ad substantiam, l’invalidità non incide sull’intero contratto ma determinerà una nullità parziale che colpisce il vincolo di uno dei contraenti, <<mentre il contratto sarà invalido nel suo complesso solo se la partecipazione di questi potesse ritenersi essenziale>>25. 25 Cfr. COTTINO, Considerazioni sulla forma del contratto di società, in Riv. soc., 1963, p. 287. Della stessa idea è il GHIDINI, secondo il quale la formulazione dell’art. 2251 c.c. è chiara nel riferire la forma scritta solo al bene conferito <<e quindi al fine di realizzare la validità del conferimento specifico di quel bene; ma lascia impregiudicata la questione sulla validità ed efficacia degli altri conferimenti ancorché non sussista la forma scritta di impegno ad effettuarli, lascia cioè impregiudicata la questione sulla validità e efficacia del Conseguentemente, in applicazione del principio di conservazione, conferimento nullo fosse qualora essenziale il per l’attività sociale, la nullità inevitabilmente travolge l’intero contratto sociale. Ben argomentata, infine, è la tesi che si basa sull’applicazione analogica dell’art. 1574, n. 1, c.c., in tema di locazioni stipulate a tempo indeterminato26. Secondo tale disciplina, se le parti non hanno indicato la durata della locazione avente ad oggetto locali per l’esercizio di una professione, di un’industria o di un commercio, questa s’intende convenuta contratto sociale, tra gli altri soci, i quali abbiano conferito beni di natura diversa (non immobili), per il conferimento dei quali non si richiede l’atto scritto, ai fini della validità e efficacia dell’obbligo del conferimento stesso>>, (Società personali, Padova, 1972, p. 87-88 e nota n. 89). L’Autore riconosce, tuttavia, la necessità di forma scritta nelle ipotesi in cu i i soci, già comproprietari di un bene immobile, intendono iniziare un’attività economica utilizzando l’immobile stesso e pertanto conferiscono le quote immobiliari (unite nel vincolo della comunione) nella società di persone da loro stessi formata. L’esigenza della forma scritta è dovuta, però, non a causa del trasferimento di proprietà (ex art. 1350, n. 1 e 9 c.c.), in quanto le società di persone sono prive di personalità giuridica, bensì in quanto alla comunione di godimento si sostituisce un diverso rapporto, quello sociale, cu i consegue l’applicazione di un diverso regime giuridico. Pertanto, il requisito formale è dovuto all’applicazione dell’art. 1350, n. 3 e 5, c.c., essendo un atto di rinuncia alla comunione (la legge, infatti, disciplina in modo nettamente diverso la comunione dalla società, ex art. 2248 c.c.). 26 Cfr. D. DI SABATO, Sui conferimenti immobiliari in società di fatto, in Giur. comm., 1990, II, p. 241 e seg. per un anno. Tale soluzione prende le mosse dalla considerazione che la nullità della società (per mancanza di forma scritta) va in esclusivo danno dei creditori sociali, favorendo al contrario i creditori personali dei soci nonché il singolo socio che in tal modo può agevolmente sottrarsi alle obbligazioni sociali. Il discorso si giustifica alla luce del riconoscimento della medesima ratio posta alla base delle due discipline, c’è infatti ragione per non <<Non applicare il termine di un anno al conferimento in godimento di un fondo di per sé non produttivo, ma che diviene tale proprio per volontà delle parti ed è, dunque, bene strumentale in quanto utilizzato ad esempio per la collocazione industriali>>27. Secondo di capannoni il medesimo orientamento, escludere che vi sia società quando si utilizza un bene immobile conferito oralmente, pur essendovi più persone che effettivamente svolgono un’attività produttiva e vi sia una necessariamente differenze tra ad affectio societatis, porta una revisione delle società e comunione. Ricorrerebbe, infatti, quest’ultima ogni qual volta non sia stato rispettato il requisito della 27 Cfr. D. DI SABATO, op. cit., p. 242. forma scritta per i conferimenti immobiliari, pur in presenza degli elementi suddetti28. La giurisprudenza, che ha affrontato il problema soprattutto in tema di società di fatto, è ormai consolidata nel ritenere nullo il contratto sociale per mancanza di forma scritta qualora il conferimento immobiliare sia essenziale all’attività. In merito, poi, alla questione sull’ applicazione del principio di conservazione del contratto (ex art. 1367 28 L’applicazione analogica della disciplina della locazione ha suscitato la critica da parte di alcuna dottrina, secondo cu i applicando l’art. 1574, n. 1, c.c. <<la durata dovrebbe così int endersi convenuta nei limiti di un anno non solo nell’ipotesi di costituzione di società di persone per fatti concludenti con conferimento tacito (e per ciò solo a tempo indeterminato) del godimento di immobili, ma anche nel caso in cui l’attribuzione dello stesso sia pattuito senza limiti di tempo per dichiarazione espressa delle parti, come accade in materia di locazione. È evidente come un simile impiego dello strumento analogico condu ca all’inaccettabile espunzione dal sistema della figura del conferimento in godimento a tempo indeterminato, pervenendo ad un risultato contrastante con la presenza nell’ordinamento dell’art. 1350, n. 9, che nel regolare la forma del contratto di società lascia trasparire l’ammissibilità di un’attribuzione del bene senza limiti di tempo>> (Cfr. MAGRI’, op. cit., p. 593). c.c.)29, la giurisprudenza di legittimità tende ad escluderne l’operatività. La gran parte delle pronunce esaminate hanno riconosciuto la nullità della società per difetto di forma del conferimento ritenuto essenziale30 e, con riferimento agli effetti 29 In applicazione del quale nel caso di conferimento in godimento di un immobile senza indicazione del termine, deve ritenersi che il cont ratto verbale costitutivo di società è validamente stipulato nel limite temporale di nove anni (ex art. 1350, n. 9, c.c.). 30 In Cass. 04-07-1987, n. 5862, la Corte afferm a che <<il contratto costitutivo di una società di fatto con conferimento di un immobile senza l’osservanza della forma scritta è nu llo se il detto conferimento è per sua natura essenziale al raggiungimento dello scopo sociale. Non può infatti ritenersi, in applicazione del principio di conservazione del cont ratto, che tale conferimento possa essere interpretato come conferimento del godimento dell’immobile di durata novennale>>. In breve il fatto: il proprietario di un terreno ne vende una parte e costruisce, insieme all’acquirente, un edificio (insistente sui due fondi) che viene arredato da entrambi ai fini della gestione di un night club. Ricorrendo in giudizio, l’alienante sosteneva che la vendita era simulata allo scopo di costituire t ra i due una società di fatto per la gestione del night club e, a seguito dell’accertamento di tale simulazione, chiedeva lo scioglimento del rapporto sociale per inadempimento dell’alt ro socio (che lo aveva, infatti, escluso dal possesso dell’immobile e dall’impresa); l’acquirente, al contrario, eccepiva che la vendita era reale e rivendicava pertanto la proprietà dell’intero immobile in quanto insisteva per la gran parte sul suo fondo. La Corte d’appello ha ritenuto valida la società di fatto, in applicazione dell’art. 1367 c.c., ritenendo che i suddetti conferimenti erano stati effettuati non in proprietà ma in godimento infranovennale. Avanti alla Suprema Corte, i ricorrenti, assumono che erroneamente la corte d’appello ha ritenuto valida la società di fatto nonostante il conferimento dei beni immobili necessari alla realizzazione del fine sociale non avesse la forma scritta, in quanto non è possibile applicare il principio di conservazione ai sensi dell’art. 1367 c.c. per escludere la nullità del contratto. Secondo la S.C., infatti, <<la norma contenuta nell’art. 1367 c.c. presuppone che, fallito ogni altro tentativo di attribuire alla clausola cont rattuale (o al contratto) un qualsiasi significato mediante l’adozione degli altri criteri dell’interpretazione oggettiva, il dubbio circa la sua reale portata permanga, onde in tal caso viene privilegiata l’interpretazione che riconosce alla clausola dubbia qualche effetto anziché quella per cui essa non ne avrebbe alcuno. (…) In realtà, per superare il ritenuto conflitto tra gli artt. 2248 e 1350 n. 9 c.c., non è possibile il ricorso all’art. 1367 c.c. poiché l’applicazione della norma si risolve in tal caso in una interpretazione abrogans del precetto relat ivo alla prescrizione formale, il quale non viene applicato nonostante che il conferimento abbia avuto per oggetto un bene immobile ovvero un diritto immobiliare, nel silenzio delle parti, a tempo indeterminato>>. Interessante è anche la sentenza della Cass. 19-011995, n. 565. Due soggetti avevano costituito una società di fatto allo scopo di creare e gestire un camping per 20 anni, convenendo verbalmente che il primo avrebbe conferito il terreno e sarebbe stato proprietario di eventuali costruzioni, il secondo avrebbe invece curato la contabilità. Dopo qualche anno il secondo recedeva e vi furono disaccordi sull’ammontare della liquidazione della quota. In giudizio, il socio recedente chiedeva che fosse determinato e liquidato il valore della propria quota, mentre, il socio convenuto rilevava che la società, pur prevedendo il conferimento di un immobile per 20 anni, non era stata stipulata per iscritto e chiedeva la declaratoria di nullità della società. Il giudice di primo grado dichiarò nulla la società per violazione dell’art . 1350, n. 9, c.c. e, inoltre, negò la liquidazione della quota sociale, non essendo venuta ad esistenza la società, pertanto affermò il diritto delle parti alla restituzione dei rispettivi conferimenti. La Cort e d’appello confermò la sentenza di primo grado, conseguentemente i giudici stabilirono che, essendo nulla la società, le parti avevano diritto alla sola restituzione dei conferimenti eseguiti e agli utili in rapporto di parità. Secondo la Cassazione <<il contratto verbale con il conferimento in godimento ultranovennale di beni immobili, essenziali al raggiungimento dello scopo sociale, è dunque affetto da nullità (…) per escludere detta nullità non è invocabile il principio della conservazione del negozio giuridico ex art. 1367 c.c., al fine di circoscrivere nel novennio il patto societario, in quanto ciò esulerebbe dalla mera interpretazione della volontà delle parti, t raducendosi in una arbitraria sostituzione del loro effettivo intento>> . Risolto tale aspetto, la Cort e si è poi dilungata sulla questione degli effetti del contratto nullo. A tal riguardo, la Corte sull’assunto che la società ha comunque avuto pratica attuazione per un periodo di tempo (producendo inevitabilmente degli effetti) , dichiara <<non vi è dubbio che tra i conferimenti dei soci, vadano compresi, oltre agli apport i di denaro o di beni, anche l’attività lavorativa svolta per la gestione sociale; e che fra gli utili, vada ricompreso anche l’eventuale ut ile patrimonializzato che consiste nell’aumento di valore acquisito dall’azienda, quando questa, insistendo su un immobile di proprietà esclusiva di uno dei soci, ritorna interamente, per effetto dello scioglimento, nella piena titolarità di uno solo fra essi. In questo senso è esatto affermare che il plusvalore che sia stato acquisito dai beni organizzati in azienda, per effetto dell’attività comune, è per intero, effetto del complessivo conferimento dei soci (…). Ma ciò sta anche a significare la piena equiparazione, quoad effectum, della declaratoria di nu llità della società di persone che ha agito come tale, allo scioglimento>>. È bene sottolineare come l’espressione usata dalla Corte (<<contratto verbale costitutivo di una società di fatto>>) porti a rit enere si trattasse di una s.n.c. costituita oralmente, giacché nella società di fatto non vi è alcuna contrattazione. Pertanto, l’affermazione espressa nella sentenza suesposta, secondo cui la nullità del conferimento essenziale alla società travolge l’intero contratto sociale, non vale ad interpretare l’art. 2251 c.c. poiché, trattandosi di una s.n.c. costituita oralmente, la nullità deriva dalla mancanza di forma scritta prescindendo dalla forma dell’atto di conferimento. Più recente è la pronuncia di Cass. 25-10-2001, n. 13158. Tre persone avevano costituito una società di fatto avente ad oggetto l’esercizio di att ività edilizia, con l’accordo che dell’impresa solo uno di loro sarebbe apparso l’esclusivo titolare, al quale avrebbero dovuto essere intestati i beni immobili acquistati con gli utili societari. Qualche anno dopo la società si scioglieva e le trattative per liqu idare il patrimonio sociale si erano interrotte per divergenze sorte sulla valutazione di due edifici, costruiti su un terreno che il socio apparente titolare dell’impresa possedeva ancor prima di costituire la società e che, qu indi, riteneva di sua esclusiva proprietà. Davanti al tribunale, l’attore chiedeva che, una volta accertata l’esistenza della società di fatto, il giudice valutasse la consistenza della quota a lui spettante. Il convenuto (apparente esclusivo titolare dell’impresa) eccepiva la nullità della detta società perché, pu r avendo come oggetto sociale la costruzione di edifici trami atti di acquisto e vendita di beni immobili, era stata costituita verbalmente tra i tre. In Cassazione, il ricorrente lamenta che sia in primo (Trib. Montepulciano, 07-03-1992) che in secondo grado (App. Firenze, 25-09-1999), sia stata ritenuta valida la società. La Corte, accogliendo il motivo, dichiara <<dispone l’art. 2251 c.c. che il conseguenti, l’orientamento dominante prevede una liquidazione della quota del singolo socio, in riferimento alla complessiva situazione patrimoniale dell’azienda al momento dello scioglimento, comprendendo principio di libertà di forma dell’atto costitutivo della società semplice (la cui disciplina è applicabile alla società di fatto) non si applica nel caso in cui la natu ra del bene conferito richieda una forma particolare. Conseguentemente, questa Corte, con costante orientamento, ha affermato la nullità dell’atto costitutivo di una società di fatto il cui fondo comune sia costituito da conferimento (in proprietà, in uso o in godimento ultranovennale) di beni immobili essenziali per il perseguimento delle finalità sociali>>. Secondo la S.C., il giudice d’appello non ha ignorato l’orientamento dominante, ma ne ha semplicemente limitato la portata, traendone la sola conseguenza che i terreni risultanti al momento della costituzione della società, poiché non erano oggetto di conferimento con atto scritto (bensì erano di esclusiva proprietà del ricorrente), non dovevano essere compresi nella valutazione del patrimonio aziendale da prendere a base del procedimento di liquidazione delle quote. <<Poiché dalla sentenza impugnata risulta che i terreni di proprietà esclusiva del sig. T., all’atto della costituzione della società, furono oggetto di conferimento, ma che tale conferimento è nu llo perché non redatto per iscritto, al fine di valutare la tesi del ricorrente, secondo cui da tale nullità discendeva, ai sensi dell’art. 2252 c.c., la nullità dell’atto costitutivo della società di fatto, la corte territoriale doveva anche esaminare la questione se tale conferimento fosse essenziale per il persegu imento degli scopi sociali. in secondo luogo, e conseguentemente, doveva essere individuato quale fosse allora l’apporto del sig. T. al fondo comune>>. È possibile notare come, nelle sentenze riportate, la nullità della società discende dall’essenzialità del conferimento immobiliare; pertanto, secondo tale orientamento, non è importante stabilire se vi è una distinzione tra la forma del contratto sociale e quella richiesta per il conferimento. Inoltre, per quanto riguarda gli effetti della declaratoria di nullità, questi non sono diversi da quelli che si avrebbero in sede di scioglimento della società. tutte le componenti relative, anche quelle di avviamento31. 31 Cfr. Trib. Termini Imerese, 21-05-2002, in cui si legge <<E’ nullo ai sensi degli art. 2252 e 1350 n. 9 c.c. il contratto verbale con costitutivo di una società ove vi sia stato il conferimento in godimento di beni immobili essenziali al raggiungimento dello scopo sociale. Per effetto della nu llità i rapporti tra i soci sono disciplinat i dall’art. 2033 c.c., qualora la società non abbia iniziato ad operare. Quando, invece, la società abbia concretamente operato, si deve procedere alla liquidazione dei beni, secondo quanto previsto dagli art. 2280 e 2282 c.c., procedendosi in via preliminare al pagamento dei creditori sociali>>. Si veda anche Cass. 02-04-1999, n. 3166, riguardante la vicenda già esaminata dalla stessa Corte con sentenza 565/95. In seguito a quest’ultima pronuncia, il giudice del rinvio provvedeva alla liquidazione del socio recedente sulla base del valore complessivo attribuito all’impresa che era stato ottenuto sommando: il capitale iniziale della società, l’impianto e l’ampliamento del camping con stabili manufatti, una cospicua sovvenzione regionale, i mobili, le att rezzature e le merci nonché l’avviamento commerciale. Contro tale sentenza propone ricorso per cassazione l’altro socio, il quale lamenta che il giudice di secondo grado è andato oltre l’ambito del giudizio di rinvio che era limitato alle due component i dell’attività lavorativa e dell’utile patrimonializzato. Secondo la S.C. la censura è infondata. <<Con la sentenza 565/95 questa Corte ha ritenuto fondato il terzo motivo di ricorso, con il quale il sig. B. aveva lamentato che la Cort e d’appello si fosse limitata alla quantificazione contabile dei conferiment i effettuati e degli utili conseguit i, mentre il valore dei conferiment i doveva considerarsi coincident e con il valore stesso dell’azienda, costruita ed ampliata tramite gli apporti dei soci. Accogliendo tale motivo, questa Corte ha affermato in particolare, nel quadro della piena equiparazione, quoad effectum, della declaratoria di nullità della società allo scioglimento, che il plusvalore acquisito dai beni organizzati in azienda, grazie all’attività comune, era da qualificarsi, per intero, effetto del complessivo conferimento dei soci: consegu entemente, ha cassato la pronuncia della Corte d’appello, che aveva ristretto l’indagine ai soli conferimenti in denaro, escludendo la rilevanza di ogni alt ro apporto, ed aveva negato la prova di utili, senza tenere alcun conto del plusvalore che i beni organizzati in azienda avevano acquisito>>. È necessario segnalare l’esistenza di alcune pronunce minoritarie che, a differenza delle decisioni finora esaminate, adottano l’interpretazione che distingue tra contratto sociale e negozio di conferimento, prevedendo esclusivamente per quest’ultimo la necessità della forma scritta32. 32 Cfr. Trib. Padova, ordinanza 17-08-2000. L’attore conviene in giudizio la propria socia per ottenere l’accertamento dell’esistenza di una società di fatto tra gli stessi, nonché il trasferimento a favore della società di due immobili intestati alla convenuta, ed in via cautelare ottiene il sequestro conservativo dell’azienda della convenuta. Quest’ultima ricorre contro il provvedimento di sequestro ed il t ribunale accoglie tale reclamo. La convenuta, infatti, eccepisce anzitutto l’inesistenza di una società di fatto, che sarebbe comunque nulla poiché manca un atto scritto avente ad oggetto la costituzione della società e il conferimento dei due beni immobili di cui si discute, in violazione dell’art . 1350, n. 9, c.c. Secondo il tribunale << è opportuno osservare che, ritenendo applicabile alla società di fatto la norma di cui all’art. 2251 c.c., la necessità del requisito della forma scritta investe non già il contratto sociale, bensì il singolo atto di conferimento di un bene nella società. Deve quindi ritenersi valido un conferimento immobiliare fatto per iscritto ad una società semplice costituita verbalmente, salvi gli eventuali problemi connessi all’esigenza di procedere alla trascrizione dell’atto di acquisto dell’immobile, in difetto di un contratto di società concluso per iscritto o di una sentenza che abbia accertato la costituzione della società medesima>>. In secondo luogo, il giudice ritiene che <<la prova dell’esistenza di una società di fatto tra il sig. C. e la sig.ra S. non può certamente essere desunta dalla ritenuta qualità di mandatario del C., giacché l’esistenza di un contratto di mandato avente ad oggetto la gestione della società è incompatibile con un vincolo qualificabile come affectio societatis>>. Secondo tale decisione, quindi, in difetto di forma scritta è nullo solo il negozio di conferimento (ex art . 1418 c.c.), mentre l’accordo societario resta vincolante. Cfr. anche a Cass. 29-04-1982, n. 2688. Quanto alle modifiche del contratto sociale (ex art. 2252 c.c.) non è richiesta alcuna forma specifica né ad substantiam e né ad probationem33, ciò vale anche in presenza di un patrimonio societario immobiliare34. In base all’analisi svolta, ne consegue, come prima e immediata osservazione, che a prescindere dalla posizione che si voglia assumere (ossia, il difetto di forma comporta la nullità dell’intero contratto sociale, ovvero comporta la nullità del singolo conferimento che solo se essenziale travolgerà l’intero contratto sociale), il risultato è il medesimo. 33 Cfr. Cass. 10-05-1984, n. 2860, in cui si legge che il consenso di tutti i soci, necessario per la modifica del contratto sociale nella società di persone, non è soggetto a forme vincolate e può desumersi anche da atti o comportamenti che dimostrino inequivocabilmente l’unanime volontà dei soci. Nella fattispecie, si trattava della modifica di una clausola regolante l’ipotesi di morte di un socio, nel senso di consentire la prosecuzione della società con tutti gli eredi, anziché con uno solo di essi. 34 Cfr. Cass. 28-02-1998, n. 2252. Non è molto chiaro il caso ma la Corte enuncia il principio di diritto secondo cui <<con riguardo alle società di persone con patrimonio immobiliare – mentre è necessaria, ai sensi dell’art. 1350 c.c., la forma scritta per i conferiment i immobiliari, traslativi della titolarità di quei beni dal conferente alla società – può prescindersi, invece, dalla prescrizione di una tale forma nel caso di cessione della quota sociale (pur comprensiva di beni immobili) per la ragione appunto (correttamente addotta dal ricorrente) che il negozio di cessione determina il trasferimento dei diritti e degli obblighi inerenti alla qualità di socio ( di una posizione complessiva quindi di natura mobiliare) , ma non già il trasferimento del patrimonio sociale, restando il patrimonio stesso nella titolarità appunto della società, estranea al contratto di cessione>>. Inoltre, secondo il testo degli artt. 2251 e 1350, n. 9, c.c. è evidente che la forma è richiesta per la validità dell’intero contratto sociale. Pertanto, in applicazione dei generali principi di nullità parziale e conversione del contratto nullo (ex artt. 1419 e 1424 c.c.), se il bene conferito non è essenziale alla società allora sarà comunque valido il contratto sociale concluso oralmente. In altri termini, l’interprete dovrà di volta in volta accertare se le parti (i soci) avrebbero ugualmente concluso quel contratto anche senza quel determinato bene. A tal riguardo, una difficoltà deriva dall’art. 2253, 2° comma, c.c., in base al quale <<se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a conferire, in parti uguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale>>, ne consegue che per accertare la reale volontà dei soci, l’interprete dovrà domandarsi se, secondo il caso specifico raggiungimento sottopostogli, dello scopo per il sociale è necessario che il bene sia conferito in proprietà piuttosto che in semplice godimento. Se il bene è dato in proprietà, ne deriva che la forma del conferimento è forma del contratto sociale, essendone implicita l’essenzialità. È possibile notare, infatti, che nei casi in cui è stata pronunciata la nullità della società per difetto di forma del conferimento, quest’ultimo doveva, presumibilmente, essere dato in proprietà ai fini del perseguimento dell’oggetto sociale35. È facile considerare, inoltre, che, nei casi di conferimento immobiliare in proprietà (perché essenziale alla società), la scrittura privata con cui si conferisce deve obbligatoriamente far riferimento alla società cui si trasferisce l’immobile, e, non essendo richiesta alle società di persone alcuna formalità per la stipula del contratto, la scrittura per il conferimento coincide con la scrittura per il contratto di società36. 35 Si veda, ad esempio, Cass. 25-10-2001, n. 13158; Cass. 02-04-1999, n. 3166; Cass. 19-01-1995, n. 565. 36 Cfr. COTTINO, Diritto commerciale, Padova, 1994, p. 114, <<si pone il problema preliminare, nascente dall’esigenza di procedere a trascrizione dell’atto di acquisto dell’immobile. Questa non può infatti avvenire in capo a una società semplice senza che sia preceduta dalla relazione di un atto notarile di acquisto, da stipularsi da chi è legittimato a farlo (l’amministratore) in base ad una regolare scrittura di società (o di una sentenza che ne abbia accertato la costituzione). Ciò indica che nella prassi sarebbe inipotizzabile un conferimento immobiliare a una società costituita verbalmente e che tale permanga; e spiega proprio come in tema di società di fatto la giurisprudenza della cassazione sembri sempre riferire il requisito della forma scritta anche all’accordo sociale >>. 3) Il rapporto di amministrazione nelle società di persone. 3.1) Amministratore estraneo. L’art. 2257 c.c. detta, al 1° comma, un principio generale applicabile a tutte le società di persone; la norma dispone, infatt i, che <<Salvo diversa pattuizione, l’amministrazione della società spetta a ciascuno dei soci disgiuntamente dagli alt ri>>. Secondo un’interpretazione letterale, ne deriva che nelle società di persone il potere di amministrare è strettamente connesso alla qualità di socio illimitatamente responsabile 37 . Profonde sono le divergenze dottrinarie in ordine sia alla natura giu ridica del rapporto di amministrazione, sia alla questione (strettamente collegata alla prima) sull’ammissibilità dell’attribuzione del potere di amministrazione a chi non è socio. A tal riguardo, il dibattito vede in cont rapposizione da una parte la teoria secondo cui l’amministratore nelle società di persone è parificato ad un mandatario e pertanto può essere nominato anche un non socio; dall’altra parte l’idea che nel sistema delle società personali vige il generale principio dell’inscindibile correlazione tra 37 È, infatti, opportuno precisare che tale principio non vale né per i soci di società semplice che godano del patto di limitazione della responsabilità (ex art. 2267 c.c.), né per i soci accomandanti di s.a.s. (ex art. 2318, 2° comma, c.c.). potere di direzione dell’impresa e qualità di socio. La giurisprudenza, all’ammissibilità tendenzialmente di amministratori cont raria estranei alla compagine sociale, affronta la questione sia in via indiretta (negando la possibilità di nominare un amministratore giudiziario), sia in via di principio (interrogandosi sulla possibilità che l’usufruttuario di quote possa amministrare la società). Alla base delle varie discussioni vi è la causa del contratto sociale: la gestione in comune dell’impresa. Chi configura l’amministratore di società di persone alla stessa stregua di un mandatario o di un institore, ovviamente non ha difficoltà ad ammettere la possibilità di amministratori estranei alla società38. Solitamente, gli argomenti utilizzati da coloro che sostengono che chi è amministratore di una società di persone deve esserne anche socio, poggiano sulle norme contenute negli artt. 2318, 2° comma39 e 2267 38 Tale tesi trae le proprie ragioni dal testo dell’art . 2260 c.c., che al 1° comma stabilisce <<I diritti e gli obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato>>. 39 Norma che, in materia di s.a.s., stabilisce che l’amministrazione della società può essere affidata soltanto ai soci accomandatari. A tal riguardo, il BOLAFFI ritiene che proprio la presenza di una norma eccezionale come quella contenuta nell’art. 2318 c.c. porta alla conclusione che alla carica di amministratore può essere chiamato anche un estraneo, <<Nella società semplice, mancando una norma eccezionale in tal senso c.c. Quest’ultimo, in particolare, stabilisce solo per i soci rappresentanti il divieto di limitare verso l’esterno la responsabilità personale40. Ne consegue che, il socio che non ha assunto la veste di rappresentante può sempre limitare verso l’esterno la propria responsabilità, pur rivestendo la carica di amministratore interno41. Pertanto, se la rappresentanza fosse attribuita a soggetti estranei alla società si dovrebbe ammettere la possibilità di costituire, ad esempio, una società semplice in cui tutti i soci assumono verso responsabilità limitata conferimento. Tale l’esterno al valore una del argomentazione costituirebbe, insieme alla tesi secondo cui le posizioni di amministratore e di rappresentante – che del resto non avrebbe pratica giustificazione – la titolarità degli organi sociali può, a nostro avviso, essere affidata tanto ai soci quanto a persone estranee alla società>>, ( BOLAFFI, La società semplice, Milano, 1975, p. 447). In sostanza, secondo l’Autore, nel silenzio della legge non sarebbe possibile negare alla società il diritto che spetta a qualsiasi soggetto di farsi rappresentare da chi gode di sua fiducia. 40 <<I creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto contrario, gli alt ri soci>>, art. 2267, 1° comma, c.c. 41 Per gli altri soci, infatt i, il contratto sociale può escludere la responsabilità o anche la sola solidarietà. A tal riguardo, la norma impone solo un obbligo di pubblicità. ex art. 2257 e 2266 c.c. spettano al socio in virtù dello stesso contratto sociale e non di un altro contratto collegato e strutturalmente distinto, una conclusione dell’inammissibilità di a sostegno amministratori e rappresentanti estranei. A tal riguardo, quella parte della dottrina favorevole alla figura di un amministratore di società personale estraneo alla compagine sociale, ritiene che fondare su questa norma la tesi dell’inammissibilità di amministratori estranei trova un limite nell’impossibilità di trasferire le medesime conclusioni sulla società in nome collettivo, ove la responsabilità solidale e illimitata di ciascun socio verso i terzi è in ogni caso garantita imperativamente dalla legge (art. 2291, comma 2, c.c.)42. Pertanto, l’eventuale previsione contrattuale di un estraneo alla gestione della società non potrebbe mai pregiudicare gli interessi dei creditori sociali. Al contrario, quest’ultimi potrebbero addirittura ricavarne un vantaggio se si considera che possono sempre e comunque agire nei confronti dei soci, in quanto illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali, e qualora il comportamento dell’amministratore estraneo 42 TASSINARI, La rappresentanza nelle società di persone, Milano, 1993, p. 148 e seg. dovesse configurare un illecito, potrebbero agire anche nei confronti di questo a titolo di responsabilità extracontrattuale43. In conformità a tale impostazione, si nega, inoltre, che l’inammissibilità di amministratori interni e rappresentanti estranei alla società possa argomentarsi sulla base del riconoscimento agli amministratori di un potere originario che si fonda direttamente sul contratto sociale44 giacché all’art. 2259, 2° 43 Lo stesso Autore, per estendere il suo ragionamento alla società semplice, è costretto a sostenere che in simile ipotesi i soci non potrebbero introdurre pattiziamente delle limitazioni della responsabilità, cadendo in tal modo in una crit icabile interpretazione della disciplina codicistica. 44 <<Anche ritenendosi che normalmente le posizioni di amministratore e rappresentante derivino direttamente dal cont ratto sociale, non vi è alcuna difficoltà nel ritenere che i soci, scegliendo di att ribuire tali incarichi a soggetti estranei, facciano ricorso, stante la necessità di ottenere il consenso di un soggetto che non è stato parte del contratto sociale stesso, ad una fattispecie negoziale distinta sotto il profilo strutturale e tipologico. La tesi a suo tempo sostenuta in merito alla normale mancanza di autonomia del cont ratto di amministrazione, mirava esclusivamente a suggerire una semplificazione nella ricostruzione dell’istituto e non voleva porsi come punto di partenza per l’elaborazione di principi inderogabili o per la scoperta di rigide simmetrie. Non ci sono quindi difficoltà, quando le relative esigenze di semplificazione non sussistono, ad ammettere che, in tali casi, il rapporto che lega amministratori e rappresentanti alla società debba essere inquadrato nell’ambito di diversi schemi funzionali>> , (TASSINARI, op. cit., p. 152). Per quanto riguarda, poi, la disposizione contenuta nell’art . 2318 c.c., secondo la quale nella società in accomandita semplice l’amministrazione va attribuita comma, c.c. si prevede la facoltà di nomina dell’amministratore con atto separato45. A tal riguardo, interessante è la posizione di autorevole dottrina secondo cui il potere gestorio non discende dal contratto sociale bensì dall’atto di nomina, geneticamente e funzionalmente collegato al primo46. Al esclusivamente ai soci accomandatari, l’Autore ritiene opportuno circoscriverne il significato al mero riconoscimento di un carattere tipologico appartenente esclusivamente alle s.a.s. In altri termini, tale società si fonda sull’esistenza di due categorie di soci e solo ad una è riconosciuto il potere di gestione; se i soci accomandatari potessero delegare in blocco a terzi l’amministrazione della società, verrebbe meno l’aspetto che più caratterizza la distinzione t ra le suddette categorie di soci ed inoltre il socio accomandatario finirebbe ad essere un prestanome con il solo compito di assumere la veste di soggetto illimitatamente responsabile. 45 <<quest’ultima espressione se non la si vuole riferire all’elemento strettamente documentale, può intendersi con riguardo al momento in cui la nomina è avvenuta oppure alla circostanza che alla nomina stessa si sia proceduto con un atto strutturalmente e tipo logicamente autonomo rispetto al contratto sociale>>, (TASSINARI, op. cit., p. 154). 46 SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1974. L’Autore, anzi, nel tentativo di ricostruire la nozione di amministratore di società personale, riflette sul fatto che <<la tradizione codicistica franco-italiana conosceva non una, bensì due figure di socio amministratore, in virtù della possibile collocazione della nomina in un patto speciale del contratto di società o in un atto posteriore (artt. 1856 code civ., 1720, commi I e II, c.c. ’65). A queste separate collocazioni (…), corrispondevano regimi non coincident i della revocabilità e, per il nesso postulato secondo cui la partecipazione al rischio è il criterio legislativamente utilizzato a garanzia di dell’impresa una responsabile (individuale o gestione sociale)47, coerentemente, la stessa dottrina risponde che <<non sarebbe prudente utilizzare il binomio iniziativa-rischio per conseguire una meccanica soluzione del nostro problema (conferibilità ad estranei dell’amministrazione nei tipi elementari di società), per la trasparente ragione che tale impiego, per essere legittimo, presupporrebbe che si formulasse una risposta positiva circa due opinabili quesiti: se allo schema societario sia coessenziale (la programmazione d’) un’attività fornita dei caratteri dell’impresa e (subordinatamente) se i soci illimitatamente responsabili siano che appare attendibile instaurare tra revocabilità ed istruibilità, dei poteri d’istruzione successiva vantati dai soci non amministratori. L’art. 1720 c.c. ’65 era esplicito al riguardo: la facoltà di amministrazione non è esposta all’opposizione degli altri soci, non può esser revocata durante la società senza una causa legittima; espressamente, invece, questa facoltà, se att ribuita con atto separato, è detta revocabile come un semplice mandato e – l’argomento a contrario è semplicissimo – soggetta all’opposizione dei soci non amministratori>>, (SPADA, op. cit., p. 357 e seg.). 47 In base a tale principio, la direzione dell’impresa è necessariamente riservata all’imprenditore, ciò significa che, nelle società personali, i soci illimitatamente responsabili sono tutti imprenditori, collettivamente a capo dell’impresa sociale. Pertanto, i soci possono rinunciare alla gestione comune dell’impresa solo a favore di uno o alcuni tra loro stessi. imprenditori (indiretti). Ma altrettanto azzardato sarebbe condizionare la soluzione con rifiuti o del postulato o dei segnalati passaggi si stematici che ne consentono l’operatività sul terreno societario>>48. Secondo tale argomentazione, infatti, non sembra dubitabile che il rischio possa essere dissociato dall’iniziativa, e una dimostrazione in tal senso è riscontrabile nella figura del mandato in rem propriam49. Basandosi sul testo letterale dell’art. 1723, 2° comma, c.c. ( <<mandato conferito anche nell’interesse del mandatario>>), la dottrina in esame fa una distinzione tra saldo passivo e saldo attivo dell’azione, in quanto solo così è possibile conciliare i due principi per cui il mandatario svolge sempre un’attività per conto del mandante ma nell’ipotesi in questione trattiene nel suo patrimonio il risultato della gestione. <<Il saldo negativo della gestione (in quanto concretamente ricorra) sarà conteggiabile al 48 SPADA, op. cit., p. 349. 49 Ai sensi dell’art . 1723, 2° comma, c.c. il mandatario si impegna a compiere atti che hanno effetti nel proprio patrimonio e non in quello del mandante: ad esempio, il mandatario viene incaricato di incassare il prezzo di una vendita al fine di estinguere un credito che egli stesso ha verso il mandante. Tale forma di mandato, inoltre, implica una procura irrevocabile se non per giusta causa; a tal riguardo cfr. Cass. 01-02-1983, n. 857; Cass. 11-02-1998, n. 1388. mandante, benché il saldo positivo debba, secondo taluni degli interpreti della disputa su questa figura, esser trattenuto dal mandatario (o destinato al terzo). Il mandante, allora, pur non avendo poteri di governo sull’azione del mandatario successivi al conferimento dell’incarico (irrevocabilità e implicata non istruibilità), sarà illimitatamente esposto al rischio (: saldo passivo) connesso ad un’azione altrui>>50. Secondo altra corrente dottrinaria, si ritiene ammissibile la figura di un amministratore estraneo solo nelle società in nome collettivo, in virtù del fatto che solo in tale tipologia societaria (come è stato già anticipatamente precisato) tutti i soci sono sempre e comunque illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali (ex art. 2291 c.c.), a prescindere dal potere di amministrazione. In altri termini, un amministratore estraneo non potrebbe mai essere uno strumento volto ad eludere il principio della responsabilità illimitata dei soci versoi creditori sociali51. In senso dell’inammissibilità estraneo alla contrario, di un compagine a sostegno amministratore sociale, 50 SPADA, op. cit., p. 356. 51 CAMPOBASSO, Diritto commerciale, vol. 2, Torino, 2003, p. 108 e seg. le argomentazioni ricorrenti poggiano da un lato, sull’esigenza di evitare che la nomina di un amministratore terzo possa costituire un facile espediente per eludere il principio della responsabilità illimitata e solidale dei soci verso i creditori sociali; dall’altro, sul generale principio (vigente in materia di società personali) dell’inscindibile correlazione tra potere di direzione dell’impresa e qualità di socio52. Tali osservazioni inducono buona parte della dottrina ad affermare che i poteri dell’amministratore di una società di persone non sono quelli di un institore ma, al contrario, sono quelli all’imprenditore che normalmente sulla propria spettano impresa. Pertanto, se è vero che ai sensi dell’art. 2260, 1° comma, c.c. <<i diritti e gli obblighi degli 52 Su quest’ultimo aspetto, in particolare, è necessario citare GALGANO, secondo il quale la vera nozione di socio amministratore è quella che lo identifica nel <<capo dell’impresa sociale>>, ciò vale a dire che amministratore non è semplicemente colui incaricato a gestire ed eseguire le operazioni sociali ma è colui che si trova in una posizione di supremazia dell’impresa (GALGANO, Le società in genere. Le società di persone, Milano, 2007, p. 219 e seg.). <<Questa diversa concezione di amministrare del socio si t rova congiunta con la considerazione di questo quale imprenditore: ai soci amministratori si riconosce la condizione di imprenditori capi dell’impresa sociale. Alla responsabilità illimitata dei soci viene attribu ito il medesimo fondamento della responsabilità illimitata dell’imprenditore individuale>> , (GALGANO, op. cit., p. 223 e seg.). amministratori sono regolati dalle norme sul mandato>>, è altrettanto vero che le medesime sono applicabili nei limiti della loro compatibilità con la disciplina tipica di tali società. Secondo tale pensiero, quindi, può ritenersi applicabile l’art. 1717 c.c. (in base al quale il mandatario non può farsi sostituire nell’esecuzione del mandato in assenza di specifica autorizzazione del mandante); così come l’art. 1710 c.c. (in tema di diligenza del mandatario). Non sarà, invece, applicabile in nessun caso l’art. 1711 c.c. (in cui si dispone che il mandatario, nell’esecuzione del mandato, deve sempre attenersi alle istruzioni ricevute dal mandante), in quanto in evidente contrasto con la disposizione contenuta all’art. 2257, 2° comma, c.c.53. Tutto ciò, porta all’inevitabile conclusione che il potere di amministrazione è un potere originario (derivante dal contratto sociale) e non un potere derivato (al pari di un mandatario o di un institore). La risposta negativa al quesito sull’ammissibilità o meno di un amministratore estraneo, la si ricava, sempre secondo la medesima dottrina, anche dalla disciplina dell’accomandita semplice che, come è già 53 Secondo tale disposizione, infatti, il socio amministratore può compiere ogni tipo di operazione sociale e gli altri soci (non amministratori) non hanno la possibilità di interferire. stato osservato, esclude i soci accomandatari dall’amministrazione della società. In altri termini, la disciplina della s.a.s. è la testimonianza che la responsabilità illimitata dei soci è il solo espediente possibile a garanzia di una responsabile direzione dell’impresa54. 54 A tal riguardo, vi è chi è portato comunque ad ammettere un amministratore terzo alla società, prevedendo una responsabilità personale nei suoi confronti. Ciò equivale a sostenere che l’inscindibilità tra potere amministrativo e responsabilità illimitata, lungi dall’escludere la figura dell’amministratore non socio, porta a concludere per una responsabilità personale dello stesso con conseguente diritto di regresso per intero nei confront i dei soci (BOLAFFI, La società semplice, Milano, 1975, p. 389). A tale opinione, GALGANO risponde osservando che <<se la soggezione alle perdite trova causa nella partecipazione agli utili, è mai concepibile che estranei, i quali non partecipano agli utili sociali, debbano sopportare le perdite della società? (…) è, a questo punto, evidente che la partecipazione agli utili dell’amministratore estraneo cessa di essere un compenso in senso tecnico se ad essa deve necessariamente conseguire la soggezione alle perdite della società. Ed è chiaro altresì che l’amministratore, al quale sia dato di partecipare agli utili sociali ed imposto di sopportare le perdite della società, cessa di essere un estraneo per assumere i connotati propri della figura del socio >>, (GALGANO, op. cit., p. 244). Della stessa opinione è il GHIDINI, il quale basa il proprio ragionamento oltre che sull’art . 2318, 2° comma, c.c. (<<L’amministrazione della società può essere conferita soltanto ai soci accomandatari>>) , su una comparazione tra le società di persone e di capitali. L’ Autore afferma in primo luogo che nelle società di capitali vi è la fisiologica dissociazione t ra proprietà e direzione dell’impresa <<assunta da una categoria sociale (gli amministratori, i managers) specializzata, indipendente e diversa da quella dei proprietari>>; in secondo luogo, osserva come nelle società di capitali sia previsto un complesso sistema di controlli interni ed esterni di per sé idonei a garantire una corretta e prudente amministrazione; ment re una simile organizzazione non è prevista per le società personali in quanto il potere amministrativo è esercitato da chi è soggetto alle conseguenze dell’amministrazione stessa, (GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 419 e seg.). Simile è l’argomentazione sostenuta da CAGNASSO, il quale svolge la propria indagine con particolare riferimento alla società semplice. In particolare, l’Autore si muove in una critica nei confronti della tesi esposta dal TASSINARI. Quest’ultimo, come già osservato, in risposta a quanti sostengono che, in base all’art. 2267 c.c., se l’amministrazione e la rappresentanza fosse affidata ad un terzo che, in quanto tale, non potrebbe mai essere chiamato a rispondere illimitatamente per le obbligazioni sociali, si avrebbe una società in cui tutti i soci sono limitatamente responsabili, sostiene che nel caso di amministratore estraneo i soci perdono il potere di limitare la loro responsabilità (TASSINARI, op. cit., p. 145 e seg.). Il CAGNASSO, prende le mosse del suo discorso da un paragone t ra società semplice e accomandita semplice, <<la presenza di due categorie di soci (gli uni con responsabilità illimitata, gli altri con responsabilità limitata) ha indotto il legislatore, nell’ambito dell’accomandita semplice, a stabilire esplicitamente che il potere di amministrazione possa essere attribuito solo ai soci accomandatari. Analogo discorso mi pare estensibile alla società semplice, ove il contratto sociale può prevedere la presenza di due categorie di soci, con differente responsabilità e ove è stabilito che solo i soci a cui è attribuito il potere di amministrazione (di rappresentanza) debbano essere illimitatamente responsabili>>, (CAGNASSO, La società semplice, in Tra. Dir. civ. Sacco, Torino, 1998, p. 152). Le discussioni appena sopra riportate potrebbero ben applicarsi anche all’ipotesi di amministratore persona giuridica55. La questione muove dalla disposizione legislativa contenuta all’art. 2361, 2°comma, c.c. che, a seguito della riforma delle società di capitali, consente alle s.p.a. l’assunzione di partecipazioni in s.n.c., in s.a.s. (sia come accomandatari che come accomandanti) ed in società semplice. Pertanto, ammessa senza dubbio la possibilità che una società di capitali partecipi in una società di persone, è inevitabile domandarsi se questa possa rivestire la carica di amministratore della società partecipata. Nel silenzio del legislatore, l’orientamento favorevole si basa principalmente sull’art. 111 duodecies delle disp. att. c.c. ( <<Qualora tutti i loro soci illimitatamente responsabili, di cui all’art. 2361, comma secondo, del codice, siano società per azioni, in accomandita per azioni o società a responsabilità limitata, le società in nome collettivo o in accomandita semplice devono redigere il bilancio secondo le norme previste per le società per azioni; devono inoltre redigere e pubblicare il bilancio 55 Non sono stati rinvenuti casi giurisprudenziali in materia. consolidato come disciplinato dall’art. 26 del decreto legislativo 9 aprile 1991, n. 127, ed in presenza dei presupposti ivi previsti>>), dal cui teso sembra emergere la possibilità che società di capitali siano amministratori di società di persone. Parte della dottrina ritiene che la carica di amministratore va riconosciuta esclusivamente in capo a nell’ipotesi persone in esame, fisiche, si ed inoltre, configurerebbe l’assurda situazione di una società (di persone) amministrata dagli amministratori della società socia, <<ossia da soggetti scelti da terzi, sostituibili ad opera di terzi e revocabili da costoro>>56. A questa tesi, alcuni rispondono che nel caso di una società di capitali cui venga attribuita la qualità di amministratore di una società di persone si applicherebbe l’art. 2542, 2° comma, c.c. (norma dettata in tema di società cooperative, in cui si prevede che <<la maggioranza degli amministratori è scelta tra i soci cooperatori ovvero tra le persone indicate dai soci cooperatori persone giuridiche>>), pertanto, ad amministrare la società di persone 56 GLIOZZI, Società di capitali amministratore di società per azioni?, in Riv. soc., 1968, p. 93 e seg. saranno persone fisiche indicate dalle società di capitali socie57. In conclusione, le argomentazioni possono essere molte, sia in senso negativo che positivo, ciò che è pacifico affermare è che pur ritenendo possibile l’assunzione della carica di amministratore da parte di una persona giuridica58, sono notevoli le complicazioni derivanti. Si avrebbe, infatti, una compenetrazione di due categorie sociali profondamente diverse e con diverse discipline. Ci si potrebbe domandare, ad esempio, se una stessa persona fisica può essere amministratore di entrambe le società (partecipata e partecipante). Il problema è che, non avendo il legislatore disposto nulla al riguardo, si dovrebbe anzitutto tentare di individuare le regole per la designazione della persona fisica che concretamente amministrerà la società (di persone). Quindi, la domanda è: si dovrà far riferimento alla disciplina della società di persone, ovvero a quella delle società 57 GALGANO, Diritto civile e commerciale, vol. III, t. 2, 2004, p. 559. 58 In effetti, concordando con chi ritiene che il potere di amministrazione competa esclusivamente ai soci (in quanto imprenditori), sembra assurdo ammettere che una società di capitali possa esser socia di una società di persone ma non possa, al pari degli altri, rivestirne la qualifica di amministratore. di capitali, o sarebbe opportuno far riferimento al sistema legislativo in generale? Venendo ora alla giurisprudenza in materia di ammissibilità di amministratori estranei, non si sono ri scontrate pronunce interessanti, anche se sembra prevalente l’orientamento contrario59. 59 Cfr. Trib. Foggia, 29-02-2000 (ordinanza); in cu i si affronta la questione se l’incarico di amministratore di una s.n.c. possa essere conferito ad un soggetto estraneo alla compagine sociale, pur rivestendo la qualifica di accomandatario di una s.a.s. che di tale compagine fa parte. In breve, il fatto consiste in un ricorso promosso dal notaio rogante l’atto costitutivo della <<s.a.s.&s.n.c. >>, cont ro il provvedimento di rifiuto di iscrizione adottato dall’Ufficio del Registro delle Imprese. Il giudice del registro rileva che l’iscrizione è stata rifiutata in quanto l’amministrazione risultava affidata ad un soggetto estraneo alla società, considerando come irrilevante la circostanza che questo rivestisse la qualifica di socio (unico) accomandatario della s.a.s., a sua volta socia della s.n.c. Il giudice, dopo aver brevemente esaminato le varie teorie present i in dottrina in materia di ammissibilità di un amministratore non socio, rigetta il ricorso alla luce di due osservazioni. Da un lato, egli afferma che <<secondo la tesi, che qui si condivide, la struttura personalizzata caratterizza la partecipazione sociale nelle società personali, nelle quali l’intuitus personae assume una rilevanza preponderante in relazione alla singola partecipazione sociale e permea la stessa organizzazione ed il funzionamento del tipo societario, all’interno del quale la posizione di socio e quella di amministratore presentano una naturale connessione>>. Dall’altro, considerato che nel caso specifico il grado di estraneità rispetto alla compagine sociale del terzo chiamato ad amministrare risulta notevolmente attenuato, il giudice motiva il proprio rigetto sulla considerazione che <<a norma dell’art. 2318 c.c. gli accomandatari della s.a.s., come i soci della s.n.c., godono del benficium excussionis ex art. 2304 c.c.: i creditori della società della quale si chiede l’iscrizione, pertanto, prima di poter agire nei confronti dell’amministratore estraneo, sarebbero tenuti non solo ad escutere il patrimonio della s.n.c., ma anche quello della s.a.s.>>. La questione viene in rilievo, seppure indirettamente, nei casi in cui si nega la possibilità di nominare un amministratore giudiziario. La soluzione negativa è solitamente giustificata sulla considerazione che, in caso contrario, sarebbe imposto alla collettività dei soci un amministratore estraneo non scelto da loro, alla cui gestione sarebbero illimitatamente responsabili60. In realtà, non sembra che l’ulteriore beneficio di escussione di cui potrebbe godere l’amministratore estraneo possa essere l’argomento determinante per la decisione. Il vero rischio potrebbe, infatt i, essere dettato dall’eventualità che il socio in questione potrebbe degradare a semplice accomandant e, se non addirittura uscire dalla s.a.s. In quest’ultimo caso, diverrebbe a tutti gli effetti un estraneo per la società da lui amministrata, pertanto, perderebbe la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali della s.n.c. Avrebbe allora più senso motivare la decisione sulla base di argomentazioni contrarie alla figu ra di amministratore estraneo nelle società personali, in virtù della inscindibilità tra responsabilità illimitata e gestione dell’impresa. Cfr. anche a Trib. Cagliari, 11-11-2005, di cui è possibile riportare solo la massima <<La nomina, da parte dei soci di una società in nome collettivo, di un amministratore terzo, investendo profili attinenti all’economia generale, lato sensu riconducibili all’ordine pubblico economico, lungi dal configurare un legittimo esercizio di autonomia privata, si risolve in una modifica essenziale degli elementi caratterizzanti il prescelto schema societario, non consentita e, come tale, non meritevole di alcuna tutela>>. 60 Cfr. Trib. Milano, 14-02-2004; in cui si afferma l’inammissibilità della nomina di un amministratore giudiziario nell’ambito delle società di persone. Nel caso concreto, una socia di società semplice chiede: 1) l’accertamento della giusta causa di revoca ex art. 2259 c.c. dei poteri gestori di straordinaria amministrazione spettanti, secondo i patti sociali, all’altro socio, nonché coniuge separato; 2) l’attribu zione di tali poteri in forma congiunta, ovvero la nomina di un amministratore Le decisioni più interessanti, a dire il vero, sono quelle che affrontano il problema di cui si discute in connessione alla particolare questione se l’usufruttuario di quota sociale possa acquistare la qualità di socio; la giurisprudenza appare divisa61. giudiziario. Il giudice, avendo accertato l’effettiva sussistenza della giusta causa di revoca dei pot eri di straordinaria amministrazione (che nella fattispecie sono individuate <<nel complessivo mutamento dei rapporti personali tra i due soci già coniugi e nella conseguente conflittualità tra gli stessi insorta (…) che impedisce di valutare oggi l’esercizio dei poteri di gestione straordinaria da parte del convenuto di per sé idoneo ad assicurare gli interessi di entrambi i soci e della stessa società>>), revoca i suddetti poteri ma non accoglie la seconda domanda attorea, in quanto la nomina di un amministratore giudiziario si risolverebbe in una <<disposizione integrativa e sostitutiva della originaria convenzione sociale non ammissibile secondo la disciplina della società semplice nel vigente ordinamento>>. In realtà, l’ipotesi in esame non sembra paragonabile alla più ampia questione della nomina di un amministratore non socio. Riflettendo su quale potrebbe essere l’interesse che la disposizione contenuta all’art. 2259 c.c. vuole persegu ire, una risposta potrebbe essere la conservazione della società, ossia permetterle di proseguire con la propria attività. Facendo un paragone con la disciplina delle società di capitali, infatti, ex art. 2409, 4° comma, c.c. il tribunale può nominare un amministratore giudiziario determinandone i poteri e la durata in carica, alt rettanta tutela dovrebbe essere riconosciuta per le società di persone. 61 A favore della tesi per cui l’usufruttuario di quote di una società di persone non assume la qualità di socio e non può quindi essere amministratore della società, cfr. Trib. Biella, 23-10-1999 (decreto). Il conservatore del Registro delle Imprese rifiuta l’iscrizione dell’atto portante modifica dei patti sociali di una società semplice. Per effetto delle suddette modifiche uno dei soci cedeva le proprie quote rimanendone usufruttuario e amministratore della società. Pertanto, il conservatore rifiuta l’iscrizione in virtù del fatto che, a seguito della cessione, era venuta meno la qualifica di socio ( riservata al nudo proprietario). Contro tale provvedimento promuove ricorso il notaio rogante l’atto. Il giudice rigetta il ricorso sulla base del seguente ragionamento <<l’usufrutto di quote sociali determinerebbe una comunione di godimento sulle quote medesime tra il nudo proprietario e l’usufruttuario, che comporterebbe la responsabilità personale e illimitata per le obbligazioni sociali di entrambi i soggetti nonché la necessità di riconoscere anche in capo all’usufruttuario un potere di gestione che va al di là del mero godimento della cosa di cui all’art . 981 c.c. (…) Attribuire all’amministratore estraneo – in virtù del meccanismo dell’usufrutto di quote sociali – la responsabilità personale e illimitata per le obbligazioni sociali consente di superare i motivi tradizionalmente addotti a sostegno del divieto di nomina nelle società semplici e nelle società in nome collettivo>>. Pertanto, il giudice conclude rifiutando il riconoscimento della qualità di socio all’usufruttuario di quote sociali <<sembrano ostare a detto riconoscimento - quantomeno in questa sede – anche motivi di ordine formale attinenti al sistema di pubblicità legale realizzato mediante il registro delle imprese (…), che appaiono rendere inopportuna ed inammissibile l’iscrizione come socio di soggetto che risulta avere ceduto l’intera propria quota di partecipazione alla società in oggetto, ferma restando la nomina dello stesso ad amministratore>>. Nello stesso senso anche Trib. Bologna, 24-04-2001 (decreto). Pronunciandosi su un fatto identico a quello prima esaminato, il giudice afferma come nelle società di persone non possa essere attribuito all’usufruttuario di quota sociale il potere di amministrare e rappresentare la società, in considerazione del fatto che questo non può essere assimilato totalmente a un socio essendogli, ad esempio, precluso il potere di modificare il contratto sociale. La pronuncia procede, poi, con una critica alla tesi che ammette il conferimento di pot eri di amministrazione all’usufruttuario, <<la tesi positiva deve porsi il problema della responsabilità connessa ai poteri di amministrazione, e lo risolve ritenendo l’usufruttuario, al pari del socio, illimitatamente responsabile e, per le società commerciali, fallibile. Ma l’argomento utilizzat o – e cioè il fatto che l’usufruttuario concorre, con altri soci, all’esercizio dell’impresa – se costituisce la ratio della responsabilità illimitata, ancora non ne è il fondamento normativo; il quale invece è difficilmente rinvenibile nella legge >>. Neppure, secondo l’argomentazione qui sostenuta, è possibile far riferimento all’art. 2561 c.c. (che disciplina l’usufrutto di azienda), giacché in simile ipot esi l’usufruttuario risponde di debit i propri, anche se riguardant i la cosa presa in usufrutto, mentre, nel caso di usufrutto di quote sociali, egli dovrebbe rispondere dei debiti della società. In conclusione, dall’analisi casistica svolta e dalle correnti dottrinarie esaminate, è possibile affermare che, in mancanza di un espresso dato normativo, è necessario esaminare la disciplina tipica di tali società nel suo complesso. In altri termini, l’interprete dovrà verificare se siano applicabili all’estraneo quelle specifiche norme che identificano In senso contrario alle precedent i pronunce, cfr. Trib. Parma 19-01-1998, che si esprime in senso favorevole al riconoscimento all’usufruttuario dei poteri di amministrazione della società di persone, proprio in virtù dell’applicabilità dell’art. 2561 c.c. in materia di usufrutto di azienda. Nella fattispecie, il Tribunale ha accolto il ricorso proposto ex art. 2192 c.c. contro un decreto del giudice del Registro delle Imprese, che aveva rifiutato l’iscrizione di un atto costitutivo di società in nome collettivo in cui s’includevano tra gli amministratori anche due usufruttuari di quote sociali. Secondo il giudice del registro, poiché l’usufruttuario non è socio, non può essere nemmeno amministratore, in quanto altrimenti sarebbe in contrasto con il principio della responsabilità illimitata dei soci che agiscono in nome e per conto della società ex art. 2267 c.c. Il Tribunale, al cont rario, non pronunciandosi in via generale sulla qualifica di amministratore in capo a un non socio, ha ammesso nel caso specifico l’amministrazione dell’usufruttuario di quote, ritenendo di dover applicare analogicamente l’art. 2561 c.c. in tema di usufrutto di azienda. Secondo tale disposizione, infatti, la gestione dell’azienda spetta all’usufruttuario, che la deve gestire senza modificarne la destinazione e in modo da conservare l’efficienza dell’organizzazione e degli impianti; all’usufruttuario di azienda è quindi espressamente riconosciuto il potere di gestir e conseguentemente di amministrare l’azienda. Tutto ciò, in applicazione analogica dell’art. 2561 c.c., non può determinare altro che il riconoscimento anche all’usufruttuario della quota sociale il diritto all’amministrazione e gestione (parziaria) dell’azienda sociale. Il provvedimento, pertanto, afferma l’iscrivibilità al Registro delle Imprese della società in nome collettivo con usufruttuari amministratori, prevedendo inoltre, sempre per analogia con l’usufrutto di azienda, la responsabilità patrimoniale illimitata per le obbligazioni sociali sorte durante l’amministrazione. l’amministratore di società personale in senso tecnico. In particolare, l’interprete dovrà domandarsi se, ad esempio, una norma come quella all’art. 2267 c.c. possa applicarsi a un soggetto non socio. Se la risposta è affermativa, allora deve ammettersi che un amministratore estraneo sia illimitatamente responsabile. La difficoltà sorge dal fatto che per principio consolidato la soggezione alle perdite ha come giusto contrappeso la partecipazione agli utili, si dovrebbe allora affermare che anche l’amministratore estraneo ha come compenso una partecipazione agli utili. Ne consegue che, se è soggetto alle perdite della società e ha come compenso una partecipazione agli utili inevitabilmente assume la qualifica di socio. Quanto affermato porta alla conclusione che i soci non possono impegnare un terzo ad amministrare la società se non tramite la stipulazione di un contratto diverso da quello sociale. In tal modo, l’atto di amministrazione dei soci è costituito dalla decisione di conferire l’incarico al terzo, che svolgerà la propria opera professionale sempre alle dipendenze dei soci e in esecuzione di un contratto distinto da quello plurilaterale di società. Il terzo sarebbe, pertanto, non un amministratore in senso tecnico bensì un mandatario chiamato a svolgere una diversa prestazione professionale per conto dei soci. 3.2) Diritto di opposizione – formazione della volontà sociale. Ai sensi dell’art. 2257, 2° comma, c.c. ciascun socio amministratore ha il diritto di opporsi all’operazione che alt ro socio voglia compiere. Sull’opposizione è chiamata a pronunciarsi l’intera collettività dei soci (quindi anche non amministratori) che decide a maggioranza (ex art. 2257, 3°comma, c.c.). In assenza di una regola generale, sorge la questione su quale sia la modalità di adozione della decisione sull’opposizione, questione che si pone in realtà per qualsiasi manifestazione di volontà 62 . La dottrina è profondamente divisa. Secondo un primo orientamento, per la formazione della volontà sociale la sola regola generale è il sistema maggioritario - metodo 62 Nel codice, infatti, si prevede, a volte, il consenso di tutti i soci ex artt. 2252 (per le modificazioni del contratto sociale) e 2275 (per la nomina e la revoca dei liquidatori); ovvero il consenso di tutti i soci amministratori ex art. 2258, 1° comma (per l’amministrazione congiuntiva); ovvero il consenso della maggioranza dei soci ex art. 2258, 2° comma (nel caso di amministrazione congiuntiva, se così è stabilito statutariamente). Alt re volte, il legislatore prevede che la maggioranza dei soci decide ex art. 2257, 3° comma (per la decisione sull’opposizione nel caso di amministrazione disgiuntiva) o che la stessa delibera ex art. 2287 (per l’esclusione del socio). collegiale (con tutto ciò che ne consegue); altro orientamento, al contrario, sostiene che, nel silenzio della legge e del contratto sociale, la regola generale è l’unanimità e che il metodo assembleare non trova mai applicazione nelle società di persone, nemmeno là dove il codice espressamente richiede una maggioranza. Ne consegue che la volontà sociale può liberamente formarsi anche tra persone lontane, trovando piena applicazione i principi contrattuali di diritto comune. La giurisprudenza, invece, ha costantemente affermato che nelle società personali, non esistendo l’organo assembleare, la volontà sociale può formarsi in qualunque modo e senza le regole del metodo collegiale. In forte critica a quella giurisprudenza 63 affermante che assembleare deriva l’assenza dalla dell’organo mancanza di personalità giuridica nelle società di persone, autorevole dottrina sostiene che il 63 Cfr. Cass. 06-03-1953, n. 536, in cui, poggiando sul tenore letterale degli artt. 2256 e 2301 c.c. (che fanno divieto al socio di utilizzare le cose sociali o di svolgere attività concorrenziale senza il consenso degli altri soci, e non della società) si legge << nelle società di persone, le quali non hanno personalità giuridica ma solo un’autonomia pat rimoniale, non esiste l’organo sociale “assemblea” come non esiste l’altro organo “consiglio di amministrazione” proprio della società di capitali. Esiste solo una pluralità di soci, normalmente tutti amministratori, i quali deliberano liberament e, senza l’obbligo della osservanza di formalità. Quando si parla di maggioranza, si intende aver riguardo, non già ad un organo collegiale, al quale debba attribuirsi la volontà espressa dalla maggioranza dei suoi membri, bensì ad una pluralità di soci ed alla somma delle loro volontà singolarmente considerat e>>. collegamento tra collegialità e personalità giuridica non è mai stato dimostrato e non è dimostrabile64. A sostegno di tale orientamento vi è la constatazione che nell’ordinamento è possibile rinvenire l’esistenza di gruppi che, nonostante siano sforniti di personalità giuridica, si caratterizzano per la loro organizzazione collegiale interna65. Pertanto, una volta 64 VENDITTI, Collegialità e maggioranza nelle società di persone, Napoli, 1955, p. 38 e seg. Della stessa opinione è il MIRONE, il quale basa la propria argomentazione sull’assunto che il collegamento tra personalità giuridica e metodo collegiale presenta un’evidente contraddizione interna, nonché sulla considerazione che i sostenitori di detta tesi non sempre ricavano la presenza della collegialità dal presupposto della personalità giu ridica, ma il nesso in questione viene adoperato spesso in maniera approssimativa e a mero scopo esemplificativo del discorso. <<Infatti, alla teoria della personalità giuridica delle società di persone consegue una definitiva equiparazione del concetto di personalità a quello di soggettività giu ridica. (…)Nessun rapporto sussiste, invece, fra la natura di soggetto di diritto – centro autonomo d’imputazione di situazioni soggettive – e l’esistenza di determinate modalità concrete di organizzazione interna del gruppo come quelle collegiali, piuttosto che di altre prive della fase di riunione fra votanti>>, (MIRONE, Il procedimento deliberativo nelle società di persone, Torino, 1998, p. 21). 65 Nella comunione, ad esempio, pu r essendo ent e non personificato, trova applicazione il principio maggioritario, grazie al quale si realizza quell’ organizzazione minima dei rapporti tra comproprietari idonea a rendere meno precaria l’esistenza dell’istituto. Il regime della comunione, infatti, <<mostra chiaramente che il subentrare della regola maggioritaria all’originaria mancanza di disciplina implica l’abolizione o, almeno, il temperamento del potere di veto, con la conseguente disponibilità, ad opera dei più, dell’autonomia individuale, non più intangibile, per l’avvenuta sostituzione di valutazioni solidaristiche all’originario atomismo; ma tale risultato, già manifesto come tutela eliminato il collegamento tra collegialità e personalità giuridica, è possibile ammettere che anche nelle società di persone si arriva a una formazione di volontà tramite la convocazione, la riunione, la discussione con votazione finale e l’apposita documentazione. Si considera, inoltre, che pur ammettendo che la mancanza di personalità giuridica comporti l’assenza di un organo assembleare, ciò non significa che la maggioranza non debba osservare nessun tipo di onere procedimentale66. dell’interesse collettivo nella compilazione giustinianea, non importa reductio ad unum dell’elemento soggettivo, non ha il valore di riconoscimento come entità unitaria del gruppo organizzato>>, (VENDITTI, op. cit., p. 41). Secondo l’Autore, infatti, la prevalenza del volere della maggioranza non è una prova della personalità giuridica della comunione, il fatto che ci sia una volontà unitaria non significa che il gruppo possa considerarsi un autonomo soggetto di diritto. <<Può, quindi, ribadirsi che questo principio riguarda esclusivamente l’organizzazione int erna del gruppo; e non vale come riconoscimento implicito di personalità, che del resto, può aversi, secondo l’insegnamento tradizionale, soltanto con la proiezione del soggetto unitario nei confronti dei terzi>>, (VENDITTI, op. cit., p. 45). 66 <<Non è detto, infatti, che la minoranza non possa essere garant ita anche con meccanismi non assembleari, come il referendum, che comunque permettano al singolo di partecipare alle decisioni e di influenzare l’esito deliberat ivo, pur rimanendo ferma l’inesistenza di un’organizzazione collegiale del gruppo>>, (MIRONE, op. cit., p. 23 e seg.). Pertanto, se da un lato tale dottrina critica l’idea che le decisioni della maggioranza possano essere assunte senza che siano Altro argomento a sostegno del principio maggioritario quale regola generale viene dalla dottrina individuato nell’art. 2257 c.c., in cui si prevede che la maggioranza dei soci, determinata secondo la parte attribuita a ciascuno negli utili, decide sull’opposizione67. Secondo tale dottrina, seppure il legislatore non ha previsto una disciplina espressa dell’assemblea dei soci nella società semplice, è indubbio che l’ordinamento ammette la possibilità di riunioni tra soci a cui riconosce efficacia giuridica68. consultati tutti i soci, dall’altro ritiene sufficiente che i voti (di tutti i soci) siano raccolti anche informalmente utilizzando il cd. metodo del referendum che può essere un metodo totalmente informale senza un’articolazione in fasi predefinit e, quali la contemporanea informazione di tutti i soci sulla proposta di deliberazione e la fissazione di un termine per la risposta. Il profilo garantista (che vale a distinguerlo dal metodo della raccolta int erna) emerge col divieto a carico della maggioranza di dare esecuzione alla decisione se non vi è stato un confronto tra tutti i soci. 67 È il pensiero di BOLAFFI, secondo il quale <<Il principio maggioritario vale così ad imprimere alla società semplice una struttura unitaria. I poteri spettanti ai soci non vengono in considerazione isolatamente, in maniera che l’esercizio di uno di tali poteri venga ad impedire l’operazione progettata >>, ( BOLAFFI, La società semplice, Milano, 1975, p. 305). 68 A tal riguardo, il BOLAFFI, procede la propria argomentazione esaminando alcune disposizioni codicistiche, quali, ad esempio, l’art. 2252 c.c. (in base al In conclusione, tale orientamento (secondo cui è ammissibile anche nelle società personali l’applicazione del metodo collegiale, e quindi la presenza di un’assemblea, per la formazione della volontà sociale) si basa sull’idea che al principio maggioritario si lega sempre il metodo collegiale. Ne consegue la necessità di una riunione assembleare, previa convocazione di tutti i soci, discussione delle materie poste all’ordine del giorno e votazione finale. In senso opposto, ritiene altra dottrina che, non esistendo organo assembleare nelle società di persone, non può in alcun modo trovare applicazione il metodo collegiale, nemmeno in quei casi in cui è il codice stesso a prevedere espressamente una volontà a maggioranza69. quale il contratto sociale può essere modificato solo col consenso di tutti i soci) <<è sufficiente rilevare che, in virtù di questa disposizione legislativa, le parti possono validamente convenire che il contratto, col quale è stata costituita la società semplice, può essere modificato mediante una semplice deliberazione di maggioranza. In tal modo si annette pratica importanza all’assemblea dei soci, dandosi ad essa positivo riconoscimento>>, (BOLAFFI, op. cit., p. 410). In altri termini, là dove vi è principio maggioritario vi è la necessità di un’assemblea, <<il rigore del principio maggioritario – e il sacrificio che esso impone ai fini di un’efficace ed unitaria gestione sociale – deve trovare un indispensabile correttivo nella possibilità che i soci dissenzient i possano manifestare la loro opinione>>. 69 Secondo il FERRI, infatti, alla base di ogni ragionamento vi è la constatazione che le società di persone non hanno personalità giu ridica, e pertanto, non vi potrebbe essere la costituzione dell’organo assemblea (cui è strettamente collegata l’applicazione del metodo collegiale). <<Non esiste (nelle società personali), in difetto della personalità giuridica, quel part icolare Conseguentemente, nelle ipotesi in cui è prevista l’unanimità è sufficiente che sia in qualunque modo raggiunto l’accordo di tutti i soci, senza alcun onere formale. Quando, invece, è richiesta una decisione a maggioranza, questa può ritenersi adottata non appena siano stati raccolti i consensi necessari; in altri termini, è sufficiente consultare tanti soci quanti servono per la costituzione della maggioranza richiesta. Ciò, evidentemente, significa che le decisioni possono essere adottate anche all’insaputa della minoranza. Pertanto, seppure sia possibile che determinate operazioni richiedano la volontà della maggioranza, tale volontà si considera quale espressione diretta dei soci e non il risultato di una deliberazione collegiale. Argomentazione più articolata è quella secondo cui l’assenza dell’organo assembleare si giustifica non per la mancata personalità giuridica, bensì per la disciplina tipica delle società personali70. A tal riguardo, tale dottrina organo sociale che è l’assemblea dei soci e quindi non sussistono particolari requisiti affinché la volontà dei singoli possa valere come volontà sociale>>, (FERRI, Delle società di persone, in Commentario del codice civile, a cura di Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1972, p. 90 e seg.). 70 È l’ opinione del GALGANO, il quale, facendo un parallelo con il regime della comunione in cui, come già evidenziato precedentemente, è previsto il metodo assembleare (ex art. 1105, 3° comma, c.c.), ritiene che il sottolinea come alla base della previsione di un’amministrazione disgiuntiva (ex art. 2257 c.c.) vi sia l’esigenza di rapidità nella conclusione degli affari; in altre parole, nelle società di persone vige un sistema in base al quale persino il singolo socio è in grado di vincolare la società. Pertanto, seppure il legislatore richiede che sia la maggioranza a decidere sull’opposizione proposta da uno dei soci, ciò non significa che abbia aperto la strada all’applicazione del metodo collegiale, ma ha semplicemente ridotto l’ambito di applicazione del consenso unanime 71. silenzio del legislatore nell’ambito di società personali vada spiegato nell’intenzione di renderne più semplice e rapida l’amministrazione. (GALGANO, Le società in genere. Le società di persone, Milano, 2007, p. 277 e seg.). 71 In base a tale argomentazione, l’utilit à dell’applicazione del metodo collegiale nelle società personali è da escludere in virtù dell’art. 2273 c.c., in base al quale la società è tacitamente prorogata se, decorso il tempo per cui fu contratta, i soci continuano a compiere le operazioni sociali. <<E’ indubbio che la proroga della società comporti una modificazione del contratto sociale e richieda pertanto, a norma dell’art . 2252 c.c., il consenso di tutti i soci. Ma è altrettanto evidente che l’ammissibilità, legislativamente riconosciuta dall’art. 2273 c.c., di un consenso risultante da implicite dichiarazioni di volontà postuli la superfluità del metodo collegiale>> (GALGANO, op. cit., p. 286.). A dar forza a tale argomentazione vi è, inoltre, la constatazione che nel vecchio codice di commercio l’art . 96 disponeva <<la mutazione, il recesso o l’esclusione dei soci, i cambiamenti della ragione sociale, della sede o dell’oggetto della società, o dei soci che hanno la firma sociale, l’aumento o la reintegrazione del capitale, lo scioglimento anteriore al termine stabilito nel contratto, la fusione con altre società e la prorogazione oltre il termine suddetto, devono risultare, per le società in nome collettivo e accomandita semplice da espressa dichiarazione o deliberazione dei soci >>. Secondo il Prevalente in giurisprudenza è, invece, la tesi secondo cui nelle società di persone non esiste l’organo assembleare e, pertanto, non è imposto il metodo collegiale. A tal riguardo, la questione è stata affrontata spesso in merito all’ipotesi di esclusione del socio (art. 2287 c.c. )72. In breve, pensiero dell’Autore, tale disposizione era la dimostrazione dell’assenza del metodo collegiale nelle società personali, in quanto se fosse vero il contrario non vi sarebbe stato bisogno di tale previsione testuale, dal momento che il metodo collegiale implica necessariamente una deliberazione espressa. La spiegazione a questa norma, era, infatti, individuata nel successivo art. 100 cod. comm., che disponeva <<i cambiamenti dell’atto costitutivo e dello statuto, qualunque sia la specie della società, non hanno effetto, sino a che non siano trascritti e pubblicat i secondo le disposizioni dell’art. 96 >>, in altri termini, la necessità di una forma espressa si legava alla natura costitutiva della pubblicità. << Ma la pubblicità delle modificazioni dell’atto costitutivo ha, per il vigente codice civile, natura meramente dichiarativa (art. 2300, ult. cpv.): anche se non iscritte nel registro delle imprese, le deliberazioni sono oggi vincolant i per i soci e sono altresì efficaci nei confronti di quei terzi che, pu r in difetto della pubblicità legale, ne fossero venuti a conoscenza >> (GALGANO, op. cit., p. 288). 72 Cfr. Cass. 10-01-1998, n. 153. La questione, in breve, riguarda la validità della delibera di esclusione adottata nei confronti di uno dei quattro soci di una s.n.c., senza che fossero interpellati tutti i soci ma solo quelli necessari per la costituzione della maggioranza richiesta ex art. 2287 c.c. Fece opposizione contro detta delibera in primo grado il socio escluso. Il tribunale accolse il ricorso sull’assunto che seppure la convocazione dell’assemblea al fine di deliberare l’esclusione del socio può avvenire anche informalmente (e che quindi le manifestazioni di volontà possono essere raccolte anche separatamente) , vi è sempre la necessità che tutti i soci siano interpellat i. Contro tale sentenza fece appello la società, rilevando che l’interpello del socio non coinvolto nella deliberazione sarebbe stata del tutto inutile, dal momento che la delibera era stata presa dai soci che possedevano il 50% del capitale e cioè dalla maggioranza. La Corte d’Appello accolse il ricorso (ribaltando, quindi, la sentenza emessa in primo grado), rilevando che l’art. 2287 c.c. prevede solo che l’esclusione sia deliberata a maggioranza dei soci, e non anche l’interpello degli alt ri soci. Avverso tale sentenza il socio escluso propone ricorso per Cassazione, sostenendo che in base all’art. 2287 c.c. è necessario adottare una delibera, e questa impone per definizione l’adozione del metodo collegiale (quindi, la convocazione di tutti i soci). La Corte ritiene tale motivo infondato, e afferma che <<nella disciplina legale della società di persone manca la previsione dell’organo e del metodo assembleare; (…) per cui, allorquando si debba adottare la delibera di esclusione di un socio, non è necessaria la consultazione di tutti i soci, né la contestualità della manifestazione di volontà espressa attraverso una delibera unitaria, ma è sufficiente raccogliere le singole volontà idonee a formare la maggioranza, anche separatamente. (…) anche a ritenere, correttamente, che l’esclusione del socio sia atto della società (e no degli altri soci) egualmente si deve aver riguardo esclusivamente alla volontà degli altri soci, e cioè alla somma delle loro volontà individuali, e non già a quella di un organo assembleare>>. Per le Corti di merito, cfr. Tribunale Milano, 08-031999. I due ricorrenti, soci al 40% di una s.a.s., pretendono che il resistente venga allontanato definitivamente dai locali sede della società e dell’azienda in virtù dell’esecutività della delibera di esclusione ex art. 2287 c.c. Il resistente, da parte sua, eccepisce l’invalidità della decisione assunta dalla maggioranza dei soci, poiché priva dei requ isiti di collegialità. Tale delibera, infatti, risulta assunta in una riunione informale dei due soci e all’insaputa sia dell’escludendo che dell’altro socio di minoranza. Il giudice ritiene l’eccezione infondata, <<nella disciplina legale delle società di persone manca la previsione dell’organo e del metodo assembleare, cosicché non risulta necessaria per il raggiungimento della maggioranza voluta dalla legge in materia di esclusione del socio né la consultazione di tutti i soci né la contestualità della manifestazione delle volontà. È dunque sufficiente, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa del resistente, la separata raccolta delle firme necessaria a formare una maggioranza>> . Ancora in tema di esclusione del socio, la pronuncia più interessante è Cass. 06-03-1953, n. 536; in cui il socio escluso dalla società senza aver ricevuto convocazione, impugna la decisione chiedendo il risarcimento danni. La Corte rigetta il ricorso e riconosce la validità della decisione in quanto <<l’organo ciò che risulta dall’analisi casistica svolta, è che le motivazioni che inducono l’orientamento giurisprudenziale si riducono alla convinzione (accolta anche da gran parte della dottrina) che il procedimento assembleare è caratteristico assemblea non può esistere nelle società personali neanche nei casi in cui il contratto sociale prevede che il consenso dei soci sia dato in un’assemblea e che si debbano seguire determinate modalità di convocazione e deliberazione: in tale ipotesi si ha soltanto la previsione contrattuale di una determinata forma per la manifestazione della volontà dei soci, e non la creazione dell’organo assembleare >>. Ma l’aspetto più interessante di tale motivazione si ha nel momento in cu i la Corte afferma che <<il procedimento di esclusione è configu rato sul tipo dei procedimenti monitori, nei quali è invertita l’iniziat iva del contraddittorio, essendo rimessa a quella parte che normalmente è la convenuta. Così l’art. 2287 demanda agli alt ri soci di deliberare a maggioranza, di numero e non di quote, la esclusione; dispone che la deliberazione sia comunicata al socio escluso; attribuisce a questo la potestà di proporre opposizione davanti al tribunale nel termine di trenta giorni dalla comunicazione; differisce l’efficacia della deliberazione fino alla scadenza del detto termine e dà facoltà al giudice di sospenderne l’esecuzione. Come nei procedimenti monitori previsti dal codice di rito il provvedimento è preso inaudita altera parte e il contraddittorio si instaura con la opposizione. Siffatto procedimento garantisce nel modo più ampio i diritt i del socio escluso, perché gli consente di far decidere dal giudice se esisteva o meno una causa di esclusione e di far sospendere l’esecu zione del provvedimento per tutto il corso del giudizio. Esso perciò rende superflua una preventiva disputa tra l’escludendo e gli altri soci, che sarebbe inutile e spesso inopportuna. (…) L’esclusione deve essere comunicata al socio escluso. Se fosse prevista la convocazione di lui all’adunanza la legge prevedrebbe, almeno come possibile, se non anche come frequente, la presenza del socio escluso alla deliberazione e quindi limiterebbe l’obbligo della comunicazione ai soli casi in cui sia mancata tale presenza. Essa invece impone in ogni caso la comunicazione statuisce che senza di essa il provvedimento non produca mai effetto, dimostrando così di presupporre sempre l’assenza del socio>>. delle persone giuridiche, pertanto, non possono esservi organi in senso tecnico nelle società di persone73. Tale convinzione talvolta è espressa in forma più attenuata, quando si afferma che nelle società di persone non è obbligatorio il metodo assembleare, senza tuttavia escludere la possibilità statutariamente per i soci l’esistenza di di prevedere un simile organo 74. 73 Cfr. ancora a Cass. 06-03-1953, n. 536, in cui s i legge che <<nelle società di persone, le quali non hanno personalità giu ridica ma solo un’autonomia patrimoniale, non esiste l’organo sociale “assemblea” come non esiste l’altro organo “consiglio di amministrazione” proprio della società di capitali. Esiste solo una pluralità di soci, normalmente tutti amministratori, i quali deliberano liberamente, senza l’obbligo della osservanza di formalità. Quando si parla di maggioranza, si intende aver riguardo, non già all’organo collegiale, al quale debba attribuirsi la volontà espressa dalla maggioranza dei suoi membri, bensì ad una pluralità di soci ed alla somma delle loro volontà singolarmente considerate>>. 74 In tal senso cfr. Cass. 07-06-2002, n. 8276. in cui la Corte afferma che pur essendo il regime decisionale delle società semplici caratterizzato dalla sufficienza di una semplice somma di consensi anche non contestuali, non è tuttavia vietato ricorrere al metodo assembleare. Nella pronuncia si legge infatti che << la mancata normativa di un organo assembleare nelle società di persone non comporta che ne sia, per ciò solo, vietata la costituzione, e che sia preclusa ai soci qualora questi siano chiamati ad esprimere il proprio consenso nelle materie di cu i agli artt. (…) la possibilità di riunirsi in assemblea per deliberare, appunto, ai sensi delle norme citate, all’unanimità ovvero a maggioranza. Ne consegue che l’adozione del metodo assembleare per le deliberazioni sociali da ritenersi del tutto legittimo – comporta che, quanto alla disciplina delle validità/invalidità di tali atti deliberativi, debba farsi applicazione dei principi generali sulle patologie degli In merito, poi, all’altra questione se, nel silenzio della legge e del contratto, la regola generale sia quella dell’unanimità o della decisione a maggioranza, non sono state rilevate pronunce interessanti75. atti negoziali plurisoggett ivi (esclusa per converso, l’applicabilità degli artt. 2377 e 2379, dettati con specifico riferimento alle sole delibere delle società per azioni), di talché, dalla eventuale violazione di norme imperative (quale quella di cui all’art. 2252 c.c., specificativa del principio generale di immodificabilità del contratto senza il consenso di tutti i contraenti) discende senz’altro la nullità della delibera societaria, ex art. 1418 c.c.>>. Tale pronuncia sorprende non tanto per il suo contenuto, quanto per il contesto in cu i è stata presa, nella fattispecie il socio accomandante di una s.a.s. impugna una deliberazione con cui l’assemblea aveva autorizzato l’accomandatario ad un’operazione contrastante con lo statuto sociale. La questione, infatt i, era se dopo il deliberato scioglimento della società si potesse deliberare, non all’unanimità, la vendita dell’unico cespite sociale, come atto di gestione (effettuabile qu indi dal socio accomandatario) in evidente contrasto con l’art. 2275 c.c. (che prevede la necessità di nominare all’unanimità un liquidatore). In realtà, il caso non riguardava propriamente la questione sulla legittimità del metodo assembleare nelle società di persone, ma l’assenza del potere per i soci di decidere su un’operazione che, essendosi sciolta la società, non era di loro competenza. Il principio affermato è, inolt re, sicuramente corretto anche se potrebbe ritenersi ovvio; non sarebbe possibile, infatt i, negare ai soci (qualora vogliano) il potere di riunirsi e discutere su alcune questioni. 75 È possibile citare la sentenza del Trib. Napoli, 17-07-1996. (Non è chiaro il fatto) in tale pronuncia si legge che << è legittima e non contrasta coi principi fondamentali in materia societaria la clausola statutaria che richiede la maggioranza del novanta per cento del capitale sociale per l’approvazione delle deliberazioni che non comportino modifiche dei patti sociali>>. Secondo il t ribunale, quindi, una simile clausola non contrasta con il regime delle società personali (nella fattispecie una s.n.c.) che risulta anzi derogabile (ad es. vi In conclusione, alla luce dell’analisi dottrinale e giurisprudenziale svolta sul tema, risulta condivisibile il principio per cui tali società, non avendo la personalità giuridica, non possono costituire un organo assembleare in senso tecnico (così come si ha nelle società di capitali). Risulta altrettanto pacifico riconoscere ai soci la possibilità di introdurre, con apposita clausola, il metodo assembleare (senza che ciò comporti la creazione di un vero e proprio organo collegiale) per tutte o solo alcune decisioni. Il profilo che sembra suscitare maggiore interesse è, invece, quello concernente l’ambito di applicazione del principio maggioritario o dell’unanimità nel silenzio della legge e contratto sociale. A tal riguardo, sembra preferibile non impostare la questione in termini astratti e generali, ma sarebbe opportuno valutare nel caso concreto, secondo le regole contrattuali, se la previsione statutaria possa ledere, senza alcuna giustificazione, gli interessi delle parti. è l’art. 2257 c.c., che prevede la derogabilità del principio di amministrazione disgiuntiva). 3.3) L’azione sociale di responsabilità degli amministratori. Pur prevedendo all’art. 2260, 2° comma, c.c. che << gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale>> , il legislatore non ha dato elementi precisi volti a regolare l’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori di società personali. Si pone, pertanto, il problema dell’individuazione del soggetto legittimato all’esercizio di detta azione. Sulla base di tali premesse, vi sono diverse teorie dott rinarie che affrontano la questione sostenendo, da un lato, che l’azione sociale di responsabilità possa essere promossa solo da chi ha la rappresentanza legale della società (ossia gli altri amministratori). Pertanto, i soci non amministratori dovrebbero revocare o, qualora vi siano i presupposti, escludere dalla società il socio amministratore e nominarne uno nuovo che possa esercitare l’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’ex amministratore. Dall’altro lato, si sostiene che anche i singoli soci possano esperire l’azione sociale ex art. 2260 e 2393 c.c. Usando esclusivamente il tema della soggettività, la giurisprudenza ha, invece, costantemente affermato che l’azione sociale di responsabilità spetta al socio amministratore in quanto rappresentante la società. La stessa giurisprudenza, come si vedrà, ha anche affermato in principio di diritto una legittimazione attiva concorrente del socio che agisce esclusivamente per la ricostituzione del patrimonio sociale (c.d. uti socius), e non per il risarcimento del danno da lui singolarmente subito. Dalla tesi secondo cui l’azione sociale di responsabilità spetta solo alla società per mezzo del suo legale rappresentante consegue che solo la società, quale centro autonomo di imputazione di diritti e doveri, può agire contro chi le ha causato un danno. Pertanto, a fronte di un comportamento illegittimo degli amministratori la società può agire nei loro confronti per mezzo del suo legale rappresentante, ossia gli altri amministratori (in caso di amministrazione congiuntiva) o il singolo socio amministratore (in caso di amministrazione disgiuntiva)76. 76 In tale contesto vengono in rilievo le posizioni sostenute da GIANNATTASIO e DI SABATO. Secondo GIANNATTASIO, non è condivisibile la posizione di chi afferma che anche il singolo socio (in alternativa all’amministratore rappresentante la società) possa agire nei confronti dell’amministratore. In risposta a questa tesi, che prende le mosse dalla considerazione che l’interesse del socio è comunque legato a quello della società e pertanto è autorizzato ad agire verso ogni alt ro socio per una causa sociale, l’Autore ritiene al contrario che <<la legittimazione del socio, come tale, non sarebbe neppu re configu rabile sotto il profilo di un’azione surrogatoria (art. 2900 c.c.) diretta a riportare nelle casse sociali quei beni che la società trascuri di tutelare, perché il socio è soltanto un possibile, eventuale creditore (art. 2282 c.c.)>>, (GIANNATASIO, Legittimazione del singolo socio della società in nome collettivo ad agire, nell’interesse della società, contro il socio amministratore infedele, in Giust. civ., 1960, p. 1263). Secondo l’Autore, infatti, nell’ipotesi in cui l’amministratore abbia recato danno alla società la sola possibilità per il socio (non rappresentante) è promuovere l’azione di revoca per giusta causa (ex art. 2259 c.c.), <<una volta revocato l’amministratore (eventualmente escluso dalla stessa società) quello che è chiamato a sostituirlo agirà, nei nomi della società, contro il socio o cont ro l’ex socio infedele >>, (GIANNATTASIO, op. cit., p. 1263. Critica tale posizione il DI CHIO, L’azione sociale di responsabilità nelle società personali: legittimazione del singolo socio ad esperirla?, in Giur. comm., 1981, II, p. 99, n. 31; il quale ribatte <<si pensi all’ipotesi di un amministratore nominato con il contratto sociale per cui, di fronte ad una sua resistenza, occorrerebbe dimostrare giudizialmente l’esistenza della giusta causa: solo dopo la conclusione del giudizio, e in caso positivo, potrebbe essere esperita l’azione sociale contro l’amministratore. O all’ipotesi di una società di due soci, per cui occorrerebbe la nomina di un cu ratore speciale>>). La stessa dottrina conclude affermando, inoltre, che l’amministratore infedele non potrebbe mai accusare gli altri soci per <<l’amministratore, la loro mancata vigilanza, che è tenuto all’osservanza delle regole del mandato risponde al pari del mandatario infedele e, seppure la legge prevede un cont rollo da parte dei soci, ipotizza un diritto, non un dovere, per cui se gli altri soci non eseguono il cont rollo e si rimettono alla presunta diligenza ed onestà del socio amministratore, costui non potrà farsi un’arma della fiducia in lui riposta, da usare nei confronti di coloro che egli ha ingannato e non pot rà, quindi, sfuggire alla sua responsabilità>>. Della stessa opinione è DI SABATO, secondo il quale la sola legittimata a far valere l’azione di responsabilità ex art. 2260, 2° comma, c.c. è la società. <<Ciò vale a dire che – indipendentemente dal problema della personalità giuridica delle società di persone – l’azione dovrà essere esperita dagli altri soci amministratori, sempre che abbiano la rappresentanza legale della società, e pertanto non uti singuli, ma nella Tale argomentazione poggia essenzialmente sul riconoscimento di una soggettività delle società personali77. È bene, infatti, ricordare come sotto molti aspetti il legislatore sembra aver valorizzato la distinzione di fatto esistente tra soci e società personale. Si pensi, ad esempio, all’art. 2266, 1° comma, c.c. in cui è stabilito che la società sta in giudizio nella persona dei soci che la rappresentano; ovvero alla condizione di autonomia patrimoniale riconosciuta anche alle società semplici (ex artt. 2268 e 2270 c.c.). E’ possibile considerare, inoltre, sia la disposizione contenuta all’art. 2659, n.1, c.c. in cui si riconosce alla società semplice la possibilità di effettuare acquisiti immobiliari e risultarne intestataria dagli appositi registri, sia, in ultimo, l’art. 2267 c.c. il quale, in relazione alla responsabilità per i debiti sociali, prevede la possibilità per i soci non rappresentanti di limitare la loro responsabilità personale. Tale posizione va, tuttavia, ad affievolirsi con riguardo al riconoscimento della qualità e in nome del gruppo: scopo dell’azione è infatti la reintegrazione del patrimonio sociale mediante il risarcimento del danno prodotto dal responsabile>>, (DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1992, p. 133). 77 Posizione dominante. adottata dalla giurisprudenza legittimazione processuale passiva della società. A tal riguardo, domina la tesi secondo cui per una valida instaurazione del contraddittorio nei confronti di una società personale è sufficiente citare in giudizio tutti i soci, in cui la società stessa si esaurisce 78. Non sono mancati, tuttavia, in dottrina i sostenitori della tesi avversa secondo cui, in alternativa agli amministratori, anche il singolo socio può esercitare l’azione sociale di responsabilità contro l’amministratore. Secondo tale orientamento, non si ritiene possibile affermare che il socio di società personale non sia mai legittimato a proporre domanda di risarcimento per i danni causati dalla cattiva gestione di un amministratore79. A 78 Cfr. Cass. 05-04-2006, n. 7886; cfr. anche a Cass. 23-05-2006, n. 12125 in cui è precisato che la semplice evocazione in giudizio di tutti i soci non è di per sé sufficiente se non risulta, dall’interpretazione della domanda giudiziale, la volontà di citare in giudizio la società. 79 Il DI CHIO, identifica anzitutto una responsabilità dell’amministratore verso il singolo socio o terzo, il quale, qualora subisca un danno diretto dall’illegittimo comportamento dell’amministratore, può esperire nei suoi confronti un’azione di responsabilità. <<Né credo che in tal caso vi sia bisogno di applicare per analogia la norma dell’art. 2395 c.c., poiché questo tipo di azione trova il suo fondamento nei principi generali della responsabilità aquiliana>>, (DI CHIO, L’azione sociale di responsabilità nelle società personali: legittimazione del singolo socio ad esperirla?, in Giur. comm., 1981, II, p. 92) . Con riferimento, poi, alla specifica questione su a chi competa l’azione prevista dall’art. 2260, 2° comma, c.c., l’Autore basa la propria sostegno di tale argomentazione vi è anzitutto la considerazione che le società personali, pur avendo indubbiamente un’autonomia patrimoniale e una capacità processuale, non hanno personalità giuridica e la società non è un nuovo soggetto completamente distinto dalle persone dei soci che la compongono 80. Ne consegue che i soci sono i soli contitolari dei rapporti giuridici facenti capo al gruppo, pertanto, in una società personale ciascun socio (c.d. uti socius), in virtù della contitolarità dei diritti sociali, è legittimato ad agire in giudizio per farli valere. Ciascun socio può quindi legittimamente esperire l’azione sociale di responsabilità per ottenere la restaurazione argomentazione evidenziando le evidenti difficoltà cui porterebbe l’applicazione della drastica tesi in base alla quale la sola legittimata è la società. Riprendendo, infatt i, una serie di esempi già elaborat i dal GHIDINI, l’Autore ritiene che <<ad ammettere che l’azione possa venir esercitata solo dal socio che abbia la rappresentanza legale della società, che accadrebbe in una società di due soci di cui uno solo sia amministratore? O in una società di tre soci, di cui due amministratori entrambi inadempienti? O in una società in accomandita semplice con un solo socio accomandatario? >> (DI CHIO, op. cit., p. 96). 80 <<L’autonomia patrimoniale va riconosciuta nei limiti in cui la legge la pone; ed è ancora in questi limit i che va ricostruito il contenuto della soggettività giuridica riferita alle società di persone. (…) In alt ri termini: io credo che la veste di soggetto di diritto debba essere riconosciuta anche alle società di persone, ma purché si ammetta che esse sono delle mere contitolarità qualificate dalla particolare destinazione allo scopo>>, (DI CHIO, op. cit., p. 97 ). del patrimonio sociale e non, ovviamente, il risarcimento del danno subito individualmente uti singulus81. 81 <<Quindi, se il patrimonio sociale soffre un danno a causa dell’illegittimo comportamento doloso o colposo dell’amministratore, non solo il gruppo (società) ma anche ogni singolo membro del gruppo subisce direttamente il danno e come tale è pienamente legittimato, nell’int eresse e a tutela della società, a promuovere l’azione sociale di responsabilità verso l’amministratore (…) per il danno cagionato al patrimonio sociale >> (DI CHIO, op. cit., p. 98). Dello stesso avviso è il GHIDINI, secondo il quale il legislatore non ha attribuit o alla società un diritto autonomo rispetto a quello che compete al socio in quanto tale (ossia contitolare del pat rimonio sociale). A sostegno della propria argomentazione, l’Autore illustra come a voler seguire l’opposta tesi (secondo la quale l’azione sociale di responsabilità può essere esercitata solo da chi ha la rappresentanza della società) ne conseguono delle illogiche conseguenze, <<secondo questa tesi atteso il conflitto di interessi (le posizioni di rappresentante e di amministratore di solito coincidono), occorrerà dapprima revocare (per l’amministratore-rappresentante, giusta causa) per far agire quest’ultimo. Ma se l’amministratore revocando era stato nominato col contratto sociale, per ottenerne la revoca dovrebbe venir giudizialmente, dimostrata di la fronte giusta alla causa, resistenza dell’amministratore in questione; così l’azione di responsabilità pot rebbe proporsi solo dopo la conclusione del giudizio sulla sussistenza o meno della giusta causa di revoca>> (GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 430, nota 256). Secondo tale dottrina non vi è, poi, nessun contrasto tra l’art. 2260, 2° comma, In conclusione, alla base dei due opposti orientamenti appena esaminati vi è la questione del riconoscimento o meno della soggettività nelle società personali. Tuttavia, non manca chi ritiene di risolvere la questione prescindendo da tale aspetto82. Secondo quest’ultima indipendentemente dal dottrina, infatti, riconoscimento o meno di una soggettività alle società di persone, gli amministratori sono comunque responsabili per una corretta gestione sia nei confronti della società che dei singoli soci. Si ritiene, pertanto, necessario individuare quale sia la normativa applicabile all’azione di responsabilità verso gli amministratori e verificare l’applicabilità analogica di quella tipica prevista per gli amministratori di s.p.a.83 c.c. e la tesi per cui l’azione di responsabilità compete ad ogni socio. La disposizione in esame, infatti, va intesa nel senso che il risultato dell’azione è quello di realizzare la responsabilità dell’amministratore verso la società al fine di ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale. 82 PAPA, La responsabilità degli amministratori di società personali, in Dir. e giur., 1996, p. 436. 83 Cfr. Cass. 10-03-1992, n. 2872, in cui si ammette l’applicazione analogica dell’art. 2395 c.c. alle società personali; << in tema di società di persone in liquidazione, mentre legittimato ad esperire l’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori, a norma dell’art. 2260 c.c., è esclusivamente il liquidatore, va in ogni caso A tal riguardo, la stessa dottrina sottolinea come affinché il socio o il terzo possano agire autonomamente (ex art. 2395 c.c.), vi deve essere << un’attività amministrativa obiettivamente contraria all’ufficio e generata proprio nell’ambito del normale esercizio dell’ufficio stesso, nonché l’esistenza di un nesso giuridico causalmente rilevante con il danno direttamente cagionato al soggetto legittimato ad agire>>84; conseguendone, inevitabilmente, una scarsità applicativa a causa della difficoltà ad individuare la diretta lesione di singoli interessi del socio o di un terzo. A fronte di tali considerazioni, si pone la questione se alla disciplina della responsabilità degli amministratori di società personali siano applicabili altre norme specifiche e più adatte rispetto all’art. 2395 c.c. In particolare, per la soluzione del problema sembra potersi riferire ai principi generali previsti in tema di mandato riconosciuta al socio (o al terzo), direttamente danneggiato da atto colposo o doloso dell’amministratore, in applicazione analogica dell’art. 2395 c.c., l’azione individuale di responsabilità; tale strumento difensivo deve riconoscersi anche al socio coammministratore, quando viga il regime di amministrazione disgiuntiva, se l’affermazione di responsabilità sia chiesta dal soggetto danneggiato nella sua veste di socio, relativamente ad atti di amministrazione per intero compiuti da alt ro coammministratore>>. 84 PAPA, op. cit., p. 436. in virtù dell’esplicito richiamo contenuto all’art. 2260 c.c.85 Secondo tale argomentazione, quindi, non è necessario ricorrere all’applicazione analogica dell’art. 2395 c.c. (norma idonea ad una struttura sociale totalmente diversa) poiché il richiamo alla disciplina del mandato risulta di per sé un idoneo quadro normativo di riferimento per dell’amministratore la di responsabilità società personale. Quest’ultimo, infatti, pur non essendo un diretto mandatario del singolo socio, è sempre tenuto ad una gestione ispirata al mantenimento del patrimonio sociale nonché alla sua fruttificazione. Venendo ora ad un’analisi casistica sulla questione, la giurisprudenza appare decisa nel riconoscere la legittimazione attiva anzitutto al socio amministratore che si sia dimostrato esente da colpa, ma afferma anche, in principio 85 Riferendosi, poi, alla natura di tale responsabilità, l’Autore afferma che, essendo di tipo contrattuale, questa si fonda sui due presupposti della colpa e del danno; <<Con riferimento al primo, va comunque rilevato che esso andrà provato ad opera dei soci attori. In particolare, sarà necessario dimostrare la contrarietà di uno o più atti dell’amministratore agli ordinari principi di diligenza nella corretta gestione della società ed individuare il nesso causale tra tale atto ed il danno arrecato alla società stessa. Il danno, poi, si manifesta, su un piano eziologico, quando il frutto di una determinata scelta, non conforme a criteri di diligenza, lede le posizioni patrimoniali della società in termini di mancato conseguimento di vantaggi e di produzione di perdite>> (PAPA, op. cit., p. 438). di diritto, che vi sia una legittimazione concorrente del singolo socio che agisce in favore dell’interesse sociale. In altri termini, si riconosce una legittimazione attiva concorrente del socio che agisce esclusivamente per la ricostituzione del patrimonio sociale (c.d. uti socius), e non per il risarcimento del danno da lui singolarmente subito. A tal riguardo, va rilevato che spesso nel caso concreto la legittimazione del socio, tanto affermata in diritto, viene poi negata nel merito poiché dal contenuto delle domande attoree l’azione risulta esercitata uti singulus, ossia diretta al risarcimento dei danni subiti e non alla reintegrazione del patrimonio sociale86. 86 Cfr. a Trib. Milano, 11-09-2003. L’ unica socia accomandante di una s.a.s. agisce in giudizio per chiedere la condanna dell’unica socia accomandataria (amministratrice) poiché quest’ultima, appena pochi mesi dopo la costituzione della società, l’aveva di fatto risolta con la conseguente cessazione di ogni att ività. L’attrice chiede, quindi, la condanna dell’amministratrice alla restituzione del proprio conferimento in società, al rimborso delle spese notarili sostenute per la costituzione, all’attribuzione dei dividendi mai percepit i, e chiede, inoltre, il risarcimento del danno sostenendo un illecito arricchimento della convenuta per aver trafugato della merce di valore dalla società per poi rivenderla a terzi. Per quanto riguarda le domande relative alla restituzione dei conferimenti, delle somme versate per la costituzione e dell’attribuzione dei dividendi mai percepit i, queste vengono respinte dal Tribunale per carenza di legittimazione passiva della convenuta <<dal momento che tale richiesta – inerendo ai rapporti sociali – doveva essere proposta nei confronti della società e non dell’amministratrice in proprio>>. Per quanto riguarda, poi, la generica richiesta di risarcimento per danno emergente e lucro cessante, il Tribunale ritiene, in via generale, che <<per giurisprudenza costante la legittimazione ad esperire l’azione sociale di responsabilità cont ro gli amministratori di società di persone cioè l’azione volta ad ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale depauperato dal comportamento illegittimo degli amministratori, compete alla stessa società e non ai singoli soci. (…) Tale legittimazione principale non può escludere la legittimazione concorrente dei soci, quando essi intendano agire non singolarmente per la tutela di un diritto individuale, ma nella loro qualità di soci (uti socius) allo scopo di ottenere il risarcimento del danno in favore del pat rimonio sociale. (…) Dunque, se si riconosce al singolo socio, in ragione della con titolarità dei rapporti giuridici che fanno capo al gruppo, la legittimazione ad esperire le azioni rivolte alla salvaguardia del pat rimonio sociale, è indispensabile però che nell’esercizio dell’azione di responsabilità proposta contro l’amministratore infedele venga fatto valere l’interesse al risarcimento del patrimonio sociale comune. Nel caso di specie la parte attrice non ha agito in nome della società (di cui non aveva la legale rappresentanza) né ha fatto valere l’interesse al risarcimento del patrimonio sociale, dal momento che ha chiesto espressamente la condanna della convenuta al risarcimento del danno da lei direttamente arrecato per mala gestio nonché per la merce trafugata>>. La sentenza si conclude con la classificazione della domanda attorea ai sensi dell’art. 2395 c.c., ma nella fattispecie si ritiene che non è stata fornita la prova degli addebit i mossi alla convenuta e né di un danno provocato direttamente all’attrice. Nel caso appena esaminato, quindi, il Tribunale afferma in linea di principio la legittimazione ad agire per il singolo socio purché lo faccia nell’interesse della società. Tuttavia, è necessario notare come nel caso di specie è in rilievo il rapporto tra i soci, non è tanto un problema di amministrazione quanto un problema di contratto (in base al quale i soci delegano l’amministratore di gestire il patrimonio comune). Di non semplice definizione è, invece, la decisione pronunciata dal Trib. Milano, 31-05-2001. Il fatto, in breve, riguarda l’azione giudiziaria promossa dall’acquirente delle azioni di una s.p.a. (partecipante in una s.a.s.) a causa degli atti di spoliazione del patrimonio sociale compiuti dagli amministratori nel periodo intercorrente tra l’acquisto delle azioni e la loro effettiva girata all’acquirente. Una volta ottenuta la declaratoria di invalidità dei suddetti atti (tra cui la cessione della partecipazione in una s.a.s., considerata il cespite di maggior rilevanza presente nel pat rimonio della s.p.a., e detenuta da questa in qualità accomandante), il nuovo organo amministrativo della s.p.a. (ritenendo che dalla detta pronuncia ne derivasse il ripristino della propria qualità di socio accomandante) deliberava la revoca del socio accomandatario dalla carica di amministratore nominandone uno provvisorio. Si chiedeva, inoltre, la declaratoria giudiziale di nullità o annullamento degli atti posti dal socio accomandante della s.a.s. (cui era stata ceduta la partecipazione), in virtù della declaratoria di nullità della cessione della partecipazione, nonché la condanna in solido dell’apparente accomandante e dell’accomandatario al risarcimento dei danni subiti dal vero accomandante e dalla società. Pertanto, il giudice, a fronte della domanda mossa sia dall’accomandante (s.p.a.), sia dalla società (s.a.s.), osserva che <<le singole richieste risarcitorie hanno tutte per presupposto la violazione degli specifichi obblighi di gestione propri dell’amministratore e sono finalizzate alla reintegrazione del patrimonio sociale depauperatosi in conseguenza degli atti di mala gestio; dunque la domanda va giuridicamente qualificata come azione sociale di responsabilità contro l’infedele amministratore, azione i cui principi, dettati in materia di società di capitali, valgono anche per le società di persone>> . In base a quanto detto, in adesione alla giurisprudenza maggioritaria, tale sentenza afferma che <<per quanto concerne le società di persone (al pari delle società di capitali), solo la società, e non il singolo socio, è legittimata all’azione volta ad ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale; tale azione pertanto può essere esercitata in giudizio solo da chi abbia la rappresentanza legale della società, e dunque dall’amministratore, mentre l’eventuale concorrente legittimazione dei singoli soci potrà ricorrere nell’ipotesi in cui il potere di amministrare e rappresentare la società competa a ciascuno di questi e purché – comunque – il singolo socio agisca uti socius, onde ottenere il risarcimento del danno in favore del patrimonio sociale, e non uti singulus, al fine cioè di reintegrare il proprio patrimonio personale, sussistendo in quest’ultimo caso solo la legittimazione del socio ad esercitare l’azione individuale di responsabilità di cui all’art. 2395 c.c., norma questa pure applicabile alle società di persone>>. In base a quanto detto, la sentenza si conclude riconoscendo la legittimazione ad esperire l’azione sociale di responsabilità alla sola s.a.s. e non anche al socio accomandante (s.p.a.). Cfr. in ult imo a Trib. Alba, 10-02-1995. L’attrice, socia non amministrat rice di una società semplice partecipante in una s.a.s. in qualità di accomandant e, conviene in giudizio gli amministratori di entrambe le società chiedendo la condanna al risarcimento dei danni da lei subiti a causa della cattiva gestione sia della società semplice che della s.a.s. Gli amministratori, convenut i, eccepiscono il difetto di legittimazione dell’attrice a proporre azione nei confronti della gestione della s.a.s. dal momento che non ne è socia direttamente ma tramite una distinta società. L’attrice replica che, essendo le società di persone prive di personalità giuridica, il socio di società a sua volta socia di altra società, è legittimato ad agire nei confronti di atti dannosi compiuti dagli amministratori della società partecipata risultati lesivi per il patrimonio della società partecipant e. In via di principio, il tribunale ha riconosciuto al socio non amministratore la legittimazione ad esercitare l’azione di responsabilità a patto che tale azione abbia il solo scopo di reintegrare il patrimonio sociale leso dalla mala gestio degli amministratori. In tale sentenza si afferma, infatti, che <<l’assenza di un qualunque meccanismo previsto dalla legge, finalizzato a disciplinare la manifestazione di volontà della collettività dei soci diretta ad esercitare l’azione, in una con il rilievo che l’azione non può essere esercitata da uno dei coamministratori (in quanto responsabile solidale con l’amministratore convenuto), porta a concludere che l’azione possa essere esperita dal singolo socio>>. Tuttavia, nel caso di specie, il tribunale (desumendo dal contenuto della domanda che l’attrice abbia agito uti singulus) ritiene che l’azione esperita sia volta al fine di ottenere la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni in proprio favore, <<deve pertanto ritenersi che l’attrice abbia esperito l’azione individuale ex articolo 2395 , codice civile, che spetta anche al socio della società di persone>> . In base a quanto detto, il tribunale osserva come presupposto per l’applicabilità dell’art. 2395 c.c. è che il danno lamentato dal socio sia diretto, e rileva nel merito che gli episodi lamentati attengono esclusivamente alle gestione della s.a.s. e non possono pertanto ritenersi causa di danno diretto né per il patrimonio della società semplice e né per quello personale dell’attrice. Pertanto, la sentenza si conclude rigettando la domanda attorea per difetto di uno degli elementi costitutivi della domanda, senza pronunciarsi sulla questione di legittimazione in quanto assorbita. In tutti e tre i casi, visto l’atteggiamento favorevole in giurisprudenza, i soci avrebbero probabilmente avuto sorti migliori inquadrando le loro azioni nell’art . 2260 (agendo, qu indi, in favore del solo patrimonio sociale e non anche per il risarcimento del danno subito pro quota) anziché nell’art. 2395 c.c. In quanto, avrebbero ottenuto ristoro indirettamente già dalla reintegrazione del patrimonio sociale. Non si dubita, ovviamente, della possibilità per il singolo socio di agire uti singulus nei confronti dell’amministratore per ottenere il risarcimento di danni subiti direttamente sul patrimonio personale87. 87 Cfr. Trib. Milano, 16-04-1992. Tale sentenza aderisce totalmente all’orientamento secondo cui anche le società di persone sono dotate di una loro soggettività. Pertanto, essendo autonomi soggetti di diritto, <<ne consegue che i soci uti singuli, a norma della disposizione prevista dall’art. 2260 c.c., non sono legittimati all’azione di responsabilità sociale, la quale può essere fatta valere dalla società in via esclusiva, perché ogni azione per la reintegrazione del pat rimonio sociale spetta alla società, cioè può essere fatta valere soltanto da quello tra i soci che abbia la rappresentanza legale dell’ente>>. In breve il fatto: uno dei tre soci di una s.n.c. propone domanda giudiziale per far valere la responsabilità del socio amministratore unico, accusandolo di aver commesso gravi irregolarità nella gestione sociale causando un grave danno sia per la società che per i singoli soci, chiedendo, inoltre, il risarcimento di tutti i danni da lui personalmente subiti. A fronte di tale richiesta il Tribunale afferma che <<l’inadempimento da parte dei soci amministratori dei doveri da essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo può costituire causa di responsabilità degli amministratori sia nei confronti della società, sia nei confronti dei singoli soci o dei terzi danneggiati>>. Sulla base di tale argomentazione, il Tribunale osserva, inolt re, come non sia dubitabile che il singolo socio possa proporre un’azione di responsabilità contro l’amministratore diretta alla tutela di un suo personale int eresse. Detta azione è, infatti, ricondu cibile a quella generale prevista per il risarcimento del danno causato da fatto illecito ex art. 2043 c.c. In conclusione, secondo tale pronuncia, <<il socio ed il terzo, quindi, sono ammessi ad agire nei confronti degli amministratori, alla condizione che questi abbiano cagionato un danno che colpisce direttamente il patrimonio del socio stesso o del terzo, ment re il danno individuale lamentato non deve costituire una semplice ripercussione economica di un danno provocato al patrimonio sociale, e a causa della violazione dei soli doveri che la legge e l’atto costitutivo impongono agli amministratori verso la società>>. Cfr. anche a Cass. 28-03-1996, n. 2846, (non risulta chiaro il caso) in cui si legge che <<Le società di Nelle società pacificamente personali ammessa è, infatti, l’applicazione analogica dell’art. 2395 c.c. sulla base della considerazione che tale disposizione non va identificata come un principio originale introdotto nell’ordinamento esclusivamente per le società di capitali, ma è in realtà un’applicazione, in ambito societario, della più generale disciplina della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.88. persone, anche se non riconosciute quali persone giuridiche, costituiscono pur sempre un centro di imputazione di situazioni giuridiche distinte da quelle dei soci. nelle società di persone è configurabile una responsabilità degli amministratori nei confronti dei singoli soci, oltre che verso la società>>. Secondo l’argomentazione sostenuta dalla Corte non ha rilievo il fatto che nell’art. 2260 c.c. non vi sia menzione della responsabilità che gli amministratori hanno nei confronti dei soci, olt re che verso la società in quanto <<il principio per cui gli amministratori sono personalmente responsabili nei confront i dei soci per i danni ad essi direttamente arrecat i con un loro comportamento doloso o colposo, specificamente stabilito dall’art. 2395 c.c. per le società di capitali, è operante anche rispetto alle società personali>> . 88 Cfr. Cass. 07-07-2004, n. 12415. Il socio di una società di fatto convenne insieme in giudizio l’alt ro socio ed il liquidatore della società. In particolare, a quest’ultimo l’attore addebitava varie inadempienze (<<in occasione della vendita dei beni sociali aveva omesso di riscuotere l’imposta sul valore aggiunto; di seguito a tale operazione non aveva svolto nessuna attività, e tuttavia protratto la liquidazione della società per olt re cinque anni; aveva omesso di presentare il rendiconto; aveva trattenuto oltre 40 milioni di lire in vista di presunte ed imprecisate spese>>) e lo accusava di aver eseguito il proprio mandato in violazione dell’obbligo di diligenza. L’attore, pertanto, chiedeva la condanna del liquidatore al risarcimento dei danni causati dalla cattiva esecuzione del mandato. Sia il Tribunale di primo grado, sia la Corte d’Appello È, infatti, possibile che dalla gestione degli amministratori di società possa derivarne un danno diretto ai singoli soci. A tal riguardo il riferimento va all’art. 2281 c.c. dove si prevede che nell’ipotesi in cui i soci abbiano conferito beni in godimento, possono agire nei confronti degli amministratori se dalla loro gestione questi si siano deteriorati o siano periti. respinsero per infondatezza la domanda dell’attore sulla considerazione che <<la domanda di risarcimento danni proposta nei confronti del liquidatore prima e dei suoi eredi oggi, rientra nello schema della responsabilità di natura extracontrattuale prevista dall’art. 2395 c.c. (riguardant e gli amministratori ma applicabile altresì ai liquidatori per il rinvio contenuto nell’art. 2276 c.c.), responsabilità che presuppone che il danno allegato non costituisca il riflesso di altro danno arrecato al patrimonio sociale ma abbia autonoma genesi e fisionomia, con ciò distinguendosi dalla responsabilità contrattuale ex art. 2393 c.c. (…) Sotto questo profilo, nessun danno specifico è stato prospettato o dimostrato dall’attore che, tutto sommato, neppure è riuscito a fornire la prova di gravi inadempienze a carico del convenuto>>. L’attore ricorre, quindi, in Cassazione la violazione e errata applicazione degli artt. 2393 e 2395 c.c. oltre che l’insufficienza e contraddittorietà della motivazione. Secondo l’ argomentazione del ricorrent e, infatti, la responsabilità del liquidatore avrebbe dovuto essere esaminata con riferimento alle norme degli artt. 2260 e 2276 c.c. Al contrario, la Corte ritiene che <<è da escludere che la Corte di merito abbia erroneamente giudicato in diritto rifacendosi, per il caso di specie, all’azione di responsabilità di cui all’art. 2395 c.c., azione che, prevista nella disciplina delle società di capitali, è tuttavia esperibile, in applicazione analogica della norma come si è detto, anche dal socio delle società personali, secondo la sua struttura di azione posta a tutela del socio direttamente danneggiato da atti dolosi o colposi del o degli amministratori >>. Sono, inoltre, individuabili alcuni diritti dei soci dalla cui violazione ne discende un danno diretto nella loro sfera patrimoniale personale89. 89 Sulla nozione di danno diretto cfr. Cass. 06-01- 1982, n. 14. Il fatto: una società di capitali, in persona dell’amministratore, aveva ceduto a due coniugi il diritto di superficie relativamente a quattro appartamenti, ancora da costruire, due al quindicesimo piano, e altri due al diciassettesimo piano di un caseggiato. Tuttavia, al momento della cessione la licenza edilizia che era stata rilasciata alla società autorizzava l’edificazioni di soli sedici piani. L’amministratore della società cedente aveva, però, dato precise assicurazioni ai due cessionari sull’avvenuto rilascio della licenza anche per il diciassettesimo piano, pertanto si concluse il cont ratto. Venuti a conoscenza della reale situazione, i due coniugi citano in giudizio sia la società (per responsabilità contrattuale), sia l’amministratore (per responsabilità extracontrattuale ex art. 2395 c.c.). L’amministratore convenuto eccepisce che nella fattispecie non vi era stato un danno diretto << infatti, se si ipot izza che l’amministratore agente sia responsabile per non aver fatto quanto era necessario affinché anche il diciassettesimo piano dell’edificio fosse inserito nella licenza, il suo comportamento costituito lesione del patrimonio sociale, di modo che i coniu gi (attori) solo indirettamente avrebbero potuto risentirne pregiudizio >>. Se le corti di merito hanno accolto la domanda azionata, la Corte di legitt imità cassa la decisione imponendo al giudice del rinvio di uniformarsi al principio secondo cui, ex art . 2395 c.c., l’amministratore di s.p.a. risponde esclusivamente del <<danno direttamente ricollegabile, con nesso di causalità immediata, alla predetta attività illecita dell’amministratore>>. Secondo l’argomentazione della Cassazione, infatti, la questione va risolta nel collegamento tra l’art. 2395 c.c. (che riconosce al socio o al terzo il diritto al risarcimento per essere stati direttamente danneggiat i da atti illecit i degli amministratori) e l’art. 1223 c.c. (che, in materia di risarcimento del danno prevede, per il creditore, la risarcibilità del danno patrimoniale sofferto che sia <<conseguenza immediata e diretta>> dell’illecito contrattuale). Dalla motivazione della sentenza ne deriva che il singolo socio o il terzo sono direttamente danneggiati quando hanno subito un danno diretto dalla condotta illecita degli amministratori; il danno diretto va In conclusione, sulla base della presente rassegna vi sono alcune considerazioni da fare. In primo luogo, sembra evidente come la tesi secondo cui la legittimazione ad agire spetta in via esclusiva al rappresentante la società (quindi, a colui che ha il potere di amministrazione), porta ad inevitabili complicazioni. Anzitutto, il possibile conflitto d’interessi che potrebbe sorgere a fronte dell’azione sociale di responsabilità da parte di un amministratore nei confronti di altro amministratore. Dall’altro lato, è possibile pensare alla situazione di stallo che si verrebbe a creare, ad esempio, in una accomandita semplice che abbia, come spesso accade, un inteso come conseguenza immediata e diretta (ex art. 1223 c.c.). In altri termini, alla base della decisione vi è la distinzione t ra danno diretto e danno riflesso, pertanto, afferma la Cort e <<spetta al giudice di rinvio accertare quale danno fra quelli dedott i dai coniugi nel giudizio di merito, possa essere ritenuto conseguenza diretta del fatto illecito addebitato all’amministratore personalmente e possa quindi, per il risarcimento, essere posto a carico di lui a titolo di responsabilità extracontrattuale. (…) Il giudice del rinvio si atterrà al seguente principio di diritto: tenuto conto della natu ra extracontrattuale della responsabilità posta a carico degli amministratori di società per azioni dall’art . 2395 c.c. nell’ipotesi di fatto illecito dell’amministratore posto in essere, con dolo o colpa, durante l’attività di contrattazione da lui svolta in nome della società, occorre distinguere t ra il danno derivante all’alt ro contraente dall’inadempimento del contratto stipu lato dalla società rappresentata dall’amministratore, del quale risponde la società, a titolo di responsabilità contrattuale, e il danno direttamente ricollegabile, con nesso di causalità immediata alla predetta attività illecita dell’amministratore, solo di questo ultimo potendo farsi carico al medesimo personalmente per il risarcimento in favore dell’alt ro contraente danneggiat o>>. unico socio accomandatario (pertanto, l’unico legittimato all’azione). Inoltre, è necessario sottolineare come una simile soluzione non contrasterebbe col riconoscimento di una soggettività alle società personali poiché il socio agisce non per un proprio interesse ma per quello della società, soggetto diverso. In altri termini, l’azione mira ad ottenere la reintegrazione del patrimonio sociale che rimane distinto dal patrimonio del socio, è solo il primo che va risarcito. Dubbi maggiori sorgono, in realtà, rispetto alla possibile applicazione analogica dell’art. 2395 c.c. anche alle società di persone. Posto, infatti, che le società personali non sono persone giuridiche, pur avendo ormai la giurisprudenza costantemente riconosciuto una loro soggettività, potrebbe chiedersi quale significato assume in questo contesto l’art. 2395 c.c. nell’espressione danneggiati>>. In altri << direttamente termini, essendo solitamente i soci illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali, un danno causato al patrimonio sociale dalla cattiva gestione degli amministratori potrebbe già di per sé essere considerato un danno diretto. Pertanto, per evitare ulteriori complicazioni sembra opportuno, soprattutto per esigenze pratiche, aderire all’orientamento che riconosce anche al singolo socio la possibilità di agire uti socius per tutela del patrimonio sociale. Conclusione, quest’ultima, che sembra inoltre ben compatibile con l’idea delle società personali come soggetti imperfetti. 3.4) Divieto d’immistione del socio accomandante. Premesso che tale divieto comprende sia la categoria degli atti di amministrazione interna (esercizio di poteri decisionali rispetto al compimento degli affari sociali) sia di amministrazione esterna (spendita del nome della società nei rapporti con terzi) 90 , le discussioni che si pongono intorno alla sua 90 A tal riguardo cfr. Cass. 11-11-1970, n. 2344. In breve il fatto: una s.p.a., poiché credit rice di una somma di denaro dovuta a pagamento di una fornitura che la stessa aveva eseguito in adempimento del cont ratto sottoscritto a nome della s.a.s. da parte del suo socio accomandante, invece di escutere preventivamente il patrimonio sociale aveva ottenuto dal tribunale un decreto ingiunt ivo nei confronti del socio stipulant e. Quest’ultimo fece opposizione, accolta dal t ribunale, sulla base del principio del beneficium excussionis ex art. 2304 c.c. Nel giudizio d’appello, promosso dalla s.p.a. creditrice, il socio accomandante produsse una procura dalla quale risultava che l’unica socia accomandataria lo aveva preventivamente autorizzato alla conclusione del contratto con la s.p.a. Tuttavia, la Corte d’Appello giudicò falsa la suddetta procura e confermò la responsabilità illimitata e solidale dell’accomandant e, sussidiariamente a quella della società. La Corte respinse, inoltre, la tesi (sostenuta dalla società creditrice) secondo cui vi fosse una diretta responsabilità del socio poiché ingeritosi come falsus procurator. La s.p.a. aveva, pertanto, ratio dividono la dottrina in due grossi orientamenti. Da un lato, si sostiene che alla base della norma vi sia la tutela dell’affidamento dei terzi; dall’altro lato, la ragione dell’art. 2320 c.c. è individuata nella tutela dell’interesse pubblico (ossia dell’intera collettività) a che vi sia un responsabile esercizio del potere economico 91 . A tal riguardo, la questione che si pone è proposto ricorso per Cassazione denunciando l’erronea applicazione dell’art. 2320 c.c. <<in quanto tale norma concerne unicamente il rapporto interno tra la società e il socio accomandante e non la situazione relat iva al terzo con cu i l’accomandante ha trattato senza potere. Siffatta situazione sarebbe regolata, invece, dalle norme dettate in materia di rappresentanza senza potere e, del resto, sarebbe ingiusto, prosegue la ricorrente, che, mentre il falsus procurator è responsabile direttamente nei confronti del terzo, lo stesso falsus procurator sia solo sussidiariamente responsabile se è un socio accomandante che t ratta per la società senza averne il potere>> . La Cassazione rigettò il ricorso sull’assunto che nell’ipotesi in cui l’accomandante svolge attività sociale senza giusta procura, ne consegue una equiparazione della responsabilità (nei confront i dei terzi) dell’accomandante con quella dell’accomandatario. <<La responsabilità in tal modo risultante non giustifica la disparità di trattamento t ra i vari obbligati in via solidale, quale verrebbe a verificarsi se si ritenesse applicabile solo nei confronti dell’accomandatario, e non anche dell’accomandante, la norma dell’art. 2304, secondo la quale i creditori sociali non possono pretendere il pagamento dai singoli soci, se non dopo l’escussione del patrimonio sociale >>. La Corte prosegue precisando che il divieto di immistione comprende sia gli atti di amministrazione interna che quelli di amministrazione esterna, << infatti il citato art. 2320 prevede separatamente entrambe le categorie di atti, vietando al socio accomandante il compimento di atti di amministrazione e la trattazione e conclusione di affari in nome della società, laddove con la prima categoria di atti la norma ha voluto riferirsi all’attività di amministrazione interna mentre con la seconda ha avuto riguardo all’attività sociale esterna>>. 91 In altri termini, l’imposizione del divieto di immistione ha la funzione di tutelare l’interesse a che la società sia amministrata da coloro che, in quanto illimitatamente esposti alle obbligazioni sociali, garantiscono una responsabile gestione dell’impresa. se la responsabilità illimitata dell’accomandante valga solo all’esterno (rispetto ai terzi) o si estenda anche nei rapporti t ra i soci. Solo aderendo alla prima tesi non si hanno difficoltà ad ammettere il diritto di regresso nei confronti degli accomandatari per l’accomandante ingeritosi che abbia estinto un debito sociale. Al contrario, sostenendo che il divieto in esame tuteli l’interesse pubblico ad una corretta gestione dell’impresa, non è possibile riconoscere un diritto di regresso dell’accomandante nei confronti dell’accomandatario senza rischiare di svuotare di significato la norma. A causa della scarsità di pronunce significative (soprattutto tra quelle recenti), non è possibile definire con precisione l’indirizzo seguito dalla giurisprudenza. Parte della dottrina ritiene che la violazione del divieto d’immistione comporti per l’accomandante ingeritosi una responsabilità illimitata e solidale sia esterna (nei confronti dei terzi) che interna (nei confronti dei soci). A sostegno di tale orientamento si ritiene che il divieto di immistione mira a tutelare molteplici interessi, tra i quali vi è anzitutto quello dei soci a che l’impresa sia gestita solo da chi, essendo illimitatamente esposto alle obbligazioni sociali, garantisce un’ accurata amministrazione. E a tal riguardo, l’art. 2320 c.c. prevede la possibilità per i soci di escludere dalla società l’accomandante ingeritosi. Tuttavia, questo non risulta essere l’unico interesse preso in considerazione dalla norma in esame, essendovi anche quello dei creditori sociali, i quali potrebbero essere indotti a considerare l’accomandante ingeritosi come accomandatario, facendo pertanto affidamento sulla sua personale responsabilità. Ma vi è di più, la stessa dottrina, infatti, non manca di sottolineare come l’art. 2320 c.c. preveda che l’accomandante in tal caso risponde illimitatamente verso i terzi per tutte le obbligazioni sociali, e quindi anche per quelle anteriori all’ingerenza nell’amministrazione. In tal modo, il divieto di immistione sembra voler tutelare anche quei creditori sociali che mai avrebbero potuto far affidamento sulla personale responsabilità dell’accomandante92. 92 In tal senso si esprime il GALGANO il quale afferma che <<ciò legislativamente fa comprendere come siano stati valutati altri interessi oltre che l’interesse dei soci e quello dei creditori sociali: interessi che operano anche quando l’interesse dei soci o quello dei creditori della società non vengono in considerazione. (…) L’interesse protetto è, dunque, un interesse valutato come pubblico, cioè come proprio dell’intera collettività: è l’interesse ad un responsabile esercizio del potere economico. La legge mostra qui di preoccuparsi dell’equilibrio del sistema produttivo: essa instaura una necessaria correlazione fra esercizio del potere economico e assunzione di un rischio illimitato; affida a quest’ultimo la funzione di agire da cont rappeso del potere e, quindi, da garanzia di una responsabile direzione dell’impresa>> (GALGANO, Le società in genere. Le società di persone, Milano, 2007, p. 464 e seg.). Avendo in tal senso individuato la ratio della norma in esame, l’Autore prosegue la propria argomentazione esaminando le conseguenze dell’eventuale violazione del divieto. A tal riguardo, risulta pacifico che ai sensi dell’art. 2320 c.c. l’accomandante ingeritosi decada anzitutto dal beneficio della responsabilità limitata e sarà, di conseguenza, personalmente soggetto al fallimento in caso di fallimento della società (ex art . 147, 10° comma, l. fall.). Tuttavia, ciò non comporta una conversione della posizione contrattuale da socio accomandante ad accomandatario, né tantomeno la conversione da s.a.s. a società in nome collettivo, qualora egli fosse l’unico socio accomandante. In risposta a quella dottrina qualificante la responsabilità dell’accomandant e ingeritosi come responsabilità esclusivamente esterna, riconoscendogli pertanto il diritto di regresso nei confronti degli accomandatari, l’Autore afferma che <<l’accomandante che si sia ingerito nell’amministrazione – in quanto responsabile di tutte le obbligazioni sociali, anche anteriori alla sua ingerenza – risponde pure nei confronti dei creditori che non hanno fatto alcun affidamento sulla sua responsabilità; e, se l’accomandante risponde nei confronti dei terzi anche quando l’interesse di costoro non lo esige, non ha senso concepire la sua responsabilità come responsabilità esclusivamente esterna>> (GALGANO, op. cit., p. 469). Dello stesso avviso è la BERTACCHINI, la quale dopo aver identificato la violazione del divieto di immistione in qualunque attività amministrativa (sia interna che esterna) da intendersi nello specifico senso di direzione degli affari sociali, si pone in posizione di critica nei confronti dell’opposto orientamento identificante la ratio del suddetto divieto nella tutela dell’affidamento dei terzi. Secondo l’Autrice, infatti, se è vero che la norma in questione mira a tutelare esclusivamente i creditori sociali, non risulta chiaro il motivo per cui il divieto In altri termini, essendo il divieto previsto a tutela del superiore interesse della responsabile direzione dell’impresa, si spiega il perché comprenda anche gli atti di amministrazione interna, così come ugualmente non si spiega il perché l’accomandante ingeritosi debba rispondere illimitatamente anche per le obbligazioni anteriori alla violazione del divieto. L’ Autrice ritiene, inoltre, non condivisibile anche l’ulteriore motivazione secondo cui il divieto di immistione tutela gli interessi dei soci accomandatari a che la gestione dell’impresa sia svolta responsabilmente, in quanto la responsabilità illimitata dell’accomandant e ingeritosi permane anche nell’ipotesi in cui vi sia stato un tacito consenso degli accomandatari alla violazione del divieto, venendo meno pertanto la necessità di tutela del loro interesse alla corretta gestione dell’impresa. Pertanto, la tesi da condividere è indubbiamente quella identificante la ratio del divieto di immistione alla tutela di un interesse più ampio di quello dei soci accomandatari o dei creditori sociali. <<Il legislatore, in quest’ottica, avrebbe dunque voluto tutelare l’interesse generale ad una corretta gestione dell’impresa. Da un lato questo criterio di interpretazione è più ampio, in quanto consente di colpire qualsiasi atto (anche isolato o addirittura non concluso) posto in essere dall’accomandante privo della necessaria procura; dall’alt ro, però, il criterio dell’interesse generale permette di non assumere una posizione eccessivamente rigida e meccanica, consentendo di formulare una concezione dei rapport i tra accomandante e accomandatario adeguata allo sviluppo del sistema economico>> (BERTACCHINI, In tema di immistione dell’accomandante receduto, in Giur. comm., 1989, II, p. 337). l’accomandante abbia certamente una responsabilità esterna anche quando non vi è lesione dell’affidamento dei terzi, e, per la stessa ragione, si comprende il perché non può venir meno anche la sua responsabilità interna nei confronti degli altri soci. In tal senso, la disposizione contenuta all’art. 2320 c.c. è considerata quale espressione del basilare principio per cui chi amministra risponde per l’attività esercitata, conseguentemente l’accomandante ingeritosi viene parificato ad un amministratore93. 93 È il pensiero espresso anche dalla BUZZONI ZOCCOLA. Secondo l’Autrice, infatti, La responsabilità illimitata, infatti, <<costituisce l’emanazione di un principio generale, che regola l’amministrazione delle società di persone: chi ha il potere di gestione di un’impresa sociale risponde delle obbligazioni di questa, oltre che con i conferimenti effettuati, con tutto il proprio patrimonio. Al potere di gestione che compete al socio fa riscontro la sua responsabilità illimitata e solidale, unitamente e sussidiariamente alla responsabilità della società. (…) La responsabilità illimitata dell’accomandante potrebbe al limite qualificarsi, più che come una sanzione del divieto di cui all’art. 2320 c.c. (…) come una imprescindibile conseguenza della partecipazione alla direzione dell’impresa, e questo precluderebbe la possibilità di far discendere dalla volontà delle parti la sua applicazione>>, (in Appunti in tema di divieto di immistione, in Riv. dir. comm., 1972, II, p. 156). Similmente anche il GHIDINI ritiene l’accomandante ingeritosi illimitatamente responsabile verso i terzi, essendo a tal riguardo irrilevante l’eventuale consenso degli altri soci (come previsto dall’art . 2320 c.c.). Al contrario, secondo l’Autore, il consenso degli altri soci elimina la responsabilità illimitata <<nei rapporti interni (salvo che risulti l’intendimento comune di immutare la posizione del socio accomandante in quella di socio accomandatario) e della inammissibilità della esclusione>>, (G HIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 769 n. 83). In quest’ordine, si ritiene inoltre che nell’ipotesi di amministrazione compimento interna, la di atti di responsabilità illimitata dell’accomandante ingeritosi non potrebbe mai esser fatta valere dai terzi (pretesi esclusivi destinatari della disposizione in esame) non essendo tali atti fonte diretta di danno per i creditori sociali. Per un diverso orientamento, la sanzione della illimitata dell’accomandante ingeritosi responsabilità vale solo all’esterno nei confronti dei terzi, pertanto, l’accomandante ha un diritto di regresso verso la società e verso i soci. Secondo tale dottrina, la disposizione contenuta all’art. 2320 c.c. si pone quale esclusiva tutela per i terzi e non riguarda, invece, i rapporti interni tra i soci. Ne consegue che l’accomandante resta tale e che, qualora escusso da parte di un creditore sociale, ha certamente diritto di rivalsa verso gli accomandatari. A favore di quest’ultimi, infatti, la legge prevede un’altra sanzione rispetto alla personale ed illimitata responsabilità, ovvero l’eventuale esclusione dell’accomandante dalla società94. 94 In tal senso FERRARA jr – CORSI, in Gli imprenditori e le società, Milano, 1996, p. 369. Ugualmente Diversa è invece la posizione adottata da quella dottrina che non ritiene condivisibile la tesi per cui la ragione del divieto di immistione è la tutela dell’affidamento dei terzi dal momento che l’accomandante risponde delle obbligazioni sociali anche per gli atti interni, oltre che per le obbligazioni precedenti la violazione del divieto. Ugualmente risulta sproporzionato anche riferire la ratio della disposizione alla tutela dell’interesse pubblico al corretto esercizio dell’attività economica, dal momento che il divieto d’immistione viene violato anche col compimento di un solo atto di amministrazione interna (anche se interno e comunque indipendentemente semplice e diretta è l’argomentazione sostenuta dal CAMPOBASSO. L’Autore, infatti, ritiene l’estensione della responsabilità illimitata per tutte le obbligazioni sociali <<particolarmente all’infrazione grave e non proporzionata commessa. (…) Con l’ulteriore conseguenza che, in caso di fallimento della società, anch’egli sarà automaticamente dichiarato fallito al pari degli accomandatari>> (CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Torino, 2003, p. 145). Da ciò ne deriva in primo luogo, che l’accomandante perde il beneficio della responsabilità limitata solo nei confronti dei terzi, in secondo luogo, <<egli avrà azione di regresso per l’intero non solo verso la società ma anche verso gli accomandatari. Viceversa, gli accomandatari non hanno azione di regresso verso l’accomandante che ha violato il divieto di immistione, salva l’azione per il risarcimento degli eventuali danni dallo stesso arrecati alla società>>. dall’importanza). Secondo quest’ultimo indirizzo, infatti, il divieto in questione ha esclusivamente la funzione di evitare che la s.a.s. perda i suoi lineamenti essenziali trasformandosi in una collettiva con soci a responsabilità limitata95. 95 È la posizione adottata dal DI SABATO il quale afferma <<Più adeguata è pertanto una giustificazione che si ponga sul piano della soluzione del conflitto tra le posizioni delle due categorie di soci e che colleghi l’indisponibilità della rimozione del divieto da parte degli accomandatari (e degli altri accomandanti) al rilievo tipologico che assume nell’accomandita la compresenza di due categorie di soci: l’interesse (esterno ai soci) consiste nella immutabilità del tipo sociale prescelto, se non mediante una modificazione dell’atto costitutivo>> (DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1992, p. 214). La critica maggiormente mossa dall’Autore alla tesi del divieto del diritto di regresso riguarda una delle sue inevitabili conseguenze, ossia che alla responsabilità esterna dell’accomandatario responsabilità interna. corrisponda Ne la sua consegue che l’accomandatario costretto a pagare il creditore sociale avrà senz’altro diritto di regresso nei confront i dell’accomandant e, quest’ultimo, al contrario, seppu re costretto ad estinguere un debito sociale non avrebbe possibilità di regresso nei confronti degli altri soci. Sostiene l’Autore che semplice ragione <<la che tesi non regge, per la responsabilità esterna e responsabilità interna, nonché part ecipazione alle perdite, sono su piani diversi; (…), anche l’accomandatario, in tesi titolare del supremo potere direttivo, ha regresso prima di tutto verso la società per l’intero ed inolt re, pro quota, verso gli altri accomandatari. Non v’è quindi ragione, di fronte ad un Le medesime argomentazioni poste alla base delle varie discussioni dottrinarie in merito alla ratio del divieto, si riscontrano anche nelle pronunce giurisprudenziali sul tema. A tal riguardo, in principio di diritto la giurisprudenza di legittimità ha a volte giustificato il divieto di immistione sulla conservazione della tipicità della struttura societaria96; ma non sono mancate pronunce medesimo trattamento della responsabilità esterna, di fare un diverso trattamento all’accomandatario e all’accomandante indiscreto >> (DI SABATO, op. cit., p. 214). A tal riguardo, il DI SABATO ritiene l’errore dovuto dalla non considerazione delle due diverse qualificazioni del medesimo atto d’ingerenza, mentre l’art. 2320 sanzionatorio riconosciuto c.c. chiaramente distingue a nel momento in un livello cui, dopo responsabilità aver esterna dell’accomandant e, dispone alla fine del 1° comma <<e può essere escluso a norma dell’art. 2286 c.c.>>. 96 Cfr. Cass. 19-02-2003, n. 2481; in cui la Corte è intervenuta risolvendo la questione se in una s.a.s., caratterizzata in quanto tale dalla compresenza di due categorie di soci, la responsabilità limitata degli accomandanti possa venir meno, oltre che nell’ipotesi dell’art. 2320 c.c., anche tramite apposita clausola dell’atto costitutivo. Il problema in questione riguardava, infatti, la clausola dell’atto costitutivo di una s.a.s. in cui era prevista l’u guale ripart izione fra tutti i soci degli utili e delle perdite. I soci accomandatari citavano, pertant o, in giudizio i due accomandanti chiedendo che fossero condannati, in virtù della suddetta clausola, a partecipare alle perdite subite dalla società. I convenuti si costituivano deducendo che la clausola invocata dagli attori in realtà si limitava a stabilire la misura di ciascun socio alle perdite, lasciando immutata la limitazione della (sia di legittimità che di merito) identificanti la ratio dell’art. 2320 c.c. nell’interesse pubblico ad responsabilità degli accomandanti al capitale di rischio. Il Tribunale e la Corte d’Appello rigettarono la domanda attrice sulla considerazione che per il combinato disposto degli artt. 2263 e 2313 c.c., nelle s.a.s. il contratto sociale può stabilire liberamente le proporzioni spettanti agli accomandant i ed accomandatari nella ripartizione dei guadagni, ma non può stabilire che le perdite possano gravare sugli accomandanti oltre il conferimento, neppu re nei rapporti interni, perché altrimenti il tipo sociale non corrisponderebbe più alla figura legale. Contro la sentenza della Corte d’Appello i soci accomandatari fecero ricorso in Cassazione. La Corte rigetta il ricorso e dichiara nulla la clausola in questione, fondando il proprio convincimento sull’art. 2313 c.c., <<tale statuizione deve ritenersi delimiti allo stesso tempo, per entrambe le categorie di soci dell’accomandita semplice, il regime sia della responsabilità esterna sia della responsabilità interna, limitando alla quota conferita, in relazione ad entrambi i versanti della responsabilità, il suo regime legale per quanto riguarda i soci accomandanti, escludendo espressamente la responsabilità personale di questa categoria di soci per le obbligazioni sociali. Ne consegue che né i creditori sociali, di regola, possono agire cont ro di essi per ottenerne l’adempimento, né i soci accomandatari, che viceversa ne rispondono illimitatamente, (…), possono agire contro di essi in via di regresso. Con l’ulteriore conseguenza che i soci accomandanti non rispondono per le perdite sociali se non nei limiti di quanto conferito>>. Secondo la Cort e, infatti, la struttura del tipo societario è confermata proprio dall’art. 2320 c.c., inoltre, si osserva come l’eventuale responsabilità illimitata degli accomandant i nei rapport i interni, potrebbe esser fatta valere anche dai creditori sociali in via surrogatoria, << così aggirandosi, nella sostanza, la irresponsabilità degli accomandant i oltre il limite della quota conferita>>. Secondo la posizione assunta dalla Corte, quindi, eventuali pattuizioni modificative della responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali sono radicalmente nulle, il che equivale a dire che l’eventuale clausola che alteri il suddetto schema non vale a trasformare la s.a.s. in alt ro tipo societario. Applicando tale ragionamento alla questione in esame ne consegue che giammai potrebbe trovare giustificazione l’estensione della responsabilità illimitata dell’accomandant e anche nei rapport i interni tra i soci. un responsabile esercizio del potere economico97. 97 Cfr. Trib. Milano, 03-10-1991. Il fatto riguarda la violazione del divieto ex art . 2320 c.c. da parte dell’ accomandante di una s.a.s., per aver condotto delle trattative (volte alla conclusione di un affare con alt ra società) in rappresentanza della suddetta società senza averne la necessaria procura. Un socio accomandatario cita, pertanto, in giudizio l’accomandante ingeritosi pretendendo di ripetere da quest’ultimo la metà dell’importo che l’attore è stato costretto a pagare all’INAIL per dei contributi dovuti dalla società. Si pone, quindi, al giudice la questione se l’illimitata responsabilità oltre ad operare nei confronti dei terzi, com’è assolutamente pacifico che debba operare nel caso di specie, operi anche nei rapporti fra i soci. A tal riguardo, il Tribunale ritiene che <<la sanzione dell’illimitata e solidale responsabilità finirebbe con l’essere svuotata di reale contenuto se fosse limitata ai soli rapporti esterni (consentendosi all’accomandante che abbia compiuto att i di amministrazione di ripetere quanto abbia dovuto pagare ai terzi oltre i limiti del proprio conferimento): del resto, una siffatta limitazione mal si accorderebbe con l’indiscussa affermazione secondo la quale il beneficio della responsabilità limitata viene a cadere anche nell’ipotesi di compimento da parte dell’accomandant e di atti di amministrazione pu ramente interna, senza alcun diretto rapporto con i terzi>>. In conclusione, in base alla scelta interpretativa seguita dal Tribunale accoglie la richiesta attrice sull’assunto che il socio accomandante che abbia amministrato deve rispondere olt re il limite del conferimento ed in proporzione della propria partecipazione di tutte le obbligazioni e le perdit e della società. Di particolare importanza è, inoltre, Cass. 19-121978, n. 6085. Tale pronuncia merita attenzione olt re per la chiarezza delle argomentazioni in essa contenute, anche per essere da sempre un punto di riferimento costante per l’attuale giurisprudenza. Con tale sentenza, per la prima volta dall’entrata in vigore del codice civile del 1942, la Corte si è trovata a pronunciarsi sulla legittimità della richiesta da parte di un socio accomandatario, che aveva estinto per intero i debit i sociali, a chiedere rimborso pro quota al socio accomandante ingeritosi. Per risolvere la questione, la Cassazione ha ritenuto di dover anzitutto identificare l’interesse tutelato dall’art. 2320 c.c. A tal riguardo, la Corte ha escluso che il suddetto interesse possa essere l’affidamento dei terzi considerato da un lato che il divieto di immistione è esteso anche agli atti di mera amministrazione interna, dall’altro lato che la responsabilità illimitata copre tutte le obbligazioni sociali, anche quelle precedenti l’ingerenza. La stessa Corte ha, inoltre, escluso che l’interesse posto alla base della norma in esame sia quello dei soci accomandatari <<questa finalità può indubbiamente considerarsi tenuta presente dal legislat ore quando ha riconosciuto ai soci accomandatari il potere di deliberare la esclusione dalla società del socio accomandante ingeritosi nella gestione sociale. Ma essa non è sufficiente a spiegare il limite posto all’autonomia negoziale dei soci con il divieto del conferimento di una procura generale ai soci accomandanti, implicitament e contenuto nella disposizione, dettata dallo stesso art. 2320 c.c., (…) divieto che appare manifestamente diretto a tutela re un interesse esterno alla società, del quale i soci non possano disporre >>. Pertanto, secondo tale argomentazione l’interesse sottostante la norma è l’interesse generale a che vi sia sempre la necessaria correlazione caratterizzante le società di persone, tra esercizio del potere di amministrazione della società e la responsabilità illimitata del socio per le obbligazioni sociali. <<In armonia con la rat io della norma, così individuata, la responsabilità illimitata e solidale per tutte le obbligazioni sociali assunte dal socio accomandante per effetto della sua ingerenza nell’amministrazione della società non può perciò, contrariamente a quanto assumono i ricorrenti, ritenersi circoscritta ai rapport i con i terzi, ma (…) vale anche nei rapporti con i soci accomandatari, i quali, se dopo l’escussione del patrimonio sociale, abbiano soddisfatto debiti della società, possono esercitare nei suoi confronti l’azione di regresso>>. Il ragionamento seguito dalla Corte è senza dubbio logico e lineare, tuttavia, è possibile fare delle considerazioni. La sentenza in esame non ha fatto altro che individuare l’int eresse protetto dalla norma, riconoscendolo nell’interesse collettivo alla responsabile amministrazione dell’impresa sociale, e facendone conseguire l’illimitata responsabilità dell’accomandante indiscreto nei confronti anche dei soci accomandatari. In realtà, l’individuazione dell’interesse tutelato non dovrebbe portare automaticamente a questa conclusione per il semplice motivo che dal t esto dell’art. 2320 c.c. non sembra che il legislatore abbia voluto disciplinare i rapporti interni t ra i soci, cui risultano sufficienti le disposizioni contenute agli art. 2267 e 2291 c.c. In altri termini, le argomentazioni elaborate dalla Cassazione dimostrano solo che l’interesse tutelato dal divieto è un interesse superiore a quello dei terzi o dei soci In conclusione, tra le varie interpretazioni dottrinali, sembra preferibile appoggiare quella identificante la ratio del divieto nella tutela dell’interesse pubblico alla corretta gestione del potere economico. Tale orientamento è, infatti, l’unico in grado di riconoscere la vera portata applicativa dell’art. 2320 c.c., in quanto prescinde dagli interessi dei creditori e degli accomandatari, che, come visto, potrebbero mancare nel caso concreto. È bene notare, inoltre, che a differenza della società semplice, in cui per esservi la responsabilità illimitata è necessario spendere verso i terzi il nome della società (ex art. 2267 c.c.), nella s.a.s. l’accomandante perde il beneficio della responsabilità limitata già per il semplice fatto di essersi ingerito nell’amministrazione. Ciò deriva sicuramente accomandatari ma non dimostra, di per sé, che per tutelarlo il legislatore abbia voluto utilizzare lo strumento della responsabilità illimitata nei rapport i interni t ra i soci. Per arrivare a quest’ultima conclusione è necessario fare un ragionamento più ampio, da ricondurre al generale principio (vigente nelle società personali) di diritto comune per cui all’iniziativa economica si lega sempre il rischio. Se quanto detto finora è vero, allora, è ragionevole concludere che sicuramente l’int eresse tutelato dalla norma è un interesse generale alla corretta gestione del potere economico e che, nell’ipotesi in questione, ciò comporta necessariamente il venir meno per l’accomandante ingeritosi del beneficio della responsabilità limitata anche verso i soci accomandatari, al fine di evitare il pericolo di possibile frode da parte dell’accomandante che, godendo della responsabilità limitata, gestisca individualmente l’impresa collettiva. dalla natura commerciale dell’attività esercitata da tale tipo di società, con l’ulteriore conseguenza che chi esercita (anche se in forma collettiva) attività d’impresa se ne assume il rischio. Ecco perché è ragionevole affermare che l’accomandante che abbia compiuto anche un solo atto di amministrazione in violazione dell’art. 2320 c.c., dovrà rispondere illimitatamente sia verso i creditori sociali che verso gli altri soci accomandatari, perdendo così il beneficio della responsabilità limitata ai conferimenti. La posizione dell’accomandante quale socio limitatamente responsabile è, infatti, giustificata in virtù della sua funzione di mero finanziatore e ciò che il legislatore vuole evitare è che vi possa essere un uso fraudolento della struttura societaria, in cui l’accomandante, riparandosi dietro la propria responsabilità limitata, eserciti approfittando della l’attività figura commerciale del socio accomandatario. 4) La disciplina dei conferimenti – il passaggio dei rischi. La disciplina codicistica prevista in materia di conferimenti nelle società di persone, risulta alquanto frammentaria e in buona parte risolta in un rinvio ad altre norme. Per le cose conferite in proprietà, infatti, l’art. 2254, 1° comma, c.c. dispone che << la garanzia dovuta dal socio e il passaggio dei rischi sono regolati dalle norme sulla vendita >> 98 ; ne consegue che, se la società ha acquistato la proprietà della cosa, il rischio del perimento graverà su quest’ultima. Il rischio per le cose conferite in godimento è, invece, <<a carico del socio che le ha conferite>> (ex art. 2254, 2° comma, c.c.); in altri termini, ciò significa che il socio, pur non essendogli imputabile il perimento del conferimento, può essere escluso dalla società per volontà degli altri soci (ex art. 2286 c.c.). A tal riguardo, si pone il problema dell’estensibilità ai conferimenti della disposizione contenuta all’art . 1465 c.c., in particolare il 2° comma, essendo quest’ultimo in contrasto con quanto stabilito all’art. 2286, ultimo comma, c.c. in base al quale il socio che si è obbligato a trasferire la proprietà di una cosa alla società può essere escluso <<se questa è perita prima che la proprietà sia acquistata dalla società>>. Non risultano pronunce giurisprudenziali sulla questione. Premesso che, in caso di dubbio, per stabilire se il conferimento è in godimento o in proprietà sarà necessario ricorrere a quanto 98 È bene sottolineare come erroneament e il legislatore abbia richiamato le norme della vendita anche per il passaggio dei rischi essendo quest’ultimo aspetto, in realtà, disciplinato nel titolo riguardante i contratti in generale, più specificatamente si fa riferimento all’art. 1465 c.c. disposto dall’art. 2253, 2° comma, c.c.99; si discute sui possibili problemi sollevati dal rinvio alle norme sulla vendita. Com’è noto, il passaggio del ri schio del perimento della cosa avviene al momento del verificarsi dell’effetto reale, pertanto, se per caso fortuito la cosa è perita dopo il verificarsi del suddetto effetto e per causa non imputabile all’alienante non vi sarà la risoluzione del contratto e l’acquirente sarà obbligato al pagamento del prezzo anche se la cosa non gli è stata ancora consegnata (cd. principio del res perit domino). Tale principio subisce delle eccezioni, anzitutto nella previsione dell’art. 1465, 2° comma, c.c. in cui si dispone che qualora l’effetto reale è differito fino allo scadere di un termine, il passaggio del rischio avviene già alla stipulazione del contratto. Quando, invece, il trasferimento del diritto reale è sottoposto a condizione sospensiva, il passaggio del ri schio avviene al verificarsi della condizione e non al momento della stipulazione del contratto (ex art. 1465, ultimo comma, c.c.). In merito all’applicabilità in generale del principio consensualistico ai conferimenti di 99 In base al quale il bene conferito deve ritenersi in proprietà della società se necessario al perseguimento dell’oggetto sociale. beni in proprietà parte della dottrina, aderendo alla tesi per cui anche in materia societaria trova applicazione il principio consensualistico (il che equivale a dire che l’atto costitutivo di società rientra tra gli atti ad effetti reali ex art. 1376 c.c.), individua la spiegazione dell’ultimo comma dell’art. 2286 c.c. <<nella posizione assunta dall’ordinamento vigente sul problema, in passato controverso, del passaggio del rischio nell’ipotesi di apporto di beni in proprietà (o diritti reali in genere) >>100. Nel sistema previgente, infatti, si riteneva che tramite gli artt. 1731, 1° comma, c.c. e 186, 2° comma, cod. comm. era stato introdotto il principio speciale in base al quale il rischio, a differenza di ciò che normalmente accade nella compravendita, veniva trasmesso solo alla consegna della cosa conferita e non al trasferimento della proprietà; tutto ciò al fine di assicurare l’integrale costituzione del fondo sociale e di rafforzare l’obbligo dell’apporto. Tuttavia, tale interpretazione non superò le critiche mosse da gran parte della dottrina, anzitutto non era possibile attribuire al contratto sociale la natura di contratto traslativo e non riconoscere che i beni apportati costituivano fondo sociale a 100 PORTALE, Principio consensualistico e conferimento di beni in proprietà, in Riv. soc., 1970, p. 927 . prescindere dalla consegna. Inoltre, si notava come mettendo in relazione l’art. 186, 2° comma, cod. comm., e l’art. 1731, 1° comma, c.c. con il 3° comma di quest’ultimo (<<la società rimane sciolta per la perdita della cosa la cui proprietà fu già conferita (…) >>), ne risultava che tali disposizioni si limitavano a prevedere che il rischio gravasse sul socio solo quando, per la natura del bene conferito, non fosse possibile che dalla sottoscrizione del contratto sociale conseguisse l’effetto reale101. Con specifico riferimento, poi, ai problemi che il rinvio alle norme della vendita comporta, autorevole dottrina ritiene indubbiamente applicabile, in tema di rischi dei conferimenti, sia il principio generale del res perit domino, sia tutte le ipotesi di eccezione al principio (art. 101 In base a quanto detto, l’Autore ritiene che <<la formula dell’art. 2286, comma 3°, cod. civ. vig. è stata adottata proprio al fine di riaffermare in termini più chiari questo stesso principio: il legislatore del ’42, (…), per eliminare ogni dubbio sul momento del passaggio del rischio del conferimento, non solo ha richiamato nell’art . 2254, comma 1°, cod. civ. vig. la disciplina della vendita, ma si è anche servito nell’art. 2286, comma 3°, di un linguaggio idoneo a ribadire in modo espresso quanto già implicitamente detto nella prima norma, e cioè che, nell’ipotesi di apporto di beni in proprietà, il trasferimento del rischio è collegato non alla consegna, ma all’effetto reale, con la conseguenza che in caso di perimento del bene, il socio può essere escluso soltanto se questo evento si verifichi prima dell’acquisto della titolarità del bene da parte della società>> (PORTALE, op. cit., p. 929). 1465 c.c.), purché compatibili con la disciplina societaria102. 102 Si tratta di CAGNASSO. Rispetto all’art . 2286, ultimo comma, c.c. l’ Autore afferma che tale disposizione debba necessariamente leggersi in collegamento con l’art. 2254 c.c.,<<secondo una peculiare tecnica legislativa, in quest’ultimo è fissata la disciplina del passaggio del rischio nei conferimenti di beni in proprietà, nella prima sono indicate le conseguenze sotto il profilo dell’esclusione del socio. (…) Occorre, in alt ri termini, non dimenticare che, mentre sotto l’impero dei codici abrogati, sussisteva, in tema di passaggio dei rischi in materia di conferiment i di cose in proprietà, una sola disposizione che ne indicava le conseguenze sotto il profilo dell’esclusione del socio (art. 186 cod. comm. 1882) o dello scioglimento della società (art. 1731 c.c. 1865), (…), nel sistema vigente vengono in considerazione due disposizioni (…) non mi pare quindi possa ricavarsi dalla lettera dell’art. 2286 una limitazione all’operatività del principio posto dal primo comma dell’art . 2254 >> (CAGNASSO, Problemi interpretativi in tema di garanzia e rischi dei conferimenti in natura, in Riv. soc., 1974, p. 759 e seg.). A sostegno di tale argomentazione, si fa riferimento all’art. 1221 c.c., in base al quale l’impossibilità sopravvenuta della prestazione non libera il debitore in mora anche se a lu i non imputabile. <<Tale principio, applicato ai contratt i con efficacia traslativa, costituisce un’attenuazione della regola res perit domino. Non c’è dubbio, d’alt ro lato, come esso si applichi anche in caso di mora nei conferiment i in società. (…) Se, per converso, si ritiene estensibile ai conferimenti l’attenuazione del principio res perit domino contenuta nell’art. 1221, non si vede perché non debba ritenersi applicabile anche il disposto di cui al secondo comma dell’art. 1465 >>. Con riferimento, invece, al caso di conferimento in Con lo specifico riferimento, poi, al conferimento in godimento è stato sostenuto che il regime del rischio è senza dubbio a carico del socio (considerato come debitore verso la società perché obbligato a far godere della cosa conferita103) che avrà l’onere di dimostrare che il perimento non è in alcun modo a lui imputabile104. godimento e della questione su a chi spetti l’onere della prova liberatoria, l’Autore ritiene che la solu zione si trovi nell’applicazione dell’art. 1588 c.c. (Che al 1°comma dispone <<il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa che avvengono nel corso della locazione, anche se derivanti da incendio, qualora non provi che siano accaduti per causa a lui non imputabile>>) dal quale ne consegu irebbe che è la società a dover provare che il perimento o il solo deterioramento della cosa non è a lei imputabile. Tale argomentazione, infatti, si basa sulla considerazione che l società ha l’obbligo di custodire e restituire la cosa. 103 GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 161 nota 119, <<Si deve invece ravvisare il socio conferente come debitore della continuità del godimento della cosa, a favore della società; in tal modo la soluzione da noi difesa trova conferma nello stesso art. 1218 c.c., in quanto, se il socio vuole evitare le conseguenze del mancato adempimento, dipendente dal perimento della cosa conferita in godimento, deve provare che il perimento stesso derivò da causa a lui non imputabile, bensì imputabile agli amministratori>>. 104 Sostenere l’idea contraria (per cui spetta alla società l’onere della prova), afferma l’Autore, porterebbe alla conclusione che <<in realtà il rischio del perimento incomberebbe sulla società essendo essa tenuta a subirlo ove non le riuscisse la prova liberatoria. Si applicherebbe Non risultano numerose pronunce sul tema della disciplina applicabile ai conferimenti in società personale, soprattutto con riguardo al particolare aspetto del passaggio del rischio. Tuttavia, non sono mancate sentenze orientate ad escludere l’applicabilità delle norme sulla vendita al conferimento in società105. allora la regola posta per la locazione (art. 1588, 1° comma), laddove, proprio nel contesto di una norma (art. 2254) che richiama il regolamento della locazione per la garanzia, il richiamo non è stato fatto per il passaggio del rischio >> (GHIDINI, op. cit., p. 161). 105 Cfr. Cass. 24-05-1965, n. 999. In opposizione all’applicabilità della clausola compromissoria, nella quale era previsto il deferimento agli arbitri delle controversie relative al cont ratto sociale, il ricorrente sosteneva che il conferimento di beni in società (nella fattispecie una s.p.a.) fosse assimilabile alla compravendita e, pertanto, la posizione del conferente andava identificata con la posizione di un venditore/creditore del prezzo, conseguentemente, tale posizione esulava dai rapporti societari. La Corte rigetta tale tesi, affermando che << l’atto di conferimento, quale che ne sia il contenuto, è atto di adempimento del contratto di società, in quanto con esso viene attuato l’impegno assunto con quel contratto. Il conferimento presuppone, quindi, il perfezionamento del vincolo sociale e l’assunzione della qualità di socio da parte del conferente, poiché, ove il patto sociale non sussistesse e la qualità di socio non fosse stata assunta, il conferimento medesimo resterebbe privo di causa>>. Secondo il pensiero della Corte, pertanto, non è possibile identificare il conferimento con il rapporto di compravendita ma vi è solo un <<assoggettamento del conferimento in proprietà alle norme proprie dei rapporti traslativi, che trovano nel rapporto di compravendita il più evidente punto di emersione>>. L’art. 2254 c.c., secondo tale orientamento, si limita ad applicare ai conferiment i in società il principio per cui il soggetto cui il bene è t rasferito deve essere garantito da eventuali vizi. 5) La responsabilità per le obbligazioni sociali. In base alla disciplina contenuta all’art. 2267 c.c., vi sono diverse questioni discusse in dottrina: 1) se rispondono delle obbligazioni sociali nello stesso modo coloro che hanno agito in nome e per conto della società e coloro che hanno compiuto atti di amministrazione interna; 2) quale sia la natura giu ridica della responsabilità illimitata dei soci e, infine, 3) quali sono le condizioni per l’escussione del patrimonio personale del socio. La giurisprudenza si è t rovata ad esaminare il problema della natura giu ridica della responsabilità dei soci soprattutto con riferimento a casi di garanzia fideiussoria. In altri termini, l’orientamento espresso dalla Cassazione in questa pronuncia ritiene che, in materia di conferiment i in società (sia personali che di capitali) vi sia un negozio iniziale (il contratto sociale) da cui deriva l’obbligo di trasferire il bene e, successivamente, un atto di esecuzione con efficacia reale. Tale interpretazione risulta certamente coerente con la lettera dell’art. 2286, ultimo comma, c.c. in cui si dispone l’esclusione del socio <<che si è obbligato con il conferimento a trasferire la proprietà di una cosa>>. Nello stesso senso anche Cass. 20-08-1990, n. 8492. L’affittuario di un podere lamentava la violazione del suo diritto di prelazione in quanto, il suddetto podere, era stato conferito in una s.p.a. senza dargli la possibilità di esercitare il diritto. Il ricorrente basava la propria pretesa sull’equiparazione del conferimento in società ad un contratto a titolo oneroso di compravendita. La Cassazione respinge il ricorso sull’assunto che <<il conferimento di un bene in proprietà non concreta un contratto di scambio e non rient ra nel novero delle alienazioni a t itolo oneroso. (…) Dal disposto dell’art. 2254 c.c., richiamato dall’art. 2342 c.c., è erroneo argomentare una equiparazione del conferimento della proprietà di una cosa con la sua compravendita>>. Per quanto riguarda il primo quesito, la dottrina dominante esclude che il legislatore consideri come inderogabile la responsabilità di coloro che hanno compiuto solo atti di amministrazione interna. Tale argomentazione poggia sull’idea che, in base al testo dell’art. 2267 c.c., l’inderogabilità della responsabilità illimitata di colui che agisce in nome e per conto della società trova giustificazione nella necessità di tutelare i terzi in mancanza di un sistema di pubblicità legale. A tal riguardo, è possibile paragonare la norma in esame con quella che dispone la responsabilità l’accomandante ingeritosi illimitata nella per gestione sociale. Ricordando infatti che il divieto di immistione comprende amministrazione dottrina ritiene esterna che sia gli che la atti di interna, la norma sulla responsabilità di chi agisce in nome e per conto della società acquista il proprio significato solo ponendola in relazione con la distinzione legislativa tra amministrazione e rappresentanza, per cui le norme dettate per questa non devono necessariamente essere estese a quella106. 106 È il pensiero del BOLAFFI (La società semplice, Milano, 1975, p. 520 e seg.). In tal senso si esprime In opposizione a questa tesi, recente dottrina ritiene che l’interpretazione dell’art. 2267 c.c. nel senso dell’inderogabilità della responsabilità illimitata rappresentanza della per chi società, ha con la la anche il DI SABATO, secondo il quale con la formula <<i soci che hanno agito >> il legislatore ha voluto riferirsi ai <<soci amministratori ai quali è attribuita la rappresentanza della società, posto che la ratio della responsabilità personale inderogabile risiede nell’esigenza di tutela dei terzi che acquistano diritti nei confronti di un gruppo non personificato, privo quindi di affidabile organizzazione interna>> (DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1995, p. 138). Secondo l’Autore, infatti, non sarebbe giustificabile una responsabilità inderogabile per gli amministratori sfornit i del potere di rappresentanza poiché, con l’art. 2267 c.c., il legislatore ha voluto individuare una categoria di soggetti che rispondono sempre di tutte le obbligazioni sociali. <<Se così non fosse, non si saprebbe quale significato dare alla solidarietà stabilita t ra soci che agiscono, dato che secondo il regime legale ciascun socio può compiere da solo atti che impegnano la società (art. 2257 c.c.). Né si giustificherebbe la limitazione della responsabilità personale di questi soci alle sole obbligazioni derivant i dall’att ività negoziale, lasciando fuori dalla previsione normativa le obbligazioni di font e non negoziale (tributarie, da fatto illecit o), per le quali o non risponderebbe personalmente alcun socio o risponderebbero soltanto i soci che non agiscono, la cui responsabilità – ove non esclusa dal contratto sociale – finirebbe quindi per essere paradossalmente più ampia di quella dei soci che agiscono>> (DI SABATO, op. cit., p. 137 e seg.). conseguenza che del patto di limitazione possono usufruire anche i soci amministratori purché non agiscano all’esterno, porta a delle inaccettabili conclusioni. Tale ricostruzione, infatti, andrebbe inevitabilmente a spezzare quella correlazione tra potere di direzione e rischio di impresa della quale si è più volte parlato come principio fondamentale delle società di persone107. Pertanto, secondo tale orientamento, l’art. 2267, 1° comma, c.c. fa riferimento ai soci che, in qualsiasi modo, partecipano alla gestione della società, anche 107 È la tesi sostenuta dal GALGANO. A tal riguardo, l’Autore tenta di rovesciare la tradizionale lettura dell’art. 2267 c.c. osservando che una responsabilità legata alla rappresentanza porterebbe alla conclusione che i soci che hanno agito in nome e per conto della società saranno responsabili delle sole obbligazioni da loro stessi assunte e per le quali hanno agito, e non anche di quelle assunte dagli altri rappresentanti la società. <<Ma è proprio questa conclusione che mette in evidenza l’erroneità della premessa. Una responsabilità connessa con la rappresentanza è concepibile solo per le obbligazioni contrattuali; e queste non esauriscono la serie delle obbligazioni sociali: sono altrettante obbligazioni sociali, agli effett i dell’art. 2267 c.c., anche le obbligazioni da fatto illecito, le quali sorgono indipendentemente da ogni agire in nome e per conto della società; e si pensi, oltre che alle obbligazioni da fatto illecito, al debito di imposta, anch’esso irriducibile al concetto di obbligazione contrattuale. Perciò il patto di limitazione della responsabilità, se inteso come patto che riduce la responsabilità del socio alle sole obbligazioni per le quali egli stesso abbia agito, non varrebbe soltanto ad escludere la responsabilità di ciascun socio per le obbligazioni contrattuali assunte da altri soci, ma varrebbe altresì ad escludere la responsabilità di tutti i soci per le obbligazioni non contrattuali >> (GALGANO, Le società in genere. Le società di persone, Milano, 2007, p 304). senza agire all’esterno in qualità di rappresentanti. Venendo alla seconda questione sulla natura della responsabilità dei soci, questa è diversamente ricostruibile come responsabilità diretta per debito proprio, o come responsabilità indiretta, cioè per debito altrui. La prima impostazione viene solitamente giustificata con l’ assenza di soggettività giuridica nelle società di persone, considerando, pertanto, i soci come contitolari dell’impresa sociale. Ne consegue che la distinzione tra la responsabilità dei soci e responsabilità della società non opera sotto il profilo soggettivo, bensì sotto quello oggettivo del gruppo di beni offerti al soddisfacimento del creditore. Quest’ultimo può agire prima su un gruppo di beni (quelli attinenti al patrimonio sociale), successivamente su un altro gruppo di beni (quelli personali del socio illimitatamente responsabile)108. Non è mancato in dottrina chi, pur arrivando alla medesima conclusione, articola la propria argomentazione su basi differenti ritenendo sia la questione della soggettività delle società personali, che l’esistenza del 108 In tal senso GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 228 e seg. beneficium excussionis non determinanti per risolvere il problema inerente la natura della responsabilità dei soci109. Pertanto, non può escludersi che la responsabilità del socio pur avendo carattere sussidiario sia comunque una responsabilità diretta nei confronti dei creditori sociali. In realtà, la soluzione andrebbe cercata nella struttura della società. Esaminando la disciplina codicistica, in particolare gli artt. 2291 (in cui si dispone che tutti i soci della s.n.c. sono illimitatamente responsabili), 2267, 2313 (per cui sono allo stesso modo personalmente responsabili i accomandatari) e 2320 (secondo cui responsabilità si estende anche soci la agli accomandanti ingeritisi nella gestione sociale) c.c., ne deriva che la responsabilità personale dei soci è strettamente connessa al ri schio d’impresa. Si arriva, pertanto, alla conclusione che l’obbligazione sociale è un’obbligazione per debito proprio del socio poiché per lo 109 Il beneficium excussionis, infatti, <<rappresenta una modalità di attuazione del rapporto obbligatorio rilevante nella fase esecutiva; le norme che rendono sussidiaria la responsabilità dei soci si limitano a stabilire l’ordine in cui dovranno essere aggrediti i beni dei soci (prima quelli comuni, poi quelli di ciascuno) ma non incidono sul dato fondamentale per cui i soci sopportano integralmente il rischio d’impresa e rispondono per le obbligazioni relative all’impresa sia con i beni investiti che con i propri personali>> (BOZZA, Limiti dei privilegi generali in materia di fallimento delle società di persone, in Dir. fall., 1983, I, p. 341-42). stesso debito sono obbligati la società (col patrimonio sociale) e ciascun socio col proprio patrimonio110. Secondo la dottrina contraria, invece, vi è una diversità, sia sotto l’aspetto genetico funzionale sia per quanto riguarda l’oggetto della prestazione, tra l’obbligazione della società e quella del socio. Tale differenza, concettuale e di conseguenze giuridiche, tra l’obbligazione della società e quella che grava sul socio illimitatamente responsabile, è resa evidente dalle norme contenute agli artt. 2266 (con cui si dispone la capacità delle società personali di acquistare diritti ed assumere obbligazioni), 2268 (dal quale si evince, al 1° comma, che l’obbligazione gravante sul socio è solo quella del pagamento dei debiti sociali) e 2269 (in cui è prevista la responsabilità del socio subentrato anche per le obbligazioni pregresse). L’obbligazione della società, infatti, sorge in virtù del rapporto con il terzo (creditore) e ha come contenuto la prestazione stabilita, mentre quella del singolo socio sorge 110 <<E’ un’obbligazione soggettivament e complessa, con una pluralità di soggetti ex parte debitoris, i quali sono tenuti all’eadem res debita che discende dall’ eadem causa obligandi e che si attua in fase esecutiva con modalità diverse in rapporto di sussidiarietà e non di solidarietà>>, (BOZZA, op. cit., p. 348). dall’obbligo legale di responsabilità ed ha sempre un contenuto monetario111. Per quanto riguarda, invece, le condizioni per l’escussione del patrimonio personale del socio (ex art. 2304 c.c.), non è del tutto chiaro se, ai fini della procedibilità, il creditore sociale debba sempre aver agito esecutivamente ed infruttuosamente il patrimonio sociale o se, al 111 È l’argomentazione sostenuta dal PALMIERI, secondo il quale <<Per un immediato apprezzamento della distinzione basta por mente a tutte quelle ipotesi in cui l’obbligazione della società consiste in un facere o non facere (ad es. un patto di non concorrenza). In casi siffatti il terzo non pot rà pret endere dal socio illimitatamente responsabile il comportamento dovuto dalla società, ma solo ed eventualmente una prestazione di pagamento>>, (PALMIERI, Privilegio generale e sua estensione al fallimento dei soci illimitatamente responsabili, in Riv. dir. comm., 1978, II, p. 7). Sostiene la tesi per cui la responsabilità del socio è responsabilità per debito altrui anche DI SABATO. Secondo l’Autore, infatti, se davvero si trattasse di una responsabilità solidale per debito proprio, il socio, che abbia estinto un debito sociale, avrebbe allora il diritto di regresso soltanto nei confront i degli altri soci pro quota, secondo i comuni principi della solidarietà ex art. 1299 c.c. <<E se così fosse, la società vedrebbe in tal modo estinto direttamente dai soci il suo debito e potrebbe quindi – senza cont ropart ite – cancellarlo dal proprio passivo come se si t rattasse di una sopravvenienza attiva>> , (DI SABATO, Manuale delle società, Torino, 1995, p. 135). Tale soluzione, sostiene l’Autore, qualora fosse accolta violerebbe, da un lato, il principio secondo cu i i soci non possono essere costretti a conferimenti u lteriori rispetto al cont ratto sociale, dall’altro lato, contrasterebbe con la regola per cui l’utile è la plusvalenza dell’attivo rispetto al passivo, <<dato che la tesi in questione induce alla rappresentazione in bilancio di un risultato positivo fittizio, di importo pari alla posta passiva eliminata a seguito del pagamento dei debiti sociali eseguito dai soci in proprio>>. Ne consegu e che è la società l’unico debitore principale nei confronti dei creditori sociali, mentre i soci sono responsabili solidalmente come garanti dei debiti sociali giuridicamente imputabili alla società. contrario, sia sufficiente la dimostrazione, in qualunque modo raggiunta, dell’insufficienza del patrimonio sociale alla soddisfazione anche parziale del credito. A quest’ultima interpretazione si lega, conseguentemente, l’ulteriore quesito su quali siano i mezzi idonei alla dimostrazione dell’incapienza del patrimonio sociale112. Con riferimento alla natura giuridica della responsabilità dei soci, la giurisprudenza solitamente riteneva che, in virtù del mancato 112 Aderisce alla prima tesi il G HIDINI, il quale ritiene che la procedura esecutiva nei confronti della società debba essere addirittura esaurita prima di poter agire verso il socio. <<La preventiva escussione non consiste nella semplice richiesta di pagamento, che rimanga inevasa, rivolta alla società (ai rappresentanti di essa), ma nel compimento degli atti esecutivi a carico della società medesima e nell’esaurimento della procedura esecutiva>> (GHIDINI, Le società personali, Padova, 1972, p. 260). Secondo il CAMPOBASSO, invece, l’istituto del beneficium excussionis non richiede al creditore sociale di condurre fino in fondo un procedimento esecutivo infruttuoso prima di poter agire nei confront i del socio. <<E’ tuttavia opinione corretta che la preventiva escussione del patrimonio sociale non è necessaria quando circostanze oggett ive dimostrano con certezza l’inutilità della stessa. Ad esempio, azione esecutiva inutilmente tentata da altro creditore senza che nel frattempo siano mutate le condizioni pat rimoniali della società>> (CAMPOBASSO, Diritto commerciale, 2, Torino, 2003, p. 93). riconoscimento della personalità giuridica alle società di persone, ed essendo, inoltre, il socio l’ultimo soggetto chiamato a rispondere dei debiti sociali (ex art. 2291 c.c.), era a lui che doveva esserne direttamente imputata la titolarità. Pertanto, la responsabilità del socio illimitatamente responsabile era responsabilità per debito proprio113. La questione sulla natura diretta per debito proprio diventa determinante in quelle pronunce rese in merito alla validità o meno della garanzia fideiussoria prestata dal socio illimitatamente responsabile verso il creditore sociale114. Problema, quest’ultimo, venuto 113 Cfr. Cass. 05-11-1999, n. 12310. Non risulta chiaro il fatto ma nell’argomentazione della Corte si legge che << la posizione del socio illimitatamente responsabile di una società personale non è assimilabile a quella di un fideiussore, sia pure ex lege, poiché ment re quest’ultimo garantisce un debito altru i e per tale ragione, una volta effettuato il pagamento ha azione di regresso per l’intero nei confronti del debitore principale e si surroga nei diritti del creditore (artt. 1949 e 1950 c.c.), il socio illimitatamente responsabile risponde con il proprio pat rimonio di debiti che non possono dirsi a lui estranei, in quanto derivanti dall’esercizio dell’attività comune (…). Tali conclusioni non trovano ostacolo nel fatto che anche le società personali costituiscono centri di imputazione di situazioni giuridiche distint i dalle persone dei soci, posto che siffatta soggettività ha carattere transitorio e strumentale, essendo i diritt i e gli obblighi ad esse imputati destinati a tradursi in situazioni individuali in capo ai singoli membri>>. 114 Cfr. Trib. Milano 08-06-1998. Con tale pronuncia è dichiarata la nullità della fideiussione prestata da alcuni soci di una s.n.c. in garanzia di un’obbligazione sociale. La sentenza viene emessa in sede di opposizione a decreto ingiuntivo ottenuto dal solitamente in considerazione nell’ambito di procedure di concordato preventivo, essendo ben diverse le conseguenze a carico del creditore sociale nei confronti sia della società che dei soci fideiussori, l’opposizione viene promossa da uno dei soci assumendo di aver ceduto la propria quota sociale in data anteriore e eccependo la liberazione del fideiussore ai sensi dell’art. 1956 c.c. In accoglimento dell’eccezione, il Tribunale afferma che <<la fideiussione del socio di società in nome collettivo è nulla per mancanza di causa poiché il socio già risponde delle obbligazioni sociali con tutto il proprio patrimonio, essendo già obbligato per i debiti della società, ai sensi degli artt. 2267 e 2291 c.c.>>. Pertanto, essendo stato emesso decreto ingiuntivo nei confronti dell’opponente nella sua qualità di fideiussore e non di socio il Tribunale revoca nei suoi confronti il suddetto decreto. Nello stesso senso anche Trib. Nocera Inferiore 0203-1995. Identico il fatto, due soci di s.n.c. si oppongono alla richiesta di pagamento avanzata da un creditore sociale in qualità di fideiussori della società stessa. In merito alla validità o meno della fideiussione prestata dai soci il Tribunale non ritiene la mancanza di soggettività della s.n.c. un argomento decisivo per invalidità della garanzia fideiussoria. <<La ricostruzione sistematica della disciplina normativa della società in nome collettivo non consente di escludere l’effettiva terzietà del socio rispetto alla società (ex art. 2305 c.c.). la diversità dei soggetti e l’altruità dell’obbligazione garantita, essenziali alla nozione di fideiussione presupposta dall’art. 1936 c.c., non è in definit iva di ostacolo, considerandosi garante il socio e garantita la società>>. Secondo l’argomentazione seguita nella sentenza in esame, viene meno la tipica causa fideiussoria, che è quella di rafforzare la garanzia del creditore tramite l’allargamento del suo potere di aggressione verso il patrimonio di un altro soggetto (il fideiussore) diverso dal debitore principale. <<Ma, in ipotesi di fideiussione prestata dal socio a favore di una s.n.c., si rivela inesistente ogni funzione diretta ed immediata di rafforzamento dell’obbligazione sociale garantita, giacché ex art. 2291 c.c. società in nome collettivo tutti i soci rispondono illimitatamente verso i creditori sociali>>. In senso contrario è Cass. 12-12-2007, n. 26012 e Trib. Firenze 13-03-2002 di cui si è già discusso in merito alla questione sulla soggett ività delle società personali, in nota n. 27. soggetto a seconda che venga collocato tra i destinatari delle disposizioni del 1° o del 2° comma dell’art. 184 l. fall. che, disciplinando gli effetti del concordato preventivo per i creditori, stabilisce al 3° comma, <<salvo patto contrario, il concordato della società ha efficacia nei confronti dei soci illimitatamente responsabili>>. La norma è quindi piuttosto chiara nel disporre che in assenza di espressa pattuizione fra i creditori e la società debitrice, il pagamento della percentuale concordataria da parte della società libera anche i soci illimitatamente responsabili. la questione che si pone è allora se ciò valga anche per quei soci illimitatamente responsabili che abbiano personalmente garantito i debiti della società. La giurisprudenza, dopo un atteggiamento oscillante, ha riconosciuto l’efficacia esdebitativa del concordato, impedendo così ai creditori sociali di escutere direttamente i soci fideiussori oltre i limiti della percentuale concordataria, in base alla considerazione che ritenere il socio fideiussore come un coobbligato ai sensi dell’art. 184, 2° comma, l. fall. assicurerebbe ad un singolo creditore il pagamento pieno, violando in tal modo la par condicio creditorum115. 115 Cfr. App. Genova 12-05-1982. In cui si legge che <<il concordato prevent ivo di società con soci illimitatamente responsabili (nella specie, società in È possibile osservare che tale indirizzo, di fatto, non riconosce la fideiussione del socio, o più precisamente, da un lato ammette la possibilità per il socio illimitatamente responsabile di prestare fideiussione per un debito sociale, giurisprudenza dall’altro ritiene la simile stessa garanzia inoperabile in sede fallimentare. È bene sottolineare ancora come non sia necessario affrontare la questione sulla soggettività delle società personali per risolvere il problema della validità della fideiussione del socio. Si potrebbe, infatti, ritenere che il socio si pone come garante per un debito comune a tutti i soci rinunciando preventivamente all’eccezione della preventiva escussione del patrimonio sociale. Con riferimento, invece, all’operatività del beneficium excussionis sono poche le pronunce rilevanti in giurisprudenza dalle quali è possibile trarre i principi secondo cui: 1) se il socio chiamato in giudizio per il pagamento di un credito sociale, vuole opporre, in via d’eccezione, al creditore sociale il beneficio di preventiva escussione del patrimonio sociale deve necessariamente procedere ala citazione nome collettivo) produce la liberazione anche dei soci che abbiano prestato separatamente fideiussioni per obbligazioni della stessa società>>. degli altri soci (non sussistendo per il giudice l’obbligo di procedere ex officio a tale chiamata in giudizio)116; 2) l’ambito di operatività del 116 Cfr. Cass. 12-01-1983, n. 198. Il socio di una società di fatto propone ricorso avverso la sentenza d’appello in cu i era stabilito che il beneficio d’escussione non potesse essere opposto come eccezione, e che su di lui gravasse l’onere di chiamare in causa gli alt ri soci al fine di poterlo esercitare. Pertanto, l’opponente dichiarava da un lato che si trattava di una vera e propria eccezione (posto che senza di questa non era possibile far valere il beneficio); dall’altro lato che dall’art. 2268 c.c. non era possibile evincere il suddetto onere di chiamata in causa degli altri soci al fine dell’esercizio del beneficio. La Cort e, a tal riguardo, osserva come nelle società personali i creditori sociali possono sempre contare sul patrimonio sociale e sulla responsabilità personale e solidale dei soci che hanno agito in nome e per conto della società (ex art. 2267 c.c.); e che al socio cui sia richiesto il pagamento di un debito sociale è attribuito il beneficio della prevent iva escussione del patrimonio sociale con l’onere di indicare i beni su cui il creditore possa agevolmente soddisfarsi. Il beneficio, pertanto, è subordinato a due condizioni: 1) che sia fatto valere dal socio, 2) che questo indichi i beni cui il creditore possa soddisfarsi agevolmente. <<Ora, riguardo al primo punto, è evidente che perché l’esercizio della preventiva escussione possa ritenersi concretamente richiesto occorre che nella causa il socio perseguito ne attui il presupposto: e ciò con la citazione degli alt ri soci o con l’istanza, rivolta al giudice, di essere autorizzato ad esercitare la chiamata in causa. Occorre, quindi, che l’azione, legittimamente promossa dal creditore nei confront i di uno solo dei soci della società di fatto, venga paralizzata mediante l’int roduzione nel giudizio, ad iniziativa ad e cura del titolare del beneficio, degli altri soggetti nei confronti dei quali il creditore sociale possa, a norma dell’art . 2268 c.c., esercitare l’escussione preventiva>> . La Corte, pertanto, rigetta il ricorso e conclude definendo il beneficio di preventiva escussione <<una ipotesi di garanzia impropria, rispetto alla quale – com’è noto – non sussiste alcun obbligo per il giudice in ordine alla chiamata in causa, ex officio, del terzo; ma sussiste soltanto la facoltà di autorizzarla se sollecitato, con specifica istanza, dalla parte interessata>>. Proprio quest’ultimo aspetto della sentenza in esame desta curiosità. Non sembra condivisibile accostare la figura del socio richiesto del pagamento dal beneficio è limitato alla fase esecutiva ma ciò non toglie che può essere opposto al creditore sociale non solo quando l’esecuzione sia iniziata ma anche quando è semplicemente minacciata a mezzo precetto117. creditore sociale a quella di un soggetto che vanta una garanzia impropria. A ben vedere, infatt i, l’unico vantaggio che ha il socio in questione è solo quello di pagare dopo l’escussione del patrimonio sociale. Processualmente parlando, poi, è comprensibile il principio secondo cui il socio, nell’eccepire il beneficio, debba chiamare in giudizio anche gli altri soci, in quanto, essendo il patrimonio sociale comune a tutti è giusto che gli interessati siano presenti per poter tutelare la rispettiva posizione in relazione ai beni comuni, anche perché potrebbero essere pregiudicati dall’azione del creditore. 117 Cfr. Cass. 15-07-2005, n. 15036. Il socio accomandatario di una s.a.s. propose opposizione al precetto int imatogli da un creditore sociale deducendo che il titolo esecutivo si riferiva ad un debito della società, di cui lui rispondeva solo dopo il beneficium excussionis. Il creditore dichiarava che nel caso concreto non poteva trovare applicazione il suddetto beneficio avendo un’efficacia limitata esclusivamente alla fase esecutiva. In accoglimento di quest’ultima tesi, sia in primo che in secondo grado venne rigettata l’opposizione sulla considerazione che il precetto ha un valore solo negoziale e non esecutivo. Contro la sentenza della Corte d’Appello il socio accomandatario propone ricorso in Cassazione. La Corte accoglie il ricorso sull’assunto che <<la tutela dei soci attraverso il beneficio costituisce applicazione del principio dell’art. 2740 c.c. e del concetto di garanzia generale che è connesso al patrimonio del debitore a favore del creditore; conseguentemente, il beneficio, attenendo alla garanzia del pat rimonio del socio nei confronti del creditore sociale, opera nel senso che il socio non può essere chiamato a rispondere in sede esecutiva prima della società, dotata di autonomia patrimoniale>>. Tuttavia, la Corte rileva come non possa impedirsi al creditore di munirsi di titolo esecutivo nei confronti del socio, esercitando le opportune azioni anche al fine di poter iscrivere ipoteca giudiziale sui beni immobili del socio stesso <<con la differenza che, se il titolo riguarda la società , può essere azionato pure contro il socio, mentre altrettanto non avviene nel caso inverso>>. Secondo l’argomentazione seguita dalla Corte, quindi, il beneficio della prevent iva escussione costituisce condizione per l’azione esecutiva nei confront i del socio, tanto più che questo può proporre eccezione ex art. 615 c.p.c. in caso di sua inosservanza. A differenza di quanto ha ritenuto la corte di merito, la Cassazione afferma che a tal fine non è necessario che l’esecuzione sia iniziata ma è sufficiente che sia già solo minacciata tramite precetto. <<Si posticiperebbe altriment i senza alcuna giustificazione la tutela del socio, imponendogli di attendere che la minaccia contenuta nel precetto si attui con il pignoramento, laddove viene ammessa la tutela anticipata del debitore, consentendogli di ottenere ancora prima dell’instaurazione del giudizio di opposizione a precetto un provvedimento che inibisca l’attivazione dell’esecuzione forzata>>. Pertanto, la Corte cassa la sentenza con rinvio. La decisione assunta dalla Corta sembra corretta. Non sarebbe, infatti, logico imporre al debit ore di aspettare di subire il pignoramento prima di poter opporre al creditore il beneficium excussionis. Se fosse così, il socio subirebbe un sacrificio (quello del pignoramento di tutti o parte dei suoi beni personali) inutile, poiché quel pignoramento è destinato a venir meno conseguentemente all’opposizione del socio con cui fa valere il beneficium excussionis. Nello stesso senso è Cass. 12-08-2004, n. 15713. Di cui è possibile riportare solo la massima, <<Il beneficium excussionis concesso ai soci illimitatamente responsabili d’una società di persone, in base al quale il creditore sociale non può pretendere il pagamento da un singolo socio se non dopo l’escussione del patrimonio sociale, opera esclusivamente in sede esecutiva, nel senso che il creditore sociale non può proceder coattivamente a carico del socio se non dopo aver agito infruttuosamente sui beni della società, ma non impedisce al predetto creditore di agire in sede di cognizione, per munirsi d’uno specifico titolo esecutivo nei confronti del socio, sia per poter iscrivere ipoteca giudiziale sui beni immobili di questi, sia per poter prontamente agire in via esecutiva contro il medesimo, ove il patrimonio sociale risulti incapiente>> . 6) Scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio. 6.1) Morte del socio. In base ad una prima interpretazione dell’art. 2284 c.c., alla morte del socio consegue come effetto immediato e diretto lo scioglimento del vincolo particolare, nonché l’obbligo di liquidare la quota agli eredi. Ne deriva che 1) l’effetto legale della morte è solo la liquidazione della quota; 2) gli eredi hanno un diritto di credito ad una somma di denaro (la liquidazione, appunto) sottoposto ad una condizione risolutiva potestativa di una diversa volontà dei soci superstiti (che potrebbero, infatti, voler sciogliere la società o continuarla con gli eredi); 3) la non necessità per i soci superstiti che vogliano liqu idare la quota di manifestare esplicitamente alcuna volontà in tal senso. In base ad altro orientamento, al cont rario, la morte non è causa di scioglimento del rapporto (come si avrebbe con il recesso e l’esclusione) che rimane in uno stato di quiescenza conseguendone una situazione di incertezza, destinata a risolversi solo una volta scelta una delle tre soluzioni dettate dall’art . 2284 c.c. Altro problema che si pone è, inoltre, se l’acquisizione della qualità di socio da parte dell’erede implichi anche il conseguimento della qualità di amministratore. La casistica riscontrata non è particolarmente significativa. Secondo un’autorevole dottrina l’effetto diretto ed immediato della morte del socio sarebbe la risoluzione del vincolo particolare118. Ponendosi in una posizione di critica con quanti ritengono che all’evento si apra per i soci superstiti una triplice strada, la tesi in esame non manca di sottolineare come tale orientamento comporti un’inevitabile situazione giuridica di incertezza destinata a risolversi (nel silenzio degli altri soci) con l’iniziativa degli eredi da manifestarsi mediante l’intimazione ai soci di prendere la loro decisione entro un dato termine, fissato dall’autorità giudiziaria o dagli eredi stessi119. 118 Sostiene, ad esempio, il GHIDINI che le alternative previste al’art. 2284 c.c. non sono tutte sullo stesso piano, <<deve invece dirsi che alla morte del socio, si ha una sola conseguenza legale, quella per cui la società continua tra i soci superstiti, i quali debbono liquidare agli eredi la quota del defunto. I soci superstiti hanno tuttavia la facoltà di rimuovere la conseguenza legale, decidendo, invece, o di sciogliere la società o di continuarla con gli eredi (ove questi vi acconsentano)>>, (GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 478). Coerentemente a quanto detto, l’Autore ritiene che, essendo il suddetto obbligo previsto dalla legge una conseguenza diretta ed immediata della mort e di un socio, la volontà dei soci superstiti di liquidare la quota agli eredi non necessita di espressa manifestazione. 119 <<Ognuno vede l’incongruità della soluzione: essendo tre le alternative, la interpellazione (invito a decidere) in ordine alla accettazione o meno di una di Conseguentemente a quanto appena detto, essendovi vincolo l’immediato sociale scioglimento nonché il del principio d’intrasferibilità della partecipazione sociale, la quota non può trasmettersi automaticamente agli eredi ai quali, pertanto, spetta un diritto di credito alla liquidazione della stessa. Tale diritto è tuttavia sottoposto alla condizione risolutiva potestativa che i soci superstiti decidano di sciogliere la società o di esse, non sarebbe sufficiente a dirimere l’incertezza; i soci, tacendo, rivelerebbero bensì (arg. art. 1399, 4° comma) di rifiutare la soluzione oggetto della interpellazione, ma non rivelerebbero a quale delle due ulteriori alternat ive ancora libere o possibili, vada la loro preferenza>>, (GHIDINI, op. cit., p. 479). A tal riguardo, l’Autore ritiene inadeguato il ricorso all’art. 1399 c.c. poiché tale norma opera sul presupposto che l’intimazione a rispondere abbia ad oggetto il compimento di un solo atto (la ratifica), ne consegue che l’eventuale silenzio assume il significato di rifiuto al compimento di quell’atto. Se, al cont rario, le alternative possibili sono più di una, la suddetta regola non può validamente applicarsi, <<Infatti non sarebbe lecito agli interpellanti (nella specie agli eredi) di formulare l’invito a decidere nel senso che, nel silenzio, si intenderà accolta una data soluzione; in tal caso infatti la scelta della soluzione che dovrebbe prevalere o valere, verrebbe fatta dagli interpellanti, i quali, in più casi, pot rebbero ora indicare una soluzione, ora un’alt ra ancora; ma proprio dal sistema accolto dalla legge, rivelato dall’art. 1399, 4° co. (e dagli artt. 1286, 72 l. fallim.), risulta che non la parte, ma solo la legge, può attribuire al silenzio dell’interpellato un particolare significato volit ivo (quello del rifiuto del dato – e solo – atteggiamento indicato nell’int imazione), mentre col sistema qui criticat o, sarebbero gli eredi a stabilire, liberamente, il significato del silenzio osservato di soci>>. GHIDINI, op. cit., nota 13, p. 479. proseguirla chiedendo agli eredi di subentrare nel rapporto sociale120. 120 Della stessa opinione è AULETTA, il quale afferma che <<la morte del socio trasforma il suo diritto alla quota in diritto di credito degli eredi; ma se, nel termine di sei mesi, interviene la delibera dei soci sopravvissuti di liquidare la società o il contratto di continuazione tra soci ed eredi, allora alla morte consegue nella prima ipotesi la successione degli eredi nella quota della società in liquidazione, nella seconda ipotesi la loro successione nella quota della società in attività d’impresa>>, (AULETTA, La morte del socio nelle società di persone, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Catania, IV (1949 – 50) Napoli, 1950, p. 138). Proprio con riferimento a quest’ultima ipotesi, l’Autore afferma che con la stipulazione del suddetto contratto si attua una conversione del diritto di credito a un diritto di quota ed osserva, inoltre, che <<non si può più parlare di successione degli eredi nel rapporto sociale del defunto. D’altra parte, tra la morte e il contratto di continuazione intercorre un certo lasso di tempo, onde diventa inevitabile l’alternativa: o si esclude la successione o si ritiene che la legge ha attribuito al contratto di continuazione valore retroattivo>>, (AULETTA, op. cit., p. 136). A tal riguardo, l’Autore ritiene che affinché gli eredi partecipino anche nei rapporti int erni ai guadagni e alle perdite effettuate nel periodo intercorso tra la morte del socio e il cont ratto di continuazione, <<è sufficiente che allo stesso contratto si attribuisca efficacia retroattiva obbligatoria, ciò che è facile per via di interpretazione della volontà delle parti>> ; ritenendo, invece, che il contratto sia dotato di retroattività reale, si avrebbe una successione nella quota e sarebbe come se non ci fosse mai stato un diritto di credito degli eredi alla liquidazione della stessa. L’argomento probante è, in realtà, quello che prende in considerazione gli interessi tutelati dal legislatore con tramite la previsione di questa possibilità (cont inuazione del rapporto sociale t ra gli eredi e i soci superstiti). Secondo quanto correttamente rit iene l’Autore, lo scopo del legislatore è di conservare in vita la società e in tal senso tutelare sia l’interesse dei soci superstiti ad avere come consoci delle persone gradite, sia l’interesse degli eredi a non partecipare ad un’impresa non gradita, <<il contratto di continuazione dimostra che detti interessi, nell’ipotesi particolare, o non esistono o non sono pregiudicati dal permanere immutato del vincolo sociale; ora se detto contratto non agisse retroattivamente, lo scioglimento parziale finirebbe col tutelare interessi (p. es. gli interessi dei creditori del defunto o dei creditori Contraria è l’opinione di chi sostiene che l’evento morte si limiti a rendere quiescente il rapporto sociale. Secondo tale orientamento, alla morte del socio ne consegue che i soci sopravvissuti debbano scegliere una delle tre alternative poste all’art. 2284 c.c.121. Pertanto, se i soci restanti deliberano lo scioglimento della società, l’evento va considerato quale mera occasione per la detta deliberazione e non quale causa dello scioglimento né della società e né del singolo rapporto sociale, che degli eredi) diversi da quelli per la tutela dei quali lo stesso è stato concesso, incrinando in certo senso l’indirizzo legislat ivo di favore per la continuazione della società>>, (AULETTA, op. cit., 137). Non molto chiara è la posizione assunta dal BOLAFFI, secondo il quale lo scioglimento del rapporto sociale per morte non opera di diritto bensì solo su richiesta di uno degli int eressati e afferma, inoltre, la possibilità di sostituire la disciplina legale con altra soluzione decisa all’unanimità (BOLAFFI, La società semplice, Milano, 1975, p. 634). 121 A tal riguardo, afferma il VENDITTI che << a differenza del recesso e dall’esclusione, che hanno tale efficacia in quanto atti giu ridici, non opera di per sé quale causa di scioglimento del rapport o sociale limitatamente ad un socio. La sorte del quale, (…), resta provvisoriamente incerta, in un sopravvenuto stato di quiescenza; ed è rimessa, pur indirettamente, cioè attraverso il riconoscimento di un potere di opzione, alla valutazione dei soci superstiti ed alla loro manifestazione, espressa o tacita, di volontà: dalla quale viene perciò a dipendere l’assunzione, da parte degli eredi, della veste giu ridica – rispettivamente – del socio uscente ovvero del socio di società in liquidazione o (salva, in questo solo caso, la necessità del loro consenso) di società in attività d’impresa>>, (VENDITTI, L’erede del socio a responsabilità illimitata e la continuazione della società, in Riv. dir. comm., 1953, I, p. 220). subisce solo le conseguenze della nuova realtà trasformandosi da partecipazione a società attiva in liquidazione, partecipazione e in subentreranno gli questa eredi122. dell’identità oggettiva della a società in partecipazione Il permanere partecipazione stessa insieme alla persistenza del vincolo quiescente, porta la dottrina a ritenere che con la continuazione del vincolo sociale insieme agli eredi si attui una sostituzione soggettiva all’interno della partecipazione123. Breve accenno merita anche la diversa questione se l’acquisizione dello status di socio da parte degli eredi comporti anche il conseguimento della qualità di amministratore. 122 È proprio in virtù di questa successione che, sostiene il VENDITTI, non è possibile considerare risolto il vincolo particolare e, tantomeno, che si sia costituito in capo alla società l’obbligo di liquidare agli eredi la quota del de cuius. <<Il semplice riconoscimento del potere di porre in liquidazione la società basta a dimostrare che tale conseguenza non si è ancora verificata, apparendo incongrua (…) una interpretazione che configuri l’obbligo di liquidazione della quota come già sorto e derogabile con la successiva delibera di scioglimento >> (VENDITTI, op. cit., p. 222). 123 In quest’ottica sembra sia possibile ricomprendere anche quella dottrina che, seppu re contraria all’idea di una quiescenza del rapporto sociale, ritiene che se entro sei mesi si perfeziona il contratto di continuazione vi sarà una successione degli eredi nella quota della società in attività d’impresa. AULETTA, op. cit., p. 138. Di parere negativo è quella dottrina (già evidenziata in tema della figura dell’amministratore non socio nelle società di persone) secondo cui il potere d’amministrazione non deriva dal contratto sociale bensì da un atto di nomina geneticamente e funzionalmente collegato al primo124. Secondo tale argomentazione, se l’amministratore è nominato con atto separato risulta evidente che non può esservi nessuna interdipendenza tra partecipazione sociale e posizione gestoria per cui le vicende traslative della prima non possono coinvolgere l’altra125. 124 In tal senso SPADA, il quale ritiene che <<il trasferimento della partecipazione non si estenda al potere di amministrazione risalente ad un atto di nomina, ma comprenda soltanto il potere originario, connaturale alla qualità di socio, quale tipicamente (se non esclusivamente) si evidenzia, in difetto d’un regolamento organizzativo pattizio, nel regime di amministrazione disgiuntiva di tutti i soci (art. 2257)>>, (SPADA, La tipicità delle società, Padova, 1974, p. 314). 125 <<A nostro modo di vedere, la vicenda traslativa della partecipazione sociale non può estendersi ad un rapporto il cui titolo è autonomo rispetto al contratto di società: che il fatto costitutivo del rapporto gestorio sia collegato al contratto di società (…) non deve oscurare la circostanza che la fattispecie societaria è compiuta a prescindere dalla nomina di amministratori>> (SPADA, op. cit., nota 150 p. 315). Diversa è l’opinione di AULETTA. L’Autore, riferendosi esplicitamente all’ipotesi in cui i poteri di amministrazione siano stati attribuiti al defunto col contratto sociale, si pone in una posizione di critica nei Si trovano pronunce interessanti, seppure non molto recenti, sulla questione della validità della clausola di continuazione contenuta nel contratto sociale che riconosca la successione confronti di quella dottrina che solitamente cerca la soluzione del problema nella natu ra personale del rapporto. Cont ro chi ritiene che i poteri d’amministrazione non si trasmettono mai all’erede, l’Autore sostiene che <<con la soluzione ora esposta si dà la più energica tutela all’interesse dei superstiti alle qualità dei consoci, cioè si tien ferma la personalità del rapporto sociale, nonostante la clausola di continuazione, in quanto in sostanza si toglie agli eredi, cioè ai soci non scelti dagli alt ri, ogni possibilità di influire decisamente sull’andamento dell’impresa sociale. Ma la medaglia ha, evidentemente, il suo rovescio; il risultato è raggiunto col sacrificio massimo degli eredi, esclusi dalla predetta possibilità di influenza e pur illimitatamente responsabili alla pari degli alt ri soci>> , (AULETTA, Clausole di continuazione della società coll’erede del socio personalmente responsabile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, p. 909). La soluzione andrebbe in realtà cercata nell’ interpretazione del contratto, in altri termini, è sufficiente verificare (tramite interpretazione soggettiva) se può dirsi convenuta la successione degli eredi nei poteri di amministrazione o l’esclusione della stessa o, ancora, l’att ribuzione di poteri di amministrazione diversi da quelli che spettavano al de cuius. Nei casi in cui, invece, opera l’interpretazione oggettiva, l’Autore ritiene che debba riconoscersi la successione nei poteri d’amministrazione qualora dal contratto non risulti che i suddetti poteri erano stati attribuiti al defunto per le sue qualità personali. dell’erede nei poteri amministrativi del defunto. A tal riguardo, la giurisprudenza appare negativa all’idea di una piena disponibilità per i soci di rinunciare preventivamente alla scelta del nuovo amministratore in favore dell’erede. Dall’analisi svolta risulta, infatti, che la designazione alla carica di amministratore in incertam personam è nulla poiché contraria al principio dell’intuitus personae tipico delle società personali126. 126 Cfr. Cass. 04-03-1993, n. 2632. Tale sentenza riguarda un caso di s.a.s. con solo due soci in cui viene meno l’accomandatario. Nel contratto sociale si prevedeva la trasferibilità delle quote sociali <<con effetto verso la società>> col consenso della maggioranza del capitale sociale, nonché, in caso di morte di un socio, il diritto degli eredi di continuare la società. Deceduto l’accomandatario, la moglie ed unica erede convenne in giudizio il socio accomandante chiedendo che fosse accertato l’acquisto da parte sua della qualità di socia accomandataria, e che fosse conseguentemente dichiarato illegitt imo ogni tipo di ingerenza da parte del socio accomandante nella gestione della società. Il tribunale respinse la domanda formulata in via riconvenzionale dal convenuto di escludere l’attrice dalla società, accogliendo invece la domanda dell’attrice. La pronuncia venne confermata in appello in virtù della considerazione che la successione dell’erede nella quota sociale comportava la sua assunzione della stessa posizione giuridica (accomandatario-amministratore) del de cuius. Il socio accomandante propone ricorso in Cassazione lamentando: 1) la falsa applicazione dell’art. 1722, n. 4, c.c. perché applicabile alla sola ipotesi di morte del mandante imprenditore; 2) che la corte di merito non ha considerato che l’attribuzione nel contratto sociale dello status di amministratore al socio defunto voleva sottolineare il carattere personale di tale attribuzione e, pertanto, la sua in trasmissibilità senza il consenso di tutti i soci; 3) che nella successione ereditaria delle quote sociali restano esclusi gli eventuali diritti personali connessi rendendo nulla (ex art. 1418 c.c.) una clausola che stabilisca la trasmissibilità anche della qualità di accomandatario e di amministratore. La Cassazione ritiene i suddetti motivi fondati e meritevoli di accoglimento. Premesso che non vi sono dubbi nella giurisprudenza di legittimità circa la validità delle clausole di cont inuazione stabilite in favore degli eredi del socio defunto, <<il problema della validità di tale clausola si pone, invece, quando essa contenga una designazione della funzione amministrativa in incertam personam o delineata con criteri di indifferenza, così da costituire, sostanzialmente, un atto abdicat ivo, da parte di un socio (l’accomandante superstite), all’espressione della volontà negoziale su un punto essenziale del contratto sociale>>. Sulla base della considerazione che la funzione amministrat iva è strettamente funzionale al perseguimento dell’oggetto sociale, la Corte ritiene che simile funzione non possa essere realizzata da un soggetto che, al momento in cui è stato concluso il negozio societario, <<resti indeterminabile ovvero sia individuabile con criteri di indifferenza rispetto alle sorti della società e allo scopo che i soci intendono perseguire>>. Pertanto, una designazione di tal genere lederebbe un elemento essenziale del contratto di società in accomandita. <<Egualmente, sarebbe illegittima una clausola di continuazione che, con indifferenza rispetto ai soci accomandatari o accomandant i, prevedesse genericamente il subentro degli eredi del socio defunto anche nella qualifica di amministratore da lui rivestita nella società. E non potrebbe impedire una diversa determinazione negoziale da parte dell’erede dell’accomandatario e dell’accomandante superstite>>. In conclusione la Corte cassa la sentenza indicando al giudice del rinvio di conformarsi ai seguenti principi <<è invalida la clausola di continuazione, con la quale i soci di società in accomandita semplice, nell’atto costitutivo, in deroga all’art. 2284 c.c., prevedono l’automatica trasmissibilità all’erede del socio accomandatario defunto, di cu i non sia certa l’identità, unitamente alla predetta qualità di socio, anche del munus di amministratore, tenendo conto che tale designazione in incertam personam coinvolge la stessa struttura societaria, e che la funzione amministrativa, strettamente strumentale al perseguimento del fine sociale, non può essere affidata ad un soggetto che, al momento in cui è posto in essere il negozio societario, resti indeterminabile, ovvero sia individuabile con criteri d’indifferenza rispetto alle sorti della società e allo scopo che i soci intendono raggiungere >>. Non risultano dei precedenti giurisprudenziali editi in merito alla validità di clausole statutarie in cui sia prevista la successione dell’erede nelle cariche Tuttavia, non sono mancate pronunce che a fronte di fattispecie riguardanti società in cui vige il regime legale di amministrazione, dove pertanto il potere d’amministrazione è insito alla qualità di socio illimitatamente responsabile, siano orientate a riconoscere l’assunzione da parte dell’erede anche dei suddetti poteri127. amministrative che facevano capo al de cuius, vi sono però delle pronunce relative alla questione della sussistenza o meno di un diritto dell’erede di subentrare ope legis nei poteri gestori del socio defunto, in assenza di specifiche disposizioni nell’atto costitutivo. Una t ra queste è la sentenza del Trib. Milano 05-03-1987, in cui si afferma che a seguito della morte del socio, la clausola di continuazione del socio attribuisce agli eredi il diritto di subentrare nella società ma non nei poteri amministrativi. La fattispecie è differente da quella che ha portato alla sentenza di Cassazione esaminata. Il fatto riguarda, infatti, una società semplice in cui i poteri di amministrazione, nonché di rappresentanza, erano interamente attribu iti ad uno solo dei soci. Pertanto, il giudice correttamente li considerò attribuiti al defunto ad personam. 127 Cfr. App. Milano 07-05-1974. Anche qui il caso riguarda una s.a.s. con unico accomandatario poi deceduto. La questione (in realtà non molto chiara) si riferiva alla portata e agli effetti di una disposizione statutaria, inserita nella clausola di cont inuazione facoltativa, in cui si prevedeva che qualora gli eredi del socio deceduto fossero stati più d’uno avrebbero dovuto farsi rappresentare da una sola persona. Il collegio giudicante dopo aver precisato che << in virtù della clausola, insieme alle quote sociali cadute in successione, si trovano gli ulteriori diritti alle medesime connessi, che quindi passano al chiamato, non già per atto inter vivos, ma bensì iure haereditatis con l’accettazione dell’eredità. Cioè senza bisogno di speciale dichiarazione come ritenuto in sentenza (…)>> , afferma che la disposizione statutaria in esame <<si riferisce all’esercizio dei diritti connessi alla qualità di socio all’interno della società: In conclusione, è possibile considerare che la questione sulla validità delle clausole di continuazione si lega al principio dell’intuitus personae, basilare nelle società personali. A tal riguardo, il suddetto principio sembra voler garantire l’immutabilità della compagine sociale nell’esclusivo interesse delle parti, ne consegue che è liberamente rinunciabile dai soci stessi. Quanto detto porterebbe pertanto a ritenere senz’altro valida la clausola di continuazione con gli eredi. Rispetto, poi, al tema della validità delle clausole del contratto sociale che prevedono la successione degli eredi nei poteri amministrativi della società, ritengo sia agevole comprendere che l’erede non possa mai subentrare nella carica amministrativa quando riconosciuta al de cuius con atto separato. Con tale atto, infatti, si è nominato il primo titolare del potere amministrativo, pertanto, affinché vi sia un nuovo titolare è necessario un nuovo atto di nomina. In buona sostanza, la nomina come amministratore della società non deriva in questo caso direttamente dal contratto sociale e per ciò non è possibile la sua all’esigenza che uno solo fra più accomandatari assuma la gestione>> . In base a quanto affermato in sentenza, è logico dedurre che la corte d’appello milanese abbia dato per scontato che gli eredi dell’unico accomandatario assumano di diritto i poteri gestori. trasmissione insieme alla quota in via ereditaria. Al di là di quest’ipotesi, ci si chiede se i soci non possano davvero mai rinunciare al loro diritto di scelta del nuovo amministratore della società nel caso di successione ereditaria nella quota del socio cui era statutariamente riconosciuto il potere gestorio. A ben vedere, la continuazione della società con gli eredi quando applicata alle società a regime legale di amministrazione, comporta inevitabilmente una designazione di amministratore ad incertam personam. Se ciò è vero, non dovrebbero allora esservi grossi impedimenti a ritenere valida una clausola di continuazione che preveda anche al successione degli eredi nei poteri amministrativi. 6.2) Il recesso. La presente indagine intende esaminare la specifica questione se a fronte del recesso di un socio (art. 2285 c.c.), gli altri soci possano decidere di sciogliere la società e, conseguentemente, se il suddetto scioglimento sia in tal caso opponibile al recedente. Il risvolto pratico della questione poggia sull’idea che se lo scioglimento della società non è opponibile al recedente, quest’ultimo avrà diritto ad ottenere la liquidazione della quota ent ro i sei mesi dal giorno in cui il recesso è divenuto efficace (ex art. 2289, 4° comma, c.c.); mentre, se lo scioglimento è opponibile il recedente dovrà aspettare la chiusura della procedura di liquidazione. Il problema sorge dalla considerazione che se nel caso di morte del socio il legislatore ha previsto la possibilità di sciogliere la società (ex art . 2284 c.c.), una simile previsione manca nell’ipotesi del recesso. Se alla disciplina del recesso si attribuisce la medesima ratio posta alla base della disciplina contenuta all’art. 2284 c.c., secondo cui ai soci restanti è riconosciuta la possibilità di sciogliere la società qualora il socio uscente fosse essenziale, non vi possono essere difficoltà ad ammettere la stessa facoltà in caso di recesso del socio 128. In base a tale argomentazione, deve considerarsi sicuramente opponibile lo scioglimento della società nel caso in cui il recesso sia stato dato con preavviso e il suddetto scioglimento sia intervenuto entro il termine del preavviso. La motivazione risiede nella considerazione che entro la scadenza di quel termine il recedente è ancora un socio e in 128 È l’argomentazione sostenuta dal GHIDINI (l’unico ad avere approfondito la questione) secondo il quale <<Il recesso di un socio, al pari della morte pone gli altri soci di fronte al problema se sia possibile o meno continuare ancora nella società, nell’esercizio attivo della stessa; lo scioglimento della società è la risposta negativa al quesito, in dipendenza della riconosciuta essenzialità della partecipazione alla società del socio receduto>>, (GHIDINI, Società personali, Padova, 1972, p. 594). quanto tale subisce le decisioni prese dagli altri soci. Diversa è l’ipotesi di recesso per giusta causa. Secondo la disciplina prevista, infatti, non è richiesto un preavviso, ma è operante in via immediata non appena comunicato agli altri soci. Pertanto, sarebbe logico ritenere che il socio receduto abbia conseguito il diritto al valore della quota contestualmente al momento in cui il suo recesso è divenuto operante, ovvero nel momento in cui vi è stata la dichiarazione di voler recedere dalla società129. Conclusivamente, è bene specificare che affinché possa applicarsi lo stesso schema previsto nell’ipotesi di morte del socio, è necessario che lo scioglimento risulti (anche temporalmente) essere conseguenza diretta del recesso del socio. 129 A tal riguardo il GHIDINI afferma che <<se è vero che nel concorso t ra più cause di scioglimento del singolo vincolo sociale (morte, recesso, esclusione), prevale quella che diviene operant e per prima, ciò non può dirsi per il concorso tra lo scioglimento (generale) della società e lo scioglimento del singolo vincolo; la prova di ciò è data dall’art. 2284, per cui, benché la morte del socio determini l’immediata cessazione del vincolo sociale, è tuttavia opponibile agli eredi lo scioglimento (generale) della società, che sia deciso successivamente (ma in dipendenza e in conseguenza della morte del socio)>>, (GHIDINI, op. cit., p. 595). Non si ri scontrano pronunce specifiche sul tema in esame130. 6.3) L’esclusione. In virtù del doppio rinvio dell’art. 2315 c.c. alla disciplina di s.n.c. e dell’art. 2293 c.c. alla società semplice, la disciplina in materia di esclusione (ex artt. 2286, 2287, 2288 c.c.) è applicabile anche alla s.a.s. Si espone, pertanto, qui di seguito la particolare ipot esi riguardante l’esclusione dell’unico socio accomandatario per mezzo delle più recenti pronunce 130 È possibile citare una recente sentenza di una Corte d’appello da cui poterne ricavare, indirettamente, il principio per cui il recesso del socio viene assorbito dal conseguente scioglimento della società. Cfr. App. Salerno 08-04-2004. Il curatore del fallimento del socio deceduto di una s.n.c. si rivolge al tribunale affinché, previo accertamento del verificarsi della causa di scioglimento prevista all’art . 2272, n. 4, c.c., provveda alla nomina del liquidatore ex art. 2275 c.c. La suddetta istanza viene respinta dal tribunale per carenza di legittimazione del cu ratore, prendendo comunque atto dell’avvenuto scioglimento conseguente alla morte del socio. Il giudizio viene, tuttavia, ribaltato in sede d’appello, in cui la Corte riconosce la legittimazione della curat ela e nomina un liquidatore; << ritenuto in diritto che, sebbene il recesso di un socio debba tenersi distinto dallo scioglimento consensuale della società, anche nel caso in cui essa sia composta da due soci in quanto lascia in vita la società con la possibilità per il socio rimasto solo di ricostituire la pluralità dei soci, deve tuttavia ritenersi che qualora al socio deceduto non sia stata nel termine di 6 mesi previsto dall’art. 2289 c.c. pagata e liqu idata la somma corrispondente al valore della quota, egli possa chiedere lo scioglimento della società se nel contempo non si sia ricostituita la pluralità dei soci ex art. 2272 c.c. non perché abbia conservato la qualità di socio nei rapporti interni, ma in base alle sue qualità di creditore della società per detta liquidazione della quota>>. giurisprudenziali. Non sono state riscontrate interessanti opinioni dottrinarie sulla questione. È bene anzitutto fare la distinzione tra l’ipotesi di società con solo due soci (accomandante e accomandatario) e l’ipotesi di s.a.s. con un socio accomandatario e una pluralità di accomandanti. Nel primo caso opera indubbiamente la disposizione contenuta all’art. 2287, 3° comma, c.c. in base alla quale sarà il tribunale, su domanda di uno dei due soci, a pronunciare l’esclusione dell’altro. Per quando riguarda il secondo caso, la giurisprudenza di legittimità ritiene applicabile l’art. 2287, 1° comma, c.c., pertanto, l’esclusione dell’unico accomandatario da parte della pluralità degli accomandanti viene deliberata a maggioranza di questi non computando il socio da escludere cui si riconosce il termine di 30 giorni dalla comunicazione per proporre opposizione davanti al tribunale131. 131 Cfr. Cass. 22-12-2006, n. 27504. In breve il fatto, il socio accomandatario unico di una s.a.s. citava in giudizio i due accomandanti chiedendo che fosse dichiarata nulla la delibera con cui i convenuti lo avevano escluso dalla società. I convenuti (accomandanti) si costituirono opponendosi all’accoglimento della suddetta domanda e chiedendo, inoltre, la condanna dell’attore al rendimento del conto di gestione e al risarcimento dei danni. Nei primi due gradi di giudizio la domanda proposta dal socio unico accomandatario veniva rigettata. Il socio accomandatario, pertanto, propone ricorso per Cassazione denunciando la violazione degl’ artt. 2287, 3° comma, 2315 e 2319 c.c., in base ai quali in una s.a.s. con un solo accomandatario e più accomandant i quest’ultimi non avrebbero il potere di deliberare l’esclusione dell’accomandatario per giusta causa, essendo a ciò necessario un ricorso al giudice ex art. 2287 c.c., disposizione da ritenersi applicabile in tutti i casi in cu i vi siano nella società due contrapposti centri di interesse. La Corte rigetta il ricorso affermando che <<alle società in accomandita semplice è applicabile la normativa dettata dagli artt. 2286 e 2287 c.c., la quale prevede che, in caso di gravi inadempienze del socio, l’esclusione dello stesso può esser deliberata dalla maggioranza dei soci, non computandosi nel relativo numero il socio da escludere>>. La stessa Corte aggiunge inolt re che la previsione per cui l’esclusione deve essere pronunciata dal tribunale (ex art. 2287, 3° comma, c.c.) è di stretta interpretazione e non adattabile all’ipotesi in cui, come afferma il ricorrente, all’interno della compagine sociale vi sono due gruppi di interesse omogenei e contrapposti. <<Deve poi aggiungersi che in nessun caso sarebbe lecito configurare, nella società in accomandita semplice, i soci accomandant i e gli accomandatari come due gruppi di interessi, ciascuno omogeneo nel proprio int erno ad all’alt ro contrapposto, potendosi eventuali divergenze o aggregazioni di interessi verificare, nella compagine sociale, in base alle più varie contingenze e secondo linee del tutto in dipendenti da quella che formalmente distingue le due tipologie di partecipazione alla società >>. Dello stesso tenore è Cass. 10-01-1998, n. 153. La pronuncia (già esaminata in merito alla più generale questione della formazione della volontà sociale in nota 23) verte sulla validità della delibera di esclusione di un socio da una s.a.s. adottata a maggioranza. Il ricorrente (escluso) soccombente nei precedenti gradi di giudizio, lamenta da un lato il mancato rispetto del metodo collegiale, dall’altro la violazione dell’art. 2287, 3° comma, c.c. in quanto l’esclusione (secondo la sua interpretazione) doveva essere richiesta giudizialmente essendo la società in questione composta da due coppie di coniugi, quindi due cent ri autonomi di interessi, pertanto equiparabile ad una società con due soli soci. Giustamente ed esaurientemente la Corte rigetta il ricorso affermando che << la previsione di cui all’art. 2287, 3° comma, del codice civile, (…), è previsione eccezionale, come tale insuscettibile di applicazione analogica, con la conseguenza che resta applicabile la regola generale di cui al comma 1 del citato articolo 2287 in tutti i casi in cu i i soci siano più di due, anche se all’interno della compagine sociale siano configu rabili Tale posizione non è tuttavia pacifica in dottrina. Non manca, infatti, chi ritiene che <<il socio accomandante non possa, pure in presenza di mala gestio dell’accomandatario, agire per l’esclusione dello stesso dalla società>>132. L’ argomentazione si fonda sulla considerazione della particolare struttura della s.a.s. che, a differenza delle altre società personali, si caratterizza per la presenza di due distinte categorie di soci. Tale peculiarità di certo non osta all’estensibilità della disciplina prevista agli artt. 2286-87 c.c. anche a tale tipo sociale, tuttavia parte della dottrina sostiene che <<le cautele ed i numerosi e precisi limiti apposti alla devoluzione di poteri gestori all’accomandante portano a concludere che l’area di amministrazione consentita allo stesso non possa estendersi sino a legittimare la partecipazione alle delibere – quali appunto quelle di esclusione dell’accomandatario – destinate ad incidere sulle sorti del rapporto contrattuale che unisce tra loro i soci>>133. due gruppi di contrapposti>>. interessi omogenei e fra loro 132 VIDIRI, Società in accomandita semplice: esclusione dell’unico accomandatario da parte dell’accomandante, in Giust. civ., 2002, II, p. 1042. 133 VIDIRI, op. cit., p. 1042. Vi è, inoltre, un diverso orientamento seguito dalla giurisprudenza di merito, secondo cui essendovi compenetrazione normalmente tra posizione di una socio accomandatario e amministratore, ne consegue che alla sua esclusione opera contestualmente la revoca dai poteri gestori. Pertanto, la disciplina di riferimento dovrebbe essere l’art. 2319 c.c., in base alla quale per la nomina e revoca degli amministratori <<sono necessari il consenso dei soci accomandatari e l’approvazione di tanti soci accomandanti che rappresentino la maggioranza del capitale da essi sottoscritto>>. In base a tale posizione, il venir meno di uno dei presupposti richiesti obbligherebbe al ricorso in tribunale ex art. 2287, 3° comma, c.c. applicando, in tal modo, la disciplina prevista per l’ipotesi di società composta da solo due soci 134. 134 Cfr. Trib. Genova 15-03-2001 (ord.). La questione riguardava una s.a.s. composta da tre accomandatari ed un solo accomandante in cui il socio accomandatario e l’accomandante avevano deliberato l’esclusione degli altri due accomandatari, di cui uno nominato amministratore nell’atto costitutivo e l’alt ro con atto separato. La suddetta delibera venne adottata secondo i criteri dell’art. 2287, 1° comma, c.c. senza computare il voto dei soci esclusi. Su apposito reclamo proposto dai soci esclusi il Tribunale ha rilevato l’inapplicabilità della suddetta disciplina per il caso di specie affermando che per il socio accomandatario nominato amministratore con atto costitutivo <<deve trovare applicazione l’art. 2252 con la conseguente necessità del consenso di tutti gli altri soci >>, con riferimento al socio nominato amministratore con atto separato, invece, <<valgono le regole dettate dall’art. 2319 c.c., secondo il quale è richiesto l’unanime consenso dei soci accomandatari e della maggioranza degli accomandanti >>. In conclusione, il Tribunale ha sospeso l’esecuzione della delibera di esclusione ritenendo in entrambi i casi necessario il consenso dei due soci esclusi. In base a tale pronuncia è, pertanto, ragionevole concludere che la peculiarità della s.a.s. porta a distinguere il caso di esclusione del socio accomandante da quella del socio accomandatario. Per il primo, è necessaria la maggioranza dei soci calcolata per teste ex art. 2287, 1° comma, c.c., mentre, per l’accomandatario opera un’ulteriore distinzione. Se la nomina dell’amministratore è nell’atto costitutivo allora è richiesto il consenso di tutti i soci; se, al contrario, la nomina è fatta con atto separato allora servirà il voto favorevole di tutti i soci accomandatari e dei soci accomandanti rappresentanti la maggioranza del capitale (ex art. 2319 c.c.). Cfr. anche a Trib. Milano 25-05-1998. Nella fattispecie il socio accomandante di una s.a.s. conveniva davanti al Tribunale l’alt ro socio accomandante e il socio accomandatario chiedendo l’esclusione di quest’ultimo per gravi inadempiment i. I convenuti eccepivano anzitutto l’improponibilità della domanda di esclusione poiché la società era composta da più di due soci e pertanto questa andava deliberata a maggioranza secondo quanto disposto all’art. 2287 c.c. Il Tribunale, al contrario, ritiene legittima la domanda di esclusione e fondata nel merito in base alla considerazione che <<se l’amministratore è unico perché unico è l’accomandatario, non sarebbe materialmente possibile la sua revoca ai sensi dell’art. 2319 c.c. in quanto non potrebbe verificarsi uno dei due presupposti previsti dalla legge e cioè quello del consenso degli accomandatari (…) nell’ipotesi considerata avrebbero come unico strumento legittimo, la possibilità di chiedere giudizialmente la revoca dell’amministratore ai sensi dell’art. 2259, 3° comma, c.c. La stessa situazione si verifica nel caso in cui gli accomandanti intendano escludere l’unico accomandatario, atteso che, essendo quest’ultimo anche l’unico amministratore e comportando l’esclusione la sua revoca, difetterebbe il suo consenso e dunque uno dei presupposti previsti dalla legge per la revoca. Ne consegue che, in detta situazione, la norma contenuta nell’art . 2287 1° e 2° comma, c.c. (…) non può essere applicata non essendo compatibile con la peculiare struttura della s.a.s. (…) Qualora vi siano più accomandant i e un solo accomandatario e i primi intendano escludere il secondo, essendo necessario anche il consenso di quest’ult imo, si Tuttavia, è opportuno porre in rilievo l’eventualità che il socio accomandatario non sia allo stesso tempo amministratore della società, conseguendone la distinzione tra esclusione e revoca. Questi sono infatti istituti autonomi, ciò porta la Cassazione a ritenere che il procedimento di esclusione non è automaticamente assorbito dalla disciplina prevista per la revoca135. crea in definitiva una situazione in cui si fronteggiano due gruppi contrapposti di soci 8accomandanti da un lato e unico accomandatario dall’alt ro) del tutto analoga all’art. 2287, 3° comma c.c.>>. Il ragionamento seguito dal Tribunale appare condivisibile nella sua semplicità. È infatti agevole considerare che essendovi un solo socio accomandatario è obbligatoriamente a lui che sono attribuiti i poteri di amministratore, pertanto, se per la revoca di tali poteri è necessario anche il suo consenso, in mancanza di questo l’unica alternativa è il ricorso al Tribunale, a meno che l’atto costitutivo preveda la possibilità di revoca a maggioranza (come previsto all’art. 2319 c.c.). 135 Cfr. Cass. 29-11-2001, n. 15197. Non risulta chiaro il fatto: in una s.a.s. composta da tre soci uno dei due accomandanti chiedeva per via giudiziaria l’esclusione dalla società dell’unico socio accomandatario per aver commesso varie inadempienze. La sentenza in esame, contrastando con quanto stabilito dalle corti di merito, ha ritenuto applicabile alla fattispecie in questione la disciplina prevista agli artt. 2286 e 2287 c.c. In pieno accoglimento della tesi del ricorrent e (socio accomandante), infatti, la Corte ritiene che erroneamente i giudici di merito hanno considerato incompatibile la disciplina dell’art. 2287, 3° comma, c.c. con la fatt ispecie in esame e, inoltre, considera <<mal posto per due ordini di ragioni il richiamo all’art. 2319 c.c. che prevede per la revoca degli amministratori il concorso della volontà di entrambe le categorie di soci e cioè il consenso dei soci accomandatari e l’approvazione dei soci accomandanti che rappresentano la maggioranza del capitale da loro sottoscritto. (…) non può sfuggire la diversità, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, dell’ipot esi di revoca dell’amministratore rispetto a quella di esclusione del socio, sia pure accomandatario. Anche se l’esclusione del socio, che cumuli pure la qualifica di amministratore, può basarsi sulle stesse violazioni che integrano un comportamento cont rario ai doveri propri dell’amministratore allorché tale comportamento mini altresì le finalità e gli interessi della società a segu ito di violazioni previste dallo statuto, il relativo procedimento regolato espressamente dall’art. 2287 c.c. non può ritenersi per ciò solo assorbito dalla disciplina dettata per la revoca dell’amministratore, trattandosi di effetti che si producono su piani diversi>>. Nello stesso senso è anche Trib. Torino 10-05-2004 (ord.), in cu i si legge che <<il cumulo delle qualifiche di socio e amministratore non impedisce che le irregolarità o le illiceità commesse dall’amministratore determinino non solo la revoca del mandato di amministratore e l’esercizio dell’azione di responsabilità espressamente prevista, ma anche l’esclusione da socio per la violazione dei doveri previsti dallo statuto a tutela delle finalità e degli interessi dell’ente >>. Il fatto riguardava una s.a.s. composta da solo due soci in cui l’accomandante chiedeva giudizialmente la revoca dell’amministratore nonché la sua esclusione dalla società.